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Marco Bersanelli Mario Gargantini Patrizia Roberta Iotti Maria Cristina Speciani SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE - TORINO Letture di Geografia Generale

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Marco Bersanelli Mario Gargantini Patrizia Roberta Iotti Maria Cristina Speciani

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE - TORINO

Letture di Geogra� a Geogra� aGenerale

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Coordinamento editoriale: Anna Maria BattagliniCoordinamento tecnico: Francesco StacchinoImpaginazione: Gianni RoasioDisegni: BlueditCopertina: P.G. Anselmo

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Prima edizione: 2009

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Grafica Chierese - Arignano (TO)

Si ringrazia EURESIS (Associazione per la Promozione e lo Sviluppo della Cultura e del Lavoro scientifico), per la collaborazione nello sviluppo dei contenuti di questo volume.www.euresis.org

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Indice

Astronomia e AstrofisicaAstronomia e astrofisica: una neonata… antica scienza, 2

A Una questione di metodo, 3

A1 Modelli e teorie in fisica, 3

B Dall’astronomia antica alla “nuova scienza”, 5

B1 Isaac Newton vs René Descartes. La confutazione della teoria dei vortici planetari nei Principia, 5

C Per capire le stelle occorre comprendere l’atomo?, 8

C1 Nascita dell’astrofisica, 9

D L’Universo c’è sempre stato? Ovvero la cosmologia come storiadell’origine, 11

D1 L’invenzione del Big Bang, 11

E Il metodo scientifico e la scoperta della realtà, 14

E1 L’avventura della scoperta, 14

F Incontrare gli scienziati, 18

F1 Verità e scienza: l’esperienza di un astrofisico, 18

La Via Lattea e le stelle: l’esplorazione del cielo da Herschel a Hubble, 20

A Una scala per arrivare fino alle stelle e alle galassie, 22

A1 Short-lived Radioactivities in the early Solar System: Connections to the Interstellar Medium & Stellar Evolution in the Galaxy,22

B Cos’è una stella?, 24

B1 An Introduction to the Study of Stellar Structure, 24

C La spettroscopia in Italia, 27

C1 Nascita e sviluppo dell’astrofisica in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, 27

D La tradizione italiana continua: a caccia di “stelle”, 32D1 Briciole di cometa, 32D2 Quel bagliore lontano…, 33D3 Supernovae a grappolo, 33

D4 Marta Burgay e la scoperta della prima pulsar doppia, 34

E La storia della Galassia dalla chimica stellare, 37

E1 Fingerprinting the Milky Way. Chemical Composition of Stars in Clusterscan tell History of our Galaxy, 37

F Via Lattea: fisica e oltre, 39

F1 I “chicchi” dal cielo, 39

Bibliografia, 41Sitografia, 42Percorsi interdisciplinari di approfondimento, 44

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GEOLOGIALa litosfera terrestre, 48

A Minerali e rocce, 48A1 Il mondo dei minerali, 49A2 La scienza che studia le rocce, 50A3 La crescita dei cristalli: un ponte tra passato, presente e futuro, 52A4 I minerali e la vita, 56

B La classificazione delle rocce, 59

B1 The Classification of Igneous Rocks, 59

C Dove sono le rocce sulla Terra, 61

C1 Darwin geologo in Patagonia: risalendo il Rio Santa Cruz, 61

C2 Esplorare paesi ignoti: il lungo viaggio di Ardito Desio, 63

C3 Spedizione sul Monte Everest: le tecniche del rilevamento applicate in altaquota, 67

La Terra dinamica: la tettonica delle placche, 72

A Esplorare il pianeta per ricostruirne la storia, 73

A1 Intervista a Alfonso Bosellini, 73

B Percorsi per capire i fenomeni geologici, 77

B1 Dalla raccolta dei dati alla formulazione del modello, 77B2 Dinamica globale e tettonica delle placche: i problemi aperti, 81

C L’avventura scientifica di Xavier Le Pichon, 84C1 Un modello per la dinamica terrestre, 84C2 La tettonica delle placche: una teoria rivoluzionaria, 85C3 Fare scienza: un’avventura della ragione, 86

D La deriva dei continenti: la storia di Alfred Lothar Wegener, 89

D1 Alfred Lothar Wegener: Moving Continents, 89

E Appennino e tettonica delle placche, 90

E1 L’evoluzione dell’Appennino attraverso la tettonica delle placche, 90

Bibliografia, 92Sitografia, 92

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Astronomia e Astrofisica

Astronomia e astrofisica: una neonata… antica scienza

A Una questione di metodo

B Dall’astronomia antica alla “nuova scienza”

C Per capire le stelle occorre comprendere l’atomo?

D L’Universo c’è sempre stato? Ovvero la cosmologia come storiadell’origine

E Il metodo scientifico e la scoperta della realtà

F Incontrare gli scienziati

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La Via Lattea e le stelle: l’esplorazione del cielo da Herschela Hubble

A Una scala per arrivare fino alle stelle e alle galassie

B Cos’è una stella?

C La spettroscopia in Italia

D La tradizione italiana continua: a caccia di “stelle”

E La storia della Galassia dalla chimica stellare

F Via Lattea: fisica e oltre

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1 Astronomia e astrofisica: una neonata… antica scienza

«La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomos’innalza per mezzo di essa come al di sopra di sé medesimo, e giunge a capire la causa deifenomeni più straordinari».Quando Giacomo Leopardi scrisse queste parole, nel 1813, aveva solo quindici anni, maaveva già letto gran parte dei sedicimila volumi della biblioteca paterna, a Recanati. I pro-gressi nell’osservazione del cielo dall’antichità a oggi ci fanno guardare il cosmo con unaconsapevolezza che nulla toglie al fascino che le “vaghe stelle dell’Orsa maggiore” esercita-rono sul poeta di Recanati. Vogliamo ripercorrere alcuni dei tentativi di svelare i segreti delcielo susseguitisi dal Seicento a oggi, fino alle più recenti scoperte, senza tralasciare di get-tare un’occhiata sul futuro di questa disciplina antica quanto l’uomo. La conoscenza fisicadel cosmo, i progressi che hanno rivoluzionato le teorie e i metodi dell’astronomia, chespesso oggi vengono ignorati a causa di un sapere specialistico, astorico, proiettato nel fu-turo e ignaro del passato, è narrata come una storia, l’affascinante storia dell’uomo che si stu-pisce di fronte alla bellezza del cielo stellato e domanda, ne domanda il senso, ne cerca ilprofondo nesso con sé e con il tutto. Ma un fisico come pone la domanda? Come cerca la ri-sposta? Osservare il cielo e poi… modellizzare. Il ruolo dei modelli è fondamentale nel pro-cedere della conoscenza fisica, è una parte cruciale del metodo scientifico che permette diformulare ipotesi e poi di verificarle o confutarle.

La storia della conoscenza del cielo comincia molto prima della nascita della fisica comescienza moderna. Ben prima di Galileo e Newton, generazioni di astronomi hanno misu-rato il cielo, calcolato la posizione delle stelle, previsto il moto degli astri. Soltanto in epocarelativamente recente questi moti celesti sono stati descritti con un’unica legge, semplice edelegante. Quando sembra tutto finito, noto, prevedibile, ecco che una nuova possibilità diindagine nasce inaspettata con l’avvento della spettroscopia. Cambiano le domande a cui sicerca di dare risposta, non il metodo di indagine: l’astrofisica usa nuovi strumenti per “os-servare” il cielo e apre nuovi orizzonti di conoscenza per comprendere la natura dei corpi ce-lesti e la loro evoluzione. Ma il desiderio di conoscere sfonda anche questi orizzonti, fino ainterrogarsi sulla storia dell’Universo nel suo insieme e dare vita alla cosmologia.

Il bello di questa storia è che non è ancora finita, anzi, continua a sfidare la capacità di co-noscenza dell’uomo e a mettere in moto la sua creatività in ogni campo del conoscere:scienza, poesia, arte, musica e... insomma è l’uomo intero che sta di fronte al Cielo e vivesotto di esso, o meglio sarebbe dire lo abita.

“Il cielo come laboratorio” dunque l’osservazione di una Natura in cui siamo “immersi”,un’avventura che comincia con il coraggio di Galileo di puntare un telescopio verso il cieloe oggi continua usando “strane macchine”, gli acceleratori di particelle come i grandi tele-scopi puntati nel cuore della materia, a caccia di particelle, per indagare “the nature of theNature” (R. Feynman) e scoprire “l’inizio della storia del cosmo” tornando indietro nel tempofino al “primo minuto” di vita dell’Universo stesso.

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UNA QUESTIONE DI METODO

La costruzione di modelli è una componente dell’esperienza conoscitiva del mondo fisico, in particolarein fisica. Formule , schemi, diagrammi, analogie vengono usati per interpretare i segnali della realtà coldesiderio che queste “creazioni” del pensiero corrispondano il più possibile al comportamento della na-tura e ne svelino più o meno nel dettaglio i tratti autentici. Il percorso che conduce alla formulazione di un modello è frutto di immaginazione creativa ed espres-sione di tradizioni culturali, di visioni del mondo. Intuizioni e idee innovative, ma anche scelte, elimi-nazioni, alternative, rinunce sono gli “strumenti” che occorre mettere in campo per districarsi fra i datidisponibili e trovare la rotta. Ci vogliono quindi criteri chiari e ragionevoli ma soprattutto la passioneper la realtà. Tutt’altro che un gusto astratto di creare delle rappresentazioni, piuttosto una grande ca-pacità di stare di fronte alla realtà con il desiderio di comprenderla e di entrare in un rapporto signifi-cativo con il dato che si ha davanti.

A1 Modelli e teorie in fisica

Il problema del valore conoscitivo in fisica

[…] Come diceva Whitehead1, la scienza nasce da “una convinzione istintiva che esiste un ordinenelle cose o più precisamente un ordine nella Natura” e che questo ordine può essere compreso,almeno in una certa misura.L’atteggiamento ultimo di uno scienziato di fronte a un problema di tipo conoscitivo è del tuttodifferente da quello di un ingegnere che deve realizzare una qualche macchina ed è ovviamenteinteressato alle nozioni scientifiche solo nella misura in cui esse possono esser utili allo scopo. […] Dobbiamo spiegare in qual preciso senso possiamo parlare di un progresso nella Fisica equale contenuto di “verità” possiamo attribuire a una teoria che, noi sappiamo, prima o poi saràtrovata in contraddizione con nuovi fatti: capire in quale senso una vecchia teoria e le spiega-zioni che essa dava a una classe di fenomeni possano rimanere valide all’interno di una nuova,quando anche i concetti basilari delle due sono completamente differenti.In questo contesto penso possiamo superare molte difficoltà se conveniamo di attribuire in ognicaso alle teorie fisiche il significato di modelli, anche se di livello differente, e rinunciamo unavolta per tutte all’idea che esse possano darci esplicita e in qualche modo diretta ed esaustiva co-noscenza della realtà naturale.

[…] Le teorie fisiche come modelli e l’evoluzione della fisica

Cerchiamo di chiarire brevemente il concetto di modello in Fisica.Noi usiamo in genere il termine modello con riferimento a una idealizzazione e a una forte sem-plificazione di una situazione complessa allo scopo di comprendere gli aspetti più importanti diun fenomeno, trascurando i particolari meno rilevanti. Tuttavia cosa è importante, e cosa meno,o per nulla, rilevante, dipende dal contesto e dalla scala di osservazione. Così possiamo dire cheun modello è adeguato a una certa scala, o per un certo scopo, e inadeguato a un’altra scala o perun certo altro scopo. Se rappresentiamo idealmente i pianeti come punti materiali, otteniamo un

A

1 Alfred North Whitehead (1861-1947) filosofo e matematico britannico è con B. Russell e G. E. Moore un grande protagonista delrinnovamento logico-epistemologico maturato a Cambridge nei primi decenni del Novecento. Le sue opere più importanti sono Pro-cesso e realtà (1929), Il concetto di natura (1920), La scienza e il mondo moderno (1926) e Avventure di idee (1933).

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modello che è perfettamente sufficiente per comprendere il moto dei pianeti rispetto al sole o ilmoto apparente del sole sullo sfondo delle stelle. Questo modello non è tuttavia sufficiente perspiegare l’alternarsi del giorno alla notte, il cambio delle stagioni, le fasi della luna. Per studiarequesti fatti abbiamo bisogno di ricorrere al modello del corpo rigido per la terra e per la luna. Si-milmente, se vogliamo trattare con i complessi fenomeni che avvengono nell’atmosfera o sullacrosta terrestre, dobbiamo considerare in dettaglio la composizione chimica e le condizioni fisi-che delle varie parti del nostro pianeta e i loro moti relativi.Quello che è importante sottolineare, per il mio ragionamento, è che tutti questi modelli, che sisuppone si riferiscano ultimamente allo stesso oggetto, sono disposti secondo una gerarchia. Inrelazione a un ben definito scopo, una volta che è raggiunto il livello adeguato della gerarchia,non guadagniamo nulla usando un modello di livello più elevato. Per quello che riguarda quelloscopo specifico i due modelli sono completamenti equivalenti, ci insegnano esattamente le stessecose.Mi sembra che nell’ambito di questo discorso, possiamo comprendere in qual senso si può pen-sare che una teoria fisica sia in uno stato sempre provvisorio e incompleto e, nello stesso tempo,che ci insegni qualcosa che possiamo ritenere anche conclusivo sul mondo naturale. Se è vero chenon possiamo pretendere che tale teoria ci dia una comprensione esaustiva del suo oggetto, tut-tavia è innegabile che essa fornisce un “modello intelleggibile” di validità potenzialmente per-manente in un dato contesto. Da questo punto di vista noi possiamo guardare senza difficoltàalle relazioni esistenti tra due diverse teorie, quando la seconda oltrepassa e include la prima.Possiamo pensare alla vecchia teoria come a un modello di livello gerarchico inferiore rispetto aquello nuovo, un modello che si applica solo in una situazione più particolare, ma che in tale si-tuazione può persino essere più conveniente del nuovo, grazie alla sua maggiore semplicità. Comeci insegna la lezione dei modelli matematici, questi rimangono veri anche se le due teorie agi-scono all’interno di strutture concettuali abbastanza diverse, naturalmente alla condizione chesia compreso il codice di traduzione appropriato.[…] In conclusione mi sembra che la relazione di natura simbolica esistente tra due differentimodelli posti in una gerarchia, o fra due differenti teorie corrispondenti a un diverso livello dellanostra comprensione, può essere essa stessa vista come un modello della relazione tra le nostreteorie fisiche e il mondo naturale che vogliamo studiare. Le idee che usiamo, i modelli, le teorie,sono costruzioni della nostra mente, ma non sono concetti vuoti di significato o arbitrari. Essisono creati per comprendere la Natura e parlano di qualcosa a ogni stadio della nostra ricerca,anche se non sono mai completamente adeguati o non forniscono una comprensione esaustiva.«O noi vogliamo speculando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sostanze natu-rali; o noi vogliamo accontentarci di alcune affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa nonmeno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sostanze elementari che nelle remo-tissime e celesti. […] Ma se vorremo fermarci all’apprensione di alcune affezioni, non mi par ci siada disperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi non meno che nei prossimi»(Galileo, terza lettera a M. Welser sulle macchie solari).

G. M. PROSPERI, in Emmeciquadro, n. 10, dicembre 2000

Note biografiche

Giovanni Maria Prosperi

Già Ordinario di Istituzioni di Fisica Teorica presso l’Università degli Studi di Milano; autore di numerosi articoli su rivistescientifiche e di testi universitari e membro di diverse società scientifiche internazionali.

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B1 Isaac Newton vs René Descartes. La confutazione della teoria dei vortici planetarinei Principia

Nel XVII secolo fu generalmente accolta, e insegnata nelle scuole, la teoria dei vortici di RenéDescartes come modello esplicativo dei moti planetari e satellitari del sistema solare.[...] Lo spazio interplanetario è considerato un plenum, ossia è interamente occupato da materiadisgregata. Ogni trasmissione di moto avviene per contatto, il movimento principale è circolare,trasmesso dal materiale fluido costituente i vortici stessi. I pianeti (e i satelliti) sono trasportatidalla materia fluida che gira costantemente attorno al Sole (e attorno al singolo pianeta): piùrapide le parti vicine, più lente le parti lontane. I pianeti, Terra compresa, si comportano comeun battello su un corso d’acqua trascinato dalla corrente.Occorre poi ricordare, in senso lato, le vedute di Descartes per quanto riguardava i problemi fi-sici. Cartesio aveva scritto la “sua” fisica senza usare formule matematiche. Tutto ciò appare pa-radossale trattandosi di un filosofo-scienziato, profondo studioso di questioni algebriche efondatore della geometria analitica, eppure è così. La sua, è stato detto, era una fisica matema-tica senza matematica. Il principio fondamentale dell’universo cartesiano era quello di conser-vazione: tutte le azioni mutue meccaniche si riducevano alla legge della conservazione dellaquantità di moto.Da questo punto di vista, e come indicazione degli intenti perseguiti nel costruire la fisica, è sin-tomatica una lettera scritta a padre Marin Mersenne (1588-1648) in data 15 novembre 1638 sulmetodo galileiano, della quale riportiamo il seguente passo: «Per ciò che scrive Galileo sulla bi-lancia e sulla leva, egli spiega molto bene il quod ita sit [che sia così], ma non il cur ita sit [perchésia così], come io ho fatto mediante il mio principio». Si può obiettare che nella fisica non si procede così: ossia non si pone un principio preminentesu ogni altra considerazione di natura sperimentale.Come si pose Newton di fronte a questa teoria dei vortici?Innanzitutto per lui le leggi della filosofia naturale (la fisica) erano scritte nei fenomeni stessi; oc-correva poi indagare sensatamente, come diceva Galileo, per mezzo di un’appropriata analisimatematica e sperimentale. I successivi passi nello studio di Newton sono i seguenti: una disa-mina riguardante i fluidi viscosi e le loro proprietà; la traduzione in veste matematica della teo-ria qualitativa di Cartesio; la confutazione di quest’ultima, su una base che oggi diremmopopperiana2, mediante il confronto con i dati sperimentali concernenti il moto dei pianeti e deisatelliti. [...]

DALL’ASTRONOMIA ANTICA ALLA “NUOVA SCIENZA”

La confutazione newtoniana della teoria cartesiana dei vortici planetari è un esempio che permette dicomprendere il passaggio dall’astronomia antica alla “nuova scienza”, mediante la ricostruzione delragionamento complessivo di Newton. Un contenuto interessante che permette di cogliere i tratti essen-ziali del “nuovo” metodo di “pensare” le cose del cielo.

B

2 Sir Karl Raimund Popper (1902-1994) è considerato uno dei maggiori filosofi del XX secolo, in particolare qui ci si riferisce allasua filosofia della scienza. Popper afferma che le teorie scientifiche sono proposizioni universali che possono essere controllate soloindirettamente a partire dalle loro conseguenze.

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Sviluppo della confutazione newtoniana

Ricostruiamo il processo del pensiero newtoniano contenuto nella Proposizione LII del secondolibro dei Principia. Vediamo come Newton applica i risultati ottenuti nel precedente paragrafo,adottando la viscosità costante per il fluido e mantenendo l’assunto cartesiano: la trasmissione,senza alterazione, e per contatto, di forze e coppie all’interno del fluido.L’inizio della Proposizione LII è:«Teorema XL. Se una sfera solida, in un fluido uni-forme e infinito, ruota di moto uniforme intorno aun asse di posizione data, se il fluido è costretto aruotare dal suo solo impulso, e se ogni parte delfluido persevererà uniformemente nel proprio moto:dico che i tempi periodici delle parti del fluido sta-ranno come i quadrati delle distanze dal centro dellasfera». Segue una dimostrazione di tipo qualitativo assaitortuosa e involuta, accompagnata dal diagrammariportato nell’immagine. [...] Dopo aver posto la teoria di Cartesio in terminimatematici, Newton passa al suo confronto con idati sperimentali. Infatti, nello scolio3 susseguentealla Proposizione LII, egli afferma:«In questa proposizione sono stato costretto a inve-stigare le proprietà dei vortici, al fine di provare se ifenomeni celesti possano essere in qualche modo spiegati per mezzo dei vortici. Il fenomeno è ilseguente: i tempi periodici dei pianeti che ruotano intorno a Giove sono nella relazione della po-tenza 3/2 delle loro distanze dal centro di Giove; la stessa legge si ottiene per i pianeti che ruo-tano attorno al Sole. Queste leggi, inoltre, valgono per entrambi i pianeti con la massimaesattezza, in quanto discendono dalle attuali osservazioni astronomiche.Perciò, se i pianeti che ruotano attorno a Giove o al Sole, sono trasportati dai vortici, anche que-sti vortici dovranno ruotare osservando la stessa legge».Ecco quindi la chiave della verifica sperimentale: si confrontano i moti medi dedotti dalla teoriadi Cartesio con quelli forniti dalla terza legge di Keplero. Quest’ultima è assunta come “base spe-rimentale” della verifica.[...] Newton non nascose il suo compiacimento per il suo risultato e, nello scolio alla fine del se-condo libro, dichiarò: «Di qui è evidente che i pianeti non sono trasportati da vortici corporei […].Per cui l’ipotesi dei vortici urta totalmente contro i fenomeni astronomici e conduce non tantoa spiegare quanto ad oscurare i moti celesti. In quale modo questi moti si effettuino negli spaziliberi indipendentemente dai vortici, può venir capito dal libro primo, e nel Sistema del mondoverrà insegnato più ampiamente».

Osservazioni conclusive

Contestualizzando questa ricerca nel suo tempo, i primi ottant’anni del secolo XVII, Newtonperseguì due fini assai importanti per il progresso della scienza. Innanzitutto continuò assai rigorosamente l’opera di Galileo considerando lo spazio, assimilato

3 Annotazione, nota critica o linguistica posta da antichi grammatici in margine a testi classici.

a

b

c

de

S

FG

HI

K

LM

NO

P

A B C D E Q

Correnti circolari in moto intorno alla sfera S.

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a un plenum, come un residuo della fisica aristotelica, assai resistente a essere giudicato per ciòche era, ossia un semplice pregiudizio. Certamente le critiche alla dinamica galileiana, e a quelladei suoi allievi, non si erano ancora così attenuate e quindi non erano completamente rientrateda poterle trascurare. Se si legge un testo di storia della scienza che riflette gli orientamenti piùdiffusi nella seconda metà del XVII secolo appare chiaramente quanto fosse allora radicata laconvinzione che l’interazione meccanica tra corpi potesse avvenire solo per contatto: l’azione adistanza era considerata impossibile se non un’assurdità. Alle pagine 27 e 28 si può leggere:«Paolo Mattia Doria ricostruendo le vicende culturali che avevano contrassegnato la sua for-mazione ricordava che “tutti erano della filosofia di Pier Gassendi 4 seguaci, né altro si cantava,che quel verso del poeta Lucrezio tangere, vel tangi nisi corpus nulla potest res”. Era, si ricorderà pro-prio il punto sul quale si era accentrata l’attenzione del padre Vanni nella sua critica al Del Papa,ma era anche il punto che Leonardo di Capua riprendeva e sviluppava nel Parere, considerandouno dei pochi “sillogismi dimostrativi intorno alle cose naturali”, quello che riteneva “esser ne-cessariamente corpo ciò, che gli organi de’ sentimenti ne muove; conciossiecosache la cosa, chemuove, a ciò fare è ben mestier che tocchi; e ’l toccamento, salvo che da corpo, non si può in-contrare”».In secondo luogo la falsa teoria dei vortici cartesiani aveva conquistato larga parte dell’opinionescientifica più accreditata in Europa: bisognava sgombrare i cieli per poter procedere alla nuovainterpretazione dei moti planetari.Altre considerazioni interessanti riguardano il metodo di deduzione seguito in questa ricercanewtoniana. Lo scrivente è certo che Newton abbia condotto lo studio sino a impostare un’equa-zione differenziale [...], per poi integrarla [...]. Ci si pone allora la domanda: perché allora eglinon ha estesamente e palesemente esposto questo procedimento?La risposta appare assai complessa: certamente vi è in Newton una certa ritrosia nel ricavare espli-citamente, e correlativamente esporre con i relativi dettagli, soluzioni giuste a partire da pre-messe altrettanto giuste; [...]. A conferma di queste tesi vi sono corrispondenze e manoscritti(presenti alla Royal Society) di David Gregory (1661-1710) e altri presso la biblioteca Christ Churchdi Oxford che attestano come questo metodo di approccio, con equazioni differenziali, sia con-sapevolmente applicato in più parti dei Principia.

[...]. In ogni caso è del tutto errata la netta affermazione di François de Gandt secondo la qualenon vi sarebbe stata alcuna applicazione, nei Principia, del calcolo infinitesimale, o meglio, flus-sionale5 di Newton.Il ragionamento fisico sui volumetti infinitesimi è, in questo caso, implicitamente con-dotto; in altri punti dei Principia del tutto manifesto: esso è comunque un tipico metododi Newton. Il grande matematico russo Vladimir I. Arnol’d nel suo testo edito da BollatiBoringhieri nel 1996 dal titolo Huygens, Barrow e Newton, Hooke, così si esprime a pagina27:«Nei moderni corsi di analisi non è di moda parlare di grandezze infinitamente piccole, sicchégli studenti non padroneggiano del tutto questo linguaggio; sarebbe bene tuttavia che se ne im-padronissero».

4 Pierre Gassend detto Gassendi (1592-1655), abate, matematico, filosofo, astronomo e teologo francese, tra le sue opere ricor-diamo il De motu impresso a motore traslato del 1643.5 Newton sviluppa il calcolo flussionale definendo ”fluente” una grandezza geometrica variabile e “flussione” la velocità istanta-nea di variazione, esempio se z è una fluente z è la sua flussione. Il linguaggio e il rigore sono certamente differenti da quelli del-l’analisi matematica attuale, tuttavia decisamente il calcolo flussionale è in sostanza il precursore del calcolo infinitesimale comeoggi lo intendiamo e applichiamo.

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Per finire è interessante riportare alcuni passi del “Signor di Fontanelle”6, della Reale Accademiadi Francia a proposito di questo nostro problema .«Il Newton, com’è suo costume, stabilisce sovra una profondissima geometria ciò che deve ri-sultare da quella resistenza [del mezzo o plenum interplanetario], secondo tutte le cause ch’essaaver puote: la densità del medio, la velocità del corpo mosso. La spaziosità della superficie. Et egliarriva infine a conclusioni delle quali vengono distrutti i turbiglioni o vortici del Descartes, e ro-vesciato quel vasto aereo edificio ch’altri credevano inconcussibile7. Se i Pianeti si muovono in-torno al Sole in un medio, qual egli sia, non ne resisterà meno, come vien dimostrato; in qualmaniera avverrà dunque che i movimenti dei Pianeti non ne siano perpetuamente, anzi, tosto, in-deboliti? Sovratutto, come mai le comete traverserrann’elleno liberamente in ogni senso, queivortici? […] I corpi celesti si muovono dunque in un grande vuoto, eccettuandone la poca mate-ria che a spazi materiali, e quasi infiniti, (o immisurabili) mescolata viene dalle loro esalazioni eraggi di luce che vi formano di se medesimi innumerabili intralciamenti. L’attrazione e il vacuoche Descartes esiliò dalla Fisica, e che allora secondo la apparenza, ne furono per sempre sban-diti; vi tornano ricondotti dal Newton, armati di una forza totalmente nuova […]». Dopo aver letto questa vivace descrizione del 1757, possiamo concludere così: la visione newto-niana del mondo si impose dopo la metà del 1700 per la sua fecondità operativa e per l’ottimaprevisione dei moti planetari.

VITTORIO BANFI, in Emmeciquadro, n. 30, agosto 2007 pagg. 35-42

6 Paolo Rolli (1687-1765) poeta e letterato, si dedica alla versione italiana di un’opera postuma di Isaac Newton, che Rolli avevaconosciuto di persona a Londra, la cui edizione veneziana del 1757 così titola: La Cronologia degli Antichi Regni emendata. Operapostuma del Cavalier Isaac Neuton. Tradotta dall’originale Inglese in sua prima Edizione fin dell’Anno MDCCXXVIII. Dal Sig. PaoloRolli In Venezia MDCCLVII. Appresso Giovanni Tevernin. Rolli premette alla traduzione una sezione introduttiva (introduzione diFontanelle) dedicata alla figura di Newton al fine di far conoscere le teorie newtoniane in ambito italiano.7 Inattaccabile o incrollabile (stabile).

Note biografiche

Vittorio Banfi

Nato a Milano, laureato al Politecnico nel 1952, ha conseguito la Libera Docenza nel 1966. Ha lavorato, dal 1969 al 1984,come collaboratore esterno presso l’Osservatorio di Pino Torinese. Membro del Centro di Astrodinamica “G. Colombo”,ha sviluppato la sua ricerca nel campo dell’astrofisica teorica del Sistema Solare.

PER CAPIRE LE STELLE OCCORRE COMPRENDERE L’ATOMO?

L’astronomia dopo Newton non è più la stessa. Da studio cinematico che prescinde dalle cause dei motidegli astri, diventa studio dinamico nel quale per la prima volta si considera la gravità come il motorequantitativamente descrivibile dei moti celesti. E tuttavia nonostante il mutato atteggiamento degliastronomi, l’astronomia continua a occuparsi quasi esclusivamente del moto degli astri. La meccanicaceleste suscita stupore per la sua bellezza e i grandi successi della teoria della gravitazione fanno del-l’astronomia il modello di tutte le scienze. Ma ecco che si aprono nuovi orizzonti, nuove possibilità… chestentano ad affermarsi a causa di fattori contingenti, non da ultimo “l’ingombrante” genio di Newton.Dall’osservazione, resa possibile dall’uso di nuovi strumenti, sorgono domande che aprono la via anuove direzioni di indagine. Ciò che veramente conta è mantenere spalancato lo sguardo sul reale eaperta la ragione per coglierne i suggerimenti.

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C1 Nascita dell’astrofisica

[...] Ma proprio quando la storia sembra avviata alla fine, accade l’imprevedibile. Intorno allametà dell’Ottocento nasce, in sordina, un nuovo ramo dell’astronomia, chiamato, dai suoi cul-tori, a volte fisica celeste, o astronomia fisica, o astrofisica, o fisica solare perché è dallo studiodel sole che prende le mosse, o addirittura nuova astronomia, perché questi “nuovi” astronomi,che non sono nemmeno capaci di mettersi d’accordo sul nome da dare a quel che fanno, hannoanche la presunzione di cambiare la visione del mondo, di provocare una specie di rivoluzione.In effetti, ai suoi primi passi, l’astrofisica – questo il nome che si imporrà – è approssimativa e po-vera di idee e fondamenti teorici. A differenza dell’astronomia – che verrà chiamata “classica”, o“di posizione” (perché registra e discute la posizione, o in caso di movimento, le posizioni, degliastri) – l’astrofisica, sulla base di certi nuovi risultati di laboratorio, sull’analisi della luce emessada sostanze portate all’incandescenza o dai gas di fiamme o di archi elettrici, si propone di esplo-rare ciò che finora è stato ritenuto inesplorabile: natura, composizione, struttura e funziona-mento, insomma chimica e fisica, dei corpi celesti.E all’inizio riceve scarsa attenzione. Anzi, per dirla schietta, dagli astronomi seri è malvista. Unaperdita di tempo. Chi sono questi “astrofisici”? In genere giovani, fisici o chimici, non molto ver-sati nelle matematiche – per loro, forse, ossi un po’ duri – che inventano e sviluppano nuovi stru-menti, tentano molte cose, e spesso senza risultati apprezzabili. Va be’, diciamo che sonosperimentatori. Non c’è da meravigliarsi se sono portati a grossolanità di linguaggio e di me-todo. E sono pochi gli astronomi che lasciano la ben fondata scienza astronomica per questanuova disciplina concettualmente confusa.Già nel 1672, Newton aveva esplorato a fondo la natura dei colori attraverso i fenomeni descrittinell’Ottica (1704) e aveva dimostrato che «la luce del sole è una mescolanza eterogenea di raggi»separabili da un prisma di vetro, e che «ogni luce omogenea ha un colore proprio, corrispondentealla sua rifrangibilità, quel colore non può essere cambiato con alcuna riflessione o rifrazione». Laseparazione dei “raggi” componenti – i colori elementari – ottenuta con uno spettroscopio formagli spettri. Con la luce solare Newton ne produsse di 25 cm di lunghezza.Egli attribuì i colori ai fenomeni che colorano le lamine sottili e, purtroppo, le idee (preconcettesì, ma anche parte di quelle che permettono di aprire la nuova strada) di una grande personalitàscientifica sui fenomeni che esamina possono costituire impedimento per nuovi approfondimentiteorici, perché è facile farsi condizionare dal genio. E proprio la grande influenza newtoniana con-tribuì a ritardare l’acquisizione del fenomeno fondamentale della spettroscopia: la luce emessadagli oggetti luminosi è caratteristica degli atomi di cui è composto il materiale che costituisce glioggetti. Per arrivarci occorsero circa due secoli. Naturalmente le ragioni di ciò vanno cercate anchein aspetti pratici della ricerca; gli strumenti si affinano solo man mano che i problemi vengonochiariti, le richieste precisate e le relative nuove tecnologie messe a punto. Quest’ultime, a lorovolta, pongono problemi e suggeriscono indagini. Sviluppi scientifici impensabili vennero da stru-menti (il cannocchiale di Galilei, per esempio) che offrirono nuovi modi di guardare le cose.In realtà anche se le idee sulla natura dei colori non fecero alcun passo avanti, la prima parte del-l’Ottocento fu ugualmente ricca di risultati.Nel 1800 William Herschel scopre l’esistenza dell’“infrarosso” e nel 1801 Ritter quella dell’“ul-travioletto”. E nel 1802 Wollaston8, mettendo, all’entrata dello spettroscopio, una fenditura

8 William Hyde Wollaston (1766-1828) astronomo, chimico e fisico inglese. Fece importanti studi di elettricità, di chimica e di elet-trochimica. Indagò gli spettri luminosi, ed è noto per aver scoperto due nuovi elementi: il palladio e il rodio.

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molto stretta al posto del forellino usato da Newton, si accorge che lo spettro solare anziché con-tinuo è solcato da sette (incomprensibili) righe scure. Sempre nel 1802, Young, dopo aver inter-pretato il fenomeno dell’interferenza con la teoria ondulatoria della luce, ottiene la prima misuradi lunghezza d’onda della radiazione.Nel 1814 Fraunhofer, per misurare con maggior precisione la deviazione dei vari colori dello spet-tro solare introdotte dal prisma dello spettroscopio, usa, a valle del prisma, anziché direttamentel’occhio, un piccolo telescopio e, con meraviglia, constata che lo spettro non è solcato da setterighe scure bensì da “un quasi innumerevole numero di righe verticali forti e deboli”. Ne conta piùdi 600, fa disegni registrandone 324 e designa con le lettere da A ad H le otto più intense.[...] La storia dell’astrofisica continua e abbraccia lo studio degli spettri stellari e nel 1886 [...] ilgrande Otto W. Struve9 dichiara:«Finora, le ricerche astrofisiche sono ben lontane dagli standard di accuratezza scientifica del-l’astronomia classica, la quale, con la sua solida base matematica e col costante progresso sia nel-l’osservazione che nella teoria, giustamente occupa il primo posto tra le scienze sperimentali.Dio non permetta che l’astronomia sia portata fuori strada dal fascino esercitato dalle novità esi allontani dalla sua base essenziale, consacrata dai secoli e dai millenni».Vi è però anche chi […] non rifiuta ma sostiene o abbraccia la nuova disciplina. John Herschel,per esempio, che forse vede come astronomia, fisica e chimica potrebbero trovare un punto di in-contro nell’astrofisica. [...] Nel 1888 Langley 10 pubblica La nuova astronomia. Un titolo famoso. Nel 1609 l’aveva usato Ke-plero per il suo Astronomia nova. Langley lo usa proprio per sottolineare il fatto che quanto è suc-cesso nel XIX secolo è paragonabile a quanto era accaduto nel XVII secolo. Vero. È vero anche,purtroppo, perché, come quelle di Keplero, le scoperte dell’astrofisica sono di natura empirica,prive di un sostegno teorico che le giustifichi razionalmente. Ebbene, per diventare scienza matural’astrofisica dovrà aspettare lo sviluppo della chimica e della fisica. Il primo passo decisivo arriverànella prima parte del XX secolo, con la comprensione della struttura dell’atomo, il secondo, dopola metà del XX secolo, con l’indagine sui componenti del nucleo atomico e le particelle elementari.Proprio così, bisognerà capire l’atomo per comprendere le stelle e le particelle elementari per af-frontare il problema dell’universo”.

MARIO RIGUTTI, Storia dell’astronomia occidentale l’universo sfuggente, Giunti, Firenze 1999

9 Otto W. Struve (1819-1905) celebre astronomo tedesco di origine russa, ha lavorato con il padre all’osservatorio Pulkovo, il princi-pale osservatorio astronomico dell'Accademia Russa delle Scienze, situato circa 19 km a sud di San Pietroburgo. Alla ricerca di stelledoppie, ne scoprì circa 500, oltre a un satellite di Urano, misurò con grande precisione gli anelli di Saturno, studiò comete e nebulose.10 Samuel P. Langley (1834-1906) astronomo, esperto di aerodinamica e pioniere dell’aeronautica, è stato uno degli scienziati piùfamosi e rispettati della sua epoca. Ha lavorato negli Osservatori di Harvard e Allegheny e ha inventato il bolometro a calore-ra-diante, molto sensibile a variazioni minime di temperatura.

Note biografiche

Mario Rigutti

Ha insegnato astrofisica all’università di Firenze, è stato ordinario di astronomia alla facoltà di Scienze dell’università diNapoli. Direttore dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte e di quello di Collurania (Teramo) è stato presidente delGruppo nazionale di astronomia del CNR. È autore di circa 150 pubblicazioni scientifiche, testi per la scuola e numerosiarticoli di giornali e riviste.

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D1 L’invenzione del Big Bang

Si deve continuare a vivere anche se il cielo ci è piombato addossoD. H. LAWRENCE, L’amante di lady Chatterley (1928)

La citazione dello scrittore inglese è sorprendentemente appropriata per due avvenimenti che sisono verificati nel mondo occidentale fra il 1925 e il 1935: una crisi economica e una crisi co-smologica, entrambe tanto violente quanto imprevedibili – anche se, in realtà, erano già com-parse alcune crepe che preannunciavano delle rotture, di cui nessuno aveva compresol’importanza.Crisi economica: nell’ottobre del 1929, dopo un periodo di prosperità apparentemente duraturo,la Borsa americana di Wall Street subisce un crollo impressionante. La situazione economica eindustriale peggiora rapidamente e la crisi si estende all’insieme dei paesi industrializzati. Ve-dendo crollare da un giorno all’altro il loro universo finanziario, gli uomini d’affari si suicidanoa decine. I disoccupati sono milioni. Perché la situazione sociale si risollevi saranno necessariquasi dieci anni. Benché non sia altrettanto drammatica e riguardi soltanto il microcosmo dei fisici teorici e degliastronomi di spicco, la crisi della rappresentazione cosmologica, che si verifica simultaneamentee nello stesso intervallo di tempo, influenzerà senza dubbio di più la storia del pensiero umano.Questa crisi si è risolta, infatti, in ciò che l’epistemologo Thomas Kuhn11 chiama una rivoluzionescientifica: si ha una rivoluzione scientifica quando una teoria consacrata dal tempo e dall’espe-rienza viene abbandonata a favore di una nuova teoria. Kuhn ha osservato che, più gli anni pas-sano, più le teorie vengono considerate certe e cessano di essere sottoposte a un esame rigoroso.Accettate nel loro insieme, finiscono col costituire il paradigma di una scienza – un consenso chediventa dottrina. Di conseguenza le discipline scientifiche si fanno difficilmente sconvolgere dauna rivoluzione, dato che ognuna di esse è fondata su un insieme di conoscenze specifiche accu-mulate nel corso di numerosi anni di osservazione, di documentazione e di esperimenti fatti in la-boratorio. Nel campo della cosmologia, la fisica ha conosciuto soltanto tre rivoluzioni scientifiche:la rivoluzione copernicana-galileiana, la rivoluzione newtoniana e la rivoluzione relativistica.

