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DOMENICA 21 GENNAIO 2007 D omenica La di Repubblica i luoghi Nelle cattedrali le nostre radici di pietra JACQUES LE GOFF e DANIELA ROMAGNOLI spettacoli James Crosby, il figlio del figlio dei fiori ERNESTO ASSANTE e STEVEN ROSEN il reportage Gli scozzesi e il sogno dell’indipendenza ENRICO FRANCESCHINI e MARIA PIA FUSCO la memoria I tre errori di Al Capone, il padrino VITTORIO ZUCCONI le tendenze Design, il genio artigianale di Prouvé MASSIMILIANO FUKSAS e AURELIO MAGISTÀ cultura Sebastião Salgado tra i giganti marini PACO IGNACIO TAIBO II MILANO Q uanti inverni sono passati sulle loro belle facce di montanari. Inverni di guerra in Russia e in Bosnia, in Piemon- te e in Francia, inverni di morte e di gelo, di libertà e di pace, di amicizie, di giornali e di libri, di viaggi e di vini, di fi- gli e di nipoti. Giorgio Bocca è nato a Cuneo alla fine del mese di agosto, quando in montagna l’estate muore all’improvviso e la notte per dormire devi già mettere la coperta spessa che ti davano nelle camerate degli alpini. Nel suo ultimo libro che si intitola Le mie montagne, gli anni della neve e del fuoco, ha pre- so in prestito una frase di Buzzati e l’ha declinata nella sua au- tobiografia: «Tutte le mattine della vita, alzandomi dal letto e affacciandomi alla finestra della mia camera, ho visto una cer- chia di monti. I monti della mia esistenza, stampati non solo nella memoria ma nel profondo della coscienza, da quei mon- ti strettamente condizionato». Mario Rigoni Stern ha comin- ciato le sue Stagioni così: «Sono nato alle soglie dell’inverno, in montagna, e la neve ha accompagnato la mia vita». Bocca e Ri- goni Stern sono uno di fronte all’altro, adesso, con quella map- pa di sentieri e seracchi profondi scavata nella pelle attorno ai loro sguardi chiari a parlare di come spesso gli uomini credo- no di agire seriamente ma in realtà non sanno che cosa fanno. Tra i loro atti e la loro presunzione c’è il mondo e in questo mon- do la natura piega gli alberi e solleva il mare e gli animali si mol- DARIO CRESTO-DINA tiplicano e scompaiono, eppure gli uomini questo mondo non lo vedono. L’uomo non sa nulla del lupo, dicevano una volta i vecchi delle montagne per spiegarci quanto siamo indifesi davanti al- la natura selvaggia. Oggi non è il sangue del lupo a spaventar- ci, ma i venti gradi registrati ad Aosta qualche giorno fa e i di- ciotto di Milano, le ruote dei Suv che affondano nel fango ai margini dei campi di sci senza neve, un fiore che spunta a 1500 metri il pomeriggio di Capodanno, la farfalla fotografata nel parco del Gran Paradiso, i gerani sui terrazzi di Torino, la Ger- mania più calda di Palma di Maiorca. Avamposti quasi gentili della catastrofe annunciata dai climatologi, questa terra che ci sfuggirà di mano, uno schiaffo al nostro orgoglio antropocen- trico o più semplicemente la condanna per la nostra ignoran- za travestita da onnipotenza. Di tutto questo parlano Giorgio e Mario, io li sto a ascoltare. Bocca. «Questa maledetta primavera di gennaio è spalanca- re la finestra della mia stanza a Bellardey, in Valle d’Aosta, e ve- dere l’implacabile cielo azzurro, dal Bianco fino alla Grivola che ha la cima mozzata. Se ne è staccato un pezzo, l’inizio del- la fine, come se i millenni fossero già passati e la Dora Baltea si fosse portata via le montagne. Anche il piccolo ghiacciaio di Pa- ramont se n’è quasi andato, resta una costa a forma di mezza- luna dove c’era l’immane bugno di ghiaccio incombente sul villaggio di Chabodey e io lo superavo con lo sguardo a destra, dove spuntavano le rocce nere, ripercorrendo la via invernale fatta una notte di Natale dal mio amico Pino e da Cece Key». (segue nelle pagine successive) Stagioni le perdute Giorgio Bocca e Mario Rigoni Stern dialogano sul clima impazzito e un inverno di tempeste senza neve SANDRO BOTTICELLI LA PRIMAVERA (PARTICOLARE) FOTO ALINARI Repubblica Nazionale

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DOMENICA 21GENNAIO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

i luoghi

Nelle cattedrali le nostre radici di pietraJACQUES LE GOFF e DANIELA ROMAGNOLI

spettacoli

James Crosby, il figlio del figlio dei fioriERNESTO ASSANTE e STEVEN ROSEN

il reportage

Gli scozzesi e il sogno dell’indipendenzaENRICO FRANCESCHINI e MARIA PIA FUSCO

la memoria

I tre errori di Al Capone, il padrinoVITTORIO ZUCCONI

le tendenze

Design, il genio artigianale di ProuvéMASSIMILIANO FUKSAS e AURELIO MAGISTÀ

cultura

Sebastião Salgado tra i giganti mariniPACO IGNACIO TAIBO II

MILANO

Quanti inverni sono passati sulle loro belle facce dimontanari.Inverni di guerra in Russia e in Bosnia, in Piemon-te e in Francia, inverni di morte e di gelo, di libertà

e di pace, di amicizie, di giornali e di libri, di viaggi e di vini, di fi-gli e di nipoti. Giorgio Bocca è nato a Cuneo alla fine del mesedi agosto, quando in montagna l’estate muore all’improvvisoe la notte per dormire devi già mettere la coperta spessa che tidavano nelle camerate degli alpini. Nel suo ultimo libro che siintitola Le mie montagne, gli anni della neve e del fuoco, ha pre-so in prestito una frase di Buzzati e l’ha declinata nella sua au-tobiografia: «Tutte le mattine della vita, alzandomi dal letto eaffacciandomi alla finestra della mia camera, ho visto una cer-chia di monti. I monti della mia esistenza, stampati non solonella memoria ma nel profondo della coscienza, da quei mon-ti strettamente condizionato». Mario Rigoni Stern ha comin-ciato le sue Stagionicosì: «Sono nato alle soglie dell’inverno, inmontagna, e la neve ha accompagnato la mia vita». Bocca e Ri-goni Stern sono uno di fronte all’altro, adesso, con quella map-pa di sentieri e seracchi profondi scavata nella pelle attorno ailoro sguardi chiari a parlare di come spesso gli uomini credo-no di agire seriamente ma in realtà non sanno che cosa fanno.Tra i loro atti e la loro presunzione c’è il mondo e in questo mon-do la natura piega gli alberi e solleva il mare e gli animali si mol-

DARIO CRESTO-DINA tiplicano e scompaiono, eppure gli uomini questo mondo nonlo vedono.

L’uomo non sa nulla del lupo, dicevano una volta i vecchidelle montagne per spiegarci quanto siamo indifesi davanti al-la natura selvaggia. Oggi non è il sangue del lupo a spaventar-ci, ma i venti gradi registrati ad Aosta qualche giorno fa e i di-ciotto di Milano, le ruote dei Suv che affondano nel fango aimargini dei campi di sci senza neve, un fiore che spunta a 1500metri il pomeriggio di Capodanno, la farfalla fotografata nelparco del Gran Paradiso, i gerani sui terrazzi di Torino, la Ger-mania più calda di Palma di Maiorca. Avamposti quasi gentilidella catastrofe annunciata dai climatologi, questa terra che cisfuggirà di mano, uno schiaffo al nostro orgoglio antropocen-trico o più semplicemente la condanna per la nostra ignoran-za travestita da onnipotenza. Di tutto questo parlano Giorgio eMario, io li sto a ascoltare.

Bocca. «Questa maledetta primavera di gennaio è spalanca-re la finestra della mia stanza a Bellardey, in Valle d’Aosta, e ve-dere l’implacabile cielo azzurro, dal Bianco fino alla Grivolache ha la cima mozzata. Se ne è staccato un pezzo, l’inizio del-la fine, come se i millenni fossero già passati e la Dora Baltea sifosse portata via le montagne. Anche il piccolo ghiacciaio di Pa-ramont se n’è quasi andato, resta una costa a forma di mezza-luna dove c’era l’immane bugno di ghiaccio incombente sulvillaggio di Chabodey e io lo superavo con lo sguardo a destra,dove spuntavano le rocce nere, ripercorrendo la via invernalefatta una notte di Natale dal mio amico Pino e da Cece Key».

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

DARIO CRESTO-DINA

(seguedalla copertina)

Rigoni Stern. «È un inverno strano, Giorgio.Ma ho memoria di altri simili. Nell’inverno del‘56 si andava a passeggiare per i prati tra qualchefiore — il farfaraccio, le pratoline, il tarassaco —e la neve venne a febbraio. Anche il capodannodel 1900, l’ho visto nelle fotografie che ho in qual-che cassetto, era senza neve fino ai duemila me-tri. L’anno scorso, invece, è stato un inverno lun-go, molto nevoso, molto freddo. Magari l’annoprossimo ritroveremo sui giornali un titolo abu-sato: “Freddo siberiano”».

Bocca. «Sai, ho letto il tuo libro. Dici che ci la-gniamo troppo, del freddo, del caldo, e che nonsappiamo più annotare nella nostra mente le co-se della natura perché ora viviamo di artifici e diespedienti, le donne mettono la pelliccia nellemezze stagioni per farsi ammirare, rimpiangi lemutande di lana, le consigli ai giovani, sotto ijeans...».

Rigoni Stern. «Abbiamo memoria corta e lenotizie si fermano al quotidiano. Le variazioniclimatiche, in cinquant’anni, sono forse sui duegradi. Le ere geologiche hanno stagioni di centi-naia di millenni. Io confido nella neve. Nelle se-re appena trascorse guardavo il cielo per vederese la luna avesse il cerchio, l’alone. Per me quelsegnale di neve è più sicuro del barometro. Unanevicata farà molto bene anche ai prati e ai pa-scoli, stanno male se non vengono coperti. E poisarebbe necessaria per l’acqua alla pianura. Nel-la mia stanza lavoro meglio con la neve sul tettoe i libri accanto sul tavolo. I maestri di sci e gli al-bergatori hanno il torcicollo a forza di guardareil cielo senza nubi».

Bocca. «Io l’ho già vista la montagna senza ne-ve e senza acqua nell’estate dell’83, quando nonpiovve per cento giorni e tutte le sorgenti si inari-dirono, e allora ti prende la fobia del cielo sereno

e non ti resta che rifugiarti nella memoria dellenevi e dei ghiacci che sopra i tremila sono sempreandati un po’ su e un po’ giù. E quale cielo azzur-ro ci sia sull’altopiano di Asiago, caro Mario, lo sobenissimo perché ci passai un mese al campo in-vernale della scuola alpina di Bassano, quando ciinsegnavano a costruire gli igloo. Camminavoper le ondulazioni senza fine dell’altopiano deisette comuni e un mattino mi trovai di fronte a untrampolino gigante, come un tempio dei Mayaabbandonato su una montagna, il muro deldente era alto quattro metri, la pista di atter-raggio precipite e immensa. Eccome se lo ri-cordo l’altopiano. C’ero il 25 luglio del ‘43,quando arrivò la notizia di fine o inizio delmondo che era caduto Mussolini e il nostrobattaglione, zaino affardellato in spalla,rientrò a Bassano. La gente faceva ala al no-stro passaggio e applaudiva. Un vecchio co-munista alzò il pugno chiuso nel saluto e il ca-pitano Poretti che non si era ancora svegliatodal fascismo corse a schiaffeggiarlo».

Rigoni Stern. «Non so se il Mediterraneo si tra-sformerà in un deserto. Sarà... Gli esperti avrannoanche ragione, ma ritengo sia presto per dirlo. InItalia i boschi sono molto cresciuti e hanno occu-pato un terzo del territorio nazionale. Il verdechiama l’acqua. Dicono gli antichi miti che i de-serti sono venuti in seguito agli incendi. Curiamo,coltiviamo i boschi e non avremo deserti. L’uomooccidentale contemporaneo sa moltissimo di au-to veloci e di marchingegni e poco di natura. An-diamo di più a piedi, almeno quando siamo in va-canza, guardiamoci attorno e la curiosità ci facciaaprire qualche buon libro di storia naturale».

Bocca. «È vero, della natura non sappiamoniente, della natura abbiamo paura. La trovatapropagandistica più convincente del comuni-smo marxista fu quella della lotta contro la natu-ra. Finalmente! Guerra alla natura, guerra allepaure e alle angosce dei millenni passati nelle ca-verne, alle prese con gli animali feroci. Nella

montagna quelle paure, quelle angosce torna-vano a volte nel buio della notte. Ricordo a Bel-lardey la notte della martora: si udirono dei mia-golii disperati, dei tonfi, dei soffi che venivanodallo stanzino della caldaia e l’indomani sullaneve c’era una chiazza di sangue, tutto quelloche restava di uno dei gattini divorato dalla mar-tora. Con l’accento sulla o, come diceva la signo-ra Haudeman che la martora l’aveva vista».

Rigoni Stern. «Sai, Giorgio. La verità è che, perfortuna, la natura è forte. Gli effetti estranei al-

l’ordine naturale sono gli uomini a cercarli ea procurarli. La natura, anche ora, sta rista-bilendo la sua selvatichezza, là dove l’uo-mo era malamente intervenuto».

Bocca. «Da quando è finito il tempo deicavalli e dei muli e degli animali domesticial pascolo vicino alle nostre case, il nostro

incontro con il mondo animale si è limitatoai cani e ai gatti. Ma in montagna abbiamo

continuato a vivere insieme con loro. Animaliveri, aquile, marmotte, stambecchi, capre, pe-core, camosci. E animali fantastici che si vedonosoltanto nei capitelli delle chiese romaniche.Volpi con due teste, lucertoloni con la crestafiammeggiante e i loro nomi misteriosi. I ravase,i leberon, i loprovat, i locul, i maga, i mohecola,pacifici e rapaci, bellissimi e orrendi».

Rigoni Stern. «Pensa che una domenica diqualche mese fa, vicino a Belluno, ho visto ungrifone adulto appollaiato alto sopra un larice.Guardava il paesaggio. Forse arrivava dall’Afri-ca. E una decina di anni or sono c’erano gli av-voltoi nelle montagne tra la valle dell’Isarco e laval Pusteria, ai confini con l’Austria».

Bocca. «In montagna ho appreso dell’esisten-za dei dahu e dei carcaplut. I dahu sono comestambecchi ma con una barba lunga e lucente ele gambe di sinistra più corte di quelle di destra,perciò possono solo girare attorno alla monta-gna, sempre nella stessa direzione. Li si vede pas-sare certi notte attorno al Grammont perché

hanno corna fosforescenti. I carcaplut si fannovivi a Pentecoste. Sono come rospi rotondi, pic-cole palle gommose, vengono giù rotolando l’u-no sull’altro, floc floc, come una colata dai rifles-si azzurrini. L’unico modo di fermarli è trovare ilegami del mago Fehnir fatti di radici di betulla,barba di donna, passo di gatto e sputo di uccello.E poi gli umanoidi. Le fantine, quegli esseri mor-bidi e pelosi che a volte prendevano un bambi-no e lo portavano nel loro nido. Ma erano tutta-via affettuose e gentili e hanno insegnato allemontanare a tessere e cucire».

Rigoni Stern. «Caro Giorgio, io credo che lenostre montagne continueranno a vivere con iloro affascinanti e spaventosi misteri. Nel tuo li-bro hai citato Elias Canetti: «E voi montagne ciguardate, ci guardate ma non siete mai cadute».Possiamo stare tranquilli, l’inverno non spariràsubito. Dovrebbe cambiare prima il movimentodei pianeti e del sole. Quando Al Gore, nel suofilm documentario, parla di punto di non ritor-no e ci dà dieci anni di tempo per salvare la terra,credo abbia ragione sul piano del principio. So-lo, affretta i tempi. Anche se il progresso accele-ra il tempo della fine e l’ordine morale rallenta ilpasso, a un certo punto l’uomo si accorgerà chesenza natura non può vivere. Siamo ancora intempo per prendere coscienza dei danni chestiamo provocando e anche intervenire».

