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1 Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali, Università di Siena, 2014-15 Francesco Farina Politica Economica Internazionale Parte Prima L’equilibrio macroeconomico di un’economia aperta 1.Introduzione Questa Parte Prima richiama i concetti fondamentali dell’equilibrio macroeconomico di un’economia, rappresentata come l’insieme del settore privato (costruito mediante l'aggregazione dei comportamenti di mercato delle famiglie e delle imprese), del settore pubblico e del settore estero. Le microfondazioni dell’equilibrio macroeconomico di un’economia in concorrenza perfetta richiedono le seguenti ipotesi: A) informazione completa e perfetta: gli agenti sono razionali, hanno accesso allo stesso insieme informativo e sono quindi a conoscenza sia delle caratteristiche dei mercati che dei comportamenti degli altri agenti; B) assenza di costi di transazione: gli agenti, nell’effettuare scambi a pronti (spot) oppure nello stipulare contratti non incorrono in costi (i prezzi sono legati soltanto ai costi di produzione). Le transazioni si svolgono mediante la moneta, che funge da unità di conto dei contratti, da mezzo di pagamento e da riserva di valore, secondo una struttura temporale basata sulla successione di singoli periodi (si suppone che un periodo corrisponda ad un anno); C) le imprese godono di libertà di entrata e di uscita dal mercato e sono price- takers: le decisioni di produzione vengono prese sulla base dei prezzi di equilibrio esogenamente dati. 2. Nuova economia classica e nuova economia keynesiana L’analisi macroeconomica si è interrogata sull’esistenza, l’unicità e la stabilità dell’equilibrio macroeconomico risultante dall’aggregazione delle equazioni del

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Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali, Università di Siena, 2014-15

Francesco Farina

Politica Economica Internazionale

Parte Prima

L’equilibrio macroeconomico di un’economia aperta

1.Introduzione Questa Parte Prima richiama i concetti fondamentali dell’equilibrio macroeconomico

di un’economia, rappresentata come l’insieme del settore privato (costruito mediante

l'aggregazione dei comportamenti di mercato delle famiglie e delle imprese), del

settore pubblico e del settore estero.

Le microfondazioni dell’equilibrio macroeconomico di un’economia in

concorrenza perfetta richiedono le seguenti ipotesi:

A) informazione completa e perfetta: gli agenti sono razionali, hanno accesso

allo stesso insieme informativo e sono quindi a conoscenza sia delle caratteristiche

dei mercati che dei comportamenti degli altri agenti;

B) assenza di costi di transazione: gli agenti, nell’effettuare scambi a pronti

(spot) oppure nello stipulare contratti non incorrono in costi (i prezzi sono legati

soltanto ai costi di produzione). Le transazioni si svolgono mediante la moneta, che

funge da unità di conto dei contratti, da mezzo di pagamento e da riserva di valore,

secondo una struttura temporale basata sulla successione di singoli periodi (si

suppone che un periodo corrisponda ad un anno);

C) le imprese godono di libertà di entrata e di uscita dal mercato e sono price-

takers: le decisioni di produzione vengono prese sulla base dei prezzi di equilibrio

esogenamente dati.

2. Nuova economia classica e nuova economia keynesiana

L’analisi macroeconomica si è interrogata sull’esistenza, l’unicità e la stabilità

dell’equilibrio macroeconomico risultante dall’aggregazione delle equazioni del

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modello di equilibrio economico generale walrasiano. Una volta descritta l’esistenza

dell’equilibrio con i modelli IS-LM prima e AS-AD poi, definiti i concetti di NRU e

NAIRU e analizzati i processi di inflazione e di disinflazione, confronteremo i

modelli con aspettative razionali della nuova economia classica e della nuova

economia keynesiana che individuano ciascuno un diverso equilibrio

macroeconomico.

Le principali proposizioni della visione NCE sono: 1) il sistema economico si

caratterizza per la dicotomia fra settore reale (il modello walrasiano determina i

prezzi relativi) e settore monetario (la teoria quantitativa della moneta nella versione

del monetarismo di Friedman, determina i prezzi assoluti in piena occupazione); 2)

l’equilibrio macroeconomico Pareto-efficiente è garantito dalla flessibilità di tutti i

prezzi che permette l’aggiustamento di mercato ed il ripristino della piena

occupazione successivamente ad uno shock; 3) un’accelerazione della crescita

monetaria non ha effetti reali e provoca soltanto un incremento del livello dei prezzi.

Le principali proposizioni della visione NKE sono: 1) l’incertezza sul futuro

causa frequenti shock, in primo luogo, della domanda aggregata; 2) la disoccupazione

ciclica può mettere capo ad un equilibrio di disoccupazione strutturale a causa della

vischiosità dell’aggiustamento di mercato; 3) le politiche macroeconomiche hanno

effetti reali e sono quindi in grado di ridurre la perdita di benessere sociale connessa

alla disoccupazione.

2.1. La critica di Lucas alle politiche macroeconomiche

Il modello di Lucas ha influenzato notevolmente la teoria macroeconomica, fino a

divenire la basi concettuale per la visione della Nuova Economia Classica, si fonda

sulla nota ipotesi delle “aspettative razionali” utilizzata nella moderna teoria

macroeconomica. L’idea di fondo è che i soggetti, disponendo di tutte le informazioni

(compresi gli “annunci” sulle rispettive manovre fatti delle autorità monetarie e

fiscali”) a costo zero, sono in grado di inserire tali dati nelle equazioni che esprimono

gli eventi strutturali (il funzionamento normale di lungo periodo del sistema

economico) ed a calcolare i prezzi futuri e le quantità future dei beni, valori che

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determinano le loro decisioni di investire (le imprese) e di consumare (i lavoratori).

Eventuali errori possono scaturire solo da eventi stocastici che – essendo inattesi –

sconvolgono il funzionamento dell’economia così com’è sintetizzato dalle equazioni

del modello utilizzato dai soggetti: ad esempio, shock di domanda negativi, dovuti al

pessimismo dei soggetti dopo colpi di stato, gravi attentati, etc.; shock di offerta

negativi che riducono l’offerta aggregata: cataclismi, terremoti, etc.; ma anche shock

positivi di domanda (nuovi mercati di sbocco per le proprie esportazioni), e di offerta

(l’aumento delle risorse di un paese a seguito della scoperta di giacimenti di petrolio

o gas), oppure da manovre economiche delle autorità monetarie e fiscali che non

tengano fede agli “annunci” fatti. Infatti, in base all’ipotesi di aspettative razionali, i

soggetti sbagliano le loro previsioni su prezzi e quantità solo se non hanno

l’informazione corretta.

Il messaggio del modello di Lucas riguardo ai tentativi delle autorità monetarie e

fiscali di “ingannare” i soggetti è che è illusorio ritenere che politica monetaria e

politica fiscale possano modificare durevolmente il livello del reddito. Le manovre

espansive “non annunciate” generano cicli espansivi dell’economia reale (aumenti di

produzione ed occupazione) nel breve periodo. Tuttavia, quanto più frequenti e

ripetuti sono i tentativi di manipolare l’equilibrio macroeconomico con espansioni

monetarie o fiscali non annunciate, tanto meno le autorità risulteranno “credibili” agli

occhi dei soggetti, tanto più rapido sarà l’apprendimento degli agenti sul

comportamento delle autorità, e quindi l’errore sulle aspettative su prezzi e quantità

nel lungo periodo scomparirà. Pertanto, nel lungo periodo la AS tende a divenire

verticale, ovvero, un’espansione monetaria o fiscale “non annunciata” non realizza

alcun aumento dell’attività produttiva.

Dall’ipotesi che il comportamento degli agenti in basi sulla teoria delle

aspettative razionali discendono le seguenti conseguenze:

1) gli imprenditori razionali delle imprese del settore privato fissano i prezzi di

listino dopo avere valutato le richieste salariali sulla base di prezzi futuri attesi

correttamente “anticipati” mediante l’utilizzo del modello di funzionamento

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dell’economia. Nell’ipotesi di autorità monetarie e fiscali che tengono fede agli

annunci, non si determinano variazioni di reddito e occupazione. Gli annunci di

politica monetaria e fiscale mettono in grado gli agenti di prevedere gli incrementi

futuri di salari e prezzi. Se gli agenti (imprese e sindacati) correggono salari e prezzi

nel loro modello di funzionamento dell’economia, dalle manovre espansive non

sortiscono effetti sul piano delle grandezze reali. Gli imprenditori correggeranno

verso l’alto i prezzi di vendita, ed i sindacati contratteranno nelle negoziazioni

salariali un più elevato salario monetario, tale da impedire una perdita di potere

d’acquisto. Ad eguali incrementi di salari e prezzi consegue un immutato livello del

salario reale. Poiché il salario reale resta invariato, le imprese non hanno incentivo a

variare la produzione.

2. Le politiche keynesiane di stabilizzazione “annunciate” con le quali le autorità

monetarie e fiscali tentavano di modificare l’equilibrio macroeconomico del settore

privato fino agli anni ’80 fallivano nell’innalzare occupazione e reddito perché non

tenevano conto del modello delle aspettative razionali (ovvero dell’immediata

correzione di salari e prezzi che manteneva immutato il costo del lavoro per le

imprese). I modelli di simulazione per la politica economica devono quindi

considerare endogenamente le reazioni degli agenti agli annunci di politica monetaria

e fiscale. Poiché le autorità monetaria e fiscale hanno il potere di agire per prime, è

sempre possibile che gli agenti vengano ingannati da una manovra della quantità di

moneta o del bilancio pubblico diversa da quella annunciata.

Il mancato manifestarsi dell’incremento del livello di attività atteso dalle manovre

espansive e la salita dei tassi di inflazione negli anni ’70 e ’80 a livelli sempre più

elevati, sono stati considerati dalla comunità scientifica la “prova” che convalida la

teoria di Lucas. Analizziamo il modello di offerta aggregata (AS) e di domanda

aggregata (AD) in forma ridotta:

(2.1) ttttD

t pmAEY 11 )ln(ln

(2.2) tett

St ppYY 22 )ln(ln*

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dove YDt è la domanda aggregata; YS

t l’offerta aggregata; Y* il livello di produzione

potenziale; AEt la spesa autonoma (privata e pubblica); β1 e β2 sono costanti positive;

mt indica le scorte liquide reali; pt il livello del prezzo (la differenza lnmt-lnpt è quindi

eguale al logaritmo di M/p); pet è il livello atteso del prezzo; µ1t denota uno shock di

domanda; e µ2t uno shock di offerta. Per ipotesi gli agenti conoscono i valori dei

coefficienti del modello. Se dunque sono noti i valori dello stock di moneta (ipotesi di

politica monetaria “anticipata”) e della spesa pubblica (ipotesi di politica fiscale

“anticipata”), posizione e inclinazione della curva AD e posizione e inclinazione della

curva AS sono conosciute dagli agenti. L’adozione di una posizione verticale della

funzione di offerta di lavoro – e quindi anche della curva AS - viene giustificata con

l’idea che i lavoratori considerino permanenti i movimenti del salario reale, cosicché

la sostituzione di lavoro a tempo libero per effetto di un aumento di salario reale

risulta assai contenuta. Se gli agenti formano aspettative razionali, e quindi

l’aspettativa di prezzo si rispecchia nel prezzo realizzato (pet=pt) e non vi sono

disturbi stocastici alla produzione, l’offerta aggregata è al suo valore naturale

(YSt=Y*).

In quali circostanze la curva di offerta aggregata assume una pendenza

positiva?

La risposta di Lucas è che scostamenti della produzione dal livello di equilibrio (Y*)

possono verificarsi soltanto in seguito a shock stocastici, o a politiche

macroeconomiche “non annunciate”. Nel modello di Lucas un incremento non atteso

del livello dei prezzi può dipendere da: 1) una politica monetaria espansiva non

annunciata da parte dell’autorità monetaria: (mt>mte); 2) una politica fiscale che crea

un deficit pubblico non atteso da parte dell’autorità fiscale: (AEt>AEte); 3) uno shock

sulla AD, con variazioni nella stessa direzione della produzione e del livello dei

prezzi; 4) uno shock sulla AS, con variazioni di segno opposto della produzione e del

livello dei prezzi.

Queste considerazioni sono state riassunte nella cosiddetta “Proposizione di

inefficacia della politica monetaria”: la moneta è neutrale (cioè, un suo incremento

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non ha effetto sulle grandezze reali: reddito e occupazione) se la variazione della

quantità di moneta corrisponde alle aspettative, cioè è pari all’annuncio sull’obiettivo

di inflazione effettuato dalla banca centrale; non è neutrale, e quindi la politica

monetaria è efficace e produce effetti sul settore reale, se la banca centrale inganna gli

agenti, immettendo una quantità di moneta diversa da quella annunciata (se maggiore,

si determina inflazione). Più complesso è il discorso riguardo alla politica fiscale, che

esamineremo nel capitolo sul Settore pubblico.

In molti paesi avanzati, negli anni ’70 e ’80, si sono registrati periodi di

incrementi “non annunciati” della quantità di moneta e della spesa pubblica in deficit.

Le conseguenze furono, rispettivamente: una forte “monetizzazione” dell’economia e

ingenti emissioni di titoli di debito pubblico. Gli agenti progressivamente

“impararono” a non farsi sorprendere da annunci che si rivelavano ogni volta poco

veritieri. La tendenza fu cioè a stimare aumenti di quantità di moneta e di spesa

pubblica superiori agli annunci. Alle politiche espansive non si accompagnarono

perciò aumenti del reddito, quanto soprattutto aumenti dei prezzi.

2.3. L’equilibrio macroeconomico nella Nuova Economia Classica (NCE) e

nella Nuova Economia Keynesiana (NKE)

Consideriamo un modello AS-AD con aspettative razionali. Data l’ipotesi di perfetta

informazione sul funzionamento dell’economia, gli agenti aggiornano continuamente

il proprio modello e sono perciò in grado di prevedere correttamente il livello futuro

dei prezzi. Poiché le variazioni di prezzo dei beni non hanno conseguenze sulla

domanda e sull’offerta di lavoro, l’offerta aggregata è determinata unicamente dai

fattori reali (tecnologia, dotazione di capitale e scelta dei soggetti tra lavoro e tempo

libero) assumendo nel piano una posizione verticale ((AS*LP in Figura 1).

Supponiamo si manifesti uno spostamento verso l’alto della funzione di

domanda aggregata da AD0 a AD1. Nei modelli NCE, il funzionamento del mercato

del lavoro è definito dalle seguenti condizioni:

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1) informazione perfetta sui posti disponibili, sulle caratteristiche dell’attività

lavorativa e sulla sua remunerazione;

2) comportamenti razionali da parte di imprese e di lavoratori con

caratteristiche omogenee;

3) costi di mobilità territoriale dei lavoratori e degli impianti nulli;

4) assenza di vincoli di tipo istituzionale, ovvero la piena flessibilità dei salari e

dei prezzi.

Da tali condizioni consegue un aumento del prezzo (p) e del salario monetario

(w) nella stessa proporzione, lasciando invariati salario reale (w/p), occupazione (L) e

reddito (Y) in corrispondenza dell’intersezione dell’offerta verticale di lungo periodo

(AS*LP) con la nuova funzione di domanda aggregata (AD1). La funzione di offerta

aggregata (AS*LP in Figura 1) è verticale sia nel breve che nel lungo periodo, perché

tutti gli agenti scontano le variazioni del livello dei prezzi (p).

Uno shock reale, invece, modifica la posizione della curva di offerta aggregata,

spostandola da AS*LP a AS’LP, in corrispondenza di un più alto tasso di

disoccupazione naturale.

Passiamo ora all’equilibrio macroeconomico che viene a determinarsi nel modello

della Nuova Economia Keynesiana (NKE) (Figura 1). Le negoziazioni salariali fra le

organizzazioni degli imprenditori e quelle dei lavoratori di ciascun settore produttivo

sono scaglionate nel tempo, sicché l’esito dell’incremento della domanda aggregata è

diverso dall’immediato incremento di salario nominale e prezzi assunto nel modello

NCE. Nel modello NKE è in primo piano un fattore istituzionale: la contrattazione

collettiva del salario realizzata dai sindacati settore per settore. In seguito ad una

politica espansiva (monetaria o fiscale), poiché gli aumenti salariali hanno luogo nel

tempo, ovvero alla scadenza del contratto collettivo di ciascun settore. Pertanto,

l’incremento di salario per tutta la forza lavoro occupata si completa lentamente,

mentre l’aumento dei prezzi di listino delle imprese è immediato.

Per semplicità espositiva, analizziamo il caso di un’espansione di politica fiscale

(benché esamineremo in modo dettagliato la politica fiscale successivamente, quando

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includeremo il settore pubblico nell’equilibrio macroeconomico). Supponiamo che

un’espansione fiscale (ad esempio, una spesa pubblica in deficit) produca lo

spostamento della domanda aggregata (da AD a AD’ ).

Figura 1. Offerta aggregata e domanda aggregata

Si ricorderà che l’equilibrio congiunto dei mercati dei beni e della moneta IS-LM

(grafico a sinistra) ha luogo in base ad un livello di prezzi costante esogenamente

determinato. Per potere tenere conto dell’incremento dei prezzi, ovvero del fenomeno

dell’inflazione, occorre considerare che la LM (la retta determinata dai punti di

equilibrio fra domanda ed offerta di moneta) si determina nel piano ad un’altezza più

elevata quanto più alto è il prezzo (LM’, LM’’, etc.). La logica è che quanto più alto è

il livello generale dei prezzi tanto minore è il potere d’acquisto delle scorte monetarie

dei soggetti e quindi il reddito sull’asse orizzontale.

Nell’ipotesi di offerta di moneta data, ci si deve chiedere da dove provenga la moneta

necessaria a permettere ai soggetti di realizzare – ad ogni aumento dell’attività

economica - le accresciute transazioni di beni (la velocità di circolazione della

moneta è costante e legata alle abitudini di pagamento). La risposta sta nel

funzionamento del mercato monetario e finanziario. Dopo lo spostamento in senso

espansivo della IS (da IS a IS’), l’accresciuto volume di produzione induce le

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famiglie a smobilizzare titoli dal proprio portafoglio, allo scopo di disporre di un

livello di scorte liquide (domanda di moneta) sufficiente a consentire le maggiori

transazioni. A questa offerta di vecchi titoli si vanno ad aggiungere le nuove

emissioni a copertura della spesa pubblica in deficit. L’eccesso di offerta di titoli si

riflette nella riduzione del loro prezzo di mercato e nell’aumento del tasso di

interesse. All’aumentare del reddito durante un ciclo espansivo, l’incremento della

produzione è vincolato dal più alto tasso di interesse indotto dall’incremento della

domanda aggregata AD, che ha l’effetto di “tagliare” le decisioni di investimento. In

altre parole, poiché una parte dei progetti di investimento del settore privato hanno

ora una redditività attesa inferiore al tasso di interesse, e quindi vengono “spiazzati”,

una parte dell’incremento di reddito viene ad essere “tagliato”. Un nuovo equilibrio si

realizzerà quindi nella misura determinata dalla pendenza della LM, che dipende

dalla derivata della domanda di moneta rispetto al tasso di interesse, e dalla pendenza

della IS, che dipende dalla derivata dell’investimento rispetto al tasso di interesse.

Si osservi che l’offerta aggregata AS è –nel breve periodo – inclinata, a causa

dell’ipotesi di “vischiosità” dell’aumento del salario determinato dallo

scaglionamento delle contrattazioni salariali. Poiché il salario reale (w/p) si riduce

(infatti, al denominatore i prezzi salgono immediatamente dopo l’impulso fiscale

espansivo, mentre al numeratore i salari aumentano settore per settore, una volta

concluso ciascun rinnovo), le imprese trovano conveniente aumentare la produzione.

Se il salario fosse aumentato contestualmente ai prezzi, l’offerta aggregata sarebbe

stata verticale anche nel breve periodo, dopo l’espansione di politica fiscale il reddito

non si sarebbe mosso da Y*. In tal caso, tutto l’aggiustamento sarebbe avvenuto

attraverso l’aumento del livello dei prezzi che riduce le scorte liquide reali dei

soggetti nella stessa misura in cui sono aumentati i loro redditi monetari.

Fintantoché i prezzi aumentano più velocemente dei salari, il salario reale scende al

di sotto della produttività del lavoro e le imprese trovano conveniente assumere più

lavoratori e produrre di più. Il livello di Y cresce lungo l’offerta aggregata di breve

periodo (AS) fino al punto di equilibrio temporaneo nel punto di intersezione con la

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domanda aggregata (AD’). Nel punto di intersezione fra la nuova funzione di

domanda aggregata determinata dall’aumento della spesa pubblica (AD’ ) e l’offerta

aggregata di breve periodo (AS) si determina un livello di prezzo più elevato.

Come si realizza l’equilibrio finale nel punto di intersezione fra la (AD’ ) e l’offerta

aggregata di lungo periodo (AS-LP)?

Appena i salari si adeguano tutti verso l’alto, il salario reale aumenta, tornando al

livello precedente all’assunzione dei nuovi lavoratori. Pertanto, in presenza di un

salario reale che ora eccede la produttività del lavoro (che è andata diminuendo a

mano a mano i lavoratori aumentavano), le imprese cominciano a licenziare e la

produzione scende per eguagliare la produttività del lavoro al più elevato salario

reale.

Con l’incremento ulteriore dei prezzi parallelamente alla riduzione dell’occupazione,

e la conseguente risalita della produttività del lavoro, viene raggiunto il nuovo

equilibrio, caratterizzato da un più alto livello generale dei prezzi, nel punto di

incrocio fra la domanda aggregata (AD’ ) e la offerta di lungo periodo AS-LP

verticale. Il fatto che l’aggiustamento verso l’alto del salario monetario al crescere

della domanda di lavoro sia stato lento, a causa del funzionamento delle negoziazioni

contrattuali dei vari settori scaglionate nel tempo, ha fatto sì che l’economia -

fintantoché la produttività del lavoro (PML) eccedeva il salario reale (w/p) – potesse

godere di un periodo di maggiori livelli di occupazione e di produzione.

In conclusione, oggi sia in neo-classici che i keynesiani adottano l’ipotesi di

aspettative razionali. Tuttavia, secondo la NCE politiche monetarie e politiche fiscali

espansive sono inefficaci nell’aumentare occupazione e produzione e producono solo

incremento dei prezzi e quindi il rischio di aspettative inflazionistiche al rialzo.

Secondo la NKE, invece, ragioni “istituzionali” fanno sì che la salita del salario dopo

un’espansione monetaria o fiscale sia più lenta di quella dei prezzi; fintantoché il

salario reale w/p risulterà inferiore alla PML, la politiche macroeconomiche

espansive sono efficaci nel permettere un incremento dell’occupazione e della

produzione.

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3. La politica fiscale di stabilizzazione macroeconomica

L’introduzione del settore pubblico nel modello macroeconomico di breve periodo di

un’economia aperta comporta che nell’equazione del reddito nazionale si tenga conto

della tassazione e della spesa pubblica. Consideriamo la tassazione (T) una

proporzione del reddito (T=τY); il livello della spesa pubblica (G) e delle esportazioni

(E) un dato; il consumo una funzione del reddito disponibile (C=cYd) definito per

differenza tra il reddito e l’imposizione fiscale (Yd=Y-T); l’investimento una

grandezza autonoma (I) e le importazioni (M) una funzione lineare del reddito

(M=α1Y). Sostituendo nell’equazione che descrive la condizione di equilibrio:

Y = C + I + G + X – M

le componenti della domanda aggregata che dipendono dal reddito interno (Y), si

ottiene:

1 ( )1 (1 ) I

Y G I Xc

Questa equazione pone il livello del reddito in funzione delle componenti della spesa

autonoma attraverso il moltiplicatore di un’economia aperta, ovvero la frazione al cui

denominatore compaiono la propensione al consumo (c), la proporzione della

tassazione sul reddito (τ) e la propensione all’importazione (α1). Il moltiplicatore

della politica fiscale nei modelli keynesiani è positivo: ad un impulso espansivo di

spesa pubblica, consegue un incremento del reddito, in base al valore della frazione

che esprime il moltiplicatore. La dimensione dell’incremento del reddito attivato ad

esempio da un impulso espansivo della spesa pubblica dipende positivamente dalla

propensione al consumo (c) e negativamente da τ e da α1. In particolare, la

propensione ad importare (α1) ha un effetto riduttivo sulla moltiplicazione del reddito

attivato da un impulso di spesa pubblica. Tale effetto si spiega con l’apertura agli

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scambi con l’estero che dirotta dalle imprese nazionali alle imprese estere una parte

dell’effetto moltiplicativo sulla produzione.

Dato il reddito disponibile (Yd), il risparmio privato è il complemento al

consumo: S = Y – T - C. Sostituendo il reddito (Y) con il lato destro della condizione

di equilibrio e riordinando i termini, scriviamo la condizione di equilibrio tra

produzione e reddito in economia aperta e con settore pubblico in modo da

evidenziare la relazione tra risparmi al netto degli investimenti nel settore privato (S-

I), disavanzo del settore pubblico (T-G) e saldo della bilancia commerciale (M-X):

(S - I) + (T - G) + (M - X ) = 0

Prendendo le mosse dal settore privato, supponiamo che il termine (S-I) sia in

disequilibrio. Un eventuale eccesso del risparmio sugli investimenti (S>I) va a

finanziare un deficit pubblico (T<G) e/o un avanzo commerciale (M<X). Nel primo

caso, il flusso di risparmio in eccesso va ad acquistare le obbligazioni pubbliche

emesse a copertura del deficit di bilancio. Nel secondo caso, un disequilibrio del

settore estero ( un eccesso delle esportazioni sulle importazioni) vede un deflusso

all’estero dell’eccesso di risparmio – attraverso il sistema bancario e i mercati

finanziari internazionali - che va a finanziare la parte di domanda dall’estero delle

esportazioni del paese che ecceda il valore delle sue importazioni.

Per semplicità, concentriamo l’attenzione sul secondo caso ed ipotizziamo che tutto il

debito pubblico sia posseduto dai residenti e che non vi sia un reddito netto da

investimenti finanziari all’estero. In altri termini, il risparmio netto del paese nei

confronti del “resto del mondo” coincide con il saldo primario delle partite correnti.

Esattamente come accade nel caso del settore privato e del settore pubblico, un

eventuale disavanzo corrente dei conti primari delle partite correnti richiederà la

formazione di avanzi nei periodi futuri per poter restituzione del debito con operatori

esteri. In un mondo di mercati globalizzati e in un sistema monetario internazionale

incentrato sui cambi flessibili fra le tre principali valute – dollaro USA, euro e yen –il

canale dei tassi di cambio è centrale nel determinare il nesso moneta-reddito. Ad

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esempio, una manovra di restrizione monetaria induce un incremento del tasso di

interesse e così causa una preferenza relativa a favore dei depositi denominati in

quella valuta; i capitali attratti nel paese provocano l’apprezzamento della valuta, con

conseguente possibile perdita di competitività e calo delle esportazioni e del reddito.

Definiamo le esportazioni nette: NX = (X-M) e consideriamo il caso in cui le

esportazioni nette (NX ) siano positive:

X – M = NX > 0.

Come si è detto, possiamo interpretare tale eccesso di esportazioni sulle importazioni

di un paese come l’esito di un finanziamento del sistema bancario internazionale

all’aggregato degli importatori esteri, che consente loro di effettuare pagamenti pari

al valore dei beni acquistati dal paese che eccede il ricavato dalle importazioni

domandate dal paese. Ricordando che in contabilità nazionale un surplus di bilancio

pubblico viene definito risparmio pubblico (T–G), pensiamo l’equazione precedente

in termini di una eguaglianza fra investimenti (all’interno ed all’estero) e risparmi

(privati e pubblici):

I + (X - M) = S + (T – G)

che non è altro che l’equilibrio macroeconomico completo (relativo cioè a tutti e tre i

settori: privato, pubblico ed estero) sopra descritto:

(S - I ) = (G - T) + (X - M)

Alle esportazioni nette NX corrispondono le importazioni nette di capitali

(investimenti stranieri nel paese meno investimenti del paese all’estero): NKI.

Quindi: NX = NKI .

Nella seconda metà del XX secolo, l’incremento della spesa pubblica non ha trovato

in molte economie avanzate un adeguato corrispettivo nell’incremento delle entrate

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fiscali; si è reso necessario il ricorso all’indebitamento, con conseguente

accumulazione di ingenti stock di debito pubblico.

Come sappiamo, nel modello IS-LM (dove nel mercato monetario sono presenti solo

moneta e titoli) l’emissione di titoli per il finanziamento della spesa è una domanda di

fondi liquidi che va ad aggiungersi a quella proveniente dalle decisioni di

investimento delle imprese. Il conseguente eccesso di domanda sull’offerta di fondi

liquidi, provocando un innalzamento del tasso di interesse “taglia” le decisioni di

investimento (effetto di “spiazzamento”). Se consideriamo portafogli composti da tre

attività finanziarie (moneta, titoli ed azioni), sotto l’ipotesi di alta sostituibilità fra

titoli e azioni, l’effetto sulle decisioni di investimento non muta: l’aumento del tasso

di interesse si trasmette anche ai rendimenti azionari; al più alto rendimento

corrisponde la discesa delle quotazioni che riduce la convenienza ad emettere azioni

deprimendo l’attività di investimento delle imprese. Nei paesi in cui ha rilievo la

propensione a finanziare il consumo nel mercato del credito (prestito al consumo,

rateizzazioni, etc.), la discesa della domanda aggregata riguarda anche la componente

dei consumi privati.

In economia aperta, si può determinare un ulteriore effetto depressivo sulla domanda

aggregata: il fenomeno dei “deficit gemelli”, ovvero la formazione di un disavanzo

sia nel bilancio pubblico che nella bilancia commerciale. Tali “deficit gemelli” sono

spiegati nel modello Mundell-Fleming come l’esito di un elevato tasso di interesse

causato dall’eccesso di emissioni pubbliche per il finanziamento del deficit di

bilancio. L’aumento del tasso di interesse sui titoli pubblici (ed eventualmente dei

tassi di rendimenti azionari) genera un afflusso di capitali dall’estero e il conseguente

apprezzamento della valuta che ha di norma un impatto riduttivo sulle esportazioni.

Un forte ricorso del settore pubblico all’indebitamento può dunque causare la discesa

delle tre componenti della domanda aggregata (consumo, investimento ed

esportazioni) e spegnere completamente l’incremento del reddito generato dal

moltiplicatore della spesa pubblica.

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Questa conclusione è tuttavia molto attenuata in un sistema di finanziamento

dell’economia imperniata sul credito bancario piuttosto che sul mercato finanziario.

Gli aspetti istituzionali riguardanti i nessi fra economia reale e mercati monetari e

finanziari sono importanti. Il finanziamento dell’economia attraverso il flussi creditizi

implica infatti la centralità del mercato monetario dove si finanziano in prima istanza

sia le imprese che lo Stato. Il grado di sostituibilità fra obbligazioni ed azioni tenda

ad essere basso, in quanto sono questa volta moneta e obbligazioni a formare un

unico aggregato. In presenza di un grado di sostituibilità del debito pubblico

maggiore con la moneta che con il capitale azionario, ad una più elevata quota di

titoli pubblici in portafoglio dovrà accompagnarsi un corrispondente adeguamento

verso l’alto della quota di azioni. Tale aggiuntiva domanda di azioni provoca una

salita delle quotazioni di borsa (e la correlata riduzione dei tassi di rendimento

azionario) che agisce da stimolo sulle decisioni di investimento delle imprese che si

finanziano nel mercato dei capitali. L’espansione della spesa pubblica in deficit

causerà un “effetto spiazzamento” di ampiezza inferiore a quello del modello di

finanziamento in cui obbligazioni ed azioni formano un unico aggregato. Pertanto, gli

aggiuntivi titoli emessi per finanziare un’espansione della spesa pubblica hanno un

effetto espansivo sul livello del reddito.

4. "Equivalenza ricardiana” ed effetti non-keynesiani della politica fiscale

Una delle conseguenze della fondazione microeconomica della macroeconomia è

stata quella di porre il comportamento razionale massimizzante dei soggetti alla base

della formazione dell’equilibrio macroeconomico. Ciò rende necessario superare lo

schema analitico nel quale è solo il reddito corrente ad influenzare il consumo: il

soggetto massimizza il suo benessere attraverso la scelta del paniere di consumo

corrispondente alle sue preferenze su un arco temporale pluri-periodale. I piani di

consumo dei soggetti vengono decisi in relazione al reddito permanente, che si

definisce come il valore medio annuale del flusso di reddito atteso lungo tutto il

periodo di vita: in breve, lo stock di ricchezza dell’individuo. Il piano di consumo

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risultante dalla tangenza del vincolo intertemporale di bilancio costituito dal valore

attualizzato dei flussi di reddito futuro atteso con la curva di indifferenza più elevata

rappresenta la combinazione di consumo presente e di consumo futuro che rende

massima la soddisfazione dell’individuo.

Nell’equazione del “moltiplicatore” la propensione al consumo dei soggetti è

uno dei parametri che legano un impulso di spesa pubblica alla moltiplicazione del

reddito. Come si interrelano allora settore privato e settore pubblico riguardo alla

formazione della complessiva domanda di consumo in una prospettiva pluri-

periodale? Analizziamo l’approccio alla politica fiscale basato sulla teoria dell’

“equivalenza ricardiana”. Le ipotesi sono le seguenti: i soggetti hanno vita infinita; i

mercati dei capitali sono perfetti; la capacità previsionale dei soggetti è perfetta; la

tassazione, per non risultare troppo distorsiva, è a somma fissa.

Presentiamo ora le equazioni che esprimono il vincolo intertemporale di

bilancio del settore privato e del settore pubblico su un arco temporale ridotto per

semplicità a due anni (i valori del secondo periodo sono attualizzati al presente). Per

il settore privato, tenendo presente che il consumo dipende dal reddito disponibile al

netto delle tasse, il vincolo di bilancio intertemporale relativo a due periodi è espresso

dall’equazione dove la somma di consumo presente e consumo futuro del

consumatore “rappresentativo” eguaglia la somma del reddito disponibile dei due

periodi (t=1,2):

rTYTY

rCC

1

)(1

2211

21

Per il settore pubblico, esprimiamo il vincolo nei termini dell’eguaglianza fra la spesa

pubblica presente e futura e le entrate fiscali dei due periodi:

rT

Tr

GG

112

12

1

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Nel caso in cui un incremento di spesa pubblica venga finanziamento con emissione

di titoli invece che con le tasse, i soggetti ritengono che una eventuale variazione

dello stock di debito pubblico posseduto in portafoglio non rappresenti una effettiva

variazione della loro ricchezza. La ragione è semplice. La consapevolezza che lo

Stato, per essere in grado di restituire il debito contratto con il settore privato, dovrà

aumentare le tasse, li induce a non considerare il valore dei titoli pubblici una

aggiunta alla loro dotazione di ricchezza. Troviamo conferma analitica di questa

visione sommando i due vincoli di bilancio considerati nelle due equazioni

precedenti:

rGYGY

rCC

1

)(1

2211

21

Come si vede, nell’equazione il consumo (valore presente e valore futuro

attualizzato) risulta eguagliare la differenza fra reddito e spesa pubblica (valore

presente e valore futuro attualizzato). Nell’equazione non compare quindi nessuna

delle due forme di copertura della spesa pubblica: né le tasse, nè i titoli. La

spiegazione è appunto che per la determinazione dell’equilibrio non conta il modo in

cui la spesa pubblica viene finanziata: nel periodo t, la spesa pubblica può essere

finanziata con tassazione, oppure, alternativamente, con l’emissione di titoli. In

quest’ultimo caso, i soggetti “ricardiani” sono razionali: in seguito ad un aumento di

valore (aumento del prezzo o della quantità) dei titoli pubblici detenuti in portafoglio

non si sentono più ricchi e perciò non adeguano verso l’alto i piani di consumo. Il

motivo è che essi - prevedendo un aumento della tassazione nei periodi futuri, perché

il prestito ottenuto dagli acquirenti dei titoli pubblici andrà restituito dallo Stato –

razionalmente si aspettano che il loro reddito permanente (calcolato su due periodi)

non abbia subito variazioni: nel primo periodo, attraverso la spesa pubblica, lo Stato

ha fatto rifluire redditi monetari nelle tasche dei soggetti del settore privato; ma nel

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secondo periodo lo Stato dovrà aumentare il prelievo fiscale per avere i fondi

necessari al pagamento dei titoli pubblici perché giungono a scadenza. Esaminiamo

in dettaglio questo ragionamento.

Con il primo tipo di finanziamento (tasse), la copertura della spesa avviene in ciascun

periodo: T1=0 ;

con il secondo tipo di finanziamento (emissione di titoli: B=G), il reddito verrà

decurtato domani dalle tasse future: T2 = B(1+r) + G2 .

Nei modelli che inglobano la teoria dell’“equivalenza ricardiana” , gli agenti

sono dotati di aspettative razionali e sono indifferenti rispetto alla modalità di

finanziamento (incremento della tassazione oppure emissione di titoli) di un aumento

del deficit pubblico. I piani di consumo non vengono infatti modificati né nel periodo

t né nel periodo t+1 (né in tutti i periodi successivi, nel caso in cui estendessimo

l’analisi a tutti i redditi percepiti nell’intera vita lavorativa). L’equilibrio del bilancio

pubblico comporta che ad un deficit creato in uno o più periodi debba

necessariamente corrispondere un successivo incremento della tassazione pari al

deficit creatosi nel bilancio (possiamo tralasciare di tenere conto degli interessi, in

quanto potranno essere finanziati dalla crescita del Pil dell’economia). Pertanto, per

ogni euro in più di deficit pubblico (e perciò di tasse future), un euro in più sarà

risparmiato dagli agenti razionali.

L’”equivalenza ricardiana” destituisce di valore l’intervento pubblico nell’economia.

I livelli del reddito e dell’occupazione, diversamente dalla visione keynesiana, non

dipendono dalla capacità del settore pubblico di compensare eventuali deficienze del

settore privato. L’invarianza del reddito al variare della spesa pubblica fa sì che non

risultino rilevanti né il sostegno di breve periodo alla stabilità macroeconomica svolto

dal moltiplicatore della spesa pubblica, né il sostegno alla formazione del reddito

svolto nel lungo periodo dalla produzione dei beni pubblici (in primo luogo le

infrastrutture e la formazione del capitale umano).

Pertanto, nei modelli NCE che adottano l’ipotesi di “equivalenza ricardiana”

nell’esaminare il moltiplicatore della politica fiscale vale la medesima “proposizione

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di inefficacia” che abbiamo già visto a proposito della politica monetaria. Se ne

conclude che mentre nella visione neo-keynesiana il moltiplicatore della politica

fiscale è positivo ∆Y / ∆G > 0, nella visione neo-classica è invece pari a zero: ∆Y /

∆G = 0.

Va tuttavia osservato che l’ipotesi di ’“equivalenza ricardiana” è valida sotto

due ipotesi molto restrittive:

1) la condizione di assenza di vincoli di liquidità. Tale assunzione è

contraddetta da molte indagini quantitative che mostrano l’esistenza di una quota

ampia di soggetti che sono costretti a procrastinare i consumi a causa del basso

reddito. Essi tendono ad assumere un comportamento “miope” di fronte ad un taglio

delle tasse, oppure alla percezione di trasferimenti attivati dal bilancio pubblico.

Invece di attuare una programmazione intertemporale del consumo in base al reddito

permanente, i soggetti aumentano la propria domanda cosicché le politiche fiscali di

stabilizzazione risultano efficaci nell’accrescere il reddito;

2) il trasferimento intergenerazionale del debito pubblico, ovvero l’idea che i

figli sono gravati dal debito acceso dei loro padri, cosicché ogni generazione vede il

proprio reddito ridotto dalle tasse future attese. In effetti, a fronte dell’accumularsi di

debito pubblico va considerato che la spesa pubblica delle generazioni successive

dovrebbe accrescere la dotazione di risorse attraverso gli investimenti del settore

pubblico (Easterly e Rebelo, 1994) e l’operare delle istituzioni del welfare, che hanno

lo scopo di ridurre i rischi in cui incorrono i soggetti del settore privato (Sen, 1993).

All’“equivalenza ricardiana” viene perciò mossa la critica di non essere valida

se i soggetti sono vincolati nel consumo a causa del basso reddito. Per realizzare i

piani di consumo, non potendo offrire beni in garanzia (collateral) a fronte di un

prestito, questi soggetti sono costretti a pagare alti tassi di interesse (se poi le banche

seguono una politica di “razionamento” del credito a tasso costante, le loro richieste

di prestito saranno certamente respinte) (Stiglitz e Weiss, 1981). Qualora la spesa

pubblica non sia finanziata con la tassazione ma a copertura del deficit vengano

emessi titoli pubblici, i soggetti con vincoli di liquidità sono avvantaggiati. La

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ragione è che i tassi di interesse sui titoli pubblici sono inferiori ai tassi sopportati dai

privati nel momento in cui accendono un mutuo (di norma, la solvibilità di uno Stato

sovrano è ritenuta superiore a quella di un privato). È “come se” il governo “aiutasse”

indirettamente i soggetti privati ad ottenere dalle banche un finanziamento allo stesso

tasso di interesse che le banche praticano al governo.

Ad essere avvantaggiati dal finanziamento in titoli pubblici saranno soprattutto

i soggetti a basso reddito, il cui consumo sarà più ampio nel caso di finanziamento in

titoli che nel caso di finanziamento mediante la tassazione. Ad esempio, il consumo

del disoccupato al netto della spesa per interessi è maggiore nel caso in cui il

finanziamento sia costituito dal sussidio di disoccupazione che nel caso di un

(peraltro improbabile) prestito bancario. Contrariamente alla tesi dell’”equivalenza

ricardiana”, la modalità di finanziamento della spesa pubblica in deficit non è

irrilevante ed il moltiplicatore della spesa pubblica presenta un valore positivo.

Nell’originaria funzione del consumo introdotta da Keynes, fondata sul reddito

corrente, un aumento del tasso di interesse avvantaggia i risparmiatori-prestatori (che

incrementeranno il consumo) e penalizza i consumatori-debitori (che ridurranno il

consumo a causa di un ammontare di pagamenti per interessi più elevato).