L’UNIVERSO C’È SEMPRE STATO? OVVERO LA COSMOLOGIA COME STORIA DELL’ORIGINE

Oggi due frontiere della conoscenza della natura si sono avvicinate in modo inaspettato: la fisica delleparticelle elementari, che studia le fattezze intime della materia nell’infinitamente piccolo, e la cosmo-logia, che studia l’universo nel suo insieme ricostruendone la storia fino ai primi istanti della sua esi-stenza. Il segreto dell’origine delle galassie può essere svelato dalle particelle più elementari della materiae l’identità di queste ultime può essere rivelata, a sua volta, dalle osservazioni della luce che riceviamodal fondo dell’universo. Quando cerchiamo di ricostruire la storia dell’Universo scopriamo una piùampia e completa conoscenza dell’unità dell’Universo stesso: pare che solo ricongiungendo gli aspetti ma-croscopici e microscopici della natura se ne possa svelare il mistero.

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11 Thomas Kuhn (nato a Cincinnati, Ohio nel 1922 e morto nel 1996), storico e filosofo della scienza statunitense, si è formato nel-l'ambito di studi di fisica, passando poi alla storia della scienza, pubblicando un’importante monografia sulla nascita dell'astrono-mia moderna (La rivoluzione copernicana, 1957, tr. it. 1972) e La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962, tr. it. 1969). Tra lealtre sue opere, vanno menzionate: Sources for History of Quantum Physics (1966) e Alle origini della fisica contemporanea (1978,tr. it. 1981).

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[...] Sembra che le rivoluzioni scientifiche debbano per forza accompagnare altre rivoluzioni, chesiano sociali, politiche o economiche: perché si osi mettere in discussione la rappresentazione delmondo, spesso sono necessari grandi sconvolgimenti sociali. Al contrario, un cambiamento delparadigma scientifico provoca, in modo più sottile e più lento, le evoluzioni nel campo della fi-losofia e dell’estetica. Affermare la centralità del Sole contribuisce infatti a minimizzare l’im-portanza delle questioni terrestri o umane nell’ordinamento del mondo, cosa che non puòlasciare indifferente il pensiero filosofico e letterario.Se le rivoluzioni cosmologiche esercitano un influsso culturale così grande, è anche perché vannodi pari passo con una rielaborazione della fisica fondamentale. La rivoluzione copernicano-gali-leiana è sfociata nell’idea dell’unificazione della fisica terrestre e celeste, nelle leggi del moto deipianeti e ha influenzato la nascita stessa della meccanica. La rivoluzione cosmologica newto-niana, con il suo tempo eterno e il suo spazio infinito assoluto all’interno del quale si muovonogli astri sottoposti all’attrazione universale, accompagna l’enunciazione dei princìpi fondamen-tali della dinamica e la definizione delle forze.La rivoluzione cosmologica relativistica, ovvero la scoperta dell’espansione dell’Universo e il ri-conoscimento di una evoluzione del cosmo nel suo insieme a partire da una singolarità iniziale(chiamata oggi “Big Bang”), prende origine dalla teoria della relatività generale. Questa teoria, ela-borata nel 1915 da Albert Einstein e Davis Hilbert, modifica sostanzialmente i concetti di spa-zio, di tempo, di luce e di gravitazione. Nella sua versione attuale, la cosmologia relativistica sibasa anche, come preannunciato da Georges Lemaître già nel 1931, sull’altro grande pilastrodella fisica moderna: la meccanica quantistica che, descrivendo le interazioni tra particelle ele-mentari e onde elettromagnetiche, modifica i concetti della meccanica classica.Così il legame indissolubile esistente tra cosmologia e concetti fisici fondamentali non facilitala rapida assimilazione dei nuovi paradigmi cosmologici. Per quanto riguarda la rivoluzione co-smologica relativistica, ci sono voluti almeno trent’anni perché tra i fisici si cominciasse a creare,non dico l’unanimità, ma almeno un certo consenso.Le rivoluzioni scientifiche non sono sufficienti per il progresso delle conoscenze: bisogna chesiano seguite da periodi di rielaborazione, che permettano la decantazione, la stabilizzazionetemporanea e la riformulazione di nuove teorie. Tuttavia, l’immagine dell’evoluzione del-l’Universo offerta oggi dalla cosmologia è assai simile, nelle sue linee fondamentali, alloschema proposto inizialmente da Alexander Friedmann12 e, soprattutto, da Georges Lemaî-tre13. È stato dimostrato che l’origine delle grandi strutture cosmiche risiede effettivamentenelle disomogeneità di densità dell’Universo primordiale. Le tracce di queste irregolarità sonostate rivelate nel 1992 dal satellite di osservazione COBE (Cosmic Background Explorer). Nel 1998 si è aperta un’era di cosmologia osservativa di alta precisione, che ha permesso di de-terminare il valore dei parametri fondamentali dell’Universo con margini di errore minimi. Apartire da febbraio 2003, i dati del satellite Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (WMAP)sulle fluttuazioni di temperatura della radiazione fossile14 confermano i modelli generali diBig Bang e permettono di determinare le caratteristiche essenziali (età dell’Universo, dina-

12 Alexander Friedmann (1888-1925), matematico e fisico russo che nel 1921 trovò diverse soluzioni alle equazioni di Einstein tracui quella dinamica che corrisponde al Big Bang, prima che Hubble scoprisse la recessione delle Galassie.13 Monsignor Lemaître, Georges Edouard (1894-1966), astrofisico belga, deriva indipendentemente da Friedmann il modello di unUniverso dinamico in espansione. L'origine dello "spazio-tempo-materia" poteva essere secondo lui descritta utilizzando la ter-modinamica e la meccanica quantistica. Egli propose che l’inizio dell’universo si potesse pensare come la disintegrazione di ununico quantum che riuniva in sé tutta "l'energia-materia" dell'Universo in uno stato di massimo ordine (cioè con entropia). Que-sto quantum fu battezzato da Lemaître: «atomo primitivo».14 Radiazione cosmica di fondo.

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mica temporale, geometria spaziale, contenuto energetico) con la stupefacente precisione diqualche centesimo.Contemporaneamente, alcune intuizioni di Lemaître, a lungo trascurate, se non dimenticate, si sonorivelate corrette – per esempio, il ruolo fondamentale giocato dall’energia nel vuoto quantistico15, sianel processo di nascita dell’Universo che nella fase di espansione accelerata che sembra sia in atto inquesto momento. Ormai non esistono più dubbi riguardo alla validità della teoria e delle osserva-zioni su cui si fondano i modelli cosmologici relativistici, anche se, qua e là, nella letteratura speciali-stica appaiono ancora critiche salutari – benché troppo velocemente rilanciate e amplificate dai media.Analogamente alle due precedenti rivoluzioni cosmologiche, la rivoluzione relativistica trascendeampiamente l’ambito dell’applicazione strettamente astronomica. Bisogna ammettere che si trattadella teoria scientifica più ambiziosa della storia. Come sottolinea Jacques Merleau-Ponty16, il co-mandamento del catechismo rivoluzionista “Non parlerai del Tutto” viene trasgredito in modoirreversibile. La cosmologia relativistica parla dell’Universo come di un sistema fisico sottopostoa leggi e messo a confronto con fatti sperimentali. Il sistema “Universo” gode tuttavia di uno sta-tus del tutto particolare: proprio per questo motivo la cosmologia, nonostante sia una brancadella fisica estremamente specialistica, ha la particolarità di essere incessantemente commen-tata e criticata da ricercatori appartenenti ad altri settori.

JEAN-PIERRE LUMINET, L’invenzione del big bang. Storia dell’origine dell’Universo, Dedalo, Bari, 2006

Note biografiche

Jean-Pierre Luminet

Astrofisico, conferenziere, scrittore e poeta francese, esperto di fama mondiale di buchi neri e di cosmologia. È direttoredi ricerca al CNRS, membro del Laboratoire Univers et Théories (LUTH) dell’osservatorio di Paris-Meudon. Nel 1979 è statoil primo a simulare le distorsioni ottiche causate dal campo gravitazionale di un buco nero, nel 1982 è stato tra i primi astudiare, con il fisico Brandon Carter, gli effetti del passaggio di una stella in vicinanza di un buco nero supermassivo, de-scrivendone gli effetti, in seguito osservati nel 2004 grazie ai satelliti Chandra e XMM-Newton.Qualche anno fa ha ideato, assieme a Weeks, Riazuelo, Lehoucq e Uzan, un interessante modello cosmologico, noto agliaddetti ai lavori come dodecaedro iperbolico di Poincaré, chiamato da Luminet “universo stropicciato”.

15 Il vuoto torricelliano (o pneumatico) è inteso come assenza di materia-energia e corrisponde all’idea intuitiva di vuoto. Il vuotoquantistico, invece, è concepito come lo stato di minima energia di un sistema fisico, dal quale non è possibile transire verso statia energia inferiore.16 Maurice Jean Jacques Merleau-Ponty (14 marzo 1908-4 maggio 1961), importante filosofo francese del Novecento, di recenteal centro di un grande interesse per la ripresa del suo pensiero da parte di numerosi studiosi. Dal 1953 fu Ordinario di Filosofia alCollège de France.

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E1 L’avventura della scoperta

Ruiz LopezIl professor Rañada, nel suo articolo La fisica es divertida, afferma che «se una scienza non èdivertente, emozionante e stimolante, non può essere buona», e il professor Tsallis, nell’arti-colo Fisica, ¿por qué hacerla?, che «la teoria nasce dall’immaginazione e il primo passo hasempre a che vedere con la fantasia». Da queste affermazioni ci sembra di capire che per «farescienza» non bastano l’analisi e la dimostrazione, ma sono necessarie anche l’intuizione e l’af-fezione. Volete dire che questi atteggiamenti sono parte della dinamica della ragione?

Fernàndez-Rañada

Un punto di vista comune è che la scienza è sostenuta da una specie di automatismo che la rendefredda e lontana per il grande pubblico. Invece, la scienza consiste in uno sguardo intelligente ecapace di meravigliarsi. Lo stupore è ciò che sostiene la curiosità intellettuale, come riconobberoi greci nel simbolizzare la saggezza nella civetta di Minerva, con occhi smisuratamente aperti. Ilpositivismo del secolo XIX volle affermare il contrario – non c’è più un luogo per lo stupore – cer-cando di incapsulare tutto in un sistema di equazioni. Però questa posizione non regge: ogniprogresso della scienza implica la scoperta di un nuovo mistero e ogni scoperta rende manifestoche esiste un “velo” che si sposta sempre più in là.

Tsallis

…Einstein diceva che «ciò che è più incomprensibile dell’Universo è che esso è comprensibile». Esi-ste un vincolo profondo tra l’io e la realtà; così recentemente uno scienziato francese, che si de-dica a un argomento di grande attualità, in che modo funziona il cervello, aggiungeva: «e ciò cheè più incomprensibile di questo incomprensibile è che sembra che noi possiamo comprenderecome comprendiamo». …senza intuizione, usando solo procedimenti deduttivi, non ci sarebbero veri progressi scienti-fici. Il metodo deduttivo consiste nel partire da alcune premesse che possono rivelare conse-guenze inaspettate da uno schema già esistente. Per esempio, data una corda che circonda laTerra sull’equatore, vogliamo sapere quanta corda in più serve per fare lo stesso giro a un metrodi altezza sopra la superficie. Date le dimensioni della Terra si potrebbe rispondere: molti metri,forse più di mille. La risposta invece è circa sei metri: il perimetro di un cerchio è π volte il dia-metro; per cui se il diametro aumenta di due metri, il perimetro aumenta di 2π indipendente-mente dalle dimensioni del cerchio di partenza. Questa risposta può andare contro l’intuizione,però è facilmente deducibile. Ciò nonostante i grandi progressi sono sempre induttivi…

Bersanelli

…Un atteggiamento di stupore è decisivo per qualsiasi conoscenza ed è un fenomeno affettivo che

IL METODO SCIENTIFICO E LA SCOPERTA DELLA REALTÀ

Incontrare il reale in modo significativo significa compiere un’esperienza di bellezza profonda, che vaben oltre il “sentimento” o l’emozione fugace. Questo dibattito tra fisici di diverse nazionalità, il brasi-liano Constantino Tsallis, lo spagnolo Antonio Fernàndez-Rañada e l’italiano Marco Bersanelli, svol-tosi presso l’Universidad Complutense di Madrid, è ricco di spunti che insegnano a capire la genesiprofonda dell’innovazione in campo scientifico.

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muove la ragione. Succede la stessa cosa nello studio: è difficile, o impossibile studiare, e quindiconoscere, qualcosa di estraneo, che non interessa per niente la persona. Inoltre, non solo l’inizio, ma ogni passo del percorso della ricerca richiede un fascino e un’at-trattiva per l’oggetto dell’indagine. Per questo non è adeguata la riduzione della ragione al suoaspetto logico-deduttivo…

Ruiz Lopez...citando Tsallis «Lo scienziato è un sognatore, desidera l’impossibile, desidera trovare unalegge valida sempre, in ogni luogo». Tuttavia, per ciò che conosco di voi, so che siete piena-mente coscienti che davanti a voi sempre ci sarà un oceano infinito ignoto. Perché, allora con-tinuate a cercare?

Fernàndez-Rañada

La domanda è un atteggiamento profondamente umano, è ciò che definisce l’umano anche difronte a ciò che è già noto; è ciò che permette di continuare a meravigliarsi in un cammino di sco-perta sempre nuovo. Mai potremmo fare a meno delle domande. Sapete come Einstein intuì per la prima volta la teoria speciale della relatività? Quando era an-cora un bambino e mentre aspettava un treno nella stazione, guardando l’orologio, si chiese cosasarebbe successo se si fosse allontanato così rapidamente da «cavalcare il raggio di luce» che glifaceva arrivare l’immagine dell’orologio. Sarebbe stato come se l’immagine fosse rimasta fissa,cioè il tempo si fosse paralizzato. E l’antica domanda che aveva provocato la disputa tra Platonee Democrito sui costituenti della materia, idee o atomi, è stata resa prepotentemente attualedalla fisica quantistica.

Tsallis

…la soddisfazione dello scopritore non dipende dal livello di conoscenza acquisito rispetto allacomprensione, totale o nulla, di un problema, ma dal “salto” che ha favorito, dalla novità sco-perta. Di fronte all’infinito ignoto, il progresso dell’uomo non è legato alla “funzione scoperta”,ma ai “piccoli incrementi” di detta funzione. L’uomo è soddisfatto se procede rispetto al puntoin cui è, ma io non so dire perché.

Bersanelli

…esiste ancora una tendenza diffusa tra gli scienziati: l’illusione che la fisica possa arrivare a “de-nudare” completamente la natura. Questa posizione censura l’incombenza sempre presente del-l’imprevisto. Invece, nella storia della scienza, ogni grande scoperta è stata la premessa di unanuova domanda ogni volta più interessante: non c’è scoperta, per piccola che sia, che non illu-mini più in là di se stessa. La realtà è sempre più ricca di qualsiasi definizione. Mi sembra chel’aspetto più “misterioso” della scoperta sia l’esistenza, nell’ambito della scoperta stessa, di quelladomanda che ridesta la volontà di incontrare nuovamente e più profondamente la realtà. Cioè:la realtà ci conduce continuamente oltre se stessa.

Fernàndez-Rañada

…citando Bersanelli, è un mito pensare che possiamo arrivare a raggiungere una scienza definitiva,come pretende per esempio il premio Nobel nordamericano Steven Weinberg, una grande figuradella fisica delle particelle elementari. Nel suo libro Sogni di una teoria finale egli afferma che siamo giàvicini ad avere la conoscenza completa e totale delle leggi della natura. Questo è impossibile. Per esempio, per conoscere che cosa successe nel primo istante del Big Bang dobbiamo costruire un

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acceleratore di particelle di misura infinita: è vero che si stanno costruendo acceleratori sempre piùgrandi, avvicinandoci sempre più a quel primo istante, però non lo conosceremo mai totalmente.

Ruiz Lopez…citando Tsallis «lo scienziato incontra nella bellezza della scoperta una prova inconfutabiledella sua veridicità». E citando Bersanelli la scoperta scientifica è «spettacolo di un nuovo sce-nario che si ha il privilegio di ammirare e di comunicare»...

Fernàndez-Rañada

Non si può sempre dire che ogni teoria bella è vera. Lungo tutta la storia della scienza conosciamoteorie molto belle che finirono per dimostrarsi false; però è vero che è un buon indizio. Per esem-pio, pensiamo a Pitagora quando elaborò le sue teorie sui numeri. O a Dirac (lo scopritore delladelta che porta il suo nome e della teoria relativistica elettronica) quando diceva che «è più im-portante dare bellezza alle equazioni del fatto che rispondano esattamente ai risultati sperimen-tali». Il grande Richard Feynmann sentiva un’emozione profonda di fronte alle leggi della natura,che classificava addirittura religiosa. E chiese ai suoi colleghi un silenzio contemplativo nell’istantein cui si ebbe, mediante il microscopio elettronico, la prima «visione» degli atomi.

Tsallis

…l’importanza della bellezza è tale che, in pratica, su di essa si pongono le basi di un metodo dilavoro. C’è una corrispondenza profonda tra la bellezza e la verità, così come c’è una profondaconnessione tra la scienza e l’arte. Per esempio, formulando la sua teoria della Relatività Gene-rale, Einstein aveva previsto che la luce proveniente da una stella, passando vicino al Sole, dovevasubire una piccolissima deflessione. Si fecero esperimenti in Brasile e in Sud Africa per verificarequesta previsione. I primi risultati del Brasile non confermarono la teoria. Einstein allora disse:«l’esperimento è sbagliato, perché la teoria è troppo bella per essere falsa». Effettivamente, era sbagliato; i risultati del Sud Africa confermarono la sua previsione con unaprecisione straordinaria! Un matematico indù che è mio amico e con il quale scambio informa-zioni tramite posta elettronica piene di equazioni, è solito dirmi: «questa equazione non sembrasufficientemente elegante». Arriva un momento in cui la forma e il contenuto incominciano aconfondersi. Perché è così? So che è così, ma perché? John Keats diceva: «La Bellezza è Verità e laVerità è Bellezza». Io non so esattamente in che cosa consista la bellezza, ma mettetemi davantiuna bella donna e la riconoscerò.Provo a spiegarmi partendo da un esempio. Noi percepiamo il mondo in tre dimensioni o, intutto, quattro, se teniamo in conto il tempo. Immaginiamo che io debba uscire da un carcere incui sono rinchiuso. Se questo carcere fosse un cerchio (due dimensioni), potrei uscire utilizzandola terza dimensione (l’altezza). Se ora il carcere fosse una stanza, potrei immaginare di uscireusando la quarta dimensione (il tempo), aspettando che prima o poi il carcere smetta di esisteree io ne sia già fuori. Però nessuno può immaginare di uscire dal carcere se fissiamo il tempo.Cioè: noi percepiamo in tre più una dimensioni. Non sappiamo se l’Universo è realmente così,però noi lo percepiamo così. Perché lo percepiamo in tre più una dimensioni? La spiegazione po-trebbe essere che percepiamo grazie alla forza elettromagnetica e questa interazione funziona inquattro dimensioni. Se percepissimo per interazioni gravitazionali in più di dieci dimensioni,potremmo forse percepire altre cose. La fisica dunque è lo studio di ciò che l’uomo può percepiredella verità ultima e non lo studio della verità ultima.Allora: come noi percepiamo la bellezza e la verità in una stessa forma, per interazione elettro-magnetica, questo potrebbe spiegare l’intima connessione tra le due di cui parlavo prima. La cosa

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certa è che il bello provoca in noi una certa sensazione di armonia. Così un’equazione quando ènella sua forma bella, quando è “elegante”, non solo riflette adeguatamente gli esperimenti (po-trebbe farlo ugualmente senza essere bella), ma in più, nello stesso momento, è pronta per esserequalcosa di più grande.

Bersanelli

Possiamo discutere quanto vogliamo riguardo ai limiti che noi o la realtà stessa impongono allaconoscenza, però è certo che la realtà si disvela alla coscienza: questa è l’avventura della scoperta.Non solo per la genialità personale, ma anche grazie a una serie di circostanze favorevoli. Ognipasso avanti è fonte di allegria perché, come si diceva, è “inconcepibile” che l’Universo si lasci co-noscere, che esista un vincolo profondo tra il mio io e la realtà, fosse anche un solo “pezzo” dellarealtà; da qui l’allegria della scoperta. Però la gratitudine è qualcosa di più e di diverso dell’alle-gria, perché la gratitudine esiste solo verso le persone: implica il riconoscimento tanto del sog-getto che conosce la realtà quanto di chi “fa” le cose in questo momento. Questa gratitudinecostituisce il modo naturale di abbordare la realtà. Se mio figlio riceve come regalo una biciclettamolto più bella di quanto mai avrebbe sognato, può fare due cose: portarsela in giardino e salircio, un secondo prima, chiedersi da dove viene e da chi proviene. Se ha scelto questa seconda op-zione e si è fatto questa domanda, tratterà meglio la bicicletta. Allora: la gratitudine, o almenoun accenno di gratitudine, nasce insieme alla domanda; chi fa una scoperta non solo è contento,ma sente il bisogno di ringraziare. E desidera comunicarla perfino ai colleghi più antipatici, an-cora prima di avere elaborato la risposta completa.

Tsallis

Effettivamente, si ha una sensazione strana quando si scopre qualcosa. Non c’è nessun merito odemerito nell’essere intelligente come nell’essere rozzo, così come non c’è merito né colpa nel-l’essere bello o nell’essere brutto. È vero che per fare scienza c‘è bisogno di una certa intelligenza,però può essere che qualcuno scopra qualcosa che altre persone molto più intelligenti non hannopotuto scoprire pur lavorandoci sopra. L’intelligenza, la bellezza, la scoperta sono in ultimaistanza doni inaspettati: per questo, nell’ambito scientifico, il talento non potrà mai giustificarel’arroganza.

Ruiz Lopez

Ciò che avete appena detto mi suggerisce che tutti i fatti grandi nella vita, come le scoperte piùsignificative e importanti, accadono spesso in modo imprevisto.

a cura di GUIOMAR RUIZ LOPEZ, in Emmeciquadro, n. 12, agosto 2001

Note biografiche

Constantino Tsallis dirige un gruppo di ricerca di Fisica Statistica al Centro Brasiliano di Ricerca Fisica (CBPF). Le sue ri-cerche si sono sviluppate in molti campi; ha generalizzato la termodinamica statistica di Boltzmann in quella che oggi èchiamata “statistica di Tsallis”.

Antonio Fernàndez-Rañada insegna Fisica Teorica presso l’Universidad Complutense di Madrid (UCM). Ha svolto la suaattività di ricerca nel campo della Fisica teorica delle particelle elementari presso l’Università di Parigi.

Marco Bersanelli insegna Astrofisica presso l’Università degli Studi di Milano. La sua ricerca si è sviluppata nel campodella Cosmologia presso il CNR e presso l’Università di Berkeley. È tra i responsabili del progetto spaziale Planck dell’ESA.

Guiomar Ruiz Lopez insegna Matematica presso la Escuela Universitaria de Ingenierìa Tecnica Aeronautica dell’Universi-dad Politècnica di Madrid. È membro della Asociacion para la Investigacion y la Docencia Universitaria.

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F1 Verità e scienza: l’esperienza di un astrofisico

Marco Bersanelli, docente di Astronomia e Astrofisica presso l’Università di Milano, si presentainnanzitutto come uomo appassionato del suo lavoro.Questa passione è uno dei dati che immediatamente saltano all’occhio durante l’incontrocon il professore, avvenuto a Camplus Lingotto lunedì 10 dicembre. Il pubblico è formatoin gran parte da studenti, non solo di Fisica, ma anche di materie tecniche e umanistiche.Tutti vengono toccati in prima persona da una lezione interessante non solo sul pianoscientifico, ma anche sul piano umanistico… o meglio, su quello generale dell’umano, per-ché rimanda, anche attraverso frasi di grandi uomini di cultura, poesie, quadri e fotografie,alla bellezza e al significato delle cose… che interessano tutti, non solo gli appassionati distelle.

Lo stupore, principio di ogni ricerca

La lezione inizia con un excursus sul passato, in cui emergono i tentativi umani di conoscere e rap-presentare il cosmo. È importante chiedersi qual è la direzione della ricerca umana: la verità dellecose, appunto.Una delle parole chiave della ricerca umana è appunto lo stupore, perché «Chi ha raggiunto lostadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ra-gionare e del riflettere» (Max Planck). A ogni conoscenza dell’uomo, infatti, si accompagna uninsondabile mistero, che fa nascere nuove domande e chiama ad addentrarsi in nuove profonditàe nuovi misteri. In questo senso, la tensione alla verità, in chi si occupa di ricerca scientifica, nonè un residuo infantile, ma è il nobile tentativo di trovare il nesso tra le cose.

Molta osservazione e poco ragionamento

Tuttavia l’uomo che vuole cercare veramente la verità, oltre che capace di stupore, deve essereanche capace di osservazione. Bersanelli – e qui si nota l’uomo docente – afferma che la maggiorparte degli errori dei suoi studenti non è dovuto a un difetto di ragionamento, ma a una inca-pacità di osservazione. Paradossalmente – aggiunge, citando Alexis Carrel18 – «osservare è menofacile che ragionare. È risaputo che scarse osservazioni e molti ragionamenti sono causa di errori.Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».Il rischio dello scienziato è quello di perdersi nel ragionamento astratto allontanandosi concet-tualmente tanto da non poter verificare il risultato. L’esperimento – altra parola chiave della ri-cerca – è dunque la prima osservazione attraverso cui si cerca di semplificare il dato che si presentanella realtà.

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INCONTRARE GLI SCIENZIATI

Il 10 dicembre 2007 al Camplus Lingotto17 si è tenuto il primo incontro del ciclo tematico Il sensodella verità. Ospite della serata il prof. Marco Bersanelli, docente di Astronomia e Astrofisica.

F

17 Camplus Lingotto è una residenza universitaria, situata al quarto piano del Lingotto, che nasce dalla sinergia di Comune di To-rino, Università e Fondazione Pier Giorgio Falciola, allo scopo di utilizzare al meglio l’eredità delle Olimpiadi 2006.18 Alexis Carrel (1873-1944), medico chirurgo, biologo e fisiologo francese, premio Nobel per la Medicina e la fisiologia del 1912.

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Saper cogliere l’imprevisto

Le scoperte degli scienziati – alcune delle quali vengono illustrate dal professore con fotografiee immagini – possono avvenire anche per caso. Ma – come dice Beveridge19 – «la casualità favori-sce solo coloro che la sanno corteggiare»: è un merito saper cogliere l’imprevisto, e registrarlocome scoperta senza farsi bloccare e vincere dal pregiudizio. Spesso infatti noi cadiamo vittime dei nostri schemi, e non abbiamo la disponibilità a guardarequello che la realtà ci presenta davanti (di nuovo… un problema di osservazione!). Tra gli esempipiù interessanti di scoperte “casuali” vi è quella della radiazione cosmica di fondo, che valse ai duescienziati Penzias e Wilson il Premio Nobel per la Fisica nel 1978.

La piccolezza dell’uomo di fronte alla vastità dell’Universo

L’incontro si chiude con una interessante osservazione: noi conosciamo appena il 4% dell’Uni-verso, eppure dobbiamo tener presente che «la cosa più incomprensibile dell’Universo è che essosia comprensibile» (Einstein). Ed è comprensibile proprio dalla mente umana, che avverte al con-tempo questa grande sproporzione tra la piccolezza dell’uomo e l’immensità del cosmo. Anchequesto mistero apre altre domande sulla nostra origine e la verità di noi stessi… si tratta di do-mande che l’uomo non può eludere.Nel vivo dibattito che segue, emerge l’esperienza personale di Bersanelli, che ricorda come – nelloscoprire il proprio talento e nel coltivare la sua inclinazione – siano stati determinanti alcunigrandi maestri di fisica, ma anche maestri di vita. Tra le sue imprese menziona due missioni alPolo Sud e il Progetto PLANCK, cui partecipano circa 400 scienziati di tutto il mondo, che pre-vede nei prossimi mesi il lancio di un satellite per sondare le infinite prospettive spaziali.Alla domanda sincera di uno studente di fisica – «Come fare quando la passione per la fisica va-cilla o incontra la difficoltà oggettiva dello studio?» – il nostro astrofisico risponde che se unosi lascia condurre dagli aspetti che lo affascinano, la spinta affettiva aumenta. Questo non si-gnifica che non possano presentarsi momenti di aridità e di fatica. Il punto è non sottrarsi al-l’attrattiva di ciò che ci affascina, e guardare – anche nei momenti di difficoltà – chi quellaattrattiva la vive più di noi, e in modo più vero.

Desiderare di conoscere e di comunicare

Il richiamo finale interpella anche gli studenti di Camplus: la conoscenza è un fatto comunita-rio. Non a caso quando l’uomo fa un scoperta sente il bisogno impellente di comunicarla, ed ètriste fin quando non ci riesce.Il desiderio di conoscere la verità delle cose, e il desiderio di comunicare le proprie scoperte, sonocaratteri distintivi dell’essere umano: si tratta di una grande possibilità per ciascuno, possibilitàche, nell’esperienza di Camplus, può fiorire in una dimensione comunitaria. Ma questo può av-venire soltanto se uno, liberamente, decide di mettere in gioco la propria libertà… una sfida di cuiBersanelli ci ha dato un appassionato e appassionante esempio.

a cura di CHIARA MICHELIS,http://www.camplus.it/cultura-e-tempo-libero/eventi-e-news/eventi/verita-e-scienza-lesperienza-di-un-astrofisico/

19 William Henry Beveridge (Rangpur 1879 - Oxford 1963). Economista inglese. Legò il suo nome a un piano (elaborato in duerapporti, del 1942 e del 1944) che prevedeva l'assistenza sanitaria gratuita e l'estensione della previdenza sociale ai ceti menoabbienti. Ispirò la legislazione sociale del governo del laburista Attlee. Deputato liberale, fu nominato lord nel 1946.

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2 La Via Lattea e le stelle: l’esplorazione del cielo da Herschel a Hubble

Alla fine del Settecento gli astronomi erano convinti che l’Universo fosse costituito solo dallestelle della Via Lattea, mentre alla fine dell’Ottocento avevano ormai scoperto che la nostraè solo una di molti miliardi di Galassie che occupano uno spazio la cui profondità si misurain miliardi di anni luce. Questa rivoluzione nella comprensione del cosmo e del posto chel’uomo vi occupa è avvenuta in meno di un secolo grazie alla costruzione di telescopi sem-pre più potenti e alla scoperta di “nuovi modi” di guardare il cielo. La storia dell’esplora-zione del cielo narra la passione di uomini affascinati dalla bellezza dell’Universo e il loroduro lavoro di osservazione. Pochissimi pionieri all’inizio, e in fondo ancor oggi un numerorelativamente esiguo di ricercatori, scrutano il cielo con perseveranza e ingegno utilizzandoocchi sempre nuovi e più sensibili, dai grandi telescopi rifrattori del XVIII secolo agli attualitelescopi spaziali. Quale è il motore di questa ricerca?All’inizio l’astronomia era di supporto alla geografia e alla navigazione. Gli astronomisvolgevano un lavoro mirato soprattutto a attività pratiche, come la costruzione di se-stanti ed effemèridi (tavole numeriche che forniscono le coordinate degli astri) utili perl’individuazione di latitudine e longitudine sulla terraferma o in mare aperto. Con l’av-vento dei telescopi e della scienza moderna, le osservazioni sono state sempre più miratealla comprensione di fenomeni e sorgenti celesti da un punto di vista fisico. Wilhelm Her-schel (1738-1822) fu uno dei primi astronomi ad avventurarsi alla scoperta del cielo pro-fondo. A questo scopo costruì telescopi riflettori di grande diametro, molto potentiotticamente anche se poco precisi, con cui raccogliere anche il più tenue bagliore emessodagli astri lontani. Herschel scandagliò una grande quantità di debolissime stelle e provòa ricostruire la forma della Via Lattea e a misurarne l’estensione, che gli si rivelò immensa.Scoprì nuovi oggetti celesti nebulosi e diffusi dalle strane forme e si chiese se potesseroessere considerate stelle. Nell’Ottocento, seguendo la via aperta da Herschel, molti astro-nomi “dilettanti” costruirono grandi telescopi riflettori, di cui il Leviathan1, dotato di unospecchio di ben 1,8 metri di diametro, è il più celebre, soprattutto perché svelò sorgentie strutture mai viste prima, tra cui la forma a spirale di alcune nebulose, che oggi sap-piamo essere galassie esterne alla nostra. L’avvento dei grandi telescopi riflettori combi-nato con l’introduzione della montatura equatoriale e delle lastre fotografiche qualestrumento di acquisizione delle immagini fecero fare nuovi passi decisivi alle osserva-zioni astronomiche.Ma c’era una domanda alla quale all’inizio del XIX secolo ben pochi avrebbero scommessodi poter dare una risposta: di cosa sono fatte le stelle? Come spesso accade, la risposta giunsequasi casualmente. In un laboratorio dell’Università di Heildelberg, Robert Bunsen e Gu-stav Kirchhoff conducevano studi sulla composizione delle acque minerali per analizzarnechimicamente i sali. Kirchhoff suggerì di bruciare i sali su una fiamma e osservarli con unospettroscopio. Si rese conto che la luminosità si concentrava a lunghezze d’onda ben precise,

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1 Telescopio a specchio di tipo “composito”, più specchi montati su un unico supporto, costruito da William Parson, conte diRosse, nobile e ricchissimo inglese. La costruzione del telescopio nel parco di una sua villa di Birr, in Irlanda ebbe inizio nel1842-43 e fu completata nel 1845. Era lungo 16,76 m., e lo specchio aveva un diametro di m. 1,83 e pesava 3808 kg. Nonper nulla fu soprannominato “il Leviatano”.

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caratteristiche dell’elemento osservato. Nacque così la possibilità di analizzare chimicamentequalsiasi sorgente luminosa, mediante la spettroscopia, aprendo la strada alla possibilità disvelare quale fosse la composizione chimica delle stelle! La grande meraviglia fu scoprire chela materia di cui sono fatte le stelle è la stessa materia che abbiamo sulla Terra. Fu questo unmomento cruciale per la nascita di quella che poi venne chiamata “astrofisica”: lo studiodelle proprietà fisiche delle sorgenti, la loro composizione, la loro formazione ed evoluzione,la conoscenza dei meccanismi che stanno alla base dell’emissione della luce. E non solo allelunghezze d’onda visibili ai nostri occhi.All’inizio del Novecento la Via Lattea era indicata col termine “die Weltinsel”, ossia l’uni-verso-isola, ma molti segnali già indicavano che non fosse un’unica “isola” in un universoaltrimenti completamente vuoto e buio. Già nel 1920 un astronomo californiano, HeberCurtis, suggerì che le nebulose a spirale erano galassie parimenti alla Via Lattea. Ecco checi si mise alla caccia di informazioni su queste “nebulose extragalattiche”, con la caratte-ristica struttura a spirale, puntando telescopi sempre più potenti verso le zone più pro-fonde del cielo. Dopo il 1924 Edwin Hubble, grazie al nuovo telescopio di 100 pollici delMonte Wilson (allora il più grande telescopio del mondo), scattò fotografie di varie de-cine di nebulose extragalattiche e ne studiò accuratamente lo spettro (cioè la distribuzionedella luce emessa alle varie lunghezze d’onda). Nel 1929 fece la scoperta che aprì la stradaalla cosmologia moderna: si accorse che le galassie, quanto più sono lontane tra loro, tantopiù si allontanano velocemente le une dalle altre. In una parola: l’Universo delle galassienon è statico ma è in espansione. La “legge di Hubble”, che descrive questo fatto fonda-mentale dell’espansione cosmica, oggi è verificata fino ai confini dell’Universo osserva-bile, su distanze centinaia di volte superiori a quelle accessibili a Hubble. L’evidenzadell’espansione fu il primo dato formidabile per comprendere che l’Universo nel suo in-sieme non è statico ma è in evoluzione. Oggi i cosmologi hanno forti evidenze che l’Uni-verso ebbe inizio circa 14 miliardi di anni fa a partire da uno stato di altissima densità etemperatura.Nuovi modi di osservare il cielo portano nuove scoperte, che a loro volta aprono nuove do-mande. In meno di un secolo l’astrofisica ha svelato moltissimi fenomeni celesti: la strutturainterna delle stelle, la storia della loro vita, la natura e l’evoluzione della nostra Galassia, laVia Lattea, e delle galassie esterne. Oggi l’astrofisica non si limita all’osservazione della lucevisibile, ma si estende ben oltre, dalle onde radio fino ai raggi gamma. Una gran varietà di sor-genti peculiari sono state scoperte, come le pulsar, le stelle di neutroni e quasars, e proba-bilmente anche i segni di oggetti paradossali come i buchi neri. Negli ultimi decenni lastruttura e l’evoluzione dell’intero Universo sono state chiarite e svelate da formidabili os-servazioni ai confini dello spazio e del tempo osservabile.E, come sempre, questa storia non è finita, anzi i “problemi aperti” sono ancora molti e de-cisamente pieni di fascino.

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A1 Short-lived Radioactivities in the early Solar System: Connections to the Interstellar Medium & Stellar Evolution in the Galaxy

[…] I miei amici Roberto Gallino e Maurizio Busso, con altri colleghi qui all’Università di Torino,mi hanno dato grande gioia e stimolo nelle nostre ricerche comuni su problemi di astrofisicanucleare o legati all’origine del sistema solare. Durante questi periodi intensi di ricerca ho im-parato e lavorato tantissimo. Rimane ancora molto lavoro, anche più importante, da compiere.Il mio primo vero contatto con uno scienziato italiano l’ho avuto seguendo le lezioni e i seminaridi Enrico Fermi all’Università di Chicago. Per me come per molti altri studenti, questo periodofu molto difficile. Enrico Fermi spiegava tutto con grande visione e semplicità. Durante le le-zioni, tutto sembrava chiarissimo. Ma dal momento in cui uscivamo dalla stanza, tutto quel chepensavamo di aver capito bene spariva! Analizzando questo fenomeno, concludevamo che la co-noscenza appena appresa sfuggiva dalla punta delle nostre dita mentre varcavamo la soglia dellaporta. Il rimedio doveva essere semplicissimo: occorreva solo uscire reggendo le mani in aria perimpedire quest’inesorabile perdita di conoscenza! In realtà, questo aiutò solo un po’. Quel cherimase sembra esser stato sufficiente perché io avessi l’onore di essere invitato qui a Torino. […]

Estratto della lezione: versione italiana2

C’è un piccolo, famoso dipinto di Salvador Dalí chiamato “La persistenza della Memoria”. Esso raf-figura degli orologi distorti drappeggiati su parti di un paesaggio che mostra scogliere rocciose,

2 Questa sezione è preceduta nel testo originale da un paragrafo 1. Extended summary of the Lecture: English Version.

UNA SCALA PER ARRIVARE FINO ALLE STELLE E ALLE GALASSIE

La conoscenza delle stelle è certamente uno degli aspetti più affascinanti dello studio della natura. Perrispondere alla semplice domanda: che cos’è una stella? non basta osservare il cielo, occorre mettere ingioco tutta la conoscenza fisica e chimica del reale, partendo da indizi in apparenza poco attinenti allestelle, come ad esempio la presenza di nuclei radioattivi a breve vita media in alcune rocce della Terra.Strana storia, che indica una fondamentale posizione dello scienziato: uno sguardo chiaro e una menteaperta a cogliere ogni indizio nel reale, anche quello più apparentemente insignificante o imprevisto,lontano dagli schemi mentali applicati al problema cui si sta cercando di dare risposta.La scoperta che la materia di cui sono fatte le stelle è la stessa di cui è fatta la Terra ha rivoluzionato ilmodo di osservare il cielo e ha permesso all’uomo di conoscere sempre più in profondità la natura deicorpi celesti. Inoltre l’uso di telescopi sempre più potenti ha permesso di scavare sempre più in profon-dità nello spazio e nel tempo. “Tenere” questo sguardo chiaro e la mente spalancata non è ovvio né immediato. Tanto che, da soli, forseè impossibile. Tuttavia seguendo “grandi maestri”, come Enrico Fermi, nella tensione a non “perderenulla” di quanto essi ci mostrano e ci trasmettono, si può imparare a “trattenere ciò che basta” perchéle stelle ci siano sempre più vicine e familiari, cioè comprensibili. Tutta la storia della scienza racconta storie come questa: questi tratti non sono solo caratteristici dellostudio delle stelle, ma sono indispensabili requisiti per comprendere la realtà che ci circonda. La scalaper raggiungere le stelle sono le rocce che stanno sotto i nostri piedi.