Bocca. «Non sono così ottimista, ma non osorispondere su quanto futuro ci resti. Certo è fini-to il mondo che si autoconservava, che non but-tava via niente. Il vestito da sposa, la culla, il ta-volo di noce in cucina ribaltabile da poterci sten-dere la pasta, i ritratti dei nonni. Le medaglie alvalor militare, quelle di mio nonno che erano dibronzo con il nastro azzurro in una teca, la miache è d’argento appesa al collo di un telegatto. Epoi gli strumenti di lavoro e i compagni di lavo-ro, i solai, le cantine, i bozzoli di seta, le caldarro-ste, le fotografie dei Savoia, il bollettino di Chia-ravalle, le neiges d’antan, i diplomi dell’esposi-

LA NEVESulle Alpi la quota minimaper un’innevazionesufficiente ad alimentarel’industria dello sci passeràda 1.200 a 1.500 metri

IL GHIACCIOTra il 1850 e il 1980i ghiacciai alpini hanno persoquasi la metà della superficiee della massa. Nel girodi 50-100 anni spariranno

GIORGIOBOCCALe mie

montagneè il titolo

dell’ultimosuo libro

(Feltrinelli,147 pagine,

14 euro)

L’invernosenza neve

è una maledizioneperché la neverende la terrameravigliosa,

trasforma la forzadi gravità

in una liberazionedai pesi

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Inverno

la copertina

IL RACCOLTOIl grano viene mietutoprima, all’inizio di giugno,con un anticipodi 20 giorni rispettoa dieci anni fa

IL CALDOLe temperature si sonoalzate in questi giorni in mediadi 5 gradi con punte di 13. Caldoquasi estivo in alcune cittàche hanno superato i 25 gradi

I boschi hannoripreso gli arealiche erano stati

dissodatiper pascoli,

seminativi e pratiIn certe valli

il bosco selvaggioè arrivato a ridosso

delle abitazioni

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Estate

Dialogo sul nostro strano inverno

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 21GENNAIO 2007

zione universale».Rigoni Stern. «Hai ragione Giorgio, ma guarda

che le Alpi occidentali sono molto più abbando-nate di quelle orientali. Pensa al tuo Cuneese econfrontalo con il Tirolo italiano... Non è che lanatura si ribella a se stessa, semplicemente si ri-prende la selvatichezza, è questa che avrebbe bi-sogno di essere governata dall’uomo. Tu parlidella neige d’antan. Che bella! La neve della guer-ra, invece? Orrida e maledetta! La neve di oggi sul-le città? Diventa subito nera. La mia neve di do-mani? Concilia il sonno, attenua i rumori, ravvivai ricordi. Dovrò anche farmi aiutare a spalarla».

Bocca. «L’inverno senza neve è una maledi-zione perché la neve rende la terra meravigliosa,cambia le regole fisiche, trasforma la forza di gra-vità che pesa e che schiaccia in una liberazionedai pesi. Ci scivoli sopra, voli negli avvallamenti,la superi con un colpo di reni, di bastoni. È mor-bida, ci cadi sopra e non ti fai male. Durante la gio-vinezza ho fatto un lungo sogno: rimanevo pri-gioniero nel mondo della neve. Andavo in mon-tagna e restavo isolato dalla sporca pianura gra-zie a una nevicata gigantesca. L’uomo che ho in-vidiato di più negli anni verdi è stato uno che sichiamava Valdo Spini. Era un protestante di Cu-neo, vinse un concorso per segretario comunalee andò a Castelmagno, in Valgrana. Le rare volteche scendeva a Cuneo passavo delle ore con lui afarmi raccontare di quel paradiso bianco in cuiviveva, nelle sette frazioni sparse nella montagnasotto il santuario di San Magno che è fatto di pie-tra grigia, possente, circondato da un portico incui i pellegrini trovano riparo nelle notti stellate».

Rigoni Stern. «Dalle mie parti, ma non soloqui, i boschi hanno ripreso gli areali che eranostati sboscati e dissodati per pascoli, seminativie prati. In certe valli il bosco selvaggio è arrivatoa ridosso delle abitazioni. Per i ghiacciai è pur ve-ro che dove alla fine degli anni Trenta c’erano leseraccate oggi ci sono i fiori, qualche ghiacciaio,però, è anche avanzato. Credo sia difficile fare

previsioni a breve, potrebbe anche capitare unanuova piccola glaciazione come, mi pare, sia ac-caduto nel Seicento».

Bocca. «Certe sere, con il medico condotto diMorgex, ci mettiamo a contare le cose che c’era-no quando eravamo giovani e che non ci sonopiù, grandi e piccole. Ma sopra i tremila metri, lànulla è cambiato».

Rigoni Stern. «Da noi lo sfalcio dei prati, l’al-peggio, il pascolo delle greggi, per esempio, han-no da sempre i loro tempi. Ma adesso i pastoriscendono dai pascoli più alti una decina digiorni prima perché il mugo ha invaso lepraterie alpine. Qui nel Veneto hanno oc-cupato la campagna con i capannoni in-dustriali, gli ortaggi ormai si coltivano nel-le serre e le vigne nuove si arrampicano sul-le colline al solivo. Oggi la transumanza èdiventata molto difficile a causa del traffico,le montagne sono piene di macchine, men-tre l’allevamento delle pecore sui pascoli è di-ventato più remunerativo per merito della pre-senza sul territorio di molti immigrati di fedemusulmana che richiedono la carne ovina. Ognitanto penso che per ritornare alla natura do-vremmo ritornare a essere un po’ più poveri masoprattutto un po’ più provinciali. Come dici tu,Giorgio, bruttini, presto appassiti, con le rughe ei dolori alla schiena. Se moderassimo il lifting e ilmaquillage saremmo tutti più credibili».

Bocca. «È vero. Questa mi sembra la mutazio-ne peggiore del genere umano, il trucco genera-le permanente, il vivere di tutti con un volto fin-to, con sembianze non tue, tutti camuffati dapersonaggi pubblicitari, tutti belli, tutti sani, tut-ti robusti. Mettiti, Mario, all’ingresso di una me-tropolitana, l’umanità che ti sfilerà davanti sullescale mobili è sempre quella di una volta, goffa,brutta, storta, gracile, lentigginosa, tossicosa.Ma sfila sotto i cartelloni della pubblicità a cuicerca di somigliare. Sfila sotto donne abbronza-te, bellissime, felici con i loro figli che scoppiano

di salute e poco per volta si identificano, pensa-no di essere così anche loro. E la stessa lancinan-te impressione che ebbi molti anni fa a Torinodopo una lunga visita al Cottolengo. Uscii dallaPiccola casa della divina provvidenza e non riu-scivo più a distinguere la gente normale dai mo-stri, mi sembrava che avessero gli stessi tratti,un’umanità a doppio livello, normale e mo-struosa, brutta e bellissima».

Rigoni Stern. «Io credo che tutto ritorni, un po’come i vestiti e la moda e le cose di una volta.

Dalle mie parti vedo gli alberi che si ripren-dono la loro terra e i lupi che stanno tornan-do non sono nuovi. Nemmeno gli orsi. Icervi, i camosci, i caprioli, gli stambecchi,le marmotte sono più numerosi dicent’anni fa. Anche le aquile. Di nuovo, treanni fa, vidi nei pressi di casa mia, una sera

che nevicava, due sciacalli dorati. Forse ve-nivano dalla ex Jugoslavia, dove era impazzi-

ta la guerra. Forse, in questo tiepido inverno,dopo un breve letargo, si è già mosso il tasso. An-drò a controllare la tana».

Bocca. «Da me il cambiamento più visibile èstato proprio il ritorno degli animali, la smentitaalla scomparsa delle specie in via di estinzione.Aquile, orsi, lupi. Una ricomparsa graduale, sot-tovoce. Scendi in auto per la strada asfaltata ed ec-coli ricomparire, quasi di nascosto, quasi vergo-gnosi di farsi rivedere. I cervi arrivati dai parchisvizzeri e austriaci, gli orsi, le aquile che un matti-no tornano a ruotare sulle cime del Dolent o delGran Paradiso. Sono cambiati i pastori che salgo-no agli alpeggi in automobile, che ascoltano mu-sica da un auricolare, sono cambiati i fondisti chesi allenano su per le strade della collina di La Sallesui loro lunghi pattini a rotelle, sono cambiati ibambini e i giovani tutti vestiti come i campionidelle Olimpiadi, sono cambiati i negozi, salvo leresistenze dei valligiani a certi lussi cittadini».

Rigoni Stern. «Pensa che ogni tanto mi capitadi riprendere in mano la Bibbiae leggere qua e là.

MARIORIGONI STERN

Einaudiha appenapubblicato

il suoStagioni

(145 pagine,10,80 euro)

Un grande giornalista e un grande scrittore confrontanole loro montagne e le loro sensibilità parlando del climaimpazzito. E della natura che non ha perso la sua forza

LA FIORITURAMolti fiori e piantecome buganvillee, ginestre,albicocchi e pesche sono giàfioriti con un anticipo di duemesi rispetto alla stagione

GLI ANIMALIIn pieno inverno i merli fannosentire il loro canto d’amoree costruiscono i nidi in anticipoMolti uccelli migratorinon lasciano i paesi del Nord

Questa maledettaprimaveradi gennaio

è spalancarela finestradella mia

stanza e vederel’implacabile cieloazzurro, dal Bianco

fino alla Grivola

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Primavera

IL VINO E L’OLIOLa vendemmia rischiadi essere anticipata ad agostocome accadde nel 2003Anche la raccolta delle olivepotrebbe avvenire in estate

LE FOGLIELe foglie sugli alberi cheprima arrossavano e poicadevano erano simbolodell’autunno. È un fenomenoavvenuto in ritardo di mesi

Il pascolodelle greggiha da semprei suoi tempi

Ma adesso i pastoriscendono dai pascoliuna decina di giorni

prima perchéil mugo ha invasole praterie alpine

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Autunno

Mi chiedo se c’è qualcosa nell’Apocalisse di Gio-vanni che riguarda come sta andando il mondodi oggi. Mi rispondo che l’apocalisse è ancoralontana. A meno che il presidente degli Stati Uni-ti, l’Iran o la Corea non impazziscano e faccianopartire una super bomba atomica. Sono vec-chio, eppure non mi sento spaesato come moltianziani. Deve essere diverso per i vecchi che vi-vono in città e nelle zone industriali. Lo spaesa-mento è difficile avvenga nei paesi di montagna.La città invece mi confonde perché in essa nonsono capace di orientarmi. Il traffico, il rumore,l’aria densa e puzzolente mi fanno male. Non mispaventa per nulla, invece, la solitudine».

Bocca. «Più che l’apocalisse io vedo Sodoma eGomorra. Mi viene in mente una risposta diMontale a chi gli domandava che cosa pensassedi Milano: «Le sembra ammalata questa città?»«Non più delle altre». «Ci vive bene?». «Sì, igno-randola». Lui la ignorava. Usciva di casa, rasen-tava i muri di via Bigli, non guardava il prossimoe si rifugiava al Corriere di via Solferino. La tenta-zione di vivere a Milano come in un villaggio dicui si conoscono una o due strade è forte. Per co-noscere la città, per affrontare la barriera coralli-na delle sue case bisogna essere giovani, e nonbasta. Io non sono ancora riuscito a vincere il sen-so opprimente della cecità cittadina, quel murodi casa che ti impedisce sempre di vedere che co-sa c’è dietro la facciata, che ti toglie il piacere del-la montagna di vedere lontano, di vedere tutto. AMilano guardo le mie macchine per scrivere,guardo il computer e il fax. A Bellardey per ore eore guardo la montagna per capire se quel puntonero è una roccia o un animale sul nevaio, se quelpezzo di muro nel bosco è dell’osteria Ruesch,che vuol dire spazzatura, o della casa dei Fillietrozappena finita. Guardo dove i valloni di Entrelor sibaciano e si fondono e dove si dividono, e che co-sa sta facendo sulla porta di casa il mio amico DeLuigi. Guardo la vita, non la televisione, mi sentonel mondo più che in piazza Duomo».

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

il reportageEuropa fragile

Indipendenzasogno scozzese

EDIMBURGO

Non dipende dal kilt. Né dalle cornamu-se. E nemmeno dal whisky. Non c’è bi-sogno di tirare fuori il folklore, la tradi-zione o la bevanda che li ha resi famosi

nel mondo. Basta semplicemente prendere un taxi,sedersi sullo sgabello di un pub a chiacchierare colbarman, chiedere un’informazione a un passante,per accorgersi che gli scozzesi sono differenti dagli in-glesi. Più loquaci, calorosi, aperti; meno riservati, me-no disciplinati, meno classisti. In altre parole, sem-brano un altro popolo, come se il visitatore, superan-do per via di terra o dal cielo il vallo di Adriano, aves-se effettivamente varcato la frontiera di un altro pae-se. Se le elezioni regionali del 3 maggio prossimo sa-ranno vinte dallo Scottish National Party (Snp), comepronosticano gli ultimi rilevamenti, questa impres-sione potrebbe diventare realtà. Come primo e in so-stanza unico punto del suo programma, il partito na-zionalista promette infatti di indire un referendumsulla secessione della Scozia dal-la Gran Bretagna: e un recentesondaggio sullo Scotsman, mag-gior quotidiano scozzese, preve-de che nel referendum avrebbe-ro la meglio i separatisti. «Sareb-be una follia, un disastro sia perl’Inghilterra che per la Scozia,che invece traggono entrambeenormi benefici dall’Unione»,avevo sentito dire qualche gior-no or sono da Tony Blair nella suaconferenza stampa mensile aDowning street; ma quando ungiornalista della Bbc gli ha chiesto come mai, se l’U-nione è una così bella cosa, il 16 gennaio non ci sonostate cerimonie, feste, fuochi d’artificio, per celebra-re degnamente il trecentenario dell’unificazione traInghilterra e Scozia, il primo ministro non ha saputorispondere con la sua abituale convinzione.

Ora una risposta la dà, qui a Edimburgo, Alex Sal-mond, da quindici anni leader dello Snp: «A Londranon hanno organizzato celebrazioni perché si sonoresi conto che ben poca gente avrebbe partecipato, enon è saggio fare una festa quando non ci viene nes-suno». Contemporaneamente ai sondaggi che asse-gnano una maggioranza ai separatisti in Scozia, in ef-fetti, ne è circolato uno in cui per la prima volta lamaggior parte degli inglesi sostiene l’idea di dare unparlamento autonomo all’Inghilterra, anziché farsirappresentare da quello britannico di Westminster.Un’idea a cui Blair, e anche l’opposizione conserva-trice, si oppongono tenacemente, perché è evidenteche se anche agli inglesi non basta più il parlamentonazionale, ma ne pretendono uno proprio, “inglese”,

andrebbe in frantumi il concetto di Regno “Unito”. Ècome se, dopo aver combattuto secoli per conquista-re, annettere e dominare la parte settentrionale del-l’isola in cui vivono, di colpo gli inglesi si fossero stan-cati di possederla, esattamente come gli scozzesi so-no stufi di essere posseduti. La ricetta ideale, appa-rentemente, per un divorzio indolore.

Per i nazionalisti scozzesi, l’indipendenza sarebbeil coronamento di un sogno durato un millennio.Com’è noto, gli antichi Romani rinunciarono benpresto a spingersi nel gelido, selvaggio territorio da lo-ro chiamato Caledonia, colpiti dalla furiosa resisten-za delle tribù celtiche che lo popolavano. Fino al 1057,quei clan vissero liberi, indisturbati e più o meno fe-deli a un monarca scozzese, ma poco per volta l’ap-petito di Londra per il vicino settentrionale cominciòa crescere. Nel 1296 re Edoardo I invase la Scozia conun potente esercito, ma dovette ripiegare. Trai ribellispiccava un popolano di nome William Wallace, det-to “Braveheart”: il personaggio ricreato dal film di MelGibson dallo stesso titolo si prende non poche licen-ze rispetto alla realtà, ma nella sostanza la sua storia èvera. Sconfisse ripetutamente gli inglesi, nonostante

la loro schiacciante superioritàmilitare; venne infine catturato,grazie al tradimento di un nobilescozzese fedele a Edoardo I; fuatrocemente giustiziato, a Lon-dra: impiccato, quindi squartato,la testa infilzata su un palo ap-puntito e posta sul London Brid-ge. Con la pietà dei vincitori, unalapide su un muro del St. Bartho-lomew’s Hospital, vicino aSmithfield, oggi sede di un gran-de mercato alimentare e un tem-po luogo delle esecuzioni capita-

li, commemora tuttora le sue gesta. Ci vollero altriquattrocento anni perché l’indipendentismo scozze-se venisse del tutto sedato: il 16 gennaio 1707, con l’At-to di Unificazione tra Inghilterra e Scozia, di fatto l’an-nessione della Scozia all’Inghilterra, l’evento di cui ri-correva nei giorni scorsi il trecentenario.

Alex Salmond, il leader del partito nazionalistascozzese, non è un novello “Braveheart”: del leggen-dario William Wallace non ha il fisico, tantomeno imetodi. L’ultima volta che ha indossato il kilt, tradi-zionale gonnellino degli uomini scozzesi, visibile nel-le vetrine di qualche negozio d’abbigliamento diEdimburgo e perfino sulle gambe di qualche barbutosignore, aveva quattro anni. La rivoluzione che statentando di portare a compimento è incruenta. Il suoesercito è composto di avvocati, economisti, strateghidelle comunicazioni. Il separatismo per cui Salmondsi batte da una vita è diverso dai movimenti separati-sti del resto del pianeta. Non ha motivi linguistici: ilgaelico, l’antica lingua dei celti, è parlato soltanto daottantamila dei cinque milioni di scozzesi odierni

Alle regionali del 3 maggio la Scozia potrebbe dare la maggioranzaal National Party, avviandosi così al referendum sulla secessionedalla Gran Bretagna. La spinta separatista ha una storia secolare, ma oggitrova nell’economia un nuovo prepotente motivo: a nord del Vallodi Adriano molti sono convinti che da soli potrebbero diventare più ricchi

E per la prima voltaanche gli inglesi

sembrano favorevolia due Parlamenti

separati

ENRICO FRANCESCHINI

Repubblica Nazionale

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(non pochi inglesi ironizzano che basta l’accento arendere lo scozzese ostico come una lingua stranieraalle loro orecchie; sebbene alle mie orecchie di italia-no la lingua di Sean Connery suoni più facilmentecomprensibile di quella di Lawrence Olivier). Non hamotivi religiosi: la sola rivalità esistente tra la mag-gioranza protestante e la pur consistente minoranzacattolica degli scozzesi è oggi relegata sui campi dicalcio, nei derby tra Celtic (cattolici) e Rangers (pro-testanti) di Glasgow. Né ha motivi etnici: per quantoinglesi e scozzesi amino sottolineare le proprie diffe-renti radici storiche (e suonarsele a vicenda in occa-sione di qualche partita di calcio delle loro squadre“nazionali”, Inghilterra e Scozia, preferibilmente do-po un po’ di pinte di birra all’uscita di un pub), non sisono mai registrati episodi di pulizia, intolleranza odiscriminazione etnica.