Nell’aggregato, si realizza una redistribuzione di reddito a favore dei soggetti a più

alto reddito, e quindi a minore propensione al consumo, con conseguente effetto

deflazionistico sulla domanda aggregata. Nella prospettiva intertemporale fondata sul

reddito atteso nei periodi futuri, l’impatto delle variazioni del tasso di interesse sul

consumo è più complesso. L’impatto, ad esempio, di un aumento del tasso di

interesse è la risultante di due effetti ambedue di segno incerto: 1) l’effetto reddito,

che è diverso nel caso dei creditori (che aumentano il consumo presente e futuro) e

dei debitori (a fronte della decurtazione del reddito causata dai più ingenti esborsi per

interessi, questi soggetti ridurranno il consumo presente); 2) l’effetto sostituzione che

induce il consumatore a ridurre il consumo presente perché è aumentato il costo del

credito potrebbe causare una riduzione della domanda nel presente; ma il tasso di

interesse rappresenta il prezzo intertemporale del consumo, cosicché la caduta del

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reddito futuro potrebbe generare un effetto riduttivo sul consumo futuro ancora più

rilevante. Pertanto, l’impatto complessivo di un aumento del tasso di interesse sulla

spesa di consumo risulta essere incerto.

Facciamo ora un esempio recente di moltiplicatore del reddito relativo ad un

decremento della spesa pubblica, per effetto di “tagli” nella spesa pubblica. In questi

ultimi anni, i paesi dell’Eurozona gravati da elevati rapporti fra debito pubblico e PIL

a causa della grave recessione conseguita alla crisi finanziaria hanno dovuto adottare

la cosiddetta politica dell’”austerità” sotto la sorveglianza delle autorità

internazionali (la “troika” formata da IMF, ECB ed European Commission). In breve,

l’ipotesi è che soltanto attraverso una formazione di surplus nel bilancio pubblico da

destinare alla restituzione del debito sovrano, in un’ampiezza tale da creare nei

mercati finanziari l’aspettativa di un ritorno a livelli meno allarmanti del rapporto

debito pubblico / PIL, sia possibile per questi paesi riguadagnare la sostenibilità

fiscale.

Quest’esempio ci consente di aggiungere una terza ipotesi sul segno del

moltiplicatore della politica fiscale. La visione alla base dei “tagli” alla spesa

pubblica, come strategia diretta ad accrescere il PIL, è chiamata degli “effetti non-

keynesiani” della politica fiscale. Tale teoria, affermata in alcuni modelli neo-classici,

prende le mosse dalla visione dell’ “equivalenza ricardiana” e la porta alle sue

estreme conseguenze. Se i soggetti razionali percepiscono i “tagli” come permanenti,

non si avrà l’effetto di neutralità della politica fiscale sopra analizzato ( ∆Y / ∆G) = 0,

ma un “effetto neo-keynesiano” – di fatto l’effetto opposto a quello affermato da

Keynes, e cioè un moltiplicatore di segno negativo: (∆Y / ∆G) < 0. In breve, nella

visione neo-classica tradizionale l’aspettativa di reddito disponibile invariato

successivamente ad un impulso fiscale espansivo implica assenza di incrementi di

domanda e di reddito; nei modelli neo-classici che all’equivalenza ricardiana

aggiungono anche l’aspettativa di un taglio permanente e “credibile” della spesa

pubblica - il che implica l’aspettativa di un abbassamento duraturo della pressione

fiscale, ovvero un incremento del reddito disponibile nei periodi futuri – si ottiene il

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risultato secondo cui a una minore spesa pubblica conseguirebbe un incremento del

reddito.

La percezione di una “credibile” riduzione duratura della spesa pubblica

avrebbe luogo in particolare quando la spesa pubblica è di tipo strutturale e la sua

riduzione è sostanzialmente irreversibile (ad esempio, una riforma delle pensioni

viene di solito percepita come un “contratto sociale” di lunga durata). In tal caso, i

soggetti razionali “ricardiani” modificheranno le loro previsioni sul reddito

permanente adeguandolo verso l’alto. Il reddito permanente più elevato indurrà i

soggetti ad aumentare il proprio consumo. L’effetto sul reddito di una variazione della

fiscal stance in senso restrittivo sarebbe dunque opposto rispetto alla visione

keynesiana. Il reddito non aumenta in seguito ad un’espansione della spesa pubblica.

Al contrario, una restrizione fiscale creerebbe l’aspettativa di un ridimensionamento

del settore pubblico, e quindi di un sentiero declinante della tassazione futura con

conseguente incremento del reddito disponibile. Come si è detto, nella derivata ∆ Y /

∆ G , al segno positivo assunto da Keynes, la teoria dei cosiddetti “effetti non-

keynesiani” sostituisce il segno negativo. Il reddito aumenterebbe quando si taglia la

spesa pubblica, non quando la si aumenta.

È robusta questa tesi scaturita dall’ipotesi dell’“equivalenza ricardiana” di fronte alla

suddetta critica dell’ ipotesi stessa? In altre parole, se aumentiamo il grado di

realismo del complesso di ipotesi che fondano l”equivalenza ricardiana” - ad

esempio, supponendo che un certo numero di soggetti siano vincolati nel consumo a

causa delle condizioni imperfette del mercato del credito sopra dette - si ottiene

ancora il risultato non-keynesiano di un aumento della domanda privata come

conseguenza di una contrazione della spesa pubblica?

Sembra che la risposta debba essere negativa. Nei modelli che ipotizzano la

presenza di una certa quota di soggetti non-ricardiani all’interno della popolazione,

ad una contrazione fiscale non conseguono di norma risultati non-keynesiani. Si può

dimostrare che quanto più alta è la percentuale di soggetti non-ricardiani, quanto più

basso il tasso di sconto sul consumo futuro (i consumatori sono poco impazienti) e

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quanto più bassa nella percezione dei soggetti è la persistenza della spesa pubblica da

un periodo all’altro, tanto meno è probabile che si riscontri un effetto non-keynesiano

della politica di spesa pubblica (Creel et al., 2005). La continua caduta del reddito e

dell’occupazione registrata in questi ultimi anni nelle economie che sono state

costrette a severi piani di restrizione fiscale (attuati soprattutto attraverso tagli della

spesa pubblica) sembra confermare che la debolezza della visione teorica degli

“effetti non-keynesiani”.

5. Il vincolo intertemporale del bilancio pubblico

Approfondiamo ora l’analisi del vincolo del bilancio pubblico, considerando – oltre

alla tassazione – anche il finanziamento in moneta e titoli. Nell’equazione che segue,

tale vincolo viene espresso mediante l’eguaglianza fra disavanzo e suo

finanziamento:

(1) dtdMdtdBiBTG //

dove G è la spesa pubblica in beni e servizi, T è il gettito fiscale, i è il tasso di

interesse nominale sul debito pubblico, B è il debito pubblico, dB/dt è la derivata

prima rispetto al tempo dello stock di titoli pubblici e dM/dt è la derivata della

quantità di moneta rispetto al tempo, ed esprime la quota di deficit pubblico che viene

finanziata con l’espansione di base monetaria attraverso l’acquisto di titoli pubblici

da parte della banca centrale.

L’espansione della spesa pubblica, non accompagnata da un proporzionale

incremento della tassazione, ha determinato in molte economie avanzate

l’accumulazione di uno stock di debito pubblico. Pertanto, esprimiamo il vincolo del

bilancio pubblico nel periodo t con l’equazione:

(2) 11 )(1 ttttttt MMGTBiB

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Essa indica che la variazione del debito pubblico (nel periodo t rispetto al periodo t-1)

sarà positiva se lo stock di debito ereditato dal periodo precedente - comprensivo

della spesa per gli interessi su tale ammontare di debito - non sarà eguagliato dalla

somma algebrica fra la differenza fra spesa pubblica ed entrate fiscali e la variazione

della quantità di moneta. Eliminando la notazione di tempo ed annullando il

finanziamento in moneta (abolito nel corso degli ultimi decenni nelle economie

avanzate), risulta che la variazione del debito sarà positiva o negativa a seconda che

la somma algebrica fra saldo primario (G – T) e spesa per interessi (iB) sia positiva o

negativa:

(3) iBTGB

Per normalizzare le poste della finanza pubblica fra paesi di dimensioni diverse, e

quindi di diversa ampiezza assoluta del PIL, si suole considerare deficit e debito

pubblico come percentuali del PIL. Deriviamo totalmente B/Y, ottenendo:

(4) dYYBdB

YYBd

2

1

il che equivale ad esprimere il lato destro della (2), una volta annullato il

finanziamento in moneta, in termini di differenze:

(5) YY

YB

YB

YB

Ponendo b=B/Y e g=Y/Y, si ottiene:

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(6) bgY

Bb

Sostituendo la (3) nella (6) si ottiene:

(7) bgY

TiBGb

Ponendo =G/Y e =T/Y, si ricava:

(8) bgib )(

Questa equazione evidenzia la questione fondamentale che sta alla base del

concetto di sostenibilità del debito pubblico, ovvero il cosiddetto “effetto palla di

neve” (snowball effect). Sottraendo il tasso di inflazione () sia dal tasso di interesse

nominale (i) che dal tasso di crescita del reddito nominale (g) si ottengono,

rispettivamente, (r) ed (x). Un eccesso del tasso di interesse reale (r) rispetto al tasso

di crescita reale (x), benché esprima la condizione di efficienza dinamica del sistema

economico (in breve, la crescita economica è garantita, in quanto l’attività di

investimento è sostenuta da un tasso di rendimento del capitale che è più alto del

tasso a cui cresce l’economia), mette a rischio la sostenibilità del debito pubblico.

L’autorità fiscale è costretta a ricorrere a nuove emissioni di titoli, aggravando il

problema del debito pubblico. Intuitivamente, al dato valore di b l’ammontare delle

risorse necessarie a finanziare la spesa annua per interessi risulta essere di ampiezza

maggiore rispetto alle risorse aggiuntive che si rendono disponibili nel periodo. Se

infatti il tasso di interesse eccede il tasso di crescita dell’economia, il rapporto debito

pubblico / PIL è destinato a crescere, perché le risorse aggiuntive che vengono a

formarsi in ogni anno non generano entrate fiscali in misura sufficiente a finanziare i

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deficit primario (D1) e secondario (D2), è inevitabile procedere a nuove emissioni di

titoli pubblici. La credibilità di un programma di riduzione del debito pubblico

dipende quindi molto dalla capacità di crescere dell’economia, in modo che il

governo non debba ricorrere al mercato finanziario e cioè all’emissione di nuovi titoli

per coprire i deficit primario (D1) e secondario (D2).

Il cosiddetto Ponzi Game rappresenta il caso estremo di insostenibilità

prospettica di una posizione debitoria. Ponzi è il nome del banchiere che, nella

Boston dei primi anni Venti del secolo scorso, inventò uno schema di investimento

finanziario ad alto rischio: gli interessi sulle somme prestate venivano pagati con le

somme ricevute dai nuovi investitori. Ponzi trascinò con sé in una rovinosa

bancarotta migliaia di risparmiatori americani. Molti suoi emuli hanno fatto lo stesso

in Europa, anche in tempi recenti (si pensi alle crisi bancarie, come la “corsa agli

sportelli” della Northern Bank, al fallimento della banca franco-belga Dexia, al

virtuale fallimento della Bankia, salvata dal governo spagnolo, e agli scandali

finanziari causati dalla City nel Regno Unito, e da imprese produttive come la

Parmalat e la Cirio in Italia). Al pari dei soggetti del settore privati, neppure i governi

sono immuni dalla tentazione di volere condurre un Ponzi Game.

Esempi recenti sono l’Argentina e la Grecia. Il governo argentino ha fatto

ricorso nel 2001 al ripudio del proprio debito pubblico, una significativa quota del

quale era detenuto da risparmiatori stranieri, dando poi vita ad una lunga trattativa

che ha condotto ad una restituzione del prestito ai creditori (banche, fondi pensione,

risparmiatori, etc.) pari a circa il 30% del valore nominale. Il caso della Grecia è un

po’ diverso. Il governo greco nella prima metà ha occultato molte poste di spesa

pubblica, comunicando dati inesatti di bilancio pubblico all’agenzia ufficiale di

statistica della Commissione Europea. Quando è scoppiata la crisi finanziaria, ad

ancora più quando la conseguente recessione ha prosciugato il danaro nelle casse

dello stato, la Grecia ha dovuto dare conto dei dati effettivi di bilancio per ricevere gli

aiuti dell’EFSF (European Financial Stability Fund), il fondo salva-stati

dell’Eurozona. L’evidente impossibilità che la debole economia del paese potesse

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generare in futuro surplus di bilancio pubblico tali da riassorbire l’ingentissimo

debito pubblico accumulato ha indotto la Commissione Europea ad imporre alla

Grecia un accordo nel quale l’erogazione di fondi è stata subordinata a drastiche

riforme (a cominciare dal ridimensionamento del settore pubblico ed a un taglio

medio del 30% agli stipendi pubblici)e ad un hair-cut, ovvero un taglio del debito

pubblico (con parziale recupero del danaro investito nei titoli greci garantito solo ai

prestatori privati). Considerando la gravità della crisi economica, con tassi di crescita

del PIL ancora negativi, è probabile che la Grecia non sia in grado di annullare il

notevole ammontare di debito pubblico ancora in essere.

Nel marzo 1933, nel corso della Grande Depressione che seguì il crollo di Wall

Street dell’ottobre 1929, il presidente degli Stati Uniti F. D. Roosevelt presentò una

"Legge bancaria d'emergenza", che venne subito approvata dal Congresso. Essa

rendeva possibile anche delle ristrutturazioni fallimentari con la cancellazione delle

esposizioni speculative delle banche. Anzitutto fu creata e applicata la legge Glass-

Steagall che separava le banche commerciali da quelle di investimento con il divieto

di utilizzo dei risparmi dei cittadini per operazioni fatte nell'interesse delle banche. Fu

inoltre creata la Federal Deposits Insurance Corporation, a cui oggi l'Europa

vorrebbe ispirarsi, che dava la garanzia dello Stato ai risparmi delle famiglie e dei

privati. Venne riorganizzata la Reconstruction Finance Corporation, istituzione

statale fino ad allora utilizzata per il salvataggio delle banche decotte, e trasformata in

una specie di fondo di sviluppo per l'emissione a lungo termine di crediti per la

"ripresa economica", per gli investimenti in infrastrutture e per la creazione di posti di

lavoro. Purtroppo, poco è stato fatto – negli Stati Uniti ed in Europa – per rafforzare

la regolamentazione dell’attività delle banche e elle Borse, per riformare a

legislazione sugli istituti finanziari che hanno dato origine alla crisi e per combattere

l’attuale recessione.

L’equazione contiene anche altri due aspetti del problema della sostenibilità del

debito pubblico. Il primo è che una eventuale differenza positiva fra tasso di interesse

e tasso di crescita è tanto più grave quanto elevato è il valore di b (con un rapporto

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pari al 100%, un punto di eccesso del tasso di interesse si scarica in un punto in più di

debito pubblico in rapporto al PIL). Il secondo è il seguente. Definendo il debito

pubblico come:

(9) bt - bt-1 = ( it – gt) bt-1 + D1

affinché lo stock di debito rispetto al PIL sia almeno stabilizzato – e cioè: (bt - bt-1 ) =

0 - è necessario che il lato destro dell’equazione sia pari a zero. Ovvero che, nel caso

di valore positivo del primo termine a causa di un eccesso del tasso di interesse sul

tasso di crescita, il surplus primario strutturale (il saldo di bilancio al netto delle

variazione di breve periodo indotte dalle fasi cicliche di espansione e di riduzione del

PIL) sia tale da generare nel secondo termine il valore negativo di ampiezza

sufficiente a validare il segno di eguaglianza con il lato destro.

Tornando alle equazioni precedenti da 1 a 8:

Pertanto, la sostenibilità del debito pubblico dipenda sia dal’evoluzione del PIL, sia

dall’accumulazione di debito pubblico avvenuta in passato, sia dall’andamento dei

deficit primario e secondario. La Tabella qui sotto disaggrega le diverse fonti di

alimentazione del debito pubblico nei paesi dell’Eurozona a 12 paesi (prima cioè

dell’ingresso di Malta, Cipro, Slovenia, Slovacchia, Estonia e Lettonia). Prendiamo

l’esempio dell’Italia: dal 2002 al 2007 dalla tabella risulta una variazione in aumento

del rapporto debito pubblico /PIL (-1,6%). Tale valore risulta dalla somma algebrica

fra l’apporto riduttivo sul debito pubblico (alla scadenza, è possibile ripagare

l’importo dei titoli di debito pubblico, senza doverli nuovamente emetterli)

determinato dalle aggiuntive entrate fiscali generate dalla crescita del PIL (1,4%) e da

altre voci (1,8%) da un lato, ed i deficit primario (- 0,9%, ovvero entrate fiscali

inferiori alla spesa pubblica) e secondario (il valore della spesa per interessi pari al

4%) dall’altro. Poiché l’apporto riduttivo sul debito pubblico (3,2%) è inferiore alla

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spesa per interessi (4%), fra 2002 e il 2007 si è determinato un incremento del

rapporto debito pubblico /PIL pari a -1,6%.

Possiamo anche aggiungere che in Europa, negli anni ’70 e ’80, oltre alle due

suddette fonti di incremento del rapporto debito pubblico/PIL (un aumento del deficit

primario ed un eccesso del tasso di interesse nominale rispetto al tasso di crescita del

reddito nominale), anche l’alta inflazione ha giocato un ruolo nell’andamento di

deficit e debito pubblico. Considerando che il tasso di crescita (g) consta di una

componente reale (x) e di una componente monetaria (): g=x+ e tenendo conto

dell’equazione di Fisher: r=i-e, poniamo eguale a zero il tasso di crescita

dell’economia (x), in modo da isolare l’impatto dell’inflazione sulla dinamica del

debito pubblico. Dall’equazione (9) si ottiene il vincolo del bilancio pubblico

espresso in termini reali:

(10) erbb

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L’equazione (10) esplicita questa terza fonte di incremento del rapporto debito

pubblico / PIL: e>. Contrariamente all’ipotesi di aspettative razionali, il tasso di

inflazione che effettivamente si realizza ex post può discostarsi per difetto dal tasso

atteso. Quando le aspettative di inflazione non si realizzano perché il tasso di

inflazione ex post risulta superiore all’inflazione attesa, la tassa da inflazione (una

forma di signoraggio) riduce il valore reale del debito pubblico; ma se le aspettative

di inflazione non si realizzano perché il tasso di inflazione ex post risulta inferiore

all’inflazione attesa, il governo ha aumentato il tasso di interesse nominale in una

misura superiore all’incremento da riconoscere ai possessori del debito pubblico. Di

conseguenza, le emissioni di nuovi titoli a copertura della spesa per interessi sono in

eccesso rispetto all’effettivo bisogno, provocando un incremento non dovuto dello

stock di debito pubblico.

Vediamo ora come si misura la sostenibilità di lungo periodo del debito

pubblico.

In base alle equazioni (9) e (10) formuliamo ora il vincolo intertemporale del

bilancio pubblico (VIBP) in termini reali:

(11) tttt brb 11

Risolvendo per bt-1 ed iterando per i periodi successivi, dopo k iterazioni si ottiene la

seguente espressione del VIBP:

(12) ktk

it

ik

it brvrb

110

dove alla differenza fra entrate ed uscite fiscali (al netto della spesa per interessi) è

sostituito il simbolo del saldo di bilancio primario rispetto al PIL v (se maggiore di

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zero, il saldo si definisce surplus). La spia del problema della sostenibilità risiede

nella presenza del termine b nel secondo termine del lato destro dell’equazione: nulla

garantisce che non possa aumentare. L’equazione non vincola infatti b per ogni

valore del programmato surplus v nel primo termine. Il soddisfacimento del vincolo

intertemporale del bilancio pubblico è rispettato se e soltanto se – oltre gli importi

della serie futura dei surplus di bilancio primario ititit che

compaiono al primo termine sono opportunamente commisurati ai valori dei tassi di

interesse e di crescita - vale anche la “condizione di trasversalità”, che esclude per

ipotesi ogni eventuale incremento di b causato dall’ eccedenza del tasso di interesse

sul tasso di crescita. In breve, non è possibile programmare l’ampiezza dei surplus in

modo tale da finanziare anche il deficit aggiuntivo provocato da tale eventuale

eccedenza. Tale condizione consiste nell’azzeramento del valore del secondo termine

sul lato destro della (12) all’avvicinarsi del tempo all’infinito ( k ):

(13) 01lim

ktk

kbr

Quando il debito pubblico in rapporto al PIL aumenta nei periodi t+k ad un tasso

inferiore al fattore di sconto 1+r la “condizione di trasversalità” è soddisfatta. Si noti

che l’analisi intertemporale del vincolo del bilancio pubblico presuppone la validità

dell’“equivalenza ricardiana”: soggetti ricardiani che “internalizzano” il valore

presente del vincolo di bilancio ed il soddisfacimento della condizione di

trasversalità. Dopo un impulso di politica fiscale, la mancata modifica dei piani di

consumo fa sì che il moltiplicatore della spesa pubblica sia pari a zero.

Riscriviamo la (12) con il segno di disuguaglianza. Ciò riflette l’esistenza di

due diverse possibili strategie a disposizione dell’autorità fiscale nel perseguimento

dell’obiettivo della decumulazione del debito pubblico:

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(13’) ktk

it

ik

it brvrb

110

Assumiamo nella (13) che il secondo membro sul lato destro sia pari a zero, cosicché

la “condizione di trasversalità” sia rispettata. Poniamoci la seguente domanda: il

valore attualizzato al presente dei surplus futuri in rapporto al PIL che compare al

primo termine deve essere di ampiezza tale da ripagare completamente il debito

pubblico in essere al tempo t? In altre parole, l’equazione (4.19) deve essere

necessariamente soddisfatta con il segno di uguaglianza, oppure è ammissibile anche

il segno di disuguaglianza?

Distinguiamo due posizioni teoriche:

1) nella visione della New Clasical Economics (NCE) - soprattutto nella

versione Real Business Cycle dove le tasse sono sempre distorsive e la gran parte

della spesa pubblica è considerata un “male pubblico” - l’obiettivo deve essere il

completo “ritiro” del debito. Deve quindi valere il segno di eguaglianza a zero: 0tb .

In altri termini, il governo deve programmare una serie di surplus futuri tale da

produrre l’azzeramento del debito pubblico;

2) nella visione della New Keynesian Economics (NKE), invece, un valore

positivo - ma non troppo elevato - del rapporto debito pubblico / PIL non è di per sé

una minaccia per l’equilibrio macroeconomico. L’intervento pubblico si giustifica sia

in base al contributo della spesa pubblica alla stabilizzazione di breve periodo del

reddito dopo uno shock negativo, sia per le politiche pubbliche dirette a sostenere la

crescita nel lungo periodo. Infatti, quanto maggiore è la qualità dell’intervento

pubblico nell’economia, tanto maggiore il contributo che la spesa pubblica dà alla

TFP, alla crescita del capitale umano attraverso il sistema educativo, alla sostenibilità

del sistema pensionistico pubblico, date le condizioni demografiche, e della sanità

pubblica.

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Pertanto, al pari di quanto vale nel caso delle imprese private, il bilancio del settore

pubblico con il settore creditizio e finanziario può presentare un saldo negativo, ma la

questione della solvibilità non può essere elusa. Benché sia difficile quantificare in un

“numero magico” l’obiettivo di abbattimento del debito pubblico, un valore-limite

per la consistenza dello stock di debito pubblico (b*) è indispensabile. Da tale valore

discende infatti il rating assegnato al paese emittente dalle agenzie internazionali di

valutazione. Nell’attuale contesto di mercati finanziari globalizzati, la valutazione

delle attività finanziarie emesse dai governi dei paesi ad alto debito pubblico – e

quindi il “premio per il rischio” da cui dipende il tasso di interesse da riconoscere ai

risparmiatori ed operatori finanziari che le detengono in portafoglio - sono legati alla

credibilità dei piani di decumulazione. In definitiva, la visione NKE propone la

riduzione del debito pubblico fino a quel valore predefinito, che è considerato – nelle

date condizioni dell’equilibrio macroeconomico del paese - il massimo tollerabile

stock di debito pubblico.

Al pari di quanto vale nel caso delle imprese private, il bilancio del settore pubblico

con il settore creditizio e finanziario può presentare un saldo negativo, ma la

questione della solvibilità del governo non può essere elusa. Benché sia difficile

quantificare in un “numero magico” l’obiettivo di abbattimento del debito pubblico,

un valore-limite per la consistenza dello stock di debito pubblico (b*) è

indispensabile. Da tale valore discende infatti il rating assegnato al paese emittente

dalle agenzie internazionali di valutazione. Nell’attuale contesto di mercati finanziari

globalizzati, la valutazione delle attività finanziarie emesse dai governi dei paesi ad

alto debito pubblico – e quindi il “premio per il rischio” da cui dipende il tasso di

interesse da riconoscere ai risparmiatori che le detengono in portafoglio - sono legati

alla credibilità dei piani di decumulazione. In definitiva, la visione NKE propone la

riduzione del debito pubblico fino a quel valore predefinito, che è considerato – nelle

date condizioni dell’equilibrio macroeconomico del paese - il massimo tollerabile

stock di debito pubblico: *bbt .

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6. Dominanza monetaria

Ipotizzando una struttura del gioco di tipo sequenziale, i pay-off in Figura 1 riflettono

l’assegnazione alla banca centrale del ruolo di Stackelberg leader nell’interazione

strategica con il governo al fine di conseguire l’obiettivo prioritario dell’inflazione

“zero”. Il pay-off massimo per l’autorità monetaria si realizza con il coordinamento di

entrambe le autorità nella strategia restrittiva. Il governo ha invece l’ordine di

preferenza opposto: il livello di reddito è anteposto ad un obiettivo di inflazione ed il

pay-off massimo è quindi associato al coordinamento di entrambe le autorità nella

strategia espansiva. La soluzione del gioco fra autorità monetarie e fiscali viene

presentata da questo approccio mediante gli equilibri di Nash del Chicken Game

(CG) in Figura 1. I possibili equilibri di Nash sono due: l’equilibrio di “dominanza

monetaria” - la comune adozione della strategia di restrizione, dove è massimo il pay-

off delle autorità monetarie – e l’equilibrio di “dominanza fiscale” - la comune

adozione della strategia di espansione, dove è massimo il pay-off delle autorità fiscali.

Dalla matrice dei pay-off risulta essere Pareto-ottimo l’equilibrio denominato di

“dominanza monetaria” (MD): le autorità monetarie fissano la strategia in grado di

assicurare la stabilità monetaria ed il governo assume un comportamento restrittivo,

conforme all’obiettivo prioritario prescelto dalla banca centrale. Il motivo risiede

nell’assunto secondo il quale il coordinamento fra le due autorità su politiche di

segno espansivo fornisce un pay-off sociale inferiore al coordinamento su politiche di

senso restrittivo.

Vediamo, in Figura 1, come viene concepito il gioco.

Qualora il governo fosse orientato a perseguire una manovra espansiva, nonostante la

strategia di “restrizione” annunciata dall’autorità monetaria, il gioco rischierebbe di

concludersi con l’esito peggiore per ambedue le autorità: la coppia di pay-off (–1, -1)

corrispondente all’espansione fiscale e alla restrizione monetaria. Nell’agire da

Stackelberg leader, la banca centrale evita di essere indotta a adottare, dopo

un’espansione fiscale, la strategia “espansione” (il basso pay-off rispecchia il

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fallimento dell’obiettivo prioritario della stabilità monetaria). La banca centrale è in

grado di imporre la convergenza del governo sul coordinamento di “restrizione” a

condizione che abbia una reputazione anti-inflazionistica tale da rendere credibile

l’impegno annunciato di non deflettere dalla scelta della strategia “restrizione”.

Figura 1. Chicken Game tra politica monetaria e politica fiscale

POLITICA FISCALE

Restrizione Espansione

Restrizione 4 , 2 -1 , -1

POLITICA MONETARIA

Espansione 0 , 0 1 , 3

Nel perseguire con coerenza un orientamento rigidamente restrittivo, l’autorità

monetaria riesce a costringere il governo a condividere la decisione sulla monetary

stance e perciò ad imprimere un indirizzo restrittivo alla politica fiscale. In questo

approccio la comune strategia restrittiva delle due autorità configura l’equilibrio di

Nash di “dominanza monetaria”, che - per i valori assegnati ai pay-off - è anche la

soluzione più vantaggiosa per la società (la somma dei pay-off è massima).

Quando le autorità monetarie perseguono rigorosamente una strategia anti-

inflazionistica la politica monetaria è definita “attiva”. Il comportamento del governo

deve rimanere “passivo” rispetto alla strategia di politica monetaria della banca

centrale e seguire una fiscal stance coerente con il vincolo intertemporale del bilancio

pubblico (VIBP), anche definita Regime Ricardiano (RR). La subalternità del

governo all’autorità monetaria trova legittimazione nella teoria dell’“equivalenza

ricardiana”. Con soggetti ricardiani, gli interventi fiscali di stabilizzazione non hanno

efficacia sull’equilibrio macroeconomico.

Nell’inglobare la proposizione di “inefficacia della politica fiscale”, l’equilibrio

Pareto-ottimo di dominanza monetaria implica la validità della teoria

dell’equivalenza ricardiana.

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7. Dominanza fiscale

Le cose cambiano se si assume che sia invalida l’ipotesi di “equivalenza ricardiana”.

Ad esempio, perché la razionalità limitata degli agenti impedisce il formarsi di

aspettative razionali; oppure, perché la realizzazione dei loro programmi di consumo

è soggetta ad un vincolo di liquidità. Nel cosiddetto “Regime Non-Ricardiano”

(RNR), le politiche fiscali di stabilizzazione possono essere efficaci nell’aumentare il

livello di occupazione e di reddito. Pertanto, nel gioco fra le due autorità, il governo

assume il ruolo di Stackelberg leader e la politica fiscale viene definita “attiva”

(Leeper, 1991). Una parte delle scorte liquide aggiuntive che la formazione di un

deficit pubblico rende disponibili per gli agenti viene destinata al consumo e si mette

in moto un processo di moltiplicazione del reddito. Gli agenti non prendendo in

considerazione l’eventualità di tasse future considerano i titoli pubblici emessi a

fronte della spesa pubblica un’aggiunta alla propria ricchezza netta; di conseguenza

anche l’“effetto ricchezza” contribuisce ad aumentare le decisioni di consumo.

Abbiamo visto che nell’approccio della “nuova sintesi neoclassica” la matrice dei

pay-off è costruita in modo che si realizzi l’equilibrio Pareto-ottimo di “dominanza

monetaria”. Quale equilibrio si raggiunge nel caso di “dominanza fiscale”?

In effetti, il quadro teorico si presenta meno chiaro che nel caso di “dominanza

monetaria”. Nell’accettare la visione monetarista secondo la quale la determinazione

del livello dei prezzi è di competenza esclusiva della politica monetaria, l’approccio

della “nuova sintesi neoclassica” interpreta il VIBP come un’identità (Buiter, 2002).

Essa afferma che il governo, al pari delle famiglie e delle imprese, è obbligato a

soddisfare il vincolo per qualunque livello dei prezzi e dei tassi di interesse futuri. Di

fronte ad ogni possibile causa di peggioramento delle finanze pubbliche, e quindi di

un eventuale mancato rispetto del VIBP, il governo è obbligato a provvedere,

programmando più elevate entrate fiscali nei periodi futuri. Se non lo fa, oppure se la

strategia annunciata non è credibile, gli operatori finanziari reagiranno imponendo nei

mercati un incremento del tasso di interesse, cosicché ai possessori di titoli pubblici

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verrà riconosciuto un “premio per il rischio” di default del governo. Quale che sia la

modalità, quindi, il VIBP è soddisfatto come identità.

La revisione dei prezzi e dei tassi di rendimento che consegue a ciascuna

emissione di titoli del debito pubblico trova però un limite nella credibilità del

governo agli occhi degli operatori finanziari. Nel Chicken Game, in presenza di una

banca centrale che tiene fede all’impegno a giocare “restrizione”, data l’ipotesi di

RR, una fiscal stance espansiva non può che condurre all’esito peggiore. Nella

visione monetarista, l’incapacità delle politiche fiscali keynesiane di incidere sul

livello di attività economica implica che la spesa pubblica finanziata con emissione di

titoli finirà nel lungo periodo per costringere la banca centrale ad innescare un

processo inflazionistico. Due economisti statunitensi, Thomas Sargent e Neil Wallace

(1975), hanno elaborato un modello di “unpleasant arithmetics” dove si dimostra che

l’accumulazione di debito pubblico causata dalle politiche fiscali di stabilizzazione è

destinata ad imbattersi in un “limite massimo”, in ultima analisi riconducibile alla

solvibilità fiscale del governo. Nel processo di ottimizzazione dei propri portafogli,

infatti, i risparmiatori finiscono per non aumentare al di sopra di una soglia massima

la quota di ricchezza finanziaria in titoli pubblici. L’autorità monetaria è quindi

costretta ad intervenire per soddisfare il VIBP attraverso il “signoraggio”. La politica

che prende il nome di “signoraggio” intende evocare la potestà del signore medievale

si attribuiva di mutare a proprio piacimento il valore della moneta, ad esempio

modificando il contenuto aureo della moneta-merce. Ai nostri giorni, la principale

fonte di signoraggio consiste nell’incremento del tasso di inflazione che consegue

all’immissione di moneta nei mercati primario e secondario per acquistare titoli.

8. Il modello IS – LM - BP

Completiamo l’analisi dell’equilibrio macroeconomico di un’economia analizzando

l’equazione che esprime il bilancio del settore estero.

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Consideriamo un’economia aperta agli scambi con l’estero utilizzando per semplicità

il modello IS-LM. L’equilibrio macroeconomico di un’economia aperta è descritto

dalle relazioni di equilibrio del mercato finanziario (LM), del mercato del bene

prodotto (IS) e della bilancia dei pagamenti (BP).

La BP consiste nella somma fra conto corrente (CC) e conto capitale (CK). Il conto

corrente riguarda transazioni di conto corrente in beni e servizi. Esse vengono

contabilizzate nella BP una volta come credito e una volta come debito. Infatti, il

soggetto che riceva da una società degli Stati Uniti un assegno per una esportazione

in quel paese può depositarlo presso una banca USA. Pertanto, nella BP degli Stati

Uniti comparirà a credito il deposito bancario ed a debito l’esborso della società.

Naturalmente, un paese che presenti un indebitamento netto dovrà fare fronte alla

restituzione del proprio debito con l’estero. Possiamo quindi considerare il saldo di

conto corrente come commercio intertemporale, una sorta di scambio di consumo nel

tempo.

Il conto capitale consiste nei trasferimenti all’estero di capitali (investimenti in

attività finanziarie o in attività produttive) più il disavanzo nel conto corrente, che

come si è appena detto costituisce un debito da ripagare. Per compensare in tutto o in

parte un deficit che compaia nella propria situazione contabile, un paese può ottenere

prestiti dall’estero o vendere attività ad operatori esteri.

Si definisce conto finanziario la somma algebrica di conto corrente e conto capitale

da un lato, e il saldo fra prestiti dall’estero e vendita di attività all’estero dall’altro. La

bilancia dei pagamenti è in equilibrio quando primo e secondo termine sono in

pareggio, sicché le riserve internazionali rimangono invariate.

Un saldo di conto corrente negativo può essere virtuoso per il paese nel caso in cui le

risorse prese a prestito diano un buon tasso di rendimento una volta investite

all’interno del paese. Pertanto, al di sotto di un certo livello di deficit di conto

corrente, e ad esclusione dei paesi che dipendono strutturalmente dai prestiti esteri (i

paesi poveri), non necessariamente un paese deve portare rapidamente in pareggio il

saldo di conto corrente.

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Le importazioni dipendono positivamente sia dalla domanda aggregata interna (Y)

che dal tasso di cambio reale. Poiché le esportazioni di un paese compaiono come

importazioni da parte del resto del mondo, le esportazioni ),( WYEXEX

dipendono positivamente dalla domanda aggregata estera (YW) e negativamente dal

tasso di cambio reale (ε) .

Le esportazioni nette )( IMEXNX sono positive quando la differenza fra la

produzione (Y) e la spesa interna (C+I+G) è positiva: NX=Y-(C+I+G). Escludendo

per semplicità la spesa pubblica (G), scriviamo la funzione di importazione

),( YIMIM esplicitamente come: 21 YIM e la funzione di

esportazione ),( WYEXEX analogamente come: 43 WYEX .

Sostituendo le funzioni di importazione ed esportazione nella condizione d’equilibrio

del mercato dei beni (Y=C+I+EX-IM), insieme alle funzioni di consumo (C=cY) e di

investimento (I=-zi) nelle quali per semplicità si trascurano le componenti autonome,

si ottiene l’espressione:

(3.1.) 2143 YYzicYY W

da cui si ricava la funzione IS:

(3.2) WY

zzY

zci 34211

Il segno negativo con cui nella (3.2) compare il coefficiente del reddito (Y) indica la

relazione inversa della domanda aggregata con il tasso di interesse, rappresentata

graficamente dall’andamento discendente della IS nel piano (Y, i), dove la parte

rimanente dell’espressione individua la posizione dell’intercetta. La variazione di uno

o più degli elementi del coefficiente del reddito ne fa mutare l’inclinazione, mentre

una variazione di qualcuno dei restanti coefficienti, modificando il valore

dell’intercetta, sposta la IS nel piano parallelamente a sé stessa.

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Dato un certo tasso di cambio reale, un incremento della propensione al consumo (c)

o una riduzione della propensione all’importazione (α1) determinano una maggiore

domanda di moneta transattiva. Con offerta di moneta data, esattamente come accade

nel caso di economia chiusa, ne consegue la discesa del prezzo dei titoli e

l’incremento del tasso di interesse. La conseguente riduzione dell’investimento

compensa, nella condizione di equilibrio nel mercato dei beni, l’incremento del

consumo o la diminuzione delle importazioni.

Il segno negativo con cui nella (3.2) compare il coefficiente del tasso di cambio reale

ne indica la relazione inversa con il tasso di interesse. Un deprezzamento reale

determina uno spostamento verso l’alto della IS: a parità di reddito, ciò comporta un

aumento del tasso di interesse. La diminuzione del tasso di cambio reale induce

infatti un aumento delle esportazioni nette. A parità di prodotto (Y) si genera un

eccesso della domanda aggregata sull’offerta aggregata Y<C+I+NX. Il ristabilimento

dell’equilibrio richiede perciò, a parità di Y, una riduzione degli investimenti e quindi

un aumento del tasso di interesse. Uno spostamento verso il basso della funzione IS è

invece causato da un apprezzamento del tasso di cambio reale e da un decremento

della domanda mondiale.

La bilancia dei pagamenti (BP) registra: 1) le transazioni che riguardano i beni

esportati (EX) ed importati (IM) (per semplicità, tralasciamo i servizi, i noli, le

rimesse degli emigrati); 2) gli afflussi (AFA) e i deflussi (AFD) di capitali; 3) le

operazioni in valuta straniera svolte dalla banca centrale. Gli scambi di beni con

l’estero vengono riportati dalla bilancia commerciale e determinano il conto corrente

(CC=EX-IM). I movimenti di capitali, vale a dire la variazione delle attività del paese

detenute dagli stranieri e delle attività di un paese all’estero, determinano il conto

capitale (CK= AFA - AFD). Dato il livello della domanda estera (YW) ed il tasso di

cambio reale , un surplus (deficit) del conto corrente (CC) si determina in seguito ad

una diminuzione (aumento) della domanda interna che riduce (accresce) le

importazioni. Il conto capitale (CK) contempla entrate e uscite di capitali investiti nel

paese in relazione a scostamenti del tasso di interesse interno rispetto al tasso di

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interesse mondiale. Tali deviazioni sono spiegate con la “parità scoperta dei tassi di

interesse”, dove il tasso di interesse interno (i) eguaglia il tasso di interesse mondiale

(iW) a meno di aspettative di deprezzamento della valuta del paese. Se le aspettative

sono di costanza del tasso di cambio, ma il tasso di interesse interno eccede (è

inferiore a) quello mondiale, si ha un afflusso (deflusso) di capitali. Infine, si

riportano le riserve ufficiali (RU) le cui variazioni non obbediscono unicamente alle

forze di mercato, ma sono anche orientate dalla politica monetaria e valutaria (le

autorità monetarie possono disporre da questa riserva valutaria da utilizzare nei

mercati a sostegno della fiducia nella propria valuta).

Un sistema di tassi di cambio fissi si configura come un accordo multilaterale.

Allorché due o più paesi sottoscrivono un accordo di cambi fissi, le banche centrali si

impegnano a variare le riserve ufficiali in modo da mantenere il rapporto di cambio

(la parità bilaterale) all’interno della banda di oscillazione intorno alla parità centrale.

La banca centrale provvede a realizzare l’equilibrio (pareggio della bilancia dei

pagamenti) mediante variazioni delle riserve ufficiali che compensino eventuali

squilibri in conto corrente e/o in conto capitale ( 0 CKCC ).

Prescindendo dalle riserve ufficiali (RU=0), l’equilibrio della bilancia dei pagamenti

è determinato dall’interazione fra conto corrente (CC) e conto capitale (CK).

Sostituendo nella BP=CC+CK le relazioni che descrivono le sue due componenti:

CC=EX-IM e CK=υ(i - iW) si ottiene l’equazione della curva BP:

(3.3)

4231

WW YYii

La curva BP rappresenta l’insieme delle combinazioni (Y, i) tali da porre in equilibrio

la bilancia dei pagamenti per un dato tasso di cambio reale, cosicché CC+CK=0. Le

partite correnti e i movimenti di capitale si compensano: un avanzo (disavanzo) della

bilancia commerciale è controbilanciato da un deflusso (afflusso) netto di capitale di

pari importo.

La curva BP dovrebbe essere inclinata positivamente nel piano (Y, i) delle Figure 3.1-

3.4. Infatti, all’aumentare del reddito, si accrescono le importazioni; per mantenere in

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equilibrio la bilancia dei pagamenti, occorre che il tasso di interesse interno aumenti,

in modo da attrarre capitali dall’estero. Nei mercati dei capitali globalizzati, oggi gli

scambi di valuta rappresentano la quasi totalità (circa il 98% del totale) della

mobilitazione dei flussi finanziari. I movimenti di capitali esercitano quindi l’effetto

di gran lunga predominante sulla inclinazione della BP. Essi reagiscono

immediatamente ad eventuali divergenze fra i due tassi di interesse. Ogni sia pur

piccola divergenza del tasso di interesse interno da quello mondiale mette in moto un

movimento di capitali tale da ripristinare in brevissimo tempo la parità dei tassi di

interesse.

Pertanto, il coefficiente υ assume di norma un valore molto elevato e per convenzione

la curva BP viene ad assumere una posizione orizzontale nel piano (Y, i) delle Figure

3.1-3.4 e i suoi spostamenti seguono gli scostamenti del tasso di interesse interno dal

tasso di interesse mondiale.