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il mare e il cielo. Dallo studio di variazioni delle abbondanze isotopiche in rocce antiche, spessodisturbate, è stato possibile stabilire la presenza di alcuni nuclei radioattivi di breve vita medianei meteoriti, nella Terra e nella Luna. Verranno presentate alcune prove dell’esistenza di questinuclei radioattivi in rocce formatesi nel Sistema Solare primordiale e si mostrerà come esse ser-bino la memoria di eventi e processi antichi. Ciò costituisce una chiave per la comprensione dieventi rapidi che portarono alla formazione del nostro Sistema Solare, all’evoluzione della nostragalassia, e all’evoluzione di altre galassie dopo il Big Bang. Queste radioattività forniscono ancheindizi sulla formazione e l’evoluzione dei pianeti nel nostro Sistema Solare. L’approccio fonda-mentale è basato sullo sviluppo e l’applicazione di tecniche di spettroscopia di massa di alta pre-cisione e sensibilità, su una raffinata micro-chimica ultra-pulita e sulla selezione e preparazionedi campioni extraterrestri. Lo schema concettuale è fondato sulle teorie dell’astrofisica nucleare,sviluppate pionieristicamente da Burbidge, Fowler e Hoyle e da A. G.W. Cameron. La grande arenasi estende dall’evoluzione cosmica a partire dal Big Bang, attraverso vari stadi di evoluzione stel-lare e fino ai meccanismi di accrezione del Sistema Solare e di formazione dei pianeti. I modelliteorici di nucleosintesi stellare per stelle di piccola massa, sviluppati in modo pionieristico spe-cie qui a Torino, hanno consentito di ottenere predizioni specifiche sulla produzione degli ele-menti. Tutti questi studi hanno portato alla comprensione che il Sistema Solare si formò a partireda materiali sparsi nel mezzo interstellare, attraverso un collasso con tempo scala di meno di 106

anni3 , la rifusione di pianeti formatisi rapidamente, e la formazione successiva della Terra.Usando modelli teorici e la memoria persistente dei nuclei di breve vita media, fu possibile guar-dare indietro per definire la natura dei nostri predecessori stellari e dei processi cosmici su piùlarga scala coinvolgenti le supernovae e il comportamento delle “fabbriche di nuclei” durante leprime fasi della nostra galassia. Ora appare possibile, sulla base dell’unione di osservazioni astro-fisiche e di inferenze isotopiche4 (fortemente radicate qui a Torino), stabilire il tasso di forma-zione delle galassie nei primi tre miliardi di anni a partire dal Big Bang. Questa scienza scaturisceda piccole porzioni della tavola periodica e si espande a una visuale di grande scala che collegale rocce, la fisica nucleare, l’astronomia e la cosmologia. […] Per concludere, penso che la maggior parte del mio discorso assomigli a una storia di ItaloCalvino, che ha abitato a Torino per tanto tempo. Calvino scriveva favole meravigliose che a voltesembravano una specie di “finzione scientifica”: una scala mitica per salire fino alla Luna quandoera più vicino alla Terra e, come vi ho appena detto, una scala per salire fino alle stelle e Galassiequando erano più vicine anche loro. Come diceva Galileo Galilei, sono questi i nostri sforzi perleggere ciò che è scritto “in quel grande libro che è l’Universo”.

GERALD JOSEPH WASSERBURG, lectio magistralis per il conferimento della laurea honoris causa in fisica, in Memorie della Società Astronomica Italiana (ISSN 0037-8720), Vol. 72, N. 2, 2001

3 Un collasso dovuto all’attrazione gravitazionale che è avvenuto in meno di un milione di anni.4 Informazioni sui nuclei legate allo studio degli isotopi radioattivi e stabili di un elemento chimico.

Note biografiche

Gerald Joseph Wasserburg

Professore emerito di Geologia e geofisica del California Institute of Technology. Studente all’Università di Chicago di Ha-rold Urey (premio Nobel per la chimica nel 1934 e scopritore del deuterio), insignito del più alto riconoscimento confe-rito dalla Geological Society of London, la Medaglia Wollaston, nel 1985, è stato il primo a studiare i campioni lunaririportati sulla Terra. Il 23 giugno del 2000 presso l’Università degli studi di Torino ha ricevuto la laurea honoris causa inFisica «per i contributi fondamentali nel campo dell’astrofisica, della geochimica e geofisica, della planetologia» e per isuoi «studi di materiale meteoritico e di polveri microcristalline di origine extrasolare».

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B1 An Introduction to the Study of Stellar Structure

Introduction

In this monograph an attempt is made to develop the theory of stellar structure from a consis-tent point of view and, as far possible, rigorously. This and considerations of space have placeda somewhat severe restriction on the problems that are to come under review, while requiring astime a detailed treatment of other aspects of the subject. Thus, on the physical side, questionsrequiring the application of relatively advanced methods of statistical mechanics have to beavoided, while, on the astronomical side, questions concerned with problems of the type of stel-lar rotation and stellar variability or stability have had to be entirely omitted. This may seem adrawback, but, on the other hand, there is more space to develop the fundamentals with whichthe reader should be thoroughly familiar. […] We shall restrict ourselves to the consideration of stars which are in equilibrium and which arein a steady state. Such an equilibrium configuration can be characterized by three parameters:its mass, M; its radius, R; and its luminosity, L (L being defined as amount of radiant energy, ex-pressed in ergs, radiated by the star per second to the space outside). It is beyond the scope of themonograph to discuss how the values of these parameters for individual stars are determined inpractice. We shall assume, however, that we do have sets of values of these quantities for a num-ber of stars. Stellar structure deals with these results of observational astronomy.Our first problem, then, is to present the observational material in some form suitable for fur-ther discussion. There are two plots which we shall find useful: (a) the mass-luminosity diagram,

COS’È UNA STELLA?

Cosa sono le stelle? Di cosa sono fatte? Perché sono così luminose? Perché hanno colori diversi? E ancora:tutti gli oggetti luminosi in cielo sono stelle?Come sempre la bellezza di un cielo stellato suscita diverse domande, a un fisico poi ne apre di particolarie diventa davvero interessante scoprire come il premio Nobel Chandrasekhar ha iniziato a darsi delle ri-sposte. Non importa sapere tutto ciò che riteniamo necessario per comprendere un fenomeno, non semprele nostre teorie devono essere perfette e complete per aiutarci a svelare il “mistero” della natura. Ancorauna volta occorre “osservare” e prendere sul serio gli indizi, anche se li riteniamo “pochi” e inizialmenteci sembrano “sconnessi” tasselli di un “puzzle” impossibile da completare. Un altro Nobel, Martin Schwar-zschild, iniziava con questa domanda il suo libro Structure and evolution of the stars: «Se leggi sem-plici e perfette governano senza eccezione l’Universo, non dovrebbe allora il pensiero puro scoprire questoinsieme perfetto di leggi, senza doversi appoggiare alle stampelle di osservazioni noiosamente messe in-sieme?» per poi rispondersi: «Le osservazioni su cui fondiamo le nostre teorie non sono stampelle, ma co-lonne». La prima stampella era il diagramma HR, che esprimeva forme empiriche di regolarità osservabilitra le popolazioni stellari. Modelli fisici che nascono per spiegare tali regolarità, ancora lontani dall’esserecompleti e dettagliati furono fondamentali per giungere alla comprensione della fisica stellare. Spesso, senon sempre, una visione globale, sintetica, capace di rendere ragione dei dati sperimentali a disposizioneè un ottimo punto di partenza per andare più a fondo nella conoscenza della Natura, che ci si svela im-prevedibilmente conoscibile e ancora più bella di quanto non appaia a prima vista. Una notte stellata hacertamente un altro “gusto” se riflettiamo anche sul fatto, assolutamente non scontato, che la nostra mentesappia “guardare” dentro le stelle che ci diventano così più “vicine”, perché conoscibili.

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and (b) the mass-radius diagram. In diagram (a) it is customary to plot log M (M expressed insolar units) against, essentially, 2.5 log L (in practice, the absolute bolometric magnitude). In di-agram (b) we plot log M against log R (R expressed in solar units). […] The ultimate objects of studies in stellar structure are the following:To derive the complete march of the physical variables (the density, the temperature, T; etc.), onthe one hand, and the variation of the chemical composition (the relative abundances of the dif-ferent elements), on the other, throughout the entire configuration.1. To describe quantitatively the kind of steady state (radiative, convective, etc.) that exists, even-

tually as a function of the radius vector r.2. To specify the fundamental physical processes that are responsible for the sitting-up of the

steady states described under.3. To evaluate quantitatively the irreversible processes that must be taking place which should

be responsible for the continual loss of energy at the rate L by a star.

It is clear that complete and entirely satisfactory answers to all the foregoing problems requiredetailed information about physical phenomena which we do not have at the present time;even if we possessed this information, we should be faced with a mathematical problem of avery high order of complexity. From one point of view the most serious lack of information (atleast until recently) concerns the nature of the physical processes involved under above.The question now arises as to how we can formulate, at least provisionally, the fundamentalproblem of stellar structure the solution of which will not only be of value but will also enableus to make substantial progress toward the solution of the complete problem. In other words,we need to formulate a somewhat restricted problem of stellar structure. The problem we shallconsider is: Can we establish some relation between all three parameters, L, M, and R ?That we can hope to make some progress toward the solution of this problem can be seen in thefollowing way. When we observe a star, we see that in a prescribed spherical volume of radius Ran amount of material of total mass M is inclosed; we also know that through this mass there oc-curs a continual streaming-out of a certain mean flux of radiant energy specified by the lumi-nosity, L. By hypothesis the star is in a steady state. The question we can then ask is: “How is itthat I certain specified march of the net flux of radiant energy is able to support (against to grav-itational attraction) an amount of mass equal to M inside the spherical volume of precisely ra-dius, R?”.It will be noticed that some uncertainty as already been introduced. The luminosity, L specifiesthe net flux of energy given by L/4pR2 at the boundary of the star; we can, of course, take this atindex of a certain average flux that exists in the interior, but the solution of a mathematical prob-lem of equilibrium would required a knowledge of the complete march of a function L(r) and notmerely a certain unspecified average depending on L. It is precisely for this reason that progresstoward the solution of the restricted problem is made by means of the study of stellar models.From the observed L and M we infer that each gram of the stellar material liberates on the aver-age an amount of energy e = L/M. It may be safely assumed that e(r) – the rate of liberation of en-ergy per gram of the material at the point r – is zero in the outer parts of the star where thephysical conditions are relatively “mild”, so that L(r) = L in the outer parts of the star. […]Presumably, L(r) decreases inward in such a way that e(r) = L(r)/M(r) tends to some finite valueas r >0, whit or without a maximum for r>0 […] Two obvious limiting cases suggest themselves:

(a) e(r) = e = Constant and (b) e(r) = 0, ≠0.The former case corresponds to a uniform distribution of the energy sources, while the lattercase where all energy sources are concentrated at the center (this is the “point-source model”).

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We can investigate these two limiting cases as well as other, “intermediate”, stellar models. Afterstudying such models we attempt to abstract from the ensemble of the results thus obtained fea-tures which can be regarded as common to all the models. It would be safe to conclude that suchcommon features must have came counterpart in nature; this is the manner in which progress hasbeen made. One rather unexpected feature introduces an essential simplification. […] but it maybe stated that follows from very general considerations that the majority of the normal stars, suchas the sun and Capella, are gaseous and that radiation pressure as a factor in the equation of thehydrostatic equilibrium can be neglected […]. This last circumstance in turn reveals another un-expected feature: the form of the relation between L, M, and R is independent of the stellar modelconsidered. We shall not go farther into the consideration of these matter, but enough has beensaid to show that progress toward the solution of the restricted problem is in fact possible.There is one other matter of importance to which we all draw attention: we cannot assume be-forehand that the chemical composition of all the stars is the same. Actually, under stellar con-ditions matter is generally so highly ionized that, […], the uncertainty in the chemicalcomposition is essentially due to the uncertainty in the abundance of the two lightest elements,namely, hydrogen and helium. The abundances of the lightest elements has then to be consid-ered as a fresh parameter in the discussion. We can thus summarize by saying that our funda-mental problem is to seek a theoretical relation of the kind

F(L,M,R, abundance of hydrogen and helium) = 0.Our main object, then, is to describe the theory and the methods that have been developed to-ward this end. […]

In concluding […] it should be emphasized again that the particular arrangement of the sub-ject matter has arisen in the attempt to present the subject from a unified standpoint. This, inturn, has required a somewhat detailed treatment of certain aspects of the subject which maynot appear to deserve that prominence. However, in the opinion of the writer the general stand-point taken appears to be the only fruitful one under the present limitations of our knowledge.Finally, in the actual developments an attempt has been made to give the full details, both ofmathematical derivations and of physical theories, as far as this has proved feasible. This methodmay involve the disadvantage that there is a danger of the reader losing the general perspectivein the details of the solution of a mathematical problem or in the arguments of a physical the-ory. It will therefore be advantageous – even though it may not be strictly necessary – if the readeracquires during the study of the monograph some familiarity with the general results.

SUBRAHMANYAN CHANDRASEKHAR , da An Introduction to the Study of Stellar Structure, di Unabridged, corrected republication of 1st (1939) edition, pubblicato da Courier Dover Publications, pagg. 1-9 (1958)

Note biografiche

Subrahmanyan Chandrasekhar (1910-1995)

Premio Nobel per la fisica nel 1983 per i suoi studi sull’evoluzione stellare compiuti negli anni Trenta, che avrebbero apertola strada alla definizione del concetto di buco nero. Un altro premio Nobel, Hans Bethe, scrisse di lui su Nature nell’otto-bre 1995: «Ero sempre impressionato dalla profondità e dalla complessità del pensiero di Chandra […]. Il suo stile eramodellato dagli autori inglesi dell’ultimo Ottocento inizio Novecento e da Shakespeare. Era un piacere ascoltare uno deisuoi interventi. In aggiunta al suo stile, aveva uno dei migliori accenti della classe benestante inglese che io avessi maisentito». Accanto alla sua intensa opera scientifica, Chandrasekhar è ricordato per essere stato un uomo di profonda cul-tura e di intelletto aperto. Divenuto titolare nel 1952 della prestigiosa cattedra di astrofisica teorica dell’Institute for Nu-clear Studies di Chicago, riuscì a trasformare il bollettino interno dell’università in una rivista che fosse un punto diriferimento per i ricercatori di tutto il mondo: l’Astrophysical Journal.

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LA SPETTROSCOPIA IN ITALIA

Fino al 1870 gli unici due Osservatori Astronomici Italiani in possesso di strumenti spettroscopici eranoquelli del Collegio Romano e del Campidoglio, diretti rispettivamente da Angelo Secchi (1818-1878) e Lo-renzo Respighi (1824-1889) che si possono pertanto considerare i pionieri della spettroscopia astronomicain Italia. Insieme a loro va ricordato anche Giovan Battista Donati (1826-1873) che a Firenze aveva uti-lizzato uno dei primi spettroscopi a fenditura dotato di collimatore. Con questo strumento, intorno al1860, aveva intrapreso lo studio degli spettri di una quindicina di stelle e di alcune comete, precedendocosì di qualche anno il fondamentale lavoro di Secchi che, nel dicembre del 1862, non appena ottenuto unospettroscopio Hoffmann, iniziò l’osservazione degli spettri stellari. Come risultato di queste ricerche, Sec-chi propose una delle prime classificazioni spettrali delle stelle, lavoro che ebbe una immediata risonanzainternazionale e che è ancor oggi ricordato nella storia dell’Astronomia. L’intreccio tra storia dell’unità diItalia , politica e spettroscopia in Italia, narrato dalla Chinnici fa capire quanto il contesto storico, politico,sociale e il lavoro d’équipe, nonché la diffusione dei risultati della ricerca scientifica è condizione essenzialeper la nascita e la crescita di una “nuova scienza” quale l’astrofisica e creare le condizioni affinché unapassione scientifica “duri” nel tempo, lasciando una traccia visibile nella storia. Infatti la Società Astro-nomica Italiana (SAIt), sorta come Società degli spettroscopisti Italiani nel 1871, annovera tra i suoi sociastronomi professionisti, insegnanti e cultori di astronomia, tutti accomunati da uno stesso interesse per lescienze dell’Universo, e, come recita il principio fondamentale del suo statuto, ha per scopo prioritarioquello “... di promuovere e diffondere gli studi e la conoscenza dell’Astronomia...”.

C

C1 Nascita e sviluppo dell’astrofisica in Italia nella seconda metà dell’Ottocento

L’Italia nel contesto politico e scientifico europeo dopo il 1860

Nel 1861, a seguito delle vicende del Risorgimento italiano, l’Italia raggiunge l’unità politica5.[...]Questo aspetto non è secondario nell’ambito della storia della scienza in Italia nella secondametà dell’Ottocento e darebbe adito a numerosi spunti di riflessione. Quale fu cioè il ruolo degliscienziati italiani nel passaggio al nuovo regime unitario è un argomento che meriterebbe di es-sere approfondito. Mi soffermo su questo aspetto perché, trattando dell’astrofisica in Italia nella seconda metà del-l’Ottocento e del suo inserimento, a volte problematico, nel più vasto complesso dell’astronomiaitaliana del periodo, ci si imbatte in numerosi personaggi chiave, quali Giovanni V. Schiaparelli(1835-1910) o Pietro Tacchini, di cui diremo in seguito, che hanno giocato un ruolo politico nonindifferente. Non essendo tuttavia in possesso di elementi sufficienti per approfondire questotema, mi limito solo a segnalare questa stretta correlazione, in modo da tenerla ben presente nelcorso della nostra analisi.

Mutato l’assetto politico, il governo unitario dovette impegnarsi in un difficile sforzo di riorga-nizzazione interna su tutti i fronti, compreso quello scientifico.In particolare, per quanto riguarda il settore dell’astronomia, la situazione era estremamente deli-cata. Il nuovo governo aveva infatti ereditato dai vari staterelli pre-unitari un congruo numero di os-servatori (ben dieci), il cui mantenimento implicava una notevole dispersione di fondi e di risorse.

5 Con l’eccezione della zona di Roma; la cosiddetta “questione romana” sarà risolta dopo circa un decennio, nel 1870.

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Il contesto scientifico-istituzionale non giocava quindi a favore dello sviluppo della disciplinaastronomica e, d’altra parte, i tentativi di riforma ebbero solo un parziale successo.

Intanto, l’applicazione al dominio astronomico delle leggi della radiazione elettromagneticaenunciate da Gustav Kirchhoff (1824-1887) e Robert Bunsen (1811-1899) nel 1859, portava allanascita dell’astrofisica o astronomia fisica, secondo la dizione ottocentesca.

Improvvisamente si apriva agli astronomi la possibilità, fino ad allora neppure immaginabile, diconoscere la natura fisica e la composizione chimica degli astri: una prospettiva rivoluzionaria,che sconvolgeva il modo “classico” di fare astronomia, fino allora limitato all’astronomia di po-sizione e strettamente correlato agli studi di meccanica celeste.

L’astrofisica, fin dal suo nascere, si distingue principalmente per l’attività di poche personalitàpiuttosto isolate dal contesto dell’astronomia “istituzionale”. Vi è, è vero, un tentativo di intro-duzione dell’astrofisica nei grandi osservatori classici europei, [...] ma si tratta pur sempre di ri-cerche marginali, condotte fuori dagli schemi dei principali programmi di ricerca degliOsservatori “classici”6.È invece fuori dai circuiti dell’astronomia classica, nei grossi centri di Meudon, di Potsdam, diSouth Kensington, appositamente creati per occuparsi di fisica solare, che si farà vera e propriaricerca nel campo dell’astrofisica.

Diversamente dagli altri paesi europei, in Italia l’astrofisica troverà condizioni favorevoli per svi-lupparsi anche all’interno degli Osservatori “classici”, almeno fino alla fine del XIX secolo, gra-zie all’attività pionieristica di personalità come Giovan Battista Donati, Angelo Secchi, LorenzoRespighi.

Non rientra negli scopi di questo lavoro soffermarsi sulle biografie di questi scienziati, le cui viteed attività scientifiche pure meriterebbero di essere attentamente studiate ed analizzate. [...]È preferibile quindi, nell’ambito del nostro discorso, adottare un altro punto di vista ed illu-strare quali ricerche di astrofisica venivano condotte in Italia nel periodo in questione. L’obiet-tivo è quello di dimostrare che l’Italia era alla testa delle altre nazioni europee nelle prime ricerchedi astrofisica e che l’attività scientifica dei primi spettroscopisti italiani era di alto livello, ed inalcuni settori assolutamente pionieristica.

Il successo dell’attività di ricerca in astrofisica in Italia si spiega in parte con il fatto che lo spet-troscopio consentiva di utilizzare al meglio la strumentazione, ormai superata per l’astronomiadi posizione, di cui disponevano gli Osservatori italiani dell’epoca. Si trattava di uno strumentopoco costoso rispetto a grossi strumenti ottici, e quindi più facile da ottenere, sia in termini dicosti che di tempi di produzione; inoltre, grazie alla sua versatilità, poteva prestarsi a numerositipi di combinazioni, risultando praticamente adattabile a qualsiasi strumento.

Prime ricerche di astrofisica in Italia: Donati, Secchi e Respighi

Si possono individuare tre filoni principali nelle prime ricerche di astrofisica condotte in Italia:• spettroscopia stellare;• spettri di corpi (comete, pianeti, ecc.) e fenomeni celesti (luce zodiacale, aurore boreali, ecc.);• spettroscopia solare.

6 La “New Astronomy”, come venne indicata l’appena nata disciplina, ebbe infatti accoglienza scarsamente favorevole negli am-biti dell’astronomia classica [...]

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In ciascuno di questi filoni gli astrofisici italiani hanno dato un contributo determinante; inparticolare, il settore che avrà maggior seguito in Italia sarà quello della spettroscopia solare, ilpiù tardo a svilupparsi per motivi di ordine storico.

La spettroscopia stellare ha il suo periodo più fecondo in Italia tra il 1862 e il 1869. [...]Donati riassume i risultati delle sue osservazioni in una tavola dove raggruppa i vari tipi di stellee ne confronta gli spettri:

Ho disposto in differenti gruppi gli spettri corrispondenti alle stelle di differente colore; e in ciascun gruppoho sempre messo pel primo quello spettro in cui le strie appariscono le più cospicue ...Dalla ispezione della tavola sembra resultare che le strie degli spettri stellari siano in una certa relazionecol colore corrispondente alle varie stelle. Le stelle bianche hanno strie che si rassomigliano fra di loro, elo stesso accade per le stelle gialle, le arancione e le rosse.

Il lavoro di Donati è pionieristico su scala mondiale ed è di fondamentale importanza nella sto-ria dell’astrofisica per avere aperto la strada alle più vaste ricerche di Secchi.

Lo studio delle stelle fisse quanto è stato finora importante per la teoria de’ movimenti celesti, altrettanto è statolimitato per le ricerche fisiche. Tutto finora si è ridotto ad esaminarne il colore, l’intensità della luce e la va-riabilità. Ma la scoperta della spettrometria ha fatto di questo studio uno de’ più vaghi, svariati e anche dilet-tevoli ed importanti che possano trovarsi. La varietà delle tinte delle stelle è accompagnata da unacorrispondente distinzione de’ loro colori elementari, e da una differenza di righe spettrali: e queste essendomirabilmente collegate colla natura della materia che arde in quegli astri e li costituisce, ci viene per tal mezzosomministrato come conoscere la natura di quelle sostanze di cui sono formati.

Così esordisce Angelo Secchi (1818-1878) nella sua celebre Memoria Sugli spettri prismatici dellestelle fisse, pubblicata nel 1867, che riassume i suoi lavori sull’analisi spettrale delle stelle, con-dotti all’Osservatorio del Collegio Romano.

Secchi aveva iniziato nel 1862 ad occuparsi di spettri stellari, non appena ricevuto uno spettro-scopio a visione diretta di Hofmann, strumento che aveva avuto modo di provare durante il sog-giorno a Roma di Jules Janssen, che ne possedeva uno identico. I suoi primi risultati venneropubblicati nel Bullettino Meteorologico dell’Osservatorio del Collegio Romano del 1863, dove Secchi esa-minava gli spettri di alcune stelle colorate e di alcune stelle bianche, concludendo:

In generale si vede che le stelle colorate hanno altro tipo di spettro che le bianche. In quelle dominano leinterruzioni nei colori meno refrangibili, e in queste nei più refrangibili, e mostrano grandi lacune nel-l’azzurro. [...] molte e molte osservazioni sono da raccogliere e da più osservatori prima di nulla decidere.Noi consideriamo questa materia come appena leggermente sfiorata.

[...] Gli studi di Secchi sulla classificazione spettrale delle stelle costituiscono una pietra miliarenella storia dell’astrofisica. Esse rappresentano il primo tentativo di catalogare le stelle sulla basedelle loro caratteristiche chimico-fisiche, aprendo così la strada a tutto un filone di ricerca chesi svilupperà soprattutto negli Stati Uniti. A Secchi inoltre va il merito di avere indicato alcuneapplicazioni della spettroscopia allo studio di problemi “classici” dell’astronomia, quali la de-terminazione della componente radiale dei moti propri stellari e la fotometria stellare.

Negli stessi anni in cui Secchi pubblicava i risultati dei suoi primi studi sugli spettri stellari, Lo-renzo Respighi, all’Osservatorio del Campidoglio, pubblicava alcune note sulla spettroscopia so-lare, disciplina che aveva acquistato sempre maggiore interesse tra gli astronomi dell’epoca dopola scoperta, nel 1868, del metodo per osservare spettroscopicamente le protuberanze in pieno sole.

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Tale metodo, scoperto indipendentemente dal francese Janssen e dall’inglese Lockyer, consistevanel posizionare la fenditura dello spettroscopio in posizione tangenziale al bordo solare, in mododa occultare la luce proveniente dal disco solare: prima del 1868 questo genere di osservazioni po-teva infatti essere effettuato solo durante le eclissi, a disco solare totalmente occultato.Diversi astronomi tentarono di migliorare questa tecnica di osservazione e tra questi Respighi,che fu tra i primi ad eseguire osservazioni sistematiche a fessura allargata, nel 1869. Grazie aquesto accorgimento diventava possibile osservare per intero le protuberanze, col vantaggio diindividuarne più chiaramente le caratteristiche morfologiche.

Donati, Secchi e Respighi, inoltre, si collocano ai primi posti nei dibattiti scientifici dell’epoca suproblematiche nuove che la spettroscopia aveva aperto, quali lo studio degli spettri delle comete,delle aurore boreali e della luce zodiacale, tutti fenomeni la cui analisi spettrale risultò spesso con-fusa, tanto da dare adito a varie controversie sull’ipotesi di una loro natura comune. [...]

L’età d’oro dell’astrofisica italiana: Tacchini e la Società degli Spettroscopisti Italiani

Il settore principale nel quale l’Italia si distinse per le sue ricerche di astrofisica fu in assolutoquello della spettroscopia solare. L’interesse per il sole divenne sempre più crescente, nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al con-tributo dato dalla spettroscopia allo studio di questo astro. La prima mappatura dello spettro solare,ad opera di Kirchhoff e Bunsen, consentì di studiare la composizione chimica e la natura fisica delSole, mentre nel 1868 la scoperta del metodo per osservare le protuberanze solari fuori eclisse aprìla strada allo studio ed al monitoraggio della cromosfera e dei suoi fenomeni. Tutto un filone di ri-cerca si sviluppò sull’analisi spettroscopica della corona e delle protuberanze. Fondamentale im-portanza nello studio della fisica solare ebbero le osservazioni condotte durante le eclissi. [...]

Proprio in vista degli importanti risultati che gli scienziati si attendevano dall’eclisse del 1870,che avrebbe dovuto far luce sull’esatta posizione della riga coronale, gli astronomi italiani riu-scirono ad ottenere dal Governo unitario i finanziamenti necessari per organizzare una spedi-zione scientifica per l’osservazione dell’eclisse del 1870. Le condizioni erano particolarmentefavorevoli dal momento che la linea di totalità dell’eclisse attraversava la Sicilia sud-orientale ela commissione governativa italiana riuscì ad impiantare due stazioni di osservazione, una ad Au-gusta, l’altra a Terranova (l’attuale Gela). [...]

Secchi e Tacchini però si resero ben presto conto che questo genere di ricerche richiedeva unosforzo comune ed organizzato; da qui l’esigenza di coordinare la ricerca spettroscopica in Italia:

...il Secchi mi comunicava l’idea di formare una società di Spettroscopisti Italiani, i quali lavorando di co-mune accordo e secondo un programma stabilito, avrebbero dato in poco tempo la richiesta serie di regolarie continue osservazioni per la sicura ed accelerata soluzione di importanti problemi relativi alla fisica solare.

Nasceva così, nell’ottobre del 1871, la Società degli Spettroscopisti Italiani, la prima società scien-tifica specificamente dedicata all’astrofisica. [...]

Per l’astrofisica italiana si apre quindi un periodo felicissimo, caratterizzato da aspetti assoluta-mente originali nel panorama internazionale dell’epoca. Il tentativo di coordinare le ricerche diastrofisica, la fondazione di una società scientifica a ciò preposta e la redazione di una rivistaspecializzata in astrofisica non hanno equivalenti all’estero, dove le singole personalità scienti-fiche lavoravano in modo essenzialmente autonomo, senza alcun programma concordato.

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Un altro punto originale dell’astrofisica italiana, che merita di essere ricordato, è quello di averrealizzato un Osservatorio a più bassa latitudine per le osservazioni invernali. [...]: a Calcutta7, [...]che iniziò a funzionare nel 1876.La collaborazione con Calcutta non ebbe poi seguito, ma va comunque segnalata la validità e lapronta esecuzione del progetto.Ancora, la fondazione dell’Osservatorio Bellini sull’Etna e poi di quello di Catania come primoosservatorio astrofisico italiano, rientra nel quadro generale che vede nascere, nel decennio 1870-1880 i principali osservatori astrofisici europei.

Il declino all’alba del nuovo secolo

Dopo il 1890, alla fase di ascesa dell’astrofisica italiana segue un lento, inesorabile declino. Èquesto un fenomeno che meriterebbe un’analisi storica approfondita, che esula però dagli scopidi questo lavoro. Ci si limiterà qui ad indicare alcune delle cause principali individuate che de-terminarono la crisi dell’astrofisica italiana:• la formazione dei giovani astronomi [...]• la mancata applicazione delle riforme [...]• la prematura scomparsa di personalità illustri come Secchi o Donati, che avrebbero potuto in-

fluenzare la direzione delle ricerche scientifiche in Italia• lo scoppio della prima guerra mondiale, che ebbe conseguenze catastrofiche in termini di risorse

umane e finanziarie per tutta l’Europa, Italia compresa• la vertiginosa ascesa dell’astrofisica statunitense [...]

Occorre sottolineare che la crisi dell’astrofisica italiana si colloca nel contesto di una crisi del-l’astrofisica europea, che non riesce a tenere il passo coi potenti mezzi e tecniche che si svilup-pavano in quegli stessi anni negli Stati Uniti, dove la “New Astronomy” prendeva piede inmaniera sempre più decisa. L’Italia, che marciava alla testa delle altre nazioni europee nel campodell’analisi spettrale, ne divenne ben presto il fanalino di coda. Occorrerà attendere il 1925, annodi inaugurazione della torre solare di Arcetri, per ravvisare i primi segni di un lento risollevarsidell’astrofisica italiana, il cui principale protagonista sarà Giorgio Abetti (1882-1982).

dalla relazione su invito pubblicata negli Atti del XVIII Congresso Nazionale di Storia della Fisica e dell’Astronomia, Centro Volta, Villa Olmo, Como, 15-16 maggio 1998

http://www.brera.unimi.it/SISFA/atti/1998/Chinnici.pdf

7 L’Osservatorio, la cui pianta fu disegnata dallo stesso Tacchini, ebbe sede nel prestigioso St. Xavier’ College e fu diretto dal p. Eu-gène Lafont, S. J. (1837-1908), professore di fisica presso lo stesso collegio, che era stato invitato ad aggregarsi alla spedizione ita-liana per il transito di Venere. Esso fu realizzato in soli due anni mediante una pubblica sottoscrizione [...]

Note biografiche

Ileana Chinnici

Laureata in fisica presso la facoltà di Palermo, curatrice del Museo della specola dell’Osservatorio astronomico di Palermo,il suo principale campo di ricerca è la Storia del XIX secolo Astronomia e Astrofisica, con particolare attenzione alla na-scita e allo sviluppo dell’astrofisica in Italia e in Europa. Ha studiato il ruolo istituzionale e l’attività scientifica di alcunidei più importanti protagonisti di questo sviluppo, come Pietro Tacchini (1838-1905) e Angelo Secchi SJ (1818-1878). Nelcampo dell’astronomia classica ha dato un contributo significativo, con G. Foderà, per la storia della scoperta di Cerere.Nel 1997 ha pubblicato (con G. Foderà Serio) il catalogo della collezione di strumenti scientifici conservati nel Museo.

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LA TRADIZIONE ITALIANA CONTINUA: A CACCIA DI “STELLE”

Una serie di articoli che raccontano di un modo di ricercare oggetti celesti, in cui gli astrofisici e astro-nomi italiani si cimentano a tutti i livelli, dai “dilettanti”, sulle tracce di quelli dell’inizio Ottocento, aigiovanissimi ricercatori come Marta Burgay, scopritrice di una pulsar doppia. Un modo di fare scienzadavvero accattivante, in un campo “di frontiera” dove c’è posto per giovani appassionati e disposti al“duro lavoro” di “osservare le stelle”. Decisamente è palpabile il fascino di un lavoro che tiene gli “occhi ”puntati al cielo mettendo in gioco non solo la ragione, ma anche l’inventiva, l’immaginazione, la crea-tività e la paziente attesa, insomma in una parola l’uomo, di fronte alle “stelle”.

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D1 Briciole di cometa

Ci sono comete che passano inosservate. E ci sono comete che conquistano l’attenzione di rivi-ste e telegiornali. Come nel caso della Schwassmann-Wachmann 3, che proprio in questi giornista passando dalle nostre parti. Per saperne di più abbiamo parlato con Gian Paolo Tozzi del-l’INAF - Istituto Nazionale di Astrofisica.

Lei si trova ora in Cile all’Osservatorio Europeo del Sud proprio per studiare questa cometa?Sì, stiamo studiando questa cometa che sta avendo un incontro ravvicinato con la Terra. Rag-giungerà una vicinanza mai raggiunta dalle comete dai tempi dell’astronomia moderna, circa 10milioni di chilometri dalla Terra.

Possiamo dire che si tratta comunque di una distanza molto grande, quindi non c’è nessun pe-ricolo.

Assolutamente. Non c’è alcun pericolo.

Come mai la cometa si sta sbriciolando in questo modo?Si sta sbriciolando per il riscaldamento del Sole. Essendo il nucleo molto fragile, il riscaldamento fa espandere una parte della cometa, che inquesto modo si spacca facendo spezzare i frammenti. Proprio la scorsa notte uno dei frammenti si è di nuovo spezzato in due pezzi, è un processo continuoe speriamo che nel prossimo ramo di osservazioni, fra dieci giorni, ci sia ancora qualcosa da vedere.

Perché è così importante poter studiare una cometa che sta andando in pezzi? Per uno scien-ziato che vuol dire?

Vuol dire che possiamo vedere il materiale originario che esiste nelle comete, il materiale interno.Basti ricordare che l’anno scorso, il 4 luglio, ci fu la missione Deep Impact costata centinaia di mil-ioni di dollari proprio per studiare l’interno delle comete. Ora con questa cometa noi abbiamo unmodo naturale per studiarne l’interno.

Possiamo dire che l’Italia è in primo piano in questa ricerca? Sì, è in primo piano in questo studio. Abbiamo diversi programmi qui in Cile, c’è un programmaosservativo al Telescopio Nazionale Galileo e per quanto conosco, ci sono altri due programmi alradiotelescopio di Medicina vicino Bologna. Probabilmente ci sono altri programmi di cui nonconosco l’esistenza, comunque possiamo dire che l’Italia e l’INAF sono certamente in primo piano.

LUCA NOBILI, http://www.pd.astro.it/urania/2007/articoli/s23a1.htm

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D2 Quel bagliore lontano...

Era il 2004 quando un giapponese, osservando con il suo telescopio amatoriale una galassia lon-tana, vide comparire un bagliore scomparso dopo appena qualche giorno. Due anni più tardi,nella stessa identica posizione, ecco un nuovo bagliore molto più intenso del precedente. Coin-cidenza? Un gruppo di ricercatori dell’INAF, insieme a colleghi europei e asiatici, ha voluto ve-derci chiaro. E ha scoperto che in quel punto doveva esserci una stella molto massiccia al terminedella sua evoluzione che dopo una serie di violente esplosioni, dette outburst, è scoppiata defi-nitivamente come una supernova.

Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Nature, in un articolo firmato da un’équipe di astro-nomi coordinati da Andrea Pastorello dell’Università di Belfast:

Nel momento in cui abbiamo scoperto la supernova e il legame con il burst del 2004 abbiamo deciso diseguire la supernova praticamente ogni giorno. Questo ha richiesto non solo una campagna osservativamolto intensa che coinvolgeva un gran numero di telescopi, ma anche una grande mole di ore di riduzionee interpretazione dei dati. In alcuni momenti ci siamo ritrovati a lavorare dieci o anche quattordici oreal giorno, è stata veramente una faticaccia.

Massimo Turatto dell’INAF - Osservatorio Astronomico di Padova, pensa ora al futuro:

Alcuni di quegli oggetti che prima non riuscivamo a catalogare vengono ora associati a oggetti di questotipo. In particolare conosciamo altri due o tre casi che probabilmente appartengono a questa classe. Tuttoquesto è per noi un tassello importante, perché ci dice che non siamo incappati in una stella strana, che èesplosa in maniera unica ed irripetibile. Forse siamo di fronte a una nuova categoria di oggetti che es-plodono in maniera dirompente, con energie così elevate.

LUCA NOBILI, http://www.pd.astro.it/urania/2007/articoli/s23a1.htm

D3 Supernovae a grappolo

A Cortina d’Ampezzo, sulle Dolomiti dell’Alto Adige, una delle mete privilegiate del turismo mondiale, sorgeun osservatorio astronomico8 che permette di sfruttare al meglio la trasparenza e la purezza dell’aria. Al-l’interno del progetto CROSS9 , si succedono nel giro di due settimane scoperte di due supernovae.

Il reverendo australiano Robert Evans, figura storica della ricerca amatoriale, soleva dire che lesupernovae sono bizzarre, non le vedi per mesi ed anni e poi arrivano a grappoli.

Non so se si può già definire “grappolo” il bottino 2008 del CROSS, ma certo annoverare ben trescoperte in soli 34 giorni ha del sensazionale per un gruppo di astrofili come il nostro. Que-st’ultima scoperta, poi, è ancora più inusuale perché avvenuta in una galassia anonima, e quindipoco studiata e analizzata, molto piccola, distante oltre 200 milioni di anni luce e che per que-sti motivi non compariva nel pur ricco elenco di galassie della nostra survey10, circa 2500.Il caso ha voluto però che comparisse nello stesso campo fotografico di una galassia più grandee a noi molto nota che si chiama ngc1207.