L’onda del separatismo abilmente cavalcata dalleader dello Snp (e appoggiata, è il caso di sottolinea-re, da tutto l’arco dei partiti e partitini di sinistra, daiVerdi ai Socialisti ai Comunisti) ha due ragioni fon-damentali. Una è che l’unificazione del 1707 privò laScozia dell’indipendenza ma lasciò intatte le sueprincipali istituzioni: scuole e università scozzesihanno un curriculum, esami estrutture proprie, il sistema lega-le scozzese ha codici e regola-menti differenti da quello ingle-se, così come persistono unachiesa indipendente e un distin-to sistema locale di governo.Questo ha mantenuto viva, no-nostante trecento anni di appar-tenenza alla Gran Bretagna, lasensazione di costituire una na-zione separata; sensazione ac-cresciuta, anziché spenta, dalla“devolution” introdotta da Blairnel 1999 con la creazione di un parlamento regionalescozzese. L’altra ragione è l’economia: come il nostromeridione, la Scozia è stata per secoli l’area depressadel Regno Unito. La crisi delle industrie tradizionali,tessile, acciaio, miniere, ha visto negli anni recentil’ascesa di nuove tecnologie, finanza, Internet: ma ilboom del blairismo ha lasciato la Scozia indietro ri-spetto all’Inghilterra. Uno studio di eminenti econo-misti scozzesi, politicamente imparziale, ha conclu-so che l’indipendenza potrebbe migliorare notevol-mente il livello di vita della Scozia, facendone, diceuno degli autori, il professor David Simpson della He-riot-Watt University, «un’Irlanda o una Danimarcacon in più il petrolio di una Norvegia» (la Scozia hascoperto ricchi giacimenti lungo la costa del mare delNord). L’idea di diventare una delle piccole nazionifelici d’Europa, dentro all’Unione Europea ma nonnecessariamente alla Nato, fa perciò gola a un popo-lo orgoglioso e operoso ma assuefatto ai sussidi pub-blici di Londra, che hanno finito col creare (anchequesto un parallelo col Sud italiano) una sorta di di-

pendenza dal denaro dello stato.I crescenti consensi per la secessione hanno una

terza motivazione: da un decennio la Scozia è forte-mente laburista, e come buona parte del partito la-burista è oggi stanca di Blair. Basterebbe sostituireBlair, e il favore per il secessionismo diminuirebbeanche tra gli scozzesi, suggeriscono vari politologi. Ilproblema è che Blair si dimetterà probabilmente en-tro l’estate, ma non prima delle elezioni scozzesi del3 maggio, dunque se ne andrà quando lo Snp potreb-be avere già preso il potere a Edimburgo e avviato leprocedure per un referendum sull’indipendenza; ecomunque il suo successore designato, l’attuale mi-nistro delle Finanze Gordon Brown, è il primo a met-tere in guardia contro il pericolo del separatismoscozzese, definendolo «un rischio di balcanizzazioneper la Gran Bretagna», proprio perché, essendo scoz-zese, Brown non può permettersi di apparire unaquinta colonna dei secessionisti a Dowing street.

Non è detto che uno scenario simile si realizzerà: loSnp potrebbe non vincere le elezioni, oppure perde-re il referendum sull’indipendenza, che comunquesembra verrebbe rinviato a un futuro più vago, entroi prossimi quattro anni. «Ma se la Scozia ottenesse

l’indipendenza, l’evento sarebbemeno traumatico di quanto lo di-pingono al momento Blair eBrown», commenta lo storicoscozzese Michael Fry, autore diThe Union: England, Scotlandand the Treaty of 1707. Non piùtraumatico dell’ultima secessio-ne subita dalla Gran Bretagna,quella dell’Irlanda nel 1922; edell’altra che si prospetta comeinevitabile prima o poi, quelladell’Ulster, ovvero dell’Irlandadel Nord: «Con cinquantacin-

que milioni di abitanti e un costante flusso di immi-grati, l’Inghilterra riguadagnerebbe in pochi anni icinque milioni di scozzesi perduti, e avrebbe proba-bilmente migliori rapporti con una Scozia sovranadi quelli che ha oggi, così come è accaduto con l’Ir-landa», conclude Fry.

Di certo Edimburgo, col suo castello da cui si do-minano splendide viuzze di ciottoli nel centro stori-co pullulante di studenti, verdi colline intonse appe-na al di là delle case e l’azzurro del mare sullo sfondo,sarebbe una capitale all’altezza delle più belle capita-li d’Europa. E forse tornerebbe ad alimentare un nuo-vo “illuminismo scozzese”, come nel diciottesimo se-colo, quando i suoi grandi pensatori David Hume eAdam Smith si ritrovarono al centro della rivoluzionefilosofica che attraversò l’Europa. Diceva Voltaire,con solo una punta di sarcasmo francese, che se unovoleva imparare qualsiasi cosa, dal giardinaggio allafilosofia, doveva andare a Edimburgo. Chissà che fe-sta, in kilt, a ritmo di cornamuse e con fiumi di whi-sky, se un giorno ciò tornasse a essere vero.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 21GENNAIO 2007

MARIA PIA FUSCO

Sulla spalla dell’attore, convinto nazionalista, “Scotland forever”

Il tatuaggio di Sean Connery

«Hallo, parla Sean Connery. No, nonè uno scherzo. Il vero scherzo pur-troppo è il Partito laburista». Dice-

va così il messaggio di 35 secondi con l’in-confondibile voce dell’attore che mi-gliaia di scozzesi ricevettero nell’a-prile 2005: l’invito a sostenere ilPartito nazionalista. Quella vol-ta il suo impegno fu criticatoanche da Gordon Brown, chepure aveva lottato per il refe-rendum sulla devolution, die-ci anni prima, quando i mani-festi con Connery e Brown sopraun gigantesco “Yes” erano i più diffu-si nelle città scozzesi.

«Non credo che la politica di Dow-ning Street cambierà se GordonBrown sostituirà Tony Blair», dicevain una delle ultime interviste SeanConnery, che non perde mai l’occa-sione di ribadire la sua fede naziona-lista, garantita dal tatuaggio sullaspalla Scotland forever. Una fede chenon ha mai vacillato, neanche per lecritiche di chi lo accusò di «tradi-mento» per l’inchino alla regina incambio del titolo di “sir”. «Ci hopensato a lungo prima di accettare.L’ho fatto perché nessuno mi ha impo-sto di modificare le mie opinioni, arti-stiche o politiche che siano». Altri attac-chi li ha ricevuti per la scelta di vivere al-l’estero e di non pagare le tasse alla Sco-zia. «Datemi la Scozia libera e non mimuovo più da Edimburgo, nella speran-

za che nel paese indipendente anche la stampa,almeno in parte, torni nelle mani di qualcu-no che non sia un nemico della Scozia, esmetta di perseguitarmi. E pago le tasse ne-gli Usa e nel Regno Unito. Anzi, credo di pa-

gare più tasse io in Gran Bretagnache tutti i parlamentari britan-nici insieme».

Del resto nelle occasioni im-portanti Sean Connery in Sco-zia c’è, come per l’inaugura-zione del nuovo parlamento di

Edimburgo nel 2004: «Un sim-bolo dell’orgoglio nazionale do-

po le elezioni del ‘99 che ci hanno datoun po’ di autonomia da Londra. Ma nonbasta, perché le decisioni essenziali

vengono ancora prese a Westminster». Enon importa che gran parte dei ministri edei leader politici siano scozzesi: «Sonoforse riusciti a modernizzare l’immaginedella Scozia? Che resta il paese della caccia,della pesca, del golf, del whisky ma soprat-tutto delle sacche di povertà da TerzoMondo, un’immagine che è la ragione percui tanti giovani se ne vanno. E non sonole ragioni per cui se n’è andato GordonBrown e quelli come lui?».

Ora l’attore sta riscrivendo la storia dellaScozia: «Sarà un’opera in quattordici volumi

con video e testimonianze. Sarebbe bello se ungiorno anche i ragazzini inglesi potessero co-

noscere la verità sulla Gran Bretagna e sulcontributo di dolore e sangue che paesi co-

me la Scozia hanno offerto alla sua gran-dezza storica».

Kilt, whiskye cornamuseper festeggiare

il ritorno diEdimburgo capitale

CLAN E TARTAN

Il tartan riprodotto in queste pagine è il particolare disegnorealizzato con fili di tessuto colorato intrecciatiIl kilt, il tipico gonnellino degli scozzesi, è fatto in tartane i colori sono il simbolo dei diversi clan per come furonoufficialmente stabiliti nel XIX secoloSono soltanto pochi esempi delle centinaia di famiglieallargate - dai Campbell ai MacLeod ai MacKenzie - che per secoli hanno costituito la struttura socialeed economica della Scozia

Repubblica Nazionale

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la memoriaRe del crimine

Il 25 gennaio di sessant’anni fa, consumato dalla sifilide,si spegneva nella sua villa in Florida il più famoso gangsterdel Novecento. Negli anni Venti aveva dominato sulla Chicagodel proibizionismo, temuto dai rivali che faceva eliminare,obbedito dai poliziotti che comprava e adorato dai poveridella Grande Recessione che faceva sfamare a sue spese

La sera era fiacca, in quella bettola diBrooklyn. Anche se l’onda della guerra inEuropa — era l’inverno del 1917 — nep-pure arrivava a lambire quel termitaio diemigranti europei, l’umore era torvo co-me la notte, gli avventori scarseggiavano

e il barista dello Harvard Inn, un ragazzo di diciottoanni, guardava malinconico il bicchiere delle mancevuoto. Forse era la noia, forse la certezza di un’altra se-ra di magra, ma quando nella taverna entrò una suavecchia conoscenza, un furfantello chiamato FrankieGalluccio, trascinandosi dietro una ragazza truccatis-

sima e recalcitrante, il baristadecise di ravvivare laserata. «Frankie boy— gli disse — dam-mela a me la guaglio-na con la faccia di puttana, chela faccio divertire io». Fu il pri-mo, grave errore della sua vita.

L’errore fu quello di non sa-pere che la ragazza bruna eimbronciata era la sorella diFrankie. Galluccio non rispo-se. Sfoderò dalla tasca con ge-sto liquido il coltello e sgarrò laguancia sinistra del baristaimpudente incidendo, secon-do il suo futuro faldone negliarchivi dell’Fbi, «un taglio lun-go pollici quattro (dodici cen-timetri) fra l’orecchio e il men-to» che avrebbe prodotto unascar, una cicatrice permanen-te. Fu in quella sera del 1917, in

una bettola di Brooklyn, che Alfonso Capone, figlio delbarbiere Gabriele e di Teresina Capone da Castellam-mare di Stabia, divenne per sempre “Scarface”, facciasfregiata.

Nel sontuoso pantheon del crimine americano, trai Jesse James, Bonnie e Clyde, Joe Gotti, John Dillinger,Lucky Luciano, “Machine Gun” Kelly, “Mamma”Barker, Butch Cassidy, Alfonso o Alphonse “Scarface”Capone occupa da quasi un secolo l’altar maggiore.Nei sessant’anni trascorsi dalla morte, nel gennaio del1947 nella sua villa in Florida, nessun padrino vero oimmaginario ha mai neppure avvicinato la statura di

questo ragazzone paffuto e stempiato che la madreTeresina continuò fino all’ultimo giorno della propriavita a definire «nu bravo guaglione che hafatto soltanto del bene a tutti».

Sul «bene», gli almeno ottanta concorren-ti stecchiti direttamente o indirettamente dalui forse avrebbero qualche obiezione, se potesseroancora parlare, ma la vita del figlio del barbiere diBrooklyn arrivato a guadagnare cento milioni di dol-lari all’anno nel 1927, quando cento dollari al mese

erano un succulento salario, è molto più della so-lita biografia del “mafioso” italo americano. Perdieci anni, coprendo l’esatta parabola del proi-

bizionismo, tra il 1922 e il 1931, quando il giudiceJames Wilkerson lo condannò per evasione fiscale, AlCapone fu quello che nessun “pezz’e novanta” di NewYork, nessun capofamiglia de “la Cosa Nostra” riuscìmai a diventare: il re di una città intera, il sovrano as-soluto e beneamato di una Chicago dove non si eleg-geva un sindaco che lui non volesse; non si apriva unbanco di “faro”, il gioco d’azzardo più popolare all’e-poca, senza il suo consenso; non si beveva una birranella quale lui non avesse bagnato il becco; non si pas-sava una “marchetta” di ferro fra madame e clienti neibordelli senza che lui avesse la sua commissione, ven-ti centesimi per ogni dollaro.

A Chicago, il barista sfregiato dello Harvard Inn eraarrivato seguendo gli ordini del suo capo-regime aBrooklyn, Frankie Yale (non erano soltanto “wop” ita-lo americani i mammasantissima delle mafie), che loaveva spedito nel Midwest per sfuggire all’aria dive-nuta troppo pesante per lui dopo una serie di violen-ze. Nella “macelleria” d’America, in quella città am-morbata ventiquattro ore al giorno dai miasmi deimattatoi che sfamavano il West fino al Pacifico, Al di-venne il luogotenente del super boss dell’epoca,Johnny Torrio. Non aveva che vent’anni, l’istruzioneraggiunta fino alla “sesta”, la prima media, dove ave-va avuto come compagno di scuola Lucky Luciano, euna moglie sposata da poco, un’irlandese che gli daràl’unico figlio, “Sonny”, il nome che Mario Puzo adot-terà poi per il primogenito bello e violento delPadrino. «Mary — diceva alla moglie guar-dandolo giocare nella modestissima casettadi Chicago al numero 7422 di Prairie Avenue— ma come abbiamo fatto noi due così brutti amettere al mondo un figlio cosìbello». La risposta della signora

I tre errori di Al Caponeil barista che divenne padrino

VITTORIO ZUCCONI

NEMICOPUBBLICOLa copertinadi Time del 24marzo 1930dedicataad Al Capone

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

Ventenne, fu sfregiatoda un malavitoso

di cui aveva offesola sorella. Ne ricavò

il soprannomedi “Scarface”che gli rimase

per sempre

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non ci è stata tramandata. Ma imparava in fretta, intelligente e senza scrupoli,

in quella università del racket che era la Chicago rug-gente. Era un autodidatta avido, e nella prima cella do-ve fu spedito, nel penitenziario federale di Atlanta,chiese di portare soltanto tre cose: una foto del figlio,un mazzo di carte e l’Enciclopedia Britannica, che leg-geva metodicamente, dalla A alla Z. Non disdegnavaalcun lavoro, per quanto umile, ed eccelleva nel me-stiere dell’“accalappiacani”, colui che accalappia pol-li per le bische e i bordelli, dove lo stesso Alfonso nondisdegnava qualche assaggio della mercanzia. La pas-sione per le prostitute fu il secondo errore della sua vi-ta, quello che gli costò la sifilide che lo avrebbe ucciso.

Senza i fondamentalisti puritani, i proibizionisti, lesuffragette per la temperanza e i politicanti semprepronti a montare sul cavallo dell’ultima carica dema-gogica, è probabile tuttavia che Capone sarebbe ri-masto uno dei tanti mungitori di vizi umani. Ma allamezzanotte e un minuto del 16 gennaio 1920, quandoentrò in vigore la legge voluta da un immigrato norve-gese, Andrew Volstead — persuaso, diceva, che «lamoralità si possa imporre con la legge» — e che proi-biva la produzione, il commercio e il consumo di ognibevanda con un tasso alcolico superiore allo 0,5 percento, il suo rivolo di potere e di danaro divenne il Nia-gara.

Sul proibizionismo, Al costruì il proprio trono di“King of Chicago”. Torrio fu ferito in un attentato e la-sciò la città, indicando in Capone il delfino e nessuno

riuscì a opporsi e a quella investitura.Non che non ci provassero, ma chi siostinava a irritarlo conosceva curiosi

incidenti sul lavoro, impreviste trom-bature elettorali o decessi tanto prematuri quantoviolenti. Dal suo quartiere generale, in due piani del-l’albergo Metropole che aveva fatto ridipingere convernici dorate e broccati da corte borbonica, mentrela moglie restava sempre con Sonny nella prima ca-setta di Prairie Avenue, Al governava con poteri asso-luti. Correva voce che spaccasse la testa personal-mente ai soci infidi, con l’attrezzo del suo sport prefe-rito, la mazza da baseball. Invece delle stock options,per garantirsi la fedeltà del consiglio di amministra-zione, stoccate sul cranio.

Ogni birreria, ogni distilleria, ogni grossista di alco-lici doveva appartenere a lui attraverso gomitoli ine-stricabili di prestanome. “Scarface”, o “The Big Fel-low”, l’omone, secondo un altro soprannome, nonpossedeva nulla. I suoi alibi erano inattaccabili.Quando uno dei suoi rivali cadeva sotto una raffica dimitra Thompson, lui era visibilissimo a teatro, al ri-storante, nella prima fila dello stadio del baseball, aballi di beneficenza. Neppure un graffio poté mai es-sergli contestato direttamente. Chi veniva arrestato,non parlava. Chi finiva sotto processo, era assolto percavilli, tecnicalità, prescrizioni, false testimonianze ocomperando i magistrati e i giurati. Nessuno volevadiventare un’altra carcassa per hamburger, tritata neimattatoi di Chicago.