9. Regimi di cambio e bilancia dei pagamenti

I due principali regimi di tasso di cambio fra le valute sono:

1. il regime di tassi di cambio flessibili consiste nella determinazione del rapporto di

cambio mediante le libere contrattazioni che avvengono fra gli operatori nei mercati

valutari (il prezzo di una valuta nei termini di un’altra viene determinato dalla

domanda e dall’offerta presenti nel mercato);

2. il regime di tassi di cambio fissi consiste nell’accordo cooperativo mediante il

quale le banche centrali di vari paesi fissano le parità bilaterali fra le loro valute - con

bande di oscillazione sufficientemente strette, definite da un livello massimo e da un

livello minimo del cambio rispetto alla parità centrale - e si impegnano a difenderle,

mediante appropriati interventi di compravendita nei mercati valutari, in presenza di

movimenti che rischiano di provocare uno scostamento dalla parità centrale di

ampiezza superiore all’oscillazione massima concordata.

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Molti paesi adottano altri regimi di cambio, definiti intermedi in quanto si collocano

all’interno della sequenza di regimi che va dalla completa fluttuazione della valuta

alla rigidità del cambio: 1. pegging unilaterale (ancoraggio ad un’altra valuta), nel

quale un paese decide di regolare la creazione di moneta in modo da mantenere

invariato nel medio periodo il cambio con una valuta “forte” (ad esempio, allo scopo

di aumentare la credibilità della propria banca centrale, nel corso di un processo di

disinflazione) conservando ovviamente l’opzione di modificare la parità; 2. pegging

rispetto ad un paniere di valute; 3. il currency board, che definisce la scelta di un

paese di istituire un comitato incaricato di aumentare (diminuire) la moneta nella

circolazione interna nella misura strettamente corrispondente all’afflusso (deflusso) di

valuta forte (l’obiettivo consiste nel ridurre drasticamente l’inflazione, ristabilire la

credibilità della valuta nazionale e provocarne la rivalutazione); 4. target zones , un

accordo di cambio fra più paesi, dove il tasso di cambio è fissato ad esempio rispetto

ad una valuta artificiale (l’ECU durante il Sistema Monetario Europeo) ma può essere

flessibile all’interno di un intervallo ampio ma definito.

Infine, va ricordata la fissazione “irrevocabile” del tasso di cambio fra due o più

valute. Essa prelude al passaggio ad una nuova valuta oppure alla adozione di una

valuta straniera (la “dollarizzazione” scelta da alcuni paesi Centro-americani,

l’”eurizzazione” scelta da alcuni paesi dell’ex-Iugoslavia, l’adozione del franco

francese da parte di alcuni paesi dell’Africa occidentale).

Recentemente, si va affermando la scelta “secca” fra regime di cambio flessibile e

regime di cambio fisso. Qual è il motivo? Una risposta semplice è che il predominio

dei mercati finanziari, con cui le scelte dei governi devono necessariamente fare i

conti, si esprime in una forte volatilità (fino a veri e propri attacchi speculativi, che

spesso hanno successo nonostante le banche centrali si impegnino a difendere il tasso

di cambio ufficiale concordato). La insoddisfazione degli operatori finanziari per i

regimi intermedi si spiega con l’elevato grado di incertezza sul cambio futuro che

subiscono allorché i governi scelgono uno dei vari tipi di pegging (non è chiaro fino a

che punto le banche centrali si impegneranno a difendere il tasso di cambio, che viene

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spesso modificato). Pertanto, meglio sia la trasparenza del regime di cambio flessibile

(che i mercati possono liberamente manovrare), sia la chiarezza di un cambio fisso,

poiché quanto più una banca centrale ha una bassa credibilità di politica monetaria

tanto più sarà indotta a difenderlo essendo sempre soggetto alla minaccia di un

attacco speculativo.

Il tasso di cambio nominale indica il rapporto in cui due valute vengono scambiate.

Esprimendo il prezzo di una valuta relativamente ad un’altra, il tasso di cambio

nominale può essere definito in due modi: 1) quotazione certo per incerto (e): la

quantità di valuta estera richiesta per l’acquisto di un’unità di valuta nazionale; 2)

quotazione incerto per certo (ê): la quantità di valuta nazionale richiesta per un’unità

di valuta estera. Poiché le due quotazioni sono l’una il reciproco dell’altra (e=1/ê), nel

valutare gli effetti di una variazione del tasso di cambio occorre fare attenzione alla

definizione cui si fa riferimento. In seguito all’introduzione dell’euro è divenuta di

uso più comune la prima quotazione: quanti dollari vengono richiesti per un euro nei

mercati valutari internazionali. Un apprezzamento della nostra valuta, l’euro, si

traduce in un aumento del tasso di cambio dollaro / euro. Si noti che al denominatore

di e compare la valuta con valore noto e certo (cioè 1) e al numeratore la quantità

(variabile, in base all’andamento del mercato valutario) di dollari; mentre finché la

valuta era la lira, il tasso di cambio rilevante era quello lira/marco, al denominatore di

(ê) compariva (di nuovo con valore noto e certo, cioè 1) il marco tedesco (come

valuta àncora fra le valute dell’accordo di cambi fissi dello SME) e la lira compariva

al numeratore (la quotazione era infatti “incerto per certo”). È facile constatare che,

se il valore del tasso di cambio dollaro-euro aumenta quando l’euro si apprezza e,

quindi, il dollaro si deprezza, lo stesso valore rappresenta per un cittadino

statunitense la quotazione “incerto per certo”.

L’aspettativa di una svalutazione futura provoca una crisi di bilancia dei pagamenti,

che si manifesta sotto forma di riduzione delle riserve (una “fuga dei capitali”

consiste nella decisione dei residenti di vendere rapidamente le attività finanziarie

denominate nella propria valuta ed acquistare dalla banca centrale valuta estera da

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investire all’estero) e aumento del tasso di interesse interno al di sopra di quello

internazionale. L’aspettativa di una rivalutazione futura provoca un aumento delle

riserve (gli stranieri acquistano la valuta interna cedendo la propria alla banca

centrale) e una riduzione del tasso di interesse interno al di sotto di quello

internazionale.

Facciamo un esempio. Il prezzo della moneta estera (dollaro) in termini della

moneta interna (euro) sia: 1,30$ = 1€. Al converso, il prezzo della moneta nazionale

in termini di moneta estera sarà: 0,7€ = 1$ il tasso di cambio Euro/US dollar è il

tasso di cambio nominale come prezzo della moneta estera in termini della moneta

nazionale: quante unità della moneta estera (US dollar) sono necessarie per acquisire

una moneta nazionale (euro) (certo per incerto). Nel regime di tassi di cambio fissi

(ma aggiustabili) dello SME il tasso di cambio veniva così calcolato: quante unità

della moneta nazionale (lira) erano necessarie per acquisire una moneta estera (DM).

Il valore “incerto” veniva attribuito alla valuta interna; “certo” era il valore della

valuta estera. Con l’Euro, al contrario, “certo” è divenuto il valore della valuta interna

e “incerto” il valore della valuta estera.

Pertanto, il tasso di cambio reale con la quotazione certo per incerto è:

Tasso di cambio reale: ε = e p / pW

E con la quotazione incerto per certo è:

Tasso di cambio reale: ε’ = e’ pW / p

Ricordiamo infine due definizioni:

1. La “Legge del prezzo unico”: il libero scambio rende eguale il prezzo di un

bene in tutti i mercati del mondo, a meno della conversione da una valuta all’altra (e

naturalmente di eventuali costi di transazione).

2. La Parità dei Poteri d’Acquisto: secondo questa condizione (di ancora più

difficile realizzazione rispetto alla precedente, perché riguarda tutti i beni), il tasso di

cambio di equilibrio fra due paesi è uguale al rapporto fra i loro livelli dei prezzi, a

meno naturalmente dei costi di trasporto e delle condizioni tendenzialmente non

concorrenziali che caratterizzano il settore dei servizi.

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L’evidenza empirica non può fornire conferma né alla PPP né alla legge del

prezzo unico. Le condizioni di invalidità delle due condizioni sono rappresentate

innanzitutto dal grado di scostamento dei mercati dalla condizioni di concorrenza

perfetta, dalla presenza di barriere commerciali e di beni non commerciabili, e dalle

differenze internazionali nella misura ufficiale del livello dei prezzi.

Il tasso di cambio reale (o ragione di scambio) indica il rapporto di scambio tra beni

nazionali ed esteri: in altre parole, determina la quantità di beni esteri che è possibile

ottenere contro un’unità di beni nazionali. Si definisce tasso di cambio reale effettivo

il rapporto fra l’indice dei prezzi ed il livello medio dei prezzi esteri (una media

ponderata i cui pesi esprimono la rilevanza che ciascun paese estero riveste

nell’interscambio commerciale). Con la quotazione certo per incerto, il tasso di

cambio reale )( di un paese in relazione ad un paese estero (le cui variabili saranno

indicate con W in apice) è definito dal rapporto tra il livello del prezzo interno (p) ed

il livello del prezzo estero (pW) espressi nella stessa valuta attraverso il tasso di

cambio nominale:

Wpep /

( ppe W /ˆˆ se si utilizza la quotazione incerto per certo).

Se, ad esempio, esistesse un solo bene e fosse prodotto sia negli Stati Uniti che

nell’Unione Europea, per calcolare il tasso di cambio reale un europeo dovrebbe

trasformare in euro il prezzo del bene estero espresso in dollari - dividendo il prezzo

in dollari per il tasso di cambio nominale (e) quotato certo per incerto (oppure

moltiplicandolo per la quotazione (ê=1/e) incerto per certo) - e rapportarlo al prezzo

del bene nazionale espresso in euro. Estendendo questo ragionamento all’insieme dei

beni prodotti nell’UE e negli US, il tasso di cambio reale raffronta l’indice dei prezzi

delle due economie espressi nella stessa valuta. Data la piena libertà di circolazione

dei beni, la condizione di “parità dei poteri d’acquisto” (PPA) ci dice che – nelle

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condizioni ideali di assenza di costi di transazione – il libero scambio fa sì che

ciascun prodotto abbia lo stesso prezzo in qualsiasi luogo del mondo, a meno della

conversione da una valuta all’altra effettuata in base al tasso di cambio nominale. La

“legge del prezzo unico” vuole che ppe W / .

Nel lungo periodo, l’evoluzione dei fattori reali – le preferenze dei consumatori ed il

progresso tecnico - influenza il tasso di cambio reale (ε ). Un maggior gradimento

delle merci di un paese nei mercati internazionali provoca l’apprezzamento del tasso

di cambio reale di lungo periodo del paese. Un innalzamento del progresso tecnico

nella produzione di un paese provoca la riduzione dei prezzi, con conseguente

deprezzamento del tasso di cambio reale di lungo periodo del paese. Definendo pUS e

pUME come il prezzo di un paniere di beni rispettivamente negli Stati Uniti e

nell’Unione Monetaria Europea (UME), e tenendo conto del fatto che il livello dei

prezzi dà un peso maggiore ai beni prodotti e consumati all’interno, il tasso di cambio

reale dollaro/euro q $ / € rappresenta il prezzo in dollari del paniere europeo rispetto a

quello statunitense. Il tasso di cambio reale è dunque il valore in dollari del livello dei

prezzi nell’UME diviso per il livello dei prezzi negli Stati Uniti:

q $ / € = (E $ / € x pUME ) / pUS

dove E $ / € è il tasso di cambio nominale dollaro / euro.

Pertanto, un aumento della domanda mondiale di beni USA causa l’apprezzamento

reale di lungo periodo del dollaro, ovvero una riduzione del prezzo relativo del

paniere di spesa europeo rispetto a quello degli Stati Uniti q $ / € (è aumentato il livello

dei prezzi US rispetto a quello UME); mentre un aumento del progresso tecnico negli

USA determina l’espansione relativa della produzione USA, e quindi il

deprezzamento reale di lungo periodo del dollaro, ovvero un aumento del prezzo

relativo del paniere di spesa europeo rispetto a quello degli Stati Uniti: q $ / € (è

diminuito il livello dei prezzi US rispetto a quello UME).

L’equazione del tasso di cambio reale può essere anche scritta ponendo in evidenza il

tasso di cambio nominale:

E $ / € = q $ / € x (pUS / pUME)

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Pertanto, il tasso di cambio nominale di lungo periodo risulta dall’andamento

congiunto delle variazioni del tasso di cambio reale di lungo periodo (che a loro

volta, come si è visto, dipendono da variazioni delle preferenze e del progresso

tecnico) e delle variazioni del cambio nominale dollaro/euro (che a loro volta

dipendono da variazioni della domanda e dell’offerta di moneta negli Stati Uniti e

nell’UME).

Il tasso di cambio reale, essendo il rapporto tra prezzi interni e prezzi esteri espressi

nella stessa valuta, è il principale indicatore della competitività con l’estero. Un

apprezzamento reale della valuta ( un aumento del prezzo relativo del paniere di beni

prodotto nel paese) riduce la domanda del paniere; un deprezzamento reale della

valuta (una riduzione del prezzo relativo del paniere di beni prodotto nel paese)

aumenta la domanda del paniere. La competitività del paese rimane costante quando

il differenziale di inflazione del paese rispetto all’estero si trasmette completamente

in una variazione del tasso di cambio nominale. Ad esempio un deprezzamento

nominale della valuta nazionale (in regime di cambi fissi: una svalutazione) indica

una riduzione del suo potere d’acquisto e corrisponde ad una diminuzione del tasso di

cambio quotato certo per incerto (ad un aumento, se quotato incerto per certo). Un

deprezzamento nominale dell’euro rende meno conveniente per i residenti nell’UE

l’acquisto dei beni di importazione dagli US e più conveniente per i cittadini

statunitensi acquistare i beni prodotti nei paesi dell’UE. Un effetto prevedibile è

l’incremento delle esportazioni dall’UE verso gli US.

La condizione di Marshall-Lerner prescrive che, affinché tale riequilibrio possa

avvenire, l’aggiustamento nelle quantità scambiate deve essere più che proporzionale

rispetto alle variazioni dei loro prezzi relativi. Ciò richiede che la somma delle

elasticità della domanda di importazioni e di esportazioni rispetto al tasso di cambio

sia maggiore di 1. In altre parole, nel medio termine l’aumento del valore delle

esportazioni deve essere superiore all’aumento del valore delle importazioni. Gli

operatori esteri troveranno conveniente accrescere la domanda di beni prodotti nel

paese la cui valuta è divenuta più a buon mercato.

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Tuttavia, per quanto si debba ipotizzare una riduzione delle importazioni divenute più

costose, il valore degli esborsi per pagare i beni importati si accresce per il loro

maggiore costo unitario. Dopo un deprezzamento della valuta, l’aumento immediato

del valore delle importazioni peggiora il saldo commerciale; solo dopo alcuni mesi la

bilancia commerciale conosce una ripresa (di qui, la definizione di “effetto J”); Il

saldo netto positivo nella bilancia commerciale durerà fintantoché l’incremento

dell’inflazione importata non si sarà tradotto in un adeguamento verso l’alto dei salari

e del livello generale dei prezzi, sicché il miglioramento della competitività garantito

dal deprezzamento del cambio si esaurirà.

Con riferimento alla quotazione (e) certo per incerto che qui seguiremo, la variazione

percentuale del tasso di cambio reale ( /

) è data dalla somma della

variazione percentuale del tasso di cambio nominale ( eee /

) e del tasso di

inflazione nazionale ( ) al netto del tasso di inflazione estero ( W ):

We

. In termini di tasso di cambio nominale tale relazione è:

We .

In regime di cambi flessibili, il tasso di apprezzamento nominale è dato dalla somma

fra il tasso di apprezzamento reale ed il differenziale di inflazione che si registra tra i

due paesi. Un tasso di inflazione interno più basso del tasso di inflazione estero (πW –

π > 0) si riflette in una corrispondente differenza fra tasso di cambio nominale e tasso

di cambio reale. Il tasso di cambio nominale della valuta interna si apprezza, mentre

il tasso di cambio reale rimarrà invariato al livello naturale di lungo periodo

corrispondente alla PPA. In regime di cambi fissi invece ciò non accade: poiché il

tasso di cambio nominale rimane costante è il tasso di cambio reale a ridursi.

Quando il tasso di cambio reale )( di un paese scende, si realizza un deprezzamento

reale della valuta nazionale. Il contrario accade nel caso di apprezzamento reale. Se i

due paesi non producono gli stessi beni e/o producono beni non commerciabili, il

tasso di cambio reale può essere diverso da 1 anche nel lungo periodo. In altre parole,

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viene meno la validità della versione assoluta della parità dei poteri d’acquisto (la

cosiddetta “legge del prezzo unico”). L’epoca successiva alla fine nel 1971 del

sistema di cambi fissi di Bretton Woods è stata caratterizzata da un notevole

incremento della volatilità dei cambi. I disallineamenti del tasso di cambio reale fra le

principali valute, rispetto al valore di equilibrio di lungo periodo indicato dalla PPA,

risultano molto più ampi in regime di cambi flessibili che in regime di cambi fissi e

presentano una durata molto maggiore di ciò che intendiamo per “breve periodo”.

L’evidenza empirica di lunghi cicli di allontanamento del tasso di cambio reale

effettivo dal suo valore di equilibrio di lungo periodo può essere ricondotta

all’incremento della produzione dei beni non commerciabili (NT) rispetto alla

produzione di beni commerciabili (T). In assenza di barriere tariffarie, l’integrazione

dei mercati fa sì che si determini l’eguaglianza dei prezzi dei beni commerciabili fra i

paesi, ma nei settori dei beni non commerciabili – non esposti alla concorrenza

internazionale e con una dinamica della produttività più lenta – tale processo di

livellamento non si genera. Ad esempio, alcuni dei periodi, lunghi anche un decennio,

di fluttuazione del tasso di cambio tra il dollaro USA e il marco tedesco e tra il

dollaro USA e lo yen sono interpretati in base ad una più lenta crescita della

produttività del lavoro rispetto alla dinamica salariale, con conseguente variazione del

cambio della valuta.

Consideriamo due paesi, il paese 1 dove è in corso il passaggio ad una quota

prevalente del PIL generata dal settore dei servizi (prevalentemente “non

commerciabili”:NT) e quindi la produttività complessiva sia rallentata

dall’espansione dei servizi (settore dove i guadagni di produttività sono molto più

lenti che nell’industria) e il paese 2 dove tale passaggio si è già compiuto. Mentre i

prezzi per i beni commerciabili (pT) vengono determinati sui mercati internazionali, i

prezzi dei beni non commerciabili sui mercati esteri (pNT) vengono definiti dalle

condizioni prevalenti sul mercato interno. Poiché il livello generale dei prezzi al

consumo di un’economia (p) riflette sia i beni commerciabili che quelli non

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commerciabili, le variazioni nel livello dei prezzi nazionali rifletteranno l’andamento

di entrambi i settori dei due paesi (i = 1,2):

NTiTii ppp )1(

dove Φ è il peso del settore dei beni commerciabili sul totale del PIL.

Supponiamo che la dinamica della produttività abbia un’accelerazione nei settori

“commerciabili” (T) sia nel paese 1 che nel paese 2. La dinamica salariale, cui la

dinamica della produttività si eguaglia nel settore T, si trasmette anche al settore NT,

dove invece la produttività aumenta più lentamente. Quanto più ampio è il divario

paese 1 rispetto al paese 2 nella distanza della dinamica della produttività del settore

NT da quella del settore T, tanto maggiore sarà il differenziale di tasso di inflazione

nel paese 1 relativamente al paese 2. Infatti, il differenziale di tasso di inflazione

risulta dal divario fra i rapporti tra il settore T ed il settore NT nei due paesi: quanto

più è in espansione è il settore NT nel paese 1, tanto più il divario che si apre nel

settore NT fra incremento del salario legato al settore T e incremento della

produttività si tradurrà in un aumento più rapido del livello generale dei prezzi nel

paese 1.

Il cosiddetto “effetto Balassa-Samuelson” prevede appunto che - a causa dell’impatto

inflazionistico della bassa dinamica della produttività nel settore in rapida espansione

- il tasso di inflazione sia più elevato nel paese 1 che nel paese 2: il differenziale di

tasso di inflazione fra i due paesi è determinato dal divario di produttività nel settore

T moltiplicato per la quota sul PIL del settore NT. Supponendo che nella formazione

del prezzo dei beni non commerciabili conti unicamente il salario, il tasso di

variazione dei prezzi al consumo è: iTii w)1( . Data l’eguaglianza fra

salario e produttività marginale del lavoro (PML), ed il divario

2 1( )P M L P M L , il differenziale di inflazione del paese 1 rispetto al paese 2 è

determinato dalla lentezza nella dinamica della propria produttività procurata

dall’accelerata espansione del settore NT:

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1 2 2 1(1 ) P M L P M L .

Nel breve periodo, il conseguente disavanzo commerciale potrebbe essere

compensato da un avanzo nei movimenti di capitali. Nel lungo periodo, tuttavia, il

ritorno al tasso di cambio reale di equilibrio di lungo periodo può realizzarsi solo per

effetto di un aggiustamento strutturale. Menzioniamo due possibili percorsi: a) un

prolungato periodo di crescita monetaria nel paese 1 inferiore a quella del paese 2,

tale da annullare il differenziale di inflazione attraverso la deflazione dei consumi in

beni del settore T; b) una traslazione verso l’esterno della frontiera delle possibilità di

produzione (indotto da un aumento del progresso tecnico, oppure da un aumento delle

risorse disponibili, qual è ad esempio la scoperta di un giacimento petrolifero) che

produce un innalzamento del tasso di cambio reale e colloca stabilmente il paese 1 ad

un più alto livello di benessere.

Una tesi alternativa sull’impatto della dinamica dei servizi sul tasso di inflazione è

stata elaborata negli anni ’80 da Bhagwati, Kravis e Lipsey. Il più elevato livello

complessivo dei prezzi che empiricamente si riscontra nei paesi avanzati sarebbe da

imputare al settore dei servizi. Infatti, tale settore, che è tipicamente in gran misura

NT e ad alta intensità di lavoro, presenta nei paesi poveri un livello di salario

inferiore a quello dei paesi avanzati, tipicamente a più alto rapporto capitale/lavoro.

Tale divario nel costo del lavoro giustificherebbe l’impatto minore del settore dei

servizi sul livello complessivo dei prezzi nei paesi poveri.

Nel lungo periodo, in un’economia in piena occupazione un incremento dell’offerta

di moneta si traduce nel proporzionale incremento dei prezzi, senza effetti sul tasso di

interesse sul reddito reale. Un incremento permanente dell’offerta di moneta, in

quanto provoca un processo di inflazione, causa un proporzionale deprezzamento

della valuta del paese nel lungo periodo. Nel breve periodo, tuttavia, forti oscillazioni

nel tasso di cambio sono riconducibili ad una causa diversa. Come ora vedremo, il

fenomeno più importante, l’overshooting del tasso di cambio, è spiegabile con la

rigidità di breve periodo del livello dei prezzi.

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10. Le politiche monetarie e fiscali in regime di cambi fissi e cambi

flessibili

Nelle Figure 3.1-3.4 sono illustrate le politiche monetarie e fiscali: variazioni della

moneta o del bilancio pubblico hanno effetti diversi in regime di cambi fissi e cambi

flessibili.

Una politica fiscale espansiva è efficace nell’aumentare il livello del reddito in cambi

fissi e inefficace in cambi flessibili. In cambi fissi, infatti, uno spostamento verso

destra della IS implica un aumento della domanda transattiva di moneta; il tasso di

interesse sale, attirando nuovi capitali da investire nelle attività finanziarie interne,

cosicché la domanda della valuta nazionale aumenta; per mantenere fede all’impegno

di preservare i cambi fissi evitando che il tasso di cambio si apprezzi, la banca

centrale deve accrescere l’offerta di moneta. Nel punto B si realizza un nuovo

equilibrio ad un livello più elevato del reddito (e tasso di interesse mondiale

Figura 3.1. Politica fiscale espansiva in cambi fissi

C

LM1

B A

IS1 IS0

BP

Y1 Y0 0 Y

i

LM0

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invariato). In cambi flessibili, ad uno spostamento verso destra della IS segue di

nuovo una tensione al rialzo del tasso di interesse interno, ma in assenza di intervento

della banca centrale si determina l’apprezzamento della valuta nazionale e la

riduzione della domanda di esportazioni che riporta la IS nella posizione iniziale. Tale

processo configura uno “spiazzamento” completo realizzato dal tasso di cambio.

Una politica monetaria espansiva è efficace nell’aumentare il livello del reddito in

cambi flessibili e inefficace in cambi fissi. Supponiamo che la banca centrale desideri

innalzare il livello dell’output. In cambi flessibili uno spostamento verso destra della

LM comporta una discesa del tasso di interesse interno; la conseguente vendita di

attività finanziarie interne aumenta l’offerta di valuta nazionale, il che causa un

deprezzamento del cambio.

L’espansione delle esportazioni consente alla IS (che si sposta anch’essa verso destra)

di incontrare la LM ad un livello più elevato di reddito. In cambi fissi, l’accresciuta

offerta di valuta nazionale sposta verso destra la LM; alla discesa del tasso di

Figura 3.2. Politica fiscale espansiva in cambi flessibili

i LM

IS0 IS1 C

A BP

Y1 Y0 0 Y

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interesse consegue un deflusso di capitali, il disavanzo della bilancia dei pagamenti,

la riduzione delle riserve ufficiali e della base monetaria (la LM ritorna nella

posizione iniziale). La banca centrale, infatti, avendo preso l’impegno di difendere le

parità fisse, non interviene.

Dati il grado elevato di mobilità dei capitali fra i diversi mercati internazionali ed il

regime di cambi flessibili fra le tre principali aree valutarie (dollaro, euro e yen), si

suole dire che la crescita di un paese risulti oggi meno vincolata alla formazione

interna di risparmio. All’origine di questo mutamento strutturale sarebbe la seguente

catena causale. Gli investimenti diretti esteri e da diversificazione internazionale dei

portafogli di attività finanziarie assumono crescente importanza. Il grado di

correlazione fra risparmio ed investimento in ciascun paese tende quindi a ridursi.

L’aumento delle decisioni di investimento di una grande economia, che trovi un

limite nella disponibilità interna di risparmio, crea un eccesso di domanda di fondi

nei mercati internazionali. La conseguente tensione al rialzo del tasso di interesse

internazionale genera un incremento dell’offerta – sia interna che internazionale – di

fondi investibili, fino al ripristino dell’equilibrio.

La globalizzazione finanziaria, accrescendo la rapidità degli spostamenti dei capitali

da un mercato all’altro, scolora i confini fra gli stati-nazione ed appanna il loro ruolo

nell’economia internazionale. D’altro canto, la stessa globalizzazione, nell’aumentare

l’incertezza degli operatori e la complessità del funzionamento dei mercati finanziari,

provoca una crescente volatilità dei mercati ed una maggiore avversione al rischio. La

diversificazione di portafoglio è orientata, piuttosto che dalla massimizzazione del

rendimento per un dato livello di rischio, dalla preferenza per le imprese e le forme di

investimento finanziario che offrono una rischiosità minore, caratterizzandosi per

maggiore informazione e ridotti costi di transazione. Questa “fuga dall’incertezza”

spiega la persistenza della “distorsione verso l’interno” (home bias) nella

composizione dei portafogli di attività finanziarie dei risparmiatori.

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Figura 3.4. Politica monetaria espansiva in cambi flessibili

LM1

B

D

A

IS1 IS0

BP

Y1 Y0 0 Y

i

LM0

Figura 3.3. Politica monetaria espansiva in cambi fissi

Y

D

B A

IS0

BP

Y1 Y0 0

i

LM1

LM0

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11. Parità scoperta e coperta dei tassi di interesse

Il rendimento di un’attività finanziaria può divergere in un paese dal rendimento nei

mercati internazionali principalmente per due fattori: 1) il premio per il rischio di

cambio richiesto dagli investitori finanziari a fronte di un’aspettativa di

deprezzamento del cambio; 2) il premio per il rischio di default richiesto dagli

investitori finanziari a fronte di un’aspettativa di insolvenza del debitore, sia questi

un’impresa privata oppure uno stato sovrano. Un ulteriore scostamento, di cui non si

terrà conto, è provocato dal divario fra i paesi nella legislazione sulle attività

finanziarie, in primo luogo riguardante la tassazione dei rendimenti finanziari. La

speculazione internazionale è pronta a sfruttare ogni divergenza fra i rendimenti dei

titoli dovuta a variazioni dei due premi per il rischio. Nei mercati dei capitali

globalizzati, gli operatori spostano continuamente capitali – praticamente in tempo

reale, grazie anche alle contrattazioni on-line - da un mercato all’altro.

L’attività di arbitraggio fa sì che in equilibrio il rapporto tra i rendimenti dei

titoli sia pari al rapporto tra i tassi di cambio: a parità di rischio, liquidità e durata, un

euro investito nell’UE deve rendere come un dollaro investito negli US. Supponendo

una perfetta mobilità dei capitali, che si traduce in assenza di costi di transazione

nell’operazione di cambio delle valute, un operatore europeo può decidere

indifferentemente di investire un euro sul mercato nazionale dei titoli al tempo t ed

ottenere al tempo t+1 la restituzione dell’euro investito oltre al tasso di interesse

nominale corrisposto (1+iUME), oppure può decidere di cambiare l’euro in dollari

(moltiplicandolo per il tasso di cambio e) ed investire gli e dollari così ottenuti sul

mercato US riscuotendo, al termine del periodo, e(1+iUS) dollari che verranno a loro

volta cambiati in euro dividendoli per il tasso di cambio atteso. In assenza di

variazioni attese nel tasso di cambio a pronti, si realizzerà l’eguaglianza

(1+iUME)=(1+iUS).

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Supponiamo ora che l’operatore europeo sappia che sui mercati internazionali

si è formata la comune opinione che il tasso di cambio fra dollaro ed euro nel

prossimo anno vedrà un apprezzamento dell’euro ( tet ee 1 ). La condizione di

arbitraggio dovrà tener conto di tali aspettative. Il rendimento atteso

dall’investimento di un euro negli Stati Uniti, tenuto conto della variazione attesa del

valore del dollaro, in equilibrio sarà dato da:

et

tUStUMEt e

eii1

)1()1(

Facciamo un esempio. Supponiamo che il tasso di interesse sulle attività

finanziarie denominate in dollari dal 3% salga al 4% (iUS=0,04), mentre quello sulle

attività finanziarie denominate in euro resti al 3% (iUME=0,03) e che occorrano 1,21

dollari per un euro. In base all’equazione della parità scoperta, il verificarsi di una

variazione nei tassi di interesse comporta una variazione nel tasso di cambio atteso.

Nell’equazione si otterrà un apprezzamento atteso dell’euro che verrà scambiato a

1,22 dollari per un euro:

et

tUStUMEt e

eii1

)1()1(

(1+0,03)=(1+0,04)(1,21/1,22)

Questa equazione definisce la parità scoperta dei tassi di interesse. Se gli

operatori fossero neutrali rispetto al rischio, l’equivalenza fra gli investimenti nei due

mercati si raggiungerebbe in corrispondenza del tasso di cambio atteso al quale

l’investitore europeo ottiene, negli Stati Uniti, lo stesso tasso di interesse che

guadagnerebbe nell’Unione Monetaria Europea.

L’equazione della parità scoperta dei tassi di interesse può essere scritta come:

et

t

USt

UMEt

ee

ii

111

da cui, riordinando i termini: t

tet

UMEt

USt

eee

ii

11

11

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Per valori contenuti dei tassi, il tasso di interesse nazionale può essere

approssimato dalla somma algebrica tra tasso di interesse estero e tasso di variazione

attesa della valuta nazionale:

t

tet

UStUMEt eee

ii

1 ovvero:

t

tet

UMEtUSt eee

ii

1

Un deprezzamento atteso dell’euro rispetto al dollaro, che equivale ad un

apprezzamento atteso del dollaro (( tet ee 1 ), ), implica quindi un valore negativo del

secondo termine sul lato destro dell’equazione (3.5) e comporta un eccesso del tasso

di interesse UME rispetto al tasso di interesse US. Al converso, un apprezzamento

atteso dell’euro rispetto al dollaro, che equivale ad un deprezzamento atteso del

dollaro (( tet ee 1 ),), implica un valore positivo del secondo termine sul lato destro e

comporta un eccesso del tasso di interesse US rispetto al tasso di interesse UME:

t

tet

UStUMEt eeeii

1 ovvero:

t

tet

UMEtUSt eee

ii

1

Abbiamo finora assunto che l’operatore europeo accetti di sostenere il rischio

del rendimento incerto connesso all’aspettativa di apprezzamento atteso del dollaro.

Infatti, all’operatore si è attribuita una neutralità al rischio. Tuttavia, l’alta volatilità

del tasso di interesse e/o del tasso di cambio rende molto plausibile l’ipotesi che

l’operatore non sia neutrale, ma sia avverso al rischio.

Il differenziale fra tassi di interesse e deprezzamento di una valuta rispetto

all’altra nella realtà si discosta spesso da zero. Come vedremo, a meno che non si

tratti di allontanamento dall’ipotesi di aspettative razionali (i soggetti non riescono a

prevedere con esattezza il cambio futuro), la divergenza viene attribuita alla

ricompensa per l’avversione al rischio.

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La parità scoperta deve allora essere corretta per tenere conto del fattore di

rischio: il premio che l’operatore europeo desidera ricevere per il rischio connesso

all’investimento in dollari. Nell’equazione che descrive la parità scoperta dei tassi di

interesse dovremo perciò aggiungere un termine ((t)) legato al possesso dell’attività

finanziaria denominata in dollari:

tt

tet

UStUMEt eeeii

1

Esiste tuttavia il mezzo per coprirsi dal rischio connesso al possesso del titolo

estero: l’informazione sul prezzo futuro a pronti di ogni valuta è disponibile nei listini

finanziari. Il mercato finanziario offre infatti – sotto forma del valore del tasso di

cambio a termine ( tf ) - la propria aspettativa riguardo al valore del dollaro rispetto

all’euro ad una data futura. Il premio per il rischio (φt), che deve coprire proprio un

eventuale errore di previsione sull’ampiezza del futuro apprezzamento del dollaro,

dipende dalla differenza fra l’aspettativa del futuro cambio a pronti (( 1ete ) ) ed il

tasso di cambio a termine ( tf ). Sottraendo il tasso di cambio da ambedue i termini e

dividendoli entrambi ancora per (et), possiamo scrivere:

t

tt

t

tet

t eef

eee

1

In effetti, è l’insieme di tutte le operazioni sul futuro realizzate da tutti gli

investitori del mercato finanziario a determinare l’informazione sul cambio a termine

( tf ) che riflette l’aspettativa riguardo al futuro cambio a pronti (( ete 1 ). ). Nell’ipotesi

di aspettative razionali, tale previsione risulta confermata ex post: 11 tet ee . .

Prendiamo perciò le mosse dal comportamento del singolo investitore, osservando

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che l’eventuale errore di previsione sul tasso di cambio a termine in cui incorre può

avere due cause:

1) la presenza del premio per il rischio: ttett efe /)( 1

2) un errore di previsione sul tasso a pronti futuro a causa di condizioni di

“razionalità limitata”, la ridotta capacità di calcolo e di previsione probabilistica

relativamente agli eventi futuri: tett eee /)( 11 .

Sotto l’ipotesi di aspettative razionali l’errore di previsione sul futuro tasso a

pronti è eguale a zero. A determinare un errore di previsione del cambio a termine

residua allora solo la presenza del premio per il rischio. L’operatore ha due

possibilità. Se ritiene di possedere una corretta informazione sul premio per il rischio

tenterà di “battere” il mercato e farà guadagni da arbitraggio se la sua aspettativa sul

futuro cambio a pronti risulterà più precisa di quella prevalente nel mercato. Se,

invece, l’operatore si è formato il convincimento che le aspettative prevalenti nel

mercato siano effettivamente “aspettative razionali”, preferirà allinearsi

all’aspettativa prevalente e fare riferimento all’informazione offerto dal mercato,

rappresentata dal tasso di cambio a termine ( tf ). L’operatore si coprirà dal rischio

costituito dal rendimento incerto del titolo estero, contrattando la vendita a un anno

da oggi - al prezzo rappresentato dal tasso di cambio a termine - del ricavo in dollari

che riceverà dall’investimento nei titoli USA. In assenza di controlli dei capitali, di

nuovo per approssimazione, si ottiene la formulazione della parità coperta dei tassi di

interesse:

t

ttUStUMEt e

efii

Il termine che si aggiunge al tasso di interesse statunitense è detto “sconto” se

di valore negativo (si accetta un tasso di interesse più basso nell’UME se il mercato

prevede un apprezzamento dell’euro) e “premio” se di valore positivo (l’operatore

richiede un differenziale positivo di rendimento se il mercato prevede un

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deprezzamento dell’euro). Data l’ipotesi di aspettative razionali, il mercato dovrebbe

essere in grado di prevedere con sufficiente esattezza (di norma, più è lungo il

periodo, meno precisa è la stima) quale sarà il futuro tasso di cambio a pronti. In tal

caso, il tasso di cambio a termine, che esprime appunto l’aspettativa di mercato sul

tasso di cambio a pronti futuro, risulterà a posteriori eguale al tasso di cambio a

pronti atteso: ett ef 1 .

Se nelle due equazioni i rispettivi termini risultano ex ante diversi fra loro:

t

tt

t

tet

eef

eee

1

Ricapitolando, la differenza fra cambio atteso e cambio a termine ex post sarà

data da: t

tet

t

ett

t

tt

efe

eee

efe

1111

.

Tale differenza può avere due origini. La prima è una previsione errata:

l’aspettativa sul tasso di cambio non viene convalidata ex post (un valore positivo del

primo termine a destra). Se escludiamo tale eventualità adottando l’ipotesi di

aspettative razionali, a spiegare il mancato realizzarsi della previsione sul tasso di

cambio a pronti futuro sarà la seconda causa: il premio per il rischio (un valore

positivo del secondo termine a destra).

Sotto l’ipotesi di aspettative razionali a determinare un errore di previsione del

cambio a termine residua solo la presenza di un premio per il rischio. L’operatore ha

due possibilità. Se ritiene di valutarlo meglio del mercato tenterà di “batterlo” : farà

guadagni da arbitraggio se la sua aspettativa sul futuro cambio a pronti risulterà più

precisa di quella prevalente nel mercato.

Sotto l’ipotesi di aspettative razionali a determinare un errore di previsione del

cambio a termine residua solo la presenza di un premio per il rischio. L’operatore ha

due possibilità. Se ritiene di valutarlo meglio del mercato tenterà di “batterlo” : farà

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guadagni da arbitraggio se la sua aspettativa sul futuro cambio a pronti risulterà più

precisa di quella prevalente nel mercato.

Dopo che il Premio Nobel 2013 E.Fama sostenne che i prezzi di mercato di

borsa incorporano rapidamente le nuove informazioni (sicché non ha senso sfidare il

mercato in quanto il futuro andamento delle quotazioni non può essere previsto),

Shiller (l’economista che il comitato di Stoccolma – un po’ tartufescamente – ho

premiato assieme a Fama ed allo statistico Hansen) ha al contrario sostenuto che le

quotazioni sono spesso frutto di comportamenti “irrazionali”. Il fatto che le

quotazioni sono molto più volatili dei dividendi dimostrerebbe l’irrilevanza della

rapidità con cui gli operatori utilizzano le informazioni nelle transazioni finanziarie.

L’effetto “contagio” sarebbe di gran lunga più importante: gli operatori e i

risparmiatori investono o vendono nelle azioni non solo in base al calcolo razionale

sui futuri dividendi attesi, ma spesso essendo influenzati dall’andamento impresso ai

prezzi azionari dalle ondate speculative di “esuberanza” oppure di “panico” (di qui

l’elevata volatilità verso l’alto e verso il basso, ed anche una certa predicibilità dei

prezzi azionari, quanto meno nel medio periodo). Il dibattito sulla possibilità che si

possa o meno “battere” il mercato resta dunque aperto.

Se, invece, l’operatore si è formato il convincimento che le aspettative

prevalenti nel mercato siano effettivamente “aspettative razionali”, preferirà allinearsi

all’aspettativa prevalente e fare riferimento all’informazione offerto dal mercato,

rappresentata dal tasso di cambio a termine ( tf ). L’operatore si coprirà dal rischio

costituito dal rendimento incerto del titolo estero, contrattando la vendita a un anno

da oggi - al prezzo rappresentato dal tasso di cambio a termine - del ricavo in dollari

che riceverà dall’investimento nei titoli USA.

Il termine che si aggiunge al tasso di interesse statunitense è detto “sconto” se

di valore negativo (si accetta un tasso di interesse più basso nell’UME se il mercato

prevede un apprezzamento dell’euro) e “premio” se di valore positivo (l’operatore

richiede un differenziale positivo di rendimento se il mercato prevede un

deprezzamento dell’euro). Data l’ipotesi di aspettative razionali, il mercato dovrebbe

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essere in grado di prevedere con sufficiente esattezza (di norma, più è lungo il

periodo, meno precisa è la stima) quale sarà il futuro tasso di cambio a pronti. In tal

caso, il tasso di cambio a termine, che esprime appunto l’aspettativa di mercato sul

tasso di cambio a pronti futuro, risulterà a posteriori eguale al tasso di cambio a

pronti atteso.

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Parte Seconda

Aree valutarie ottimali e integrazione monetaria europea

1. Introduzione Per introdurre l’analisi dell’Unione Europea (UE), e in particolare dell’ Unione

Monetaria ed Economica (UME), affronteremo ora la questione della costituzione di

un’area valutaria da parte di paesi che hanno proceduto all’integrazione dei propri

mercati di beni e servizi attraverso l’abbattimento delle barriere tariffarie e non

tariffarie.

L’unione fra i paesi europei nacque come progetto politico. L’obiettivo di assicurare

un futuro di pace ai popoli europei portò i padri fondatori a concepire un processo di

unificazione sia economica che politica. Fra loro ricordiamo Altiero Spinelli, uno

degli estensori del Manifesto di Ventotene del 1941; Robert Schuman, l’autore della

dichiarazione del 9 maggio, giorno in cui oggi celebriamo l’Europa unita; Jean

Monnet, l’ispiratore del primo concreto passo verso l’integrazione europea: la

Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), creata nel 1951 da Belgio,

Francia e Germania Italia, Lussemburgo e Olanda allo scopo di favorire l’impiego

comune di queste materie prime per la ripresa industriale post-bellica ed accelerare al

contempo la ripresa delle relazioni politiche.