8 La costruzione dell’osservatorio è stata il principale scopo dell’Associazione Astronomica Cortina, nata nel 1972 dall’entusiasmodi una ventina di soci fondatori per divulgare la conoscenza astronomica.9 Il programma di ricerca di supernovae extragalattiche dell'Associazione Astronomica di Cortina: Col Drusciè Remote ObservatorySupernovae Search – CROSS ha visto la scoperta di 13 supernovae e un pianetino.10 Mappa del cielo.

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Dopo aver analizzato attentamente i bracci della galassia principale, è bastata una rapida oc-chiata agli altri oggetti di campo per scorgere subito una macchia stellare nella piccola galassiavicina. Dopo aver scaricato delle immagini di confronto da Internet e aver verificato che l’og-getto non fosse un asteroide di passaggio, abbiamo fatto pervenire una prima notifica al CBAT11

in attesa della notte, quando, con un po’ di trepidazione, abbiamo potuto fare le immagini chehanno confermato in maniera certa la presenza della nuova stella.

La scoperta è condivisa fra due ricercatori del CROSS, Elisa Londero, alla sua seconda supernovadopo quella di appena due settimane fa, e Marco Migliardi, veterano del gruppo, che ottiene lasua tredicesima scoperta giusto nell’ottavo anniversario della sua seconda supernova, lasn2000M, comparsa in cielo, appunto, il 27 febbraio del 2000.

http://www.uai.it/web/guest/astronews/journal_content/56/10100/28745

D4 Marta Burgay e la scoperta della prima pulsar doppia

Astronomia.com intervista Marta Burgay, giovanissima scienziata italiana che ha scoperto la prima pulsardoppia ottenendo il prestigioso Descartes Prize, massimo riconoscimento europeo per la ricerca scientifica.

Abbiamo incontrato Marta Burgay in occasione di una conferenza tenutasi all’Università di To-rino. Le ospiti intervenute erano due ricercatrici molto particolari. La prima, Jocelyn Bell Burnell,scoprì, quando era ancora studente di astronomia, le pulsar, la cui individuazione valse il premioNobel al relatore della sua tesi, il professor Anthony Hewish. La seconda ricercatrice, Marta Bur-gay, appunto, è invece una giovanissima scienziata italiana che ha scoperto la prima pulsar dop-pia. In seguito a tale risultato ha già ottenuto il prestigioso Descartes Prize, massimo ricono-scimento europeo per la ricerca scientifica. Queste astronome hanno ottenuto i loro risultatiscientifici a distanza di 40 anni l’una dall’altra, ma se molto è stato detto e scritto di Jocelyn BellBurnell, siamo curiosi di conoscere l’astronoma Marta Burgay.

Dalla Valle d’Aosta all’Osservatorio di Cagliari, passando per Bologna. Può riassumerci le tappedel suo percorso professionale di scienziata o meglio di radioastronoma?

Ho vissuto ad Aosta, dove ho frequentato il liceo classico, fino ai 18 anni. Al momento di scegliereun’università avevo le idee piuttosto confuse. L’unica cosa che sapevo era di voler andare a Bo-logna, città che amo moltissimo e che conoscevo fin da piccola. La scelta dell’astronomia inveceè stata abbastanza casuale, non il frutto, come spesso accade in questo campo, di una passionespecifica. Ho passato a Bologna 8 anni e mezzo nei quali mi sono laureata e dottorata in astro-nomia sotto la supervisione del Prof. Fanti lavorando con Andre Possenti e Nichi D’Amico, coiquali tutt’ora collaboro. Alla fine del dottorato ho avuto la fortuna di vincere un posto da ricer-catrice presso l’osservatorio astronomico di Cagliari dove ormai lavoro da quasi 4 anni.

Può parlarci delle pulsar e quando ha iniziato a studiarle? Come mai ha focalizzato i suoi inte-ressi scientifici su questi particolari oggetti? Curiosità, casualità o altro?

Anche in questo caso la mia scelta è stata, in parte, guidata dal caso. Avevo studiato le pulsar nelcorso di radioastronomia del Prof. Fanti e mi avevano incuriosita. La scelta definitiva dell’argo-

11 Central Bureau for Astronomical Telegrams (CBAT) responsabile per la diffusione di informazioni su eventi astronomici sottol’egida dell’Unione Astronomica Internazionale (IAU).

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mento è però avvenuta dopo aver assistito a un seminario del Prof. D’Amico su un esperimentodi ricerca di pulsar col radiotelescopio australiano di Parkes, seminario al quale sono capitata pas-sando casualmente di fronte all’aula nel quale si teneva.

Durante la sua tesi di dottorato, quando si trovava in Australia ha scoperto la prima pulsar dop-pia, può ricordarci come e quando è accaduto questo evento? Lo reputa un caso di serendipityscientifica12 come per la prima pulsar?

La pulsar doppia è stata un “sacro Graal” nel campo della ricerca dei cosiddetti oggetti compattifin dalla scoperta del primo sistema binario contenente una pulsar (che valse agli scopritori Tay-lor e Hulse il premio Nobel della fisica nel 1993); non si può quindi parlare di scoperta serendi-pita in questo caso.

Anzi, uno degli scopi principali del mio progetto di dottorato, una ricerca di pulsar su vasta scalanel cielo australe, era proprio quello di trovare oggetti peculiari, magari addirittura una pulsarche orbitasse attorno a un buco nero (il prossimo Graal, probabilmente). Una considerevole partedel mio lavoro, all’epoca, consisteva nella scrupolosa analisi di una enorme mole di dati e nellavisualizzazione di centinaia di migliaia di grafici tra i quali scovare i pochi e deboli segnali realiprovenienti dalle pulsar. Verso la fine del mio secondo anno di dottorato mi trovavo a Sydney perlavorare sui risultati dell’analisi di alcuni dati raccolti al radio telescopio di Parkes. Ricordo cheil giorno in cui ho scovato il segnale della prima della pulsar doppia a Sydney era tardo pome-riggio e le vacanze di Pasqua si avvicinavano: cercavo qualcuno cui mostrare la mia scoperta main istituto non c’era praticamente nessuno e in Italia era notte fonda!

La pulsar doppia era un oggetto previsto teoricamente? Ora ne sono state scoperte altre? At-tualmente quali modelli vanno per la maggiore per comprendere meglio questi oggetti moltoparticolari?

Come dicevo l’esistenza di una pulsar doppia era stata teorizzata fin dal 1973, con la scopertadella prima pulsar in un sistema binario a opera di Taylor e Hulse. Oggi conosciamo poco più diun centinaio di pulsar che orbitino attorno a un’altra stella e di queste soltanto 8 (forse 9) hannocome stella compagna una seconda stella di neutroni [le pulsar sono stelle di neutroni – cadaveridi stelle, in sostanza – peculiari, che emettono un debole e regolare segnale periodico]. Tra que-sti 8/9 oggetti la pulsar doppia rappresenta un unicum: è l’unico caso infatti in cui possiamoosservare entrambe le stelle pulsare.

Ora è una giovanissima ricercatrice, con alle spalle un’importante scoperta, pensa che questopossa influire sulle future scelte professionali? La scoperta l’ha accolta come sprone per ulte-riori studi nello stesso campo o le ha dato modo di riflettere, ad esempio, per ampliare i suoicampi di ricerca? Ora quali sono i suoi attuali e futuri programmi professionali?

Sicuramente proseguirò lo studio della doppia pulsar che promette di aprire nuovi orizzonti per

12 Alla metà del 1700 l'inglese Horace Walpole – figlio del più famoso primo ministro Sir Robert – spiegava all'amico Horace Mannil significato del termine serendipity, da lui coniato dopo aver letto la favola dei Principi di Serendip. La favola narra le avventuredi tali principi, che durante i loro viaggi alla ricerca di oro non facevano altro che scoprire nuove cose, in modo del tutto casuale.La serendipity scientifica indica la capacità di scoprire qualcosa che non ha nulla a che fare con ciò che si stava cercando, l’impre-visto porta così alla scoperta casuale e al progresso in campo scientifico. Sono moltissime le scoperte dovute alla serendipity chehanno modificato la nostra vita in modo sostanziale e definitivo. Così Alexander Fleming scoprì la penicillina e l'aspartame, il piùdiffuso dei dolcificanti,è arrivato a noi grazie all’errore di un cuoco americano, tale George Crum.

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la comprensione della gravità relativistica e dei modelli di emissione di energia da parte dellepulsar. Questa scoperta, avendo implicazioni in molteplici campi della fisica, mi spinge a am-pliare i miei studi in direzioni che altrimenti probabilmente non avrei approfondito.

Quali vantaggi pratici le ha procurato questa scoperta a inizio carriera? (Ad esempio facilità nelreperire fondi, ecc.) E quali, se esistono, svantaggi ha subito? Dal punto di vista scientifico unascoperta di tale rilevanza le ha assicurato una maggiore visibilità nel panorama internazio-nale che si traduce in richieste di ulteriori collaborazioni o sono le menti ancora più giovani acontattarla per lavorare con lei?

È innegabile che una tale scoperta abbia arricchito il mio curriculum dando a me e al gruppo in-ternazionale in cui lavoro – da cui sicuramente non posso e non voglio prescindere – una grandevisibilità. Reperire fondi è, tuttavia, sempre complicato, specie in Italia dove troppo poco si puntasulla ricerca.

Che effetto le ha fatto trovarsi allo stesso tavolo con la scopritrice delle pulsar, Jocelyn BellBurnell? Le è parso come un passaggio del testimone o cos’altro? Ha avuto modo di collabo-rare precedentemente con lei o le sarebbe piaciuto? Sulla base dei suoi studi, fra un po’ ditempo pensa che si potrebbe ripetere la stessa conferenza, dove i protagonisti o le protagoni-ste potrebbero essere lei e un futuro o futura scopritrice sempre nel campo delle pulsar?

È stata una bella emozione! Avevo incrociato la Professoressa Bell Burnell a qualche conferenza,in precedenza, ma non avevo mai avuto prima l’occasione di parlarle; mi è parsa una persona ar-guta e cordiale ed è stato un grande onore per me essere invitata a partecipare a questa tavolarotonda con lei. Quanto all’idea di una conferenza futura, beh, sarei davvero molto presun-tuosa a vedere me stessa nel ruolo che oggi è di Jocelyn Bell Burnell, ma sicuramente auguro allescienziate delle future generazioni (e a me stessa!) di fare scoperte sempre più eccitanti e im-portanti.

Nella sua regione di origine, in Valle d’Aosta, si trova un giovane e attivo Osservatorio Astro-nomico Regionale, nato con obiettivi divulgativi, ma ora anche impegnato in collaborazioniscientifiche professionali. Di solito questi osservatori sono muniti di telescopi ottici; secondo leipotrebbe essere interessante e fattibile in queste realtà includere strutture e strumenti per laradioastronomia?

Sarebbe molto interessante, sia da un punto di vista didattico/formativo che scientifico, speciedata la posizione isolata e al riparo da interferenze elettromagnetiche di Saint-Barthélemy. So chetempo fa si era in effetti discussa la possibilità di installare una piccola antenna per la radio astro-nomia a fianco dei telescopi ottici e spero che il progetto stia andando avanti.

a cura di GABRIELLA BERNARDI pubblicato in Interviste il 13 marzo 2008 alle 09:10 http://www.astronomia.com

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LA STORIA DELLA GALASSIA DALLA CHIMICA STELLARE

Come il DNA o le impronte digitali individuano univocamente una specie, è così anche per una classedi stelle: il DNA delle stelle non è che il suo spettro. I fossili ci permettono di ricostruire la storia della vitasulla Terra, così come la luce e la presenza di elementi chimici che possiamo leggere negli spettri ci per-mettono di ricostruire la storia della nostra Galassia.

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E1 Fingerprinting the Milky Way. Chemical Composition of Stars in Clusters can tellHistory of our Galaxy

Using ESO’s Very Large Telescope, an international team of astronomers has shown how to use the chemicalcomposition of stars in clusters to shed light on the formation of our Milky Way. This discovery is a funda-mental test for the development of a new chemical tagging technique uncovering the birth and growth of ourGalactic cradle.

The formation and evolution of galaxies, and in particular of the Milky Way – the ‘island universe’in which we live, is one of the major puzzles of astrophysics: indeed, a detailed physical scenariois still missing and its understanding requires the joint effort of observations, theories and com-plex numerical simulations. ESO astronomer Gayandhi De Silva13 and her colleagues used theUltraviolet and Visual Echelle Spectrograph (UVES) on ESO’s VLT to find new ways to addressthis fundamental riddle.

«We have analysed in great detail the chemical composition of stars in three star-clusters and shown that eachcluster presents a high level of homogeneity and a very distinctive chemical signature,» says De Silva, whostarted this research while working at the Mount Stromlo Observatory, Australia. «This paves theway to chemically tagging stars in our Galaxy to common formation sites and thus unravelling the history ofthe Milky Way», she adds.

«Galactic star clusters are witnesses of the formation history of the Galactic disc,» says Kenneth Freeman,also from Mount Stromlo and another member of the team. «The analysis of their composition is likestudying ancient fossils. We are chasing pieces of galactic DNA!».

Open star clusters are among the most important tools for the study of stellar and galactic evo-lution. They are composed of a few tens up to a few thousands of stars that are gravitationallybound, and they span a wide range of ages. The youngest date from a few million years ago, whilethe oldest (and more rare) can have ages up to ten billion years. The well-known Pleiades, alsocalled the Seven Sisters, is a young bright open cluster. Conversely, Collinder 261, which was thetarget of the present team of astronomers, is among the oldest. It can therefore provide usefulinformation on the early days in the existence of our Galaxy.

The astronomers used UVES to observe a dozen red giants in the open cluster Collinder 261, lo-cated about 25,000 light years from the Galactic Centre. Giants are more luminous, hence they

13 Gayandhi De Silva, astrofisico dell’Osservatorio di Monte Stromlo (MSO) che si trova appena fuori di Canberra, in Australia, fel-low dell’ESO, un’organizzazione per la ricerca astrofisica europea che si occupa in particolare dell’osservazione del cielo che si vededall’emisfero australe.

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are well suited for high-precision measurements. From these observations, the abundances of alarge set of chemical elements could be determined for each star, demonstrating convincinglythat all stars in the cluster share the same chemical signature.

«This high level of homogeneity indicates that the chemical information survived through several billion years,»explains De Silva. «Thus all the stars in the cluster can be associated to the same prehistoric cloud. This cor-roborates what we had found for two other groups of stars».

But this is not all. A comparison with the open cluster called the Hyades, and the group of starsmoving with the bright star HR 1614, shows that each of them contains the same elements in dif-ferent proportions. This indicates that each star cluster formed in a different primordial region,from a different cloud with a different chemical composition.

«The consequences of these observations are thrilling» says Freeman. «The ages of open clusters cover the en-tire life of the Galaxy and each of them is expected to originate from a different patch of ‘dough’. Seeing howmuch sodium, magnesium, calcium, iron and many other elements are present in each star cluster, we are likeaccurate cooks who can tell the amount of salt, sugar, eggs and flour used in different cookies. Each of them hasa unique chemical signature».

The astronomers will now aim to measure the chemical abundances in a larger sample of openclusters. Once the “DNA” of each star cluster is inferred, it will be possible to trace the genealogictree of the Milky Way. This chemical mapping through time and space will be a way to test the-oretical models.

«The path to an extensive use of chemical tagging is still long» cautions De Silva, «but our study shows thatit is possible. When the technique is tested and proven we will be able to get a detailed picture of the way ourGalactic cradle formed».

http://www.eso.org/public/outreach/press-rel/pr-2007/pr-15-07.html

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VIA LATTEA: FISICA E OLTRE

Da sempre gli uomini sono stati sedotti dalla presenza misteriosa del cielo, e di generazione in genera-zione lo hanno osservato nelle lunghe notti buie, prima dell’avvento della tecnologia. Quante cose cihanno visto con la loro fantasia, in quanti modi differenti hanno rappresentate le stelle usando tutta laloro creatività! Forse il cielo stellato è la realtà più osservata e ancora oggi la meno “scontata” di tuttociò che ci circonda.Per questo da sempre l’uomo la sente così vicina anche se così “lontana”.

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F1 I “chicchi” dal cieloLa Via Lattea ha sempre affascinato l’uomo, suscitandone la curiosità e l’immaginazione, alla ricerca di in-terpretazioni, spiegazioni e significati. La sua esplorazione non ha occupato solo gli scienziati: filosofi, poeti,pittori, musicisti hanno sfoderato tutti i loro strumenti conoscitivi per tentare di decifrare il messaggio con-densato nella bianca striscia che solca il cielo notturno. Nella mitologia delle più antiche civiltà, così come nellediverse rappresentazioni artistiche, affiora il presentimento che quei segni lontani narrino una grandiosa sto-ria, importante per l’uomo e connessa alla sua stessa vita e morte. Sorprendentemente, la recente ricerca astro-biologica, seguendo la strada della scienza, conferma quella antica intuizione: la nostra Galassia è un luogoospitale, e la nostra posizione in essa, nello spazio e nel tempo, è una “nicchia” privilegiata, particolarmentefavorevole alla vita.

Dal sogno di Scipione a quello di Carlomagno, dalla turbolenta Notte stellata di Van Gogh ai tor-menti del film di Buñuel, passando per i Canti di Castelvecchio di Pascoli. La Via Lattea non è solouna grande striscia bianca che si offre alla paziente osservazione degli astronomi: è una compo-nente della storia umana e, nel corso dei secoli, si è intrecciata con le espressioni artistiche e leconcezioni cosmologiche di molti popoli.Gli antichi, molto più di noi, erano abituati a “leggere” il cielo cercandovi messaggi e significati:non stupisce quindi che quel percorso celeste così ben distinto dagli altri astri distribuiti ca-sualmente, potesse diventare rivelatore del destino futuro per Scipione Emiliano, nel De re publicadi Cicerone; o dare indicazione a Carlomagno, invitato da san Giacomo a liberare dall’occupa-zione araba il cammino sottostante la Via Lattea e che conduce alla sua tomba a Compostela, perpermettere ai fedeli di recarvisi in pellegrinaggio. Ma i riferimenti artistici e letterari non si limitano alla cultura occidentale. Va dato merito al-l’astrofisico Francesco Bertola aver recuperato e raccolto nel bel volume Via Lactea (Biblos, 2003)testimonianze testuali e iconografiche dalle civiltà più diverse con suggestive interpretazioni delcielo notturno solcato dalla nostra Galassia. Scopriamo così che per i beduini del Nord Africa laVia Lattea è il “Sentiero della portatrice di paglia”; mentre in Armenia è la “Via del ladro di pa-glia”, sulla base di antichi racconti popolari. Per la tribù Cherokee del sud-est degli Usa le mac-chie bianche che punteggiano la Via Lattea sono chicchi di grano, protagonisti di un’altraleggenda; e nel disegno che decora il tamburo di uno sciamano del popolo Evenki, nel nord-estdella Siberia, si riconosce la migrazione degli uccelli che seguono la via indicata dalla costella-zione del Cigno, orientata a sud lungo la Galassia che è detta appunto “Via delle oche selvatiche”.Se quella della strada è una delle raffigurazioni più diffuse, altri simboli caratterizzano la ViaLattea. A cominciare dal latte (in greco to gala, da cui galassia), citato in un frammento di Par-menide e ripreso da Ovidio nelle Metamorfosi col classico racconto mitologico di Giunone che al-latta Ercole: un soggetto privilegiato dei pittori rinascimentali e immortalato da Tintoretto e

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Rubens. Altre civiltà ricorrono alla simbologia del fiume: come in Egitto, dove la Via Lattea eravista come una sorta di trasposizione in cielo del Nilo; o in India, dove era descritta come il Gangeceleste. Molte insistono anche sul motivo ciceroniano della Galassia come dimora della anime deidefunti. Ciò che più sorprende è che questa, come altre interpretazioni, siano presenti in popolie culture così diverse e così lontane tra loro. A indicare una tensione e una dinamica unitaria chedomina l’uomo quando si pone gli interrogativi fondamentali sulla realtà e sulla trama ordinatache connette tutte le cose tra loro e col soggetto delle domande. La ricerca di un legame con l’oggetto dell’indagine è anche il movente profondo del lavoro scien-tifico. È ciò che ha spinto Galileo a puntare in alto il suo cannocchiale e, per primo, a descriverela Via Lattea come una moltitudine di stelle (oggi sappiamo che sono più di cento miliardi); e cheha sostenuto Herschel nella compilazione di un catalogo di circa 2500 nebulose. Gli scienziati hanno comunque faticato per raggiungere una comprensione del fenomeno ViaLattea e la ricerca è tutt’altro che conclusa. Solo alla metà dell’Ottocento, il Conte di Rosse ha ot-tenuto la prova osservativa che molti oggetti celesti classificati come “nebulose” erano galassieesterne alla nostra. E poco prima del 1930, mentre Chagall si preparava a dipingere La scala diGiacobbe (altra antica denominazione della Via Lattea), all’Osservatorio di Mount Wilson, EdwinHubble ha avuto la conferma sperimentale che le galassie si allontanano con una velocità pro-porzionale alla distanza. È stato proprio il telescopio spaziale che porta il suo nome, sullo scor-cio del XX secolo, a spalancarci i confini dell’universo ben al di là della nostra galassia.Gli studi sulla nostra periferia cosmica non si sono però fermati ed è riemerso il leit motiv disempre: la domanda sul nostro posto nel cosmo. Ecco che nel 1999 tre astrobiologi (Brownlee,Gonzalez e Ward) hanno individuato una striscia nella striscia galattica: quella che, per una con-vergenza di condizioni, definisce i luoghi in grado di ospitare la vita, situati né troppo vicino nétroppo lontano dal centro della galassia. L’hanno chiamata Galactic Habitable Zone (GHZ) el’hanno presentata su Scientific American come una nicchia che ha custodito nel tempo quel“luogo privilegiato” che è la Terra; da dove scienziati, poeti e artisti continuano a dialogare colcielo.

MARIO GARGANTINI, in Avvenire, 3 agosto 2006

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BIBLIOGRAFIA

E. BELLONE, Le stelle e la loro storia, in Storia della scienza, diretta da Paolo Rossi, vol. III, pagg. 833-857, Torino, UTET,1989Una bella sintesi delle conoscenze sperimentali e teoriche dal diagramma H-R alla previsione dei buchi neri.

GRISETTI PAOLA, IOTTI PATRIZIA, PELLEGRINI MARCO, Alla ricerca di nuovi cieli, in “Emmeciquadro”, n. 02, giugno 1998, pagg. 87-89

JEAN-PIERRE LUMINET, L’invenzione del big bang. Storia dell’origine dell’Universo, trad. di L. BUSSOTTI, Bari, Dedalo, 2006Come tiene giustamente a sottolineare uno dei maggiori fisici italiani, Carlo Bernardini, nella prefazione al volume,la cosmologia «è la scienza dell’Universo nel suo insieme e nella sua storia: dunque è anche la scienza dello spa-zio e del tempo, nel loro rapporto con le entità fisiche che in essi abitano. Occuparsi dei problemi cosmologici puòapparire un atto di megalomania intellettuale o di smisurata presunzione; le idee della cosmologia confinano, finoa lambirle, con le mitologie più antiche e più popolari, rischiando di scontrarsi con le credenze più istintive degliesseri umani».Il Big Bang è una delle poche teorie scientifiche ad aver ottenuto una consacrazione popolare. La sua doppia na-tura di teoria scientifica e di racconto quasi mitologico dell’origine dell’Universo è una conseguenza logica dellasua doppia discendenza, da un matematico russo, Aleksandr Friedmann, e da un sacerdote belga, Georges Le-maître. A loro si aggiunge, negli anni ‘50, l’eclettico fisico George Gamow, che trasformerà il Big Bang in una teo-ria accreditata. Questa storia appassionante, ma ampiamente ignorata dalla storia della scienza, viene ripercorsasulla base dei testi originali dei suoi protagonisti da un astrofisico che segue con successo la via aperta da tali pio-nieri.

MARIO RIGUTTI, Storia dell’astronomia occidentale, Firenze, Giunti, 1999Scopo di questo libro è comunicare le idee, le fantasie, le invenzioni, a volte le “follie” che stanno dietro al l’in-cessante sforzo dell’uomo di costruirsi un quadro dello straordinario mondo che lo circonda.Il volume, inoltre, è anche la testimonianza di un legame affettivo nei confronti di una scienza che l’autore ha col-tivato per molti anni, scienza che sta oggi raccogliendo un numero sempre maggiore di appassionati. L’evolversidell’astronomia viene qui presentato nel suo lungo percorso, dalle cosmogonie babilonesi ed egizie alle riflessionisull’Universo operate dal pensiero greco classico, dagli intrecci tra astrologia e alchimia alla rivoluzionaria ripresadel problema con un ribaltamento delle teorie precedenti in epoca rinascimentale e nei secoli successivi, fino allostraordinario impulso alle ricerche consentito, in epoca contemporaneo, dall’uso di nuove tecnologie: telescopi, sa-telliti, sonde e navicelle spaziali. Rivivono anche i personaggi che hanno “fatto” l’astronomia così come oggi loconosciamo: Tolomeo, Archimede, Galileo, Copernico, Keplero, Newton, Einstein.

ALESSANDRA TARABOCHIA CANAVERO, Vorrei Parlarti Del Cielo Stellato: Un Viaggio Tra Filosofi E Poeti, Letterati E Ar-tisti Alla Scoperta Dell’armonia, Simonelli Editore, Milano, 1999Il libro è una raccolta di lettere che raccontano il viaggio dell’autrice, docente di filosofia all’Università Cattolica delSacro Cuore di Milano, alla scoperta dei diversi modi dell’uomo di “guardare le stelle”. Il paragone tra i diversi modidi stare di fronte alle stelle, sempre ricondotto all’esperienza personale dell’autrice, è un interessate spunto di ri-flessione sulle domande di significato di fronte a uno dei più affascinanti spettacoli naturali: il cielo stellato.

CHRISTOPHER WALKER, L’astronomia prima del telescopio, Bari, Dedalo, 1997La disposizione delle stelle nelle costellazioni e la regolarità del loro moto celeste hanno affascinato il genere umanofin dall’antichità. Partendo da un esame dettagliato delle osservazioni effettuate nell’antichità e dei vari strumentiastronomici, vengono successivamente analizzate le ripercussioni indotte dallo sviluppo delle scienze matematichee delle tecniche di misura sull’astronomia in quanto disciplina scientifica, delineando inoltre un quadro descrittivo delleprime formalizzazioni della cosmologia, dalla Cina alle Americhe, dall’Africa all’Australia. Questo volume, scritto daalcuni fra i più autorevoli esperti del settore, rappresenta una fonte essenziale di informazioni per chi vuole adden-trarsi e capire gli sforzi fatti nel passato per consegnarci una visione corretta della volta celeste.

A che tante facelle? La Via Lattea tra scienza, storia e arte, Edizioni SEED-Scienza educazione e didatticaCatalogo della mostra curata da Euresis e presentata al Meeting per l’Amicizia tra i popoli 2006. Il volume riunisce, senza pretesa di esaustività, una selezione di testi, documenti e contributi.

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SITOGRAFIA

Una piccola selezione commentata di ciò che si può reperire nel web

I siti più istituzionali sull’argomento:

http://www.asi.it/SiteIT/Default.aspx ASI, Agenzia Spaziale Italiana

http://www.esa.int/esaCP/Italy.html ESA, (European Space Agency) Italia

http://www.aavso.org/ The American Association of Variable Star Observers

http://www.nasa.gov/centers/goddard/home/index.htm GSFC, Goddard Space Flight Center

http://www.stsci.edu/resources/ HST, Hubble Space Telescope

http://www.iau.org/ IAU, International Astronomical Union

http://www.cfa.harvard.edu/education/ Harvard-Smithsonian, Center for Astrophysics

http://www.jpl.nasa.gov/ Jet Propulsion Laboratory, Pasadena

http://www.nasa.gov/audience/forstudents/index.html Nasa Space Link (per gli studenti)

http://www.sait.it/ Società Astronomica Italiana

http://seds.lpl.arizona.edu/ Students for the Exploration and Development ofSpace, Arizona

http://www.planetary.org/home/ The Planetary Society

http://www.uai.it/web/guest/home UAI, Unione Astrofili Italiani

http://www.cv.nrao.edu/fits/www/astronomy.html

Certamente da visitare AstroWeb (momentaneamente sospeso l’aggiornamento): il più grande archivio di astro-nomia e astrofisica nel mondo, dove è possibile trovare ogni sorta di informazione relativamente all’astronomiae l’astrofisica.

http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Astronomia

Il Portale Astronomia ha l’obiettivo di occuparsi di tutto ciò che riguarda la nostra conoscenza dello spazio e delleleggi fisiche che lo governano e comprende aree comuni con la fisica, quali l’astrofisica e la cosmologia.

http://astrolink.mclink.it/ita_www.htm segnala alcune risorse inerenti l’astronomia in Italia.

Alcune riviste di livello amatoriale, con articoli brevi ma interessanti, che sono reperibili in rete:

http://www.lastronomia.it/

http://www.coelum.com/

http://www.cieletespace.fr/

http://www.skyandtelescope.com/

Le riviste “professionali” presenti in rete:

http://www.journals.uchicago.edu/toc/apj/current

http://journals.aas.org/

http://www.physicstoday.org/

http://www.nature.com/index.html

E, per finire:

http://www.pd.astro.it/stelle/

Prendi le Stelle nella Rete! Bellissimo sito per curiosi, appassionati, adulti e bambini, ricco di spunti di ogni ge-nere, particolarmente interessante per la didattica intelligente dell’astronomia e dell’astrofisica perché ricco dimateriale immediatamente fruibile.

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http://osservareilcielo.astrofili.org/spettri.htm

sito della Sezione di Spettroscopia della Unione Astrofili Italiani.

http://spettroscopia.uai.it/_APPLICAZIONI/Stelle0/Stelle0.htm

sito dedicato alla spettroscopia astronomica e alla sua storia, con l’obiettivo ambizioso di farlo crescere gradual-mente e farlo diventare una piazza comune di dibattito per tutti coloro che hanno esperienza o anche solo inte-resse nell’argomento e che ritengono poter dare un contributo alla storia, alla teoria e alla tecnica spettroscopica.Riporta, oltre la storia, anche le fondamentali spiegazioni dei principi fisici che sono alla base della spettroscopia.Nel sito sono indicati numerosi riferimenti bibliografici utili.

http://xoomer.alice.it/ggsbel/

curato da Pierfranco Bellomo è un sito dedicato alla fisica della luce, alla spettroscopia e alla sua Storia, partendodai pionieri quali Fraunhofer, Padre Angelo Secchi, William Huggins, fino alla classificazione spettrale di Harvardad opera di Charles Edward Pickering e collaboratrici. Nel sito vi sono anche alcune pagine di teoria atomica clas-sica che spiegano l’origine delle righe spettrali prodotte dall’emissione e dall’assorbimento dei fotoni da partedegli atomi. Vi è anche una parte di ottica dove sono descritti i fenomeni ondulatori che avvengono nei reticolidi diffrazione e vengono illustrati i diversi schemi di montaggio degli spettroscopi.

http://www.astrosurf.com/buil/us/book2.htm

The Spectro Bookmarks: catalogo di siti amatoriali, didattica, teoria, software utili e siti commerciali, un mondointeressante per scoprire l’universo che ci circonda.

http://www.astrosurf.com/buil/us/book.htm

The Astro Bookmarks: asteroidi, comete, supernovae, stelle doppie, sole, pianeti, ma anche osservatori, rivistespecializzate, database, insomma un catalogo vasto e davvero interessante.

http://www.itgsecchi.it/archivio progetti/astronomiaangelosecchi/secchi/index.html

il sito propone il contributo italiano alla storia dell’astronomia attraverso la figura e l’opera di Padre Angelo Secchi.

http://www.astronomiaamatoriale.it/

Astrofili Roma Est. Quando si dice il caso! Tre astrofili si sono trovati ad abitare praticamente nello stesso quar-tiere (zona Roma Est), anzi per maggiore precisione due nello stesso palazzo!!Dopo anni che ci “frequentiamo” e “condividiamo” questa passione è sorta spontanea l’esigenza di creare uno spa-zio sul Web dove mostrare i nostri lavori di astronomia amatoriale, di sperimentazioni e strumentazione.Tutto questo con la voglia e la speranza di poter continuare a crescere e imparare.

http://www.lightfrominfinity.org/index.htmsito curato da Fulvio Mete, uno spettroscopista italiano, che ha acquisito spettri solari e stellari di eccellente qua-lità, è molto conosciuto per le sue autocostruzioni di spettroscopi e telescopi di cui ci rende partecipi i visitatoridel sito.

http://www.lestelle-astronomia.itLe Stelle è una rivista di cultura astronomica. Esce con cadenza mensile, nella settimana precedente il mese diriferimento, per consentire la programmazione delle attività osservative. Il lettore di riferimento, tuttavia, non èsolo l’osservatore amatoriale del cielo. Il pubblico a cui Le Stelle si rivolge è l’uomo di cultura, che non fissa con-fini per la propria curiosità, che si pone le domande più profonde e che chiede alla scienza di fornirgli gli elementiper una risposta razionale.

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Storia dell’osservazione del cielo• Che cosè l’astronomia• L’astronomia antica• La nuova astronomia

L’idea è un breve percorso che metta in luce la storia dell’osservazione celeste da Stonehenge aoggi. I testi di Luminet e Walker indicati in bibliografia possono costituire un buon punto dipartenza per lo sviluppo del percorso.

Astri e poeti• Dante• Leopardi• Montale

La Divina Commedia è ricca di riferimenti astronomici che rendono “reale” il viaggio di Dante, sipuò tracciare un breve percorso nelle tre cantiche, oppure solo nel Paradiso. Per Leopardi dalCanto notturno di un pastore errante dell’Asia alla Ginestra, mentre per Montale il Big Bang. Il con-fronto tra la posizione e la sensibilità dei tre poeti, ma soprattutto la messa a fuoco delle loro co-noscenze astronomiche calate nel contesto storico-scientifico della loro epoca.

Astronomia e letteratura• Leopardi• Edgar Allan Poe

Un percorso che considera l’Astronomia di Leopardi ed Eureka di Poe. Un lavoro di Cappi suwww.torinoscienza.it riguardo alla cosmologia letteraria di Poe può servire da guida, molte sonole fonti utilizzabili per Leopardi. Si può chiudere con una riflessione sull’evoluzione delle cono-scenze astronomiche e il loro ruolo nella cultura.

Arte e astronomia• Michelangelo• Van Gogh• Miró• Richard Hamilton

Il percorso vuole evidenziare la visione del cielo in alcuni pittori, quelli suggeriti sono i più noti.L’analisi di alcune opere può essere paragonata alla descrizione del cielo in astronomia, sortendoun efficace paragone tra due modi di “guardare” le stelle.

La successione di Fibonacci in astronomia, arte e musicaLa successione di Fibonacci come chiave di interpretazione matematica delle proporzioni di al-cuni quadri, opere musicali e delle proporzioni del sistema solare, dal sole alla terra e da Giove aPlutone. Un interessante modo di chiedersi se la nostra sensazione di armonia è legata a parti-colari relazioni tra numeri, rivisitando un antico, pitagorico, concetto.

Palomar e il problema della conoscenza dell’UniversoPalomar di Italo Calvino, una riflessione sulla conoscenza scientifica nel passaggio dal partico-

PERCORSI INTERDISCIPLINARI DI APPRENDIMENTO

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lare al globale, il problema della conoscenza delle stelle e dell’Universo è per Palomar fonda-mentale, si opera una riflessione sui diversi livelli di conoscenza del reale attraverso l’evoluzionedei modelli di rappresentazione: dai modelli cinematici di Eudosso, Tolomeo, Keplero a quelli di-namici di Newton fino ai modelli relativistici della relatività generale.

Alla ricerca di nuovi cieliUn percorso tra fisica, filosofia e letteratura italiana che parte dai modelli di Anassimandroe Anassimene per rappresentare il cielo e giunge alla legge di gravitazione universale qualemodello fisico newtoniano. Alcuni passi della Divina Commedia (Inferno) raccontano comeil paradigma cosmologico tolemaico renda “reale” il viaggio di Dante, in particolare il viag-gio di Ulisse. L’articolo di Emmeciquadro citato in bibliografia presenta un percorso possi-bile.

Da sempre a guardare le stelle• Leopardi “Canto notturno di un pastore errante” o “La ginestra”• Ungaretti “Stella”• Seneca “Lettera a Lucilio” (94,56)• John Keats “Bright Star”

L’evoluzione stellare: nascita vita e morte di una stella di massa data (ad esempio di piccolamassa).L’idea è un breve percorso che metta in luce i diversi approcci dell’uomo alle stelle, suggestionedi poeti di varie epoche e culture che guardando una notte stellata comunicano le loro rifles-sioni, evocando quelle del lettore, lo scienziato invece ripercorre la storia delle stelle che come gliuomini, nascono, vivono e muoiono. Il filo conduttore sta nel fatto che l’uomo è fatto per alzaregli occhi al cielo e guardare la bellezza delle stelle; non può che porsi domande, differenti a se-conda del punto di vista che sceglie, dello sguardo che porta al cielo.Il percorso può essere condotto coinvolgendo altri poeti e letterati e ovviamente dal punto divista scientifico a diversi livelli della trattazione del tema proposto.A questo indirizzo si può trovare una raccolta di testi di letteratura di varie nazionalità dedicatialle stelle: http://astrocultura.uai.it/astroarte/interpretazioni.htm.La pagina fa parte del sito ufficiale dell’Unione Astrofili Italiani

La luce e le stelle• Spettroscopia ottica: da Newton a Fraunhofer• I colori delle stelle

Reazioni nucleari e reazioni nelle stelle• Fisica nucleare: dalla radioattività naturale alla fusione• Reazioni nelle stelle: ciclo protone-protone e ciclo di Bethe

Notte stellata• Van Gogh • Osservazione notturna del cielo

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Geologia

La litosfera terrestre

A Minerali e rocce

B La classificazione delle rocce

C Dove sono le rocce sulla Terra?

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La Terra dinamica: la tettonica delle placche

A Esplorare il pianeta per ricostruirne la storia

B Percorsi concettuali per capire i fenomeni geologici

C L’avventura scientifica di Xavier Le Pichon

D Deriva dei continenti: la storia di Alfred Wegener

E Appennino e tettonica delle placche

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1 La litosfera terrestre

Sembra facile definire che cos’è la litosfera: l’involucro esterno del globo terrestre formatodi rocce solide. Tuttavia, se si cerca di capirne un po’ di più, emergono la sua complessa strut-tura e la necessità di fare riferimento a diverse discipline specifiche per elaborare un modellosintetico che spieghi al meglio come è costituita e come si modifica la parte superficiale delnostro pianeta. Per esempio, grazie a studi sismici oggi si sa che c’è una discontinuità tra crosta terrestre emantello, detta Moho perché identificata nel 1909 da Andrija Mohorovicic; e si sono tro-vati metodi per misurare con precisione lo spessore della crosta (la litosfera continentale hauno spessore di circa 100 km, quella oceanica di 50-70 km). Inoltre, come vedremo, per for-mulare un modello globale della dinamica terrestre, capace di spiegare la maggior parte deifenomeni che avvengono alla superficie della Terra, si sono studiati da diversi punti di vistai minerali, le rocce, i fossili contenuti nella litosfera, e i sedimenti che si sono accumulati nelcorso delle ere geologiche sui fondali oceanici.L’insieme delle rocce che costituiscono la litosfera è in stretto contatto con l’idrosfera e conl’atmosfera e questi tre livelli interagiscono tra loro in vario modo; per esempio, l’evapora-zione, la condensazione e la precipitazione coinvolgono la parte bassa dell’atmosfera, lemasse d’acqua (fiumi, laghi, mari) e le superfici rocciose, coperte o non coperte dai suoli edalla vegetazione.In anni recenti sono molto migliorate le tecniche di indagine dei fenomeni geologici: oggi co-nosciamo la velocità con cui hanno avuto luogo i fenomeni tettonici e superficiali e sap-piamo distinguere le diverse forze che modellano il paesaggio; grazie ai satelliti riusciamo amonitorare i movimenti verticali della superficie terrestre e utilizzando le onde sismiche riu-sciamo a rappresentare in modo analitico il modo in cui sono strutturati i sedimenti. Dunque lo studio della litosfera terrestre, in modo sempre più evidente, mette in campotutti i problemi legati all’indagine su oggetti complessi: richiede sempre e comunque un ap-proccio analitico, ma anche un atteggiamento capace di utilizzare i dati raccolti per costruiree offrire a tutti un’ipotesi interpretativa, o un modello, di tipo sintetico. Una sfida da raccogliere anche nell’itinerario di lettura proposto.