E nessun giornale ripeté l’errore commesso quan-do per la prima volta affiorò il suo nome per un delit-to, e fu identificato come «Alfredo Capponi», il 14 feb-braio del 1929. I sette cadaveri gonfiati da centocin-quanta pallottole in un garage appartenevano tutti,meno un disgraziato che era lì per caso, all’unica gangche ancora osasse competere con Alphonse Capone:quella dell’irlandese “Bugsy” Moran. Non c’era chi-cagoan, abitante di Chicago, che non avesse capitochi aveva ordinato l’esecuzione, e il massacro (impu-nito) di San Valentino fu, e rimane, l’Everest delleguerre di mafia. Quel 1929 fu l’apoteosi del “King ofChicago”. Tutti lo temevano, molti lo amavano, inco-ronato definitivamente dai morti di fame in fila da-vanti alle “cucine di Al”, le mense gratuite che lui or-ganizzava per sfamare la gente devastata dal crac diWall Street. Nella prima forma di welfare state laico,migliaia di famiglie campavano con la minestra dellamafia, vestivano con abiti prelevati da negozianti cheavevano ricevuto l’ordine di mandare il conto ad AlCapone.

Qualche storico e biografo sospetta che proprio

questa generosità, e questa popolarità, siano state ilsuo terzo e fatale errore. Agli amministratori della co-sa pubblica, ai politici ambiziosi, questa stella davafastidio e cominciava a dar fastidio anche a Washing-ton. Sulla polizia locale, comperata dal cappello allescarpe, era inutile contare. E anni di indagini sui de-litti a Cicero, il sobborgo che era divenuto tutto suo,non avevano prodotto un solo testimone, un solo in-dizio su di lui, frustrando anche la tenacia dell’agen-te speciale dell’Fbi Elliot Ness, che sarebbe poi statoidealizzato da Kevin Costner per Hollywood. Neppu-re il fisco, lo Irs, sarebbe arrivato a nulla contro un uo-mo che non possedeva nulla e dunque non poteva es-sere accusato di evasione, se non fosse spuntata unaricevuta, una sola, cheportava come beneficia-rio il nome di AlphonseCapone. Era un reddito,che lui avrebbe dovutodenunciare.

Al rise molto dell’accu-sa. Ingaggiò i due miglio-ri avvocati di Chicago,con una parcella alloraastronomica di 72miladollari, abbastanza per

comperare diecicase in città. Si di-chiarò colpevole,

convinto dagli av-vocati di poter patteggia-re col giudice in cambiodella ammissione che ineffetti Capone doveva alfisco 282mila dollari. Maera una trappola. Appenaricevuta l’ammissionescritta del difensore, ilgiudice ritirò l’offerta dipatteggiamento. E la sen-tenza fu il massimo che lalegge consentisse: diecianni in penitenziari fede-rali più un anno in un car-cere di bassa sicurezza.

Nel maggio del 1932, lastella di Alphonse Capo-ne, spuntata con il proi-bizionismo, tramontòcon la fine del proibizio-nismo. In quell’anno co-minciò il suo viaggio nelsistema penale, prima adAtlanta, dove trovò amicie vita comoda, poi nellacrudele “Isla de los Alca-traces”, l’isola dei gab-biani, Alcatraz, a SanFrancisco dove il diretto-re gli proibì di appenderealle pareti della cella i ri-tratti di famiglia. Prigio-niero modello di giorno,nella notte era scosso daincubi. Lo si sentiva urla-re, implorare, protegger-si da immaginarie raffi-che di mitra. Era la sifili-de all’ultimo stadio. Glifurono condonati dueanni, per buona condot-ta, e poté raggiungere la moglie nella villa dellaFlorida che aveva comperato per 52mila dollari,ed era tutto ciò che rimaneva del suo regno.

Morì di arresto cardiaco il 25 gennaio del 1947,ormai pazzo, ma riuscì a sopravvivere di cinquegiorni a colui che aveva fatto la sua fortuna di cri-minale, il proibizionista norvegese Andrew Vol-stead. Sulla tomba di “Scarface”, nel cimitero delMonte Carmelo a Chicago, ci sono soltanto il no-me, le date e una preghiera: «My Jesus Mercy»,pietà, mio Gesù. Meglio tardi che mai, pare.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 21GENNAIO 2007

LA VITA

L’INFANZIA

Alphonse Caponenasce a New Yorknel 1899, figliodi immigraticampani. A 14 anniè espulso da scuolaper aver percossouna professoressa

L’APPRENDISTATO

Si fa le ossanelle bande giovaniliNel 1917 entranell’orbitadel gangster FrankieYale come factotumdel locale-bordelloHarvard Inn

IL POTERE

Trasferitosia Chicago nel 1920,in pochi annicomanda il mercatoclandestino di alcole controllacon la violenza ogniattività illegale in città

IL PROCESSO

Nominato “nemicopubblico n.1”dalla poliziadi Chicago, nel 1931viene processatoper evasione fiscalee condannato a 11anni di reclusione

IL TRAMONTO

Capone sconteràla pena (ridottadi due anni)ad Atlanta e poiad Alcatraz. Ormaipazzo per la sifilidecontratta in gioventù,muore nel 1947

La passione per le donnee il fastidio che la suapopolarità finì per dareai politici furono le causedella sua fine, dopo un lungosoggiorno ad Alcatraz

SCARFACEIn alto, foto scattatead Al Capone dopol’arresto. Sotto,Capone giocaa carte duranteil viaggio versola prigione; a destra,le impronte del gangster presedopo il suo arresto

LA CADUTAA sinistra, Al Capone duranteil viaggio in treno verso il carceredopo la condanna per evasionefiscale nell’ottobre del ’31Sotto, Matthew, uno dei fratellidi Al Capone, allora ventunenne,mentre viene arrestato nel 1930

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Intorno al 1210 un inglese, Gerva-sio di Tilbury, scrive una speciedi enciclopedia dal titolo di Otiaimperialia, dedicata all’impera-tore Ottone IV di Brunswick. Quitroviamo la definizione di mira-

bilia: è meraviglioso ciò che suscitameraviglia, ciò che stupisce perché ec-cezionale, al di fuori della nostra espe-rienza abituale. Le meraviglie si diffe-renziano dunque dai miracoli, perchéil miracolo appartiene al divino, al so-prannaturale, mentre il meravigliosoappartiene all’umano, al naturale, an-che se può sfuggire, almeno tempora-neamente, alla nostra comprensione.Ebbene, tra le meraviglie del medioevonon si può non inserire la cattedrale,romanica prima, poi gotica.

Le prime cattedrali nascono nel Quar-to secolo, quando il cristianesimo si ra-dica nello spazio dell’impero di Costan-tino: grosso modo, nel bacino mediter-raneo. Qui sta la grande novità, la rottu-ra col passato: la cattedrale sostituisce iltempio romano. Resta però com’essolegata a un territorio, quello nel quale ilvescovo eserciterà le sue funzioni, cioèla diocesi. Che già esisteva, ma con ca-rattere non religioso, bensì amministra-tivo. Nel Quarto secolo la cattedrale, se-de della cattedra su cui siede il vescovo,non è che un elemento di un complessopiù vasto, che può arrivare a compren-dere due chiese, una scuola, un ospizio,un’abbazia, il battistero: quasi una cittànella città. Gradualmente ciascuna isti-tuzione diviene autonoma e nel periodocarolingio (secoli Nono-Decimo) la cat-tedrale è un monumento a sé stante.

I secoli delle nuove o rinnovate catte-drali sono quelli del medioevo centrale.Sono i secoli che vedono la fine delle in-cursioni cruente (le ultime sono quelledegli Ungari e dei Normanni), quinditempi di relativa tranquillità; sono i se-coli del miglioramento climatico, alquale si connette una straordinaria ri-presa demografica, causa ed effetto in-sieme di una notevole espansione del-l’agricoltura. La diffusione di nuove tec-niche agricole, l’introduzione di nuovecolture (gli spinaci, ad esempio, ce liportano gli arabi), soprattutto l’esten-sione dei dissodamenti, sono tutti ele-menti che conducono all’aumento del-

Romaniche o gotiche, sono l’espressione architettonicapiù tipicamente europea, monumenti straordinariche in tutto il continente sanno parlare ai colti e ai semplicie comunicano il sentimento di una civiltà comuneIn questo saggio sono indagate le tre ragioni storichedella loro fioritura nei secoli centrali del Medioevo

la produzione (quantità dei raccolti),mentre bisognerà attendere ancora alungo per un aumento davvero signifi-cativo della produttività (rapporto traseminato e raccolto).

Si passa tuttavia, anche se lentamen-te e non dovunque allo stesso modo, daun’economia prevalentemente di sus-sistenza a una economia che riesce aprodurre qualche eccedenza da immet-tere sui mercati. Pensiamo inoltre allamigliorata sicurezza delle vie di comu-nicazione, percorse certo dai pellegrinima anche dai mercanti e dai membridelle corporazioni di artigiani spesso iti-neranti, come i nostri grandi maestri co-macini. Pensiamo all’apporto fonda-mentale di culture diverse, come quellaaraba, alla quale dobbiamo molto più

degli spinaci, per esempio la trasmissio-ne di elementi che stanno alla base del-la scienza moderna come i numeri dettiappunto arabi (anche se sono di origineindiana) e con essi lo zero, che permettei calcoli algebrici (come fare operazioniin colonna con i numeri romani?).

Lo straordinario fiorire delle catte-drali nei secoli Undicesimo-Tredicesi-mo è contemporaneo di tre grandi evo-luzioni storiche.

Il primo elemento è dato da unaespansione demografica senza prece-denti: tra la fine del Decimo secolo e gliinizi del Quattordicesimo la popolazio-ne dell’Occidente cristiano è più cheraddoppiata, con punte rilevanti in al-cuni paesi. Ad esempio, in Francia pas-sa da 6 a 18 milioni di abitanti, in Inghil-terra da 1,2 a 3,8 milioni.

Guardiamoci però dal ritenere chenella storia a un dato fenomeno corri-sponda un’unica, precisa causa. Anzi, levicende profonde — economiche, so-ciali, culturali in senso lato: vicende dilunga durata — possono essere insiemecause ed effetti, in un intreccio nonsempre facile da discernere chiaramen-te. Così, l’incremento demografico offrebraccia più numerose e fruisce di questoincremento della forza lavoro per pro-durre maggiori e migliori quantità diderrate, che a loro volta permettono dinutrire un maggior numero di persone.Si tratta di una circolarità destinata ad

essere drammaticamente interrottadalla peste nera alla metà del Trecento.

È lecito pensare che l’accrescimentodella popolazione abbia spinto a co-struire edifici religiosi sempre più vasti.La cattedrale di Amiens riusciva a con-tenere circa diecimila persone, cioè pra-ticamente l’intera popolazione dellacittà. Ma questo dato quantitativo non èil solo motivo che anima i costruttori dicattedrali. Tra Undicesimo e Tredicesi-mo secolo la spinta principale viene dal-la volontà e dalla capacità di potere del-la Chiesa e delle città.

Il secondo elemento è quello dellariforma della Chiesa. Pipino il Breve,Carlo Magno, Ludovico il Pio avevanogià preso alcuni provvedimenti, tra cuila distinzione tra lo statuto dei monaci,che vivevano nei monasteri sotto la re-gola benedettina riformata nell’817, equello dei canonici, tenuti alla vita co-mune nell’ambito della chiesa matricecittadina. L’abbazia di Cluny, fondata inBorgogna da Guglielmo d’Aquitania nel909, fa suo lo spirito diriforma che diffondecon grande successo.In particolare, Gu-glielmo sottrae l’ab-bazia sia all’autorità

laica sia a quella vescovile, per farla di-pendere solo dalla chiesa romana, cioèdal papato. L’esempio dilaga a macchiad’olio in altri monasteri, da Magdebur-go a Silos, da Malmesbury a Camaldoli,Vallombrosa, Montecassino. E monacoè Ildebrando di Soana, papa GregorioVII (1073-1085), dal quale prende nomela riforma detta appunto gregoriana. Unpapa dal carattere particolarmentecombattivo: ricordiamo il suo scontrocon l’Imperatore Enrico IV, che detteluogo al notissimo episodio di Canossa.

Uno degli aspetti principali dellariforma è la netta separazione del laica-to dal clero, che sottrae la Chiesa all’in-fluenza dei potentati: imperatori, re, si-gnori feudali, i quali non possono più at-tribuire cariche religiose a persone, ec-clesiastici o no, di loro scelta. Proprioquesta riforma dà il via allo scontro plu-ridecennale tra poteri laici e poteri ec-clesiastici noto come “lotta delle inve-stiture”.

Il terzo grande fenomeno che segna isecoli delle cattedrali è la grande espan-sione delle città. Ma è necessario distin-guere le città dell’Italia centro-setten-trionale da quelle d’oltralpe — in parti-colare di Germania e di Francia. Là in-fatti i signori feudali abitano in campa-gna, nei loro castelli, che con il consoli-damento della monarchia perderannogradualmente la funzione e l’aspetto difortezze (per lo più semplici costruzioniin legno, su rilievi di terreno naturali oartificiali: le “motte”) per assumerequello di ricche, affascinanti residenzesignorili. I re stessi sovente risiedevanofuori dalla capitale, Parigi: ad esempio,Luigi IX (san Luigi) risiedeva a Vincen-nes. Sicché gli edifici più importanti del-le città non erano i palazzi signorili, male cattedrali, con la loro imponenza ar-chitettonica spettacolare e con una

straordinaria forza simbolica. Non tuttii sovrani — ad esempio, non tutti i re diFrancia — si interessano alla costruzio-ne, ricostruzione, dotazione delle cat-tedrali. In Francia infatti, anche se percostruire una cattedrale era necessarioil permesso del re, la monarchiarafforzò i suoi legami con la chiesa epi-scopale solo dalla fine del Dodicesimosecolo, quando si preoccupò di co-struire uno stato nazionale assolutisti-co sostenuto da un impressionanteculto della regalità: basti pensare al ritodella imposizione delle mani, col qualesi credeva che i re potessero guarire al-cune malattie.

Invece gli imperatori del Sacro Roma-no Impero, ormai divenuto germanico,si collocano nel solco della tradizionecarolingia di forte legame con la Chiesa:sicché ad esempio Corrado II (morto nel1039) intraprende la ricostruzione dellacattedrale di Spira per collocarvi i sepol-cri dei membri della sua dinastia. Ad al-tre cattedrali si mette mano tra Undice-simo e Dodicesimo secolo: a Durham,nell’Inghilterra normanna, nel 1093; aWorms tra 1025 e 1032; a Utrecht fra il1076 e il 1099… I sovrani neo-convertitial cristianesimo, poi, sentono l’obbligodi dare alla loro nuova religione i mezziper diffondersi e trionfare: è il caso delcontemporaneo Stefano I, primo re cri-stiano di Ungheria (convertitosi nel 994e morto nel 1038), fondatore della catte-drale di Estergom.

Diversamente da quanto accade Ol-tralpe, in Italia, e in particolare nell’Ita-lia centro-settentrionale, i signori dellaguerra e della terra tendono a spostarsinelle città, centri del potere politico edeconomico. Inoltre, il governo assem-bleare comunale si sforza di estendere ilsuo controllo sulla campagna circo-stante e per fare questo preferisce chia-mare (a volte addirittura costringere) isignori del contado entro le mura citta-dine. Sicché l’assetto urbanistico dellacittà comporta, oltre la cattedrale, an-che i palazzi e le torri signorili e soprat-tutto il palazzo pubblico, sede degli or-gani principali del governo cittadino. Lacittà di pietra riflette dunque la città de-gli uomini, secondo la famosa distinzio-ne data da Isidoro di Siviglia agli inizidel Settimo secolo.

Bisogna poi sottoli-

i luoghiForme della storia

JACQUES LE GOFF

e DANIELA ROMAGNOLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

NORD EUROPAA sinistra, la riproduzionedi Notre Dame di Amiensin Francia iniziata nel 1220e terminata nel 1269Sotto, la cattedrale di Wellsin Inghilterra fondata nel 1200e finita nella prima metàdel XIV secolo. L’immaginegrande è il Duomo di Milano,fondato nel 1386e terminato nel 1887

Le nostreradici di pietra

Repubblica Nazionale

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neare il fatto che la figura del vescovo haun ruolo molto importante, accanto e avolte in contrasto con l’aristocrazia feu-dale e con il popolo degli artigiani e deimercanti. Quella del vescovo è infattiuna figura essenziale nella storia del-l’Occidente cristiano, già a partire dallatarda antichità. Dopo la divisione traparte orientale e parte occidentale del-l’Impero romano in crisi, e soprattuttodopo che Costantino trasporta la capi-tale da Roma appunto a Costantinopo-li, si affievolisce la presenza del governoimperiale in Occidente. Non migliore-ranno le cose neppure con l’effimera ri-conquista di una parte delle regioni oc-cidentali, a metà del Sesto secolo, daparte dell’imperatore Giustiniano. So-no secoli nei quali la presenza più im-portante e significativa è proprio quelladel vescovo, che finisce per riassumerein sé, oltre le funzioni religiose, anchefunzioni civili e addirittura militari, so-prattutto nei momenti delle incursioni edelle invasioni germaniche dei secolidal Quarto al Sesto; c’è quasi una coinci-denza tra la figura del cittadino (civis) equella del credente (fidelis).