Nel marzo 1957 a Roma vennero firmati i Trattati con i quali quegli stessi sei

paesi istituivano la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea

dell’Energia Atomica (Euratom). Nel 1968 fu completata l’eliminazione delle tariffe

e delle quote sul commercio interno e si proclamò la libera circolazione di merci,

servizi, capitali e lavoro. Successivamente, aderirono alle Comunità Europee (CE)

altri nove paesi (Regno Unito, Danimarca e Irlanda nel 1972, Grecia nel 1981,

Spagna, e Portogallo nel 1986, Austria, Finlandia e Svezia nel 1995), sei dei quali

avevano inizialmente fatto parte di un progetto alternativo: l’Accordo Europeo di

Libero Scambio (EFTA) siglato nel 1960. L’abolizione delle barriere non tariffarie ed

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il graduale passaggio a votazioni a maggioranza furono le principali decisioni

contenute nell’Atto Unico Europeo (AUE) del 1986. La cornice istituzionale dei tre

pilastri - Comunità Europea, Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e Giustizia

e affari interni (GAI) - in cui si articola l’UE venne istituita nel 1991 con il Trattato di

Maastricht (TUE) che diede anche avvio all’ UME. Nel 2004 l’adesione di dieci

nuovi paesi (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca,

Slovacchia, Slovenia, Ungheria) ha segnato il passaggio dell’Unione Europea da 15

paesi (UE-15) a 25 paesi (UE-25). Il 1 gennaio 2007, l’allargamento a Bulgaria e

Romania ha portato l’Unione Europea a ventisette paesi (UE-27). L’ultima adesione,

quella della Croazia (1 luglio 2013), ha portato a 28 i paesi dell’Unione Europea.

Il lungimirante obiettivo dell’unificazione politica si è finora rivelato troppo

ambizioso. L’eterogeneità dei valori e degli interessi ha impedito l’affermarsi di un

modello condiviso di organizzazione dell’economia e della società. L’orizzonte del

progetto originario è stato così delimitato all’elaborazione di accordi di “mutuo

vantaggio”, consistenti in politiche pubbliche comuni in campo economico e più

recentemente anche nella cooperazione nel campo della politica estera, della difesa e

della sicurezza.

La formazione del mercato unico ha visto il progressivo abbattimento delle

diverse forme di barriere al libero scambio – tariffarie e non-tariffarie

(contingentamento, etc.) – e l’armonizzazione fra le regolamentazioni nazionali

(ambientale, sanitaria, etc.). Le imprese hanno beneficiato del libero accesso su tutti i

mercati, nei quali si sono al contempo confrontate con la concorrenza delle imprese

degli altri paesi dell’UE. La pressione al ribasso esercitata sui prezzi ha accentuato la

competizione nel mercato dei prodotti, stimolando le imprese alla riduzione dei costi

ed all’introduzione di innovazioni di processo e di prodotto. L’attuale fase di

integrazione si contraddistingue per il complesso intreccio fra diverse finalità.

L’obiettivo di aumentare il grado di concorrenza dei mercati mediante i

processi di liberalizzazione e di privatizzazione nel campo dei servizi e dell’energia

entra spesso in conflitto con la ricerca di economie di scala attraverso fusioni ed

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acquisizioni che stanno dando origine a grandi compagnie multinazionali. L’obiettivo

di rafforzare la protezione sociale di fronte all’aumento dell’incertezza economica e

delle diseguaglianze determinati dalla globalizzazione si scontra con l’eterogeneità

delle comunità e delle economie europee, che rendono difficile l’armonizzazione dei

sistemi di Welfare. La legislazione presente nei singoli paesi frappone ostacoli alla

regolazione a livello europeo dei mercati dei beni, del lavoro e dei servizi finanziari.

Negli ultimi decenni le economie europee si sono sviluppate all’interno di un quadro

di regole affatto nuovo. Alle istituzioni nazionali si è affiancato un livello

istituzionale sovranazionale con lo scopo di dare attuazione alle politiche di

integrazione. Il mercato unico ha sancito la libera circolazione di beni, servizi,

capitali e persone. L’UME ha dato vita ad un’unica moneta e ad un’unica autorità

monetaria. La Commissione Europea ha esteso gli interventi di regolazione diretti a

rafforzare la concorrenza nei mercati. Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) ha

vincolato i bilanci pubblici delle autorità fiscali nazionali. Le politiche di coesione

hanno finanziato lo sviluppo delle aree arretrate.

Sulle vicende storiche dalle quali nascono le istituzioni cui fa capo la produzione dei

beni pubblici di un paese – magistratura, polizia, difesa, sistema fiscale, istruzione,

sanità, etc. - la produzione scientifica è abbondante e prodiga di interpretazioni. Lo

stato dell’arte è invece insoddisfacente per quanto riguarda un’altra istituzione

fondamentale: la moneta. Non è infatti semplice dare una definizione perspicua di che

cosa sia la moneta; tanto meno nell’area dell’euro, giacché i paesi che adottano la

nuova valuta non formano uno Stato federale.

Nello studiare le unioni monetarie, la teoria economica fa ricorso al classico

strumento della scelta massimizzante: un’area valutaria si definisce “ottima” se la

sovranità monetaria esercitata della valuta comune produce - per l’aggregato degli

stati che l’adottano - benefici che eccedono i costi. Se i criteri in base ai quali si dà

vita ad un’area valutaria fossero esclusivamente quelli economici, una nuova valuta

che subentri ad una pluralità di valute “regionali” non dovrebbe estendere la propria

sovranità oltre la “regione marginale”, da intendersi come la regione che presenta

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l’eguaglianza al margine fra benefici e costi dell’inclusione nell’area valutaria.

Tuttavia, un processo di integrazione vede di solito coinvolti sistemi economici anche

molto distanti fra loro, per livello tecnologico delle produzioni, istituzioni politiche

ed economiche, meccanismi di aggiustamento macroeconomico. Le vicende storiche

finiscono quindi per determinare entità statuali – o comunque unioni circoscritte ad

uno o più ambiti, come l’Unione Economica e Monetaria europea – la cui estensione

geografica spesso non è conforme a quella che sarebbe stata determinata dai criteri di

ottimalità economica.

Per decidere la propria adesione all’unione monetaria europea, i governi hanno

dovuto valutare se le politiche economiche che erano chiamati a realizzare avrebbero

consentito di soddisfare il “vincolo di partecipazione”, ovvero la condizione che per il

paese la differenza attesa fra benefici e costi fosse positiva. D’altro canto, le

interdipendenze economiche sono pervasive: un paese caratterizzato da forte

instabilità macroeconomica può infatti rappresentare un’esternalità negativa per tutti i

membri dell’area valutaria. La formazione dell’area valutaria si è quindi configurata

come un gioco strategico in condizione di incertezza, dove il calcolo del “vincolo di

partecipazione” di un paese dipendeva da quello di tutti gli altri ipotetici membri

dell’area valutaria. Lo SME, il Trattato di Maastricht, il PSC, e la più generale

cornice istituzionale hanno permesso il raggiungimento del “miglioramento

paretiano” di una minore instabilità macroeconomica, dopo i decenni di alta

inflazione e disoccupazione. Ciascun governo ha dovuto accettare un trade-off

intertemporale: intraprendere politiche macroeconomiche dirette a creare nel breve

periodo la disinflazione ed il riequilibrio delle finanze pubbliche, nell’aspettativa di

ricevere un “dividendo” dall’incremento di benessere comune che si sarebbe

realizzato nel medio-lungo termine. In effetti, anche il progetto dell’area valutaria

europea è stato avviato nell’aspettativa che ne sarebbe sortito un incremento del

benessere comune. Non esisteva, d’altro canto, alcuna garanzia che dal passaggio ad

una moneta comune sarebbe scaturito un “miglioramento paretiano”, ovvero che dal

valore positivo della somma algebrica dei guadagni e delle perdite attesi per l’area

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valutaria nel suo complesso sarebbe conseguito un valore positivo anche per ciascuno

dei paesi che ne avrebbero fatto parte.

L’opinione prevalente è che al suo nascere l’UME non rappresentasse un’area

valutaria “ottima”. La relativa facilità con cui i paesi dell’UME hanno ciò nonostante

raggiunto l’accordo sulla composizione dell’area valutaria è così sintetizzabile.

L’incertezza sul futuro rende il “velo di ignoranza” sui guadagni e sulle perdite che si

realizzeranno nel corso degli anni sufficientemente spesso da impedire una precisa

valutazione sulla loro distribuzione fra i singoli paesi. La Germania ed i paesi dell’

“area del marco” osteggiarono a lungo la nascita dell’UME a dodici paesi, nel timore

che la somma algebrica fra benefici e costi potesse risultare collettivamente negativa

nel caso fossero stati ammessi i paesi mediterranei. La Germania, di fronte alla spinta

politica per una unione monetaria che non discriminasse i paesi del Sud Europa, non

volle opporre considerazioni relative al proprio puro tornaconto economico; tuttavia,

il governo tedesco impose condizioni molto precise: uno Statuto della Banca Centrale

Europea (BCE) che ricalcasse quello della Bundesbank (e la sede non a caso venne

fissata a Francoforte, non a Bruxelles) e un accordo che impedisse politiche fiscali

espansive tali da mettere a rischio la credibilità della nuova valuta. Inoltre, la scelta di

aderire si svolgeva in condizioni di incertezza: negli anni che precedettero la

decisione, infatti, fu evidente che esisteva uno spesso “velo di ignoranza” su costi e

benefici che si sarebbero realizzati in ciascuno dei paesi aderenti. Alla fine, la

ragionevole aspettativa che il varo di una moneta unica - andandosi ad affiancare al

mercato unico - avrebbe permesso un sostanzioso allargamento della “torta” (ovvero,

un poderoso incremento del PIL), fece sì che la scelta politica di una “grande UME”

finisse per prevalere sui dubbi suggeriti dalla teoria economica.

2. Ottimalità di un’area valutaria

I costi dell’adozione di una valuta comune si connettono innanzitutto alla perdita

dell’opzione alternativa della flessibilità del cambio nominale: tanto maggiore è la

probabilità per un paese di subire uno shock asimmetrico, tanto maggiore è il costo

del passaggio alla valuta comune (il costo-opportunità di non potere utilizzare il tasso

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di cambio della propria valuta come strumento di politica economica). L’aspettativa

di benefici eccedenti i costi si fonda sull’idea che all’integrazione commerciale

conseguirà una maggiore simmetria negli shock. Con la riduzione dell’eterogeneità

dei cicli economici nazionali, ovvero della diversità fra paesi riguardo al periodo in

cui hanno luogo gli shock o all’ampiezza dello scostamento di inflazione e output dai

valori di equilibrio, dovrebbe declinare nel tempo l’antinomia fra l’uniformità

dell’esposizione alla politica monetaria comune e l’eterogeneità delle condizioni

macroeconomiche dei singoli paesi.

In primo luogo, la liberalizzazione dei movimenti di capitale - nel rendere

possibili rapidi spostamenti di attività finanziarie da un mercato all’altro di

dimensioni tali da influenzare in modo significativo i tassi di cambio - ha vanificato il

ruolo di stabilizzazione della politica valutaria. In secondo luogo, la moderna teoria

macroeconomica, nell’attribuire importanza prioritaria alla stabilità monetaria, ha

ridimensionato l’importanza di possedere una propria valuta. Un’economia che

presenta una divergenza reale (una minore dotazione o produttività delle risorse)

rispetto alle economie più “forti” con le quali è in competizione sui mercati, non deve

porvi rimedio con politiche macroeconomiche “non annunciate” che inneschino

un’inflazione “a sorpresa” e la conseguente svalutazione del cambio. Politiche

monetarie e fiscali incoerenti con i valori-obiettivo di inflazione ed output hanno la

sola conseguenza di aggiungere alla divergenza reale la divergenza nominale (il tasso

di inflazione). Alla strategia di breve periodo di sostenere le esportazioni attraverso la

flessibilità del tasso di cambio andrebbe preferito il commitment di evitare la

tentazione dell’aggiustamento nominale “legandosi all’albero maestro”. Nel caso dei

paesi dell’UME, l’albero maestro è l’euro. L’adozione di una valuta comune sancisce

l’impegno a non farsi “guerre commerciali”e ad adottare le politiche più appropriate

per migliorare i “fondamentali” dell’economia. D’altronde, i costi di uscita dalla

valuta comune sarebbero elevatissimi: gli alti tassi di interesse che graverebbero su

attività finanziarie nuovamente denominate nella valuta nazionale, la fiducia nella

quale si è però azzerata con il passaggio all’euro. Nella prospettiva teorica

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dell’impulso che l’euro dovrebbe dare alla formazione di un unico ciclo economico

europeo è stata avanzata la tesi che un’insieme di paesi non debba necessariamente

possedere ex ante la caratteristica di essere un’area valutaria “ottima” per decidere

l’introduzione di una valuta comune. Il crisma dell’ottimalità sarebbe stato acquisito

dall’UME ex post (Frankel e Rose, 1998; Rose, 2000). Alcuni benefici, relativi alle

funzioni di unità di conto e mezzo di scambio della moneta, sono invero immediati.

Ad esempio, la maggiore trasparenza dei segnali di mercato, conquistata con

l’uniformità valutaria del prezzo dei beni in tutti i mercati dell’eurozona è un impulso

alla concorrenza. Benefici immediati non secondari sono anche l’azzeramento dei

costi di transazione legati al cambio da una valuta all’altra (le commissioni bancarie)

e, più in generale, la maggiore efficienza nei servizi di liquidità. I più importanti

benefici saranno però appropriabili e verificabili solo nel medio-lungo periodo, in

seguito all’impulso all’integrazione commerciale ed ai vantaggi che potrebbero

discendere da un più rilevante ruolo dell’euro come mezzo di pagamento

internazionale.

La fine della volatilità del tasso di cambio nominale sembra avere esercitato

nell’eurozona un forte impulso all’incremento delle imprese esportatrici: le prime

analisi quantitative sull’impatto dell’introduzione dell’euro sul commercio intra-

UME stimano un incremento del loro numero compreso fra il 5% ed il 10%

(Baldwin, 2006). Con l’annullamento del rischio di cambio, le aspettative sulla

domanda futura nei mercati dell’UME risultano meno aleatorie. Un rilevante

beneficio per il finanziamento degli investimenti proviene dall’abbassamento del

tasso di interesse seguito all’annullamento del “premio per il rischio” di tasso di

cambio. Ci si attendeva anche che la valuta comune riducesse notevolmente il rischio

sistemico sulle decisioni di investimento, producendo così un effetto propulsivo sulla

crescita economica.

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____________________________________________________________________

Teoria delle aree valutarie ottimaliQuanto più un paese è soggetto a shock asimmetrici (bassa simmetria), tanto più è necessario che sia alta l’integrazione fra i mercati per compensare l’eccesso del costo della rinuncia alla valuta nazionale rispetto ai benefici della valuta unica.

HighSymmetry=Low asymmetric costs

High integration = low specialization

OCA-zone

OCA

____________________________________________________________________

Va però aggiunto che la riduzione del costo del danaro non è un beneficio

irreversibile. Benché i vincoli del PSC non concernano direttamente il debito

pubblico, tutti i paesi dell’eurozona con uno stock di debito pubblico superiore al

60% del PIL continuano ad essere soggetti all’impegno di provvedere al ritiro del

quantitativo eccedente il limite. Né i mercati finanziari internazionali paiono disposti

ad accettare che i governi nazionali confidino sull’euro quale perenne garanzia della

propria solvibilità fiscale per dilazionare l’abbattimento del debito pubblico. La

violazione del limite del 3% per il rapporto deficit / PIL ed un livello troppo elevato

del rapporto debito pubblico / PIL, possono in ogni momento indurre gli operatori

finanziari a chiedere un “premio per il rischio“ di default, innalzando il tasso di

interesse sul debito pubblico di uno o più paesi dell’UME.

Nella figura sulla teoria delle “aree valutarie ottimali” della pagina precedente,

sull’asse verticale compare il grado di simmetria di un paese con il resto dell’area

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valutaria e sull’asse orizzontale compare il grado di integrazione economica

dell’insieme dei paesi dell’area valutaria: tanto più elevato è il valore del grado di

simmetria per tutti i paesi e tanto più elevata l’integrazione economica, tanto più

probabile è l’ottimalità dell’area valutaria.. Ad alti (bassi) livelli delle due variabili, i

paesi si collocano al di sopra (sotto) della linea OCA, costituita da punti per i quali

costi e benefici dell’adozione di una valuta comune si eguagliano. Per una data

(intermedia) probabilità di essere colpito da uno shock asimmetrico, tanto più alta è

l’integrazione (e quindi bassa la specializzazione produttiva), tanto più è probabile

che i benefici del passaggio ad una valuta comune superino i costi. Così pure, per un

dato (intermedio) grado di integrazione (specializzazione produttiva), tanto più bassa

è l’esposizione ad uno shock asimmetrico tanto più è probabile che i benefici del

passaggio ad una valuta comune superino i costi.

Il grado di simmetria di ciascun paese è l’inverso del suo livello di esposizione ad

uno shock simmetrico che colpisca l’area valutaria (alternativamente, si può parlare

di esposizione ad uno shock asimmetrico consistente nel propagarsi, con una diversa

ampiezza in ciascun paese, di uno shock simmetrico che colpisca uniformemente

tutta l’area valutaria). Esempi di shock asimmetrico sono: una dinamica del CLUP di

un paese particolarmente veloce; un tasso di inflazione più elevato che nel resto

dell’area valutaria a causa dell’effetto Balassa-Samuelson. Tanto minore è il grado di

esposizione di un paese ad uno shock asimmetrico (ci si muove verso il basso

sull’asse verticale, dove è misurata la simmetria del paese con il resto dell’area), tanto

minore l’importanza per il paese dello strumento della variazione del tasso di cambio,

e cioè il costo della rinuncia alla propria valuta. Nel grafico, appare evidente che

tanto più alto è il valore della “simmetria” sull’asse verticale (tanto minore cioè è

l’esposizione del paese a un shock asimmetrico), tanto minore il grado di integrazione

economica (sull’asse orizzontale) necessario affinché il paese si collochi al di sopra

della retta che divide l’area OCA da quella NON-OCA.

Ma cosa esattamente si intende per “integrazione economica”? E perché un alto grado

di integrazione può compensare un basso “grado di simmetria” di alcuni paesi e

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portare l’insieme dei paesi nella zona del grafico al di sopra della retta di separazione

fra area OCA e area non-OCA?

Molto in breve, vi sono due spiegazioni delle cause e degli effetti di un’alta

integrazione dei mercati:

1. un alto grado di integrazione intesa come differenziazione produttiva di

un’economia riduce l’importanza del tasso di cambio come strumento di

politica economica, perché se uno shock negativo (un calo della domanda

estera) colpisce uno o più settori, ci sarà una buona probabilità che una fase

espansiva in altri settori possa fungere da compensazione ed evitare la caduta

del PIL, senza che occorra spingere le esportazioni mettendo in atto una

svalutazione del tasso di cambio (Kenen fu il primo economista a proporre

questa visione);

2. un elevato grado di integrazione intesa come forte apertura agli scambi

internazionali fa sì che il tasso di cambio come strumento di politica

economica sia poco utile, in quanto i vantaggi in termini di maggiori

esportazioni sarebbero compensati dagli svantaggi dovuti al maggior costo

delle importazioni (McKinnon fu il primo economista a proporre questa

visione).

Il grado di integrazione economica dell’area valutaria rappresenta dunque un antidoto

all’esposizione di un paese ad uno shock asimmetrico: tanto maggiori sono

l’integrazione e l’apertura dei mercati, tanto maggiore è la loro capacità di assorbire

rapidamente uno shock negativo attraverso la flessibilità di salari e prezzi. Il successo

di un processo di integrazione economica può essere infatti valutato in base

all’incremento conseguito nell’elasticità del salario all’occupazione (all’aumentare

della disoccupazione si riduce la resistenza dei lavoratori alla riduzione del salario

reale) e nella flessibilità dei prezzi necessaria a ripristinare la competitività nei

mercati dei beni e dei servizi.

Come si è accennato, un aspetto importante dell’integrazione dei mercati è

rappresentato dal livello del commercio intra-settoriale, favorito dal diffondersi dei

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mercati di concorrenza monopolistica. Nell’essere al contempo esportatori ed

importatori di beni pressoché uguali, i paesi entrano in una competizione di prezzo

sempre più serrata. E’ facile comprendere che la concorrenza fra paesi diversi come

offerenti e domandanti negli stessi settori è un potente fattore di unificazione dei

mercati che porta all’omogeneizzazione fra i paesi dei livelli dei salari e dei prezzi.

Tanto maggiore è il commercio intra-settoriale, tanto più integrati sono i mercati dei

paesi dell’area valutaria e tanto più – successivamente ad uno shock asimmetrico che

colpisca un paese – la tempestiva discesa di salari e prezzi, ovvero la deflazione

interna, rende irrilevante la perdita dello strumento della svalutazione del cambio.

Ci si può chiedere: ma non esiste un’alternativa alla necessità di abbattere con una

“svalutazione reale” i costi di produzione (per aumentare la competitività e quindi

accrescere le esportazioni), invece che ottenere lo stesso effetto attraverso la politica

del tasso di cambio, ovvero la svalutazione nominale cui si è accettato di non

ricorrere più, nel momento in cui si è rinunciato ad una propria valuta?

La risposta è positiva; anzi di alternative ce ne sono addirittura due. La prima è la

mobilità del fattore lavoro: negli Stati Uniti, dove è elevata, il superamento di una

crisi di competitività di uno Stato, prima ancora che con la discesa di salari e prezzi,

viene facilitato dal fatto che un’alta mobilità del lavoro permette un rapido ripristino

di un CLUP che consente alle imprese di reggere la competizione internazionale.

L’economista canadese e Premio Nobel, Robert Mundell, ha sostenuto che, se la

mobilità del lavoro è alta, il passaggio ad una moneta unica non crea problemi: una

crisi economica non determinerà infatti un incremento della disoccupazione, per il

semplice motivo che la parte più debole della forza lavoro preferisce l’emigrazione in

un altro Stato ad un salario più basso oppure all’aspettativa di licenziamento. Com’è

noto, non è questo il caso dell’Europa, dove l’emigrazione fra gli Stati dell’UME è

piuttosto bassa, a causa soprattutto di ragioni linguistiche e culturali.

La seconda alternativa è la costruzione di un’unione fiscale che si affianchi all’unione

monetaria. In alternativa all’aggiustamento di mercato consistente nella discesa di

salari e prezzi dopo uno shock negativo (la deflazione interna, o “svalutazione

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reale”), e in assenza di alta mobilità del fattore lavoro, l’ottimalità di un’area valutaria

può essere garantita da un bilancio pubblico comune finanziato da una tassa elevata

in ciascun paese dell’Eurozona.

La centralizzazione della politica monetaria, nell’imporre politiche fiscali nazionali

restrittive dirette a difendere la credibilità della moneta comune, indebolisce i flussi

di redistribuzione del reddito derivanti dall’operare della politica fiscale nazionale

all’interno dei paesi. L’unione fiscale, ovvero la creazione di un vero e proprio

bilancio pubblico sovra-nazionale – il passaggio al federalismo fiscale, con tasse e

voci di spesa comuni - permetterebbe di assorbire l’impatto degli shock asimmetrici

trasferendo risorse dalle economie a più alto tasso di crescita del PIL rispetto alla

media dell’area (di norma, quelle meno esposte a shock asimmetrici) alle economie a

più basso tasso di crescita del PIL rispetto alla media dell’area (di norma, quelle più

esposte a shock asimmetrici).

Tuttavia, le istituzioni dell’Unione Europea, in primo luogo la Commissione ed il

Parlamento, non si sono finora poste con convinzione l’obiettivo di centralizzare i

bilanci pubblici nazionali. In primo luogo, un’unione fiscale – ovvero un budget

ampio in luogo dell’attuale magro bilancio (poco più dell’1% del PIL europeo)

destinato prevalentemente alla politica agricola comune e ai fondi di coesione – non

incontra il favore né dei governi dei paesi più forti dell’UME, né della Commissione

europea.

I conflitti di interessi fra i governi nazionali hanno rallentato l’“integrazione

positiva”, ovvero politiche comuni tali da portare non solo all’effettiva realizzazione

delle “quattro libertà” (la libera circolazione fra i paesi di lavoro, capitali, beni e

servizi, la cui piena attuazione è ancora parte impedito dalle legislazioni nazionali),

ma anche al federalismo fiscale. L’Europa ha infatti proceduto sulla strada

dell’“integrazione negativa” – in breve, l’abbattimento delle barriere doganali e delle

altre normative protezionistiche (Scharpf, 2002) – senza prevedere la costruzione di

istituzioni comuni in grado di attuare politiche fiscali aventi come obiettivo i suoi tre

classici obiettivi: 1. la stabilizzazione macroeconomica (ovvero, come sopra

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accennato, l’attuazione di una politica anti-ciclica comune in casi di recessione, che

sostenga il reddito dei paesi colpiti da una variazione del PIL inferiore rispetto al

tasso di crescita medio del PIL dell’UME); 2. la redistribuzione del reddito (le varie

voci della protezione sociale di norma operano trasferimenti netti di reddito a favore

dei soggetti “svantaggiati”; 3. la funzione di allocazione delle risorse, ovvero la

produzione di beni pubblici.

La mancata centralizzazione della politica fiscale ha anche avuto l’effetto di

permettere a singoli paesi di usare la propria politica fiscale per difendere la propria

competitività attraverso la bassa tassazione. La competizione fiscale replica il

coordinamento spontaneamente realizzato dal mercato. Fintantoché la Commissione

europea di Bruxelles non persegue una policy di armonizzazione fiscale, ed il

coordinamento fiscale spontaneo fra i governi dell’area valutaria non decolla, le

aliquote della tassazione di beni e capitali vengono naturalmente determinati dalle

forze di mercato.

Prendiamo l’esempio della tassazione del capitale. I governi nazionali si

trovano di fronte a due incentivi in conflitto: 1) all’interno di un’area valutaria si

determina una interazione strategica in cui ciascun paese tenta di fissare un saggio di

tassazione sul capitale più basso di quello degli altri paesi membri, per assicurarsi un

vantaggio decisivo nella competizione per gli FDI; 2) fissare un alto saggio di

tassazione per sottoporre ad un forte prelievo fiscale i proprietari esteri di imprese

localizzate nel proprio paese. A prevalere è la strategia di attrarre investimenti

dall’estero attraverso un livello di tassazione tanto più ridotto quanto più mobile è il

fattore capitale. La prova che sia questa la strategia dominante è rappresentata dalla

chiara tendenza di tutti i paesi – costretti a mettere in pareggio il bilancio pubblico

senza aumentare la pressione fiscale complessiva - a trasferire il peso maggiore della

raccolta fiscale dal fattore capitale al fattore lavoro.

Integrazione finanziaria e risk sharing

I sistemi di protezione sociale, a cominciare dalla difesa del tenore di vita attraverso i

sussidi di disoccupazione, una volta che una crisi economica abbia creato

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disoccupazione, sono di norma organizzati dal settore pubblico. Nell’unione

monetaria potrebbero tuttavia maturare le condizioni per una condivisione fra gli

individui - invece che fra gli Stati - del rischio delle fluttuazioni nel livello del

reddito.

Per chiarire tale ipotesi di un autonomo ruolo dell’individuo nell’assicurazione dei

rischi occorre fare un passo indietro. Robert Mundell, nel 1961, escluse la formazione

di un’area valutaria in Europa, poiché non avrebbe potuto risultare “ottima” per un

insieme di paesi caratterizzati da un’alta frequenza di shock asimmetrici, essendo

troppo basse sia la reattività dei salari alla disoccupazione che la mobilità del lavoro.

In un lavoro del 1973, comunemente definito “Mundell II”, l’economista canadese ha

però rivisto la sua posizione. Fra i mutamenti strutturali che hanno indotto Mundell a

cambiare opinione, il principale è la liberalizzazione dei movimenti dei capitali. La

globalizzazione finanziaria ha accresciuto il peso degli operatori dei mercati dei

capitali nella determinazione della parità relative fra le valute, e si è parallelamente

ridotto il potere di regolazione dei cambi fino ad un trentennio fa saldamente detenuto

dalle autorità monetarie nazionali. È conseguentemente diminuita l’efficacia della

svalutazione come strumento di superamento delle fasi recessive; il costo della

rinuncia ad una propria moneta ne è uscito ridimensionato.

Un corollario di questa revisione teorica è l’esternalità positiva di cui gode un

soggetto che risieda in un’ampia area valutaria, nel momento in cui cerca di

assicurarsi contro il rischio macroeconomico. L’adozione di una valuta comune

annulla per definizione il rischio di cambio fra i paesi dell’area valutaria e quindi

favorisce la diversificazione verso i titoli esteri. Può la gestione di un portafoglio di

titoli dei mercati finanziari dell’intera area valutaria - da parte di una massa critica di

risparmiatori residenti nei vari paesi dell’area - rappresentare uno schema efficace di

assicurazione? Robert Mundell, e molti altri economisti, rispondono positivamente.

In assenza del rischio di cambio, l’investitore dell’area valutaria godrà dei vantaggi

offerti dal processo di integrazione economica, a cominciare dall’opportunità di

investire in azioni denominate in un’unica valuta ed emesse da un sistema di imprese

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che beneficia dell’apertura dei mercati ad un crescente interscambio commerciale. La

decisione dei risparmiatori di ciascun paese di impiegare una quota crescente del

proprio risparmio in un portafoglio diversificato di attività finanziarie degli altri paesi

dell’area si configura di fatto come uno strumento di livellamento nel tempo di

reddito e consumo.

Qualora infatti uno shock macroeconomico colpisca il proprio paese ed il

flusso di reddito individuale si riduca (riduzione dell’orario nel caso di lavoro

dipendente, del giro d’affari nel caso di lavoro autonomo) o si interrompa (perdita del

lavoro o chiusura dell’attività), i risparmiatori che hanno diversificato constateranno

che il proprio livello di consumo intertemporale è in una certa misura protetto dagli

effetti dello shock negativo. Il comportamento razionale del risparmiatore, ovvero

l’ottimizzazione di portafoglio consistente nell’aggiustamento delle quote relative

delle attività finanziarie in funzione dei rispettivi rendimenti attesi, di fatto svolge una

funzione assicurativa del rischio macroeconomico. In presenza di cicli economici non

sincroni fra i paesi dell’UE, la discesa del reddito da lavoro dipendente o autonomo

percepito nel proprio paese dovrebbe trovare compensazione nell’incremento dei

redditi finanziari conseguenti al ciclo economico favorevole attraversato da altre

economie dell’area valutaria. Quanto maggiore è la diversificazione di portafoglio da

parte del lavoratore-risparmiatore, tanto più i titoli (azioni o obbligazioni) emessi

dalle imprese dei paesi in espansione – che conseguentemente conoscono alti profitti

e perciò guadagni nelle quotazioni di borsa - possono garantire lo “smussamento”

delle fluttuazioni del reddito negative causate dai titoli dei paesi a bassa crescita. In

un’unione monetaria, all’aggiustamento di mercato ed alle politiche

macroeconomiche di stabilizzazione andrebbe dunque ad aggiungersi la funzione

assicurativa che i soggetti privati possono affidare ai mercati finanziari.

Questa ottimistica tesi tende a sottovalutare che soltanto in un sistema di

mercati dei capitali perfetti si potrebbe guardare ai titoli come a delle polizze dalle

quali ci si attende un flusso di reddito in caso di futuri eventi negativi. L’efficacia

della diversificazione di portafoglio come strumento di assicurazione dei

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risparmiatori contro il rischio di instabilità macroeconomica è direttamente

proporzionale al grado di concorrenzialità e di trasparenza che il processo di

integrazione finanziaria europea riuscirà a trasmettere ai mercati. Tanto più efficiente

diverrà il funzionamento dei mercati integrati dei capitali europei, tanto maggiori

saranno la profondità finanziaria e le potenzialità di diversificazione

dell’investimento, e quindi tanto maggiori saranno le opportunità di fare svolgere a

tali mercati la funzione di risk-sharing fra i risparmiatori europei.

I mercati dei capitali europei sono ancora lontani dall’avere raggiunto una

capacità di assicurazione tale da permettere un effettivo livellamento intertemporale

del reddito individuale. Il test di Feldstein e Horioka (1980) misura l’integrazione dei

mercati finanziari mediante un coefficiente che esprime il grado di correlazione fra

formazione di risparmio e volume degli investimenti: un basso valore di tale

coefficiente – nell’indicare una scarsa dipendenza del finanziamento

dell’investimento dal risparmio nazionale – segnala al contempo che i risparmiatori

del paese tendono a formare un portafoglio di attività finanziarie molto diversificato

verso le attività trattate nei mercati finanziari esteri. L’ottimo risk-sharing si realizza

allorché in un paese la crescita del consumo si presenta perfettamente correlata

(valore uguale ad 1) con la crescita media del PIL e del consumo dell’area valutaria

di appartenenza.

I dati statistici dicono che si è avuto, nell’ultimo quarantennio, un forte

incremento dell’integrazione fra i mercati finanziari e che è notevolmente aumentata

la propensione dei risparmiatori verso i titoli degli altri paesi membri dell’UE nella

composizione dei portafogli: a fine anni ’90, il coefficiente di Feldstein – Horioka per

l’UE-15 è sceso dall’iniziale 80% al 18% (similmente, il coefficiente è diminuito dal

91% al 20% per USA, Canada, Giappone, Svizzera, Australia, Nuova Zelanda). Tale

cifra è ancora molto inferiore rispetto al valore pari ad uno della correlazione del PIL

e del consumo nazionali dei singoli paesi con i valori medi UME che rappresenta la

pre-condizione affinché i mercati finanziari possano svolgere una funzione

assicurativa. La presenza di una significativa “distorsione paese” (home bias) nella

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diversificazione dei portafogli finanziari del risparmiatori europei è un indicatore

indiretto di un’insufficiente capacità assicurativa dei diversi mercati finanziari

europei, che deriva in primo luogo dalla lentezza del processo di armonizzazione

delle normative nazionali.

In effetti, il coefficiente di correlazione fra risparmio nazionale ed investimento

nei paesi dell’UME era significativamente diminuito nei primi anni della moneta

unica, in particolare dal 2004 al 2007. La crisi finanziaria e la successiva Grande

Recessione hanno provocato tuttavia un brusco arretramento nella integrazione

finanziaria stimolata dall’introduzione dell’euro. I capitali delle banche e delle

istituzioni finanziarie del Centro, che erano stati investiti in attività finanziarie dei

settori pubblico e privato della Periferia per godere del differenziale di tasso di

interesse (seppur limitato, data la fine del premio per il rischio sulla valuta) sono stati

disinvestiti e rivolti a più sicuri investimenti in patria.

3. Dal Sistema Monetario Europeo all’Unione Monetaria Europea

Uno dei motivi per i quali un gruppo di paesi ha raramente dato vita ad

un’unione monetaria senza avere in precedenza realizzato un’unione politica è

la fiducia che deve accompagnare la nuova valuta una volta introdotta nei

mercati. Una moneta circola fra i cittadini di una entità statuale in quanto è

unanime la fiducia che il segno monetario verrà accettato come mezzo di

estinzione dei debiti. Naturalmente, il crisma della sovranità monetaria non

viene acquisito da una valuta nel momento in cui un atto giuridico ne dichiara

l’entrata in circolazione. I problemi di credibilità che la lira incontrò nei mercati

finanziari europei nei primi due decenni del Regno d’Italia, al punto da rendere

necessaria l’introduzione del corso forzoso, indicano che la reputazione viene

conquistata nel corso di un lungo processo di costruzione della fiducia.

Con la costituzione dell’UME si è creata una valuta che non porta sui biglietti e sulle

monete il sigillo di un potere statuale, ma sarebbe sbagliato pensare che l’euro sia

nato per una sorta di supremazia acquisita dall’economia sulla politica. Anche nel

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caso di questa “moneta senza stato”, le motivazioni politiche si sono infatti

fortemente intrecciate con le motivazioni di efficienza economica, e spesso hanno

fatto aggio su queste ultime. L’aspirazione all’unificazione monetaria è una costante

della storia europea da quasi due secoli. Sebbene abbia avuto realizzazione soltanto a

cavallo del millennio, essa trovò espressione già nel XIX secolo. La formazione dello

stato unitario in Italia (1861) ed in Germania (1871) generò due unioni monetarie. In

quegli stessi anni videro la luce anche due accordi valutari. Il primo fu l’Unione

Monetaria Latina, l’accordo del 1865 (che durò, fra alterne vicende, fino al 1926) fra

Belgio, Francia, Italia e Svizzera, con l’adesione della Grecia nel 1868 e poi anche di

altri paesi, consistente nell’emissione di monete di oro e di argento con eguale

contenuto. Il secondo fu l’Unione Monetaria Scandinava, creata nel 1872 da

Danimarca, Norvegia e Svezia e imperniata sulla doppia circolazione della moneta

nazionale e di una moneta comune, nell’ambito del sistema del gold standard e

dissolta con la prima guerra mondiale.

L’aspirazione all’unificazione monetaria ha ricevuto un nuovo impulso nel

1970, quando il Consiglio dei ministri della Comunità Europea diede l’incarico ad un

comitato di esperti presieduto dal Primo ministro lussemburghese Pierre Werner di

studiare la possibilità di dar vita all’unione monetaria. Il Rapporto Werner, fissava

una serie di tappe per la realizzazione dell’unione monetaria, da portare a

compimento entro il 1980. Fra la dissoluzione dell’ordine monetario di Bretton

Woods e la crisi petrolifera del 1973-74, ebbe breve vita (dall’aprile 1972 al dicembre

1974) un accordo, conosciuto con il nome di “serpente valutario”, cui parteciparono

Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo e, per periodi brevi, anche Italia, Francia e

Regno Unito. I paesi aderenti si impegnavano al coordinamento fra i tassi di cambio

con l’obiettivo di ridurre le esternalità negative che reciprocamente si determinavano

fra i paesi europei a causa dell’autonoma fluttuazione delle loro valute rispetto al

dollaro USA. L’accordo tuttavia fallì il suo obiettivo: tutto il peso della correzione

necessaria a preservare la catena di parità fra i tassi di cambio avrebbe dovuto essere

sostenuto dai paesi a valuta debole, senza che fossero previsti strumenti di

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concessione di credito che permettessero loro di fronteggiare gli attacchi della

speculazione internazionale. Nel marzo del 1979 per iniziativa del Cancelliere

tedesco Helmut Schmidt e del Presidente francese Valery Giscard d’Estaing, i paesi

della CEE sottoscrissero un accordo per l’introduzione di cambi fissi fra le rispettive

valute. L’accordo valutario, al quale non aderì il Regno Unito, prese il nome di

Sistema Monetario Europeo (SME).

4. L’assetto istituzionale del Sistema Monetario Europeo

L’ambizioso obiettivo che i fondatori dello SME si posero nel 1979 era quello di

instaurare in Europa la stabilità monetaria dopo le turbolenze degli anni precedenti.

Di fronte alla forte instabilità macroeconomica che negli anni ’70 succedette a due

decenni di crescita equilibrata, i paesi europei si erano trovati impreparati. Nel 1973-

74, a seguito della guerra dello Yom Kippur, il prezzo del petrolio quadruplicò; un

ulteriore forte incremento si ebbe poi nel 1979-80. La traslazione degli accresciuti

costi sui prezzi dei beni non fu sempre completa, perché dipendeva dalla capacità

delle imprese di mantenere rigido il mark-up. I rinnovi dei contratti salariali, e

l’introduzione di meccanismi automatici di indicizzazione, alimentavano una spirale

salari-prezzi. In molte economie europee, si registrò un forte incremento del costo del

lavoro per unità di prodotto (CLUP). Alla crescita dei prezzi contribuiva una politica

monetaria diretta ad “accomodare” la domanda di finanziamento sia del settore

privato che del settore pubblico. I processi inflazionistici indebolivano le bilance

commerciali e quindi anche i tassi di cambio delle valute dei paesi a più alta dinamica

del CLUP. Poiché il meccanismo di inflazione-svalutazione consentiva di recuperare

la perdita di competitività subita nei mercati esteri a causa dell’inflazione, i governi

vedevano con favore che il cambio venisse lasciato libero deprezzarsi. Tuttavia, le

politiche monetarie e fiscali espansive, comportando aspettative e tassi di inflazione

in crescita, accentuavano il conflitto distributivo interno; e le svalutazioni competitive

non riuscivano a garantire che brevi periodi di incremento delle esportazioni. Nel

corso degli anni ’70, il sostegno assicurato alla domanda dalle esportazioni andò

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declinando. Le difficoltà incontrate nell’affrontare in maniera non cooperativa

l’instabilità macroeconomica convinse gli otto governi dei paesi aderenti allo SME ad

un mutamento radicale di strategia. L’impegno a seguire una politica monetaria

orientata alla difesa di cambi fissi significò “legarsi le mani” con un vincolo esterno

(Putnam, 1988). L’adesione allo SME esprimeva la speranza che la bassa inflazione si

sarebbe imposta a imprese e sindacati come il bene pubblico da cui tutti avrebbero

tratto vantaggio (Giavazzi e Pagano, 1988).

L’accordo prevedeva che i tassi di cambio fossero fissi ma aggiustabili. Nei

primi anni di vita dello SME, quando una o più banche centrali dichiaravano di non

riuscire a tenere fede all’impegno di difendere le loro parità con manovre restrittive,

si fece spesso ricorso – durante i week-end, a mercati finanziari chiusi - al

riallineamento delle parità centrali. Lo strumento tecnico consisteva nella

modificazione delle parità bilaterali del cosiddetto meccanismo dei tassi di cambio

(MTC). La duplice banda di oscillazione (verso l’alto e verso il basso) attorno alla

parità centrale definiva l’intervallo di tolleranza entro il quale le banche centrali

erano al riparo da attacchi speculativi alle rispettive valute. Fino al 1993 la banda fu

del ±2,25%, ma margini più ampi (±6%) vennero concessi all’Italia (fino al passaggio

alla banda stretta fra il gennaio 1990 ed il settembre 1992) e al Regno Unito durante

la sua adesione fra il 1990 ed il 1992.

L’assetto istituzionale dello SME è stato definito di tipo asimmetrico. Le

politiche monetarie nazionali non venivano coordinate, in quanto si affermò

progressivamente l’egemonia del marco tedesco. Vediamo allora le ragioni

dell’asimmetria di politica monetaria.