MINERALI E ROCCE

Tra la bellezza delle strutture macroscopiche e la varietà inimmaginabile delle strutture microscopichelo studioso di minerali e rocce inserisce il proprio paziente lavoro. Un argomento che a volte nella scuolaè trascurato rivela, negli appassionati racconti di ricercatori sul campo, una ricchezza di significati tuttada scoprire. Un percorso che, dall’osservazione stupita di una realtà estremamente varia, arriva finoad analizzare un fenomeno complesso come la crescita dei cristalli e a identificare le possibili relazionitra i minerali e la vita presente sulla Terra. Un percorso in cui ogni brano dice molto di più di quello cheappare a una lettura rapida, in particolare per quanto riguarda la dimensione storica della scienza: iriferimenti ai mezzi di indagine sviluppati nella seconda metà del XX secolo, gli aspetti epistemologicilegati allo sviluppo della litologia, il dibattito lungo quasi un secolo tra le teorie sulla crescita dei cristallie, infine, le prospettive attuali che mettono in relazione il mondo vivente e quello non vivente.

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A1 Il mondo dei minerali

Come nel mondo organico la vita si presenta alla nostra osservazione in una quasi infinita varietàdi forme, dagli esseri microscopici unicellulari, ricchissimi di forme e di specie, dai virus e dagli ul-travirus, fino ai grandi cetacei che solcano i mari, fino all’Uomo nella sua meravigliosa e perfettacomplessità di struttura (in una parola dalla meravigliosa complessità di una cellula vivente, finoalla perfetta coordinazione di un intero organismo, con i suoi tessuti, organi, apparati) così nelmondo inorganico, nel mondo dei cristalli, la Natura, si può dire, sembrerebbe essersi sbizzarritaa trovare una infinita gamma di specie mineralogiche una stupenda varietà di forme cristalline che,all’occhio inesperto, possono sembrare essere combinate a “caso” senza alcuna legge; se si osservaun cubo di pirite o un limpido cristallo di quarzo si resta meravigliati dalla perfetta corrispondenzadelle facce, dalla simmetria della forma, oppure dai vivaci colori di un cristallo di tormalina e ci sichiede come tali minerali possano assumere delle “strutture” geometriche così perfette che sem-brano fatte con la rigorosa precisione di un apparecchio meccanico!Ricordo che, una volta, alcuni anni fa, trovandomi in Val d’Aosta in estate, avevo raccolto lungole morene dei ghiacciai del Miage e del Près de Bar, durante le mie escursioni alpinistiche, deimeravigliosi cristalli di quarzo, di zeoliti, di granati e avevo perfino “staccato” da un enormemasso morenico, rotolato chissà da dove (da qualche cima o da qualche parete di roccia meta-morfica strapiombante suI ghiacciaio) delle fibre di asbesto lunghe più di mezzo metro; mo-strando, poi, ad alcuni villeggianti e ad alcuni amici i miei “tesori” raccolti così pericolosamentefra le insidie dei ghiacciai, stentavo a convincere i “non esperti” che tali cristalli erano veramenteopera della Natura, e che i limpidi cristalli di fluorite azzurrina o violacea esposti in certe vetrinedei negozi di Courmayeur, così si erano formati in Natura, con le loro facce cubiche od ottae-driche senza che l’Uomo le avesse artificialmente tagliate. Più difficile ancora fu cercare di con-vincere che il quarzo limpido ed affumicato e quelle “insignificanti” fibre di asbesto, che per iprofani sembravano un prodotto artificiale, erano, in realtà, ambedue dei “cristalli” nel verosenso della parola; per quelle brave persone la parola “cristallo” significava soltanto un mineralenaturale fornito di facce limpide e rilucenti; impossibile fu, poi, convincere che anche la “vol-gare” argilla, i ciottoli rotolati dai fiumi, i “sassi”, eccetera, erano costituiti ugualmente da cristallianche se piccolissimi, microscopici. Basta osservare, infatti, al microscopio polarizzatore1 unasezione sottile2 di una qualunque roccia, per convincersi che quel sasso insignificante e dall’ap-parenza così comune si rivela come un aggregato di bellissimi e piccolissimi (talvolta anchegrandi) cristalli messi in evidenza da una gamma di colori, di forme, di figure, di sfaldature, ec-cetera.[…] Oggi la mineralogia non è più soltanto una scienza descrittiva che si limita alle forme este-riori: si conoscono ormai tutte le costanti di tutti i minerali (o quasi): gli angoli fra le facce, le leggidi geminazione3 eccetera; oggi la mineralogia è essenzialmente strutturistica4, mettendo in evi-

1 Microscopio che utilizza luce visibile polarizzata (grazie a un prisma di Nicol o a lamine polaroid) e permette di osservare il di-verso comportamento ottico dei minerali; è uno strumento fondamentale per lo studio e il riconoscimento dei minerali.2 In generale, in microscopia, il termine sezione indica una fettina sottile del materiale da esaminare; per analizzare la composi-zione delle rocce una sezione sottile (spessore circa 30 mm) si prepara montando su un vetrino da laboratorio e poi lavorando conspazzole abrasive una scaglia ottenuta dal campione con un microtomo o con il laser (vedi anche brano successivo).3 Unione frequente e regolare di due o più cristalli della stessa specie legati secondo una legge di simmetria rispetto a un asseoppure a un piano (che non sono elementi di simmetria del cristallo singolo).4 La mineralogia è la scienza che identifica, descrive e classifica i minerali e ne studia le condizioni di giacitura e le modalità chehanno portato alla loro formazioni (genesi). La mineralogia generale studia le proprietà chimiche e fisiche dei minerali e si dividein morfologica, che descrive le forme, ossia studia l’abito dei cristalli sulla base delle leggi fondamentali della cristallografia, e strut-turistica, che usando la diffrazione dei raggi X, ne determina la struttura.

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denza, così, la struttura intima di un cristallo, studiandone la disposizione dei singoli atomicomponenti, nello spazio5. La mineralogia vera e propria, oggi, ha bisogno dell’apporto di variediscipline, della matematica, della fisica, della chimica, della fisico-chimica, della cristallografia,della geologia... Vi sono appositi trattati per gli specialisti che, però, non tutti possono com-prendere se non hanno delle basi, almeno elementari, di cristallografia, di chimica e di fisica.Sembra strano pensare che tutti quanti i minerali, conosciuti sulla faccia della Terra, (e ve nesono più di 5000 specie, poche veramente, in confronto alle specie degli animali e delle piante)possono raggrupparsi in sette sistemi cristallini suddivisi in 32 classi, ciascuna caratterizzata daben definiti elementi di simmetria (ad eccezione di una sola classe – la classe pedale del sistematriclino – che non ha alcun elemento di simmetria) – e che non può esistere cristallo che nonrientri in una di queste 32 classi, né sulla Terra, né in tutto l’Universo!

GIUSEPPE LENZI, Prefazione all’edizione italiana di Hellmuth Boegel, I minerali, Edizioni Mediterranee, Roma 1972

A2 La scienza che studia le rocce

La petrografia (o litologia) è la scienza che studia le rocce; essa ne ricerca la natura e la composi-zione non solo, ma ne indaga altresì la origine, e studia le trasformazioni dalle medesime subitedopo la loro formazione.Lo studio delle rocce fu dapprima compiuto dai geologi, i quali si accontentavano per lo più diun esame macroscopico affatto sommario e superficiale, attribuendo la importanza maggiorealle ricerche tectoniche e paleontologiche, molto più attraenti per la loro relativa facilità. Si puòbene affermare che la fondazione della petrografia come scienza autonoma incomincia con glistudi dell’inglese C. Sorby, che mostrarono veramente quanto profitto si potesse trarre (1856-8) dall’esame microscopico di sezioni sottili tagliate nei minerali e nelle rocce, analogamente aquanto si fa per le sezioni dei tessuti organici. Le meraviglie che questo metodo permise di sco-prire, in un mondo fino allora celato all’occhio umano, e la grande precisione dei metodi otticidestarono un tale entusiasmo, che la nuova scienza, la quale poté presto vantare tra i suoi cul-tori uomini come von Rath, Vogelsang, Zirkel, Fouque, Michel-Levy, Tschermak, Rosenbusch,per non citarne che alcuni, rapidamente prese un grande sviluppo; e numerosi ne diventaronoi proseliti, specie tra i cultori delle discipline mineralogiche, i quali meglio erano dotati per in-traprendere le non sempre facili ricerche. Ne derivò, come era inevitabile, una esagerazione disviluppo, in questo particolare indirizzo mineralogico-microscopico, tanto che molti credet-tero, erroneamente, la petrografia poter essere fine a se stessa, e sufficiente ritennero, per la co-noscenza di una roccia, studiarne, per mezzo del microscopio, la composizione mineralogica ela struttura.L’ultimo ventennio segna, anche per questa più giovane branca delle discipline geologiche, l’av-vento di uno sviluppo più equilibrato, e un ritorno ad una più larga e più sintetica visione degliscopi cui la petrografia deve tendere. Da una parte si moltiplicarono, perfezionandosi, le ricer-che chimiche analitiche, dirette a svelar non solo la composizione media delle singole rocce, male norme delle variazioni di composizione nelle diverse parti di una stessa massa, e le relazioni

5 Con un linguaggio più moderno questa frase si potrebbe riscrivere così: «Oggi la mineralogia non è più soltanto una scienza de-scrittiva che si limita a classificare i cristalli in base alle loro forme esteriori: dopo la scoperta della radiazione X (all’inizio del se-colo scorso) si è passati dalla misura delle costanti cristallografiche attraverso metodi ottici (angoli tra le facce) alla lorodeterminazione mediante metodi diffrattometrici che permettono di conoscere la struttura dei cristalli e cioè la disposizione rela-tiva degli atomi che la costituiscono».

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tra le composizioni delle differenti rocce tra loro; dall’altra, i grandi e rapidi progressi della chi-mica fisica, e in modo particolare lo studio degli equilibri nei sistemi eterogenei, e le feconde de-duzioni ricavabili dalla legge delle fasi6, vennero rapidamente trasportati e applicati nel campodella petrografia, e specialmente della petrogenesi, contribuendo notevolmente ad impartireuna serietà nuova ed un vero indirizzo scientifico ad una parte che per lungo tempo era rima-sta abbandonata alla troppo viva e sbrigliata fantasia dei geologi.Oggi lo studio di una roccia, per potersi dire completo, deve abbracciare così la composizionechimica, come la composizione mineralogica, la struttura, la forma della massa e i suoi rap-porti con le masse circostanti, i processi genetici che le diedero origine, e i processi diagene-tici e metamorfici che più tardi la trasformarono più o meno profondamente. Vari e complessisono i metodi di ricerca, i quali esigono nel petrografo una somma di cognizioni e di attitu-dini pratiche quale da poche altre scienze è richiesta; uno però lo scopo ultimo. La petrogra-fia non può e non deve dimenticare di essere una scienza geologica, cioè una scienzaessenzialmente storica; le rocce, come i fossili, sono i documenti dal cui studio analitico ilgeologo deve tentare di trarre gli elementi per la grande sintesi; studiare completamente lastoria di una roccia significa contribuire, sia pure in piccola parte, all’esaurimento del com-pito supremo di tutte le discipline geologiche: la storia della Terra. Son così da ritenersi menoproficue alla scienza le ricerche con intento esclusivamente sistematico, le quali troppo facil-mente portano alla creazione di una massa ingombrante di nomi nuovi, in una classificazionegià per sé così complessa, e così incerta nei suoi criteri, tanto variabili da uno ad altro autore,da una ad altra scuola. Né d’altra parte sono da condannare come unilaterali7 quei geologi(oggi fortunatamente diventati assai rari) i quali credono di poter senza danno fare astrazionedai risultati delle ricerche petrografiche, e dai concetti fondamentali che dallo studio dellerocce son venuti svolgendosi, per limitare le loro conoscenze alla osservazione sul terreno edallo studio dei fossili.

ETTORE ARTINI, Dalla Introduzione a Le rocce, concetti e nozioni di petrografia, Hoepli, Milano 1919 [B 4508]

6 Relazione matematica derivata dalla termodinamica che, conoscendo il numero delle fasi presenti all’equilibrio per un certo si-stema e il numero dei componenti chimici indipendenti permette di calcolare la varianza del sistema, cioè il numero delle varia-bili (pressione, temperatura, composizione delle fasi) che si possono modificare lasciando invariati il numero e il tipo delle fasipresenti.7 Negli anni in cui Artini pubblica per la prima volta il suo libro, in ambito geologico si compie il passaggio da uno studio stretta-mente descrittivo a uno studio che tiene conto delle nuove conoscenze conquistate dalla chimica e della fisica. Ma il contenutodel brano, che si sviluppa illustrando i diversi approcci, è in realtà un forte richiamo all’importanza di uno studio delle rocce chetenga conto di tutti i possibili aspetti del problema, da una parte senza frammentazioni e dall’altra senza fare riferimento esclusi-vamente a teorie svincolate dalla concretezza del mondo.

Note biografiche

Ettore Artini (1866-1928)

Professore all’Università di Pavia dal 1888 al 1893, al Museo di Storia Naturale di Milano fu prima direttore della sezionedi mineralogia (1893) e poi direttore generale dal 1912; accademico dei Lincei dal 1916. Alternò l’attività didattica allaricerca pura occupandosi soprattutto di petrografia utilizzando l’analisi chimica e cristallografica. Nel corso delle sue ricercheindividuò tre nuove specie mineralogiche: la bavenite, la bazzite e la brugnatellite. Si chiama artinite, perché a lui dedi-cato, un minerale individuato nel 1902 da Luigi Brugnatelli. L’opera da cui è tratto il brano, Le rocce, concetti e nozioni dipetrografia (1919), è stato ristampata da Hoepli fino al 1986 ed è tuttora in commercio.

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A3 La crescita dei cristalli: un ponte tra passato, presente e futuro

Ci siamo abituati, fin da piccoli, ad associare alla parola “scoperta” un concetto di evento chespesso rasenta il miracolo. È come se, d’improvviso, un mistero venisse svelato e la vita non po-tesse essere più come prima, tanto per lo scopritore quanto per chi ne ha potuto godere i bene-fici. Così è stato per le grandi scoperte scientifiche: Pasteur, i Curie, Marconi, Fleming e altriancora, per i quali la storia ha collegato un nome di persona a un’immagine di cambiamentoche ha mutato i ritmi e le modalità dell’esistenza per l’umanità intera.Ma la storia del pensiero scientifico e tecnologico non è solo caratterizzata da simili eventi: esi-stono rivoluzioni silenziose avvenute nell’arco di tempi lunghi e che sono rimaste quasi inav-vertite per tutti coloro che non fanno parte in senso stretto degli addetti ai lavori. La crescita deicristalli costituisce uno di questi eventi, sviluppatosi nell’arco di circa cinquant’anni: esso ponele sue radici all’inizio del secolo appena terminato e acquisisce un’importanza, in continua espan-sione, a partire dall’immediato dopoguerra. […]

Il ponte con le origini

Le discipline che oggi si raccolgono sotto l’ampio nome di Scienze della Terra hanno come rife-rimento centrale lo sguardo “verso ciò che è accaduto”. Le domande che vengono poste sono ine-renti al metodo scientifico: come, dove e quando è accaduto il fenomeno di cui oggi si osservanole testimonianze residue? A queste si aggiunge un’ulteriore domanda che, nel caso delle Scienzedella Terra, assume un significato di rilevante importanza: sulla base di quanto osservato per ilpassato quali leggi si possono stabilire per prevedere con un certo grado di approssimazioneeventi futuri?La ricostruzione degli eventi trascorsi è quindi essenziale. Ecco allora che nell’ambito delle scienzedella Terra la conoscenza di come i cristalli “nascono, crescono, muoiono” diventa un codice dilettura delle impronte del passato. Basti pensare che, se si eccettua il nucleo centrale e il mantelloinferiore, il volume della Terra può essere descritto in termini di cristalli di diversa specie in con-tinua evoluzione: dai meccanismi di erosione dei cristalli che costituiscono le rocce continentalie dalla loro velocità dipende (per un dato clima) la formazione dei suoli. Ma da essi dipendeanche la velocità con cui il materiale eroso e disciolto e trasportato dalle acque continentali va acostituire il sedimento marino che, subìta la diagenesi e la subduzione, rientra a fare parte del suc-cessivo ciclo.Chi avrebbe mai pensato, fino a pochi anni fa, che i meccanismi della crescita e della dissolu-zione cristallina fossero un fattore determinante nel dettare i tempi e i modi con i quali le mon-tagne spariscono e si riformano? E che i difetti dei cristalli, queste deviazioni dalla perfezioneinvisibili all’occhio umano, accelerano enormemente tutti i processi di trasformazione (crescitae dissoluzione) con ripercussioni che si manifestano a scala planetaria?Per esempio, i meccanismi della nucleazione cristallina8 hanno determinato la struttura di unaroccia ignea. Se essa si è formata da un magma che si è raffreddato in un breve intervallo di tempo(grande sovraraffreddamento o sovrassaturazione) i cristalli da cui è costituita saranno numerosi(per unità di volume) e il loro aspetto sarà spesso caratterizzato da strane morfologie (dendriti,cristalli aghiformi, tramogge9). Si tratta di una roccia vulcanica. Se essa invece è nata da un

8 È la prima fase di formazione dei cristalli: atomi sparsi in un ambiente sovrassaturo si associano in modo ordinato fino a costi-tuire un germe cristallino, in genere composto da pochissime celle elementari.9 I cristalli a tramoggia hanno le facce scavate e strutturate da gradini “in discesa”. La loro presenza indica che la nucleazione cri-stallina avviene preferenzialmente ai vertici e agli spigoli del cristallo stesso.

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magma raffreddatosi lentamente (bassa sovrassaturazione) i cristalli da cui essa è costituita sa-ranno pochi (per unità di volume) e il loro aspetto sarà generalmente equidimensionale (cristalliben formati): roccia plutonica.Quando una roccia si forma per raffreddamento da un fase fluida, molto spesso vi restano in-trappolate, sotto forma di inclusioni, delle fasi gassose o liquide. Durante il raffreddamento, al-l’interno di queste piccole bollicine (qualche micron di diametro) può avvenire unacristallizzazione, per cui noi osserveremo oggi, alla pressione e alla temperatura del laboratorio,una bolla contenente spesso tre fasi: un gas, un liquido e uno o più cristalli. Da quel microcosmodi pochi micron cubi, opportunamente sottoposto in laboratorio a un semplice trattamento ter-mico, si possono ottenere le informazioni necessarie per risalire alle condizioni di pressione etemperatura a cui l’inclusione (e quindi la roccia) si è formata.La lettura del passato continua, anche su scale di tempi più vicini a noi, esaminando la sequenzadi cristallizzazioni che sono avvenute in una qualunque grotta carsica. La forma dei cristalli checostituiscono i singoli strati di una stalagmite (o di una stalattite) e la eventuale successione deidue polimorfi cristallini più comuni del carbonato di calcio, aragonite e calcite, contengono letestimonianze (non perturbate da azioni antropiche) da cui si può partire per la ricostruzione deipaleoclimi che hanno interessato il sito di campionamento.Infine, per concludere questa parte, ricordiamo ancora uno dei tanti esempi che si potrebberoportare per documentare come lo studio della vita dei cristalli possa aiutarci a risalire verso le ori-gini.Solo da poco tempo si è sviluppato un ramo di ricerca che prende il nome di “biomineralizza-zione”: esso si occupa di tutti i processi che portano alla formazione di sostanze minerali attra-verso la mediazione dell’intervento biologico. Questa strana sintesi tra mondo biologico ea-biologico ha preso spunto dallo studio sui fenomeni di mineralizzazione che interessano lepatologie del corpo umano (litiasi10 urinaria e biliare, osteoporosi, calcificazione delle placche ar-teriose) e rapidamente si è estesa allo studio dei meccanismi che sovrintendono la formazione del-l’apparato scheletrico degli organismi marini.È di recente acquisizione (Giuseppe Falini e collaboratori, 1995) un dato di notevole interesse perla comprensione di questi meccanismi. Alcuni organismi mineralizzanti producono calcite o ara-gonite in modo selettivo: macromolecole estratte dai gusci aragonitici di alcuni molluschi por-tano alla formazione di aragonite in laboratorio quando queste stesse macromolecole vengonopreadsorbite11 su un substrato di -chitina e di una proteina della seta (fibroina); le macromole-cole estratte dai gusci di calcite favoriscono invece la formazione di calcite, operando nelle stessecondizioni di laboratorio. Qui il termine favorire non indica un fatto probabilistico, ma una“scelta” ben determinata che un organismo vivente opera selezionando un polimorfo del carbo-nato di calcio piuttosto che un altro. È come se l’organismo con il guscio ad aragonite avesse de-ciso di andare contro alle regole della termodinamica (che definiscono la calcite come ilpolimorfo stabile a temperatura e pressione ambiente), promuovendo la crescita del polimorfo“instabile” grazie alle proteine in se stesso contenute.

Il presente

Se il mondo delle scienze della Terra ha uno sguardo privilegiato verso il passato, l’intera area diricerca che va sotto il nome di “scienza” dei materiali guarda al presente e condiziona il futuro

10 Dal greco lithos, pietra, indica la formazione di concrezioni generalmente calcaree o silicee (i cosiddetti calcoli) nell’urina o nella bile.11 Mettendo a contatto due fasi p.e. solida e gassosa si ha l’addensamento di una sostanza, presente in una fase, sulla superficiedi separazione fra le due.

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dell’homo technologicus. La gran parte dei materiali più avanzati è cristallina e quindi, anche inquesto caso, la crescita dei cristalli è un pilastro portante. I materiali che si caratterizzano per illoro alto contenuto tecnologico si possono raggruppare in metalli e leghe, semiconduttori, ce-ramici e compositi, polimerici. Tanto che siano prodotti da processi di cristallizzazione dimassa12, quanto come depositi superficiali sottili, essi entrano a far parte della vita quotidianadei paesi altamente sviluppati con un impatto di rilevanza diversa. Per esempio, di grande rile-vanza nel campo dell’elettronica generale (in particolare dell’informatica), delle comunicazioni,dell’energetica; di media rilevanza nel campo dei trasporti, della sanità, dell’edilizia e dell’ali-mentazione.[…] Le dislocazioni a vite (uno dei due tipi di difetto lineare dei cristalli) sono il vero catalizzatoredella crescita, o della dissoluzione, quando il sistema è poco sovrassaturo, o sottosaturo, cioèquando esso è poco lontano dall’equilibrio. In un cristallo naturale, che è cresciuto in condizionispesso a noi sconosciute e ha subito una storia di deformazioni complessa, la densità di dislo-cazioni è molto elevata (circa 1012-1014 dislocazioni per cm2). Nei cristalli cresciuti in laboratoriotale densità può essere controllata e il metodo di controllo può essere esteso ai livelli di produ-zione industriale. Fin dalla metà degli anni Cinquanta il gruppo di ricerca guidato da R. Kai-schiev, a Sofia, riuscì a ottenere cristalli singoli di argento per elettrodeposizione13 contenenti unao nessuna dislocazione (cristallo reticolarmente perfetto). Ma la perfezione cristallina può es-sere un pregio o uno svantaggio, a seconda di ciò che si vuole ottenere; quindi chi cresce cristallideve ben conoscere di volta in volta l’obiettivo che vuole raggiungere.I metalli hanno sovente bisogno di essere molto plastici, e quindi un’alta densità di dislocazioni nonè affatto disutile; i semiconduttori, invece, hanno necessità di avere un reticolo il più perfetto possi-bile. Anche una sola dislocazione può cambiare drasticamente le proprietà elettriche o quelle elet-tro-ottiche di un dispositivo opto-elettronico o a microonde, come un LED (diodo emettitore diluce) o un LASER (amplificatore di intensità luminosa mediante emissione stimolata di radiazione).La perfezione cristallina, in questo caso, condiziona le prestazioni del dispositivo, la sua affida-bilità, la sua vita media; e tutto ciò condiziona l’efficienza di grandi sistemi quali: i ponti radio,la telefonia, le comunicazioni via satellite.Un campo in cui la crescita cristallina sta dando, oggi, buoni risultati è quello dell’alimenta-zione, come testimoniano alcuni esempi.Lo zucchero raffinato (e quindi chimicamente puro) può oggi essere prodotto a livelli di altaqualità per la nostra salute grazie alla conoscenza dei suoi meccanismi di crescita, senza l’im-piego, durante la sua produzione industriale, di sostanze “sbiancanti” nocive, con un risparmioenergetico di produzione dell’ordine del 20% e con l’eliminazione dello smaltimento dei fanghidi produzione.Il cioccolato, uno degli alimenti più diffusi sul pianeta, che ha un alto contenuto energetico inrapporto al costo di produzione, è oggi prodotto con metodi scientifici che ne garantiscono, in-sieme all’aspetto igienico, migliori proprietà termiche e meccaniche, grazie allo studio della ci-netica di crescita delle sei varietà polimorfiche in cui cristallizza il suo costituente essenziale cheè il burro di cacao.Un altro settore nel quale la crescita cristallina ha dato e dà un contributo rilevante è quello dellasanità; di questo daremo solo qualche esempio significativo.Gli emettitori e i rivelatori della sonda Doppler (utilizzata per diagnostica non invasiva) sono co-

12 Cristallizzazione in ambiente industriale, per esempio di zucchero, sale da cucina, detersivi, ecc.13 Procedimento usato per coprire superfici metalliche con strati di materiale metallico differente, ottenuto dalla fusione all’arcoelettrico fatto scoccare tra il materiale coprente, che si trova in forma di filo o bacchette e la superficie da coprire.

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stituiti da cristalli, cresciuti in laboratorio, di cui si utilizza l’effetto piezoelettrico14.Lo studio della litiasi urinaria e biliare ha compiuto notevoli progressi da quando si è comin-ciato a studiare la crescita degli ossalati di calcio, dei fosfati di calcio e magnesio, degli urati disodio, dell’acido urico, e del colesterolo, per poter conoscere le disfunzioni che portano alla loroprecipitazione e quindi per poter proporre gli opportuni inibitori di nucleazione e di crescita.Nell’ambito farmacologico: l’acido stearico, cristallizzato da opportune microemulsioni sottoforma di nanosfere, cattura, durante il processo di cristallizzazione, poche molecole di nifedi-pina (un efficace farmaco calcio-antagonista) per ogni nanosfera. In questo modo il farmacopuò essere veicolato nel circolo sanguigno e rilasciato in un definito intervallo di tempo, otte-nendo il risultato di prolungare la vita di soggetti esposti a rischi di natura cardio-circolatoria.

Un ponte verso il futuro

A distanza di mezzo secolo dai suoi primi passi (condivisi da un esiguo numero di addetti ai la-vori) la crescita dei cristalli è tuttora in espansione. Trainata da quella potente locomotiva che èl’elettronica, la crescita dei cristalli dispone oggi di due grandi riviste scientifiche internazionali,ha un suo Congresso Europeo annuale e uno mondiale ogni tre anni. Stati Uniti e Giapponesono oggi i paesi proiettati verso il dominio in questo settore, mentre alla vecchia Europa restala gloria di aver dato l’impulso primario e lo sviluppo giovanile a questa disciplina. L’onda lungadi queste ricerche ha rivitalizzato una disciplina ormai al tramonto come la mineralogia, stadando contributi crescenti alla parte più moderna della petrologia ed è entrata a pieno titolo nelmondo complesso della geochimica.Ma sono le scienze biologiche a guardare con interesse crescente ai meccanismi di crescita dei cri-stalli. L’esempio più illuminante di questa tensione verso il futuro è rappresentato dallo studiodelle macromolecole organiche e delle proteine in particolareSe si vuole determinare la struttura di una proteina con una buona risoluzione è necessario averea disposizione dei bei cristalli (il più perfetti possibile e con una dimensione dell’ordine del mil-limetro cubo): ottenere un simile risultato non è un’impresa facile e soltanto una buona cono-scenza della teoria della nucleazione e della cinetica dei cristalli consente di fare dei progressi inun’area di ricerca come questa, dall’alto contenuto strategico (al punto che tutti i governi deipaesi sviluppati investono somme ingenti per esperimenti nello spazio).E l’orizzonte non si chiude qui: lo studio dei materiali biomimetici, ossia di materiali prodottiin laboratorio allo scopo di imitare le caratteristiche di robustezza e di bellezza di ciò che la na-tura produce quotidianamente (per esempio i gusci dei molluschi) è una realtà che è appena al-l’inizio e che vede aumentare consensi a ogni piano di investimento di ricerca.

Conclusione

Questi brevi appunti non hanno la pretesa di voler rappresentare con completezza e profondità l’ar-gomento trattato. Lo scopo principale di chi li ha raccolti era duplice: portare a conoscenza di uncerto numero di docenti un aspetto della ricerca scientifica che, per il suo carattere interdisciplinare,non può trovare spazio negli insegnamenti curriculari tradizionali; destare un senso di curiosità, senon di stupore, verso una visione scientifica del mondo che, partendo da un’idea di perfezione, sitrova a dover attribuire all’imperfezione il ruolo chiave per spiegare la realtà osservabile. Tutto que-sto nel profondo rispetto per la passione di tutti coloro che in tempi lontani (ma anche oggi il fatto

14 Per piezoelettricità si intende la comparsa di cariche elettriche di polarizzazione su coppie di superfici (tra loro opposte) in cri-stalli quali la tormalina, il quarzo ecc. sottoposti a pressioni o a trazioni.

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si ripete), sono stati affascinati dalla bellezza e dalla molteplicità delle forme dei cristalli trovati innatura, e hanno provato ad affrontare il mistero della loro natura e della loro origine.Molte risposte sono state date, in termini rigorosamente scientifici, alle domande che si ponevanoi pionieri della ricerca sullo stato cristallino circa tre secoli or sono: il fiume di conoscenze acqui-site, rispondendo alle domande iniziali, si è pian piano ramificato (in direzioni non prevedibili)dando origine a nuovi filoni di ricerca e diventando nuovo supporto a linee già ben consolidate.Lo scrivente, dopo venticinque anni di operatività in questa disciplina, può testimoniare che piùil mistero sembra circoscrivibile, più appare dilatarsi (proprio grazie ai meccanismi della cono-scenza scientifica) e sfuggire al controllo. In quanto esso cresce in complessità e bellezza e le ri-sposte, per esaurienti che siano alle domande del dove, del come e del quando qualcosa succede,non fanno altro che rimandare alla domanda ultima del perché.

DINO AQUILANO, La crescita dei cristalli. Un ponte tra passato, presente e futuro,in Emmeciquadro n. 12, agosto 2001

Note biografiche

Dino Aquilano

Già Professore Associato di Mineralogia presso il Dipartimento di Scienze Mineralogiche e Petrologiche dell’Universitàdegli Studi di Torino. Attualmente Professore a contratto presso la Facoltà di Scienze MFN della stessa Università per “Cri-stallizzazione e alterazione dei materiali” per il corso di Laurea in Scienza e Tecnologia dei beni culturali e “Crescita cri-stallina” per il corso di Laurea in Scienza dei Materiali. Si è laureato in Fisica a Torino; la sua attività di ricerca si è svoltasempre nell’ambito della Crescita dei cristalli. È autore di oltre un centinaio di pubblicazioni su riviste internazionali, siaa livello sperimentale che teorico. Ha insegnato e organizzato corsi di insegnamento sulla Crescita dei cristalli in Scuolenazionali e internazionali. È referee di riviste internazionali di Cristallografia, Crescita dei cristalli e Scienza dei Materiali.

A4 I minerali e la vita

Il ruolo svolto dagli organismi viventi nella formazione dei minerali è noto da tempo e ben docu-mentato. Già il geologo abate Stoppani nel 1873 definiva la vita come “forza tellurica” e ricono-sceva che «per l’azione degli organismi secretori, stanziati su bassi fondi come nelle maggioriprofondità in numero sì grande, che tutto il fondo marino n’è ricoperto, si generano e si genera-rono delle masse calcaree, immense per estensione e spessore». Nel 1929 il grande geochimicorusso Vernadsky annotava: «Non vi è forza sulla faccia della Terra che abbia effetti più potentidella totalità degli organismi viventi». Questi sono all’origine di un grande numero di formazionidi importanza geologica, come le rocce calcaree, costituite da gusci di carbonato di calcio che l’or-ganismo si era costruito a partire dagli ioni calcio e carbonato sottratti all’acqua del mare; depo-siti sedimentari di solfuri e di solfo, legati all’attività batterica; formazioni silicee costituite da guscidi diatomee e scheletri di radiolari; coralli, ed altre formazioni ancora. Vernadsky non esita ad af-fermare: «Tutti i minerali degli strati superiori della crosta vengono creati in continuazione sottol’influenza della vita». A questi minerali vanno aggiunti quelli che negli organismi viventi svol-gono funzioni diverse: in ossa e denti dei vertebrati; nelle litiasi; nelle perle; in gusci di conchiglie,statoliti dei pesci, otoliti15 dei vertebrati; microcristalli di magnetite in uccelli migratori, generatida magnetobatteri; e così via. Una nuova disciplina è sorta, la biomineralogia, che si occupa delladescrizione dei biominerali e del ruolo degli organismi viventi, soprattutto dei batteri, nei processi

15 Statoliti e otoliti sono concrezioni di natura calcarea che si trovano negli organi dell’equilibrio di vari animali e con i loro spo-stamenti stimolano le cellule sensoriali.

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di formazione e degradazione dei minerali. A tutt’oggi si conoscono una ottantina di biominerali,metà dei quali sono carbonati di calcio (calcite e aragonite). I fosfati di calcio si ritrovano per lo piùnelle parti dure degli animali superiori. Non mancano aspetti applicativi: sono stati di recente bre-vettati procedimenti per l’estrazione di metalli da solfuri metallici e per l’arricchimento in oro me-diante il ricorso a colture opportune di batteri. È il campo delle biogeotecnologie.Per contro, hanno avuto i minerali un ruolo nell’origine della vita? Sembrerebbe di no, tanto di-stanti sono i due mondi: gli organismi viventi sono strutture complesse di tipo sistemico, ge-rarchicamente organizzate, costituite da macromolecole organiche anch’esse complesse, dotatedi proprietà specifiche, molto diverse da quelle che presentano i ben più semplici costituentiinorganici dei minerali. Tuttavia, se si parte dal principio che la vita è un risultato dell’evoluzione naturale della mate-ria, una parte degli atomi che entrano nella composizione della materia vivente deve essere statafornita dai minerali. Ad un certo punto dell’evoluzione deve essersi verificato il passaggio dal-l’inorganico, cioè dal minerale, all’organico e da questo al vivente. Il ruolo del minerale compareinfine in una forma più sofisticata, ma non meno efficiente ed indispensabile, perché, come co-stituente della crosta terrestre, contribuisce a determinare con le altre sfere geochimiche le con-dizioni favorevoli all’emergere della vita. La biosfera, concetto introdotto nel 1875 dal geologoE. Suess, risulta cioè dall’interazione fra atmosfera, idrosfera e litosfera. E poiché si danno formedi vita molto diverse tra di loro, altrettanto diverse debbono essere state nel tempo le condizionigeochimiche e chimico-fisiche che hanno consentito il nascere e lo sviluppo di queste forme. Inaltri termini, l’evoluzione biologica si innesta sull’evoluzione delle altre sfere geochimiche. Ver-nadsky fin dal 1929 annotava: «La vita non è un fenomeno accidentale esterno, ma fa parte dellastruttura e del meccanismo della crosta terrestre. A sua volta la biosfera esercita un’azione dicontrollo sulle altre sfere in modo da mantenere invariate le condizioni favorevoli». Le precedenti affermazioni sono da collocarsi nel quadro concettuale evolutivo della Terra, del cui pas-sato geologia, paleontologia e radiochimica ci consentono di tracciare una plausibile ricostruzione.Le ricerche sull’origine della vita continuano a ritmo serrato e si vanno specializzando, anche daun punto di vista teorico. [...] È un settore in rapida evoluzione, dove le novità si possono pre-sentare inaspettatamente. Fare un bilancio è difficile se non improponibile, tuttavia si possonotentare alcune considerazioni a mo’ di conclusione (provvisoria).

1. È consolidata nella comunità scientifica la convinzione che la vita sia il risultato di un pro-cesso naturale, iniziato alcuni miliardi di anni fa. Questa convinzione ha dato forte impulso allaricerca. Si sta diffondendo anche la convinzione che il fenomeno “vita” non sia limitato allaTerra, ma si sia manifestato e possa manifestarsi ovunque nello spazio ci siano acqua e ossidi dicarbonio. Per inciso, non si può non notare che questo è un argomento che si presta a facili “spe-culations” e fantasiose ricostruzioni. 2. Ai primi facili e un po’ ingenui entusiasmi, sollevati dalla sintesi di Miller, è succeduta la con-sapevolezza della enorme, stupefacente complessità del problema affrontato. Si sta facendostrada l’idea che la vita non fu mai semplice né in quanto a numero e tipo di molecole coinvolte,né in quanto alla stessa singola molecola. È stato sottolineato che la vita si muove più sull’assedella crescita della fedeltà che della crescita della complessità (Doron Lancet, 2001). 3. Siamo ancora lontani dal conoscere gli esatti processi che hanno portato all’origine della vitasulla Terra, e forse non lo sapremo mai, perché le tracce della vita primitiva sono state obliteratedagli eventi geologici. Tuttavia si stanno facendo grandi progressi nella comprensione di singoliprocessi chimici e biochimici e nella sintesi in laboratorio di materiali di rilevanza biotica.

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4. Le forme di manifestazione della vita sono molto diverse tra loro: si va dai procarioti all’uomopassando attraverso tutta una serie di organismi “intermedi”. La biosfera è molto differenziata,e interagisce con le altre sfere geochimiche. Cioè, ciascuna forma di vita si manifesta in un benpreciso contesto litologico, atmosferico e idrico che ne ha consentito l’emergenza e la preserva-zione, e a sua volta essa condiziona questo ambiente. Ad esempio, la comparsa nel Cambriano diorganismi più complessi è stata messa in relazione con il passaggio da una atmosfera ricca dianidride carbonica ad una ricca di ossigeno. Quando si verifica un cambiamento di qualche pa-rametro geochimico o geologico, la forma di vita o si adegua o si rifugia altrove o scompare. 5. Nel passaggio dall’inorganico all’organico, e da questo al vivente, è stato riconosciuto il ruoloindispensabile di certi minerali (argille, solfuri di ferro, anche zeoliti, forse quarzo) per determi-nate operazioni: catalisi delle prime reazioni di sintesi e di polimerizzazione, formazione dellemembrane primitive, controllo dei processi ossido-riduttivi e degli scambi di energia nel caso disolfuri e ferro. È probabile che i minerali argillosi abbiano svolto un ruolo importante se non de-cisivo nel favorire la costituzione di aggregati organici solidi, tenuti insieme da legami a idro-geno, che è il legame tipico delle sostanze di importanza biologica. I minerali hanno inoltre unruolo indiretto nei processi biogenetici, in quanto concorrono a stabilizzare una situazione o unambiente, entrando nei cicli geochimici degli elementi. 6. L’attenzione portata ai minerali nella questione dell’origine della vita rafforza la concezione se-condo cui si è stabilita nel tempo una stretta interrelazione tra le varie sfere geochimiche, al punto chealcuni concepiscono la Terra come un superorganismo autopoietico16 che si autoregola (ipotesi Gaia). 7. I pur notevoli successi conseguiti nei vari tentativi di sintesi di componenti (proteinoidi,membrane, ...) della cellula, che è la base degli organismi viventi, stanno forse ad indicare i limitidella concezione meccanicistica del vivente, per la cui comprensione sembra più adatta una vi-sione organicistica. Secondo questa, un organismo vivente è un tutto integrato che non si puòcomprendere studiando solo le sue parti. Nessuna di queste, cioè, possiede le proprietà del tutto.La visione sistemica sembra più soddisfacente. Il dibattito tuttavia è ancora aperto. 8. Potremo infine mai rispondere a due domande? I) La vita è stata un evento necessario, conseguente a certe premesse geochimiche, come alcunisostengono? («Le creature terrestri fanno parte necessaria di un meccanismo cosmico armoniosoin cui non esiste il caso», Vernadski, 1929; «La vita emerge inevitabilmente su ogni pianeta vul-canico ricoperto di acque che abbia una atmosfera contenente CO e CO2», M. Russel e A. Hallan,2001). Oppure, come affermano altri, è stato un evento aleatorio, discrezionale? («La vita è ap-parsa sulla Terra: qual era, prima dell’evento, la probabilità che fosse così? A priori quasi nulla»,J. Monod, 1970). In altri termini, è un fenomeno universale o è stato un fenomeno singolare? II) E poi, per che cosa ci è stata data la vita? Ma questa è già una domanda filosofica.