Si rafforza così sempre più il rapportotra vescovi e comunità, ad esempio nel-la solidale attività di costruzione o rico-struzione delle mura cittadine. Né pos-siamo dimenticare come un’altra benpiù sostanziale costruzione, quella del-la memoria collettiva, si serva anche del-le liste dei presuli che si succedono sullacattedra episcopale. Inoltre, le tombedei vescovi concorrono, insieme ai sacriresti di santi e martiri, a fare della catte-drale un grande reliquiario, a protezio-

per esempio a Reggio Emilia, dove con-vivono il duomo, fondato nel secoloNono, ricostruito nel Tredicesimo, poimolto rimaneggiato, e la chiesa civicadi San Prospero, a sua volta ricostruitanegli anni 1514-23 e successivamenterimaneggiata. Un altro esempio im-portante è quello di Venezia, dove lacattedrale, già nell’Ottavo secolo, èSan Pietro di Castello, mentre la sedepatriarcale passerà in San Marco so-lo nel 1807.San Marco — dove le reli-quie del patrono giungono nell’an-no 828 — nasce infatti come cappel-la palatina del doge, per divenire poichiesa di stato, sede e centro del-l’autocelebrazione della comunità.Non è un caso che le chiese civichesiano spesso dedicate al santo pa-trono della città, mentre numerose

cattedrali furono dedicate alla Ver-gine Maria: basti pensare a NotreDame, a Parigi, ma anche al Duomodi Milano o di Firenze. Va detto cheproprio nel Dodicesimo secolo si eb-be una grande diffusione del cultomariano, alla quale contribuì in mo-do determinante l’opera di san Ber-nardo (1090-1153).

Raramente una cattedrale era so-lo la chiesa che accoglie la cattedradel vescovo. Quasi sempre si tratta-

va di un edificio polifunzionale,dove naturalmente prevalevanogli aspetti di carattere religioso,

ma dove si svolgevano anche altremanifestazioni della vita associativa ur-bana. Poteva ospitare funzioni assem-bleari, politiche, giurisdizionali, notari-li, mercantili. Fu anche usata come luo-go di passaggio per evitare percorsi tor-tuosi; realtà diffusa, destinata a durare alungo: a Milano, nel Sedicesimo secolo,si dovette probabilmente all’arcivesco-vo Carlo Borromeo la chiusura di unaporta laterale del Duomo per impediredi attraversarlo con i loro carretti agli or-tolani diretti al mercato di frutta e ver-dura (il Verziere).

La polifunzionalità della cattedrale sirivela anche attraverso la straordinariaproduzione di immagini: pitture mura-li, sculture, arredi sacri. Tra questi, rive-stivano grande importanza i reliquiari,per la loro funzione di esaltazione dellachiesa che poteva possedere e offrire al-la venerazione dei fedeli i resti dei santie dei martiri, tanto più evidentementepreziosi quanto più lo erano le teche cheli contenevano e che ne trasmettevano ilmessaggio visivo.

Inoltre per secoli, prima del rifioriredella scuola laica, le uniche scuole del-l’Occidente cristiano furono proprioquelle delle cattedrali e dei monasteri,dove anche si svolgeva una straordina-ria attività di scrittura e miniatura: nonfosse altro, per la produzione di codici li-turgici (messali, libri di salmi). Un altroaspetto importante della cattedrale co-me luogo di cultura e di arte è quello mu-sicale: il canto liturgico era un compo-nente essenziale delle celebrazioni e ilcantor — maestro della schola canto-rum — era un personaggio di grande di-gnità e importanza. Vale la pena di ag-

giungere che la musica, insieme al gio-co, attraversa tutto il medioevo — il“lungo medioevo” — e ne costituisce uncarattere positivo, gioioso.

La cattedrale romanica sarà in molticasi, ma soprattutto Oltralpe, sostitui-ta da quella gotica a partire dagli anniQuaranta del Dodicesimo secolo,quando presso Parigi Sugieri, abate diSaint Denis (morto nel 1151), decide dialleggerire e innalzare l’edificio dellachiesa aprendovi alte vetrate colora-tissime e facendovi penetrare la luce.Si tratta certo di una scelta architetto-nica legata a motivi di ordine teologi-co. Tuttavia non bisogna trascurareanche la vicenda, essenziale, del gusto,che, come le mode, è soggetto a muta-menti anche radicali. Può essere inte-ressante rilevare come negli stessi de-cenni del passaggio dal romanico a go-tico cambi anche il gusto nella scrittu-ra, con la diffusione di forme angoloseche, proprio come lo stile architetto-nico e con la stessa sfumatura di di-sprezzo, saranno poi chiamate “goti-che”. Siamo però davvero nell’ambitodella lunga durata, perché i passagginon sono bruschi e non avvengonocon fratture improvvise. Tanto gli sto-rici della scrittura quanto gli storicidell’arte rintracciano la continuità nelmutamento, segnalando come i prin-cipi strutturali del gotico si sviluppinoproprio da quelli del romanico. In cer-ti casi — la Catalogna, le Fiandre —una continuità almeno parziale risaleaddirittura all’architettura religiosapaleocristiana.

La cattedrale è uno di quei monu-menti straordinari — come certi templiinduisti o buddisti — che parlano sia al-le persone colte e di elevata spiritualitàsia alle persone semplici. Il miracolodella cattedrale è che essa accoglie tut-ti, è ricca di significato per tutti, offre ununiverso di sensazioni, visioni, pensie-ri. È difficile dire se tra i monumenti lai-ci moderni se ne trovi qualcuno che lesia almeno in parte paragonabile. Perquesti motivi la cattedrale è divenutauna formidabile attrazione turistica. Èl’espressione architettonica più tipica-mente europea, un luogo nel quale i tu-risti europei sentono di appartenere auna comune civiltà.

scovile e la più importante delle chiese,la principale casa del Signore — casa,domus, duomo — essa è ormai ancheespressione della vivacità creativa delmondo cittadino, di una potenza chederiva dalla convergenza solidale diaspirazioni, entusiasmi, lavoro comu-ne; una potenza che cerca conferma,espressione visibile, protezione divina,proprio nell’erezione di nuove e più im-

portanti chiese. Accade persino

che la comunitàcittadina vogliauna chiesa pro-pria, addirittu-ra in opposi-zione a quel-la episcopa-le, come

ne ed esaltazione della comunità. Il ve-scovo gode inoltre di un carisma che sicarica di valenze soprannaturali o addi-rittura magiche. Con la costituzione delSacro Romano Impero (l’unica data cheogni studente riesce a ricordare facil-mente è quella dell’incoronazione diCarlo Magno a Roma la notte di Nataledell’anno 800) i vescovi continuano asvolgere anche funzioni giurisdizionalie di governo, assumendo a volte il titolocomitale; del resto, i centri privi di unasede vescovile non sono ritenuti degnidell’appellativo di città.

Dall’Undicesimo secolo, proprio nel-le città dell’Italia centro-settentrionale,dai rapporti e dagli scontri tra aristocra-zia feudale (primi e secundi milites), cit-tadini (cives) e poteri vescovili si costi-tuirà, con tempi e modi diversi, il gover-

no assembleare comunale. Proprio grazie alla dinamica

politica, economica, socialedi quel periodo, le comunità

urbane dell’Occidente cri-stiano pongono mano

alla costruzione o ri-costruzione delleloro cattedrali. Lacattedrale infattinon è solo la sededella cattedra ve-

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 21GENNAIO 2007

IL TESTO E LE ILLUSTRAZIONI

Il testo di Jacques Le Goff e Daniela Romagnoli è tratto da Parliamodi Medioevo. Riflessioni sui secoli delle cattedrali, di prossima pubblicazione

per i tipi di Silvana Editoriale, Milano, a cura del Comitato nazionaleper il nono centenario della cattedrale di Parma, nell’ambitodelle iniziative dell’Assessorato alle politiche scolastiche della Provinciadi Parma. Il libro rievoca il viaggio compiuto nell’anno 1106 da papaPasquale II da Roma a Guastalla, dove aveva convocato un ConcilioDurante il viaggio il pontefice consacrò tra le altre la cattedrale di ParmaLe illustrazioni della pagina sono del disegnatore e rilevatore archeologicoFrancesco Corni e sono tratte dal libro Gotico in Europa, Priuli & VerluccaEditori (testo di Paolo Bourbon, 170 pagine, 39,90 euro). È uno spettacolareitinerario attraverso l’Europa e lungo un arco di tre secoli le cui tappesono cattedrali, castelli e palazzi del periodo gotico riprodottiin accuratissimi disegni che ne mostrano le tecniche costruttivee gli ornamenti ma finiscono per rivelare anche il pensiero, la fede e le illusionidi chi edificò questi formidabili monumenti. Info su www.priulieverlucca.com

MEDITERRANEODall’alto in basso, Santa

Maria de Regla a Leónin Spagna fondata nel 1255e conclusa alla fine del XIV

secolo; la basilicadi San Francesco ad Assisi,

fondata nel 1228e terminata nel XIV secolo;

Santa Maria del Mara Barcellona,

iniziata nel 1328e terminata nel 1383

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Orche, elefanti di mare e dune di sabbia: animali e orizzonti lenti, quasiimmobili. In questo nuovo capitolo inedito per l’Italia del “Progetto Genesi”,Sebastião Salgado attraversa la Peninsula Valdés, ai confini della Patagonia

e del mondo. E trova gli ultimi grandi testimoni di ere lontane rimasti a presidiare una terranon abitata dall’uomo. Un’assenza pesante, come spiega un grande scrittore latinoamericano

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

Ho ricevutole foto senza un preavviso. Ho la cattiva abitudine di leg-gere le e-mail cominciando dalla fine.Cos’era? Paesaggi allucinanti, elefanti marini che riposano, dunedi sabbia dalla geometria intatta, oceano brillante.L’altra faccia della luna?La nostra altra faccia della luna?

L’assenza di tracce umane è desolazione o liberazione?Esco sul terrazzo di casa mia. A Città del Messico è l’alba. Vivendo nella logi-

ca che lo squilibrio orario del jetlag è la normalità cerco di osservare il mio pae-saggio lunare: un colibrì si muove folgorante alla ricerca di acqua, deve avere

tanto freddo come ne ho io, due bambini nei loro ponchopassano canticchiando mentre vanno a scuola, i miei vici-ni dell’officina meccanica stanno aprendo le loro porte.

Ciò che è prossimo, vicino e intimo diventa per un istan-te estraneo.

Ho trascorso una settimana in Germania e adesso sen-to urgentemente il bisogno di recuperare monossido dicarbonio, sono sul punto, colpito da questa strana nostal-gia che il ritorno e le foto hanno prodotto in me, di uscirea succhiare il tubo di scappamento di un autobus che si av-vicina all’angolo.

Come ho discusso mille volte con mia figlia, affronto i paesaggi e l’astratto conun problema, ho bisogno perché funzionino emotivamente del riferimentoumano e per questo li devo leggere con abbondanza di extra letterari. Sulle sca-le di casa mia ci sono tre quadri del pittore spagnolo Pablo Gago che suggeri-scono vagamente una serie di porte, nel corso degli anni ci ho inventato sopradecine di storie. La stessa cosa mi succede con i paesaggi di Turner o Delacroixquando non c’è una minuscola figura umana sulla nave o all’orizzonte.

Eppure qui funzionano. L’assenza umana è una forma di presenza?Che cosa pretende Salgado? Di mostrarci l’altra faccia della luna?Che cosa evoca la nostra assenza?

Traduzione di Luis E. Moriones

PACO IGNACIO TAIBO II

Affronto i paesaggi e l’astrattocon un problema: ho bisogno, perché

funzionino emotivamente, del riferimentoumano. Eppure qui funzionano

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Maschi e femmineDa sinistra, in senso orario, esemplari di elefanti

di mare maschio sulla spiaggia non lontanoda un harem; un altro maschio mentre aspetta

l’occasione di catturare una femmina e un altro ancorasulla battigia; un harem a Punta Delgada,

dove il vento soffia a 60 chilometri orari e ricopredi sabbia il corpo dell’animale

HaremQui accanto, un elefante di mare maschioè riuscito ad appartarsi con una femmina

portandola lontano dall’harem. C’è una grandedifferenza di taglia: il maschio può essere fino

a cinque volte più grande di una femminae raggiungere il peso di oltre tre tonnellate

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 21GENNAIO 2007

SU REPUBBLICA E D

La Domenica di Repubblica, e D-La Repubblica delle donne nel suo prossimonumero, pubblicano in esclusiva per l’Italia le foto del “Progetto Genesi”di Sebastião Salgado. Avviato nel 2003, il lavoro terrà impegnato il fotografoper otto anni e si suddivide in quattro capitoli: La creazione, L’Arca di Noè,I primi uomini, Le prime società. Dopo il capitolo, l’anno scorso, sulla preistoriadel pianeta, ecco quello sui grandi e antichi mammiferi e sull’origine dell’uomoQuesta è la terza di quattro puntate (l’ultima sarà pubblicata nelle prossimesettimane) ed è ambientata nella Peninsula Valdés, sulla costa atlanticadella Patagonia. La diffusione dell’opera di Salgado in Italia è a cura di Contrasto, suo editore e agente

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

La furia dell’oceano e la forza dei venti che soffianoinarrestabili sulla Patagonia hanno reso la Peninsula Valdésuna terra scolpita da coste irregolari e attraversatada dune di sabbia che la rendono simile a un desertoche si getta in mare. Un inferno vuoto per l’uomo,ma un santuario per gli animali

La poca conoscenzadelle orche

e il pregiudiziodi assassine

che le accompagnavafino agli anni Settanta

ha messo la lorospecie a rischio

IL FOTOGRAFO DEGLI ULTIMI

Sebastião Ribeiro Salgado nasce l’8febbraio 1944 ad Aimorés, nello statodi Minas Gerais, in Brasile. A 16 annisi trasferisce nella vicina Vitoria, dovefinisce le scuole superiori e comincial’università. Nel ’73 va a Parigiper diventare fotografoLavora prima come freelancee poi per le agenzie fotografiche Sigma,Gamma e Magnum. Viaggia molto,si occupa prima degli indios edei contadini dell’America Latina,poi della carestia in Africa alla metàdegli anni OttantaQueste immagini confluiscononei suoi primi libri. Tra il 1986 e il 2001si dedica soprattutto a due progetti:prima la fine della manodoperaindustriale su larga scala nel libroLa mano dell’uomo (Contrasto, 1994)Poi l’umanità in movimento, non soloprofughi e rifugiati, ma anche i migrantiverso le immense megalopoli del Terzomondo, in due libridi grande successo: In cammino

e Ritratti di bambin in cammino

(Contrasto, 2000)

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Caccia grossaLe foto in basso da sinistra ritraggono l’ospite sporadicoma imponente dei mari intorno alla Peninsula Valdés, l’orca.Almeno 27 esemplari sono stati individuati aggirarsi al largodurante i mesi di marzo e aprile, i più prolifici per la cacciaai piccoli di leoni di mare e a ottobre e novembre per icuccioli degli elefanti marini. Le orche cacciano in gruppidi otto o nove capeggiati da un leader

Onde di sabbiaSotto e in senso orario, tre vedute

del paesaggio della Peninsula Valdéscon la sue immense dune. Le prime due foto

sono state scattate a Punta Buenos Aires,la terza è la grande duna di San Luis,

al centro della penisola

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Negli Anni Sessanta il papà faceva parte di un trio divenuto leggenda insiemea Stills e Nash. Mentre si perdeva tra alcol e droga il bambino che aveva abbandonato decideva di diventare musicista. Un giorno il ragazzo scoprì

che il suo talento non era frutto del caso, ma del sangue. E andò a cercare quell’uomoOra lavorano insieme e per la prima volta hanno deciso di raccontare la loro storia

LOS ANGELES

Era il 1995 quando un musicista di nomeJames Raymond chiamò uno dei più no-ti musicisti della storia del rock, DavidCrosby, e si presentò come suo figlio. Nei

lontani anni Sessanta James Raymond era stato da-to in adozione appena nato da un Crosby allora ine-betito dalla droga, e poco più di dieci anni fa si eramesso alla ricerca del suo vero padre. Raymond ri-mase sbalordito scoprendo che il suo genio musica-le non era frutto del caso, ma del dna trasmesso daltalentuoso cantautore David Crosby. Crosby rac-conta dell’incontro con il figlio nel suo nuovo libro,Since Then: How I Survived Everything and Lived toTell About It, ma questa è la prima volta che padre efiglio ne parlano assieme in un’intervista.

Se non sbaglio non eri esattamente un patito del-la musica West Coast degli anni Sessanta.

Raymond. «L’ho persa per pochissimo. Di sicuro laascoltavo alla radio perché da bambino stavo incol-lato alla radio, ma i miei primi grandi ispiratori sonostati Elton John e Stevie Wonder. Suonando il pia-noforte gravitavo attorno a pianisti e tastieristi».

Quindi per te esisteva solo il pianoforte? «Già. Ho iniziato a sei anni. Avevo una bravissima

insegnante. Al primo saggio suonai Per Elisa diBeethoven e Black And White dei Three Dog Night.Accanto ai pezzi classici la maestra mi lasciava suo-nare brani rock, che mi piacevano moltissimo».