Alla nascita dello SME, i divari fra i tassi di inflazione superavano a volte i 10

punti percentuali. Questi divari posero gravi problemi alle banche centrali. Benché il

cambio della valuta tendesse ad indebolirsi, esse non potevano deflazionare le proprie

economie mediante un’improvvisa “gelata” di liquidità: la cura avrebbe avuto

probabilmente l’effetto di uccidere il malato. Supponiamo che in un paese ad alta

inflazione, ad esempio l’Italia, un peggioramento della bilancia dei pagamenti con la

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Germania provochi la riduzione dell’offerta di moneta. È quanto accadde nella prima

metà degli anni ’80 quando l’economia italiana subì una perdita di competitività, che

causò un saldo commerciale di segno negativo. Un’economia con una dinamica dei

costi di produzione più rapida di quella dei principali concorrenti europei incontra

difficoltà a frenare la perdita di competitività. Un riallineamento delle parità bilaterali

della lira poteva essere solo ritardato dallo strumento amministrativo del controllo dei

movimenti dei capitali e dagli interventi di vendita di marchi nei mercati valutari. Per

ridurre la frequenza delle richieste di riallineamento, fu creata l’unità di conto

europea (European Currency Unit: ECU), una valuta fittizia consistente nel paniere

delle valute, ciascuna pesata per il PIL del proprio paese sul PIL totale. In caso di

tensioni sui cambi, l’ECU avrebbe dovuto segnalare tempestivamente se, all’interno

della banda bilaterale di oscillazione, andasse considerata responsabile del

raggiungimento del margine massimo di deprezzamento la valuta a rischio di

svalutazione o invece la valuta in apprezzamento. Pertanto, l’ECU avrebbe dovuto

fungere da indicatore di divergenza, segnalando alla banca centrale della valuta

“deviante” la necessità di porre un deciso ed immediato freno alla crescita monetaria.

L’ECU non venne di fatto mai utilizzato allo scopo di individuare la valuta

“deviante”. Lo SME divenne presto un sistema di cambi fissi nel quale le condizioni

di liquidità all’interno dell’area non venivano determinate su base cooperativa dalle

banche centrali ma piuttosto in modo egemonico dalla Bundesbank. Non è difficile

comprendere le ragioni che portarono a questo assetto asimmetrico dello SME. In un

sistema di cambi fissi fra n paesi occorre stabilire solo n-1 parità bilaterali. Se le

parità bilaterali fossero state determinate come il valore di ciascuna valuta rispetto

all’ECU, si sarebbe dato vita ad uno SME “cooperativo”. In assenza di un credibile

meccanismo di coordinamento, le n-1 parità bilaterali finiscono per essere vincolate

al tasso di cambio determinato dalla politica monetaria della banca centrale che si

guadagna il privilegio di essere considerata quella che emette l’n-sima valuta. In un

accordo finalizzato al ripristino della stabilità monetaria, la Bundesbank emerse come

la banca centrale che mostrava maggior determinazione a seguire una rigorosa

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strategia anti-inflazionistica, ed al contempo apparteneva al paese dotato della

struttura produttiva più forte e con estese ramificazioni nel sistema finanziario

europeo (l’area finanziaria formata da Germania, Danimarca e Benelux si presentava

molto integrata già all’avvio dello SME). Le parità bilaterali del MTC furono

concepite come rapporto di ciascuna delle n-1 valute rispetto ad una n-esima valuta.

Alla Bundesbank fu di fatto riconosciuta la posizione di n-esima banca centrale. Di

conseguenza, il marco tedesco conquistò il ruolo di àncora nominale del MTC e la

Bundesbank poté godere del privilegio consistente nella libertà di determinare un

obiettivo quantitativo di crescita monetaria tarato sulle condizioni macroeconomiche

della sola Germania, piuttosto che su quelle dell’intera zona valutaria a cambi fissi.

Nei paesi ad “alta” inflazione, la svolta restrittiva di politica monetaria imposta

dalla partecipazione allo SME limitò l’autonomia delle banche centrali

nell’accomodare gli incrementi dei costi di produzione attraverso l’aggiustamento

delle grandezze nominali. Tuttavia permaneva il problema della divergenza reale,

ovvero una dinamica del CLUP tale da mettere a repentaglio la competitività sui

mercati esteri e spingere il deprezzamento della valuta fino al limite superiore della

banda di oscillazione.

Tutti i paesi partecipanti al MTC – ad eccezione della Germania - dovettero

ricorrere a numerosi aggiustamenti delle parità di cambio nel periodo 1979-86. I

riallineamenti fra le valute non compensavano in tutta la loro ampiezza i differenziali

inflazionistici. La logica dei cambi dello SME era quella di essere fissi ma

aggiustabili. Tale grado di flessibilità andava però interpretato in modo che non

venissero vanificati né l’impegno alla difesa dei cambi né l’incentivo a perseguire

l’obiettivo della disinflazione. Pertanto, fra i governatori delle banche centrali si

affermò la convenzione per cui la percentuale di aggiustamento delle parità bilaterali

da concedere alle valute in difficoltà non dovesse coprire l’intero differenziale di

tasso di inflazione di quei paesi con l’ECU.

Una prima prova del fatto che il funzionamento dello SME andò

progressivamente imperniandosi sulla posizione dominante della Germania è la

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politica di pegging col marco tedesco. Attraverso la strategia di legare la propria

creazione di base monetaria alla crescita monetaria stabilita dalla Bundesbank, le

altre banche centrali hanno cercato di “importare” la strategia anti-inflazionistica

seguita dalla banca centrale tedesca. Con la politica di pegging, i governatori delle

banche centrali degli altri paesi dello SME si prefiggevano l’obiettivo di acquisire –

attraverso una maggiore credibilità dell’orientamento anti-inflazionistico della

politica monetaria – la fiducia nella serietà dell’impegno a difendere i cambi fissi.

Seguire tale regola di crescita monetaria rendeva quindi meno impervio il

conseguimento dell’obiettivo della stabilità del cambio delle rispettive valute con il

marco in presenza di ampi differenziali inflazionistici con la Germania. La

Bundesbank ha potuto di fatto decidere la liquidità dell’intera area dello SME

appunto perché le n-1 banche centrali degli altri paesi regolavano la propria politica

monetaria sulla crescita monetaria del paese con l’n-esima banca centrale.

Una seconda prova dell’assetto egemonico assunto dallo SME è il fatto che

l’autonomia della Bundesbank nella determinazione della crescita del proprio

aggregato monetario non ha sostanzialmente incontrato ostacoli (Farina, 1990). Le

banche centrali impegnate a superare una fase di instabilità macroeconomica ed a

difendere la propria valuta da attacchi speculativi effettuano di routine interventi nei

mercati valutari impiegando le proprie riserve internazionali nel riacquisto della

propria valuta. Per facilitare tali operazioni di mercato aperto, lo SME prevedeva la

concessione di credito della durata di 3 mesi (very short-term financing facility) da

prelevare da un fondo comune alimentato dai contributi di tutti i paesi partecipanti.

Poiché questo strumento non era in grado di entrare in funzione tempestivamente, le

banche centrali dello SME le cui valute attraversassero una fase di deprezzamento

hanno spesso fatto ricorso a manovre di acquisto della propria valuta nel mercato –

mediante la vendita di marchi detenuti nelle proprie riserve internazionali – al fine di

sostenere il tasso di cambio all’interno della griglia delle parità bilaterali.

Tali operazioni di mercato aperto contrastavano però con la politica monetaria

della Bundesbank, orientata a stabilizzare le condizioni macroeconomiche della

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Germania. Ogniqualvolta la banca centrale di un paese con una bilancia dei

pagamenti in rosso (ed eventualmente sottoposta ad un attacco speculativo allo scopo

di lucrare profitti puntando alla revisione della parità ufficiali nei mercati valutari)

abbia operato un intervento di vendita di marchi per sostenere la propria valuta, la

Bundesbank ha provveduto a ripristinare le condizioni monetarie preesistenti. Onde

impedire l’incremento della quantità di marchi in circolazione provocato dalle

vendite effettuate dalle banche centrali della valuta in difficoltà, la Bundesbank

attuava una manovra di “sterilizzazione”: la distruzione, attraverso operazioni di

mercato aperto di segno opposto, dell’eccesso di marchi rispetto alla circolazione

fissata dal proprio obiettivo di crescita monetaria. Le autorità monetarie tedesche non

hanno mai voluto tenere in conto l’eventualità che all’origine di una forte deviazione

del marco dalla parità centrale - piuttosto che la debolezza di una o più valute dello

SME - vi fosse la propria politica del cambio (ad esempio, una manovra diretta a

contrastare una tendenza del marco a svalutarsi rispetto al dollaro). È stata questa una

ragione non secondaria del mancato impiego dell’ECU come strumento di

individuazione della valuta deviante. Con la strategia di volere stabilire in piena

autonomia le complessive condizioni di liquidità dell’area dello SME, la Bundesbank

ha inteso comunicare a banche centrali, governi e mercati che la Germania non era

disposta a condividere con le banche centrali di altre valute il costo

dell’aggiustamento di tensioni in cui fossero coinvolte le proprie parità bilaterali.

5. L’evoluzione del Sistema Monetario Europeo

Esamineremo ora la performance macroeconomica delle varie economie partecipanti

allo SME lungo i venti anni che vanno dalla sua costituzione (1979) al passaggio ai

cambi irrevocabilmente fissi (1999), preludio all’introduzione dell’euro il 1 gennaio

2002. Ripartiamo i paesi in tre gruppi: 1) Centro, costituito dalla Germania, dai

cosiddetti paesi dell’area del marco (Belgio, Olanda, Lussemburgo e Danimarca) e

dalla Francia (che, dopo i primi anni di alta inflazione, nel 1989-91 raggiunse una

stabilità monetaria pari a quella tedesca); 2) Periferia A, costituita da Italia, Spagna e

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Regno Unito; 3) Periferia B, costituita da Irlanda, Portogallo e Grecia. Come è noto,

Danimarca e Regno Unito non hanno poi partecipato al varo dell’Eurozona.

Questa ripartizione, benché aggreghi paesi che hanno aderito allo SME in date

differenti – tra i paesi della Periferia, soltanto Italia ed Irlanda hanno partecipato allo

SME fin dall’inizio - mette in luce la loro diversa posizione riguardo ai due caratteri

di fondo del cammino verso l’integrazione monetaria ed economica: 1) il processo di

convergenza nominale, che è riflesso dalla distinzione fra Centro e Periferia, in

quanto la Germania (e gli altri paesi della cosiddetta “zona del marco”) hanno

mediamente presentato tassi di inflazione e di interesse nominale alquanto inferiori

rispetto a quelli dei paesi periferici; 2) il processo di convergenza reale, che vede i

paesi della Periferia A collocarsi a metà strada fra il Centro ed il gruppo di paesi della

Periferia B che nel 1979 presentavano un ritardo in termini di reddito pro capite più

elevato rispetto al Centro.

Per i paesi che di volta in volta vi hanno aderito, lo SME ha rappresentato il

sistema di incentivazione per la lotta all’inflazione. Il conseguimento della

convergenza nominale era infatti la pre-condizione per affrontare il problema della

convergenza reale. Le vicende dello SME si possono suddividere in tre periodi. Il

primo periodo dello SME (1979-86) vide molte revisioni delle parità centrali. Il

secondo periodo (1987-1993) fu caratterizzato dall’assenza di riallineamenti dei

cambi fissi. Dopo la crisi dello SME del 1992-93, il margine di oscillazione fu

allargato dal ±2,25% al ±15%. Consentire un deprezzamento di ben 15 punti rispetto

alla parità centrale mette di fatto una valuta al riparo dal pericolo di attacchi: gli

speculatori internazionali non sono in grado di mobilitare gli enormi quantitativi di

capitale necessari a provocare una svalutazione. Durante il terzo periodo dello SME

(1993-98), il meccanismo di imposizione della regola (enforcement) della stabilità

monetaria, rappresentato dall’impegno delle banche centrali a difendere le parità fisse

– pena la svalutazione e la conseguente perdita di credibilità della politica monetaria

come principale strumento della lotta all’inflazione – era ormai privo di efficacia.

L’enforcement della convergenza nominale passò così dallo SME ai “criteri di

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Maastricht”. All’impegno a difendere le parità bilaterali del MTC si sostituì la “regola

fissa” dei valori cui fare convergere tasso di inflazione, tasso di interesse, deficit

pubblico e debito pubblico.

A conclusione di questa ricostruzione dell’avvio del processo di unificazione

monetaria in Europa, descriviamo sinteticamente l’evoluzione dello SME e

l’andamento delle principali variabili coinvolte nella convergenza nominale. I molti

riallineamenti che ebbero luogo nel corso della prima fase dello SME (1979-86)

erano la conseguenza della debolezza della bilancia commerciale causata dagli ampi

differenziali di tasso di inflazione. Se non avessero potuto beneficiare dello “scudo”

dei controlli sui movimenti dei capitali, molti paesi dello SME non sarebbero stati in

grado di partecipare al MTC al fianco di paesi con una più ridotta dinamica dei

prezzi. Gli ampi differenziali di inflazione, dovuti al fatto che le dinamiche dei costi

di produzione ed il grado di rigore di governatori e ministri del Tesoro differivano

molto fra i vari paesi, rendevano poco credibili le parità bilaterali (Farina, 1993).

Nonostante il controllo sui movimenti di capitali consentisse di allontanare nel tempo

l’aggiustamento delle parità bilaterali, i riallineamenti dei tassi di cambio –

soprattutto nei primi quattro anni - furono numerosi. L’intonazione restrittiva della

politica monetaria non riusciva infatti a porre un freno alla spirale salari-prezzi

alimentata da aspettative di inflazione al rialzo. Il conseguente basso grado di

credibilità della politica monetaria spingeva gli operatori dei mercati finanziari a

frequenti attacchi speculativi nei confronti delle valute che si avvicinavano al

margine superiore della banda. Nella Tabella 1, sono riportate date ed ampiezza degli

aggiustamenti nelle parità centrali espresse in rapporto al marco tedesco,

conformemente alla strategia “egemonica” mediante la quale la Bundesbank finiva

per regolare la quantità di moneta circolante in tutta l’area dello SME.

Nonostante i riallineamenti, l’impegno delle banche centrali a realizzare la

disinflazione non venne meno. L’adeguamento del cambio nominale alle divergenze

fra le economie reali veniva di volta in volta attuato in una misura tale da annullare

solo una percentuale mediamente compresa fra un mezzo e i due terzi del

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differenziale di inflazione maturato da una svalutazione all’altra. Lo scopo era quello

di rendere efficace la partecipazione allo SME “legandosi all’albero maestro”,

secondo la nota metafora ispirata al comportamento di Ulisse di fronte alle sirene, e

cioè tenere a freno la tentazione di risolvere le tensioni inflazionistiche sul piano dell’

“accomodamento” monetario.

Tabella 1 – Riallineamenti delle parità bilaterali con il marco tedesco: 1973-1993 (Il trattino indica che la parità della valuta con il marco non ha subito variazioni nel

riallineamento delle parità bilaterali)

Francia Italia

(*)

Olan

da

Belgio Danimarc

a

Irlanda Spagna

(*)

Portogal

lo (*)

Regno

Unito

(**)

24/09/1979 -2,00 -2,00 -2,0 -2,00 -5,00 -2,00

30/11/1979 - - - - -5,00 -

23/03/1981 - -6,00 - - - -

05/10/1981 -8,50 -8,50 - -5,50 -5,50 -5,50

22/02/1982 - - - -8,50 -3,00 -

14/06/1982 -10,00 -7,00 - -4,25 -4,25 -4,25

21/03/1983 -8,00 -8,00 -2,0 -4,00 -3,00 -9,00

22/07/1985 - -8,00 - - - -

07/04/1986 -6,00 -3,00 - -2,00 -2,00 -3,00

04/08/1986 - - - - - -8,00

12/01/1987 -3,00 -3,00 - -1,00 -3,00 -3,00

08/01/1990 - -3,70 - - - -

14/09/1992 - -7,00 - - - - - -

16/09/1992 - - - - - -5,00

23/11/1992 - - - - - -6,00 -6,00

01/02/1993 - - - - -10,00 - -

14/05/1993 - - - - - -8,00 -6,50

cumulativa -25,50 - 44,1 -4,0 -24,40 -27,00 -37,10 -17,80 -12,10

(*) Una casella vuota indica che la valuta non faceva parte al meccanismo di tassi di cambio nell’anno in questione: è il caso della peseta spagnola e dello scudo portoghese fino al 1990 e della lira italiana dopo all’uscita dallo SME nel 1992; (**) la sterlina inglese non ha subito alcun riallineamento durante la permanenza del Regno Unito nello SME 1990- 92.

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L’ancoraggio della propria valuta a quella emessa da una banca centrale ad

elevata reputazione anti-inflazionistica era considerata la strategia migliore per

convincere da un lato le imprese ed i lavoratori a migliorare l’efficienza del sistema

produttivo contenendo la dinamica dei costi, e dall’altro i mercati finanziari del rigore

con cui venivano difese le parità di cambio della propria valuta.

La seconda fase (1987-92) si caratterizzò per l’assenza di riallineamenti. Il processo

di completamento del mercato unico si riverberava sullo SME attraverso un più

deciso impegno delle banche centrali a rafforzare l’orientamento restrittivo della

politica monetaria a difesa delle parità bilaterali con il marco. Una certa convergenza

nominale fra le economie - dovuta alla riduzione nei differenziali di costo del lavoro

per unità di prodotto, ed alla strategia di disinflazione perseguita da banche centrali e

governi – stava producendo l’effetto di rallentare la perdita di competitività dei paesi

a più alta inflazione e perciò di rendere le valute “deboli” meno esposte ad attacchi

speculativi. La stabilità delle parità fra le valute indusse molti economisti a formarsi

l’opinione che lo SME stesse conoscendo un “cambiamento strutturale”. Le autorità

monetarie e fiscali dei paesi della Periferia, considerando come ormai acquisita la

fiducia dei mercati internazionali nella credibilità delle politiche macroeconomiche,

finirono per ritenere che non sussistessero più motivi per attacchi speculativi alla

griglia di parità fisse del MTC; in altre parole, che si fosse ormai realizzato il

passaggio ad uno SME “forte” (Giavazzi e Spaventa, 1990). Tale convinzione aprì le

porte alla decisione dei governi europei ad adeguarsi senza indugi alla tendenza

internazionale alla liberalizzazione dei movimenti dei capitali.

Benché i persistenti differenziali fra i valori del CLUP non lasciassero presagire una

diminuzione della pressione delle bilance commerciali sulle parità di cambio, si

procedette con rapidità al definitivo smantellamento degli ostacoli amministrativi alle

operazioni finanziarie e valutarie. In tal modo, si finì per aggiungere una fonte nuova

di volatilità dei cambi – i movimenti dei capitali – alla tradizionale tendenza a

deprezzarsi delle valute delle economie meno competitive. La decisione di

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liberalizzare conferì ai mercati finanziari internazionali il ruolo di arbitri dell’operato

delle banche centrali e dei governi. L’esposizione delle valute dello SME alla

speculazione internazionale ne risultò notevolmente accresciuta.

In presenza di una progressiva crescita dimensionale degli spostamenti di

capitali da un mercato finanziario all’altro, l’andamento dei cambi a termine divenne

un segnale rilevante per comprendere le aspettative dei mercati sulle prospettive delle

valute “deboli” all’interno delle bande di oscillazione delle parità di cambio. Tale

segnale esercitava una pressione sulle banche centrali delle economie con un alto

differenziale di inflazione rispetto alla Germania affinché realizzassero una difesa più

rigorosa del tasso di cambio fisso con il marco. Il timore che le aspettative di

svalutazione causate dai differenziali di inflazione innescassero tensioni speculative

contro la valuta indusse le banche centrali dei paesi più esposti ad innalzare i tassi di

interesse in una misura superiore a quella richiesta dal pegging con il marco.

D’altro canto, la politica fiscale discrezionale si manteneva espansiva,

soprattutto nei paesi con alta disoccupazione. Di conseguenza, l’incremento dei tassi

di interesse si rendeva necessario anche per la necessità di piazzare i titoli a copertura

dei crescenti deficit pubblici. La lunga fase di alti tassi di interesse, perdurata fino a

metà anni novanta, si affermò sia per segnalare la credibilità alla difesa dei cambi

fissi sia per la necessità di accomodare per tutta la sua ampiezza - e cioè senza il

contributo di una riduzione del tasso di interesse tedesco – la remunerazione da

riconoscere agli operatori finanziari per due tipi di rischio:

1) il rischio di svalutazione;

2) il rischio di ripudio del debito pubblico.

Il differenziale di rendimento (rispetto alle attività finanziarie denominate nella valuta

leader dello SME) delle attività finanziarie denominate nelle valute “deboli”, ed

emesse da governi gravati da un elevato rapporto tra debito pubblico e PIL, si è

mantenuto molto ampio per tutti gli anni ‘80. Gli istogrammi in Figura 7.4 mostrano

come i paesi della Periferia A - in presenza di tassi di interesse molto elevati –

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abbiano presentato nella seconda metà degli anni ottanta tassi di crescita molto bassi,

inferiori persino a quelli della Periferia B.

L’adesione alla Comunità Europea ed il diffondersi in Europa di un clima

intellettuale favorevole ad una bassa inflazione indusse altri governi a chiedere ed

ottenere l’ammissione nello SME. Il MTC si estese così a tre nuove valute: la peseta

spagnola nel giugno 1989, la sterlina inglese nell’ottobre 1990 e lo scudo portoghese

nell’aprile 1992. La contraddizione fra cambi fissi ed egemonia del marco tedesco

continuava però a rappresentare una minaccia per la stabilità dello SME. Questa

debolezza strutturale non era destinata ad emergere fino a che il ciclo economico del

paese leader non si fosse distaccato drasticamente dal ciclo economico degli altri

paesi dello SME. Quando ciò avvenne dopo la riunificazione tedesca, i meccanismi di

mercato innescati dalla diversità della fase ciclica di espansione inflazionistica

attraversata dalla Germania, mentre le altre economie dei paesi del MTC erano in

recessione, a determinare lo spostamento di fondi da un paese all’altro.

Figure 7.4. Inflation rates, real growth rates and short term interest rates

-2

0

2

468

101214

1618

1979/86Centre

1987/92Centre

1993/98Centre

1979/86Periphery A

1987/92Periphery A

1993/98Periphery A

1979/86Periphery B

1987/92Periphery B

1993/98Periphery B

Inflation rates Real GDP growth rates Real short term interest rates

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In quei convulsi anni che videro il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi dei

paesi dell’Europa dell’Est, lo shock istituzionale dell’unificazione politica tedesca

andò a sommarsi allo shock che le bilance dei pagamenti stavano subendo con il

progressivo passaggio alla piena libertà dei movimenti dei capitali: la liberalizzazione

dei mercati finanziari fu completata entro la data stabilita del luglio 1990, e la

proclamazione della repubblica di Germania avvenne nel novembre del 1990. Questi

due shock si rivelarono troppo destabilizzanti per un accordo di cambi fissi che aveva

nella “dominanza tedesca” il suo punto di forza ed al tempo stesso la sua principale

debolezza. Le tensioni valutarie che ne conseguirono portarono nel settembre 1992

all’uscita di lira e sterlina dallo SME. Il cambio lira/marco passò dal livello di 765,4

lire (venerdì 11 settembre 1992) a 983,7 lire (24 febbraio 1993), per poi stabilizzarsi

nella fascia 900-1.000 lire. La lira si svalutò del 30% in quattro mesi raggiungendo

nel marzo 1995, il deprezzamento massimo pari a 1.274 lire contro il marco: + 66%

rispetto al settembre 1992.

Esaminiamo allora brevemente le cause di fondo del collasso dello SME,

introducendo il concetto del “Quartetto impossibile”. Secondo questa analisi, i

seguenti quattro potenziali caratteri di un’unione economica e monetaria in economia

aperta - 1. Mercato unico; 2. Tassi di cambio fissi; 3. Autonomia della politica

monetaria e 4. Liberalizzazione movimenti di capitale - sono mutualmente

incompatibili. Prescindendo per semplicità dal mercato unico, obiettivo ormai

consolidato, si fa riferimento alla “Tripletta impossibile”.

“Tripletta impossibile”

CAMBI FISSI STABILI

↑ ↑

controlli sui mov. capitali pegging

↓ ↓

AUTONOMIA POL.MON.← cambi flessibili → LIBERTA’ MOV. CAPITALI

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Soltanto due obiettivi sui tre indicati in stampatello sono al contempo realizzabili. In

corsivo e grassetto, i regimi monetari corrispondenti alla scelta di ciascuna possibile

coppia di obiettivi (rinunciando al terzo). Con mercati dei capitali liberalizzati, la

stabilità dei cambio fissi implica la rinuncia all’autonomia di politica monetaria (e

quindi uno stretto pegging delle banche centrali all’àncora del sistema di cambi fissi).

Così pure, autonomia della politica monetaria e liberalizzazione dei movimenti di

capitale rendono impraticabile la difesa dei cambi fissi (e quindi inevitabile

l’adozione di tassi di cambio flessibili). Infine, per garantire al contempo l’autonomia

della politica monetaria e la stabilità dei cambi fissi, è necessaria l’imposizione di

controlli sui movimenti di capitale.

Una volta realizzato nel 1990 anche in Europa la libertà di movimento dei

capitali (punto 4), la politica monetaria era destinata a perdere la residua autonomia.

La crisi dello SME mise in luce la debolezza di un accordo di cambi fissi in presenza

di mercati dei capitali liberalizzati, dove la fiducia nella capacità delle banche centrali

di difendere le parità bilaterali con gli altri membri del sistema può essere in ogni

momento revocata in dubbio. Le crisi valutarie del 1992-93 fecero emergere il

problema che si determina in ogni processo di integrazione sia reale che monetaria fra

paesi caratterizzati da diverse condizioni macroeconomiche. Tale problema è appunto

rappresentato dal “quartetto impossibile”: in presenza di un mercato unico (la libera

circolazione di merci, servizi e lavoro), di cambi fissi e di libertà dei movimenti dei

capitali, non si dà anche l’autonomia della politica monetaria. La metafora del

“quartetto impossibile” intende suggerire che l’obiettivo che aveva dato origine allo

SME - il bene pubblico della stabilità monetaria attraverso politiche monetarie che

impedissero il verificarsi di processi di inflazione-svalutazione - diventava di dubbia

realizzazione una volta giunto a compimento il processo di liberalizzazione dei

capitali. I mercati finanziari, consapevoli del fatto che i “fondamentali” di un paese

non potevano più a lungo permettere alla banca centrale di mantenere fisse le parità

della valuta nella griglia del MTC, avrebbero con ogni probabilità proceduto ad un

attacco speculativo. Infatti, fino a che esercitano il potere di emettere moneta, le

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autorità monetarie dispongono di un’autonomia decisionale che rende incompleto il

“contratto” con il quale si sono impegnate con gli altri banchieri centrali a difendere i

cambi fissi. Il potere di signoraggio fa sì che le banche centrali, anche se sono

vincolate da un accordo di cambi fissi, possano pur sempre venire meno all’impegno

della difesa del cambio e mettere in atto un’ “inflazione a sorpresa”.

Il problema del “quartetto impossibile” da questione teorica divenne realtà

appena dopo il manifestarsi dello shock asimmetrico dell’unificazione tedesca. A tale

evento va infatti ricondotto il forte “scollamento” che per la prima volta dalla nascita

dello SME si determinò fra il ciclo economico della Germania e quello degli altri

paesi dell’Europa continentale (e in particolare l’Italia) che attraversavano una fase

recessiva. Questi paesi seguivano il ciclo economico declinante degli Stati Uniti; la

Germania conosceva invece un’espansione caratterizzata da forti tensioni

inflazionistiche: dal lato della domanda, a causa dei programmi di spesa in

investimenti pubblici all’Est e della conversione del marco della DDR con il marco

occidentale secondo l’irrealistico rapporto di 1 a 1; e dal lato dell’offerta, a causa del

vuoto di produzione creatosi con il collasso industriale nei Laender della Germania

Orientale.

Nel settembre 1992 la lira italiana e la sterlina inglese, dopo che le rispettive

banche centrali ebbero dilapidato nel corso dell’estate ingenti riserve valutarie per

resistere ai forti e ripetuti attacchi speculativi, vennero costrette ad uscire dal MTC.

Nel corso del 1993, una nuova ondata speculativa investì il franco francese, la peseta

spagnola, il franco belga e la corona danese. Questa seconda fase speculativa portò

alla decisione di ampliare al 15% i margini di oscillazione. Dal momento che il tasso

di inflazione francese era divenuto il più basso dello SME, apparve evidente (quanto

meno con riferimento al caso francese) che la valuta alla quale attribuire lo

scostamento dalla normale oscillazione attorno alla parità centrale, fosse il marco e la

causa risiedesse nelle difficoltà post-unificazione attraversate dalla Germania.

Nel dibattito sui regimi di cambio, un orientamento teorico sostiene che le

aspettative di svalutazione degli operatori impegnati in attacchi speculativi ad una

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valuta tendano ad auto-avverarsi (Obstfeld, 1986). Questa tesi delle aspettative che si

auto-realizzano (self-fulfilling expectations) è senza dubbio attraente. Ed è vero che la

liberalizzazione e la globalizzazione finanziaria hanno messo la speculazione

internazionale in grado di mobilitare ingenti flussi di moneta trasferibili in tempo

reale da un mercato all’altro e da una valuta all’altra. Riguardo allo SME, tuttavia,

attribuire ai mercati finanziari la responsabilità ultima del collasso sarebbe una

conclusione affrettata. In effetti, diversamente da quanto sostiene la tesi delle self-

fulfilling expectations, si può dire che il MTC con margini di oscillazione del ±2,25%

avrebbe potuto superare lo shock asimmetrico della riunificazione tedesca. Se infatti

la Bundesbank avesse accettato di concedere un ampio finanziamento ai governatori

in difficoltà, il coordinamento fra le operazioni valutarie delle banche centrali

avrebbe posto a difesa dello SME un ammontare di riserve internazionali da

impegnare nell’acquisto delle valute sotto attacco ben superiore all’ammontare dei

capitali mobilitati dalla speculazione finanziaria (Buiter, Corsetti e Pesenti, 2001)

Nell’estate del 1992, di fronte all’indisponibilità della Bundesbank a rinunciare

alla propria politica monetaria restrittiva, molti speculatori internazionali si

convinsero che la debolezza di lira e sterlina rendeva elevata l’aspettativa di profitti

da speculazione sui cambi. La speculazione si realizzò attraverso la vendita di

posizioni non coperte in lire e sterline, per poi riacquistare lo stesso ammontare di

titoli venduto al più basso prezzo conseguito alla svalutazione di queste valute ed

onorare i contratti a termine.

Lo SME “a banda stretta” ebbe termine con la nuova ondata speculativa

dell’estate del 1993, quando la banca centrale tedesca non volle invece accordare

pieno sostegno alle richieste di crediti in marchi avanzate dalla Francia, la cui valuta

era sotto attacco speculativo nonostante i fondamentali fossero sani. Il timore fu che

un ampliamento della circolazione monetaria del marco avrebbe messo a repentaglio

la strategia anti-inflazionistica diretta a contrastare l’instabilità macroeconomica

seguita alla riunificazione. D’altro canto, le pressioni esercitate nel 1993 sulla Banca

di Francia, perché si assumesse l’onere di risolvere la crisi svalutando il franco

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all’interno della griglia delle parità bilaterali del MTC, non andarono a buon fine. La

Francia, promotrice dello SME di concerto con la Germania, non volle che il franco

francese figurasse fra le valute dello SME in posizione subordinata rispetto al marco.

6. Shock di offerta e politica monetaria di stabilizzazione

Nei due decenni che hanno preceduto il varo dell’euro fino al torno del nuovo secolo,

furono gli shock negativi di offerta la principale fonte di instabilità macroeconomica.

Si ricordi che uno shock negativo di offerta – ad esempio un aumento del prezzo delle

materie prime - ha un effetto di incremento della dinamica dei prezzi e di

diminuzione dell’occupazione e della produzione.

Nel modello del ciclo reale con mercati perfettamente concorrenziali,

l’aggiustamento di mercato ha luogo mediante la riduzione dei salari e dei prezzi dei

beni. Le autorità monetarie adottano una politica anti-inflazionistica e le imprese

sono indotte a ridimensionare la forza lavoro occupata (per un’ampiezza

negativamente correlata alla flessibilità del salario nominale), in modo da ottenere

l’incremento nella produttività necessario ad eguagliarne il livello al salario reale e

ripristinare l’equilibrio macroeconomico.

Se invece fattori istituzionali frenano l’aggiustamento di mercato, la fase

ciclica negativa rischia di protrarsi per più periodi. In un quadro di instabilità

macroeconomica caratterizzato da inflazione crescente e produzione calante, è

probabile che le autorità monetarie scelgano la strategia di politica economica diretta

a riassorbire gli effetti dello shock di offerta attraverso l’accelerazione non annunciata

della crescita monetaria. Alla luce del modello del ciclo con rigidità nominali, questa

strategia ha una sua coerenza. La presenza di rinnovi contrattuali scaglionati nel

tempo, settore dopo settore, rallenta la dinamica salariale. Come si è visto nella Parte

Prima, se in presenza di un’espansione monetaria l’adeguamento del salario nominale

è vischioso, il learning degli agenti razionali sulla funzione di comportamento delle

autorità monetarie non ha l’effetto di annullare gli effetti reali della manovra

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espansiva. Venendo a mancare l’immediato adeguamento verso l’alto delle richieste

salariali da parte dei sindacati a fronte dell’aumento dei prezzi da parte delle imprese,

non si determina l’invarianza del salario reale. Al contrario, poiché il salario

nominale cresce lentamente per il suddetto motivo istituzionale, l’aumento più rapido

dei prezzi ha l’effetto di abbassare il salario reale, stimolando quindi la produzione. A

differenza della tesi sull’”inefficacia delle politiche macroeconomiche”, da una

politica monetaria espansiva ha generato un effetto reale, l’incremento della

produzione. Non occorre che il salario reale venga ridotto attraverso una “inflazione a

sorpresa”. Anche se la strategia diretta a sfruttare l’“incoerenza temporale” della

politica monetaria fosse sistematicamente adottata, e quindi agenti razionali sono

consapevoli che la creazione di moneta eccederà la quantità annunciata, la

contrattazione scaglionata impedisce che il salario nominale cresca di quanto stanno

crescendo i prezzi.

Applichiamo questo schema interpretativo al contesto europeo di mercati di

concorrenza imperfetta. Interpretando in base al modello dell’ “incoerenza temporale”

l’alta inflazione che si stabilì in Europa dalla prima metà degli anni ’70 alla prima

metà degli anni ’90, si suole attribuire la forte accelerazione dell’inflazione a

politiche monetarie e fiscali espansive non annunciate, dirette a contrastare la

recessione causata da shock negativi di offerta. La crescita del prezzo delle materie

prime (causata dai due shock petroliferi del 1973-74 e del 1979) e del costo del lavoro

(determinata dai rinnovi contrattuali e dal recupero dell’inflazione attraverso

meccanismi automatici come scala mobile) comportarono un ingente incremento dei

costi di produzione delle imprese. L’erosione del salario reale provocata dalla

traslazione degli accresciuti costi sui prezzi da parte delle imprese, e l’aumentata

incertezza macroeconomica che abbassava la propensione ad investire, determinarono

il fenomeno della “stagflazione”. Le cosiddette “svalutazioni competitive” degli anni

‘70 generarono tassi di inflazione in continuo aumento, la stagnazione della domanda,

ed un forte aumento della disoccupazione. I sindacati furono perciò indotti a chiedere

maggiore protezione sociale: il recupero del potere di acquisto del salario attraverso

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meccanismi di indicizzazione all’aumento del costo della vita (in Italia, prese il nome

di “scala mobile”), ed una difesa dell’occupazione mediante la legislazione a

protezione dei posti di lavoro e istituzioni di Welfare che garantissero una più forte e

più estesa rete di protezione sociale. Nei paesi i cui parlamenti trasformarono queste

richieste in leggi, il mercato del lavoro divenne più rigido.

In molti paesi dell’Europa continentale, le banche centrali perseguirono

l’obiettivo della lotta all’inflazione attraverso la difesa della distribuzione del reddito

antecedente al primo shock petrolifero.

Per approfondire questo problema dobbiamo ritornare all’equazione sottesa

all’analisi dell’inflazione svolta all’inizio mediante la curva di Phillips corretta con le

aspettative. Il tasso di inflazione era lì presentato come una funzione della variazione

del tasso di disoccupazione u rispetto al tasso di disoccupazione naturale uN (è infatti

con il tasso di disoccupazione di breve periodo e quello “naturale” di lungo periodo

che abbiamo in precedenza ragionato sulla curva di Phillips corretta con le

aspettative). In tal caso, ad ogni variazione del tasso di disoccupazione rispetto al suo

valore naturale corrisponderà una variazione in senso opposto del tasso di inflazione.

Alternativamente, potremmo anche considerare il tasso di inflazione funzione

dell’output gap, Definiamo il tasso di inflazione con π, l’output gap

(l’allontanamento del reddito Y dal suo livello potenziale Y*) con (Y – Y*), e il

coefficiente che lega l’output gap al tasso di inflazione con α (ovviamente, dovremo

passare sul lato destro dell’equazione dal segno più al segno meno, e dire che il tasso

di inflazione al tempo t (πt ) si differenzierà (aumenterà o diminuirà) dal suo valore

al tempo t-1 (πt-1 ) in funzione dello scostamento (verso l’alto o verso il basso) del

reddito rispetto al suo valore potenziale:

(πt ) = (πt-1 ) + α (Y - Y*)

L’incremento del tasso di inflazione conseguente ad un output gap positivo sarà tanto

maggiore quanto più sensibili sono i prezzi al mutare del livello del reddito rispetto al

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suo valore potenziale, ovvero quanto più alto è il coefficiente α. Si ricorderà che la

teoria delle aspettative razionali afferma che la politica monetaria può influenzare il

livello di attività economica solo se ha luogo un evento stocastico, cioè non

calcolabile all’interno del modello di funzionamento dell’economia perché ne manca

l’informazione. Se il governatore della Banca centrale gode di una sufficiente

reputazione, e la sua politica monetaria è dunque credibile, il venire meno

all’annuncio di politica monetaria – la realizzazione di un’espansione della quantità

di moneta contrariamente all’annuncio - costituisce un evento non prevedibile. Le

decisioni di domanda di lavoro e di produzione saranno così influenzate

positivamente dall’annuncio. Il tasso di inflazione che si determina nell’economia

non poteva infatti essere previsto. In seguito alla maggiore circolazione monetaria,

occupazione e produzione salgono lungo la curva di Phillips. Come si ricorderà,

cresceranno anche i prezzi, fino a che le decisioni vengono riviste, occupazione e

produzione tornano al livello iniziale, ed i soggetti inglobano nelle aspettative il più

alto tasso di inflazione.

Per quanto ripida fosse divenuta in Europa nel corso degli anni 70 la curva di Phillips

- e cioè alto il valore del coefficiente α, e conseguentemente ridotto, a fronte di un

forte impatto inflazionistico, il guadagno di reddito e di occupazione che ci si poteva

attendere da un’espansione monetaria non annunciata - le banche centrali mostrarono

una tendenza ad affidarsi a politiche monetarie “accomodanti”, celando le loro reali

intenzioni e cioè “ingannando” i soggetti. Lo scopo era naturalmente quello di evitare

che la disoccupazione aumentasse troppo in seguito agli shock di offerta (ma in alcuni

paesi anche di domanda) negativi, anche a costo di lasciare che il tasso di inflazione

salisse senza freni. La scelta politica fu quella di accogliere la domanda di

“monetizzazione”, concedendo la liquidità necessaria ai più elevati livelli di salario

nominale concordati fra imprese e sindacati. La strategia consisteva nel “sorprendere”

i soggetti, favorendo una dinamica dei prezzi tale da abbassare il salario reale. Tale

strategia permetteva alle imprese la traslazione degli accresciuti costi di produzione

sui prezzi, limitando il ricorso alla riduzione dell’occupazione.

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Il mutamento strutturale delle ragioni di scambio con i principali paesi

produttori di petrolio inasprì il conflitto distributivo. Il mancato accordo fra imprese e

organizzazioni dei lavoratori sulla divisione dell’onere dello shock esogeno

rappresentato del più elevato costo delle materie prime ebbe come conseguenza un

innalzamento della disoccupazione. Soprattutto nei paesi della Periferia, dopo la

perdita di reputazione determinata dall’ “accomodamento” delle tensioni

inflazionistiche, le banche centrali incontrarono notevoli difficoltà ad accrescere il

grado di credibilità della propria condotta monetaria. Per tutti gli anni ’80 (ed in

alcuni paesi anche fino alla prima metà degli ’90) i soggetti mantennero fisse le

aspettative di inflazione. In altri termini, si rifiutarono di “scendere” verso una curva

di Phillips di livello inferiore. Poiché le banche centrali non osavano attuare una

“gelata monetaria” per non rischiare una disoccupazione di massa, in nessun paese la

banca centrale realizzò una “shock therapy”. Il processo di disinflazione fondato sul

vincolo del cambio imposto dallo SME e la convergenza nominale imposta dai criteri

di Maastricht avanzarono con grande lentezza. La persistenza di aspettative costanti

di inflazione fu all’origine di un elevato costo in termini di occupazione dei processi

di disinflazione (il cosiddetto sacrifìce ratio).

Le spiegazioni della mancata capacità dei paesi della Periferia di abbassare

l’inflazione al livello dei paesi del Centro dello SME focalizzano l’attenzione sulla

tendenza della politica monetaria a permettere la rincorsa fra salari e prezzi e della

politica fiscale a realizzare la stabilizzazione dei redditi degli agenti. Dopo i vari

shock negativi di offerta (i due incrementi del prezzo del petrolio, gli incrementi dei

salari nominali, la salita del salario reale per effetto dei meccanismi di

indicizzazione), si generò il fenomeno della stag-flazione: il livello del reddito

nominale presentava uno scostamento per difetto dal suo valore “naturale”

(stagnazione della domanda) ed il tasso di inflazione eccedente le aspettative

inflazionistiche veniva incorporato in aspettative di inflazione più elevate (inflazione

crescente).

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6.1. Tassi di inflazione

Applichiamo l’analisi di un processo di disinflazione, precedentemente svolta

nell’analisi della curva di Phillips “corretta con le aspettative”, identificando un paese

della Periferia (I) con l’Italia e uno del Centro (G) con la Germania.

Alla luce del “quartetto impossibile”, la lunga fase di stabilità valutaria che

caratterizzò lo SME fra il 1987 ed il 1992 provocò in molti paesi della Periferia una

situazione di incompatibilità fra gli obiettivi della disinflazione e del mantenimento

del livello di attività economica. Data la scelta, maturata a metà anni ’80, di evitare

aggiustamenti del MTC, il tasso di cambio nominale con le altre valute doveva

mantenersi fisso e quindi la monetary stance doveva seguire l’orientamento restrittivo

della Bundesbank. Le economie dei paesi della Periferia avevano però performance

troppo difformi da quelle dei paesi del Centro.