FRANCESCO ABBONA, I minerali e la vita, conferenza tenuta al Centro de Investigaciones en Antropología Filosófica y Cultural (Buenos Aires) nel 2002; tratto da www. ciafic.edu.ar © 2002 CIAFIC Ediciones

16 Che si costruisce da se stesso.

Note biografiche

Francesco AbbonaOrdinario di Mineralogia presso l’Università della Calabria, è ora in servizio presso l’Università di Torino, dove ricopre lacarica di Direttore del Dipartimento di Scienze Mineralogiche e Petrologiche. Laureato in Chimica presso l’Università di To-rino, ha sempre afferito all’area di Scienze della Terra. Si è occupato di mineralogia regionale e di crescita cristallina, in-dagando in particolare i rapporti tra struttura cristallina e morfologia, teorica e sperimentale. Da alcuni anni si interessadi questioni legate alla didattica; dal 2005 al 2007 è stato membro del Comitato Direttivo dell’INVALSI.

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B1 The Classification of Igneous Rocks

The classification of igneous rocks has been the subject of frequent debate and voluminous lit-erature. Over the past decade, most geologists have accepted the IUGS (International Union ofthe Geological Sciences) classification as the standard. Since this classification is being widelyadopted, it bears discussion. However, as we shall see is rather complex and best left to advancedstudents. […].

IUGS Classification

Why Do We Need to Classify Things?Carolus Linneaus proposed the first classification for biological organisms in the 18thcentury. This taxonomic classification was designed to simplify the complexity of natureby lumping together living species that shared common traits. So to classifications in theearth sciences are designed to reduce complexity. For instance, the classification of mineralsis based on common anions since minerals sharing common anions often have similarphysical properties (i.e. hardness, cleavage etc.). Rock classifications also seek to reducecomplexity. Most are what we term genetic. That means that by pigeonholing a rock in acertain group we say something about its genesis or origin. For example, aphanitic rocksare of volcanic origin while phaneritic rocks are plutonic.

LA CLASSIFICAZIONE DELLE ROCCE

Man mano che lo studio delle rocce si è sviluppato, come per le altre scienze della natura, si è fatto più im-portante l’approccio di tipo sistematico che, utilizzando diversi criteri e diversi sistemi di classificazione,permette di orientarsi di fronte alla grandissima varietà di esemplari che costituiscono la crosta terrestre.Se in termini generali si può dire che la classificazione delle rocce si basa fondamentalmente su criteri gene-tici (come si sono formate) e/o su criteri chimici (da quali minerali sono costituite) e/o sulla loro struttura(tessitura), oggi è opportuno conoscere i principali diagrammi di classificazione e le sigle che li identificano.In questo quadro è significativa la semplificazione presentata sul sito della International Union ofGeological Sciences (IUGS) che riportiamo in lingua originale.E si apre lo sguardo su una possibile applicazione della classificazione, uno schema classificativo sem-plice valido per le rocce vulcaniche e subvulcaniche che possa essere di riferimento nell’ambito del nuovoProgetto di Cartografia Geologica d’Italia (CARG).

B

Igneous rocks are classified on the basis of mineralogy, chemistry, and texture. As discussed ear-lier, texture is used to subdivide igneous rocks into two major groups: (1) the plutonic rocks, withmineral grain sizes that are visible to the naked eye, and (2) the volcanic rocks, which are usuallytoo fine-grained or glassy for their mineral composition to be observed without the use of a pet-rographic microscope. This is largely a genetic classification based on the depth of origin of therock (volcanic at or near the surface, and plutonic at depth).Let’s first examine the classification of plutonic rocks.A plutonic rock may be classified mineralogically based on the actual proportion of the variousminerals of which it is composed (called the mode). In any classification scheme, boundaries be-tween classes are set arbitrarily. The International Union of Geological Sciences (IUGS) Sub-

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commission on the Systematics of IgneousRocks in 1973 suggested the use of themodal composition for all plutonic igneousrocks with a color index less than 90 (Imageto the right). A second scheme (not shown) was proposedfor those plutonic ultramafic rocks with acolor index greater than 90. Ideally it would be preferable to use the samemodal scheme for volcanic rocks. However,owing to the aphanitic texture of volcanicrocks, their modes cannot be readily deter-mined; consequently, a chemical classifica-tion is widely accepted and employed bymost petrologists. One popular scheme isbased on the use of both chemical compo-nents and normative mineralogy. Becausemost lay people have little access to analyticfacilities that yield igneous rock composi-tions, only an outline will be presented herein order to provide an appreciation for theclassification scheme.

A Field Classification

Now that we have completely confused you,let’s look at a much simpler classification.We call this a field classification because it re-quires little detailed knowledge of rocks andcan be easily applied to any igneous rock wemight pick up while on a field trip. It utilizestexture, mineralogy and color. The latter is aparticularly unreliable property, but the clas-

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20

5

A

GRANITE

Q

SyeniteQUARTZ

MONZONITE

GRA

NO

DIO

RITE

QUARTZDIORITE

MONZONITE

Highly Modified IUGS Classificationof Phaneritic Igneous Rocks

DIO

RITE

Tonalite

35 65 90P

MONZODIORITE

IUGS Classification of Volcanic Rocks

A35 65 90

P

60

20

5

60

20

5

Q

RHYODACITE

DAC

ITE

QTZ LATITE ANDESITEQtz trachyte

Trachyte LATITE LATITE-BASALT

QTZ AN

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TE

Alka

li rh

yolit

e

Alk

ali-q

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achy

te

10Alkali trachyte BASALT

sification realizes that certain fine-grained (aphanitic) igneous rocks contain no visible mineralgrains and in their absence color is the only other available property. Students the thus cau-tioned to use color only as a last resort.To employ this classification we must first determine the rock’s texture. You might remember wehave five basic textures; phaneritic (coarse), aphanitic (fine), vesicular, glassy and fragmental (ourclassification doesn’t bother with the latter because we often term all fragmental igneous rockstuffs). Examine your rock and determine which textural group it belows to. If it is glassy, vesic-ular or fragmental you cannot determine mineralogy and hence the name is simply obsidian fora glass, tuff for a fragmental or pumice/scoria for a vesicular rock (the latter are differentiatedon the basis or color and size of the vesicles or holes). For the phaneritic and some aphanitic rocks you must determine the mineralogy. Often it isonly necessary to identify one or two key minerals, not all of the minerals in the rock. For in-stance quartz and potassium feldspar (k-feldspar) are restricted to granites and rhyolites. Am-phibole is only abundant in diorite or andesite, although minor amounts can be present in

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mineralogy. I find it in the third column (Ca-play, pyroxene) and read the name (gabbro) fromthe coarse row on the chart. Pretty simple!! Relax, when you actually begin your igneous rockidentification we will walk you through it step by step. But remember to refer to the above clas-sification diagram often as an aid.

http://geology.csupomona.edu/, giugno 2008

granite. How am I getting thesenames? Let’s take an example. I pickup my first specimen and notice thatit is distinctly coarse grained (phaner-itic). This means that it must be one ofthe rocks in the row labeled coarse (i.e.,granite, diorite, gabbro or peridotite).I next place the rock under a binocu-lar microscope and identify the miner-als plagioclase and pyroxene. I go tothe bottom row of the chart (MineralsPresent) and look for a match with my

T

Text

ure

Minerals Present

Diorite

Andesite

Granite Gabbro Peridotite

BasaltRhyoliteFine

Coarse

Pumice Scoria

Obsidian

Vesicular

Glassy

IntermediateFelsic(light color)

Mafic(dark color) Ultramafic

QUARTZK-FELDSPAR

NA-PLAG

NA-CA PLAGAMPHIBOLE

CA PLAGPYROXENE

PYROXENEOLIVINE

DOVE SONO LE ROCCE SULLA TERRA

Oggi si viaggia spesso, ma non sempre si osservano le strutture geologiche, pianure, montagne, altopiani,faglie, pieghe eccetera che fanno corona a qualsiasi itinerario, in Italia come in un paese straniero. Oc-corre riscoprire la tradizione geologica di tipo osservativo, per imparare a guardare oggi il mondo checi circonda e per scoprire che una ricerca scientifica è come un avventuroso viaggio ricco di incognite edi imprevisti. Nel diario di viaggio di Charles Darwin, nella storia di un grande esploratore come Ar-dito Desio, che ha percorso il secolo appena passato viaggiando in tutto il mondo e nel racconto di unarecente spedizione sul “tetto del mondo” per studiare da vicino il ghiacciaio Changri Nup.

C

C1 Darwin geologo in Patagonia: risalendo il Rio Santa Cruz

13 aprile Foce del fiume Santa-Cruz. Regolarità della portata del fiume, letto di ghiaia. Vallata tortuosafiancheggiata da terrazze che si innalzano in maniera regolare come dei gradini, l’una sull’altrafino alla quota massima di 500 piedi: coincidenza impressionante tra le due rive.«Il Beagle mette l’ancora all’imboccatura del Santa Cruz. Questo fiume si getta in mare a circa 60miglia a sud di Port San Julian. In occasione del suo ultimo viaggio, il Capitano Stokes lo avevarisalito per un tratto di circa 30 miglia, ma la mancanza di provvigioni l’obbligò a ritornare in-dietro. Di questo fiume si conosce soltanto ciò che è stato scoperto durante l’escursione di cuisopra. Il Capitano FitzRoy decide di risalirlo fin dove il tempo lo permetterà. Il 18 partiamo con

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tre scialuppe, portando provvigioni per tre settimane: la nostra spedizione si compone di venti-cinque uomini, una forza sufficiente per sfidare un’armata di Indiani. La marea montante ci tra-scina rapidamente, il tempo è bello, per cui facciamo una lunga tappa; presto possiamo berel’acqua dolce del fiume, e la sera ci troviamo al di sopra della punta dove si fa sentire la marea. Ilfiume prende qui l’aspetto e la larghezza che resteranno all’incirca uguali fino al punto estremodel nostro viaggio».

18 aprile Risalita del Santa-Cruz con tre barche trainate da terra dall’equipaggio; paesaggio monotono,solo arbusti spinosi.

22 aprile«Il paesaggio è sempre poco interessante. L’assoluta monotonia dei prodotti, su tutta l’esten-sione della Patagonia, costituisce una delle caratteristiche che più colpiscono in questo paese.Sulle pianure ciottolose, aride, crescono ovunque le stesse piante rinsecchite; in tutte le vallatecrescono gli stessi arbusti spinosi. [...] La sterilità si stende come una vera maledizione sull’interopaese, e l’acqua stessa, scorrendo su un letto ghiaioso, sembra partecipare a questa maledizione.Così incontriamo pochi uccelli acquatici: quale cibo potrebbero trovare in queste acque che nondanno la vita a nulla?».

26 aprile«Oggi osserviamo un cambiamento notevole nella struttura geologica delle pianure. Fin dallapartenza avevo esaminato con cura la ghiaia del fiume e, negli ultimi due giorni avevo notato lapresenza di alcuni piccoli ciottoli di basalto molto cellulare. Questi ciottoli aumentarono di nu-mero e di taglia; nessuno però era più grande della testa di un uomo. Questa mattina, invece, iciottoli dello stesso tipo, ma più compatti, tutt’a un tratto diventano più abbondanti e dopouna mezz’ora scorgiamo, a 5 o 6 miglia di distanza, il bordo angolare di un grande altopiano ba-saltico. Alla base di questo pianoro il fiume gorgoglia sui blocchi caduti nel suo letto. Per 28 mi-glia la corrente del fiume si trova ostacolata da queste masse basaltiche. Al di sopra di questolimite diventano numerosi gli immensi frammenti delle rocce primitive appartenenti alla for-mazione dei massi erratici. [...]Il basalto è puramente e semplicemente della lava che ha fluito sotto il mare; ma le eruzioni de-vono essersi prodotte su una scala ben maggiore. In effetti, nel punto in cui abbiamo osservatoper la prima volta questa formazione, essa ha uno spessore di 120 piedi; man mano che si risaleil fiume la superficie dello strato di basalto aumenta impercettibilmente e la massa diventa piùpotente, fino a diventare di 320 piedi a 40 miglia più a monte. Quale può essere lo spessore di que-sto strato ai piedi della Cordigliera? [...]È quindi nelle montagne che dobbiamo cercare l’origine di questo strato, e sono ben degni di unatale origine quei torrenti di lava che hanno fluito a distanze di 400 miglia sul fondo leggermenteinclinato del mare. Basta gettare un colpo d’occhio sulle falesie di basalto ai due lati opposti dellavallata per arrivare alla conclusione che essi dovevano, un tempo, formare un unico blocco. Qual èdunque l’agente che ha rimosso, su una distanza incredibilmente lunga, una massa solida di roc-cia dura dello spessore medio di 300 piedi, su una larghezza che varia da poco meno di 2 miglia a4 miglia? Per quanto il fiume abbia così poca potenza quando si tratta di trasportare dei fram-menti anche poco consistenti, avrebbe tuttavia potuto esercitare, nel corso delle epoche, un’ero-sione graduale, effetto di cui sarebbe difficile determinare l’importanza. Ma nel caso presente, oltre

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alla scarsa importanza di un agente come questo, si potrebbero apportare innumerevoli ed eccel-lenti ragioni per sostenere che un braccio di mare ha un tempo attraversato questa vallata.Sarebbe superfluo dettagliare, in quest’opera, gli argomenti che portano a questa conclusione,argomenti tratti dalla forma e dalla natura delle terrazze, che mostrano una disposizione comegiganteschi gradini e che occupano i due fianchi della vallata – del modo con cui il fondo dellavallata si distende in una piana a forma di baia in prossimità delle Ande, piana intramezzata dacolline di sabbia, e di alcune conchiglie marine che si ritrovano nel letto del fiume. Se non fossilimitato nello spazio, potrei dimostrare come un tempo, in questo punto, uno stretto attraver-sava l’America meridionale, simile allo stretto di Magellano, e come quello tale da unire l’oceanoAtlantico al Pacifico. Ma resta ancora la domanda: come è stato rimosso il basalto solido? Gli an-tichi geologi avrebbero fatto appello all’azione violenta di qualche spaventosa catastrofe; ma, inquesto caso, simile ipotesi sarebbe inammissibile, perché le stesse pianure disposte a gradoni eche contengono in superficie delle conchiglie attualmente esistenti fronteggiano la lunga distesadelle coste della Patagonia e circondano la vallata del Santa Cruz. Nessuna inondazione avrebbepotuto dare alla terra questa conformazione, sia nella vallata che lungo la costa, ed è certo che lavallata si è formata dopo la formazione di queste terrazze a gradinate».

4 maggio«II Capitano FitzRoy decide di non proseguire la risalita del fiume, che diventa sempre più ripido.L’aspetto del paesaggio, d’altra parte, non ci invoglia ad andare oltre. Ovunque gli stessi pro-dotti, lo stesso paesaggio desolato. Ci troviamo a circa 140 miglia dall’Atlantico e a circa 60 mi-glia dal Pacifico. La valle, in questa parte superiore del corso del fiume, forma un immenso bacinolimitato a Nord e a Sud da enormi piattaforme di basalto, e a Ovest dalla lunga catena della Cor-digliera coperta di neve. Ma è con un sentimento di rincrescimento che guardiamo da lontanoqueste montagne, perché siamo costretti a immaginarci la loro natura e i loro prodotti invece discalarle come ci eravamo ripromessi».

8 maggioRitorno sul Beagle dopo 21 giorni di spedizione. Soddisfazione per aver osservato una sezioneinteressante nella grande formazione terziaria della Patagonia.

12 maggioPartenza da Santa-Cruz.

GUIDO CHIESURA, Charles Darwin geologo, Hevelius edizioni, Benevento 2002, pagg. 75-77

C2 Esplorare paesi ignoti: il lungo viaggio di Ardito Desio

Ardito Desio (1897-2001) ha vissuto intensamente, nella lunga avventura che ha percorso tutta la storia delXX secolo, la passione per l’esplorazione, una passione che gli ha permesso di sviluppare in modo originale lasua attività di geologo e di influire profondamente anche nel mondo scientifico e accademico italiano. Le sueattività di esploratore sono note ai più per le imprese alpinistiche compiute durante le spedizioni da lui guidate,la più famosa la conquista del K2, ma molti altri aspetti hanno caratterizzato la sua ricerca e hanno accom-pagnato la sua opera di divulgazione e formazione.

Nel 1922, agli inizi della sua attività come geologo, Desio scriveva all’amico Giotto Dainelli, do-cente di Geografia a Pisa: «Questa vita girovaga mezzo alpinistica e mezzo marinara esercita su

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di me un’attrazione grandissima. Mi pare che se per tutta la mia vita dovessi girare il mondo stu-diando e lavorando anche a costo delle più gravi privazioni e dei più aspri sacrifici sarei l’uomofelice. Ho grande fede nell’avvenire e nelle mie forze e l’entusiasmo per i nostri studi certo nonmi manca: vivere non est necesse, navigare est necesse!». E negli ultimi anni della vita, così concludevala sua autobiografia: «La Scienza, ha scritto un grande filosofo, è ricca di dubbi, di interrogativi,ma provvida di doni. Io ho beneficiato largamente di tale esperienza». Abbiamo scelto le sue pa-role per delineare l’avventura di una vita in cui la domanda di conoscenza, unita alla passione perl’esplorazione dell’ignoto, ha dettato i passi di un metodo scientifico che si è sviluppato a tuttocampo e ha avuto importanti ricadute nella società italiana del Novecento.[…] Aveva, già dall’inizio (1921), le idee chiare: «È necessario che chi scrive per il pubblico sia ingrado di dare delle nozioni, sia pure semplici e sommarie – anzi, proprio così – ma soprattuttocorrette». Ma descriveva nei dettagli le osservazioni compiute, corredava i suoi scritti con dise-gni e schemi e discuteva le conclusioni confrontandole con i dati conosciuti (solitamente pochi).Arrivava a specificare nei particolari gli strumenti e le tecniche usati per le misurazioni e i rilievi:per esempio, in una nota scriveva: «anche di questo lago, come degli altri descritti, eseguii un ri-lievo spicciativo con la cordella metrica e una bussola topografica. Sennonché nel riportare inbella il rilievo trovai degli errori nella misura degli angoli per cui la poligonale rimaneva aperta.C’è da dubitare che delle piccole masse di ferro contenute nelle formazioni scistoso-cristalllineabbiano deviato l’ago della bussola». […]

Le spedizioni nei luoghi ignoti del mondo

Oggi la superficie del nostro pianeta è osservabile, in tutti suoi particolari, dai satelliti e sembraquasi impensabile che, nella parte centrale del Novecento, esistessero migliaia di chilometri qua-drati totalmente inesplorati e accessibili con enormi difficoltà. Invece, in quel particolare pe-riodo storico, le spedizioni di Desio furono organizzate principalmente per identificare lecaratteristiche di territori fino ad allora quasi sconosciuti. […] I suoi viaggi principali ebberocome meta dapprima l’Africa, nelle aree conquistate dall’Italia tra la prima e la seconda guerramondiale, poi l’Asia, e in particolare l’impervia catena del Karakorum, con lo scopo tenacementeperseguito di realizzarne l’esplorazione scientifica. Nell’arco degli anni tornò più volte negli stessiluoghi, approfondendo ogni volta la ricerca con gli strumenti, le tecniche e i mezzi che il pro-gredire della tecnologia metteva man mano a sua disposizione.Le spedizioni in Africa, iniziate nel 1926 per incarico della Società Geografica Italiana, ebbero comeobiettivo l’identificazione di aspetti morfologici e geologici dei territori: Desio compilò la prima cartageologica della Libia e scoprì importanti falde acquifere nella Gefara occidentale. Nel 1931 percorsecirca 4000 chilometri, 3000 dei quali con cammelli o a piedi, riportando in Italia cinque casse di ma-teriali litologici e paleontologici, esemplari zoologici e botanici e molte fotografie relative al paesag-gio e agli abitanti. Anche dopo la seconda guerra mondiale continuò la ricerca di acqua nel sottosuoloper il governo libico e affiancò, come consulente, alcune compagnie petrolifere americane.

Nel «paese delle meraviglie»

Dal 1929 fino agli ultimi anni della sua vita, l’attività di Ardito Desio fu dominata dalle più altemontagne della Terra, situate nella catena del Karakorum e in particolare nel bacino del Baltoro:un «paese delle meraviglie» popolato da 39 cime superiori a 7000 m d’altezza di cui allora soloquattro erano state raggiunte.

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Desio aveva partecipato come geografo e geologo a una spedizione del 1929, guidata dal Ducadi Spoleto, il cui programma scientifico era stato drasticamente ridotto a causa del drammaticoepilogo della spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord. Tuttavia, rendendosi anche indipen-dente dalla carovana principale, Desio aveva esplorato numerose valli percorrendo, tra difficoltàe fatiche indescrivibili, ghiacciai e valichi fino allora sconosciuti. «Finalmente, poco prima dellecinque, incominciò a spuntare di là della sella una cima rocciosa, poi un’altra, poi una serie dicime e di creste. Lanciammo un grido di gioia. Con uno sforzo supremo percorremmo ancorapoche centinaia di metri per arrivare al sommo di un ampio dosso di neve [...]. Mentre gli altri siriposavano per un quarto d’ora, eseguii una lettura barometrica, cercai di fissare, con una bus-sola topografica, la posizione della sella [...] rispetto alle cime circostanti ed eseguii una serie difotografie. Erano già le sei del pomeriggio quando riprendemmo la via del ritorno».Il bilancio scientifico della spedizione fu largamente positivo: la redazione di numerose carte to-pografiche, il rilievo fotogrammetrico del bacino del Baltoro, l’esecuzione di misure geodetichee geofisiche, lo studio geologico delle regioni visitate, la raccolta di numerosissimi campioni dirocce, minerali e fossili. Ma più importante, per l’eco che avrebbe avuto negli anni a venire, fu ilfascino che quelle montagne esercitarono su Desio. «Quando risalii per la prima volta il ghiac-ciaio Baltoro, uno dei maggiori del Karakorum, e mi affacciai un certo giorno alla valle che scendedal K2, rimasi affascinato dallo splendore di quella montagna che si ergeva isolata sullo sfondodel cielo con le sue immani pareti incrostate di ghiacci. Quella visione rimase scolpita per sem-pre nella mia mente e nel mio cuore […]».Passeranno 25 anni prima che Desio possa cominciare a realizzare il sogno di esplorare a fondo il Ka-rakorum. Le numerose spedizioni che compirà nell’arco di altri 20 anni (1954, che portò alla con-quista del K2; 1955, nel Karakorum occidentale; 1961, nel Badakhshan; 1962 nel Karakorumcentrale; 1971 e 1975, nell’Hindu Kush) lo vedranno come promotore (immaginate la difficoltà diprocurarsi finanziamenti nel periodo della ricostruzione economica post-bellica), organizzatore, ri-cercatore e produrranno notevoli risultati grazie alle sue eccellenti capacità organizzative e direttive.La spedizione del 1954, finanziata dal CNR e dal CAI, aveva due ambiziosi obiettivi: uno scien-tifico, completare le ricerche iniziate nel 1929, e uno alpinistico, la conquista del K2. Il progettoaveva suscitato perplessità negli ambienti alpinistici, poiché si pensava che l’attività scientificapotesse ostacolare l’impresa alpinistica. Ma Desio volle mantenere il duplice programma, con-vinto che i costi legati all’organizzazione logistica sarebbero stati meglio ammortizzati. Inoltre,non limitò le ricerche scientifiche alla stretta area del K2, ma programmò il lavoro degli scien-ziati in aree collaterali durante le fasi più delicate dell’assalto alla montagna. La spedizione, moltoimpegnativa anche nell’allestimento (vennero attrezzati nove campi base e vennero impiegaticirca 700 portatori), era stata accuratamente preparata nei due anni precedenti.Come tutti sanno, il 31 luglio 1954, Compagnoni e Lacedelli, che facevano parte della squadradi alpinisti (11 membri), raggiunsero la vetta del K2. La seconda squadra, costituita da sei scien-ziati, raccolse dati e notizie, eseguì rilievi fotogrammetrici, geodetici e topografici, effettuò mi-sure di velocità dei ghiacciai, indagini e rilievi geologici, studi petrografici, rilevamentigravimetrici e magnetici, ricerche etnografiche. «Alla fine del nostro viaggio ho la soddisfazionedi dichiarare che, contrariamente alle previsioni pessimistiche, il concetto su cui era stata impo-stata la spedizione ha dato buoni risultati, sia nel campo alpinistico, sia in quello scientifico. Se-condo me, è tutta una questione di organizzazione e di distribuire opportunamente i compiti diciascun gruppo nel tempo e nello spazio». Desio si trattenne altri due mesi nel Karakorum perportare a termine le ricerche intraprese: «Non sentivo quasi più la fatica, affascinato com’erodalla bellezza del paesaggio e dall’interesse dell’esplorazione geologica. Ero felice di viaggiare da

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solo con i miei bravi portatori baltì che mi si erano molto affezionati e sarei rimasto ancora piùa lungo a svolgere le mie ricerche se messaggi dall’Italia non mi avessero richiamato in patria perpartecipare alle cerimonie organizzate in onore della spedizione».

È più alto l’Everest o il K2?Quando nel 1987, George Wallerstein, dell’Università di Washinghton, annunciò che, in base allemisurazioni da lui effettuate con strumentazioni satellitari, il K2 e non l’Everest era la montagnapiù alta del mondo, Desio, allora ottantenne, ebbe l’idea di fare una verifica sul campo, comparata,tra le due montagne. Riuscì a trovare finanziamenti (dal CNR) e ricercatori e nel 1987 organizzòla spedizione denominata EV K2 CNR. Desio seguì le operazioni da Islamabad, in Pakistan. Pereffettuare le misurazioni vennero utilizzati in parte la tecnologia Global Positioning System (GPS17),basata sull’utilizzazione dei satelliti, in parte il tradizionale teodolite18. Con i suoi 8872 m, 24 inpiù di quelli tradizionalmente accertati, la montagna più alta risultava essere ancora l’Everest,mentre il K2 si attestava sugli 8616 m, cinque in più di quelli fino allora creduti.Entrambe le montagne, comunque, rivelavano chiaramente la presenza nel tempo di un lentomovimento di sollevamento dovuto alla particolare configurazione tettonica di quell’area.Il progetto EV K2 CNR, ancora per iniziativa di Desio, proseguì con la realizzazione del labora-torio Piramide collocato nel 1990 a circa 5050 m di quota, ai piedi dell’Everest. Scopo del labora-torio era quello di consentire ricerche multidisciplinari ad alta quota nei campi delle Scienzedella Terra (geodesia, geologia, geofisica), delle Scienze Ambientali (meteorologia e inquina-mento), delle Scienze Biologiche (fisiologia, psicologia, scienze dell’alimentazione, zoologia, bo-tanica), delle Scienze Antropologiche (etnografia e antropogeografia). Gli studi e le ricerche nellaPiramide proseguono ancora oggi.

Nel favoloso regno dell’AfghanistanI risultati scientifici delle spedizioni nel Karakorum compiute tra il 1955 e il 1975, sono illustrati inun’opera quasi enciclopedica, tutta scritta in lingua inglese «per far conoscere i risultati delle ricerchea un ambiente scientifico più vasto e direi anche più interessato del nostro ai problemi dell’Asia Cen-trale». Particolarmente interessante fu la spedizione del 1961 nell’Hindu Kush, che si rivelò una zonachiave per interpretare la connessione tettonica tra le strutture del Pamir e quelle del Karakorum.Anche in questo caso il territorio era “inesplorato” e l’indagine, allo scopo di chiarire numerosiproblemi irrisolti della sua geografia stratigrafica, fu ad ampio spettro.ll programma geofisico, affidato ad Antonio Marussi, comprendeva misurazioni gravimetrichesu 63 stazioni (mai eseguite prima del 1961) e magnetometriche; il programma geologico, svoltoda Ercole Martina, da Giorgio Pasquarè e dallo stesso Desio, riguardava l’area del Badakshancentrale. Desio riuscì a formare tre gruppi che operarono in prevalenza separatamente così da co-prire un’area di circa 5000 chilometri quadrati. In meno di tre mesi venne completato il rileva-mento geologico dell’intera area a scala 1:100 000. […]In anni in cui, dopo grandi dibattiti, cominciava appena a delinearsi la teoria della tettonica delleplacche, Desio scriveva: «Il mosaico di blocchi spinto verso nord est può essere paragonato a unalastra di ghiaccio, frammentata in molti pezzi, e trascinata da una corrente in un golfo. Come ef-fetto del movimento dei blocchi, spostamenti orizzontali (faglie trascorrenti) dovrebbero avve-nire ai lati, prevalentemente in direzione Sud-Nord, mentre tra essi, pieghe, faglie inverse esovrascorrimenti dovrebbero formarsi soprattutto in direzione Est-Ovest ma irregolarmente cur-

17 Global Positioning System, tecnologia per posizionare un punto della superficie terrestre basata su satelliti.18 Strumento per la misura degli angoli usato in geodesia.

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vate verso Nord. Questo modello sembra adattarsi alla raffigurazione tettonica del Pamir,dell’Hindu Kush, del Karakorum, dell’area himalayana del Kashmir».Questo studio di Desio, in cui si riconobbe che le zone tettoniche del Pamir erano correlate conquelle del Badakhshan è unanimemente ricordato come il primo tentativo serio per interpretarela struttura tettonica del Badakhshan.

Maestro tra passato e futuro

Giorgio Pasquarè, allievo di Desio e suo compagno di esplorazione in Afghanistan, ne ha trat-teggiato la figura di ricercatore e di maestro. Un geologo-esploratore capace di osservazioni pre-cise, di descrizioni puntuali e meticolose, in questo una figura di scienziato tipica del primoNovecento, quando talmente vasto e ignoto era il mondo intorno a noi, che occorreva uno spi-rito di avventura e di sacrificio per scoprirne e spiegarne anche una piccola parte: aveva l’urgenzadi «conoscere e descrivere la Terra in un senso geologico estremamente allargato […] il tutto con-dito da una fortissima attrazione per l’avventura e per il pericolo [...]». Ma la personalità di Desioera così aperta ad accogliere tutti gli aspetti di un fenomeno (raccoglieva anche materialmentereperti di ogni genere), a identificare il significato che essi assumono nella complessità dei terri-tori esplorati, che non gli poteva sfuggire l’importanza delle nuove piste di indagine che nel corsodel Novecento si sono aperte. Ha intuito con largo anticipo lo sviluppo che avrebbero assuntoalcune specializzazioni nell’ambito delle Scienze della Terra: in alcuni casi ha aperto lui stradenuove, ma sempre sui nuovi campi di indagine ha indirizzato con decisione i suoi allievi. […]Desio non era solo un efficientissimo organizzatore (e direttore operativo) delle sue esplorazioni,ma aveva una straordinaria abilità nel riordinare i dati delle sue ricerche, nel divulgarli, trasmet-terli e scriverli. Per questo alcune sue pubblicazioni, come per esempio le carte geologiche delDodecaneso, sono, ancora oggi, documenti di riferimento per i ricercatori che studiano le vi-cende geodinamiche dell’Egeo.La determinazione e la pazienza che hanno caratterizzato le ricerche scientifiche di Desio si ri-conoscono anche nella instancabile opera con cui, tra difficoltà e ostacoli di ogni genere, ha pro-mosso il riconoscimento legale della professione: «[...] un civilissimo ed importante contributoa tutta la comunità nazionale, destinato a porre le basi di una moderna conoscenza della realtàfisica del nostro territorio e di una reale salvaguardia delle nostre popolazioni e dei loro beni».Per tutto questo, che abbiamo cercato di delineare, possiamo rintracciare nella nostra societàl’eredità lasciata da Desio.

MARIA CRISTINA SPECIANI, ANNA CARELLI, Esploratore di paesi ignoti. Ardito Desio, in Emmeciquadro n. 14, aprile 2002

C3 Spedizione sul Monte Everest: le tecniche del rilevamento applicate in alta quota

Le ricerche di seguito descritte hanno avuto inizio ne1997, quando due studenti della Facoltà diIngegneria del Politecnico di Milano, durante il corso di Topografia, incontrano un giovane dot-torando nella materia; nasce un’amicizia dettata dal comune interesse per la montagna, per il ri-levamento e più in generale da una passione nell’indagare gli aspetti sempre stupefacenti dellarealtà che ci circonda. Nei mesi seguenti si aggrega al gruppo un esperto glaciologo e già nel 1998viene organizzata una prima spedizione scientifica in Himalaya. Da quell’anno […] ha inizio unprogramma scientifico sempre più impegnativo nelle aree del Parco Nazionale del Monte Everest,

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che ha visto I’effettuazione di sei ulteriori spedizioni scientifiche […] nei programmi di realizza-zione del Sistema Informativo Territoriale del Parco Nazionale Sagarmatha, del rilevamento conGPS del grafo primario della sentieristica all’interno del Parco e nel monitoraggio delle defor-mazioni dello sbarramento moreno-glaciale che forma il lago Imja Tcho, sotto le pendici della pa-rete sud del Lothse.In generale, lo studio dei ghiacciai nasce dall’interesse scientifico di monitorare un elementofondamentale del paesaggio montano, fonte di importanti riserve idriche e in grado di modifi-care, con la sua continua evoluzione, l’ambiente di importanti porzioni di territorio. Il regressodelle masse glaciali nell’ambiente alpino, registrato negli ultimi anni, pone una serie di interes-santi interrogativi, in particolare relativi all’entità del ritiro e alla stima del tempo di sopravvi-venza dei singoli ghiacciai. La comunità scientifica cerca inoltre di comprendere se i fenomeni acui stiamo assistendo siano limitati nel tempo e di tipo locale, se riguardino cioè solo un settoredelle Alpi o tutto l’arco alpino e se siano rilevabili anche in altre catene montuose.La Changri Nup Glacier Monitoring Expedition ha studiato l’evoluzione dei ghiacciai himalayani, ri-correndo all’impiego e sviluppo di moderne e innovative tecnologie di rilevamento, tramite Glo-bal Positioning System (GPS), che permettono di giungere a risultati altrimenti non conseguibiliattraverso l’uso della topografia classica. Per questo intendiamo presentare le potenzialità delmetodo e le soluzioni tecnologiche che è necessario introdurre per poter operare con efficaciaanche in ambienti estremi come quelli che si incontrano nei ghiacciai posti in alta quota.

Il ghiacciaio Changri Nup

Il ghiacciaio Changri Nup, principale oggetto delle ricerche qui descritte, si trova all’interno delParco Nazionale Sagarmatha, che è il nome nepalese del Monte Everest. […] La presenza di una continuità storica di misurazioni di posizione della fronte del ghiacciaio èfonte di notevole interesse, essendo assai rare esperienze di tipo analogo che vedono misurazioniripetute con regolarità su ghiacciai Himalayani. Tali misurazioni, negli anni precedenti il 1998,sono state effettuate impiegando le classiche metodologie di rilevamento utilizzate in campoglaciologico, che prevedono la segnalizzazione su massi stabili di segnali di riferimento e dunque,con cadenza annuale, la misurazione tramite rotella metrica e bussola della posizione della frontedel ghiacciaio.Dare continuità a tali misurazioni applicando le moderne metodologie di rilevamento topogra-fico è dunque stato uno degli scopi delle due spedizioni scientifiche qui descritte.Prima di esse poco o nulla si conosceva circa l’entità dell’ablazione del ghiacciaio, sia nella suaparte bianca che nella parte coperta da detrito. Anche per ciò che riguarda la velocità di scorri-mento verso valle del ghiacciaio non erano mai state effettuate misurazioni in grado di fornirealmeno l’ordine di grandezza di tali movimenti. Sussisteva comunque l’ipotesi che, per lo menonella parte inferiore del ghiacciaio, lo scorrimento fosse praticamente nullo e che lo strato di de-trito riuscisse solo a preservare dallo scioglimento il ghiaccio sottostante. Si ipotizzava dunqueche il bacino di alimentazione non fosse più in grado di fornire una pressione sufficiente allalingua detritica tale da determinarne uno spostamento verso valle.

La ricerca sul Changri Nup

L’obiettivo principale della ricerca è stato quello di studiare le metodologie di rilevamento piùadeguate allo studio del ghiaccialo. Le cinque spedizioni che si sono svolte negli anni dal 1998

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al 2002, hanno avuto molteplici obiettivi: realizzare con GPS una rete topografica in grado di for-nire un valido supporto per le operazioni topografiche di misura; studiare mediante GPS la ve-locità di scorrimento verso valle del ghiacciaio e misurare la posizione della fronte del ghiacciaio“bianco”19. Gli obiettivi della ricerca sono stati tutti raggiunti e di seguito viene fornita una sin-tesi delle metodologie che sono state impiegate per ottenerli.