Eri portato per la musica?«Sì. I miei genitori (i Raymond, la coppia che lo ha

cresciuto, ndr) non hanno fatto che seguire quellache era la mia inclinazione. Ero attratto da qualun-que tipo di tastiera. Ricevetti una chitarra solo in se-guito, a dodici anni circa. Ma ero circondato da pia-noforti, organi e tastiere a casa dei parenti. Se ricordobene c’era anche un tizio che vendeva fisarmonicheporta a porta. Avevo circa sette anni e ne fui molto im-pressionato perché era la cosa più fantastica cheavessi mai visto e aveva i tasti. Pregai i miei genitori dicomprarmene una. Ma loro risposero: “No, prendia-mo un pianoforte”».

Ricordi qualcosa dei primi momenti trascorsicon David?

«Quando ho scoperto che era mio padre, prima diincontrarlo, ho fatto una sorta di viaggio alla ricercadelle radici musicali, mi sono procurato quanti piùdei suoi dischi potevo. I suoi accordi straordinari, lesue sonorità jazz mi hanno rivelato il legame armo-nico che ci unisce. Era proprio il tipo di musica che mipiaceva. Poi, quando ci siamo incontrati mi sonomesso a suonare una mia composizione e lui mi hamostrato dei suoi nuovi pezzi. Abbiamo iniziato unintenso scambio di idee».

C’è stato imbarazzo al primo incontro?«Ci siamo visti al bar dell’Univer-

sità di California, lui era lì per dellevisite di controllo (dopo il trapiantodel fegato). Abbiamo passato unpaio d’ore a parlare di musica. Dopoquel primissimo incontro tutto si èsvolto in maniera molto aperta,niente forzature, davvero. Chiara-mente ero agitato all’idea di suona-re davanti a lui, per la sua statura dimusicista. Ma ho pensato: “Se glipiace bene, se no pazienza, nonposso farci nulla”».

Che impressione hai avuto dellaproduzione di Crosby da solista?

«Mi hanno attratto di più le inci-sioni da solista e quelle con Nash ri-spetto alla produzione di CrosbyStills and Nash, anche se mi piacemoltissimo. È stato bello conoscerele sue radici musicali ma mi hannocoinvolto di più il suo album If ICould Only Remember My Name(primo album da solista di Crosby,uscito nel 1971 e recentemente ripubblicato, ndr) ele incisioni con Nash».

Ti ha raccontato qualche aneddoto di allora? «Sì, glieli tiro fuori con le pinze di quando in quan-

do. Li centellina».(David si unisce alla conversazione)Alla notizia che James era un musicista, cono-

scendo i possibili lati negativi del mestiere hai avu-to paura?

STEVEN ROSEN

Quando James chiamò David Crosbye gli disse: “Sei mio padre, suoniamo?”Crosby. «Non so perché, no. So benissimo che il

mondo della musica può distruggere le persone.Avrei dovuto preoccuparmi, ma non è stato così. Poiè entrato in scena James. Molto spesso in questi casile cose vanno storte. Il figlio si è fatto un’idea del pa-dre e vuole che la realtà gli corrisponda. Invece si tro-va davanti un ubriacone, uno zotico che non ha fatto

niente per anni, e scappa via. Oppure il padre si è fat-to un’idea di come vorrebbe che andasse l’incontro.Poi il figlio si presenta e dice: “Perché cazzo hai ab-bandonato me e la mamma? Brutto figlio di puttanaegoista. Non hai mai pensato a che cosa ne sarebbestato di noi?”. James non ha fatto nulla di tutto que-sto. È arrivato per ricominciare da zero. Ha avuto la

cortesia e la generosità di darmi un’opportunità, ungesto che reputo incredibilmente maturo e amabile.Mi sono sentito molto in colpa per non essere statopresente nella sua vita. Ero un drogato, non sarei sta-to in grado di allevare un bambino, non sarei stato dialcun aiuto. Ma per trent’anni mi sono sentito in col-pa, mi sono chiesto: chissà se è vivo; chissà se è mor-

FATHER & SONDavid Crosbycon il figlioJames Raymondin un concertonel 1999

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

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to da qualche parte in un cassonetto; chissà se sta be-ne; chissà. Se hai un po’ di umanità ti poni queste do-mande a notte fonda, quando ripensi a tutti i casiniche hai fatto. E poi tuo figlio ti si presenta davanti edè stupendo. È intelligente, affascinante, più adulto dime. E scopro che è più bravo di me come musicista».

Parlami di quei primi momenti, dello scambio diidee tra voi. So che uno dei primi brani che avetecomposto insieme è Morrison.

«Già, e Morrisonè stato solo un inizio. James mi hacolpito con Morrison(Crosby aveva scritto il testo sulcantante dei Doors Jim Morrison, ndr) e ho pensato“Wow, è straordinario”. Era niente. Ho compreso lepotenzialità quando abbiamo iniziato a comporrebrani come At The Edgeo Somebody Else’s Towno An-gel of Mercy. Abbiamo scritto insieme alcune dellecanzoni più belle della mia vita. Breathless. In quelperiodo sono venuti fuori alcuni dei testi migliori cheio abbia mai scritto. Erano destinati a James e sonodiventati canzoni con James».

È stato un po’ come lavorare all’epoca conGraham Nash o Stephen Stills?

«Non proprio».Che differenza c’è?«James mi ha dato grande sicurezza in me stesso.

Finivo una strofa e già prendevo in mano il telefono.Posavo la penna e afferravo la cornetta. Dicevo: “Danon credersi. Dai un’occhiata, te lo mando subito”.Gli mandavo i testi per e-mail o per fax. Ero a mio agioe sicuro di me come non mi sono forse mai sentitoprima con nessun altro. Avevo un rapporto similecon Nash, ma Nash e io abbiamo composto pochis-simo insieme».

James ha scritto della musica che avresti potutocomporre tu?

«Mi piacerebbe aver composto musica del genere.James fonde Bill Evans e McCoy Tyner. È un po’ oltreil mio limite. Ma le sue composizioni fanno vibrare lemie corde interne perché abbiamo una sensibilitàanaloga riguardo allo sviluppo della melodia, alle so-spensioni che creano l’emozione».

In che termini vi comparereste sotto il profilovocale?

«Io canto meglio di lui, ma è solo questione ditempo. Sta migliorando, ho vent’anni di vantag-gio, trent’anni. È logico. Ma è bellissimo cantareinsieme».

Stephen o Graham sono al corrente della tuaattività con James?

«Dubito fortemente che Stephen abbia maiascoltato un nostro brano. So che Neil Young lo hafatto perché mi ha detto che apprezza la nostra

musica. Mi ha telefonato: “Sai Crosby, ho sentitoil disco. Il primo disco del CPR (acronimo di Cro-sby/Pevar/Raymond, ndr). È molto valido”, hadetto. “Lo pensi davvero?”, ho risposto io. “Sì, èmolto in avanti”, ha detto lui».

State lavorando ad un disco?Crosby. «Al momento sono usciti un cofanetto,

un libro e una riedizione del mio primo album dasolista, tutti contemporaneamente. Sto tentandodi comporre. Ho molti appunti, ancora in granparte troppo disorganizzati per portarli a James.Ma ce li ho. Ho una borsa piena di fogli. All’ispira-zione non si comanda. C’è chi ci riesce. Joni Mit-chell ad esempio. Le dici di scrivere una canzonesulla Torre Eiffel e lei inizia (Crosby canta): “Ègrande è alta è tutta di ferro”. È subito pronta. Ionon ci riesco. Scrivo quando mi viene e vorrei tan-to che succedesse più spesso».

James, hai scritto Don’t Dig Here assieme aGraham Nash e RussKunkel. Che esperienza èstata?

Raymond. «Fantastica.L’idea mi è venuta da un ar-ticolo che avevo letto sulcartello di avvertimentoche volevano mettere aYucca Mountain. L’inten-zione era di trovare il mododi avvertire le generazionifuture o forse altri esseriprovenienti dallo spazio dinon scavare in quel punto».

Dovevano seppellirci…Crosby. «Scorie nuceari».Raymond. «Sì, tutte accumulate in questo posto a

Yucca Mountain. Dall’articolo sono venuti fuori unsacco di testi. Lavoravo con Russ alle musiche per ildisco e gli ho mostrato qualche appunto».

Crosby. «È un bellissimo brano. Ci divertiamo acantarlo. Russ ha un figlio molto musicale».

Raymond. «È un mio caro amico. Ha coprodottol’album di Crosby/Nash. È un produttore straordi-nario. Molto musicale, molto intelligente. Tira fuoriun ottimo sound. È super creativo».

Quindi i geni musicali si trasmettono? Crosby. «James è diventato musicista senza sape-

re che ero suo padre».Significa che la musica uno ce l’ha nel sangue? Crosby. «Che altro si può pensare? James ha ini-

ziato a suonare il pianoforte senza difficoltà».Raymond. «Non avevo altra scelta».

Crosby. «Non vale per tutti I figli. Mia figlia Dono-van non è affatto musicale, ma sa dipingere, al con-trario di noi due».

Raymond. «Io me la cavicchio».Crosby. «Io sono un vero disastro. Django, l’altro

mio figlio, sembra portato per la musica. Canta sem-pre. Ama la musica e canta».

Raymond. «Anche mia figlia. Magari metterannosu una band».

Tua figlia ha musicalità? Raymond. «Sì, ha la stessa età di Django, suona la

chitarra e canta». Crosby. «È anche bella. È un angelo».Raymond. «Si divertono. Non hanno mai fatto mu-

sica insieme ma sono certo che verrà il momento». Crosby. «Verrà. Abitano lontani, ma ti tirerò via da

Los Angeles, ti porterò dalle mie parti». Raymond. «Sono pronto».Oggi suoni con tuo figlio, sono usciti il cofanetto e

il libro. La tua voglia di vi-vere è intatta?

«Sì. Oggi in un certosenso è meglio di un tem-po. Mi sento un po’ comeagli esordi con i Byrds. Aitempi di Crosby Stills andNash spesso ero troppodrogato per dare il massi-mo. Ora posso farlo. Nonsono ancora finito, toc-chiamo ferro».

Eri fatto quando hai inci-so i primi dischi di CSN?

«Sì».E se non fossi stato dro-

gato avresti dato una performance migliore? «Penso di sì. Avrei scritto di più, garantito».Molti artisti all’epoca creavano sotto effetto della

droga. Forse drogarsi rientrava nel ruolo per te? «Proprio così. Stordirsi con l’erba e gli psiche-

delici era uno dei modi per liberarci dagli anniCinquanta. Ma quando passammo alla cocaina eall’eroina iniziò il declino. Più ti drogavi meno fa-cevi musica. Fortunatamente James non è maistato così stupido. È una cosa interessante. Nes-suno dei miei figli dà segno di avvicinarsi alle dro-ghe pesanti. Credo che vedendomi sprofondareabbiano deciso di lasciar perdere».

Raymond. «Non potrei permettermelo».

© IFA, 2007Traduzione di Emilia Benghi

“È stato generoso,m’ha dato un’opportunitàMi sono sentito in colpa

per trent’anniMa non sarei stato

in grado di allevarlo”

WOODSTOCKNella foto grande,il raduno nel ’98a Woodstockper il trentesimoanniversariodi quello originaleNell’altra pagina,Nash, Stills e Crosbynel 1969

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 21GENNAIO 2007

Vita spericolatada eroe del rock

Simbolo di una generazione

ERNESTO ASSANTE

David Crosby non è esattamenteun signore qualsiasi. E non soloperché con la sua voce e la sua

chitarra ha segnato in profondità lastoria del rock, da solo, con i Byrds econ i suoi compagni Stephen Stills,Graham Nash e Neil Young. Crosby hafatto molto di più: è stato un tossicodi-pendente, un alcolizzato, ha rischiatodi morire almeno un paio di volte, hasubito un trapianto di fegato, è statoarrestato e condannato, ha passato unanno in prigione in Texas per posses-so di armi e di droga e, tanto per chia-rire che per quanto possa aver messola testa a posto e si sia ravveduto per luiè sempre valido il proverbio “il lupoperde il pelo ma non il vizio”, solo dueanni fa è stato nuovamente arrestatoperché trovato in possesso di un’armae di un po’ di marijuana. Sessanta-quattro anni vissuti pericolosamenteanche dal punto di vista sentimentale:oltre a James, nato nel 1962, Crosby haun’altra figlia adulta, Erika Keller, na-ta nel 1966, anche lei data in adozionee conosciuta addirittura dopo aver ri-trovato il suo primo figlio. Crosby haanche altri due figli, la trentenne Do-novan, nata nel 1975 e il giovanissimoDjango, nato nel 1995. In realtà Cro-sby è il padre biologico di altri duebambini: nel 1994 ha dato il suo semea una coppia omosessuale, formatadalla cantante Melissa Etheridge edalla sua compagna, la regista JulieChypher, diventate genitori di unacoppia di gemelli.

Insomma, più di chiunque altro Da-vid Crosby ha vissuto una vita davveroemblematica della sua generazione,una generazione che ha provato a for-zare i confini di ogni convenzione, diogni sistema morale, di ogni istituzio-ne e regola, mescolando l’arte e la vita,confondendo l’una con l’altra, tra-sformando ogni idea in un progetto,per quanto assurdo, inconsistente,pericoloso fosse. Crosby ha attraver-sato quattro decenni spingendo la suacreatività, il suo impegno politico e so-ciale, la sua crescita personale oltreogni possibile limite, ed è riuscito no-nostante tutto, come recita il titolo diun suo recente libro biografico, a so-pravvivere.

Non va dimenticato, comunque,che Crosby è uno dei pochi veri grandieroi del rock. È stato il cuore della nuo-va musica americana all’alba degli an-ni Sessanta, ha portato al successo leprime canzoni di Dylan con i suoiByrds, ha segnato la nascita e lo svi-luppo del folk rock per poi diventare il“pontefice” della generazione hippiecaliforniana, nel passaggio tra gli anniSessanta e Settanta, realizzando alcu-ni dischi capolavoro, quelli con Stills,Nash & Young e il suo primo, straordi-nario, album solista, If I Could OnlyRemember My Name, nel quale la co-munità dei musicisti di San Franciscodava corpo a una musica sognante,misteriosa e malinconica. E ha segna-to in maniera indelebile con alcunimemorabili concerti (tra i quali quel-lo di Woodstock) l’immaginario gio-vanile dell’epoca. Gli anni seguentisono stati i più drammatici e compli-cati, tra eccessi di alcol e droga, riabi-litazioni e recuperi, ritorni in scena enuovi abbandoni, fino a toccare il fon-do, alla metà degli anni Ottanta. Unavita raccontata senza pudori in due li-bri, Long Time Gone, pubblicato nel1988 e Since Then: How I SurvivedEverything and Lived To Tell About It,uscito lo scorso novembre.

Oggi è sobrio, produttivo, attento,ma non è diventato un executive, nonha confuso la sua arte con il commer-cio, è ancora un “ribelle” (ha da pococoncluso un lungo tour anti-Bush cheha toccato tutti gli Stati Uniti), appa-rentemente tranquillo ma implaca-bilmente attivo, con i suoi compagnidi sempre, Nash, Stills e Young, con ilfiglio e i CPR (Crosby, Pevar e Ray-mond) e da solo (ha da poche setti-mane dato alle stampe un preziosocofanetto antologico, tre cd ricchi diinediti). E la sua nuova famiglia cre-sciuta in maniera inattesa negli ulti-mi anni attorno a lui e a sua moglieJan, è il cuore di una vita nuova, di unarealtà che, come spesso accade, è sta-ta per Crosby persino più sorpren-dente di quanto lui stesso non potevaimmaginare.

I CASI

SEAN LENNONCantautore e musicistacon il vizio del cinema,

il 32enne Seanè figlio di John Lennon

e Yoko Ono

ZAK STARKEYIn casa Starkey la passione

per le bacchetteè iscritta nel corredo genetico:

Zak è figlio del Beatle Ringo Starre di una parrucchiera, Maureen Cox

Suona con gli Oasis

JACOB DYLANNato a New York nel 1969, Jacob

è figlio del leggendario Bobe di Sarah Lownds, modella e primamoglie del cantautore americanoAnche Jacob canta e compone:con la rock band The Wallflowers

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i saporiGusti mattutini

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

In un bar di Bologna, Nanni Loy si avvicina agli avventori, sorriso timido, cornetto in mano. «Scusi, posso fare zuppetta? Ilmedico mi ha proibito il cappuccino, così lo freghiamo!». Una citazione-culto per chi guardava la televisione a metà deglianni Sessanta, quando Specchio segreto metteva a nudo, con l’arma dell’ironia, angosce e pregiudizi dell’Italia del boomeconomico. Quarant’anni dopo, il cappuccino è ancora lì, sui banconi dei 132mila bar che ci soccorrono in tutti i momen-ti della giornata, a partire dalla colazione, quando ben undici milioni di persone chiedono: scusi, mi fa un cappuccino?Da lì in poi, niente è più uguale. L’elenco delle differenze farebbe venire mal di testa al barista più paziente: caldo, bollente,

tiepido, scuro, chiaro, con una spolverata di cacao, no, meglio la cannella. E la schiuma? Tanta, poca, densa, a parte, su su fino alcappuccino senza schiuma, riedizione in tazza (al posto della tradizionale scodella) del caffelatte d’antan.