Il tasso di inflazione nel primo paese (πI) superava il tasso di inflazione nel secondo

(πG), nella misura determinata dall’eccesso del tasso di crescita del salario (

w )

rispetto alla dinamica della produttività del lavoro (

). Dato il divario nel costo del

lavoro per unità di prodotto (CLUP) :

GGII ww // , si determinava un differenziale

inflazionistico: πI>πG. Nella misura determinata da tale divario di CLUP, ne

conseguiva un differenziale inflazionistico: πI > πG. Pertanto, una dinamica del CLUP

costantemente maggiore in Italia che non in Germania costituiva un fattore di

squilibrio di competitività fra i due paesi.

Precedentemente al regime di cambi fissi ma aggiustabili dello SME, la

compensazione di un valore minore di uno del rapporto fra il tasso di inflazione in

Germania ed il tasso di inflazione in Italia (pG / pI < 1) si realizzava attraverso il

deprezzamento della lira rispetto al marco (un innalzamento di ê) proporzionale al

differenziale inflazionistico determinato dal divario fra i due CLUP, in modo da

mantenere invariato il tasso di cambio reale ε . Con il passaggio ai cambi fissi, il tasso

di cambio nominale deve essere mantenuto fisso dalla politica monetaria della Banca

d’Italia ( 0ˆ

e ). Poiché la produttività non è modificabile nel breve periodo, la discesa

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del rapporto IG / è sanata dalla variazione del valore del tasso di cambio reale ,

nella misura richiesta dall’eccesso di salario che si registra in Italia. In luogo

dell’aggiustamento del cambio nominale (una maggiore quantità di lire per acquistare

un marco) si realizza l’apprezzamento del cambio reale (una maggiore quantità di

beni italiani per acquistare la medesima quantità di beni tedeschi). Il tasso di cambio

reale subisce pertanto una riduzione al di sotto del suo valore di lungo periodo ( N )

corrispondente alla parità dei poteri d’acquisto: N .

Con il passaggio dalle frequenti svalutazioni della fase 1979-1986, la stabilità delle

parità di cambio degli anni dal 1987 al 1992 - il cosiddetto SME “forte” - riflette il

successo delle banche centrali nella difesa delle parità bilaterali all’interno del MTC.

All’apparenza, al comportamento virtuoso delle autorità monetarie, che rispettavano

la regola di non discostarsi mai troppo dalla crescita monetaria implicata dalla parità

centrale con il marco, corrispondeva un atteggiamento fiducioso dei mercati

finanziari. Poiché l’impegno a non attuare un’inflazione “a sorpresa” veniva

mantenuto, possiamo definire il periodo 1987-1992 come quello in cui nello SME

venne seguita la strategia di second best. Tuttavia, il problema della divergenza reale

era tutt’altro che risolto: il CLUP della Periferia continuava ad avere una dinamica

superiore a quella del CLUP del Centro, il paese la cui banca centrale di fatto dettava

la crescita monetaria per tutta l’area.

Durante gli anni dello SME “forte”, l’Italia compensava con afflussi di capitali

(attirati dal differenziale dei tassi di interesse positivo rispetto alla Germania) il

disavanzo delle partite correnti con l’estero generato dalla divergenza reale. Si

trattava in prevalenza di posizioni in titoli di tipo speculativo, dei finanziamenti

creditizi che le imprese italiane chiedevano alle banche estere per godere del più

basso tasso di interesse, ed in minore misura di investimenti in obbligazioni e di

partecipazioni finanziarie. Tali afflussi finanziari consentivano la formazione di un

attivo dei movimenti di capitali che andava a compensare il deficit della bilancia

commerciale, rappresentando così un fattore di riequilibrio di breve periodo della

bilancia dei pagamenti. Rimanendo fisso il cambio nominale, l’apprezzamento reale

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della lira indotto dal differenziale inflazionistico rinnovava però la perdita di

competitività delle merci italiane sui mercati europei. Il disequilibrio fra i CLUP

continuava a tracimare nei deficit della bilancia commerciale.

Nel breve periodo, l’abbassamento del CLUP dell’Italia al livello del CLUP della

Germania era perciò affidato a due modalità di aggiustamento in termini reali: un

incremento della produttività del lavoro (ottenuto con la razionalizzazione o la

riduzione nell’utilizzo del fattore lavoro) e/o una riduzione indotta nel salario reale da

una dinamica più moderata del salario nominale rispetto a quella della produttività

del lavoro. Nel lungo periodo, l’incompatibilità fra cambio fisso con il marco e

divario nei “fondamentali” si rifletteva nell’aspettativa che l’aggiustamento del

cambio attraverso la svalutazione della lira fosse ineludibile. In assenza di una

revisione delle parità della lira, la lenta evoluzione della domanda aggregata, ed in

particolare la discesa della componente di domanda per esportazioni a causa della

perdita di competitività, avrebbe reso inevitabile il ridimensionamento della forza

lavoro occupata.

Pertanto, il basso grado di credibilità delle autorità monetarie della Periferia è in

ultima analisi riconducibile all’opinione dei mercati che la banca centrale non

avrebbe tollerato un aumento della disoccupazione. Paradossalmente, il tentativo di

conferire credibilità alla propria politica monetaria non modificandone l’intonazione

restrittiva, proprio perché amplificava il rischio di portare a livelli politicamente non

gestibili la disoccupazione, finiva per indebolire la credibilità della stabilità del

cambio con il marco ed aumentare le aspettative di svalutazione. L’incompatibilità tra

il pegging con il marco e la stabilità dei livelli occupazionali ingrossava le fila degli

operatori finanziari che aderivano all’aspettativa secondo la quale la disoccupazione

crescente avrebbe costretto la banca centrale ad abbandonare il sistema di cambi fissi.

L’indizio che la fiducia dei mercati riguardo alla solvibilità creditizia dell’economia

italiana era crollata fu la strategia valutaria seguita dalle stesse banche italiane:

all’inizio del 1990, infatti, i grandi istituti cominciarono a mantenere all’estero i

pagamenti in valuta ottenuti dagli esportatori italiani ed a rifinanziarsi sui mercati

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creditizi esteri a tassi di interesse molto più bassi rispetto a quelli elevatissimi

praticati in Italia.

Un incremento della disoccupazione, ad aspettative di inflazione rigide, è

rappresentabile come un movimento lungo una stessa curva di Phillips, ad esempio da

B a C in Figura 1.4. Gli agenti, non intendendo correggere al ribasso le aspettative di

inflazione, non si spostano su una curva di Phillips inferiore e nei mercati finanziari si

allarga il differenziale di interesse fra Italia e Germania. Il motivo risiede

nell’aspettativa che le autorità monetarie avrebbero reagito con un’espansione

monetaria ad uno shock negativo - sfruttando ad esempio la temporanea costanza del

salario nominale fra una contrattazione salariale e quella successiva – induceva gli

operatori finanziari a dubitare della irrevocabilità dell’impegno anti-inflazionistico

della Banca d’Italia.

La risposta alla nostra domanda è allora questa. Liberalizzazione dei mercati dei

capitali e unificazione tedesca crearono le condizioni perché la politica monetaria di

molte banche centrali dello SME avesse luogo in un contesto di aspettative ormai

rivolte verso un’inflazione “a sorpresa”. Tale aspettativa indusse gli operatori

finanziari internazionali, già all’inizio del 1992, ad elaborare strategie di attacchi

speculativi diretti a realizzare profitti. Con la strategia di disinvestimento delle

attività finanziarie denominate in lira, la speculazione internazionale si prefiggeva

l’obiettivo di provocare una svalutazione;. Come si è detto, successivamente alla

revisione delle parità relative della lira, la quota in titoli italiani nei portafogli degli

speculatori avrebbe potuto essere ricostituita con un esborso di importo inferiore,

nella misura determinata dalla perdita di valore della lira.

La terza fase dello SME (1993-98) vide il MTC divenire un semplice simulacro

di regime di cambi fissi: la banda allargata del ±15% metteva le banche centrali al

riparo da attacchi speculativi. La crisi del 1992-93 segnò lo spartiacque fra la

strategia dei cambi fissi e quella dei criteri di convergenza che avrebbe condotto

all’unificazione monetaria. La convergenza nominale venne affidata all’impegno

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delle autorità monetarie e fiscali a raggiungere gli obiettivi fissati dai criteri

quantitativi di Maastricht.

I quattro criteri per superare l’esame di ammissione alla terza fase del

programma di unificazione monetaria, che ha portato alla nascita dell’euro, furono i

seguenti: 1) un tasso di inflazione che non eccedesse di più dell’1,5% la media dei tre

più bassi valori dei tassi di inflazione nello SME; 2) un tasso di interesse a lungo

termine che non eccedesse di più del 2% i tre più bassi valori registrati nei paesi dello

SME; 3) un rapporto deficit pubblico / PIL che non eccedesse il 3%; 4) un rapporto

debito pubblico / PIL che non eccedesse il 60%. Inoltre, nei due anni precedenti

l’ingresso nell’unione monetaria, la valuta doveva fare parte del MTC e non subire

svalutazioni.

La storia dello SME è racchiusa nelle seguenti evidenze empiriche più

significative:

1) La lenta riduzione dell’inflazione (Figura 7.1). Dopo la discesa iniziale del 1982-

86 (favorita dal contro-shock di riduzione del prezzo del petrolio) il tasso di

inflazione subisce una risalita alla fine degli anni ’80 (soprattutto nei paesi della

Periferia) e soltanto dopo le crisi del 1992 e del 1993 si avvicina o raggiunge il basso

livello cui l’inflazione era stata portata in Germania.

2) L’incremento della disoccupazione (Figura 7.2). Successivamente alla riduzione

degli anni 1987-89, la disoccupazione si stabilizza attorno a valori ancora piuttosto

elevati, in particolare nella Periferia A (dove si registrarono tassi di interesse in salita

ed una prolungata caduta del tasso di crescita del reddito). Questi dati hanno indotto a

formulare l’ipotesi che la devoluzione di fatto alla Germania della determinazione

dello stock di moneta in circolazione nell’area dello SME abbia comportato una

restrizione monetaria superiore all’obiettivo di sconfiggere l’inflazione, e cioè ad una

distorsione in senso deflazionistico della crescita europea.

3) Lo squilibrio nei flussi commerciali intra-SME (Figura 7.3). I paesi che hanno

dato vita all’Unione monetaria europea costituiscono un’area relativamente chiusa.

Di conseguenza, i flussi commerciali intra-SME hanno rappresentato un indicatore di

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competitività molto importante nella valutazione della credibilità del MTC da parte

dei mercati finanziari, esercitando un’influenza rilevante sull’andamento dei cambi.

Figura 7.1. SME: tassi di inflazione

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Centro Periferia A Periferia B

Figura 7.2. SME: tassi di disoccupazione

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Centro Periferia A Periferia B

Figura 7.1. SME: tassi di inflazione

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Centro Periferia A Periferia B

Figura 7.2. SME: tassi di disoccupazione

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Centro Periferia A Periferia B

Figura 7.3. SME: part ite corrent i / PIL

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Germania Italia Spagna Regno Unito

Figura 7.4. Tassi di inflzione, tassi di crescita reali e tassi di interesse a breve termine

-2

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1979/ 86Centr o

1987/ 92Centr o

1993/ 98Centr o

1979/ 86Per if er ia

A

1987/ 92Per if er ia

A

1993/ 98P er if er ia

A

1979/ 86P er if er ia

B

1987/ 92P er if er ia

B

1993/ 98Per if er ia

B

Tass i d i inflazio ne Tass i d i crescita d el PIL realeTass i d i int eress e reali a b reve termine

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Dall’andamento dei valori del rapporto Partite correnti / PIL in alcuni paesi dello

SME si rileva come il surplus commerciale della Germania cresca dalla costituzione

dello SME fino allo shock asimmetrico rappresentato dalla riunificazione politica

tedesca. All’opposto, si registrano trend decrescenti e caratterizzati da forti deficit per

le tre economie della Periferia A (ad esempio, nella fase di cambi stabili 1987-92

l’Italia registra crescenti passivi della bilancia commerciale). Negli anni successivi

alle crisi 1992-93, invece, ai valori negativi del rapporto in Germania (causati dalle

conseguenze economiche del processo di riunificazione) corrispondono notevoli

recuperi nella Periferia A, con il passaggio ad elevati surplus in Italia. Si può

ipotizzare che questa robusta correlazione fra gli andamenti speculari dei flussi

commerciali del Centro e della Periferia abbia contribuito a determinare i trend di

deprezzamento reale del marco e di apprezzamento reale delle valute della Periferia.

4) La stagnazione della crescita (Figura 7.4). Il forte incremento dei tassi di

interesse ed i bassi valori del tasso di crescita sono probabilmente legati da un

rapporto di causalità. Questa evidenza empirica di alti tassi di interesse e bassa

crescita è particolarmente chiara nei paesi della Periferia. Nella seconda e nella terza

fase, nei paesi della Periferia la tendenza dei tassi di inflazione a decrescere è

accompagnata da un forte incremento dei tassi di interesse e dalla caduta dei tassi di

crescita dell’economia (tali fenomeni appaiono meno evidenti nella Periferia A che

non nella Periferia B perché due paesi - Spagna e Regno Unito - hanno partecipato

allo SME per un numero di anni molto esiguo).

Il bilancio complessivo dello SME è moderatamente positivo sul piano della

disinflazione, e alquanto negativo per quanto riguarda l’incremento della

disoccupazione. Il risultato della bassa inflazione è maturato molto lentamente ed è

stato pienamente conseguito dallo SME soltanto successivamente ai 15 anni di

funzionamento del MTC con banda “stretta” del 2,25%, e cioè nella terza fase,

durante la quale la strategia di integrazione monetaria si è imperniata sui criteri di

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Maastricht, che imponevano politiche macroeconomiche restrittive. Una possibile

spiegazione per la vischiosità delle aspettative di inflazione deriva dalla semplice

osservazione che il progressivo – per quanto lento - restringimento del differenziale

di tassi di inflazione fra un paese della Periferia e la Germania (il paese con il più

basso tasso di inflazione nello SME fino al 1990) non chiudeva, ma rendeva soltanto

progressivamente più lento, l’ampliarsi della “forbice” di prezzo fra le merci del

paese della Periferia e quelle tedesche.

Questa evidenza empirica fa sorgere un interrogativo sul rapporto fra i costi e i

benefici di una strategia di disinflazione rigidamente imperniata sull’acquisizione di

credibilità delle n-1 banche centrali. L’impegno delle autorità monetarie dei paesi

partecipanti allo SME a promuovere la disinflazione si confrontava con un forte

disincentivo. Mantenere la valuta all’interno delle bande di oscillazione attorno alla

parità centrale del meccanismo di cambi fissi era in contraddizione con il desiderio di

politiche monetarie e fiscali “attive”, in grado cioè di sostenere il livello di attività

economica con impulsi espansivi sul reddito.

In effetti, si tratta di un conflitto fra obiettivi che si presenta ogni volta che un

paese accetti di adottare un regime di cambi fissi: l’esigenza di segnalare l’impegno

alla difesa del cambio fisso costringeva le n-1 banche centrali – in misura ovviamente

diversa, in ragione della diversa reputazione delle autorità monetarie e della diversa

affidabilità dei governi – a mantenere elevati i livelli dei tassi di interesse. Un

processo di disinflazione che dura più di 15 anni rappresenta un periodo troppo lungo

perché la “cura” (le politiche macroeconomiche restrittive) non provochi l’effetto

collaterale di debilitare l’organismo. Sono state forse sottostimate le ricadute

sull’espansione produttiva e occupazionale della strategia di difendere le parità con il

marco legando la creazione di moneta alla politica monetaria della Bundesbank. Se è

vero che gli “alti” tassi di interesse hanno contribuito a determinare la bassa a crescita

economica, ci si deve chiedere se la stabilità monetaria avrebbe potuto essere ottenuta

ad un costo inferiore.

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6.2. La crisi dello SME (1992-93)

La crisi dello SME, che nel 1992-93 determinò l’uscita di lira italiana e sterlina

inglese dal meccanismo di tassi di cambio, portò al superamento dei cambi fissi come

strategica dell’unificazione monetaria. La causa di fondo della crisi fu il “quartetto

impossibile”.

Dopo la crisi dello SME del 1992-93, occorreva prenderne atto ed accelerare la

realizzazione dell’unione monetaria, sottoponendo il processo di integrazione

monetaria alla convergenza nominale descritta dai criteri di Maastricht. L’aspettativa

era che l’eliminazione delle valute nazionali - che per definizione annullava il rischio

sulla valuta - avrebbe eliminato la soggezione dei paesi alle volatili aspettative dei

mercati finanziari. Una volta adottata una moneta unica e fondata una banca centrale

comune si sarebbe ripristinata l’autonomia della politica monetaria.

7. L’Unione Monetaria Europea

Con l’adozione da parte del Consiglio europeo del rapporto Delors (dal nome del

presidente della Commissione Europea dell’epoca), nel 1989 si diede l’avvio alla

costruzione dell’Unione Economica e Monetaria. Il rapporto Delors prevedeva tre

tappe per il cammino che avrebbe condotto all’unificazione monetaria. La prima

tappa (1990-1993) consisteva nel rafforzamento della cooperazione nella politica

monetaria, dopo la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale. Per le tappe

successive, che comportavano la creazione della banca centrale e il varo della moneta

comune, fu necessario un adeguamento costituzionale. La ratifica del Trattato sull’UE

(TUE) - detto anche Trattato di Maastricht, dal nome del luogo in cui fu firmato nel

1991 – rese possibile la seconda tappa (1994-1998) rivolta alla creazione dell’Istituto

Monetario Europeo, un’istituzione designata alla preparazione all’integrazione

monetaria. Tale organismo ha provveduto a mettere i mercati monetari e finanziari ed

il sistema dei pagamenti nelle condizioni di affrontare il passaggio ai cambi

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irrevocabilmente fissi e l’entrata in operatività della Banca Centrale Europea (BCE).

La terza tappa, che corrisponde al periodo di cambi irrevocabilmente fissi (1 gennaio

1999 - 31 dicembre 2001), vide l’adozione dell’euro nelle transazioni finanziarie,

l’emissione di titoli pubblici in euro e la possibilità per risparmiatori ed imprese di

optare per conti bancari in euro.

I criteri di Maastricht segnarono l’accelerazione del processo di integrazione

monetaria e l’ampliamento della strategia di coordinamento dalla moneta al bilancio

pubblico. La logica del cambio di strategia dai cambi fissi dello SME a banda stretta

ai quattro indicatori di convergenza è così riassumibile. Fra il 1979 ed il 1993,

l’enforcement della monetary stance anti-inflazionistica era stato affidato alla

sanzione dei mercati finanziari internazionali nella forma del riconoscimento di un

“premio per il rischio” di svalutazione e di default del governo, da inglobare nel tasso

di interesse sulle attività finanziarie denominate nella valuta “debole”. Con

l’adozione della banda larga del ±15%, i paesi impegnati nel processo di integrazione

monetaria posero virtualmente fine agli attacchi speculativi nei confronti della valuta

della banca centrale inadempiente all’impegno anti-inflazionistico.

Dal 1993 al 1998 il processo di convergenza nominale venne a fondarsi sulla

strategia di enforcement basata su indicatori numerici. Poiché il rispetto dei criteri di

Maastricht rappresentava la condizione per la definitiva fissazione delle parità,

all’enforcement della minaccia di attacchi speculativi si sostituì l’enforcement della

minaccia dell’esclusione dall’unione monetaria. Il criterio aggiuntivo che imponeva

la permanenza nel MTC per almeno due anni prima della fissazione definitiva delle

parità bilaterali fu soddisfatto con l’adesione dello scellino austriaco nel gennaio

1995, del marco finlandese nell’ottobre 1996 e con il rientro nel MTC della lira

italiana nel novembre 1996. Nel maggio 1998, al momento della verifica di

congruenza dei quattro indicatori macroeconomici con i parametri di Maastricht,

l’obiettivo della convergenza nominale risultò sostanzialmente raggiunto. Undici

paesi rispettavano il limite massimo fissato per tassi di inflazione e di interesse,

nonché i criteri per deficit e debito pubblico sul PIL. In base ad un comma del

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Trattato, fu infatti possibile considerare in “sicuro trend decrescente” i rapporti debito

pubblico/PIL ben più alti del limite del 60%, di Italia e Belgio e poi anche della

Grecia.

Una volta stabiliti ufficialmente i tassi di cambio irrevocabilmente fissi, undici

valute diedero vita all’unione monetaria europea il 1 gennaio 1999. Esattamente un

anno dopo, l’ingresso nell’UME della dracma greca (rientrata nel MTC solo nel

marzo 1998) portò a dodici il numero di paesi dell’UE che il 1 gennaio 2002 misero

in circolazione l’euro. La Slovenia è entrata nell’UME il 1.1.2007, seguita poi da

Malta e Cipro (2008), Slovacchia (2009), Estonia (2011), Lettonia (2014). L’ingresso

della Lituania è previsto per il 1 gennaio 2015.

Nel gioco strategico del coordinamento monetario per ciascuno dei paesi

dell’UME, il pay-off della partecipazione ha un valore che è funzione del numero

degli aderenti. Molti paesi – a cominciare dalla Germania – avrebbero voluto che

alcuni paesi dello SME non fossero nel gruppo dei paesi fondatori dell’UME per

timore che la loro instabilità macroeconomica e l’inaffidabilità dei loro governi si

riverberassero sulla credibilità del nuovo segno monetario. L’“uscita” da un accordo

di cambi fissi ma aggiustabili come lo SME, e a maggior ragione l’“uscita” da un

accordo di cambi irrevocabilmente fissi, comporta la sanzione di mercato consistente

nella perdita di reputazione da parte della banca centrale e del governo che si erano

assunti l’impegno di difendere le parità bilaterali. Benché la valuta europea sia un

segno monetario cui non corrisponde il potenziale economico di uno stato. I legami

fra paesi che si stabiliscono in un’unione monetaria sono ben maggiori di quelli

implicati da un accordo di cambi fissi. Il ripristino dell’autonomia di politica

monetaria si configura come una vera e propria “secessione”. Si può dire che se un

qualunque paese dell’UME decidesse di ritornare al proprio segno monetario i “costi”

di uscita (exit) - quelli sopportati dal paese stesso e quelli a carico dei paesi membri -

sarebbero molto elevati.

In generali, i benefici della riduzione dei costi di transazione e dell’incertezza

sul cambio, nonché il probabile incremento della quota in euro sul totale delle riserve

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ufficiali detenute dalle maggiori banche centrali non europee una volta consolidatosi

il ruolo dell’euro nei mercati internazionali, sono fattori che innalzano il costo

dell’uscita e dovrebbero accrescere il valore della lealtà ai comuni obiettivi (loyalty).

In particolare, la grave crisi conosciuta dall’Eurozona negli ultimi anni - in seguito

agli elevati livelli raggiunti dallo spread dei titoli pubblici dei paesi della Periferia

rispetto al tasso di interesse sul Bund tedesco a 10 anni, che hanno innalzato il rischio

di default di tali paesi, l’uscita del paese maggiormente in difficoltà – la Grecia – è

stata evitata attraverso il ricorso a sostegni finanziari (condizionati a tagli di spesa nel

bilancio pubblico) ed ad un “haircut” del suo debito pubblico. La commissione

europea di Bruxelles e la BCE hanno infatti ritenuto, concordemente con i governi

più influenti (in primo luogo, la Germania) che l’interdipendenza finanziaria creata

dall’unione monetaria avrebbe potuto estendere il “contagio” di crescenti spread in

altri paesi e causare situazioni di default che avrebbero messo a repentaglio la

sopravvivenza stessa dell’euro.

8. Deficit pubblico e debito pubblico

Nel processo di convergenza nominale, uno dei criteri da soddisfare per la

partecipazione all’unione monetaria era il limite del 3% per il rapporto deficit

pubblico/PIL. La Commissione Europea ha imputato ai governi europei di non avere

introdotto le riforme necessarie a rendere la struttura delle finanze pubbliche adeguata

ai due obiettivi della stabilizzazione macroeconomica e della decumulazione del

debito pubblico. Le fiscal stance dei paesi dell’UME sono state oggetto dei seguenti

rilievi: 1) non avere applicato il Tax Smoothing, lasciando incrementare il rapporto

deficit pubblico/PIL nelle fasi espansive del ciclo invece di accantonare un surplus di

bilancio da utilizzare nei periodi di “vacche magre”; 2) avere rinunciato ad una

strategia di lungo periodo rivolta alla riduzione degli alti rapporti debito

pubblico/PIL, lasciando che nelle fasi recessive la lenta dinamica del denominatore

accrescesse il valore del rapporto debito pubblico/PIL.

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La tesi sostenuta dalla Commissione Europea è che nei paesi dell’UE - ad esclusione

di Lussemburgo, Regno Unito, Finlandia, Irlanda e Svezia - “la maggior parte

dell’incremento del rapporto debito pubblico/PIL ebbe luogo nei periodi di non-

recessione, allorché le politiche di bilancio non controbilanciarono gli effetti della

recessione sulla dinamica del debito, ma lo aumentarono ulteriormente” (Buti, et al.,

1997). Sulla base del seguente grafico, la Commissione lamenta che nei periodi di

espansione (output gap positivi) i paesi non hanno ottemperato al principio del Tax

Smoothing, dal momento che deficit e debito hanno continuato a crescere.

Figura 9.1. Deficit e debito nell'area dell'euro

-1

0

1

2

3

4

5

6

1977

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

2005

303540455055

6065707580

deficit in % PIL (scala sinistra) debito pubblico in % PIL (scala destra)

Output gap posit ivo

La prima domanda che allora ci dobbiamo porre riguarda le cause dell’incremento

registrato dal rapporto fra il deficit pubblico ed il PIL nei paesi dell’UE fra gli anni

’70 e gli anni ’90.

La politica fiscale si compone dell’operare degli stabilizzatori automatici nel corso

del ciclo economico e della politica discrezionale del governo. Rispetto agli effetti sul

saldo di bilancio pubblico che gli stabilizzatori automatici determinano nel corso del

ciclo economico attraverso gli effetti di “smussamento” delle oscillazioni del reddito,

ogni manovra discrezionale attuata dal governo opera una variazione in aumento o in

diminuzione. La “regola fiscale” seguita dal governo consiste appunto nella

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variazione del saldo di bilancio, e cioè nella variazione da imprimere ogni anno alla

fiscal stance, al fine di renderla conforme agli obiettivi della politica fiscale.

La misurazione della fiscal stance avviene isolando la componente strutturale del

saldo di bilancio, e cioè sottraendo dal saldo complessivo la componente ciclica del

saldo di bilancio determinata dall’operare degli stabilizzatori automatici del ciclo

economico. Per calcolare la componente ciclica occorre misurare l’output gap, la

divergenza della produzione effettiva dalla produzione potenziale di lungo periodo.

Per ottenere una proxy di quest’ultima, si ricorre al reddito “tendenziale” mediante

l’applicazione alla serie del prodotto lordo effettivo del filtro Hodrick-Prescott.

Questo metodo di livellamento dei valori annuali mediante medie mobili concatenate,

benché comporti una distorsione della stima per gli anni più recenti, è solitamente

preferito al metodo alternativo - la stima econometrica del prodotto potenziale – che

implica il ricorso ad una funzione Cobb-Douglas. Pertanto, la componente ciclica del

bilancio pubblico dal saldo complessivo viene calcolata moltiplicando l’output gap

per il valore che esprime la sensibilità al ciclo delle entrate e delle uscite fiscali

(l’elasticità delle entrate moltiplicato il rapporto (τ) tassazione/PIL e l’elasticità delle

uscite moltiplicato il rapporto (γ) spesa pubblica/PIL). La variazione della fiscal

stance viene così stimata mediante la sottrazione di questa componente ciclica dal

saldo di bilancio complessivo.

Come valutare il comportamento del governo? Un giudizio sulla politica fiscale può

essere espresso con la semplice comparazione fra questa stima della variazione della

fiscal stance al netto degli effetti del ciclo nell’anno t e l’effettivo saldo di bilancio

primario nell’anno precedente. Ci chiediamo, di fatto, quale fiscal stance sarebbe

risultata dalla politica discrezionale se il livello del PIL fosse rimasto invariato

rispetto al periodo precedente (depurando cioè il saldo dalla sua componente

“ciclica”. Il saldo di bilancio “corretto per il ciclo” (cyclically adjusted) può essere

anche definito come il valore che il saldo primario del bilancio pubblico avrebbe

assunto se il PIL fosse rimasto costante dal tempo t-1 al tempo t: vt(Yt-1)/Yt.

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Il saldo primario registra, per ogni periodo, le decisioni di diretta emanazione delle

autorità fiscali. Non essendo incluse le spese per interessi sul debito, si tratta in effetti

– è bene sottolinearlo - del “saldo primario strutturale”. Il metodo statistico per

determinare il saldo primario strutturale è la stima econometrica dei parametri che

legano la crescita dell’occupazione (Blanchard, 1990) oppure del reddito ai rapporti

Tt/Yt e Gt/Yt (Farina e Tamborini, 2002). I valori stimati vanno inseriti come

parametri noti in una nuova regressione che lega questa volta la crescita del reddito

all’incognita che vogliamo determinare, il valore in ogni anno della fiscal stance. La

variazione del saldo primario strutturale del bilancio pubblico è misurata dalla

differenza fra valore stimato (il saldo primario corretto per il ciclo) e valore effettivo

del periodo precedente:

vt(Yt-1)/Yt - vt / Yt La variazione della fiscal stance al netto degli effetti del ciclo si definisce anche

“impulso fiscale”. Se il valore della differenza è positivo, l’“impulso fiscale” è in

senso restrittivo; se è negativo, l’“impulso fiscale” è in senso espansivo.

Valutiamo allora la prima critica della Commissione Europea. Per analizzare la

strategia di politica fiscale perseguita dai paesi dell’UE, abbiamo scelto l’andamento

del rapporto deficit pubblico/PIL in Germania ed Italia (Figura 7.6). Questi due paesi

di grandi dimensioni e di lunga partecipazione al sistema di cambi fissi dello SME

presentano un grado di stabilizzazione del ciclo attraverso gli stabilizzatori

automatici, ed anche di correlazione della sensibilità del bilancio con la dimensione

del settore pubblico, abbastanza rappresentativi della media UE. Nella Figura 7.6, con

v si indica il rapporto vt-1 / Yt-1 e con ύ si indica il rapporto vt(Yt-1)/Yt . L’indice di variazione della fiscal stance di Germania mostra che nel complesso gli

impulsi fiscali paiono avere seguito, in quasi tutti gli anni, la logica del Tax

Smoothing. I tracciati degli impulsi fiscali hanno infatti un andamento pressoché

speculare rispetto a quello del saldo di bilancio effettivo, oscillando attorno alla linea

di bilancio neutrale.

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Se si escludono la crisi dello Yom Kippur (1973-74) e la riunificazione tedesca

(1989-90), a saldi di bilancio effettivo vt-1 di segno espansivo (il tracciato è sotto la

linea di bilancio neutrale) corrispondono di norma interventi discrezionali restrittivi

(l’istogramma dell’impulso fiscale (ύt–vt-1) è sopra la linea di bilancio neutrale). La

manovra discrezionale di riduzione del deficit primario strutturale creato nel periodo

precedente è di norma di ampiezza sufficiente.

Il grafico dell’Italia delinea uno scenario affatto diverso. La variazione del saldo

primario strutturale operata dall’autorità fiscale non è mai tale da riportare in

pareggio il saldo primario del bilancio pubblico. Alla tendenza espansiva dei deficit

pubblici al netto del ciclo (valori costantemente negativi del saldo primario strutturale

intorno al 4%) corrispondono per tutto il periodo 1976-91 variazioni compensative

della fiscal stance ampiamente insufficienti (intorno al 2%). Di conseguenza, i deficit

primari contribuivano di anno in anno ad alimentare la formazione di debito pubblico.

Dopo il varo dello SME, a valori del deficit pubblico via via più moderati seguono

impulsi fiscali restrittivi sul saldo strutturale primario via via più rilevanti. A partire

dal 1991 si registra il passaggio del rapporto saldo di bilancio pubblico primario / PIL

Figura 7.6. Impulsi fiscali

(a) Germania

-5-4-3-2-101234

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t)-v(t-1) v(t-1)

-8

-6

-4

-2

0

2

4

6

8

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t )-v(t -1) v(t-1)

(b) Italia

Fonte: Farina e Tamborini (2002)

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a un valore positivo. Sebbene il comportamento delle autorità fiscali non appaia

incline a fare lievitare senza limiti la spesa pubblica, la gestione del deficit non

appare conforme alla “disciplina fiscale”, in quanto vengono sottovalutate le

conseguenze dei deficit in termini di accumulazione di debito pubblico. Nel loro

complesso, questi risultati suggeriscono che le autorità fiscali tedesche, ma non quelle

italiane, orientarono le fiscal stance al rispetto del Tax Smoothing.

La seconda critica della Commissione Europea mette in questione la volontà delle

autorità fiscali dei paesi dell’UE di realizzare una stabilizzazione compatibile con il

vincolo intertemporale del bilancio pubblico.

Ricordando le prime due fonti di incremento di debito pubblico nell’equazione (4.10),

in ciascun anno il rapporto debito pubblico/PIL viene stabilizzato – e cioè il suo tasso

di variazione è nullo - se il saldo del bilancio pubblico primario è : ν = (i – g) b. Per

valutare questa critica della Commissione Europea, occorre individuare il saldo

strutturale di stabilizzazione del debito (ύ*). Suddividendo il saldo del bilancio

pubblico nella componente strutturale (ύ) e nella componente ciclica (νc), possiamo

definire (ύ*) come il valore del saldo strutturale primario di ogni anno t che stabilizza

il debito pubblico primario al livello t-1. Il saldo strutturale di stabilizzazione del

debito (ύ*) si ricava calcolando la differenza fra il tasso di interesse nominale al netto

della dinamica del reddito nominale moltiplicato il rapporto debito pubblico/PIL e la

componente ciclica del saldo di bilancio pubblico:

ύ* = (i - g) b - νc

Il perseguimento dell’obiettivo del debito pubblico dipende dai due fattori del

prodotto (i–g)b. Quanto più elevati sono la differenza fra tasso di interesse e tasso di

crescita e/o l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, tanto più ampia deve essere

la restrizione fiscale da attivare. Benché sia una strategia di politica fiscale diretta a

mantenere il bilancio pubblico mediamente in pareggio, il Tax Smoothing non

coinvolge questi due fattori, ma esplicita soltanto un criterio riferito al saldo primario.

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Tale criterio non è però sufficiente, in quanto per valutare l’operato dei governi la

Commissione Europea prende in considerazione la somma dei deficit primario e

secondario. Un giudizio formulato unicamente in base al Tax Smoothing conduce ad

ambiguità interpretative. Supponiamo che gli stabilizzatori automatici – a partire da

un bilancio pubblico in pareggio - creino un deficit primario nel corso di una fase

recessiva. Supponiamo anche che una precedente fase espansiva abbia consentito

l’accantonamento di entrate fiscali che possano ora esse impiegate a copertura del

deficit. Possiamo concludere che l’attuazione del principio del Tax Smoothing –

ovvero un valore costante del saggio di tassazione ed un andamento oscillatorio delle

finanze pubbliche conforme alla fase del ciclo – sia sufficiente a garantire la

permanenza in pareggio del bilancio nel medio periodo? La risposta non può che

essere negativa. Infatti, tale principio prescinde dalla copertura del deficit secondario.

Un esogeno aumento livello del tasso di interesse potrebbe aprire nel bilancio

pubblico un deficit destinato a durare per più periodi. Egualmente, una caduta

strutturale del tasso di crescita potrebbe causare un innalzamento del rapporto deficit

pubblico complessivo / PIL (il che renderà necessario un adeguamento verso l’alto

del saggio di tassazione e/o verso il basso della spesa pubblica).

Il problema è allora che la Commissione Europea misura correttamente la fiscal

stance dei paesi dell’Unione Europea con riferimento al saldo strutturale primario

(escludendo cioè la spesa per interessi), ma emette il suo giudizio con riferimento al

deficit pubblico complessivo. Viene abbracciata la concezione della regolazione del

bilancio pubblico in funzione dell’obiettivo di lungo periodo di mantenere in

equilibrio il VIBP. Non è solo l’indebitamento consistente negli aggiuntivi titoli

(emessi a copertura di una nuova spesa pubblica) e la relativa spesa per interessi -

come vuole il Tax Smoothing a dovere essere estinto nel breve termine (nel corso

della successiva ripresa economica). Quale che sia infatti l’origine di un deficit

pubblico (deficit primario oppure deficit secondario), al fine di mantenere in

equilibrio il VIBP, l’autorità fiscale deve farsi carico del deficit pubblico complessivo

e non solo di quello primario. Se la differenza (i–g) presenta un valore positivo, la

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restrizione fiscale dovrà eccedere la semplice copertura di un eventuale saldo

negativo primario per tutto l’importo della differenza moltiplicata per il “peso”, il

rapporto (b) debito pubblico / PIL. Ogniqualvolta si determini un trade-off fra

stabilizzazione del debito pubblico (o decumulazione, nel caso di un paese con

rapporto debito / PIL superiore al 60%) e stabilizzazione del reddito attraverso una

politica fiscale discrezionale espansiva, deve essere quest’ultima a cedere il passo.

La Commissione Europea riconduce ogni incremento del rapporto (b) deficit

pubblico/PIL ad un eccessiva formazione di deficit primario da parte delle autorità

fiscali. Nell’avanzare la tesi secondo la quale negli ultimi decenni molti paesi dell’UE

non si sarebbero comportati in accordo con le prescrizioni del Tax Smoothing, viene

così sottaciuto che il primo termine dell’equazione (7.10) può costituire

un’importante causa della salita dei rapporti medi di deficit pubblico/PIL dell’UE. Se

nei periodi di output gap positivo tale rapporto ha continuato ad aumentare, anche se

ad una velocità minore, l’origine potrebbe risiedere nell’avvitamento fra salita dei

tassi di interesse ed incremento delle emissioni di titoli pubblici. La domanda da porsi

è allora la seguente: quali fattori hanno causato nei paesi europei fiscal stance non

conformi alla stabilizzazione del rapporto debito pubblico/PIL e alla decumulazione

del debito pubblico in eccesso?

Figura 7.7. Stabilizzazione del debito pubblico

(a) Germania

-4-3-2-10123456

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t) ύ*(t)

(b) Italia

-12-10

-8-6-4-202468

1970 1975 1980 1985 1990 1995

ύ(t) ύ*(t)

Fonte: Farina e Tamborini (2002)

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I tracciati della Figura 7.7 mettono a confronto, per ciascun paese, il saldo strutturale

primario che la fiscal stance ha determinato (ύ(t)) ed il saldo strutturale primario che

sarebbe stato necessario per stabilizzare il debito pubblico sul PIL (ύ*(t)). In

Germania, gli andamenti speculari dei tracciati dei saldi primari effettivi e stimati

dimostrano che la differenza (i–g) non ha contribuito ad alimentare il debito pubblico.

Il saldo strutturale primario oscilla prima attorno alla linea di neutralità, per poi

conoscere variazioni della fiscal stance di segno restrittivo, soprattutto nel corso degli

anni ’90, quando gli elevati valori raggiunti dal debito pubblico provocano picchi

molti alti del saldo strutturale primario che stabilizza il debito pubblico.

Di nuovo, il quadro si presenta completamente diverso in Italia. Le insufficienti

manovre discrezionali di restrizione fiscale aprirono ampi divari fra spesa pubblica e

entrate fiscali e richiesero quindi emissioni di titoli tali da alimentare l’accumulazione

di debito pubblico. Il trend di impulsi fiscali sempre meno espansivi, che ha inizio nel

1976 e che prosegue quasi costantemente fino al passaggio a variazioni della fiscal

stance sempre restrittive già nel 1988, appare sovrastato dal tracciato dell’attivo

strutturale di bilancio pubblico che sarebbe stato necessario – dal 1980 fino al 1989 –

per stabilizzare il rapporto (b) debito pubblico/PIL: solo nella seconda metà degli

anni ’90, con la discesa dei tassi di interesse, si determinò un’inversione nei valori del

nuovo indicatore. La valutazione dell’operato delle autorità fiscali è allora la

seguente. Dai primi anni ’80 in poi, le autorità fiscali hanno avuto come punto di

riferimento per i loro interventi discrezionali la compensazione di medio periodo di

tendenze espansive del deficit di bilancio pubblico. I governi non si preoccupavano

dello squilibrio che l’andamento del deficit pubblico complessivo andava producendo

nell’equazione del VIBP. D’altro canto, la crescente dinamica del rapporto debito

pubblico/PIL fu alimentata da un’espansione della spesa per interessi in buona misura

determinata dalla politica di difesa del cambio della lira nello SME, che richiedeva

ampi differenziali di tasso di interesse con la Germania.

I tracciati mostrano che la distanza fra fiscal stance effettiva e fiscal stance “di

stabilizzazione del debito pubblico” è stata notevole: per neutralizzare l’impatto di

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incremento del rapporto causato dalla fonte “esogena” tasso di interesse, sarebbero

state necessarie rilevanti manovre fiscali restrittive. Nel corso degli anni ’80, le

autorità fiscali italiane non riuscirono ad avviare la decumulazione; negli anni ‘90 ad

alimentare la formazione di nuovo debito non è stato il deficit primario ma il deficit

secondario, a causa degli alti tassi di interesse. Una strategia di rapida decumulazione

avrebbe richiesto, piuttosto che la semplice rinuncia a politiche fiscali discrezionali,

manovre restrittive anche durante le fasi di recessione. Considerando anche

l’orientamento restrittivo della politica monetaria, tali impulsi di restrizioni fiscali

avrebbero probabilmente generato effetti deflazionistici.

9. Tassi di interesse

L’ultimo criterio di Maastricht che rimane da esaminare è la convergenza fra i tassi di

interesse. Questa grandezza rileva non solo nella determinazione della dinamica dei

deficit pubblici attraverso la spesa per interessi ma influenza anche direttamente il

sentiero di crescita di un’economia. L’evidenza empirica suggerisce che i differenziali

di tasso di interesse di molti degli n-1 paesi del MTC nei confronti del paese leader

dello SME non sempre ha rispecchiato l’andamento del tasso di cambio (vedi in

Figura 8.2 i differenziali (spread) rispetto ai titoli pubblici tedeschi). Perché la “parità

dei tassi di interesse” è stata spesso in disequilibrio?

La teoria macroeconomica ci propone le seguenti possibili spiegazioni della

divergenza: 1) il premio per il rischio di cambio (svalutazione). I valori attesi e

realizzati delle parità bilaterali fra le valute del MTC erano influenzati da un

insufficiente grado di credibilità della politica monetaria delle n-1 banche centrali

impegnate a perseguire la disinflazione delle rispettive economie mediante la

strategia di pegging nei confronti del marco; 2) il premio per il rischio di ripudio del

debito pubblico da parte di un governo. Come spiega il modello di Sargent e Wallace,

i mercati finanziari si attendono che la banca centrale, di fronte alla difficoltà del

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governo a piazzare le nuove emissioni, faccia ricorso alla “monetizzazione” del

debito pubblico.