Il sistema satellitare GPS

II sistema satellitare GPS è una moderna tecnologia che permette di posizionare un punto inqualsiasi parte del globo, con qualsiasi condizione meteorologica e in qualsiasi luogo, elabo-rando il segnale proveniente da una costellazione di satelliti. Questo sistema è nato durante laguerra del Vietnam per consentire ai militari americani di determinare la propria posizionecon buona precisione e senza essere individuati dal nemico. A tal fine il sistema GPS si basa suantenne in grado di ricevere segnali da satellite, senza la necessità di emettere a sua volta alcuntipo di segnale; tale sistema è stato reso disponibile per usi civili a partire dagli anni Ottantaed è ora di vastissimo impiego. Questa metodologia permette di determinare la posizione re-lativa tra i centri di fase delle antenne attraverso la ricezione di segnali provenienti dai satel-liti in orbita a una quota di circa 20 000 chilometri, e posizionati lungo tre orbite inclinate dicirca 55 gradi sui piano equatoriale. La Russia possiede un sistema analogo, anche se con unnumero assai minore di satelliti, denominato GLObal Navigation Satellite System (GLONaSS),mentre l’Europa sta avviando un programma che prevede la messa in orbita di una costella-zione di satelliti, compatibili con il GPS, che prenderà il nome di Galileo. II sistema GPS è co-stituito da tre distinti componenti definiti “segmenti”: il segmento spaziale, il segmento dicontrollo e il segmento utente. II segmento spaziale si riferisce alla costellazione di satelliti ealle informazioni navigazionali a essa collegate, cioè alla loro posizione in ogni istante. La co-stellazione attuale è in continua evoluzione e aggiornamento; essa è composta da 28 satellitied è studiata in maniera tale che da ogni posizione sulla terra siano visibili almeno quattro sa-telliti contemporaneamente. II segmento di controllo è costituito da tutte quelle stazioni aterra che seguono e controllano di continuo la posizione dei satelliti, in questo modo l’infor-mazione che il satellite trasmette al ricevitore riguardo la propria posizione può essere conti-nuamente aggiornata ottenendo una stima accurata della posizione. La stazione di controlloprincipale è situata nella base dell’aviazione americana dl Falcon in Colorado. Le altre stazionidi controllo sono sparse in tutto il globo. Il segmento utente è costituito dall’utilizzatore conil proprio o i propri apparati di ricezione; per utilizzare il segnale satellitare non occorre pagarealcun abbonamento, ma unicamente provvedere all’acquisto degli strumenti di ricezione. Latecnologia GPS è nota al grande pubblico in quanto viene impiegata in modo diffuso nellasua applicazione navigazionale, che permette a ogni utente dotato di ricevitore GPS di cono-scere la propria posizione, rispetto all’ellissoide di riferimento, in tempo reale, con accuratezzedell’ordine di 5-10 metri. […]Una seconda metodologia, identificata come Real Time Kinematic (RTK) o Posizionamento Cine-matico In Tempo Reale, prevede che un ricevitore GPS master sia posizionato su un vertice a co-ordinate note, mentre un secondo ricevitore GPS rover si muove sul territorio. Tramite uncollegamento radio, la stazione master invia una serie di informazioni al ricevitore mobile (rover)che, in questo modo, è in grado di determinare la propria posizione, con accuratezze centime-triche, in tempo reale. È noto che i ghiacciai non sono un elemento statico, ma si spostano sotto

19 Ghiacciaio con la neve.

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la spinta del ghiaccio posizionato nel bacino di accumulo posta a monte; grazie alla possibilitàdata dal GPS di misurare con precisione la posizione relativa tra punti, è anche possibile misu-rare la variazione di posizione tra un punto fisso esterno al ghiacciaio e alcuni vertici posti sulghiacciaio stesso. Così facendo è possibile stimare, alle diverse quote, la velocità di scorrimentoverso valle della massa glaciale, la variazione di posizione della fronte e l’entità della fusione dellamassa glaciale.È dunque evidente la necessità di individuare, all’esterno del ghiacciaio, in posizioni stabili,vertici in corrispondenza dei quali posizionare le stazioni GPS master; per poter poi misu-rare, con ricevitori rover, la variazione di posizione di capisaldi materializzati fisicamente sumassi presenti sul ghiacciaio. L’operazione di monitoraggio delle deformazioni di un ghiac-ciaio deve prevedere in primo luogo l’esecuzione di misurazioni GPS in modalità statica percalcolare la posizione dei vertici “fissi” all’esterno della massa del ghiacciaio. Poi successive ri-levazioni in modalità cinematica per misurare gli spostamenti dei vertici di riferimento chegiacciono sulla superficie glaciale. L’enorme pregio del sistema GPS in ambito montano, seraffrontato agli altri sistemi di posizionamento di tipo topografico, è la possibilità di deter-minare la posizione relativa tra vertici posti anche a chilometri di distanza e non visibili unocon l’altro. […]

La strumentazione al seguito delle spedizioni

II periodo complessivo di permanenza sul ghiacciaio è solitamente dell’ordine di 10-15 giorni. Lastruttura organizzativa prevede ovviamente l’impiego di uno sherpa addetto al coordinamento dellavoro dei portatori e all’organizzazione dei campi e di alcuni portatori, indispensabili nelle ope-razioni di allestimento dei campi e per il trasporto dei materiali. Essendo la zona in cui i ricer-catori si muovono in gran parte inesplorata, non esistono al riguardo guide o sentieri da seguiree dunque i ricercatori devono avere anche spiccate doti di orientamento e un minimo di capacitàalpinistiche, in particolare per percorrere in sicurezza la parte bianca del ghiacciaio densamentecrepacciata. Tralasciando la descrizione dei particolari organizzativi di carattere prettamente lo-gistico e alpinistico, ci si sofferma ora sulle caratteristiche tecniche della strumentazione al se-guito della spedizione e sulle soluzione tecnologiche adottate.Le spedizioni sono dotate in primo luogo di ricevitori GPS in doppia frequenza, cioè in grado diregistrare entrambe le frequenze GPS L1/L2. Ogni apparato GPS è dotato di cavetteria di emer-genza, particolare questo che risulta spesso essenziale per l’effettuazione delle misure. Per lo sta-zionamento delle antenne GPS si è deciso di non ricorrere a treppiedi topografici, consideratol’eccessivo ingombro e il peso di tali apparati. Sono stati realizzati sostegni semplificati compo-sti da un’asta in alluminio mantenuta in verticale da un treppiede fotografico. La sommità del-l’asta termina con un filetto dal passo 5/8” che permette il fissaggio dell’antenna ricevente ol’aggiunta di un’ulteriore asta di prolunga. Una livella sferica può venire agganciata all’asta perla sua messa in verticale e la struttura è progettata per poter essere ancorata al terreno mediantetiranti nel caso si debba operare in condizioni atmosferiche particolarmente avverse.Le spedizioni sono dotate di numerose batterie al piombo di 12 A/h-12 volt e di batterie d’emer-genza sempre a 12 volt ma di 7 A/h, portate con sé dai ricercatori e utilizzate nel caso di scaricaaccidentale delle batterie delle radio ricetrasmittenti o delle batterie dedicate al funzionamentodei ricevitori GPS. La ricarica delle batterie è garantita da numerosi pannelli solari trasportabilimentre la carica della strumentazione funzionante a 220 volt è garantita da inverter alimentatidalle batterie stesse. La resa in quota dei pannelli solari è ottima, per cui anche con condizioni

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atmosferiche avverse la ricarica delle batterie è garantita. Le medesime batterie venivano impie-gate per il funzionamento dei due computer portatili Pentium al seguito dei ricercatori.Per la gestione della connessione radio tra la stazione master e la stazione rover nelle misura-zioni in RTK, si sono adottati radio modem funzionanti a una frequenza di 408200 Mhz e impie-gando per la trasmissione del segnale le antenne omnidirezionali l/2 comunemente commer-cializzate con questi apparati di comunicazione.

Conclusioni

Le spedizioni hanno mostrato con chiarezza come, anche in ambito himalayano, si è in un pe-riodo di deciso arretramento da parte delle masse glaciali. Un confronto con le cartografie sto-riche mostra un abbassamento della lingua detritica valutabile in circa 30 metri, nell’arco di circa50 anni. Il detrito che ricopre i grandi ghiacciai nepalesi svolge però un’importantissima operadi protezione del ghiaccio dai processi di fusione, che permette al ghiacciaio di sopravvivere. Que-sto processo di “auto protezione” è osservabile anche in alcuni grandi ghiacciai alpini che stannoevolvendo in una forma di ghiacciaio nero20. Il ghiacciaio è un interessantissimo sensore dei cam-biamenti climatici; anche perché la risposta del “sistema ghiacciaio” alle variazioni del clima nonè istantanea, ma mediata nel tempo e con un certo ritardo. In zone come l‘Himalaya, l’osserva-zione e lo studio della storia degli apparati glaciali permette di risalire a una stima del clima delpassato in tali zone.La ricerca qui descritta, che avrà una continuazione con un programma triennale di ricerche trail 2003 e il 2005, mostra inoltre come le tecniche moderne di rilevamento GPS permettano di ot-tenere conoscenze nuove su fenomeni ancora in gran parte poco studiati. L’applicazione dellastrumentazione in ambiente limite stimola anche la ricerca di nuove soluzioni tecnologiche, chepossono avere interessanti ricadute nelle applicazioni di ogni giorno.Le ricerche ora si svilupperanno in diverse direzioni. In primo luogo si intende verificare la pos-sibilità di effettuare misurazioni tramite dati rilevati da satelliti (Spot, Aster, Landsat) e di rilevaresettori di ghiacciaio tramite le tecnologie della scansione laser. Le spedizioni future renderannodunque il ghiacciaio Changri Nup sempre più familiare ai rilevatori e ai glaciologi che lo stu-diano.

GIORGIO VASSENA, Spedizione sul monte Everest, in Emmeciquadro n. 18, agosto 2003

20 I detriti del ghiacciaio.

Note biografiche

Giorgio Vassena

Ingegnere, è professore di Topografia e cartografia presso la facoltà di Ingegneria dell’università di Brescia.

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2 La Terra dinamica: la tettonica delle placche

Nel suo libro La terra dinamica (Jaca Book, Milano 1992), H. G. Owen scriveva: «Esiste unquadro teorico complessivo, per la geofisica della terra solida, nel quale possono rientraretutte le osservazioni e le loro estrapolazioni, sia per la Terra che per i pianeti terrestri. Que-sta nuova concezione dinamica omnicomprensiva della Terra ci consente di capire la naturadella tettonica globale, la genesi dei differenti tipi di rocce eruttive e sedimentarie, la distri-buzione e lo sviluppo nel tempo di piante ed animali in condizioni ambientali mutevoli edaltri fenomeni che non potrebbero essere spiegati semplicemente dall’idea, abituale primadegli anni Sessanta, della Terra in stato stazionario». La tettonica delle placche, formulata compiutamente in tempi molto rapidi, tra il 1959 e il1967, e sostanzialmente documentata dalle ricerche oceanografiche compiute negli ultimitrent’anni del XX secolo in tutte le parti del mondo, è una teoria potente, perché riesce aspiegare la massima parte dei fenomeni che avvengono sulla superficie della Terra e la tra-sformano in continuazione. Per capirne un po’ meglio il significato e la portata rivoluzionaria proponiamo innanzi-tutto un’intervista rilasciata nel 1998 da Alfonso Bosellini, geologo che ha vissuto da pro-tagonista i momenti più significativi della ricerca geologica nella seconda metà del XXsecolo.Segue un percorso storico che, a partire dalla riscoperta del cammino compiuto dagli scien-ziati nella formulazione della teoria, arriva fino a considerarne i punti tuttora problematici.Non solo come arricchimento culturale personale, ma come itinerario che mette in giococapacità logiche, quali l’analisi e la sintesi, tipiche del pensiero scientifico; infatti, se è veroche nella formulazione di una teoria l’analisi è fondamentale, la forza interpretativa dellastessa si comprende attraverso uno sguardo globale, che non teme l’emergere di eventualipunti critici, anzi li ritiene uno stimolo al progredire della ricerca.E infine l’incontro con due importanti testimoni dell’evoluzione delle teorie geofisiche: Al-fred Wegener, che per primo, anche se senza comprenderne appieno il significato e senzariuscire a spiegarne il meccanismo, ipotizzò un movimento dei continenti, e Xavier Le Pi-chon, geologo francese tuttora in piena attività, che per primo identificò le placche in cui èsuddivisa la litosfera.

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A1 Intervista a Alfonso Bosellini

Per comprendere la dimensione storica della conoscenza scientifica, ci potrebbe far ripercor-rere le tappe principali che hanno portato alla formulazione della teoria della tettonica delleplacche?

Per rispondere a questa domanda bisognerebbe tenere un corso di geologia. Perché gia nel Set-tecento Hutton, per la prima volta, aveva riconosciuto le discordanze angolari1 esistenti tra ivari gruppi di rocce e aveva capito che i processi di trasformazione della Terra avvengono intempi di milioni di anni. Ma partiamo dalla deriva dei continenti, ipotesi formulata nei primidecenni di questo secolo e propugnata essenzialmente dal famoso geofisico tedesco Alfred We-gener (1880-1930) che si impegnò a documentarla per gran parte della sua vita e morì a cin-quant’anni, mentre eseguiva misure geodetiche in Groenlandia. I geofisici dell’epoca loderidevano e, dopo la sua morte, la sua idea fu discussa per decenni e infine rifiutata come ec-centrica e improbabile. Ricordo che nel 1957, quando ero studente di geologia all’Università diPadova, mi ero permesso di fare una domanda sulla deriva dei continenti ed ero stato zittito. Poi,improvvisamente, con lo sviluppo delle ricerche oceanografiche e delle misurazioni geodeticheavvenute agli inizi degli anni Sessanta, è stata avanzata la teoria della tettonica delle placcheche dà una spiegazione unitaria, in maniera logica e coerente, di tutti i fenomeni che si osser-vano sulla Terra. La teoria venne formulata compiutamente in tempi molto rapidi, tra il 1959e il 1967, provocando nella geologia una rivoluzione paragonabile a quella provocata in biolo-gia dalle teorie di Darwin. Negli ultimi trent’anni di studi, le navi per le ricerche hanno esplo-rato tutti gli oceani, hanno compiuto carotaggi in tutte le parti del mondo e hannodocumentato al 90% la tettonica delle placche. Le situazioni di grandi aree come l’oceano In-diano o il Pacifico sono state abbastanza semplici da capire, mentre lo studio dell’Italia e del Me-diterraneo ha posto diversi problemi.Dopo trent’anni dalla sua prima esposizione, i punti ancora oscuri riguardano soprattutto i fe-nomeni profondi, i moti convettivi che avvengono nel mantello e trascinano i continenti.

ESPLORARE IL PIANETA PER RICOSTRUIRNE LA STORIA

In un campo, quello della geologia, che ha come oggetto di studio la struttura della Terra e le sue tra-sformazioni, la storia personale di Alfonso Bosellini, scienziato di fama internazionale, ricercatore ap-passionato e testimone entusiasta del suo lavoro, si intreccia con lo sviluppo storico della scienza edocumenta i momenti più significativi della ricerca geologica della seconda metà del XX secolo. Giova-nissimo, ha partecipato a diverse spedizioni della nave oceanografica Glomar Challenger; in seguito haviaggiato in tutto il mondo compiendo osservazioni e raccogliendo dati. Le sue ricerche gli hanno pro-curato numerosi riconoscimenti nel campo della sedimentologia e costituiscono il fondamento della suaattività divulgativa sia come docente che come autore di testi scolastici e di saggi. Il racconto del suo iti-nerario scientifico è il punto di partenza per affrontare alcuni nodi fondamentali della ricerca geologicaattuale e del suo significato nella società e nel mondo della scuola.

A

1 Si parla di discordanze angolari tra gruppi di rocce quando gli strati di roccia sono orientati in modo diverso.

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Lei ha partecipato attivamente alle prime ricerche oceanografiche. Come la sua attività di ri-cercatore l’ha portata a contatto con i protagonisti di quella vicenda?

Sono un geologo, studio le rocce sedimentarie e nella mia vita mi sono dedicato in particolareallo studio delle rocce carbonatiche (calcari e dolomie) che si formano in mare. Ho iniziato la miaattività di ricercatore a Ferrara, dove il professor Leonardi e i suoi assistenti studiavano le Dolo-miti e l’ambiente marino in cui esse hanno avuto origine. Ho intuito che dovevo conoscere me-glio il mare; nel 1968 ho vinto una borsa NATO e sono andato per due anni alla Johns HopkinsUniversity per studiare direttamente come si formano le scogliere coralline delle Bahamas.Quando sono tornato, ho capito che non bastava studiare i carbonati di acqua bassa, ma dovevoconoscere anche quelli profondi. Nel 1974 ho vinto un’altra borsa NATO e sono stato in Califor-nia, allo Scripps Institution of Oceanography, il più grande istituto per la ricerca oceanograficadel mondo: per un anno ho lavorato su una nave che faceva i carotaggi profondi vivendo l’av-ventura oceanografica abbastanza a fondo.

Qual è stato il suo ruolo durante le crociere della Glomar Challenger cui ha partecipato? Comelavora un gruppo di ricerca così specifico?

Sono stato sulla Glomar Challenger due volte, o meglio ho partecipato a due crociere, tecnica-mente chiamate Leg, ognuna delle quali dura due mesi: ho percorso tutto il Pacifico da Honolulua Pago Pago nelle isole Samoa, nel 1974, studiando le aree degli atolli; poi a Madeira per perfo-rare i margini continentali africani, di fronte al Marocco e al Sahara occidentale, nel 1976.In una di queste crociere il Chief Scientist della spedizione, che mi aveva voluto sulla nave, era il pro-fessore con cui avevo lavorato in California.Io ero uno dei sedimentologi, insieme all’austriaco Shlager, uno dei più importanti studiosi dicarbonati del mondo e a una signorina francese. Si lavora giorno e notte, a turni di quattro ore.Il capo della spedizione tiene le fila di tutto il lavoro e ognuno contribuisce a compiere analisi emisurazioni secondo la sua specializzazione. La ricerca oceanografica è finanziata da un con-sorzio mondiale, quindi l’ambiente è molto eterogeneo sia rispetto alla nazionalità che alla spe-cializzazione. Ma il lavoro di gruppo è solo il punto di partenza, poi ognuno studia i campioniche gli vengono assegnati e le collaborazioni scientifiche si realizzano attraverso contatti suc-cessivi.

La sua ricerca oceanografica non si è interrotta…

Infatti, nel 1990, mentre stavo studiando le Dolomiti, ho voluto andare a vedere come sono fattele scarpate profonde delle scogliere: per quindici giorni, insieme ad altri quattro ricercatori, sonoandato alle Bahamas con una nave e un piccolo sommergibile. A turno ci siamo immersi fino amille metri di profondità: il desiderio di avere dei dati di prima mano, di poter fare dei confrontia ragion veduta mi ha permesso di superare anche la paura che avevo. In sintesi, ho viaggiato neimari e ho lavorato in questo modo perché avevo bisogno di studiare le rocce carbonatiche. Tuttele esperienze sono state positive, ma quella che mi ha entusiasmato di più è stata quest’ultimache ha anche significato molto dal punta di vista scientifico perché credo che pochi, tra gli scien-ziati esperti di carbonati, siano andati a studiare a quella profondità.

Lei dà molta importanza in campo scientifico al poter vedere...

In geologia sì. Potremmo dire che il geologo più bravo è quello che vede di più, quello che hagli occhi più aperti. Per gli scienziati della Terra è importantissimo vedere per rendersi conto

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delle dimensioni dei fenomeni, per ricostruirne la storia: per esempio, non si possono studiarele rocce vulcaniche col microscopio senza aver mai visto un vulcano. Per ricostruire la storiadelle rocce bisogna andare a vedere come sono oggi; per capire il passato occorre vedere il pre-sente. Chi studia le rocce di un fiume deve sapere come è fatto un fiume: non a caso le grandiscoperte della sedimentologia delle rocce fluviali del passato sono avvenute perché gli ingegneridella Louisiana e del Texas hanno cominciato a studiare il Mississippi e i suoi meandri. So-prattutto il geologo che studia le rocce sedimentarie, sia terrestri che marine, non può rinun-ciare a vedere. E il fascino della ricerca è enorme; per questo ho lavorato con entusiasmo in tuttele parti del mondo.

Lei è autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche e di diversi testi, sia scolastici che non.Come la sua esperienza di ricercatore è rifluita in quella di docente e di autore?

Non è facile: quando parlo dei terremoti, di quello che succede sulla Terra, trasmetto le mie co-noscenze, ma soprattutto cerco di comunicare il mio entusiasmo e di parlare in modo da farmicapire dall’interlocutore, riducendo al massimo l’uso di termini specialistici. Ho scritto libri efaccio il professore con passione perché mi sembra di essere in grado di trasmettere l’entusia-smo per il mio lavoro e per l’oggetto dei miei studi. Ma non credo che ci sia necessariamente unlegame tra l’abilità nel fare ricerca e la capacità di insegnare. Credo che un cattivo ricercatore nonpossa essere un bravo insegnante, ma non è detto che un bravo ricercatore sia anche un bravo in-segnante.

Nella prefazione al suo libro Tettonica delle placche e geologia sostiene che, accanto alle molteconferme sperimentali, una delle ragioni del successo di quella teoria è la sua eleganza e sem-plicità. In che senso si può parlare così di una teoria scientifica?

Si è portati a pensare che la scienza sia qualcosa di oggettivo, che dobbiamo solo scoprire.Da giovane pensavo che la parte più importante di una pubblicazione scientifica fossero idati presentati e le conclusioni. Invece, l’esperienza compiuta in America mi ha insegnatol’importanza del titolo, che deve essere formulato in modo da suscitare interesse, mi ha in-segnato a presentare un lavoro in maniera semplice, perché venga accettato più facilmente.Ma il problema è molto complesso: soprattutto nel nostro campo, la scienza non è solo nu-meri e dati puri, ma implica concetti filosofici. Alla recente conferenza mondiale di sedi-mentologia di Alicante ho concluso il mio intervento con una foto delle Dolomiti, accantoa cui è riportata una frase di Leopardi, «Nulla si sa, tutto si immagina», per significare la di-stanza tra i fenomeni che osserviamo e le teorie che elaboriamo. Tutto quello che presen-tiamo nella scienza è un modello della realtà; è chiaro che serve per spiegare la realtà, manon è detto che sia l’unico modello possibile. Gli scienziati che lavorano nel campo subato-mico “vedono” nel mondo infinitamente piccolo, gli astronomi vedono l’infinitamentegrande e hanno documentato l’immensità dello spazio. Invece la geologia ha documentatol’immensità del tempo.

Le scienze della Terra si trovano al crocevia di molte altre discipline: matematica, chimica, fi-sica, biologia. Come da tanti apporti diversi si può giungere a una conoscenza di tipo sintetico?

Lo scopo essenziale delle scienze della Terra, in particolare per lo studio della litosfera e del-l’idrosfera, è quello di indagare il sistema Terra, per scoprire come si è formata, come si è evo-luta, come si sta comportando e come si comporterà. Per questo abbiamo bisogno di unbackground scientifico di conoscenze; utilizziamo diverse discipline per cercare di capire me-

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glio i problemi inerenti la Terra. Nessun altro gruppo di scienziati ha necessità di uno spettrocosì ampio di conoscenze. Questo riguarda la ricerca, ma all’università non formiamo degliscienziati, ma dei geologi professionisti, che devono saper affrontare i problemi che si incon-trano tutti i giorni: sistemare le strade, i ponti, le gallerie eccetera. Per questo dobbiamo dareun quadro di base, fondato sui cardini della matematica, della chimica, della fisica e della bio-logia.

Lo specifico della geologia è lo studio del pianeta Terra nel suo insieme. In questo senso èun’attività scientifica un po’ lontana dal paradigma della fisica classica, fondata sulla riprodu-cibilità in laboratorio del fenomeno studiato.

Per quanto riguarda il metodo, la geologia non è una scienza esatta. È difficile imbrigliare il pia-neta Terra e il suo comportamento in un modello matematico o fisico: ci sono troppe variabili.Non credo neppure che sia prevedibile quello che succederà fra ottant’anni perché la Terra ri-sponde in tante maniere. L’aspetto che mi fa amare la mia materia è proprio che essa è in granparte osservazione e non è solo rigidamente costretta nelle maglie dei dati fisici e chimici. Ma c’èanche un aspetto problematico legato al fatto che l’esperimento non è ripetibile: se un ricerca-tore sostiene di aver fatto una scoperta in una valle sperduta nel Canada, il mondo scientifico puòsolo credergli. Bisogna essere molto onesti, a maggior ragione perché le nostre scienze si basanosui dati.

Quali sono oggi le linee di ricerca più avanzate e le prospettive di sviluppo della geologia?I punti di ricerca più avanzati sono difficili da spiegare e sono molto tecnici.Comunque i geofisici stanno discutendo molto sulle correnti convettive, per capire fino a cheprofondità arrivano, se sono doppie, triple, o se arrivano fino al nucleo del pianeta.Oggi la geologia si sta sempre più orientando verso l’ambiente sia perché i fondi per la ricercapura stanno sempre più diminuendo, sia perché oggettivamente è importante dal punto di vistasociale.L’Italia è una terra giovane e molto instabile, perciò occorre mettere le nostre conoscenze a di-sposizione dell’ambiente: i terremoti, l’erosione, la subsidenza sono problemi che la geologiapuò contribuire a risolvere e per studiare i quali si possono trovare fondi.Invece ancora adesso la professione del geologo è lontanissima dalla mentalità italiana in cuiprevale una cultura umanistica: molte persone non hanno la minima idea del tempo geologico,dell’età della Terra e dell’uomo ed è ancora molto scarsa la sensibilità nei confronti dei problemidel territorio.

MARIANO ZEN (a cura di), Esplorare il pianeta per ricostruirne la storia. Intervista a Alfonso Bosellini, in Emmeciquadro n. 2, giugno 1998

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PERCORSI PER CAPIRE I FENOMENI GEOLOGICI

Ci sono eventi geofisici che sollecitano in modo forte la nostra attenzione come, per esempio, il terribilesisma di Banda Ace a cui seguì lo tsunami del 26 dicembre 2004 o il terremoto del giugno 2006 in In-donesia, di magnitudine elevata (6,3 nella scala Richter), provocato «dallo scontro tra la placca eu-roasiatica e la placca indo-australiana», catastrofico per gli esiti sulle popolazioni. E ci sono fenomenispettacolari, come le eruzioni ricorrenti dell’Etna o dello Stromboli, e fenomeni imponenti, come la for-mazione delle catene montuose e il continuo modellamento della crosta terrestre, così “normali” che nep-pure ce ne accorgiamo. Forte dovrebbe essere il desiderio di capire il nesso tra la dinamica della litosferae queste manifestazioni che avvengono alla superficie del nostro pianeta. Ma a questa domanda di com-prensione non rispondono i vaghi riferimenti messi in campo dagli esperti, o dai media, in occasione dieventi naturali più o meno catastrofici.Perciò val la pena di approfondire, tenendo però presente che la presentazione di una teoria non devetralasciare la concretezza della realtà, ma anzi deve fondare il livello delle interpretazioni sui dati checostituiscono il mondo reale tenendo ben distinti le une dagli altri. E c’è di più: da una parte la convinzione che la scienza non è una storia astratta scandita cronologicamente,ma la storia di uomini e di scienziati che sono i veri protagonisti e che solitamente, soprattutto nelle pubbli-cazioni scolastiche, restano nell’ombra. E ancora la conferma che il desiderio di conoscenza trova rispostenon in un rigido elenco di teorie da mandare a memoria, ma in un percorso in cui entrano in gioco gli aspettianalitici e quelli sintetici del procedere del pensiero. In questo modo i particolari assumono significato, da unaparte perché vengono inseriti come “dati” nel quadro che li interpreta e, dall’altra, perché rendono plausi-bili gli eventuali punti critici sempre presenti in una teoria e non sempre esplicitati come tali.

B

B1 Dalla raccolta dei dati alla formazione del modello

La geologia degli anni tra il 1950 e il 1960 si può configurare come una raccolta di dati sui fe-nomeni che avvengono sull’intero pianeta Terra; dati utili per un ragionare «a grande scala, anzia scala globale» che portò ricchi frutti.È significativo che questo sia avvenuto grazie al contributo di scienziati – spesso noti solo in unacerchia ristretta di addetti ai lavori – operanti in diverse aree di ricerca: nel campo dell’oceano-grafia man mano che si approfondiva lo studio morfologico dei fondali oceanici, nel campo dellasismologia, nello studio dei fenomeni vulcanici e del magnetismo terrestre.

I dati dallo studio dei fondali oceanici

Siamo negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale e si comincianoa sfruttare tecnologie nuove (come per esempio l’ecosonar2 e i sistemi di carotaggio inventati per le ri-cerche petrolifere) per scoprire la morfologia, la costituzione e la dinamica dei fondali oceanici, permolti secoli “pensati” come immense distese piatte e silenziose. Risalivano al 1855 le prime carte ba-timetriche che segnalavano la presenza di catene montuose sottomarine nell’oceano Atlantico e sideve ai rilievi effettuati durante la prima guerra mondiale (1915-1918) la dimostrazione della di-mensione e della continuità di quella che venne chiamata da allora dorsale medio-atlantica. […]

2 L’ecosonar è uno strumento per rilevare la presenza di rilievi sul fondale marino, basato sull’emissione di ultrasuoni e sulla cap-tazione dei relativi echi.

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Negli anni tra il 1952 e il 1972 le ricerche oceanografiche fornirono una mappa dei fondali ocea-nici che evidenziava, in modo sorprendente, la presenza di immense catene montuose sottoma-rine – complessivamente lunghe più di 50 000 km, in alcuni punti larghe più di 800 km e alte(rispetto al fondale) in media 4500 m – situate tra i continenti. Si mise nuovamente in evidenzala corrispondenza delle forme dei continenti in particolare alla profondità media della scarpatacontinentale (isobata dei 2000 m) e vennero con più sistematicità datate le rocce.John Tuzo Wilson (1908-1993), canadese, definito dal suo allievo Derek York un uomo che «finoalla sua morte non cessò mai di produrre idee», nel 1963 aveva identificato nei fondali un tipoparticolare di faglie che chiamò faglie trasformi […] e aveva poi pubblicato un lavoro che si rivelòfondamentale intitolato A New Class of Faults and their Bearing on Continental Drift.

I dati della sismologia: terremoti e vulcani

Intorno al 1930, mentre venivano messi a punto sismografi tecnologicamente avanzati, lo stu-dio dei terremoti sembrava aprire nuovi promettenti campi di ricerca.Nel 1935 il giapponese Kiyoo Wadati pubblicò un articolo in cui collegava i terremoti e i vulcanidel Giappone con la deriva dei continenti; così si deve a lui la prima introduzione dell’espres-sione “zona di subduzione”. Ma i tempi non erano maturi per raccogliere quella che sarà unodei fondamento della tettonica delle placche.Le ricerche sui terremoti, che ebbero una stasi durante il conflitto mondiale, ripresero con piùintensità dopo la fine della seconda guerra mondiale: tra il 1945 e il 1950 vennero identificate pa-recchie zone sismiche parallele alle fosse e l’idea generale di Wadati fu riscoperta e generalizzatadal sismologo americano Hugo Benjoff, ma pose molte domande sul fatto che gli epicentri deiterremoti erano molto profondi. Queste zone vennero chiamate zone di Wadati-Benjoff in onoredei due scienziati che per primi le riconobbero.Lo studio della sismicità globale progredì notevolmente negli anni Sessanta con la costituzionedel Worldwide Standardized Seismograph Network (WWSSN) una rete di rilevazione per monitorarele eventuali violazioni del trattato del 1963 che metteva al bando i test nucleari sotterranei. Cosìvennero ricostruite le mappe che localizzano precisamente sulla superficie del pianeta le aree incui si concentrano i terremoti: soprattutto lungo le fosse oceaniche e le dorsali medio oceaniche.Ma qual è il significato della connessione tra terremoti, fosse oceaniche e dorsali?Come vedremo, il riconoscere questa connessione aiutò a confermare l’ipotesi dell’espansionedei fondali oceanici identificando le zone dove Harry Hess aveva predetto che si generasse nuovacrosta e quelle dove la litosfera oceanica si reimmerge nel mantello.I vulcani non sono distribuiti in modo casuale sulla superficie terrestre, ma si concentrano in-torno ad aree instabili della crosta terrestre. Essi si trovano, per esempio, in corrispondenza diquella che viene chiamata cintura di fuoco, la linea di vulcani che circonda tutto l’oceano Paci-fico. Essa è costituita da vulcani con attività di tipo esplosiva e i magmi eruttati, piuttosto viscosi,sono per lo più di tipo andesitico (da ciò viene chiamata anche linea dell’andesite). Ci sono vul-cani in corrispondenza delle dorsali, caratterizzati da magmi meno viscosi e sono quindi piùfluidi e formano grandi espandimenti lavici. Una zona dove è possibile osservare questo tipo divulcanismo è l’Islanda, in quanto si può considerare un tratto di dorsale affiorante dall’oceanoAtlantico. Un vulcanismo simile a quello delle dorsali si può osservare in Africa Orientale nellazona dei grandi laghi. E poi abbiamo i vulcani come quelli delle isole Hawaii con attività simileal vulcanismo delle dorsali oceaniche.La distribuzione geografica dei vulcani coincide in grandissima parte con quella dei terremoti,indicando che sismicità e vulcanismo sono legati a una stessa causa.

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Le fasce di rocce magnetizzate sui fondali

Siamo ancora intorno alla metà del XX secolo e gli scienziati trovano un altro modo nuovo perstudiare le profondità oceaniche: adattano i magnetometri3, usati negli anni della guerra per ri-velare la presenza di sottomarini, e cominciano a riconoscere variazioni del magnetismo nellerocce basaltiche che costituiscono il pavimento degli oceani.La scoperta più sorprendente è la registrazione (effettuata da alcuni ricercatori americani e giap-ponesi in navigazione nelle vicinanze delle dorsali oceaniche atlantica e indiana), a quattromilametri sotto il livello del mare, sulle rocce dei fondali, di un fenomeno già registrato a terra: alcunecolate basaltiche di origine antica mostravano l’orientazione del campo magnetico opposta aquella attuale (il polo Nord era al posto del polo Sud).In quegli anni, mentre si costruivano le mappe magnetiche dei fondali, si cominciava ricono-scere un andamento particolare nella distribuzione delle fasce di rocce magnetizzate: sul fondodegli oceani si alternavano fasce di rocce magnetizzate con polarità “normale” e fasce di rocce ma-gnetizzate con polarità “inversa”; si scoprirà poi, in modo sorprendente, che questo schema dimagnetizzazione a strisce si ripeteva in modo simmetrico ai lati delle dorsali.Anche se nel nostro percorso non è fondamentale, va notato che lo studio della magnetizzazionedelle rocce nelle terre emerse aveva permesso a Patrick M. S. Blackett e a Stanley Keith Runcorndi notare che rocce formatesi in uno stesso periodo e presenti su continenti diversi erano orien-tate in modo diverso rispetto ai poli e questo – che sui testi scolastici viene chiamato «sposta-mento apparente dei poli magnetici» – costituiva una conferma della deriva dei continenti. Nelladidattica occorre fare molta attenzione, perché spesso sia i testi, sia gli studenti, sovrappongonoi due aspetti, inversione della polarità magnetica e spostamento dei poli magnetici e non rie-scono più a distinguere quali sono i dati e quali i fenomeni dimostrati.Nel 1962 gli scienziati del Naval Oceanographic Office degli Stati Uniti fornirono i dati sulle fasce ma-gnetiche mappate per le rocce vulcaniche dei fondali oceanici. Questi dati furono presi in seriaconsiderazione da Fredrick Vine, da Drummond Matthews e da Lawrence Morley. Nel 1963 essiipotizzarono che le fasce magnetiche fossero prodotte da ripetute inversioni del campo magneticoterrestre, non, come prima si pensava, da cambiamenti nell’intensità del campo magnetico.L’inversione dei poli era già stata dimostrata per le rocce magnetiche sui continenti e il passo suc-cessivo più logico era quello di vedere se queste inversioni magnetiche potessero essere correlate,in tempi geologici, con le bande magnetiche. Questo avvenne anche grazie allo sviluppo di nuovetecniche per datare le rocce. Nel 1966 ancora Vine, Matthews e Morley paragonarono queste etànote delle inversioni magnetiche con l’andamento delle bande magnetiche: era stata rilevata un’in-versione della polarità del campo magnetico terrestre con un ritmo ben definito in un arco ditempo di 3,6 milioni di anni e lo stesso ritmo di inversione era stato osservato negli strati più an-tichi dei sedimenti oceanici. Contemporaneamente l’osservazione evidenziava il fatto che la cro-sta oceanica non si era formata tutta insieme. C’erano quindi i presupposti per ipotizzarel’avvenimento di trasformazioni nella crosta ancora più radicali di quelle ipotizzate da Wegener.Come emerse in modo chiaro dalle molteplici comunicazioni che cercavano di stabilire una con-nessione tra tutti i dati raccolti, alla riunione della Società Geologica Americana tenuta a SanFrancisco nel 1966, il magnetismo terrestre poteva rappresentare la chiave per costruire la storiadei fondali oceanici.Le domande a cui rispondere erano: come si sono formate e perché hanno un andamento simme-trico? E una prima risposta ipotizzava quello che sarà poi chiamata espansione dei fondali oceanici.

3 Strumenti utilizzati per rilevare la presenza di materiali magnetici sui fondali marini.

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L’ipotesi fondamentale: l’espansione dei fondali oceanici

All’inizio degli anni Sessanta, Harry Hess (1906-1969) e Robert Sinclair Dietz formularono separata-mente l’ipotesi che il sistema delle dorsali oceaniche fosse originato da correnti ascendenti del mate-riale del mantello che successivamente si espandeva verso l’esterno rinnovando i fondali. Essi capironoche la formazione continua di nuova crosta implica la sua distruzione. Hess si era interessato alla geo-logia dei fondali oceanici fin da quando prestava servizio in marina durante la seconda guerra mon-diale; egli credeva in molte delle osservazioni che Wegener usava per difendere la sua teoria della derivadei continenti, ma aveva punti di vista completamente diversi sui movimenti della Terra a grande scala.Facendo riferimento ai lavori di Arthur Holmes (1890-1965), nel 1959 egli presentò l’ipotesi del-l’espansione dei fondali oceanici in un manoscritto che circolò ampiamente tra gli scienziati e lapubblicò successivamente (1962) in un’opera intitolata History of Ocean Basins (1962) che si ri-velò uno dei più importanti contributi allo sviluppo della tettonica delle placche.L’ipotesi viene accolta con favore dagli scienziati che sostenevano che la Terra è in espansione manon aveva cambiato le sue dimensioni dall’epoca della sua formazione, 4,6 miliardi di anni fa:come può aggiungersi nuova crosta senza che cambino le dimensioni? Robert S. Dietz, geologoamericano che lavorò soprattutto alla Scripps Institution of Oceanography (allora c’erano poche cat-tedre universitarie in un campo di ricerca nuovo) fu un pioniere nello studio della geologia ma-rina. Dopo la fine della seconda guerra mondiale aveva partecipato a diverse esplorazioni delbacino del Pacifico e aveva pubblicato parecchi lavori che esplicitavano alcune delle questionifondamentali connesse alla teoria della tettonica delle placche, in particolare il concetto che eglichiamò per primo «espansione dei fondali oceanici».Nella spedizione della Glomar Challenger del 1968 vennero prelevati molti campioni intorno alledorsali; i risultati dell’analisi paleontologica e isotopica dei campioni prelevati portarono con-ferme all’ipotesi dell’espansione dei fondali oceanici. Mettendo in relazione queste scoperte conl’idea di Hess che le dorsali oceaniche corrispondessero a zone di risalita e di espansione dei ma-teriali messi in movimento dalle correnti di convezione magmatica e che sprofondavano in cor-rispondenza delle fosse, si ipotizzò un “modello” dell’espansione dei fondali oceanici.

Il modello

Secondo le ipotesi di Hess, l’oceano Atlantico si stava espandendo, mentre l’oceano Pacifico sistava consumando. Mentre la vecchia crosta oceanica si stava consumando nelle fosse, nuovomagma fuoriusciva dalle dorsali oceaniche per formare nuova crosta. I fondali oceanici eranocontinuamente “riciclati” con la creazione di nuova crosta e la distruzione di vecchia litosferaoceanica contemporanea. Così l’idea di Hess dava ragione del perché la Terra non aumenta di di-mensione, perché sono relativamente scarsi i sedimenti accumulati sui fondali oceanici e perchéle rocce oceaniche sono molto più giovani delle rocce continentali.Come abbiamo visto, i contributi degli scienziati in diversi campi di indagine sono stati moltoimportanti, ma la paternità dell’idea che la litosfera sia divisa in un certo numero di placche chescivolano sull’astenosfera si deve probabilmente a un giovane ricercatore di Princeton, JasonMorgan, che la espose nel 1967 a una riunione dell’American Geophysical Union, suscitando scarsoentusiasmo. Nel contempo gli inglesi Dan Mc Kenzie e Robert Parker pubblicarono su Nature unateoria simile fondata su argomenti di ordine sismologico. Sembra dunque che la teoria della tet-tonica delle placche sia nata da ingegni differenti e da ragionamenti indipendenti circa nellostesso periodo. Alcuni studiosi ritengono che questi fatti dimostrino che quando un’idea scien-tifica è “matura”, la sua formulazione diventa quasi inevitabile.