La colazione più amata dagli italiani, in realtà, è di origine austroungarica, nata al termine dell’assedio di fine Seicento, quandoalle porte della Vienna messa sotto scacco dagli Ottomani, poi sconfitti e fuggitivi, vennero trovati grandi sacchi di grani tostati. Lacuriosità per quella granaglia odorosa fu più forte dell’odio verso gli “infedeli”.Trasformata in bevanda e “tagliata” col latte — usa-to con la doppia valenza di contravveleno e simbolo di purezza —, la miscela chiaroscura piacque così tanto da essere battezzatakapuziner in onore del friulano Marco D’Aviano, il frate cappuccino che aveva organizzato la difesa di Vienna. Qualche anno do-po, al cappuccino venne abbinato un dolce a forma di luna crescente (croissant in francese), ovvero il nostrano cornetto: mangia-re la Mezzaluna che altro era, se non un gesto di superiorità nei confronti dell’Impero sconfitto?

Tre secoli più tardi, ancora ci interroghiamo su quale sia veramente il cappuccino ideale. Fra barman ortodossi e cultori del nuo-vo, nei giorni di “Pianeta Birra Beverage & Co” in programma il 10 e 11 febbraio alla Fiera di Rimini, sarà presentato il nuovissimo“cappuccino italiano certificato”, voluto e tutelato dall’Istituto nazionale espresso italiano. Una descrizione da leccarsi i baffi: co-lore bianco, con bordo marrone più o meno spesso oppure con disegni dal marrone al nocciola, una crema dalle maglie strette edall’occhiatura molto fine o del tutto assente, aroma intenso, con soffusi sentori di fiori e di frutta, di latte, di tostato, di cacao, divaniglia e di frutta secca.

Naturalmente, perché questa poesia in tazza si realizzi, occorre che latte e caffè siano eccellenti. E invece, a fronte dei tanti sol-di che spendiamo ogni giorno al bar (dove vengono serviti, tra Val d’Aosta e Sicilia oltre 70 milioni di espressi, con un fatturato su-periore ai 50 milioni di euro) pretendiamo tutto — temperatura, colore, aromi — tranne la qualità. Nessuno chiede con che mi-scela viene preparato il caffè, magari rivendicando la preferenza per un puro Arabica (più pregiato, morbido e dolce dell’econo-mica Robusta). Stessa ignoranza nei confronti del latte. Nella maggior parte dei bar si usa l’insapore Uht — lunga conservazione

— al posto dell’intero fresco, previsto nella ricetta del cappuccino certificato.E la dieta? Una volta realizzato il supercappuccino, sappiate che l’abbinamento grassi-alcaloidi, ovvero latte-caffè,

è tra i più faticosi da digerire (peggio ancora associato alla brioche). Eppure, declinato in versione frullata e ghiacciata,il “frappuccino” è il nuovo slim lunch degli adolescenti americani. I nutrizionisti orripilati la chiamano “sindrome da

cappuccino”: veloce, nutriente, poco calorico. Errore clamoroso. Ma nelle pause della giornata, di passaggio al bar, difficile resi-stere al Grande Tentatore. Sperando non ci sia nessun emulo di Nanni Loy in agguato.

LICIA GRANELLO

CappuccinoLa versione techno

del caffelatte si prepara con la macchina da bar,grazie al beccuccio del vapore, che introducearia nel latte, mentrelo scalda. Le varianti sonoinfinite: a cambiare,temperatura, colore,decorazioni, schiuma

Gli utensiliIl cappuccino ha bisogno distrumenti adeguati. Al di là dilatte e caffè di qualità, la

macchina da bar è l’artefice-principe dischiuma densa, giusta temperatura,armonia di sapori. In casa si puòcontare sulla caffettiera Mukki che

assembla latte e caffè nella mokamodificata dalla Bialetti. Per montare il latte, sipuò usare un microfrullino a batteria.

L’ultima novità è Creamer: lo stantuffointerno al bricco produce una

crema densa per i patitidella schiuma

Il bianco e il neroecco l’Italia da bere

Cappuccinoi gradi a cui scaldare il latte

11milioni i cappuccini serviti a colazione

la data di nascita del cappuccino

Pochi sanno che la bevanda più modaiola del momento è natain realtà a Vienna a fine Seicento, e deve il nome al frate friulanoche organizzò la difesa della città dalle truppe ottomane. Ma adessoche il soave mix di latte e caffè si declina in cento modi diversie fa furore nei bar d’America, i barman nostrani stanno per metterea punto la formula del “cappuccino italiano certificato”

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 21GENNAIO 2007

Un rito globalesenza snobismi

In pochi anni, chi l’avrebbe mai detto, il cappucci-no è diventato una bevanda glamour. é attorno aun cappuccino fumante che si riuniscono e si

scambiano le loro piccanti confidenze Carrie e le sueamiche di Sex and the city. È il cappuccino la bevandache la perfida Miranda pretende dalla segretaria-schiava nel Diavolo veste Prada. Soltanto una moda?No, sicuramente molto di più. Nella sua versione glo-bal — fortemente osteggiata dal purismo dei gastro-nauti — il cappuccino si è ormai attestato come undrink di culto, in ogni ora e in ogni luogo. Ha sop-piantato il più volatile tè, ha surclassato le tisane, sa-lutari ma un po’ troppo alternative, ha riempito vuo-ti dietetici nei molti, soprattutto nelle molte, che vo-gliono perdere peso.

Intendiamoci: non è una bevanda light. Ma quan-te modelle e quante star raccontano di arrivare finoall’ora di cena con soltanto un paio di cappuccini nel-lo stomaco. La prima fu, ere geologiche fa, Mina, chedimagrì tornando meravigliosa a suon di cappuccini.Perché il cappuccino riempie e spesso è addiritturaindigesto: quindi sazia, toglie la voglia di mangiare,distrae. Paradossalmente nella nostra memoria sto-rica è legato all’idea di digiuno o, meglio, di scioperodella fame: quello, seriale-plateale, di Marco Pannel-la, che smetteva completamente di alimentarsi con-cedendosi però frequenti cappuccini rinvigoriti daun numero imprecisato di cucchiaini di zucchero.

Dall’ora in cui il tuo prossimo sorseggia il cappuc-cino riconosci la sua nazionalità, o almeno vai peresclusione. Un italiano non lo ordinerebbe mai dopole dieci del mattino. Chi conclude un lauto pasto, an-che serale, con un cappuccino tripla schiuma ten-denzialmente è un cittadino degli Stati Uniti, o un te-desco (e comunque ha uno stomaco di ferro, in Ger-mania lo bevono anche con le salsicce e i crauti). Noidopo mangiato siamo tradizionalisti; la canzone di-ce: spaghetti, pollo, insalatina, una tazzina di caffè.Mica un cappuccino.

E poi di che tipo? Frappuccino, marocchino, mac-chiatone: l’offerta è caotica e immensa. Se in Ameri-ca c’è addirittura la Pepsi Cola al sapore di cappucci-no, noi ci manteniamo fedeli alla tradizione. O me-glio: guardiani della ricetta codificata. Ma l’Italia è an-che il paese di bengodi — di tutto di più — in cui pos-siamo ordinare in mille modi possibili un cappucci-no. Doc naturalmente. Soltanto da noi camerieri ebanchisti riescono a esaudire senza battere cigliotante richieste diverse, e ad approntare elasticamen-te tante varianti possibili: al vetro, corretto, bollente,tiepido, senza schiuma, ristretto, scurissimo, decaf-feinato, con una spolverata di cacao.

E a proposito di cacao, quella di decorare il candi-do materasso schiumoso che galleggia sulla tazza delcappuccino con schizzi di cacao liquido è diventataper molti camerieri italiani un’arte: spighe, rose, mar-gherite, cuori se la cliente è avvenente, persino frat-tali, vortici, paesaggi, profili, ritratti, e a Natale il pre-sepio.

Se il neo-cappuccino può essere chic, è però an-che una bevanda interclassista e fortemente

democratica, un lusso che si concedonoin molti. Bevanda consolatoria, il cap-

puccino rappresenta la pausaaziendale che non si nega a nes-

suno, la micro-autogratifica-zione quotidiana da conce-

dersi sia in solitaria che ingruppo. E quando non è

possibile sciamare al barc’è sempre la macchi-

netta, vedi l’epopeadei travet narratanella sit-com Ca-mera Cafè. Si so-cializza, ci si la-menta, si tresca,si tessono allean-ze, amori e pette-golezzi più tuf-fandosi in uncappuccino chenon davanti aun freddo aperi-tivo o a un ari-stocratico tè.

LAURA LAURENZI

CaffelatteLa bevanda che ha fattola storia della colazioneall’italiana. Ingredienti: latte,caffè, zucchero e scodellaTutto in edizione casalinga:caffè da caffettieranapoletana o moka, lattescaldato sul fornelloDentro, pane raffermo, fette biscottate, biscotti

FrappuccinoFrappè e cappuccinoassemblati nella stessaricetta. Inventato dagliamericani della “Starbucks”,è composto da caffè, panna,zucchero e ghiaccio frullati.Varianti: caramello, cereali,noccioline, cioccolato(Mocha). Venduto anchein bottiglia

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I ministri(...) Un ministro del Caffelatte

per cominciare bene la giornata,con un Sottosegretario per I Biscotti

e uno per la Marmellata; e se toccasseun mattino a un solo cittadino di rimanere senza colazione,via! Il Ministro in prigione

Di Gianni Rodari

CappuccioneLa moda americanadi servire cibi e bevande in formato maxi è arrivataanche da noi, raddoppiandoil formato del cappuccinoUguali le percentuali di lattee caffè, uguale anchela preparazione. A cambiare,le dimensioni della tazza,trasformata in supermug

SifonatoFerran Adrià ha trasformatoil cappuccino in una moussesetosa, grazie all’agar agar,alga dal potere gelificante,addizionata al liquido primadi metterlo nel sifoneSpremuto in tazza,il cappuccino ha la consistenza di unamousse, ma senza panna

MarocchinoA metà fra un caffè al vetroarricchito e un golosocappuccino in miniatura,chiamato anche brasiliano,si prepara assemblandonel bicchierino cacao in polvere, crema di lattee una tazzina di espressoLa schiuma è spolverizzatacon altro cacao

Latte macchiatoL’alternativa al cappuccinodi chi ama le note dominantidel latte, scaldato col beccuccio a vapore in un bicchiere alto e strettoIl caffè espresso va fattocolare di lato, per lasciareintatta la schiuma, o versatosopra. Cacao o cannella per rifinire

VienneseRicetta creata ai tempidell’impero austriaco, vieneservita in porzioni mini,nella tazzina da caffèSull’espresso tradizionale,viene appoggiatoun cucchiaio di pannamontata e uno di pannaliquida, senza mescolareCacao per decorare

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le tendenzeCasa e cose

L’artista prestò particolareattenzione agli aspettifunzionali della composizionee all’uso essenziale del prodottoprivo di orpelli estetici

Una lezione fondamentale per molti designer di oggi. Queidesigner, per capirci, malati di protagonismo, che per va-nità inventano oggetti sorprendenti, bizzarri, stravaganti,

che attirano l’attenzione ma, all’uso, rivelano limiti progettuali ea volte irrimediabili difetti. La lezione è quella di Jean Prouvé, chenella sua attività di design ha sempre integrato la formazione difabbro prima e la vocazione ingegneristica poi, facendo di que-sto ibrido il proprio fondamento creativo. Tale fondamento tro-va adesso efficace sintesi nel titolo della mostra in programma dal18 febbraio a Mantova: La poetica dell’oggetto tecnico. Titolo che,a una prima lettura, appare quasi un ossimoro. Invece, è un pro-gramma di lavoro preciso, che riduce il valore estetico di un og-getto, come di un edificio, alla sua materialità funzionale, e sot-

tolinea l’innegabile ma discreto fascino del-l’essenziale. Quel fascino che suscitano,per esempio, i meccanismi di un orologio,

la “ferramenta” (viti, cerniere, spalle portanti...) diuna cucina, l’anima metallica di una poltroncina. Per Prouvé ciònon è solo una bussola professionale, ma un codice esistenzia-le che ha l’inevitabile esito di uno stile di vita votato al pragma-tismo: negli anni Trenta, per esempio, realizza scale metalli-che e mobili per scuole, ospedali e case di cura. Quando glipiomba addosso la guerra, partecipa alla resistenza francesee produce forni, stufe, telai di biciclette, rimorchi per uso mi-litare e per un brevissimo periodo, dal settembre 1944 almaggio dell’anno dopo, è anche sindaco di Nancy.

La mostra, organizzata dal Vitra Museum con il DesignMuseum Akihabara di Tokio e il Deutsches ArchitekturMuseum di Francoforte, è composta da cinquanta og-

getti di design, sedie, poltrone, tavoli, scrivanie, banchi di scuo-la, letti e lampade, da elementi architettonici ideati da Prouvé, di-segni, modelli e alcuni prototipi, tra cui si segnala la casa smon-tabile di sei per sei metri, in legno e acciaio. La grande attenzioneagli aspetti funzionali della composizione appare in tutta evi-denza. Prouvé dedica ossessiva attenzione ai processi produtti-vi, alle soluzioni tecniche che spesso ottengono specifico brevet-to, alle strutture, al punto che viene da considerare l’autore comeun ircocervo creativo nato dalla fusione di architettura e designcon l’ingegneria, in cui le considerazioni materiali, la meccanica,la statica e la dinamica diventano imperativi categorici.

Eleggendo a idea guida l’essenziale funzionale, e quindi ispi-randoci idealmente alla vocazione e alla cifra di Prouvé, abbiamocompiuto una scelta di oggetti che rappresentano aspetti di taleidea guida. Non si tratta, ovviamente, di arredi in cui si ritrovi lacifra stilista del costruttore parigino. Piuttosto, di oggetti in cui laforma è testimonianza immediata della funzione, oppure in cuigli elementi costruttivi riconducono a suggestioni ingegneristi-che. Per esempio, la lampada Twiggy progettata da Marc Sadlerper Foscarini, il cui ampio braccio è regolato da contrappesi e siesprime anche come citazione della lampada Arco di Achille Ca-stiglioni, di cui però ha eliminato il pesante piedistallo in traver-tino. O Ramo, appendiabiti cui è stato sottratto qualsiasi orpelloo riferimento decorativo. O, ancora, Ez, un dondolo prosciugato,ridotto al suo estremo essenziale. Tra gli elementi ricorrenti diquesti oggetti, ovviamente, il metallo, a vista come nel dondolo ein Mart, poltroncina con ruote di B&B, ma anche celato e ma-scherato, magari sotto il tessuto in microfibra della poltroncinaGlove di Molteni. Infine, omaggio all’eclettismo e ai contenuti in-gegneristici dell’opera di Prouvé, il pianoforte digitale di Korg,

che rilegge in chiave tecnologica la funzione di arredo de-corativo e tradizionalmente borghese del pianofor-

te a coda e rappresenta una ulteriore, raffi-nata fusione di tecnica e poesia.

AURELIO MAGISTÀ

La mostra Jean Prouvé.La poetica dell’oggettotecnico, presentatadal Centro internazionaled’arte e di culturadi Palazzo Te, a Mantova,apre il 18 febbraioe prosegue fino al 22 aprileLa mostra, a curadel Vitra Design Museum,è costituita da oltre centopezzi e disegni originalidel designer e costruttoreparigino (a sinistra,durante una lezionenel 1964)Info tel. 0376-323266.www.centropalazzote.it

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

EQUILIBRISMIBase a semicerchio e pianoflessibile, per il dondoloin acciaio Ez di RoyalBotania. Pieghevole

LAMPI D’ANNATARiedizione di un pezzostorico: Dalù, natada una semplice torsioneFirmata Vico Magistretti

INTERNO VERDESi chiama Ramol’appendiabitida appoggioalla paretenato dall’incontrotra Serralungae l’Istitutodi Design Ecaldi Losanna

SCHIZZI DA MAESTROA destra, due schizzidi Prouvé in mostraa Mantova. Sotto: Cité,sedia in acciaio piegato(Vitra, 1931). In basso,un tavolo del 1954

Con una mostra, che sta per inaugurarsi al Palazzo Te di Mantova,si torna a discutere della grande opera progettuale di Jean Prouvé,uno dei maestri del design che non ebbe alcun titolo accademico,ma che cambiò l’idea della costruzione. Come dimostra la rassegnache propone cinquanta suoi “pezzi” storici, disegni e schizzi ideativi

Prove tecniche

di creatività

LEGGEREZZADalla ricercasui materialicompositidi Foscarininasce Twiggy,con braccioampio, resistentee flessibile,regolatada contrappesi

Repubblica Nazionale

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Il fabbro ferraio che disse sì

all’astronave del Beaubourg

Jean Prouvé, un artigiano geniale passato alla storia

MASSIMILIANO FUKSAS

«Ho l’orrore di disegnare senza costruire. Nei miei ateliers un’ideaè immediatamente realizzata, che sia una casa o un mobile.Dunque io ho lanciato l’idea di un luogo, di una sede. Avevo uno

dei miei fratelli, Pier, che stava all’atelier per i prototipi, io gli dicevo: “co-struiscimi questo”. Mi guardava e io proseguivo: “tu mi porti questo domanimattina”, e il giorno dopo io avevo la sedia e la mettevamo a punto. Non pas-savamo dei mesi a tentare di fare una sedia ben disegnata, questo non ser-ve a niente. Le cose bisogna farle». Jean Prouvé rappresenta il tentativo diraggiungere rapidamente un risultato mettendo insieme conoscenze di-verse e una grande manualità. Prouvé non aveva il titolo né di ingegnere nédi architetto. L’unico titolo che aveva conseguito era di “metre ferronier” ene andava particolarmente fiero. Il sogno di realizzare architetture e mobi-li sperimentali lo porta rapidamente a costruirsi un atelier a Nancy.