Ricordando l’equazione (4.16), che esplicita la terza fonte di incremento del rapporto

debito pubblico / PIL, è possibile che l’eccesso del livello dei tassi di interesse,

rispetto alla svalutazione registrata ex post, in molti paesi della Periferia dello SME

sia stato causato da un errore di previsione. Le aspettative razionali non vengono

realizzate: (πe–π) ≠ 0. L’impulso alla crescita del rapporto debito pubblico/PIL

sarebbe quindi provenuto da aspettative di inflazione superiori al tasso di inflazione

realizzatosi ex post (πe – π > 0). Un eccesso di inflazione attesa nei mercati rispetto al

valore che si realizza ex post comporta un livello dei tassi di rendimento nominale dei

titoli pubblici più elevato di quello che risulta nella condizione di “parità dei tassi di

interesse”, e l’aumento della spesa per interessi viene finanziato con emissione di

debito. In molti paesi dello SME, il divario (πe > π) ha rappresentato un’importante

determinante della crescita del rapporto debito pubblico/PIL. Se il divario (πe > π) si

ripresenta per più periodi, l’accelerazione nell’accumulazione di debito pubblico può

essere notevole. Infatti, la crescita della spesa per interessi verrà alimentata sia nella

sua componente di prezzo (i) che nella sua componente di quantità (B). Non è però

semplice, anche ricorrendo a stime econometriche, stabilire in che misura l’errore di

previsione spieghi il divario fra differenziale di tasso di interesse e variazione del

tasso di cambio e/o la spinta verso l’alto che la crescita del debito pubblico imprime

al tasso di interesse. Le aspettative di inflazione e le aspettative di variazione del

tasso di cambio, non essendo misurabili ex ante, non sono verificabili ex post.

Prescindiamo allora da questa possibile causa di divergenza e concentriamo

l’attenzione sul ruolo avuto dal “premio per il rischio” di svalutazione e/o “ripudio”

sull’evoluzione del rapporto debito pubblico / PIL. Per essere nelle condizioni di

effettuare questa indagine, occorre assumere che – anche riguardo a mercati molto

volatili come quelli finanziari e valutari - sia formulabile l’ipotesi di aspettative

razionali. Se adottiamo l’ipotesi che gli agenti abbiano aspettative razionali di

variazione del tasso di cambio (ragionando su una valuta dello SME rispetto al marco

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si tratta di aspettative di svalutazione), la svalutazione attesa è misurabile con la

svalutazione effettivamente determinatasi ex post. Nell’attuare una politica di

pegging del marco, a causa di entrambi i “premi per il rischio”, le banche centrali dei

paesi ad alta inflazione furono costrette a riconoscere a risparmiatori ed operatori

finanziari ampi margini di tasso di interesse in eccesso rispetto a quelli pagati sulle

attività finanziarie denominate nel marco.

Naturalmente, il problema della scarsa credibilità dell’impegno al rispetto della parità

bilaterali con il marco tedesco e della solvibilità dei governi riguardava

essenzialmente le valute delle economie ad alta inflazione, quelle dei paesi della

Periferia. Nella Figura 7.5, abbiamo visto che, successivamente ad uno shock di

ampiezza pari a quella della Germania, sarebbe occorsa una manovra restrittiva della

Banca d’Italia per fare scendere l’economia lungo la curva di Phillips di breve

periodo fino al punto I” ed evitare che il differenziale di inflazione con la Germania si

allargasse. La stretta monetaria avrebbe però comportato una contrazione troppo

drastica dell’output e dell’occupazione. Le banche centrali della Periferia lasciavano

così che i differenziali di inflazione si ampliassero, con conseguente ampliamento

anche dei differenziali di tasso di interesse. Ricordando le equazioni (3.4-3.8) del §

3.4, nell’equazione (7.11) il primo termine esprime il divario fra il tassi di interesse

(i) di un paese rappresentativo della Periferia e quello del paese leader dello SME, la

Germania (iG); il secondo termine rappresenta il deprezzamento atteso della valuta

della Periferia (ad esempio, l’Italia) rispetto al marco; inoltre sia ft il tasso di cambio

a termine:

(7.11)

1 1ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ ˆ( ) [( ) ] [ ]

ˆ ˆ ˆ ˆ

e eG Gt t t t t t t t

t t t tt t t t

e e f e f e e ei i i ie e e e

Se si adotta l’ipotesi di aspettative razionali e si misura la variazione attesa del tasso

di cambio mediante il tasso di cambio ex post (et+1), dal computo della (7.11) risulta

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che i valori del primo termine sono stati sistematicamente in eccesso rispetto a quelli

del secondo termine. Come si è spiegato nel § 3.4, in equilibrio il differenziale di

interesse eguaglia il deprezzamento del tasso di cambio. Nell’equazione (7.11),

un’eventuale divergenza fra differenziale di inflazione con la Germania e

deprezzamento rispetto al marco può dipendere da un valore diverso da zero della

somma algebrica delle due parentesi che compaiono sul lato destro. Descriveremo ora

le probabili cause di tale divergenza (Farina, 1990).

Nella prima fase dello SME (1979-1986), la differenza sul lato sinistro assunse valore

negativo. Come sappiamo, dal momento che i primi anni dello SME furono

caratterizzati da frequenti riallineamenti fra le valute, questo risultato non può

derivare da un’elevata credibilità della politica monetaria del paese della Periferia nel

perseguire la difesa delle parità di cambio.

L’evidenza empirica suggerisce che questa diseguaglianza dipese essenzialmente dal

valore negativo del primo termine sul lato destro. La parità scoperta dei tassi di

interesse assunse valore negativo in molti paesi della Periferia a causa di un divario

positivo fra cambio a termine e cambio a pronti che presentava un’ampiezza

maggiore del differenziale di interesse. Ciò accade se è presente il “rischio paese”. Il

grado di libertà che i controlli amministrativi adottati nella prima fase dello SME in

alcuni paesi a valuta debole (ad esempio, Italia e Francia nei primi anni ’80)

assicuravano alla politica monetaria condusse alla formazione di un “cuneo” fra i

differenziali di tassi di interesse on shore (determinato sul mercato finanziario

interno) e off shore (determinato sui mercati finanziari internazionali) con la

Germania.

I vincoli posti alla fuoriuscita di capitali permettevano infatti ai tassi di interesse del

mercato interno di evitare un aggiustamento verso l’alto di ampiezza congrua all’

ampliamento dei differenziali di interesse con la Germania – approssimati dalle

variazioni percentuali del “premio a termine” della valuta rispetto al marco, e cioè

l’aspettativa di mercato sul futuro tasso spot – che si veniva a determinare sui mercati

finanziari internazionali. Nella seconda metà degli anni ’80, parallelamente

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all’abolizione dei controlli, tale “cuneo” andò restringendosi, fino ad annullarsi con il

completamento della liberalizzazione dei movimenti dei capitali in tutti i paesi dello

SME nel maggio del 1990.

Nella seconda fase dello SME (1987-1992), in molti paesi della Periferia la “parità

scoperta” dei tassi di interesse tese a discostarsi ancora dallo zero, ma per assumere

questa volta valori positivi. L’origine di tale inversione di segno risiede questa volta

nell’andamento della seconda parentesi quadra sul lato destro. La differenza positiva

fra cambio a termine e cambio a pronti con il marco – risultando più ampia del

deprezzamento registrato dalla lira ex post - indica la presenza di un “rischio valuta”

che sostanzialmente dà origine alla divergenza positiva – sul lato sinistro – fra

differenziale di interesse con la Germania e deprezzamento ex post della valuta nei

confronti del marco. Lungo tutto il periodo di perfetta stabilità dei tassi di cambio

all’interno del MTC si riscontra un eccesso del differenziale di tasso di interesse

rispetto a variazioni di tasso di cambio. Questa persistenza non può che riflettere

l’incompatibilità – percepita nei mercati finanziari – fra cambi fissi e credibilità della

politica monetaria dei paesi ad alta inflazione che seguivano una strategia di pegging

nei confronti del marco.

La spiegazione della diseguaglianza fra differenziali di interesse e variazione del

cambio con il marco risiede quindi nella sfiducia nutrita dagli operatori dei mercati

finanziari nei confronti dell’annuncio di una monetary stance anti-inflazionistica da

parte delle autorità monetarie (premio per il rischio di svalutazione) e/o nella

solvibilità del governo (premio per il rischio di ripudio del debito pubblico). Il

sospetto dei mercati era che tali autorità fossero indotte ad adottare politiche

monetarie o fiscali tali da rinnegare gli “annunci” fatti.

Questa sfiducia faceva anche sì che le aspettative di svalutazione implicite nei

differenziali di tassi di interesse della Periferia con la Germania - benché trovassero

una conferma soltanto parziale nel successivo deprezzamento del tasso di cambio

delle valute più deboli nei confronti del marco – venissero corrette con molta

lentezza.

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10. La politica monetaria nell’Unione Monetaria Europea

La moneta comune è entrata nella vita quotidiana dei cittadini europei nel periodo

compreso fra il 1 gennaio e il 1 luglio 2002, quando le banconote e le monete in euro

sostituirono le valute nazionali in 12 paesi.

Figura 8.1. Convergenza nei tassi di interesse a breve termine, area dell'euro (deviazione standard)

0

1

2

3

4

5

6

1980 1984 1988 1992 1996 2000

nominali reali reali senza Grecia

Il successo della moneta unica non va circoscritto alla conferma dell’acquisita

stabilità monetaria, con un tasso di inflazione dell’area valutaria che si è sempre

mantenuto intorno al 2%, fino a crollare a valori intorno allo 0,7% nella recessione

provocata dalla crisi finanziaria. In effetti, parallelamente alla convergenza dei tassi

di interesse nominali, indotta dall’accelerazione nella discesa dei tassi di inflazione,

già a partire dal 1994, anche la dispersione dei valori tassi di interesse reali a breve

termine conobbe una riduzione rapida e di ampiezza crescente. Successivamente alla

decisione di dare avvio all’unione monetaria, il processo di convergenza nominale fra

i paesi dell’UME subì una ulteriore accelerazione.

Dal 1999 in poi, si è registrato il sostanziale uguagliamento fra i tassi di rendimento

dei titoli pubblici a breve termine (Figura 8.1) ed un notevole restringimento degli

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spread dei titoli pubblici decennali dei maggiori paesi rispetto ai corrispondenti titoli

tedeschi. (Figura 8.2).

Figura 8.2. Spread dei titoli pubblici decennali rispetto ai corrispondenti titoli

tedeschi

Figura 8.1. Convergenza nei tassi di interesse a breve termine, area dell'euro (deviazione standard)

0

1

2

3

4

5

6

1980 1984 1988 1992 1996 2000

nominali reali reali senza Grecia

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È infatti aumentata la fiducia sulla solvibilità fiscale dei paesi ad alto debito pubblico,

come dimostra il sostanziale azzeramento del premio per il rischio sui titoli pubblici.

Per quanto si sia manifestata una tendenza all’avvicinamento fra i tassi di rendimento

azionari, la percezione del rischio-nazione è invece ancora elevata riguardo alle

attività finanziarie del settore privato.

11. L’euro nei mercati internazionali

La letteratura economica si interroga sul futuro ruolo dell’euro come valuta

internazionale. I fattori da cui tale ruolo dipende sono: 1) la velocità con cui

procederà l’integrazione dei mercati finanziari europei; 2) le fusioni e le

concentrazioni delle imprese bancarie europee, favorite dalle notevoli dimensioni

dell’area finanziaria europea. Una tesi pessimistica associa lo status di valuta di

riserva internazionale al potenziale economico dell’area valutaria di riferimento (in

questo caso, i paesi aderenti all’UME). Benché la quota di commercio mondiale

dell’UME sia pari all’11% (contro il 9% del dollaro e l’8% dello yen), l’euro non

potrebbe affermarsi come valuta internazionale a causa delle debolezze strutturali

delle economie europee: in primo luogo, la lenta dinamica della produttività totale dei

fattori che genera una bassa crescita e la dimensione dei deficit e debiti pubblici dei

paesi membri.

Un’altra tesi è più ottimistica. Molte banche centrali asiatiche hanno programmato il

progressivo incremento della quota in euro delle proprie riserve internazionali.

Inoltre, giunge a prevedere per l’euro la stessa quota del dollaro USA nelle riserve

delle banche centrali. Le motivazioni politiche vi giocano un ruolo centrale. Dopo

tutto, così come alcuni paesi del Centro-America hanno risolto il problema della

reputazione monetaria con la “dollarizzazione”, due regioni dei Balcani dall’incerto

status giuridico come il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina (di fatto, “protettorati”

affidati dall’ONU all’Unione Europea) ed il Montenegro hanno ritenuto

politicamente ed economicamente conveniente adottare unilateralmente l’euro come

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propria valuta. Più in generale, l’affermazione dell’euro nei mercati finanziari

internazionali dovrebbe derivare dal crescente impiego nelle economie emergenti

dell’Asia parallelamente alla tendenza dell’UE a competere con gli US quale

principale partner finanziario e commerciale.

Ma il successo futuro dell’euro è anche legato alla soluzione della crisi dell’Eurozona

ed all’evolversi del nesso fra finanza e sistema bancario. La tendenza delle banche

centrali a detenere ingenti quantitativi di dollari nelle proprie riserve ufficiali è

direttamente proporzionale all’utilizzo della valuta USA come mezzo di pagamento

per le transazioni internazionali. Ancora nel 1998, il dollaro statunitense veniva

impiegato nell’87% del totale delle transazioni internazionali. Questa percentuale fa

ormai parte del passato. Quanto più si accelererà il processo delle fusioni e delle

concentrazioni fra le banche europee, e l’attuazione dell’accordo sull’Unione

bancaria favorirà la stabilità dei sistemi bancari nazionali, tanto maggiori saranno i

flussi di capitali attirati dalle opportunità di investimento nelle attività finanziarie

interne e tanto più si determinerà un processo di path dependence.

Il mercato unico europeo delle attività finanziarie che dovrebbe scaturire dai processi

di integrazione fra le principali “piazze” finanziarie sarà più “spesso” e più liquido

dei mercati attuali. Gli investitori europei saranno in grado di operare in modo più

efficiente in euro ed i differenziali di tassi di interesse euro-dollaro avranno un

impatto maggiore sulle variazioni del tasso di cambio fra le due valute. In questa

prospettiva interpretativa, la maggiore profondità finanziaria dell’economia europea

produrrà due effetti: 1) i costi delle transazioni commerciali in euro si ridurranno,

cosicché il possesso della valuta europea diverrà più attraente; 2) l’incremento degli

scambi di titoli denominati in euro da un mercato dei capitali all’altro comporterà una

diminuzione nel costo dell’utilizzo dell’euro anche nelle transazioni finanziarie

internazionali. Se ne conclude che l’utilizzo crescente dell’euro nei mercati lo porterà

a competere con il dollaro come principale valuta per gli scambi internazionali e la

quota in euro delle riserve ufficiali delle banche centrali mondiali verrà adeguata in

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relazione all’aumento delle transazioni di merci ed attività finanziarie effettuate con i

paesi dell’UME.

La quota di euro come riserva internazionale detenuta dalle banche centrali di tutto il

mondo ha raggiunto nel 2009 il 28%, mentre il dollaro è al 62% (era al 71% nel

1999) e la sterlina, fino agli anni ’20 del secolo scorso principale valuta mondiale, è

al 4%.

Un più elevato grado di correlazione delle fluttuazioni di euro e dollaro rispetto allo

yen costituirebbe la spia che le due principali valute occidentali sono divenute

complementari, e quindi entrambe in grado di favorire la diversificazione del rischio.

Ne potrebbe scaturire la fine del comportamento di benign neglect da cui ha finora

tratto vantaggio l’autorità monetaria statunitense rispetto al cambio del dollaro con

l’euro e lo yen, e l’inizio di un maggiore coordinamento fra le politiche

macroeconomiche fra le due sponde dell’Atlantico.

La BCE ha finora dichiarato di non volere influenzare l’andamento dell’euro nei

mercati valutari internazionali e di volere lasciare che la determinazione del suo

valore - in un contesto di crescente liberalizzazione ed integrazione dei mercati delle

merci e dei capitali - sia esclusivamente guidata dalle forze di mercato. Nella

concezione “liberista” delle autorità monetarie europee, il ruolo internazionale

dell’euro dovrà essere il risultato non intenzionale delle transazioni di mercato

effettuate da una moltitudine di operatori nei mercati liberalizzati ed integrati dei beni

e dei capitali. Tuttavia, una completa integrazione fra i mercati obbligazionari ed

azionari europei implica naturalmente il superamento dell’eterogeneità fra le “regole”

nazionali: l’assetto societario (corporate governance), la tassazione di obbligazioni ed

azioni, la normativa sulle offerte pubbliche di acquisto (OPA), le condizioni

contrattuali sui mutui, la regolamentazione Anti-Trust del settore bancario, il potere

di vigilanza delle banche centrali nazionali. Pertanto, non va sottovalutata la rilevanza

dei processi che avverranno nei fondamenti istituzionali dei mercati: in primo luogo,

l’armonizzazione fra i sistema legali di common law e di civil law e fra i regimi

fiscali nazionali. D’altro canto, la storia economica insegna che i processi di

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omogeneizzazione fra le istituzioni che presiedono all’attività finanziaria e bancaria

hanno di volta in volta seguito strade diverse.

La convergenza istituzionale fra i paesi dell’UME potrebbe svilupparsi secondo due

metodi:

1) Il “reciproco riconoscimento” nella normativa dei paesi membri. L’adozione di tale

principio metterebbe in moto un processo di omologazione orientato dal mercato:

l’obbligo per un paese a riconoscere tutte le istituzioni finanziarie autorizzate negli

altri paesi dell’UME, il che quasi inevitabilmente sfocerebbe nell’abbattimento delle

diversità nazionali. Tale indirizzo strategico non è molto gradito ai governi nazionali,

che in tal modo perderebbero la capacità di governance sul funzionamento dei

proprio mercato di borsa e la funzione di vigilanza sull’attività delle proprie imprese

bancarie;

2) Un’autorità centrale di regolazione. Tale scelta istituzionale innescherebbe il

processo opposto: un’armonizzazione fra le istituzioni nazionali tale da accelerare

l’integrazione dei mercati azionari, obbligazionari e del credito. Una tale evoluzione

avrebbe come naturale corollario l’estinzione delle istituzioni nazionali di regolazione

e la nascita di un insieme di regole europee.

L’attuale tendenza dei mercati europei - sia dei beni che dei capitali - fa ritenere

improbabile questa seconda linea evolutiva. Il PIL dei paesi dell’UME è di poco

inferiore a quello degli Stati Uniti, mentre il valore monetario delle obbligazioni e

delle azioni quotate nei mercati finanziari USA è circa il doppio di quelle quotate

nell’Eurozona. Ma gli attuali sviluppi indicano che l’evoluzione futura va nel senso di

un incremento della “duplicazione finanziaria” del capitale delle imprese e quindi

verso una progressiva chiusura del divario con gli US sia riguardo alla “profondità”

che alla liquidità dei mercati finanziari. Ne sono esempi evidenti lo sviluppo dei

mercati europei dei derivati ed i fenomeni di “cartolarizzazione” (la raccolta di

liquidità da parte delle banche e dei governi mediante la collocazione nel mercato di

obbligazioni rappresentative di crediti il cui rendimento è legato al loro diverso grado

di “esigibilità”).

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L’esito più probabile sembra essere l’omologazione dei mercati dell’Europa

continentale al modello istituzionale anglosassone. In linea di principio, questo

modello è orientato a preservare le “regole del gioco” della piena liberalizzazione dei

mercati (Arrow, 1994).

L’obiettivo è quello di mettere il loro funzionamento al riparo dalle interferenze dei

governi, dalle tendenze monopolistiche e dalle turbative create dalle asimmetrie

informative fra gli agenti. Il modello istituzionale dell’Europa continentale è

incentrato sulla regolazione. Quindi è meno in grado di garantire l’indipendenza dei

mercati dai governi, ma forse più attento a frenare gli squilibri nel potere di mercato

che derivano da concentrazioni e fusioni e dai conflitti di interesse che si sviluppano

con le partecipazioni incrociate nei mercati privi di agenzie di regolamentazione.

Un mercato europeo che rispecchi entrambi i modelli istituzionali, integrandone gli

aspetti migliori, è probabilmente possibile oltre che auspicabile. Una tale evoluzione

sembra però impedita dagli ostacoli che si frappongono alla progettazione delle

istituzioni comunitarie di regolazione dei mercati. Primo fra tutti, l’opposizione dei

governi e dei mercati finanziari e creditizi alla centralizzazione del potere di

regolazione a Bruxelles e Francoforte. Recentemente, un passo avanti è stato

compiuto con la definizione dell’Unione bancaria (vedi oltre). Più difficile, data

l’opposizione di paesi come Regno Unito e Lussemburgo, che traggono notevole

vantaggio dalla bassa tassazione sui capitali, raggiungere un accordo

sull’armonizzazione sulla tassazione dei redditi (salari e profitti), dei beni e delle

attività finanziarie.

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12. Il Meccanismo dei Tassi di Cambio MTC II

Il MTC II è il meccanismo dei tassi di cambio disegnato nel Consiglio europeo di

Amsterdam del 1997 ed ha ereditato le bande ampie di oscillazione che il MTC dello

SME assunse a partire dal 1993. Esso ha lo scopo di regolare le parità ufficiali fra

l’euro e le valute dei paesi interessati ad una futura ammissione all’UME, favorendo

la convergenza nominale ai valori implicati nei criteri di Maastricht. Il criterio

aggiuntivo sull’adozione dell’euro prevede la partecipazione al MTC II nei due anni

precedenti all’ingresso. Fra le valute dei paesi che rinunciarono ad aderire all’euro e

non si impegnarono a soddisfare i criteri di Maastricht alla data del 1 gennaio 1999

(Danimarca, Regno Unito e Svezia), ed escludendo la Grecia (ammessa nell’UME

solo dal 1 gennaio 2001), soltanto la Danimarca partecipa al MTC II; Regno Unito e

Svezia hanno l’impegno, in base al Trattato di Maastricht, di considerare la strategia

di politica valutaria “di comune interesse” con l’UME, per non creare turbative al

funzionamento del mercato unico. Nella stessa data del loro ingresso nell’UE, il 1

maggio 2004, i dieci nuovi paesi del quinto “allargamento” hanno acquisito il diritto a

fare parte del MTC II.

Per quanto non esista un regime di cambio che sia appropriato per ogni paese

ed in ogni fase storica (Frankel, 1999), la letteratura di economia monetaria

internazionale è oggi incline a ritenere sub-ottimali i regimi di cambio “intermedi”,

dalla “fluttuazione manovrata” (managed floating), alla “zona valutaria” (target

zone), dal MTC I dello SME all’attuale MTC II (cambi fissi con banda di oscillazione

e pegging di una valuta “forte”), fino al currency board, ultimo stadio prima

dell’abbandono del proprio segno monetario con l’adozione della valuta rispetto alla

quale si effettua il pegging. Tali regimi, caratterizzati dal riferimento ad una valuta

che funga da àncora per la politica monetaria hanno il difetto di esporre le banche

centrali che li adottano alle volatili aspettative che si formano negli odierni mercati

dei capitali liberalizzati. In contrasto con tale posizione teorica, i paesi dell’ultimo

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ampliamento hanno scelto una strategia di graduale passaggio all’euro. Il sostanziale

successo della creazione della moneta europea ha indotto i Paesi dell’Europa Centro-

Orientale ad accelerare l’ingresso nell’UME. Tali paesi, oltre ad adeguare norme

giuridiche e regolamentazione dei mercati monetari e finanziari, sono impegnati nella

realizzazione delle politiche macroeconomiche necessarie per ridurre inflazione e

deficit pubblico.

I tre paesi di maggiori dimensioni (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria) e la

Slovacchia hanno scelto regimi che permettono di contemperare un legame con l’euro

con una certa flessibilità del cambio e cercano di contrastare tassi di inflazione più

elevati rispetto all’UE-15 adottando l’inflation targeting come obiettivo di politica

monetaria, attraverso la fissazione di un target in termini di indice dei prezzi al

consumo; la Slovenia partecipa all’eurozona dal 1 gennaio 2007; i restanti cinque

paesi sono entrati a fare parte del MTC II. A questi paesi si sono poi aggiunti i tre

paesi baltici. Le tre grandi economie dell’Est Europa non hanno compiuto il passo

dell’adozione dell’euro. Al contrario, data la relativa facilità con cui una economia di

piccola dimensione può mantenersi competitivo attraverso i bassi salari, due dei tre

paesi baltici - come si è già accennato, l’Estonia il 1.1. 2011 e la Lettonia il 1.1. 2014

- hanno portato l’Eurozona a 18 paesi. Pertanto gli Stati dell’Unione Europea che non

utilizzano l’euro sono: Bulgaria, Croazia, Danimarca, Lituania, Polonia, Regno

Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Ungheria.

La principale ragione che consiglia i maggiori paesi dell’Europa Centro-orientale a

non affrettare il passo verso l’euro è la difficoltà a conseguire al contempo stabilità

dei prezzi e stabilità dei tassi di cambio in presenza di differenziali di inflazione con i

paesi dell’UME. Un’altra ragione è la crisi che ha recentemente investito l’Euro nei

mercati finanziari. Tale difficile contingenza comporta il rischio di subire attacchi

speculativi che renderebbe inevitabile il prezzo di politiche macroeconomiche

fortemente restrittive. Un ulteriore temibile fattore di instabilità macroeconomica è la

volatilità delle aspettative dei mercati finanziari sui tassi di conversione e sulla

effettiva data di adesione all’euro. Né va dimenticato che uscire dall’Eurozona dopo

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avervi aderito è una scelta soggetta al grave svantaggio – a norma di Trattati - di

dovere al contempo uscire anche dall’Unione Europea. Questo fattore di rigidità,

finalizzato a rendere “costosa” l’uscita dall’euro di un paese, accresce l’avversione al

rischio di aderire ad un’unione monetaria in crisi.

13. La Banca Centrale Europea

Il sistema europeo delle banche centrali comprende la BCE e le banche centrali

nazionali (BCN) dei paesi membri dell’UE che hanno introdotto l’euro. Con la

nascita della moneta unica la politica monetaria è stata centralizzata presso la BCE; la

funzione di vigilanza sul sistema bancario e sulla stabilità finanziaria – in osservanza

del principio di sussidiarietà – sono invece rimaste prerogativa delle BCN.

Tale scelta risponde all’obiettivo di minimizzare i problemi informativi. Essa è

tuttavia opinabile, perché la contiguità dell’autorità monetaria nazionale con le

banche ad azionariato nazionale potrebbe distorcerne la scelta operativa. L’accesso

alle facilities di liquidità che la BCE deve mettere a disposizione delle BCN in caso

di rischio sistemico mette tali istituti potenzialmente in grado di procedere al

salvataggio non solo degli istituti in “crisi di liquidità” ma anche di quelli per i quali

si configura una vera e propria “crisi di insolvenza”. In una situazione di crisi

bancaria, una BCN potrebbe orientarsi a privilegiare il perseguimento della stabilità

del sistema finanziario sull’obiettivo dell’efficienza del sistema bancario e quindi

svolgere il ruolo di “prestatore di ultima istanza”. In conformità con il principio di

salvaguardia del sistema di incentivi del mercato, si dovrebbe invece permettere che

le banche insolventi falliscano. In effetti, almeno due fattori sembrano militare a

favore della centralizzazione della sorveglianza (prevista dall’accordo sull’Unione

bancaria) e della concessione della funzione di “prestatore di ultima istanza” alla

BCE, sull’esempio degli US dopo la crisi del 1929: 1) la globalizzazione finanziaria,

in particolare la tendenza alla concentrazione fra le imprese bancarie europee. Tale

processo sta creando assetti proprietari trans-nazionali, cosicché il vantaggio

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informativo della banca centrale del paese della sede legale di una banca è destinato a

venire meno; 2) Il sistema Target (Trans-European Automated Real-Time Gross

Settlement Express Transfer). La creazione di tale gestione centralizzata dei flussi di

liquidi - rivolta ad equiparare gli standard di concorrenza - non è in grado di impedire

comportamenti di “azzardo morale” delle BCN nei confronti di banche commerciali

nazionali in difficoltà.

L’assetto istituzionale della politica monetaria nell’UME ricalca la struttura tipica

degli stati federali. Vi convivono sia l’accentramento decisionale - rappresentato dal

fatto che le decisioni di politica monetaria, benché siano preparate sul piano statistico

ed econometrico sia dalla BCE che dalle BCN, vengono prese al livello centrale - che

il decentramento operativo - in quanto le singole banche centrali provvedono ad

attuarne le direttive nei rispettivi stati. Gli organismi decisionali della BCE sono il

Comitato Esecutivo e il Consiglio Direttivo. I membri del primo organismo,

chiamati a svolgere un mandato non rinnovabile di otto anni, sono sei: un Presidente,

un Vice Presidente e quattro “esperti” di alto profilo professionale in campo

monetario. Il Consiglio Direttivo, che si riunisce ogni due settimane nella sede

centrale di Francoforte, è invece composto dal primo organismo e dai governatori

delle banche centrali nazionali. Le decisioni vengono prese a maggioranza semplice;

ognuno dei membri dispone di un singolo voto (ma gli Stati aderenti di piccole

dimensione dovrebbero passare al sistema di voto a rotazione), in ossequio al

principio accolto nel Trattato di Maastricht secondo il quale i governatori devono

servire l’interesse comune dei paesi dell’UME nel loro complesso e non gli interessi

nazionali.

14. La regola di politica monetaria

Fra i cambiamenti strutturali avvenuti negli anni ’70 ed ’80 va annoverato anche

l’affermarsi di un nuovo clima intellettuale riguardo al dilemma di fronte al quale le

autorità monetarie si trovano, la scelta fra discrezionalità e regole di politica

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monetaria. Il principale schema interpretativo di questi due decenni di “alta

inflazione” è stato il modello dell’ “incoerenza temporale” della politica monetaria.

Tale modello ha contribuito a diffondere nella teoria della politica monetaria

un’opinione sfavorevole riguardo al potere discrezionale delle autorità monetarie ed

al loro comportamento “attivistico” nelle politiche di stabilizzazione. I sostenitori

dell’adozione di una “regola fissa” hanno proposto una commitment technology (ad

esempio, la sanzione della penalità pecuniaria a carico del governatore che non si

attenga alla regola) che vincoli in modo credibile l’azione delle autorità monetarie.

Un evidente vantaggio della regola fissa, rispetto alla discrezionalità, è che una banca

centrale la cui volontà di tenere fede alla regola risulti credibile riesce ad ottenere

comportamenti di minore incremento dei prezzi da parte delle imprese price-setter. Il

problema di determinare la regola ottima consiste nell’incompletezza

dell’informazione a disposizione delle autorità monetarie. Riguardo al meccanismo di

trasmissione della politica monetaria e alle determinanti dell’inflazione, è difficile

stabilire in che misura il governatore debba tenere conto dello scostamento

dell’inflazione e dell’output dai valori-obiettivo e di quanto occorra variare il tasso di

interesse. Va rilevato, tuttavia, che nell’ultimo decennio l’affidabilità delle stime delle

variabili rilevanti è notevolmente migliorata.

Concentreremo l’attenzione sulla Regola di Taylor, che oggi rappresenta la funzione

di reazione delle principali banche centrali. Con l’adozione di questa regola di

politica monetaria, il tasso di interesse ha soppiantato la quantità di moneta quale

strumento di attuazione della politica monetaria. Ecco l’equazione che esprime la

Regola di Taylor:

1 1 2 1 2 1* ( *) ( *) ( *)et t t t ti r Y Y e e

l’equazione in base alla quale le autorità monetarie determinano il valore

dell’obiettivo di tasso di interesse i* (la variabile sul lato sinistro dell’equazione)

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perseguito in funzione dei valori noti dello scostamento del tasso di inflazione e

dell’output gap dai rispettivi valori-obiettivo (tasso di inflazione perseguito: π*;

reddito potenziale: Y*) e dall’andamento del tasso di cambio (le variabili sul lato

destro dell’equazione). Se il tasso di interesse ed il reddito sono in linea con i

rispettivi valori-obiettivo (le differenze in parentesi sono eguali a zero), e se la

politica monetaria trascura il tasso di cambio e (il lato destro si riduce ai primi tre

termini), l’equazione il tasso di interesse eguaglia quello che si stima essere il suo

valore di lungo periodo (r + π*). Altrimenti, attraverso la variazione del tasso di

interesse-base fissato dalla Banca centrale, il valore corrente del tasso di interesse

viene ricondotto ad eguaglianza il suo valore di lungo periodo (r + π*).

La contraddizione fra l’obiettivo di un rigoroso perseguimento della stabilità

monetaria e l’obiettivo della stabilizzazione del reddito è meno rilevante di quanto

appaia con riferimento ad un modello macroeconomico di concorrenza perfetta con

perfetta flessibilità di salari e prezzi. Tasso di inflazione e output gap non sempre

sono perfetti sostituti nel segnalare le tensioni di domanda presenti nel sistema

economico. Un processo di aggiustamento divergente fra i due mercati – ad esempio,

per una disomogeneità fra wage gap e price gap in concorrenza monopolistica - può

influenzare la strategia di politica monetaria. Se la flessibilità del mercato dei beni

differisce da quella del mercato del lavoro, soprattutto nel caso di una manovra di

stabilizzazione diretta ad assorbire uno shock negativo di offerta, le autorità

monetarie – per determinare l’opportuna variazione del tasso di interesse - debbono

tenere conto sia dell’uno che dell’altro scostamento delle due grandezze dai rispettivi

valori-obiettivo.

L’originario studio di Taylor determina il tasso di interesse della Federal Reserve

sulla base dei due termini noti (inflation gap e output gap) ed attribuendo dei valori

noti ai parametri λ1, λ2. Affinché la determinazione del tasso-obiettivo it* sia precisa,

è tuttavia necessaria la stima econometrica dei valori dei parametri. Essa consiste

nell’utilizzare come termine noto il valore corrente del tasso di interesse sul lato

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sinistro dell’equazione, cosicché i due parametri diventano le incognite da

determinare.

Una regressione condotta sulla politica monetaria degli anni 1987-89 ha stimato i

seguenti coefficienti: per la Bundesbank λ1=1,3 e λ2= 0,2, e per la Federal Reserve i

λ1=1,0 e λ2=0,9. Il confronto mostra che nel trade-off inflazione-disoccupazione la

banca centrale che guidato la creazione di moneta in Europa negli anni dello SME

dava all’obiettivo di inflazione un peso superiore ed all’obiettivo di reddito (e di

riduzione della disoccupazione) un peso molto inferiore a quelli della banca centrale

degli Stati Uniti.

I coefficienti recentemente stimati per la BCE (λ1=1,5, e λ2 =0,5) indicano come la

banca centrale europea sia ancora più rigorosa della Bundesbank nel fissare un alto

valore del parametro relativo alla stabilità monetaria; il valore superiore a quello della

Bundesbank del parametro relativo all’obiettivo della stabilizzazione dell’output

sembra da attribuire al fatto che nei primi anni dell’euro si è manifestato un forte

shock di domanda, a fronte della dominante presenza di shock di offerta negativi

negli anni dello SME.

Non va poi dimenticato che le politiche di stabilizzazione sono la risultante delle due

stance monetaria e fiscale. Il policy mix che scaturisce dalle decisioni delle due

autorità può alternativamente consistere in un equilibrio di Nash, dove ciascuna

autorità massimizza la propria funzione di comportamento sulla base dell’aspettativa

sulle credenze e sulle strategie dell’altra autorità, oppure in un equilibrio cooperativo,

dove le autorità agiscono di concerto. La Commissione Europea si attende che la

politica fiscale – in particolare nei paesi dell’UME ad “alto” debito pubblico -

privilegi l’obiettivo della decumulazione del debito su quello della stabilizzazione

dell’output. L’obiettivo della stabilizzazione dell’output viene così a ricadere sulla

sola politica monetaria.

Una interpretazione rigida della regola monetaria stabilisce come unico obiettivo di

policy il tasso di inflazione. Si tratta del cosiddetto inflation targeting, la regola

coerente con il modello NCE, che afferma l’irrilevanza delle politiche

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macroeconomiche ed attribuisce all’aggiustamento del mercato la funzione di

superare uno shock negativo. Come si è accennato, diversamente dalla Fed, dove il

valore del λ2 dimostra l’impegno a perseguire anche l’obiettivo di reddito ed

occupazione, la BCE ha una funzione obiettivo “lessicografica”, cioè che pone la

stabilità dei prezzi al primo posto e non ammette trade off tra gli obiettivi: si tratta di

un inflation targeting rigido. Inoltre, la BCE è una delle poche che ha il potere

(sancito dal Trattato di Maastricht) di fissare l’obiettivo di inflazione senza

concordarlo con il “suo” governo (cioè la Commissione).

Tuttavia, diversamente dalla BCE, le altre banche centrali che adottano l’ inflation

targeting fanno ricorso spesso ad una sua versione meno rigida. Il Regno Unito dal

1992 e altri paesi con banche centrali indipendenti (Australia, Nuova Zelanda,

Canada, Stati Uniti, da ultimo Giappone). prevedono un trade off tra variabilità

dell’inflazione intorno all’obiettivo e variabilità del Pil intorno al livello (o al tasso di

crescita) potenziale. In altri termini, di fronte ad uno scostamento del tasso di

inflazione dal valore-obiettivo, modificano il tasso di interesse in maniera da tenere

conto anche dell’obiettivo di reddito.

Facciamo un esempio. In presenza di uno shock d’offerta negativo simmetrico, che

innalza i costi di produzione e quindi l’inflazione al di sopra del valore-obiettivo, la

regola dell’inflation targeting implica che la restrizione monetaria abbia un effetto

pro-ciclico (finisce cioè per accentuare la discesa dell’output successivamente

all’abbassamento rispetto al reddito potenziale causato dallo shock negativo). Una

banca centrale può rendere l’obiettivo prioritario della stabilità monetaria compatibile

con il perseguimento dell’obiettivo di stabilizzazione del reddito se realizza una

correzione al rialzo del tasso di interesse meno che proporzionale rispetto alla

variazione del tasso di inflazione. Il tasso di interesse-obiettivo viene perciò

determinato mediante la somma fra tasso di interesse-obiettivo della Regola di Taylor

e tasso di interesse del periodo precedente moltiplicati ciascuno per un “peso” (θ<1 e

µt è l’errore stocastico):

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(8.1) tttt iii 1)1(*

Tanto minore è il valore attribuito al “peso” che la banca centrale applica al tasso di

interesse-obiettivo di lungo periodo (θ) – e, quindi, tanto più conta il tasso del periodo

precedente (1-θ) - tanto più “lento” è l’adeguamento del tasso di interesse di mercato

al valore-obiettivo it* perseguito dalla banca centrale, tanto minore è l’effetto pro-

ciclico.

La scelta di esplicitare la sola stabilità dei prezzi come obiettivo della politica della

BCE è stata interpretata come un segnale rivolto ai mercati finanziari internazionali:

la BCE ha voluto presentarsi come l’erede dell’impegno anti-inflazionistico che valse

alla Bundesbank il ruolo di guida della formazione di liquidità nello SME. Nei

mercati valutari, i maggiori pericoli di tensioni inflazionistiche all’interno dell’UME

vengono associati all’eventualità che uno o più governi possano esercitare pressioni

sui governatori delle BNC perché il Consiglio Direttivo adotti una politica monetaria

più accomodante. Nell’UME, il Chicken Game fra le due autorità è diverso

dall’interazione strategica descritta precedentemente, perché la BCE fronteggia

diciotto ministri del Tesoro. Come vedremo, l’esternalità negativa che la politica

fiscale di un governo può trasmettere all’eurozona ha consigliato di sottomettere le

politiche fiscali nazionali al coordinamento delle regole del PSC, nella convinzione

che – in mancanza di un meccanismo di enforcement sulle fiscal stance dei governi

nazionali - l’assetto istituzionale dell’UME abbia un’elevata probabilità di dare luogo

ad una restrizione monetaria ed un’espansione fiscale, l’esito del Chicken Game con

la peggiore somma dei pay-off.

15. Il Patto di Stabilità e Crescita

Il PSC, entrato in vigore il 1 luglio del 1998, è l’istituzione preposta al

coordinamento delle politiche fiscali dei paesi dell’UME. Il varo dell’unione

monetaria, il 1 gennaio 1999, era destinato ad annullare l’incentivo a sorvegliare i

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conti pubblici rappresentato dalla sanzione di esclusione dall’euro in caso di

eccessivo deficit e/o debito pubblico. Fu indubbiamente tale sanzione a stimolare la

convergenza nominale entro i limiti stabiliti. Una volta ammessi nell’UME, i governi

avrebbero riconquistato piena autonomia, con il rischio di vedere una ripresa della

formazione di deficit tale da mettere in dubbio la sostenibilità del debito pubblico. In

breve, il primo dei due criteri di Maastricht sul settore pubblico, essendo stato

recepito dal PSC, è rimasto in vigore nell’UME.

Il PSC ha introdotto un sistema di “disciplina fiscale” più articolato rispetto al

Trattato di Maastricht (TEU). Nel vietare il finanziamento in moneta dei deficit

pubblici, l’art. 104 del TEU e l’art. 21.1 dello statuto della BCE, avevano affidato alle

sole autorità fiscali nazionali la responsabilità dei bilanci pubblici. Il TEU afferma

che una posizione fiscale solida è condizione necessaria per il buon funzionamento di

un’unione monetaria; se i conti pubblici tendono verso il limite del 3% viene avviata

una procedura che, in caso di infrazione, culmina in una sanzione. Gli articoli del

PSC precisano le condizioni di validità del limite del 3% prevedendo che lo

“sfondamento” si giustifichi soltanto in presenza di tre condizioni

1. l’eccezionalità: la causa deve essere una grave recessione, definita come una

caduta improvvisa del reddito reale almeno pari allo 0,75%;

2. la transitorietà: il rientro nel limite deve avvenire subito dopo il primo anno e

3. la prossimità: il valore del rapporto non deve allontanarsi di molto dal 3%.