MARIA CRISTINA SPECIANI, Per capire i fenomeni geologici: la dinamica terrestre e la tettonica delle placche (1), in Emmeciquadro n. 26, aprile 2006

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B2 Dinamica globale e tettonica delle placche: i problemi aperti

[…] Egli [Jason Morgan] considerava la superficie terrestre suddivisa in placche rigide e mostravache l’espansione dei fondali oceanici messa in evidenza da Hess, Dietz e dagli scienziati precedenti,poteva essere descritta mediante regole matematiche. L’idea rivoluzionaria di Morgan era che leplacche si comportavano come corpi rigidi su una sfera. La comunicazione, in agenda all’ora delpranzo, ebbe pochi ascoltatori e passò quasi un anno prima che ne apparisse una versione scritta.Parecchi mesi dopo, prima che Morgan pubblicasse il suo lavoro (Rises, Trenches, Great Faults andCrustal Blocks, 1968 Journal of Geophysical Research), i ricercatori inglesi Dan McKenzie e RobertParker, ignorando la proposta di Morgan, pubblicavano su Nature un modello di evoluzione dellacrosta terrestre praticamente identico, ma fondato su argomenti molto diversi, di ordine preva-lentemente sismologico, partendo da una discussione della cinematica della placca pacifica.Decenni più tardi, osservazioni dallo spazio basate sul GPS confermavano «meravigliosamente»le predizioni del modello sul movimento delle placche. Fu un bell’esempio di evoluzione paral-lela delle idee, che può verificarsi nel momento in cui la ricerca sta per superare una nuova tappa.Utilizzando i principi enunciati da Morgan, McKenzie e Parker nel 1967, cioè analizzando i con-fini delle placche, la posizione geografica del polo di rotazione e le velocità angolari ad essi as-sociate, nel 1968 Xavier Le Pichon4 ha costruito una mappa dei movimenti relativi delle seiplacche maggiori. Come scrive lui stesso: «Nel mondo della ricerca, le strade radicalmente nuovepossono apparire tanto insolite che la comunità tendenzialmente esita a lungo prima di percor-rerle. Dal canto mio abbandonai tutto quello che stavo facendo per applicare le idee di Morganalla predisposizione di un modello cinematico globale a sei placche che potesse prendere in con-siderazione l’essenziale delle manifestazioni tettoniche alla superficie della Terra. Furono ne-cessari cinque mesi. La tettonica stava ormai entrando nell’era della quantificazione. Era possibiledeterminare il tasso medio di deformazione utilizzando le frontiere di placca, ricollegarlo alla si-smicità e alle diverse manifestazioni geologiche. Sismologia e tettonica si erano ormai riconciliatee stavano per iniziare una fruttuosa collaborazione che fu magnificamente illustrata dai mieicolleghi sismologi del Lamont5, Isacks, Oliver e Sykes, in un articolo che utilizzava i risultati delmio modello a sei placche».Nel 1973 Le Pichon ha pubblicato il primo trattato sui margini di placca, Plate Tectonics, accoltomolto bene nel mondo scientifico e per molti anni il testo di riferimento più autorevole ancheper l’originalità dell’approccio che prendeva in considerazione ogni tipo di frontiera di placca. […]Alcune domande non hanno trovato soluzione esauriente nel modello.

Il flusso di calore

Solo nel 1974 si riuscì a costruire per la prima volta un quadro su scala globale dei valori delflusso di calore6 nelle diverse zone della Terra.La media del flusso di calore in tutti i continenti è 1,5 HFU. Il flusso di calore decresce con l’au-mentare della distanza dal centro degli oceani: lungo le dorsali oceaniche il flusso è maggiore di2 HFU; nei bacini adiacenti è circa 1,3 HFU; è inferiore a 1 HFU nelle fosse.

4 Geologo francese, vedi pagg. 84-88.5 Lamont-Doherty Geological Observatory, Columbia University, Palisades, NY.6 Il flusso di calore è la quantità di energia termica che sfugge alla Terra per unità di area e di tempo; l’unità di misura è l’HFU (HeatFlow Unit) equivalente a 1 μcal/(cm2s). Si determina moltiplicando il gradiente geotermico (aumento di temperatura in °C, ogni100 m di profondità) per la conducibilità termica locale. Sulle terre emerse ci possono essere fattori di disturbo; tecnicamente èpiù facile eseguire queste misure sui fondali oceanici: per mezzo di un carotiere per una profondità di 4-8 metri e con elementitermosensibili.

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Sono zone ad alto flusso di calore: tutti i principali sistemi di dorsali oceaniche (> 2 HFU); la ca-tena alpina in Europa; gli stati occidentali dell’America; i bacini marginali del Pacifico occiden-tale (circa 1,3 HFU). Sono zone a basso flusso di calore: gli scudi continentali, le piattaformesedimentarie, le zone oceaniche più antiche.Il gruppo completo dei dati poteva venire approssimato da funzioni matematiche per chiarire qualiforze possono determinare i movimenti della crosta. L’ipotesi formulata è che l’evoluzione termicadella Terra dipende dalla concentrazione e dalla durata degli isotopi che producono calore (radioat-tività): tre miliardi di anni fa c’era probabilmente un maggiore flusso di calore superficiale, rendendopiù sottili e più facilmente fratturabili le zolle di crosta terrestre. Si può presumere che in futuro (i datitopografici corrispondono finora con quelli del modello matematico di raffreddamento delle plac-che) la litosfera continuerà a ispessirsi e l’astenosfera diventerà più viscosa a causa del continuo raf-freddamento della Terra e del lento decadimento delle sorgenti di calore radioattivo. Ci si potrebbeaspettare che, fra un paio di miliardi di anni, gli scudi continentali andranno aumentando di spessore,sviluppando efficaci ancore «viscose» che porranno fine ai movimenti delle placche.

I punti caldi (hot spot)

Attualmente, ma soprattutto nel passato, notevoli quantità di magma vengono eruttate da cen-tri vulcanici situati all’interno delle placche litosferiche. Le lave sono basaltiche come quelle delledorsali, ma contengono percentuali più alte di metalli alcalini. L’ubicazione di questi centri nontrova una immediata risposta in termini di tettonica delle placche e, nel corso degli anni, sonostati proposti diversi modelli per spiegarne esistenza e caratteristiche. Quello che gode di maggior credito prevede l’esistenza di anomalie termiche stazionarie nel man-tello superiore dette hot spot, che costituirebbero il luogo di ascesa di cosiddetti pennacchi dimantello in una sorta di meccanismo convettivo. Il materiale costituente i pennacchi andrebbeincontro a fusione parziale nel corso della sua risalita per decompressione adiabatica7, generandomagmi detti OIB (basalti di isole oceaniche) a composizione variabile in funzione della profonditàe del grado di fusione parziale, della composizione della sorgente e di una più o meno complessaserie di contaminazioni e mescolamenti nel corso della risalita. Non tutto il magmatismo intra-placca, può essere facilmente ricondotto a una genesi da hot spot,infatti alcune province vulcaniche continentali sono chiaramente connesse con tettonica di tipoestensionale e fenomeni di rifting8. In questi casi il magmatismo costituirebbe una risposta pas-siva all’assottigliamento crostale causato da stress differenziale all’interno di una placca. Nel 1971 Morgan per primo aveva proposto che i pennacchi caldi – flussi caldi di materiali relativa-mente primordiali – nascessero dalla profondità del mantello e dessero origine agli hot spot. Ancoraoggi non esiste una definizione di pennacchio ampiamente accettata, e spesso gli scienziati usano il ter-mine riferendosi a modelli diversi. A testimoniare che il problema è ancora controverso e che, comesosteneva nel 2004 Alexei Ivanov9, «plume in mind of one researcher is not the same as the plume inmind of others», è l’attualità di mantleplumes.org un sito per discutere l’origine del vulcanismo da hot spot.Il punto caldo più vistoso e di più sicura interpretazione è quello delle Hawaii, che già nel 1963il canadese John Tuzo Wilson, il geofisico che aveva identificato le faglie trasformi, aveva rap-presentato come nell’immagine.

7 La decompressione adiabatica è la diminuzione di pressione senza scambio di calore con l’esterno. Infatti, in termodinamica, una trasfor-mazione adiabatica è una trasformazione termodinamica nel corso della quale un sistema fisico non scambia calore con l’ambiente esterno.8 Tettonica di tipo estensionale e rifting: la superficie della Terra si tende e si frattura.9 Geologo russo, lavora presso l’Istituto della crosta terrestre, dell’Accademia russa delle scienze, dipartimento siberiano, con sedea Irkutsk.

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Wilson aveva ipotizzato che il vulcanismo delle Hawaii,attivo per periodi di tempo estremamente lunghi, erapossibile solo se sotto le placche fossero esistite aree re-lativamente ristrette, di lunga durata e eccezionalmentecalde (chiamate hot spot) che avrebbero fornito sorgentilocalizzate di energia ad alto calore (pennacchi caldi) persostenere il vulcanismo. In particolare, Wilson ipotizzòche il tipico allineamento delle isole nell’arcipelago ha-waiiano risultava dal fatto che la placca pacifica si spostasu un profondo hot spot presente nel mantello. Oggi si ri-tiene che molti hot spot siano presenti sotto i continenti(per esempio sotto la placca africana) o vicino a marginidi placca divergenti, come le catene medio oceaniche osotto le Azzorre o le Galapagos. Anche il vulcanismo (i

Dorsale

Hawaii

Kaua

i

Sezione

Pianta

Hawaii

Kauai

dal più giovane al più vecchio

geyser o le manifestazioni termali) che caratterizza la regione del Yellowstone National Park, nel-l’America settentrionale, sembrerebbe dovuto alla presenza di hot spot.

Le forze che guidano i movimenti delle placche

Le placche tettoniche non si muovono a caso, ma sono guidate da forze precise. Gli scienziati nonsono ancora in grado di descrivere precisamente queste forze, né di comprenderne pienamentela natura, ma molti credono che le forze che guidano i movimenti delle placche litosferiche sianocollegate con forze che si originano nella zona più profonda della Terra. Se l’ipotesi dell’esistenza di celle di convezione nel mantello è condivisa, restano molte domande:Quante celle di convezione esistono? Dove e come esse si originano? Qual è la loro struttura?La convezione implica una fonte di calore e il calore interno alla Terra può venire da due fonti:il decadimento radioattivo (in particolare di uranio, torio e potassio) e il calore residuo – ener-gia gravitazionale rimasta dalla formazione del pianeta. Come e perché il calore interno si con-centri in regioni particolari e contribuisca a formare celle di convezione resta un mistero. Fino al 1990 la maggior parte degli scienziati pensava che il meccanismo principale per lo spo-stamento delle placche, legato alle celle convettive nel mantello, fosse l’espansione oceanica. In più, parecchi geologi attribuivano all’intrusione del magma entro i margini divergenti unafunzione significativa per mantenere il movimento delle placche e la subduzione era conside-rata un processo secondario – solo una conseguenza dell’espansione dei fondali. Molti scienziati ritengono oggi che le forze associate alla subduzione siano importanti quantol’espansione dei fondali. Già nel 1994 il giapponese Seiya Uyeda sosteneva che «la subduzionegioca un ruolo fondamentale nel meccanismo di spostamento delle placche»; oggi è general-mente considerata la forza che origina il moto delle placche.Noi sappiamo che il movimento delle placche è dovuto a forze interne al pianeta, ma nessuna,tra le ipotesi formulate, è avallata da fatti certi; nessuno dei meccanismi proposti riesce a spie-gare tutti gli aspetti del movimento e dal momento che queste forze sono così profonde, nessunmeccanismo può essere verificato direttamente e provato oltre ogni ragionevole dubbio. Non c’è dubbio che le placche si sono mosse nel passato e si continuano a muovere, ma i detta-gli del perché e del come esse si muovono continueranno a sfidare la scienza ancora per moltotempo.

MARIA CRISTINA SPECIANI, Per capire i fenomeni geologici: la dinamica terrestre e la tettonica delle placche (2), in Emmeciquadro n. 27, agosto 2006

Nel 1963 J. Tuzo Wilson rappresentava l’origine delleHawaii come esito di vulcanismo da hot spot.

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C1 Un modello per la dinamica terrestre

Nel 1959 la dorsale medio-oceanica faceva il suo ingresso trionfale nella tettonica e diventava al-l’improvviso la struttura più importante del globo. Lo studio geofisico di questa dorsale [medio-oceanica] fu il soggetto della tesi che discussi a Strasburgo nel 1963 quattro anni dopo.Utilizzando tutti gli strumenti geofisici disponibili, in collaborazione con John Ewing, il fratellodi Maurice, per la sismica, con Manik Talwani per la gravimetria, Jim Heirtzler per il magnetismoe Mark Langseth per il flusso di calore, in una serie di articoli presentai il primo studio appro-fondito sulla sua struttura. In questo lavoro cercavo la chiave che mi avrebbe aperto i segreti delsuo ruolo tettonico. Questa chiave era alla mia portata ma non fui in grado di coglierla. Sonostato condizionato dalla cultura fissista nella quale ero stato formato e che era quella di tutti imiei capi e colleghi. Rientrando da Strasburgo dove avevo sostenuto la mia tesi, scoprii quello cheormai veniva chiamato il profilo magico di Walter Pitman […]. Mia moglie si ricorda ancora chele avevo dichiarato: «Le conclusioni della mia tesi sono errate; è Hess ad avere ragione». La scossafu profonda. L’argomento centrale che mi aveva fatto rigettare il modello di Hess era il flusso dicalore misurato sulle dorsali. Le mie misurazioni erano giuste, i miei calcoli erano giusti, ma lemie conclusioni erano errate. Avevo ignorato un parametro nascosto, la cui esistenza fu dimo-strata solo diversi anni dopo. Scoprii in quella circostanza ciò che costituisce l’essenza stessa delmetodo sperimentale, il riconoscere che nessun modello può essere considerato provato in via de-finitiva e che deve sempre potere essere messo in discussione da chi lo elabora o da altri. La le-zione fu dura. Ma ormai avevamo la chiave. Il lavoro di interpretazione che si apriva davanti a noi

L’AVVENTURA SCIENTIFICA DI XAVIER LE PICHON

Riconoscono gli storici della scienza che gli anni Sessanta del secolo scorso offrivano immense opportu-nità ai geofisici perché nei due decenni precedenti erano state raccolte grandi masse di dati che attende-vano di essere elaborati e interpretati. Ma per formulare un nuovo modello per l’evoluzione della Terraoccorrevano scienziati capaci di scorgere nei dati disponibili la rivoluzione dei paradigmi con cui si con-cepiva la dinamica terrestre fino ad allora, occorreva riconoscere che la Terra è un pianeta vivo, la cuiconfigurazione è in costante evoluzione, grazie a spostamenti orizzontali di migliaia di chilometri in untempo geologicamente molto breve. In questa storia è stata particolarmente significativa la figura del francese Xavier Le Pichon cui si deve,nei primi anni Settanta, lo studio dei margini di placca secondo un modello globale basato su analisiquantitative e, in seguito, lo sviluppo di programmi di studio scientifico ad alta risoluzione dei fondalisottomarini. Nel 1973 Le Pichon pubblica il primo trattato sui margini di placca, Plate Tectonics,accolto molto bene nel mondo scientifico e per molti anni il testo di riferimento più autorevole anche perl’originalità dell’approccio che prendeva in considerazione ogni tipo di frontiera di placca. Nel 2002, inoccasione della consegna del premio Balzan10 per la geologia, Le Pichon ha proposto una personale einteressantissima lettura della geologia degli anni Sessanta.

C

10 La Fondazione Internazionale Balzan fondata a Lugano nel 1956 in memoria di Eugenio Balzan, assegna annualmente quattropremi nelle categorie "lettere, scienze morali e arti" e "scienze fisiche, matematiche, naturali e medicina", ogni quattro anni as-segna il premio "per l'umanità, la pace, la fratellanza fra i popoli". L'ammontare di ciascun premio è attualmente di un milione difranchi svizzeri. La Fondazione opera attraverso due sedi istituzionali, una a Milano e una a Zurigo. La Balzan "Premio", attraversoil suo Comitato Generale Premi, a composizione europea, sceglie le materie da premiare e seleziona le candidature. La Balzan"Fondo" amministra il patrimonio lasciato da Eugenio Balzan.

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era immenso. Furono mesi di attività intensa in un clima di euforia. Utilizzavamo le anomaliemagnetiche per determinare l’età e la storia del fondo degli oceani, sotto la direzione di Jim Heir-tzler che ci aveva divisi per oceano. Io ereditai l’Oceano Indiano. Ma continuavamo ad utilizzareuna cartografia che non ci diceva niente sulla tettonica. Eppure Lynn Sykes aveva dimostrato illegame tra Espansione dei Fondi Oceanici e Sismicità.[…]Nel mondo della ricerca, le strade radicalmente nuove possono apparire tanto insolite che la co-munità tendenzialmente esita a lungo prima di percorrerle. Dal canto mio abbandonai tuttoquello che stavo facendo per applicare le idee di Morgan alla predisposizione di un modello ci-nematico globale a sei placche che potesse prendere in considerazione l’essenziale delle manife-stazioni tettoniche alla superficie della Terra. Furono necessari cinque mesi. La tettonica stavaormai entrando nell’era della quantificazione. Era possibile determinare il tasso medio di defor-mazione utilizzando le frontiere di placca11, ricollegarlo alla sismicità e alle diverse manifestazionigeologiche.Sismologia e tettonica si erano ormai riconciliate e stavano per iniziare una fruttuosa collabo-razione che fu magnificamente illustrata dai miei colleghi sismologi del Lamont, Isacks, Olivere Sykes, in un articolo che utilizzava i risultati del mio modello a sei placche.

XAVIER LE PICHON, da un’intervista rilasciata in occasione della consegna del premio Balzan, Roma 2002, tratta dal sito del premio Balzan, trad. di Maria Cristina Speciani

C2 La tettonica delle placche: una teoria rivoluzionaria

Quando ero ragazzino in Vietnam, guardavo l’Oceano Pacifico e mi chiedevo in che modo laspiaggia si prolungasse sotto quei flutti azzurri che si estendevano a perdita d’occhio. I misterinascosti di quello strano mondo mi affascinavano e questa domanda non mi ha mai più ab-bandonato. Ho avuto l’immensa fortuna di poter consacrare la mia vita professionale a cercarela risposta, per giunta in un periodo in cui i mezzi di esplorazione del mondo sottomarino si svi-luppavano così rapidamente che ogni nuova ricerca apportava un bottino di importantissime in-formazioni. In fin dei conti è proprio questa curiosità di scoprire ciò che è sconosciuto che voioggi premiate così generosamente con il premio Balzan 2002 per la geologia.La mia generazione sarà ricordata, a mio avviso, come quella che non solo ha esplorato i fondalioceanici, ma ne ha anche compreso la natura, la formazione e il modo di funzionare. Ed è statocosì possibile, basandoci su queste acquisizioni, mettere a punto il nuovo modello di evoluzionedella crosta terrestre, il modello della tettonica a placche. Dovevamo superare il concetto delle“barchette” continentali sulle quali stavamo, per cominciare a comprendere la vita del nostroturbolento pianeta, con il suo seguito di terremoti ed eruzioni vulcaniche. Credo che questa siauna lezione importante. L’ambiente che ci circonda forma un tutto immensamente complesso.La soluzione dei problemi che esso ci pone, si trova raramente con un approccio localizzato. Sol-tanto un approccio globale permette quegli importanti progressi concettuali che rivoluzionanouna disciplina, come ha fatto la tettonica delle placche per le scienze della Terra.La mia avventura nei misteri oceanici fu soprattutto un’avventura umana. La ricerca scientifica,ai giorni nostri, è collettiva, soprattutto quella che si pratica in mare. Durante una campagna diricerca, noi formiamo una squadra che non avrà successo se non sarà fraterna. Personalmente houn debito enorme, non solo nei confronti dei ricercatori con cui ho lavorato, ma anche dei nu-

11 Limiti di una placca.

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merosissimi marinai e tecnici, americani, francesi e giapponesi, senza i quali non avrei potuto farnulla. Fra coloro, così numerosi, che mi hanno aiutato, permettetemi di ricordare Maurice Ewing,un vero gigante dell’oceanografia. Texano, figlio di un cowboy del Texas, per il quale l’oceano eracome il Far West, mi insegnò il rispetto del dato scientifico. Fu lui a battezzarmi oceanografo:avevo 22 anni ed ero appena entrato alla Columbia University con una borsa Fullbright, quandoEwing mi inviò a fare il giro del mondo su una goletta tre alberi, la “Vema”.«L’oceanografia si impara in mare» fu la sua implacabile sentenza. Aveva perfettamente ragione.Devo anche ricordare il Centre National pour l’Exploitation des Océans (CNEXO), divenuto poi InstitutFrançais de Recherche pour l’Exploitation de la Mer (IFREMER), il cui primo presidente Yves la Prairiediede per primo impulso alla modernizzazione della flotta oceanografica francese e mi permisedi lanciarmi nell’avventura dell’esplorazione sottomarina dei confini delle placche.Poiché parlo degli uomini e delle donne che hanno segnato la mia vita, non posso tacere l’ami-cizia dei miei fratelli e sorelle handicappati dell’Arca12, che mi ricordano continuamente che i va-lori umani vengono prima di tutto il resto. Devo a loro, e alla mia famiglia che mi ha sempresostenuto durante questa avventura, l’aver mantenuto intatta la sete di scoperta, sete che ho ri-cevuto, come un dono, nella mia infanzia. Desidero ringraziarli affettuosamente, soprattuttomia moglie, Brigitte, che ha vissuto giorno dopo giorno gli alti e bassi di questi quarantatré annidi ricerche.Una caratteristica notevole del premio Balzan è il sostegno finanziario dato ai giovani ricercatori.La mia preoccupazione principale, oggi, è di lasciare la possibilità a coloro che fanno parte dellamia squadra nel nostro laboratorio di andare oltre. Grazie al premio Balzan, potrò farlo. Signoree Signori membri della giuria, ve ne ringrazio sentitamente per loro come per me.

Xavier Le Pichon, discorso alla consegna del premio Balzan, Roma 2002, tratta dal sito del premio Balzan

C3 Fare scienza, un’avventura della ragione

Nel 2007, durante una tavola rotonda con altri scienziati (un matematico e un astrofisico) sul tema Scienza,ragione verità, Le Pichon ha riproposto i termini essenziali e le motivazioni della sua ricerca geologica. Le do-mande rivolte ai partecipanti dal moderatore Marco Bersanelli sono in grassetto; sono riportate solo le rispo-ste di Le Pichon.

Qual è il problema scientifico sul quale stai lavorando attualmente e come lavori, qual è ilmodo con cui porti avanti la tua ricerca?

Io lavoro molto sulla tettonica attiva, quella che produce i sismi, i terremoti e il processo del vul-canesimo. Tre settimane fa mi trovavo nel mar di Marmara, in Turchia, al largo di Istanbul, suun sottomarino. Stavo esaminando la grande frattura, la faglia che vi è al largo di Istanbul, dacui ci si aspetta un grande terremoto che potrebbe essere devastante per la città di Istanbul. Stolavorando su questa tematica dopo il grande terremoto in Turchia del 1999. Oggi possiamo re-perire informazioni estremamente interessanti: scendendo coi sottomarini possiamo esaminarela faglia, vediamo se è recente, quando si è originata, quali gas sono presenti; inoltre ci avva-liamo dei satelliti per misurare i movimenti tettonici. Con tutto questo cerchiamo di porre in

12 Associazione “L’Arche”: insieme di comunità per e con persone aventi un handicap mentale fondata nel 1964 da Jean Vanier.Nel 1971, con Marie Hélène Mathieu, ha fondato Fede e Luce, un movimento che raccoglie persone con handicap, i loro famigliarie amici per dei tempi di condivisione, di celebrazione e di preghiera. Queste comunità sono presenti in tutto il mondo (più di mille,circa 65 in Italia).

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atto una serie di provvedimenti al fine di valutare lo stato, la condizione, la situazione di forzeche stanno agendo su questa grande faglia e che potrebbero produrre questo catastrofico ter-remoto.Ho anche un’altra attività in questo periodo, che mi interessa molto e che riguarda il sud dellaFrancia, la Provenza, dove c’è un grande laboratorio per la fusione nucleare che si chiama Iter. Allarealizzazione di questo centro parteciperanno tutti i paesi del mondo, fra cui la Francia; io par-tecipo per quanto riguarda la valutazione del rischio sismico all’interno di questo grande labo-ratorio. Quindi ho nuove ipotesi sulle possibilità di terremoti anche nel sud della Francia. Nonentrerò nel merito, ma per me è un aspetto molto interessante da un punto di vista intellettualee ha delle conseguenze pratiche molto importanti perché questo porta a pensare in modo nuovo,a porsi nuove domande. Per quale ragione geologica tutto il sud della Francia, ad esempio, si stalentamente spostando verso il Mediterraneo e produce terremoti che potrebbero essere anchepiuttosto gravi?

Qual è stata una delle più interessanti scoperte o novità di cui sei stato protagonista e come èavvenuto, come è accaduto, di imbattersi in questo passo avanti?

Quarant’anni fa (avevo trent’anni all’epoca) avevamo appena scoperto in ambito scientifico chela superficie della Terra era in movimento continuo: grandi placche, simili a enormi zattere, sispostavano le une rispetto alle altre. Ma non sapevamo esattamente a quale velocità queste plac-che si avvicinassero in regioni come le Alpi, la Catena dell’Himalaya o nelle fosse oceaniche. Nel-l’estate del 1967, per tre mesi, ho lavorato da solo ogni notte per cercare di modellizzare la Terra,nel tentativo di calcolare le velocità di avvicinamento o di allontanamento delle placche. Tuttele notti lavoravo al computer, rientravo poi la mattina. Una bella mattina sono arrivato, ho dettoa mia moglie: «Ci siamo: ho trovato come funziona la Terra, adesso so come funziona». E in uncerto qual modo avevo l’impressione di aver scoperto un segreto. Credo che sia una delle mag-giori gioie dello scienziato, quando ha l’impressione di essere entrato all’interno di un dialogocon la Terra, con la natura; quando lo scienziato fa delle domande, e fa le domande corrette, a quelpunto la natura accetta di rispondere.Quando la natura dà buone risposte, uno si appassiona. Ho scoperto che l’Africa si avvicinava al-l’Europa per circa un centimetro all’anno, l’India si avvicinava alla Cina ogni anno di cinque cen-timetri e poi l’Himalaya, il Tibet: non potete immaginare la felicità, il giubilo, l’eccitazione, lagioia di essere riuscito ad entrare all’interno di questo dialogo con la natura. Penso che sia que-sto quello che c’è di più profondo nella scienza, vale a dire la scoperta di poter porre delle do-mande alla natura. Quando si fanno bene queste domande, quando si pongono questi quesiti inmodo intelligente, al momento giusto, la natura risponde. E lì, dopo tre mesi, così, di punto inbianco ho avuto la risposta che cercavo.Credo che sia questa l’avventura straordinaria che stiamo attualmente vivendo: l’umanità ha im-parato a dialogare in modo qualitativo e quantitativo con la natura. I risultati di questo dialogomodificano il nostro mondo e pongono molte domande, nuovi problemi. Ma tutto questo faparte della necessità dell’uomo di capire dove si trova, di dialogare con la natura, riuscire a sco-prire tutto l’ambiente che lo circonda.

Diceva Weiskoppf: «Ogni vero scienziato intuisce un senso, consciamente o inconsciamente. Secosì non fosse, non andrebbe avanti con quel fervore, così comune fra gli scienziati, nella ri-cerca di qualche cosa che egli chiama verità». D’altra parte noi non siamo mai soddisfatti darisposte parziali, tendiamo inevitabilmente a una verità esauriente. Qual è allora il rapporto

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che c’è tra una verità scientifica (matematica, fisica, eccetera), quindi una verità parziale eprovvisoria, e il nostro bisogno profondo, ultimo, umano di una verità ultima, di una veritàcome “destino”?

Credo che per qualsiasi persona che rifletta sia chiaro che l’uomo con la sua presenza sulla Terraha modificato profondamente l’ambiente. Siamo in una sorta di processo di co-creazione, con-tribuiamo a creare una Terra molto diversa da quella che i nostri avi hanno conosciuto. Questoè inevitabile: oggi siamo oltre sei miliardi, abbiamo necessità molto rilevanti e la scienza è stru-mento indispensabile per questa trasformazione del mondo, per vivere meglio. La scienza, che èun dialogo avviato con la natura, fornisce informazioni basilari per trasformare il mondo. Ma lascienza non dice in quale direzione occorra andare. Questo è il punto nodale: la scienza non cidà la verità ultima. Siamo noi che dobbiamo decidere ciò che faremo con i risultati della scienza,quale direzione prenderemo. Nel mio ambito, siamo spesso sollecitati, come esperti, sui grandiproblemi naturali, come i cambiamenti climatici, legati all’introduzione massiccia di anidridecarbonica e degli altri gas a effetto serra; oppure i terremoti (come il grande terremoto di Suma-tra, un evento di violenza inaudita, che ha colpito profondamente le popolazioni dell’OceanoIndiano); ci sono domande aperte fondamentali: come costruire le città? quale energia useremofra cinquant’anni? Il petrolio finirà fra poco? Ebbene, a queste domande solo la scienza può con-tribuire a dare gli elementi tecnici per arrivare a una decisione. Ma c’è una diversità di decisioni,ed è questo l’ostacolo.L’umanità per la prima volta è obbligata a prendere delle decisioni globali. Questo riguardail clima, riguarda l’energia, riguarda molti altri campi. Ma l’umanità ha bisogno della scienza.Al tempo stesso la scienza deve diventare un bene comune dell’umanità, e per le sue applica-zioni dipenderà dall’ideale che sceglierà l’umanità, dalla verità che cercheremo di portareavanti. Non credo che arriverà un mondo orwelliano in cui gli scienziati imporranno ai cit-tadini il modo in cui orientare il loro destino. Noi abbiamo bisogno della verità, il nostro de-stino è la verità. La scienza contribuisce, fornisce elementi significativi, tuttavia la scienzadeve essere presa come patrimonio globale ed essere valutata per le sue conseguenze su tuttal’umanità.

Scienza, ragione, verità, tavola rotonda tra Enrico Bombieri, Xavier Le Pichon e Paul Davies (coordinata da Marco Bersanelli) tenutasi il 20 agosto 2007 al Meeting per l’amicizia tra i popoli,

dal sito www.euresis.org

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D1 Alfred Lothar Wegener: Moving Continents

Perhaps Alfred Wegener’s greatest contribution to the scientific world was his ability to weaveseemingly dissimilar, unrelated facts into a theory, which was remarkably visionary for the time.Wegener was one of the first to realize that an understanding of how the Earth works requiredinput and knowledge from all the earth sciences.Wegener’s scientific vision sharpened in 1914 as he was recuperating in a military hospital froman injury suffered as a German soldier during World War I. While bed-ridden, he had ample timeto develop an idea that had intrigued him for years. Like others before him, Wegener had beenstruck by the remarkable fit of the coastlines of South America and Africa. But, unlike the others,to support his theory Wegener sought out many other lines of geologic and paleontologic evi-dence that these two continents were once joined. During his long convalescence, Wegener wasable to fully develop his ideas into the Theory of Continental Drift, detailed in a book titled Die Entste-hung der Kontinente und Ozeane (in German, The Origin of Continents and Oceans) published in 1915.Wegener obtained his doctorate in planetary astronomy in 1905 but soon became interested in meteor-ology; during his lifetime, he participated in several meteorologic expeditions to Greenland. Tenaciousby nature, Wegener spent much of his adult life vigorously defending his theory of continental drift, whichwas severely attacked from the start and never gained acceptance in his lifetime. Despite overwhelmingcriticism from most leading geologists, who regarded him as a mere meteorologist and outsider meddlingin their field, Wegener did not back down but worked even harder to strengthen his theory. A couple of years before his death, Wegener finally achieved one of his lifetime goals: an aca-demic position. After a long but unsuccessful search for a university position in his native Ger-many, he accepted a professorship at the University of Graz in Austria. Wegener’s frustrationand long delay in gaining a university post perhaps stemmed from his broad scientific interests.As noted by Johannes Georgi, Wegener’s longtime friend and colleague, «One heard time andagain that he had been turned down for a certain chair because he was interested also, and per-haps to a greater degree, in matters that lay outside its terms of reference – as if such a man wouldnot have been worthy of any chair in the wide realm of world science».Ironically, shortly after achieving his academic goal, Wegener died on a meteorologic expeditionto Greenland. Georgi had asked Wegener to coordinate an expedition to establish a winter weatherstation to study the jet stream (storm track) in the upper atmosphere. Wegener reluctantly agreed.After many delays due to severe weather, Wegener and 14 others set out for the winter station inSeptember of 1930 with 15 sledges and 4,000 pounds of supplies. The extreme cold turned backall but one of the 13 Greenlanders, but Wegener was determined to push on to the station, wherehe knew the supplies were desperately needed by Georgi and the other researchers. Travellingunder frigid conditions, with temperatures as low as minus 54°C, Wegener reached the stationfive weeks later. Wanting to return home as soon as possible, he insisted upon starting back to thebase camp the very next morning. But he never made it; his body was found the next summer.

DERIVA DEI CONTINENTI: LA STORIA DI ALFRED LOTHAR WEGENER

Alfred Lothar Wegener è un personaggio da conoscere, per dare concretezza di contesto e di tempo aquella che tutti i libri presentano come “teoria di Wegener”. Una biografia tratta dal sito della NASA, inlingua originale, per capire come dalla capacità di mettere in relazione i dati raccolti dalle scienze dellaTerra può nascere una grande scoperta; ma anche per capire come opera uno scienziato tenace nono-stante le incomprensioni del mondo scientifico a lui contemporaneo.

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Wegener was still an energetic, brilliant researcher when he died at the age of 50. A year beforehis untimely death, the fourth revised edition (1929) of his classic book was published; in thisedition, he had already made the significant observation that shallower oceans were geologicallyyounger. Had he not died in 1930, Wegener doubtless would have pounced upon the new At-lantic bathymetric data just acquired by the German research vessel Meteor in the late 1920s.These data showed the existence of a central valley along much of the crest of the Mid-AtlanticRidge. Given his fertile mind, Wegener just possibly might have recognized the shallow Mid-At-lantic Ridge as a geologically young feature resulting from thermal expansion, and the central val-ley as a rift valley resulting from stretching of the oceanic crust. From stretched, young crust inthe middle of the ocean to seafloor spreading and plate tectonics would have been short mentalleaps for a big thinker like Wegener. This conjectural scenario by Dr. Peter R. Vogt (U.S. Naval Re-search Laboratory, Washington, D.C.), an acknowledged expert on plate tectonics, implies that«Wegener probably would have been part of the plate-tectonics revolution, if not the actual in-stigator, had he lived longer». In any case, many of Wegener’s ideas clearly served as the catalystand framework for the development of the theory of plate tectonics three decades later. Alfred Lothar Wegener: Moving continents, biografia tratta da http://earthobservatory.nasa.gov/Library/Giants/Wegener

APPENNINO E TETTONICA DELLE PLACCHE

Quando si parla dei modelli globali che spiegano la costituzione e le trasformazioni della superficie ter-restre si pensa che si tratti di realtà che interessano solo marginalmente quello che succede nel territoriodell’Italia. Invece, come è ben chiarito nel brano che segue, la formazione della catena montuosa che at-traversa tutta l’Italia e i grandi movimenti delle placche sono strettamente correlati.

E

E1 L’evoluzione dell’Appennino attraverso la tettonica delle placche

Nella regione mediterranea coesistono in stretta contiguità mari profondi e catene montuose. L’ar-ticolata morfologia del Mediterraneo è strettamente legata alla convergenza fra la placca africana equella europea ed è il prodotto di una complessa evoluzione iniziata c.a. 80 milioni di anni fa. I nu-merosi terremoti e l’intensa attività vulcanica che caratterizzano la regione mediterranea sonol’espressione più vistosa (a volte così intensa da assumere connotati di pericolosità per le popolazionie per le opere civili) della continua dinamica che si manifesta ai margini delle placche litosferiche.Per meglio comprendere le modalità di interazione fra le placche litosferiche e per capire comequesta si rifletta sul territorio è opportuno conoscere l’evoluzione che ha portato alla situazioneche osserviamo attualmente.La complessa geologia che caratterizza le Alpi, l’Appennino e il Tirreno settentrionale, comprenderocce e sedimenti fra i più vari: litotipi13 derivanti dalla crosta e dal mantello oceanico, frammentiprovenienti dalle porzioni profonde della crosta continentale e sedimenti deposti in ambienti che va-riano da mare profondo a lagune costiere. Queste rocce e questi sedimenti sono raggruppati in unitàgeologiche che sono state variamente deformate e dislocate nel corso del tempo. Numerosi studisono stati dedicati a districare questa complessità allo scopo di ricostruire la storia geologica dellaregione italiana. Non sempre, tuttavia, i notevoli spostamenti fra la placca africana e quella europeasono stati tenuti nel dovuto conto. Molte ricostruzioni considerano, infatti, come originaria l’at-

13 Tipi litologici.

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tuale adiacenza di alcuni elementi di questo complesso puzzle che, a causa del moto delle placche,erano invece in origine separati e distanti fra loro. Il tentativo di ricostruzione che si è messo a puntosi basa sull’applicazione dei principi della tettonica delle placche e sullo studio delle situazioni aimargini di placca attuali che offrono analogie per la ricostruzione del passato. Sono stati integratinelle ricostruzioni i dati geologico-geofisici regionali e lo spostamento relativo fra le placche africanaed europea. Quest’ultimo è stato ottenuto grazie allo studio delle anomalie magnetiche presenti neifondali dell’Oceano Atlantico, che consentono di riposizionare Africa, Sud America, Nord Americaed Europa nei vari momenti dell’apertura dell’Oceano Atlantico. Le ricostruzioni paleogeologicheeffettuate portano a ritenere che rilevanti porzioni di litosfera oceanica, successivamente subdottenel mantello, fossero presenti fra i margini continentali africano ed europeo.In particolare, la litosfera oceanica situata ad ovest del promontorio adriatico ha giocato unruolo determinante nell’evoluzione geologica del Mediterraneo. La litosfera oceanica è più densa e pesante di quella continentale e affonda con relativa facilità.A seguito della collisione continentale, la velocità di convergenza fra Africa ed Europa diminui-sce e il processo di affondamento della litosfera oceanica diventa dominante, portando la lineadi subduzione, con la sua proto-catena14, ad arretrare nel tempo verso sud, formando progressi-vamente l’arco montuoso che si segue dall’Appennino al nord Africa. Le ultime vestigia di que-sto processo di affondamento sono visibili nella porzione di litosfera tratteggiata dalladistribuzione degli ipocentri dei terremoti localizzati sotto al Mar Tirreno. Questi terremoti sidistribuiscono in una stretta fascia continua fino a 500 km, indicando la presenza di una placcalitosferica immergente verso nord-ovest con un’inclinazione di circa 70 gradi.La ricostruzione geologica presentata in figura15 si riferisce a circa 60-70 milioni di anni fa e mo-stra la collisione del promontorio adriatico (in verde), un’appendice della placca africana, con laplacca europea (in rosa), nella quale si riconoscono i contorni della Corsica, della Sardegna edella Calabria. Questa collisione, che darà luogo alla catena alpina, è caratterizzata dalla subdu-zione della placca europea al di sotto della placca africana (vedi sezioni verticali). A sud di que-sta collisione continentale è presente un’area di litosfera oceanica (in azzurro, si consiglia di vederel’immagine a colori all’indirizzo web riportato in calce) che viene subdotta al di sotto della placca eu-ropea, con una polarità opposta rispetto a quanto avviene a nord. È da quest’area meridionale cheavrà origine, nel corso della convergenza fra le placche, la catena appenninica.

ANDREA ARGNANI, L’evoluzione dell’Appennino attraverso la Tettonica delle Placche, tratto da: sito dell’Istituto di Geologia Marina del CNR, Bologna, www.fi.cnr.it/r&f/n14/argnani.htm

14 Proto, di origine greca, nelle parole composte (peresempio prototipo) significa primo; perciò il significato èprimo abbozzo di catena.15 Si consiglia di visitare il sito web citato in calce, per iriferimenti ai colori della figura.

Ricostruzione geologica delle fasi iniziali della collisionefra Africa ed Europa con le sezioni geologiche crostali

e litosferiche indicative.

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