Nato l’8 aprile del 1901 a Parigi, dopo una formazione parigina dal 1929 al1932 lo vediamo artigiano del ferro e delle serrature. È intorno al 1932 che in-comincia i suoi primi progetti e le prime sperimentazioni di facciate continuee di infissi particolari come le finestre a ghigliottina della rue Lord Byron,nell’8° arrondissement di Parigi. Piccoli interventi ma significativi riguardo alfuturo che Prouvé immaginava. In quegli anni interviene nel municipio diBoulogne Billancourt studiando le pareti mobili nella sala delle feste o altri pic-coli interventi esemplari per semplicità e innovazione. Non ha nessun tipo divergogna nel progettare dei copri-radiatori in lamiera piegata e perforata nelMuseo d’arte moderna della Ville de Paris o le porte a due ante in acciaio perla Compagnia Grandval a Parigi. Ma come dicevo è veramente il dopoguerrail momento in cui Prouvé riesce a sintetizzare la sua visione. L’atelier JeanProuvé a Nancy incomincia a produrre idee e prototipi, strutture in acciaio chepossono essere l’Aeroclub Roland Garros nel ’36 o il Padiglione del Centena-

rio dell’alluminio a Parigi nel ’54 che poi è stato trovato recu-perato, smontato e rimontato nel 1999 a Villepinte, oppurele case per sinistrati dell’alluvione della Lorena nel ’45. Fra il’55 e il ’57 incontra l’abbé Pierre, personaggio che ha speso

la sua vita nell’aiutare i diseredati e i più deboli della società. Econ l’abbé Pierre inizia una collaborazione per realizzare

abitazioni a basso costo e di facile montaggio.Alla Biennale del 2000 di Venezia dal titolo Less Aesthetics

More Ethics abbiamo ricostruito le quattro case superstiti nel-la riva dell’Arsenale. Jean Prouvé in Italia, in quegli anni era co-nosciuto da un ridottissimo gruppo di appassionati. Il mon-taggio delle quattro abitazioni e di una pensilina salvata dalla

demolizione dell’edificio per la previdenza sociale a LeMans (1951-52) raccoglieva molti curiosi che in molti ca-si non riuscivano a capire cosa queste strutture sempli-ci avessero di eccezionale. Prouvé di eccezionale aveva

la capacità di trasformare materiali quotidiani e prodot-ti a basso costo in oggetti e architetture che mostravano comel’urgenza e i dettagli fossero semplicemente necessari, mai de-corativi. In Prouvé non c’è mai l’esaltazione della tecnica.

Nel ’49 per la Fédération du Bâtiment studia una facciatacontinua di alluminio. Da anni colleziono con Doriana quello che è possi-bile acquistare di Prouvé. Una delle prime cose che abbiamo acquistato èappunto un pannello della Fédération du Bâtiment. Una parte di facciata.L’edificio non esiste più, ma anche se il singolo oggetto non può essere iso-lato dal contesto è sempre straordinario, come straordinaria è la strutturadel Bar della Fonte Cachat a Evian del ’56 in cui i pilastri si modellano se-condo gli sforzi, toccano appena la copertura leggerissima e il suolo. La leg-gerezza è stata per Prouvé non un manifesto ma quasi un normale modo diesistere. In un’epoca in cui si poteva ancora acquistare, comprammo duepoltrone visiteur (’42-’43), di seguito la libreria dell’atelier Prouvé, Charlot-te Perriand con i colori di Sonia Delaunay, fino a riuscire a trovare la tavolaaile d’avion di quasi cinque metri, un pezzo straordinario non di design madi architettura.

Il vero dramma di Prouvé avverrà con il fallimento giudiziario dell’ate-lier di Nancy. Perderà la sua “macchina” per pensare e realizzare quasi intempo reale. Nella follia amministrativa e della burocrazia di Stato JeanProuvé fu attaccato quando, nominato presidente della giuria per il Cen-tro Pompidou, ci furono vari attacchi in quanto non aveva il “diploma di ar-chitetto”. L’organismo pubblico del Beaubourg dovette scrivere una lette-ra per spiegare che Prouvé probabilmente non era un architetto ma rap-presentava quanto di meglio la Francia in quegli anni aveva saputo espri-mere. L’Etablissement Public si umiliò al punto di spiegare che Prouvé nonera laureato in architettura ma che il suo lavoro al 19 giugno del 1972 (datadella lettera) era già parte della storia. Prouvé, come presidente della giu-ria, propose al governo il progetto del Beaubourg che poi è stato costruito.

Quello che è forse l’aspetto più importante del lavoro di Prouvé è che èstato sempre estremo difensore della “modernità”. Si sforzava di convin-cere un mondo all’epoca conservatore che bisogna utilizzare le tecnicheinnovative che i suoi tempi producevano per costruire una società giustacon un futuro migliore per tutti. Come molti, negli anni fra le due guerre ein modo ancora più deciso nel periodo della ricostruzione postbellica pen-sava che si potesse far partecipare il più grande numero di persone al mi-racolo dell’architettura e del design.

Prouvé lavora con molti dei grandi personaggi degli anni Trenta e Qua-ranta. Ospita la grande designer Charlotte Perriand nel suo atelier, la con-siglia e la osserva lavorare. A 29 anni Prouvé aveva già fondato l’unione de-gli artisti moderni con Pierre Chareau, Le Corbusier e Mallet-Stevens.Amava il buon vino, mangiare bene, la vita, ed è stato in vita adorato da po-chi appassionati del suo lavoro e oggi da tutti.

L’ARCHITETTOMassimilianoFuksas

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 21GENNAIO 2007

Designd’autore

FORMALI ABBRACCITre pezzi, due a formadi X ed uno tondo,compongono la strutturadi XOX. Di Casamania

IL VESTITOUna strutturametallica“calzata”da tessutoper GlovePiedi e sedutasono in unicobloccoDi PatriciaUrquiolaper Molteni

A PROVA DI BREVETTOIl sistema a slittadella base Catifa, sedutamonoscocca progettatadallo studio LievoreAlther Molina,è brevettato da Arper

AUTORELAXBasata sul concettodei fascianti sedili d’auto,Wink, di Cassina,ha schienale regolabile,testata indipendentee poggiapiedi estraibile

SUONO HI-TECHM.A.D.Eè il pianoforte digitaledi Korg ad altatecnologiadel suono. Ottimonei piccoli spazi

TUBI E RUOTEIl tubolaredi acciaioche disegnala strutturadella poltroncinaMart è dotatodi presaposterioreper facilitarelo spostamentoDi B&B Italia

Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 21GENNAIO 2007

l’incontroCineasti contro

NEW YORK

Anche per chi vive al difuori del mondo hol-lywoodiano e frequentale sale cinematografiche

solo di tanto in tanto, il nome OliverStone è sempre stato sinonimo di pole-miche e controversie. Ha vinto treOscar e alcuni suoi film hanno reso fe-lici i produttori e gli studios con incassieccellenti, eppure non c’è executive diHollywood che non reagisca con unabuona dose di timore a ogni suo nuovoprogetto, vuoi che si tratti della biogra-fia di Alessandro Magno o della trage-dia dell’undici settembre raccontataattraverso gli occhi di due poliziotti in-castrati sotto le macerie delle torri ge-melle. Per non parlare del film sul qua-le sta lavorando in questo momento,che ha per oggetto la caccia a Osamabin Laden da parte del governo degliStati Uniti.

È capace di mescolare momenti digrande cinema a passaggi volgari e adeffetto, intuizioni suggestive o com-moventi con semplificazioni indegnedel suo talento e di una intelligenza vi-vace e perennemente curiosa. Ma è ca-pace anche di grande autoironia: dopoessersi guadagnato con JFK la fama diessere uno dei massimi propugnatoridelle teorie del complotto, ha parteci-pato alla commedia Dave nella parte dise stesso che discute la possibile sosti-tuzione del presidente con un sosia; equindi, nella sua serie televisiva WildPalms, ambientata nel futuro, ha inter-pretato un cameo nel quale discute laveridicità delle sue tesi riguardo all’o-micidio Kennedy.

Ha compiuto sessant’anni lo scorsosettembre, ma solo pochi mesi prima èstato arrestato per la seconda volta perpossesso di droga e guida in stato diubriachezza. Il suo sorriso è sincero ma

perennemente malinconico, e lui dàl’impressione di parlare come un gio-vane costretto alla maturità dalla cono-scenza diretta di violenza, ingiustizia edolore. «Cerco sempre di reagire conenergia a ogni cosa ma a volte è diffici-le vincere il disincanto — racconta nel-la sua casa di produzione alla quale hadato il nome di Ixtlan — sono stato edu-cato a pensare che la crescita è un pas-saggio doloroso anche nel momentodell’eccitazione, e so che bisogna averela libertà di mettere in discussione an-che se stessi. È per questo che ricorrocostantemente all’ironia. Anche per-ché so che la vita è segnata costante-mente dalla sconfitta».

A dare un’occhiata superficiale aisuoi film, alle ripetute dichiarazionipubbliche, e persino al suo romanzoautobiografico intitolato A child’s nightdream, nel quale è descritto un rappor-to con la madre a dir poco morboso, èdifficile trovare qualcosa che contrad-dica la sua fama di uomo difficile e pro-vocatore. Eppure un’analisi approfon-dita permette di delineare un ritrattomolto più articolato e sofferto, dal qua-le Oliver Stone emerge come una per-sona caratterizzata da un costante bi-sogno di ricerca, un uomo in grado diassumere posizioni sorprendenti e li-bere.

La sua decisione di girare un film sul-l’undici settembre aveva suscitatomolte preoccupazioni, e perfino unaserie di attacchi preventivi basati sulfatto che proprio lui, il regista che ha so-stenuto in JFK che Lyndon Johnson siastato complice (o quantomeno perso-na informata) dell’attentato a Ken-nedy, fosse il cineasta deputato a rac-contare la più grande tragedia ameri-cana degli ultimi decenni. Lo sgomen-to era amplificato anche dalla scelta se-mi-documentaristica e neutrale tenu-ta da Paul Greengrass nell’ottimoUnited 93, ma World Trade Centerha fi-nito per spiazzare sia coloro che lo ave-vano condannato preventivamente,sia coloro che si aspettavano un attac-co all’amministrazione Bush. A pre-scindere dalla valutazione puramenteartistica, ciò che risalta nel film è un ap-proccio nel quale viene esaltato il co-raggio dei poliziotti e dei vigili del fuo-co, e l’esplicito orgoglio di appartenen-za a un paese attaccato.

«Credo — dice Stone — che soloamando si possa avere il diritto di criti-care. E penso sia evidente a tutti quan-to ami il mio Paese. So bene che ognifilm di qualità può portare con sé unavalenza politica, e non mi spaventa rac-contare le ragioni di ogni personaggioche si è trovato a vivere una situazionedrammatica. Ma non capisco le conti-nue sorprese riguardo alle mie scelte.Molti mi hanno criticato, ad esempio,per il ritratto di Fidel Castro nel Co-mandante. Io credo che si tratti di unpersonaggio da collocare in una speciedi vuoto politico, collegato necessaria-mente agli Stati Uniti i cui leader hanno

lywood. Il suo ritratto di Richard Nixonè lontano da preconcetti ideologici, an-zi si segnala per un giudizio positivosull’operato del presidente dell’im-peachment in politica estera e per lapietà umana verso di lui nel momentodella disgrazia. Il film, che fu candidatoa quattro Oscar ma ebbe scarso succes-so al botteghino, si sforza di scavarenella psicologia di un uomo capace digrandezza e miserie, intuizioni genialie volgarità. E lascia l’impressione che inpiù di un passaggio Stone arrivi persinoa una sorta di identificazione con il piùcontroverso dei presidenti americani.«Più che simpatia ho provato empatia.Nixon è un presidente che ha diviso ilPaese e il mondo, e da questo punto divista è simile a Bush. Sono convinto chese il film fosse uscito di questi tempiavrebbe avuto molto più successo. An-che alcune delle sue scelte più interes-santi furono guidate da calcoli politici,ed era un uomo capace di mentire spu-doratamente. Tuttavia, da uomo dispettacolo sento la necessità di com-prendere il personaggio. Ed è vero cheprovo compassione, ma per quel che ri-guarda la sua ostinazione mi viene inmente soprattutto mio padre».

Per cercare di comprendere le sceltecreative di Oliver Stone — e le sue posi-zioni politiche che appaiono oscillantitra l’estrema sinistra e l’individualismoanarchico — è bene ripercorrere le tap-pe di una esistenza segnata costante-mente dal tormento. È nato a New Yorkda un padre ebreo e da una madre cat-tolica di cittadinanza francese. È statala madre a imporre il nome Oliver,mentre il padre aveva scelto William.Così il bambino fu chiamato con en-trambi i nomi e optò per Oliver dopoche il padre abbandonò la madre. Fu al-levato secondo i dettami della chiesaepiscopale, scelta come compromessotra i genitori, e venne mandato in colle-gio a quattordici anni. Le biografie ciinformano che si iscrisse per due voltea Yale, quindi combatté in Vietnam tral’aprile 1967 e il novembre 1968, fu feri-to per due volte in combattimento e ri-cevette numerose onorificenze per «glistraordinari atti di coraggio compiutiin azione». Tentò poi di esorcizzare ilVietnam nella trilogia cinematograficacomposta da Platoon, Nato il 4 di luglioe Heaven & Earth. Quindi si è dedicatoa film nei quali ha alternato eccellentilavori da sceneggiatore (L’anno deldragone, Scarface e Midnight Express,per cui ha vinto uno dei suoi Oscar) a re-gie personalissime e sperimentali chemescolano l’uso del 35 millimetri conla telecamera amatoriale: il vhs e persi-no il superotto. A chi gli chiede oggi ilmotivo di questa ricerca espressivaspiega che «lo stile dà il tono al film e nelmio caso segue il subconscio. Moltospesso ho puntato su una narrazionefrazionata per creare nello spettatoredisorientamento. In particolare in Na-tural Born Killers l’intento era quello diraccontare dei personaggi completa-

più volte tentato di ucciderlo. Da quan-do è salito al potere la sua politica è unareazione a questo vuoto e a questa si-tuazione. Ritengo che sia quindi moltocomplesso dare una valutazione di-staccata sul suo operato. Da un puntodi vista umano ne sono affascinato,credo che abbia veramente a cuore ilsuo paese. Ma questo non significa cheapprovi ogni sua scelta, a cominciareda quelle economiche (io sono per unmercato libero sottoposto a dei limiti)per non parlare delle libertà civili. Maso che quello che a noi appare aberran-te, in quel contesto può essere una scel-ta obbligata. Per fare un esempio, ognipersona civile pretende da uno statodelle libere elezioni, ma in quel caso sa-remmo sicuri di assistere a elezioni pi-lotate dall’esterno».

World Trade Centernon è certo il pri-mo film con cui Stone prende in con-tropiede le aspettative del pubblico,della critica e, soprattutto, di Hol-

mente fottuti dalla società».Si tratta di uno stile che ha caratteriz-

zato i film più controversi come JFK eNatural Born Killers, ma proprio que-st’ultima pellicola, la cui sceneggiaturaera di Quentin Tarantino, attirò infini-te polemiche per via di una rappresen-tazione della violenza, a detta degli ac-cusatori, troppo celebrativa. Stone ri-gettò le accuse spiegando che intende-va proporre un quadro ironico dellaglorificazione della violenza offerta daimass media. Ma resta la sua costanteambiguità nei confronti dei personag-gi “negativi”: anche, ad esempio, inquell’apologo morale che era WallStreet, ambientato nella New York ram-pante degli anni Ottanta, il personag-gio più fascinoso finisce per essere Gor-don Gekko, lo spregiudicato uomod’affari che elogia il valore produttivoed “etico” dell’avidità. «Mi auguro chela mia posizione morale sia chiara, tut-tavia so bene che i malvagi sono spessole star delle pellicole per via del loro ca-risma e per il fatto di aver perso l’anima,un atto che ha in sé qualcosa di tragica-mente grandioso. Molti dei cattivi cheho raccontato piacciono perché pro-nunciano parole o commettono coseche nessuno avrebbe il coraggio di diree di fare».

La scelta di raccontare, seppure indi-rettamente, un personaggio come Osa-ma bin Laden ha subito suscitato pole-miche, ma lui ha già dichiarato che an-che in questo nuovo film cercherà diparlare ancora una volta di speranzanel momento della massima angoscia.«Ci avviamo verso la parte finale dellapresidenza Bush e vedo intorno a metroppa euforia. Ancora sono alle primefasi del progetto: non ho ancora il castné il budget, ma voglio raccontarequello che ha fatto l’America dopo cheè stata colpita a freddo. Prima di affron-tare Bin Laden mi interessa raccontarecome è stata usata la guerra, che è sem-pre e comunque una tragedia».

Ora metterò in scenaBin LadenVoglio spiegare

quel che ha fatto

l’America

dopo essere stata

colpita a freddo

Come è stata usata

la guerra, che è

sempre una tragedia

Un’infanzia solitaria e complicata,

la guerra in Vietnam, il successo come

regista e tre Oscar, le polemiche

e le stroncature. Il rimprovero

che l’America muove a questo figlio

ribelle è il suo puntualeinnamoramentoper i personaggi negativi,gli “eroi neri” dei suoi

film. “Ma è giusto così”,

si difende lui. “I cattivi

che io racconto sono

le star delle mie storie

perché hanno perso l’anima:

un atto che ha in sé qualcosa

di tragico e grandioso insieme”

Oliver Stone

ANTONIO MONDA

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Repubblica Nazionale