Le principali integrazioni successivamente inserite al Patto sono state: 1) la

Risoluzione che introdusse la formula “close to balance or in surplus”, che impone

l’obbligo di raggiungere nel medio termine un bilancio pubblico “vicino al pareggio o

in surplus”. La logica economica di questo vincolo aggiuntivo è che, nell’equilibrio

macroeconomico, la posizione fiscale “normale” è il bilancio in pareggio. Una volta

raggiunto il pareggio, in occasione di uno shock un paese si troverà nella condizione

di potere sfruttare in tutta la sua ampiezza l’intervallo fra 0 (bilancio in pareggio nel

medio termine) e 3% (vincolo sul deficit pubblico annuale), senza il timore che

l’effetto espansivo, anche quello generato dal più robusto fra i sistemi di stabilizzatori

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automatici, possa causare lo “sfondamento” del limite. Per rimanere ancorati al

pareggio di bilancio nel medio termine, i paesi membri dovrebbero rinunciare a

politiche discrezionali di stabilizzazione ed affidare la correzione del ciclo economico

ai soli stabilizzatori automatici (vedi § 4.5); 2) l’Opinione del Consiglio Europeo del

2002 secondo cui la misura appropriata per valutare la posizione fiscale di un paese è

il saldo di bilancio pubblico depurato dal ciclo (saldo strutturale); 3) il “nuovo PSC”,

ovvero la revisione che nel marzo 2005 ha introdotto modifiche rivolte a rendere

meno cogenti i vincoli del PSC: un periodo più esteso entro il quale correggere i

deficit eccessivi; una maggiore discrezionalità nella valutazione delle suddette tre

condizioni; in particolare, per i paesi con un “basso” rapporto debito pubblico/PIL, il

limite non soggetto a sanzione è elevato al 3,5%, il periodo di tolleranza è esteso a

due anni e dal computo del deficit pubblico sono deducibili alcune specifiche spese

dirette a promuovere la crescita.

L’applicazione delle regole del PSC avviene all’interno di un sistema di check and

balances fra i poteri dell’UME. Qualora uno squilibrio nei conti pubblici abbia posto

il deficit su un sentiero tendenziale di “sfondamento” – e non sussistano le condizioni

per applicare i tre criteri di tolleranza - il Consiglio dei Ministri dell’Economia

(Ecofin), su indicazione della Commissione, emette un “preavviso di infrazione”

(early warning). La “procedura di deficit eccessivo” (PDE) prevista nel TEU assegna

alla Commissione Europea il compito di monitorare l’andamento dei deficit e dei

debiti pubblici rispetto al PIL dei paesi dell’UME ed eventualmente proporre la

sanzione; la competenza per la decisione finale di esigere la sanzione spetta però

all’Ecofin. Se la moral suasion affinché l’autorità fiscale del paese persegua le misure

di contenimento suggerite non ha esito, viene comminata una sanzione:

l’accantonamento in un deposito infruttifero di una forte pena pecuniaria.

La potestà condivisa fra Commissione Europea ed Ecofin riguardo all’attuazione

delle sanzioni rivela un precario compromesso fra scelta politica e vincolo

economico. Assegnare la decisione finale ad un organo politico - ineccepibile sotto il

profilo, per così dire, costituzionale – sotto il profilo economico rappresenta un

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indebolimento del meccanismo di enforcement della politica fiscale che riduce la

credibilità del PSC agli occhi dei mercati finanziari. Si pensi alle deliberazioni finora

assunte dall’Ecofin nei casi di sfondamento del limite del 3%: la sanzione fu

comminata (benché non eseguita) quando ad eccedere il “tetto” nel 2002 fu un paese

meno influente come il Portogallo; ma quando a trovarsi in condizioni di

inadempienza simili sono state nel 2003 Francia e Germania, la proposta di sanzione

formulata dalla Commissione non è stata accolta. D’altro canto, il fatto che la

Commissione debba render conto delle proprie decisioni (accountability) soltanto al

Parlamento Europeo, da cui viene eletta, indebolisce il suo potere di proporre una

sanzione a carico di un paese membro.

La logica sottostante all’introduzione di un limite sul deficit pubblico / PIL ha

ricevuto molte interpretazioni. La spiegazione di teoria economica più

frequentemente addotta consiste nella turbativa della capacità della BCE di

controllare il tasso di interesse sull’euro. Ingenti emissioni di titoli pubblici da parte

di uno o più paesi dell’UME, generando un eccesso di domanda di fondi liquidi,

potrebbe innescare tensioni al rialzo del tasso di interesse nei mercati finanziari

europei.

Tuttavia, le stime econometriche indicano che un punto di incremento nel deficit

pubblico di un paese europeo di media grandezza ha un impatto di incremento del

tasso di interesse molto basso: all’incirca 1/10. Un’espansione fiscale in uno o più

paesi dell’UME non dovrebbe quindi riflettersi in un incremento del tasso di interesse

per l’area valutaria nel suo complesso, quanto piuttosto nella formazione di un

“premio per il rischio” di default sui titoli emessi da un particolare paese, soprattutto

se è ad “alto” debito pubblico. Le cose cambierebbero una volta che si esaurisse

l’offerta di liquidità molto ampia prodotta a livello mondiale dalla forte

interdipendenza consolidatasi fra i mercati dei capitali successivamente alla completa

liberalizzazione. In una fase di tassi di interesse crescenti, un eccessivo ricorso dei

governi ai mercati finanziari dell’UME potrebbero causare l’esternalità negativa

dell’incremento del tasso di interesse nell’eurozona.

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Una seconda argomentazione si fonda sul timore che la BCE sia indotta a concedere

credito ad un paese in difficoltà. Se un governo si vede costretto a rifinanziare il

proprio debito a tassi crescenti e si nutrono dubbi sulla sua solvibilità fiscale, alla

BCE è fatto divieto dallo Statuto di procedere al salvataggio (no bail-out clause). Tale

clausola è rivolta ad evitare che la crisi di solvibilità di uno stato provochi un effetto

sistemico sui mercati finanziari europei. Tuttavia, anche senza tirare in ballo il fattore

politico, e cioè l’implausibilità di una “bancarotta” di uno stato europeo, è lo stesso

impegno di no bail-out assunto dalla BCE ad apparire poco credibile.

In qualsiasi momento la BCE potrebbe causare un’esternalità negativa ai danni degli

altri paesi dell’UME intervenendo sul mercato secondario con operazioni di mercato

aperto di acquisto dei titoli pubblici (e corrispondente creazione di euro) di un paese

in crisi di insolvenza. Il “salvataggio” costringerebbe però la BCE ad accettare come

collaterale delle operazioni di rifinanziamento al tasso “repo” anche titoli pubblici

che gli istituti finanziari internazionali classificano ormai come “junk bond”. La BCE

pagherebbe così il sostegno concesso ad un singolo paese con una grave perdita di

credibilità. Nei mercati finanziari si diffonderebbe l’aspettativa di “monetizzazione”

del debito pubblico dei paesi dell’UME e gli operatori tenderebbero a ridurre le

proprie posizioni in euro.

Un altro aspetto controverso è il fatto che il PSC è circoscritto alle regole riguardanti

il deficit pubblico e non prevede un vincolo sul debito pubblico. Nessun divieto

aggiuntivo venne previsto per i paesi il cui rapporto debito pubblico / PIL superava

nel 1998 il 60% e che furono ammessi nell’UME sulla base del giudizio – ex post

risultato mal fondato - dell’esistenza di un trend di “riduzione tendenziale”. Benché il

PSC sia silente riguardo a questo secondo criterio di Maastricht di politica fiscale – il

rapporto debito/PIL - dall’analisi del debito pubblico condotta nel § 4.5 è facile

desumere che un nesso fra i due criteri di Maastricht esiste ed è rappresentato dal

tasso di crescita dell’economia.

Riprendiamo e sviluppiamo l’analisi delle relazioni fra deficit pubblico, debito

pubblico e tasso di crescita. La stabilizzazione del rapporto debito pubblico/PIL : (bt

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- bt-1 = 0) , implica che il deficit complessivo - la somma fra deficit primario e spesa

per interessi – in percentuale del PIL non superi il prodotto fra tasso di crescita e

rapporto debito pubblico/PIL. A condizione che l’equazione (4.15) può essere scritta

come: ibg /)( . Poiché ib /)( rappresenta il deficit complessivo / PIL,

utilizzando i valori percentuali imposti alla politica fiscale dal Trattato di Maastricht -

il 3% per il rapporto deficit complessivo / PIL ed il 60% per il rapporto debito / PIL

(b) - si determina l’incognita (g): 0,05 = 3% / 60%. I due limiti risultano quindi

compatibili con una crescita del reddito nominale pari al 5%. Non casualmente,

all’epoca in cui i due limiti vennero concepiti per essere inseriti nel Trattato di

Maastricht, il tasso di crescita in Germania era pari al 5% nominale (il 2,5% in

termini reali). L’attuale tasso di incremento del reddito nominale nell’UME è però

soltanto il 3% circa, pari al 40% in meno.

Nella tabella qui sotto, nella prima riga si ricorda che i valori fissati a Maastricht di

limite da rispettare per deficit e debito pubblico rispetto al PIL erano coerenti con un

tasso di crescita nominale al 5% (supponendo un obiettivo di stabilizzazione del

rapporto debito pubblico / PIL); nelle righe che seguono, si presentano alcuni nessi

fra le tre variabili: deficit, debito e tasso di crescita.

Il fatto che l’andamento del debito pubblico sia fortemente condizionato dalla

dinamica del reddito rende problematico per i paesi ad alto debito pubblico / PIL il

soddisfacimento del limite del 60%. Con un’inflazione che permane attorno al 2%, se

il PIL reale non cresce al 3%, affinché un paese con un rapporto debito/PIL intorno al

60% possa rispettare il vincolo, il rapporto deficit/PIL deve necessariamente essere al

di sotto del 3%. Sappiamo che non si tratta di un semplice esempio ma di una

situazione reale, dato l’abbassamento del tasso medio di crescita registratosi in

Europa.

Ragionando secondo il modello del RBC, la perdita di un punto percentuale nella

crescita media della produttività del lavoro nell’UE (dal 2,3% del quindicennio 1975-

90 all’1,3% degli anni ’90) non si riflette in una fluttuazione ciclica ma va

interpretata come una caduta strutturale del tasso di crescita del reddito dal 2,5%

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all’1,5%. Se la Commissione Europea avesse abbracciato questo punto di vista, in

base all’attuale tasso di crescita nominale del 3% (1,5% in termini reali: i valori del

reddito reale sono compresi nell’Europa continentale fra 0,5% e 2%) il limite sul

deficit dovrebbe essere molto più severo di quello attuale. Avrebbe infatti dovuto

essere apportata la correzione del limite dal 3% all’1,8% (Gros, 2005). Oggi che il

tasso medio di crescita annuo nell’Eurozona è caduto a valori vicini allo zero, tale

correzione è divenuta improponibile.

16. La politica monetaria della BCE

Il lungo processo di integrazione monetaria era stato caratterizzato da un lungo

periodo di “alti” tassi di interesse reale determinati dalla Bundesbank per l’intera area

dello SME. Una spiegazione alternativa della lenta crescita del decennio 1985-95 è

stata individuata nei bassi tassi di crescita del reddito, che vengono messi in relazione

con gli alti tassi di interesse e con l’abbandono in Europa delle politiche

macroeconomiche di sostegno ai livelli di attività economica (Phelps, 1994; Fitoussi

et al., 2000).

L’evidenza empirica presentata nella Figura qui sotto mostra come per tutto il periodo

centrale dello SME, il tasso di interesse fosse superiore al tasso di crescita. Se si

escludono episodi particolari (il picco della recessione nel 1982 per gli Stati Uniti e

nel 1993 per Germania, Francia ed Italia) , il confronto fra i tracciati per i tre

maggiori paesi dello SME e gli Stati Uniti è particolarmente illuminante. Mentre i

valori delle due variabili sono mediamente in equilibrio negli Stati Uniti, si registra

mediamente un eccesso del tasso di interesse sul tasso di crescita, che a volte

raggiunge una notevole ampiezza (in tutto il decennio 1985-95 i tassi di interesse

sono stati in Europa superiori a quelli statunitensi; nel periodo 1989-93 i tassi a breve

hanno sopravanzato i tassi a lungo termine).

Nei tre paesi dello SME, il periodo di maggiore eccesso del tasso di interesse rispetto

al tasso di crescita è quello che va dalla fine della prima fase (1979-86) alla fine della

seconda fase (1987-92) dello SME. I tracciati di Germania da un lato e Francia ed

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Italia dall’altro, sono molto diversi. In Italia, i divari positivi appaiono molto più

pronunciati rispetto a quelli del paese leader dello SME già a partire dalla prima fase:

nel § 6.6 ne abbiamo individuato l’origine nel differenziale di tasso di interesse

dovuto ai premi per il rischio di cambio e di default.

Nelle principali fasi recessive conosciute dai paesi dello SME (1980-82 e 1991-93), si

può ipotizzare che l’orientamento restrittivo della politica monetaria della

Bundesbank abbia finito per penalizzare non solo l’evoluzione del rapporto deficit

pubblico/PIL (a causa dell’impatto negativo che alti tassi inducevano sul deficit

secondario al numeratore e della lenta dinamica del PIL al denominatore) ma anche la

crescita economica. Come viene illustrato nella Figura, in Germania, Francia ed Italia

soltanto la drastica discesa dei tassi di interesse determinata dal passaggio all’unione

monetaria rende nuovamente possibile quell’eccesso del tasso di crescita sul tasso di

interesse che era scomparso con l’inizio dello SME.

Figura. Tassi di interesse e tassi di crescita (valori reali): Germania, Francia, Italia e

Stati Uniti (1979-2004)

Germania

-2

0

2

4

6

8

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

Francia

-2

0

2

4

6

8

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

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Italia

-6

-4

-2

0

2

4

6

8

10

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

Stati Uniti

-4

-2

0

2

4

6

8

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

2001

2003

crescita tasso di interesse a breve termine

L’unione monetaria ha anche coinciso con una fase di bassi tassi di interesse reali nei

mercati finanziari internazionali. L’ambiente economico in cui la BCE si trova ad

operare è dunque fondamentalmente diverso rispetto a quello in cui erano venute a

trovarsi la Bundesbank e le altre banche centrali europee.

La politica monetaria comune dei primi cinque anni è stata condotta sotto il

segno della prudenza. Una delle principali motivazioni risiede nel difficile equilibrio

fra l’esigenza della BCE di costruirsi una reputazione anti-inflazionistica e l’esigenza

di impedire che i fattori di instabilità macroeconomica – ad esempio, lo shock di

domanda negativo rappresentato dall’attacco alle “torri gemelle” - compromettano le

già molto deboli prospettive della crescita economica nell’area dell’euro. Questa

difficoltà è stata accresciuta dalla circostanza che, se si esclude un breve intervallo fra

metà 2000 e metà 2001, l’obiettivo intermedio della politica monetaria – un tasso di

crescita dell’aggregato M3 (la base monetaria, più i suoi più vicini sostituti del

mercato monetario) fissato dalla BCE al 4,5% annuo - è stato sempre mancato per

eccesso, in una misura fra i 2 ed i 4 punti percentuali per anno. Una possibile

spiegazione chiama in causa i valori immobiliari. Il rapido abbassamento dei tassi di

interesse potrebbe avere stimolato la domanda di abitazioni con conseguente

esplosione dei prezzi, oppure, all’inverso, l’alta percentuale europea di residenti

proprietari potrebbe avere beneficiato di un effetto ricchezza da incremento dei valori

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immobiliari tale da provocare un notevole innalzamento della domanda di moneta.

Diversamente da altre banche centrali, la BCE non utilizza un indice del costo della

vita che includa anche il prezzo delle case. La lentezza e la timidezza con cui la BCE

ha corretto il tasso di interesse al ribasso potrebbe avere origine dall’incertezza

sull’effettivo significato del livello abnorme di M3. Una strategia di politica

monetaria sostanzialmente imperniata sull’inflation targeting, ma che si sviluppa

senza un relativo annuncio e basandosi sul monitoraggio della M3, non è in grado né

di intervenire con prontezza né di comunicare segnali credibili ai mercati.

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Parte Terza

Crisi finanziaria e Grande Recessione mondiale

1. Introduzione

La crisi finanziaria 2007-09 ha gettato un’ombra sugli anni della “Grande

Moderazione”. Con tale espressione si intende la crescita del reddito e

dell’occupazione in presenza di inflazione bassa e stabile che caratterizzò le

economie avanzate negli anni ’90. Alla Federal Reserve è stato da molti economisti

attribuito il merito di avere saputo favorire quest’epoca di crescita continua con alto

tasso di occupazione e senza inflazione. Benché il 2000 fu l’anno in cui scoppiò la

bolla dot.com, fino all’esplodere della crisi finanziaria del 2007-09 il giudizio sulla

politica monetaria del governatore Greenspan era più che lusinghiero. Al governatore

veniva solo imputato di avere troppo a lungo favorito con bassi tassi di interesse la

crescita dei listini finanziari, senza rendersi conto che alla fine degli anni ’90 i prezzi

delle azioni erano troppo elevati rispetto alle aspettative di profitto futuro delle

imprese dei settori ICT.

La crisi finanziaria 2007-09, nel dimostrare quanto tali economie fossero in effetti

esposte a gravi pericoli, ha anche smosso molte certezze. Ci si interroga, ad esempio,

sull’intonazione costantemente espansiva che Greenspan diede alla politica monetaria

della Fed, con l’effetto di sostenere dal 1992 al 2000 una crescita dell’economia

statunitense mai interrotta da fasi cicliche negative, ma anche di generare un trend di

crescita delle quotazioni di Wall Street che si è rivelato non conforme alle prospettive

di profitto delle imprese. Come ha documentato Robert Shiller, una bolla finanziaria

si caratterizza per un'anomala convergenza delle opinioni e delle aspettative degli

investitori e degli intermediari finanziari sull'andamento dei prezzi delle attività

patrimoniali: non solo diminuisce la percezione del rischio, ma viene meno la

normale differenza di opinioni che, quando i prezzi salgono, induce alcuni a

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comperare e altri a vendere. Questo accade quando la giusta preoccupazione delle

autorità monetarie e governative di intervenire nei mercati allo scopo di impedire

crisi di sfiducia è usata male dal sistema bancario. Negli anni precedenti le bolle

speculative di fine secolo scorso, a Wall Street si consolidò l'opinione secondo cui la

Federal Reserve americana e il Tesoro sarebbero intervenuti per salvare i finanzieri

dai loro errori, da un lato con la creazione di moneta, dall'altro evitando il fallimento

delle banche troppo esposte. Questa aspettativa ha creato un perverso incentivo per le

banche, invogliandole ad assumere un atteggiamento opportunistico. Le banche

hanno scambiato la giusta preoccupazione di proteggere i risparmiatori per la licenza

di accrescere a dismisura il grado di rischio della loro attività. A favorire l’azzardo

morale delle banche è stata anche la presenza di un grave conflitto di interessi: i

ministri del Tesoro provengono spesso dai ranghi di Wall Street.

Dopo la grande crisi degli anni ’30, la riforma del sistema bancario degli Stati Uniti si

articolò in tre provvedimenti: 1) la Banca centrale assunse la funzione di prestatrice

di ultima istanza (lender of last resort) del sistema economico; 2) lo Stato istituì il

meccanismo dell’assicurazione pubblica dei depositi (con l’istituzione della Federal

Deposit Insurance, il governo dà la garanzia della restituzione della liquidità ai

depositanti delle banche insolventi, il che sollevò le banche dal timore di “corsa agli

sportelli” in caso di panico finanziario); 3) la regolamentazione del sistema bancario

divenne più stringente: il Glass-Steagall Act introdotto nel 1933 istituì la separazione

fra banche commerciali (autorizzate a raccogliere depositi presso i risparmiatori) e

banche di investimenti (che si finanziano esclusivamente sui mercati finanziari).

Quest’ultima riforma ha incontrato sempre più oppositori in Europa dopo la

deregolamentazione bancaria attuata negli anni ’80 negli Stati Uniti, culminata nel

novembre 1999 con la promulgazione del Gramm-Leach-Bliley Act, che ha abolito

tale separazione. Il motivo di fondo di tale rilevante cambiamento fu l’evoluzione

della teoria economica a favore di una sempre più radicale attuazione del liberismo.

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2. Squilibri macroeconomici nell’Eurozona

Approfondiamo il problema dell’equilibrio macroeconomico complessivo di un’area

valutaria con sistemi produttivi eterogenei qual è l’Eurozona.

L’equilibrio macroeconomico complessivo di una economia risulta dalla somma

algebrica dei bilanci dei settori privato, pubblico ed estero. In sintesi, un’eventuale

divergenza (positiva o negativa) fra risparmi (S) ed investimenti (I) nel settore privato

viene annullata dalla somma algebrica di eventuali divari fra le spesa pubblica (G) e

le entrate fiscali (T) nel settore pubblico, e fra importazioni (M) ed esportazioni (X)

nel settore estero:

(S – I) = (G - T) + (X – M)

Nel caso il risparmio ecceda l’investimento, il flusso in eccesso viene trasmesso dai

mercati finanziari al settore pubblico per coprire un deficit (l’eventuale eccesso di

spesa pubblica sulla tassazione: G>T) e/o per permettere agli operatori esteri di

pagare l’eccesso di importazioni (i beni esportati dal paese stesso in eccesso rispetto

alle proprie importazioni: X>M). Nel caso in cui sia l’investimento a sopravanzare il

risparmio (S < I), l’eccesso di domanda interna deve essere compensato da un surplus

del bilancio pubblico (G < T) e/o di capitali provenienti dall’estero (un eccesso di

importazioni sulle importazioni: X < M). In altri termini, i flussi di capitale

finanzieranno l’eccesso di spesa pubblica sulla tassazione (il deficit pubblico interno)

e/o l’eccesso di importazioni sulle esportazioni.

Se il volume degli investimenti cade al di sotto dei risparmi, come viene soddisfatta

la condizione di equilibrio di economia aperta: S – I = (G - T) - (X - M) ?

Lo squilibrio macroeconomico non può essere annullato con l’assorbimento

dell’eccesso di risparmio da un eccesso della spesa pubblica sulle entrate fiscali: il

PSC infatti vincola la politica fiscale al perseguimento del pareggio di bilancio ed

esclude il ricorso alle politiche discrezionali. Non è d’altronde neppure facile

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ipotizzare che il riequilibrio avvenga attraverso la creazione di un eccesso delle

esportazioni sulle importazioni. Una domanda debole è infatti spesso la spia di una

difficoltà ad espandere la propria quota di mercato estero. Un paese il cui CLUP

presenti una dinamica più rapida rispetto a quelle degli altri paesi dell’UME soffrirà

di una tendenza all’apprezzamento reale all’interno dell’area valutaria con

conseguente formazione di deficit commerciale. L’indebolimento delle politiche di

stabilizzazione ha così finito per lasciare la flessibilità del salario quale unico

strumento disponibile di politica economica. La politica dell’offerta suggerita dai

modelli NCE implica il ridimensionamento del ruolo dei sindacati e delle istituzioni

del mercato del lavoro. Tali riforme microeconomiche dovrebbero consentire il

rallentamento della dinamica salariale rispetto alla dinamica della produttività ed

innescare il deprezzamento del tasso di cambio reale necessario a ripristinare la

competitività e rilanciare le esportazioni (Allsopp e Artis, 1999). Una risposta agli

shock completamente affidata all’operare dell’aggiustamento di mercato presenta

tuttavia il rischio di innescare una competizione fa i paesi dell’UME attraverso uno

strumento, come la svalutazione reale, che potrebbe perpetuare invece che superare la

tendenza deflazionistica della domanda aggregata.

Tale rischio è accentuato dalla notevole asimmetria che in Europa si registra

nell’efficacia delle politiche economiche, riconducibile alla forte eterogeneità

dimensionale. Dalla comparazione degli indicatori delle piccole economie con quelle

delle economie di grandi dimensioni risulta che le prime ricorrono in misura

maggiore alla competizione fiscale ed alle politiche microeconomiche (supply-side) e

le seconde in misura maggiore alle politiche macroeconomiche (Elmeskov e Duval,

2005). L’evidenza empirica sembra convalidare l’ipotesi che il ricorso alla

competizione fiscale è particolarmente vantaggioso per le economie di piccole

dimensioni: data la limitata dimensione del settore produttivo nazionale, un più basso

saggio di tassazione non causa gravi perdite nel bilancio pubblico, perché le entrate

aggiuntive generate dagli afflussi di capitale dall’estero tendono ad eccedere la

riduzione del gettito fiscale ricavato dalle imprese domestiche. I paesi di piccole

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dimensioni possono inoltre trarre notevole vantaggio da riforme del mercato del

lavoro: la forte apertura verso l’estero fa sì che un’alta flessibilità del salario al tasso

di disoccupazione, permettendo un rapido aggiustamento dell’output al suo valore

potenziale, porti alla riduzione del CLUP ed al miglioramento della competitività.

D’altro canto, presentando una matrice intersettoriale molto meno “piena” di quella

dei grandi paesi, i piccoli paesi hanno una elevata propensione ad importare, che è

causa di un basso valore del moltiplicatore di economia aperta, troppo basso perché le

politiche di espansione della spesa pubblica possano risultare vantaggiose. Al

contrario, i paesi di dimensioni medio-grandi, grazie al più alto valore del

moltiplicatore di economia aperta, contano sul sostegno della spesa pubblica alla

domanda interna e sono quindi penalizzate dai vincoli posti dal PSC sulle manovre

fiscali discrezionali e dalla mancata applicazione della “regola aurea” che

permetterebbe di escludere dal vincolo del 3% le spese per grandi progetti di

infrastrutture. Gli incentivi che il principio di sussidiarietà adottato da Bruxelles offre

all’attuazione di politiche di competizione fiscale e di deregolamentazione del

mercato del lavoro appaiono concepiti sul modello di una piccola economia aperta -

qual è ad esempio l’Irlanda - e sottovalutano come al problema della bassa crescita

delle grandi economie dell’eurozona contribuisca il mancato sostegno delle politiche

pubbliche alla domanda aggregata.

Lo squilibrio macroeconomico all’interno dell’Eurozona, che vede il surplus di conto

corrente della Germania contrapporsi (anche nel senso di impedire il riassorbimento

dei deficit presenti in molti paesi della Periferia) presenta analogie con quello

esistente fra Cina e Stati Uniti. Prima della crisi finanziaria, lo squilibrio

macroeconomico interno USA era all’ingrosso così quantificabile:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

-3 +4 -7

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In breve, l’eccesso degli investimenti sul risparmio veniva finanziato dal resto del

mondo. E’ stata in primo luogo la Cina a finanziare il deficit pubblico USA,

acquistandone i titoli pubblici, e il deficit commerciale USA, acquistando le azioni

delle imprese private. Dopo che la recessione seguita alla crisi finanziaria ha

fortemente ridotto la domanda interna, ed il deficit pubblico viene alimentato dal

trasferimento dei debiti delle banche al governo federale, il settore privato presenta

uno squilibrio in diminuzione, il settore pubblico ha accresciuto la propria

esposizione debitoria, mentre il settore estero ha visto ridursi il proprio deficit:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

-1 +5 -6

Questo lento processo di riequilibrio vede in primo piano il ruolo del tasso di cambio.

Con l’alleggerimento dei controlli sui movimenti di capitale, che limitano la

conversione in renmimbi dei dollari ricevuti dagli esportatori dei settori pubblico e

privato cinesi, l’eccesso di offerta di dollari a Pechino ha apprezzato il cambio della

valuta cinese con il dollaro. La rivalutazione consentita dalle autorità cinesi al

renmimbi ha ridotto il surplus commerciale della Cina ed il deficit degli Stati Uniti.

Lo stesso riequilibrio non può accadere nell’UME, dal momento che la valuta

comune rende impossibile la rivalutazione nominale della Germania e la svalutazione

nominale dei paesi periferici. Un eventuale riequilibrio rimane così affidato ad un

apprezzamento reale della Germania - attraverso un tasso di inflazione più alto della

media UME che ne riduca le esportazioni nette verso il resto dell’UME - e un

deprezzamento reale dei paesi periferici – attraverso quella discesa dei salari e dei

prezzi che renderebbe più competitive le merci di queste economie a più alto CLUP.

Il processo di riequilibrio si presenta difficile per due motivi principali: 1. Il rifiuto

della Germania a concordare nel Board della BCE un obiettivo di tasso di inflazione

più alto del 2%; 2. l’indisponibilità dei governi delle economie “deboli” ad affrontare,

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in una fase di grave recessione, il costo sociale della deflazione (meno salario e più

disoccupazione).

I valori dei tre settori, da cui risulta l’equilibrio macroeconomico per la media

dell’UME, possono essere all’incirca quantificati come segue:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

+6 +6 0

Dal momento che i paesi periferici non posseggono potere di contrattazione rispetto

alla Germania, è stata quest’ultima a dettare le condizioni per la sopravvivenza

dell’euro.

La strategia suggerita ai paesi periferici dalla Germania consiste in una restrizione

fiscale che elimini o quanto meno riduca il deficit pubblico in modo da tranquillizzare

i mercati finanziari ed in riforme economiche di flessibilizzazione dei mercati del

lavoro e dei prodotti tali da avviare una deflazione di salari e prezzi e da spostare la

domanda dal mercato interno al settore esterno in modo da volgere ad un valore

positivo le esportazioni nette:

(S - I) = (G - T) + (X - M)

+6 +4 +2

Come la tabella qui sopra mostra, dal 2008-09 l’Irlanda è riuscita a realizzare un

eccezionale processo di deflazione degli Unit Labour Costs (CLUP) relativamente

alla media UME 1970-2010. La svalutazione interna consistente nella discesa del

CLUP ha permesso all’Irlanda di recuperare la competitività perduta.

3. La divergenza macroeconomica all’interno dell’Eurozona

L’unione monetaria diede un forte impulso all’integrazione finanziaria. Sull’onda

della fine del rischio di tasso di cambio e dell’abbattimento del premio di rischio sui

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titoli pubblici per il grande valore attribuito alla loro denominazione in euro, si

ebbero importanti fusioni fra grandi banche europee ed acquisti reciproci in notevoli

quantità di titoli pubblici degli altri paesi dell’Eurozona da parte di banche e operatori

privati. Gli squilibri macroeconomici che si sono successivamente formati fra Centro

e Periferia dell’Eurozona hanno due spiegazioni, probabilmente complementari (vedi

le due Figure qui sopra: la prima mette in relazione l’andamento del rapporto conto

corrente / PIL con l’evoluzione della domanda interna; la seconda mostra la dinamica

della REER - real effective exchange rate - divergente nella Periferia rispetto alla

Germania). La prima spiegazione consiste nel fatto che la forte espansione indotta

dall’integrazione finanziaria nei finanziamenti cross-border ed i bassissimi tassi di

interesse hanno causato eccessi di domanda di credito da parte delle imprese, ma

l’espansione della domanda ha riguardato – oltre che le attività finanziarie, con la

formazione di bolle speculative - soprattutto settori non suscettibili di accelerare la

crescita e favorire la convergenza del PIL pro capite verso i valori dei paesi più

avanzati.

-1

-0,5

0

0,5

1

1,5

-20 -15 -10 -5 0 5 10 15

Tota

l dom

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r.t. E

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Current account balance, % of GDP

Figure 1 - Domestic demand and current account(average 2002-2007)

FRFI

IT

DE

PT

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162

La tabella qui sopra mostra una correlazione negativa per i paesi dell’Eurozona fra

tasso di crescita della domanda interna rispetto alla media UME (asse verticale) e

rapporto saldo del conto corrente / PIL (asse orizzontale). In particolare, si osserva

che 4 su 5 paesi periferici presentano un valore della crescita della domanda interna

superiore alla media UME, conseguenza della forte integrazione finanziaria seguita

all’unione monetaria, che ha portato molti capitali in questi paesi, generando una

forte espansione e tassi di inflazione superiori alla media UME. Al contempo, gli

stessi paesi hanno conosciuto un peggioramento della bilancia commerciale, dovuta

non solo alla crescita delle importazioni causata dall’espansione produttiva, ma anche

ad una perdita di competitività che penalizzava le esportazioni.

La tabella qui sotto mostra come in quasi tutti i paesi, dopo l’avvio dell’unione

monetaria, il CLUP (unit labour cost , in inglese) sale rispetto alla media UME del

1999. Posta tale media eguale a 100, l’Irlanda, e poi anche la Grecia, la Spagna e

l’Italia vedono crescere il valore della REER; la Germania (ed in misura molto

minore l’Austria) migliorano invece notevolmente la REER rispetto al 1999. La

spiegazione è semplice. La Germania, a partire dal 2002-03 ha realizzato riforme

delle istituzioni del mercato del lavoro che le hanno permesso di moderare la crescita

salariale e di abbattere i costi e divenire più competitiva.. I paesi periferici a più

rapida crescita del CLUP (più che per la dinamica salariale a causa del lento

miglioramento della produttività del lavoro), una volta private della “valvola di

sfogo” della svalutazione del tasso di cambio, hanno visto progressivamente

peggiorare il loro REER. Si è perciò ridotta la loro competitività sui mercati esteri,

con perdite di quote di mercato.

Come si è visto con i due grafici qui sopra, le bolle speculative alimentate da tassi

reali di interesse vicini allo zero negli anni 2004-07 – soprattutto in Irlanda e Spagna

erano chiari segnali di una crescita poco solida, ben prima dell’arrivo della crisi

finanziaria nata oltre-oceano. Evidentemente, le prospettive di facili guadagni

indussero gli operatori finanziari – in primo luogo le banche – a puntare sui profitti di

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breve periodo. In nome dello short-termism, l’attrazione esercitata da prospettive di

profitto a breve termine, in alcuni paesi della Periferia si alimentò un ciclo espansivo

imperniato sul settore immobiliare e sulla continua salita dei listini della borsa.

Attratti dai più elevati rendimenti, i capitali si trasferivano dal Centro alla Periferia.

Si preferì ignorare che a risparmi in calo per la crescita dei consumi si sommavano

decisioni di investimento che erano lungi dal garantire un sano processo di catching-

up basato sui settori produttivi avanzati. D’altro canto, i paesi periferici non seppero

affrontare il problema di sostituire l’aggiustamento del tasso di cambio nominale con

investimenti produttivi diretti a realizzare guadagni di efficienza economica.

Tabella. Paesi periferici: ULC relativi alla media UME (1970-2010) =100

Soprattutto in Grecia, Portogallo ed Italia, la conseguenza è stato il declino della

competitività. Alla domanda estera in diminuzione si è poi aggiunto il drastico calo

della domanda interna, a causa delle politiche di consolidamento del bilancio

pubblico imposte e monitorate dal PSC.

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Questi due fattori di debolezza del sistema economico nella Periferia – eccessiva

espansione della domanda interna e bassa competitività – vennero quindi

sottovalutati. Il fatto è che nei mercati dei paesi periferici si determinarono erronei

segnali di prezzo: dal momento che gli operatori finanziari chiedevano un premio per

il rischio quasi nullo, i tassi di interesse permanevano bassi e si discostavano di poco

dal tasso di interesse benchmark tedesco. Il tasso di interesse sui titoli pubblici del

Sud Europa, che dovrebbe essere sensibile all’andamento di deficit e debito pubblici,

presentava quindi spread molto bassi con i Bund tedeschi. I mercati non tenevano

quindi conto né delle condizioni di insufficiente capitalizzazione delle banche, né del

fatto che il tasso di interesse reale era quasi zero (per i differenziali positivi di tasso

di inflazione nella Periferia rispetto ai paesi del Nord dell’unione monetaria). In

questa ”bolla” di “illusione finanziaria”, i mercati mantenevano bassi i tassi di

interesse nonostante valori del rapporto debito pubblico / PIL non coerenti con la

sostenibilità finanziaria, come se si fosse in presenza di un’area valutaria che

prevedesse la funzione di prestatore di ultima istanza per la banca centrale e/o una

garanzia “comune” sullo stock di titoli sovrani dei paesi del Nord come del Sud

Europa.

La questione della declinante solvibilità dei governi tese perciò ad aggravarsi. Primo,

le banche centrali nazionali (BCN) dei paesi periferici sottovalutavano il rischio preso

da istituti bancari fortemente esposti a breve termine nel finanziamento di

investimenti di lungo termine, cui si aggiungeva l’azzardo di portafogli squilibrati

verso titoli ad alta volatilità. Secondo, la condizione di “sostenibilità” del debito

pubblico era clamorosamente assente. Qualche anno di crescita accelerata non basta a

generare aspettative di flussi di reddito futuri – e perciò di entrate fiscali - adeguati al

rimborso del debito pubblico. Su tale miopia delle BCN si innestò la crisi economica.

All’insolvenza delle banche, a fronte di crediti inesigibili, si sommò - una volta che il

loro debito privato veniva trasformato in debito pubblico – il perverso

“moltiplicatore” della crisi determinato dall’intreccio debito bancario-debito sovrano.

Seguirono la stasi del credito, il crollo della domanda, la sfiducia dei consumatori a

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basso reddito e la forte restrizione fiscale (l’”austerità”) imposta dall’esplosione del

rapporto debito pubblico / PIL .

4. La crisi dell’Eurozona

Si può dire che l’euro nacque sull’onda di una scommessa. Nella valutazione

prevalente fra gli economisti al momento della sua progettazione agli inizi degli anni

’90, l’unione monetaria europea (UME) non era giudicata un’”area valutaria ottima”.

La previsione prevalente fu che i costi (essenzialmente, la fine delle svalutazioni

competitive) si sarebbero rivelati in eccesso rispetto ai benefici (essenzialmente, la

drastica riduzione del costo del danaro e la minore aleatorietà dei progetti di

investimento).

Mundell (1961) giudicava improbabile che i vantaggi di efficienza legati

all’accelerazione dell’integrazione economica ed alla accresciuta competizione fra i

sistemi produttivi potessero compensare l’elevata esposizione al rischio di shock

asimmetrici di paesi eterogenei. Successivamente ad uno shock negativo,. la rigidità

del mercato del lavoro avrebbe impedito di ridurre il salario reale l’aggiustamento di

mercato non si sarebbe realizzato e l’economia sarebbe entrata in recessione. In

Europa, i paesi a più alta dinamica dei salari e più bassa dinamica della produttività

del lavoro (relativamente ai paesi “forti” come la Germania) avrebbero

maggiormente sofferto dell’impossibilità di recuperare competitività attraverso il

meccanismo di inflazione-svalutazione del cambio.

L’aspettativa di non-ottimalità dell’Eurozona non influenzò i politici, in quanto

l’avvio nel 1991 del processo di unificazione monetaria culminato nella fissazione di

tassi di cambio irrevocabili nel 1999 fu una decisione eminentemente politica

promossa da Kohl e Mitterrand, che scaturì dallo “scambio” fra rinuncia al marco

tedesco ed avallo alla riunificazione delle due Germanie. Paradossalmente, anche gli

economisti ortodossi sostennero il progetto, attratti non tanto da un’Unione Europea

sempre più integrata quanto dai cambiamenti strutturali da loro da tempo auspicati.

Infatti, per varare la moneta unica si sarebbero finalmente realizzate in gran numero

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privatizzazioni e liberalizzazioni dei mercati, la politica monetaria sarebbe stata

rigorosamente anti-inflazionstica e la politica fiscale rivolta al ridimensionamento dei

deficit e debiti pubblici, con la rinuncia alle manovre discrezionali di segno

espansivo.

Inoltre, come si è detto sopra, Mundell aveva corretto l’iniziale giudizio negativo

sulla moneta unica in Europa, sottolineando come le probabili fasi di congiuntura

negativa delle economie più deboli sarebbero state sostenibili anche dopo la perdita

dello strumento di politica valutaria. Infatti, la liberalizzazione dei movimenti dei

capitali avrebbe permesso un costante flusso di capitali verso le economie più

arretrate e la fine del rischio di cambio avrebbe assicurato una più facile gestione dei

portafogli dei risparmiatori. I timori sull’investimento dei risparmi nelle deboli

economie dei paesi della Periferia venivano nell’analisi di Mundell fugati dalla

diversificazione del rischio: le perdite sui titoli delle imprese dei paesi deboli

sarebbero state compensate dai guadagni su quelli dei paesi forti; a garantire poi la

solvibilità fiscale dei governi avrebbe provveduto la BCE, attraverso la credibilità che

la denominazione nella nuova valuta avrebbe conferito al debito. Le conseguenze

negative degli shock asimmetrici erano quindi affrontabili anche dalle economie

periferiche. Il sostegno all’avvenuta decisione di varare l’euro venne infine

razionalizzato con l’idea rassicurante che il computo costi-benefici andasse fatto

tenendo conto del mutamento strutturale, e calcolato in base a modelli

macroeconomici dove i coefficienti delle variabili considerate fossero quelli ex post

(per ipotesi, migliori) e non quelli ex ante (si veda Frankel e Rose, 1998).

L’ottimistica previsione di Mundell non ha finora trovato conferma. L’incentivo

all’attività di investimento rappresentato dalla forte riduzione del costo del danaro

(per la fine del rischio di cambio e la sostanziale riduzione del premio sul rischio di

default) non ha dato i frutti sperati, neppure negli anni iniziali dell’Eurozona (1999-

2006) che hanno preceduto la crisi finanziaria e la successiva Grande Recessione. E’

vero che l’integrazione finanziaria ha visto le banche del Nord Europa acquistare

attività emesse sia del settore pubblico che da quello privato dei paesi della Periferia,

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che fino al 2005-06 hanno conosciuto i tassi di crescita più elevati. Ma ciò ha solo

creato l‘illusione delle virtù della ricetta supply-side: più liberalizzi i mercati, riduci

le tasse e ridimensioni il sistema di protezione sociale, più sprigioni le forze

progressive dei mercati.

In realtà, la carenza di capacità imprenditoriali nei settori tecnologicamente avanzati

fece sì che nella Periferia dell’Eurozona l’espansione degli investimenti favorita da

bassissimi tassi di interessi reali si concentrassero nei settori finanziari ed

immobiliari. Il forte processo di integrazione finanziaria avvenuto all’interno

dell’Eurozona non ha prodotto lo sperato rafforzamento dei fattori di crescita delle

economie periferiche, rimanendo solo una tessera del più generale fenomeno della

globalizzazione. Inoltre, ci troviamo oggi di fronte ad un’inversione di tendenza

dell’integrazione finanziaria in Europa. Le operazioni della BCE di rifinanziamento

delle banche (le LTRO) hanno avuto l’effetto di favorire una “ri-nazionalizzazione”

del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona e dei capitali bancari. Per sostenere le

quotazioni dei titoli nazionali massicciamente venduti dalle banche del Centro, le

banche della Periferia hanno infatti utilizzato la ampia liquidità resa disponibile dalla

BCE.

Riassumiamo la crisi dell’Eurozona con riferimento all’equazione :

(S – I) = (G – T) + (X – M)

Come si è già detto, ogni diseguaglianza fra le variabili all’interno di ciascuno dei tre

settori - Risparmi e Investimenti nel settore privato, Spesa pubblica (G) e Tassazione

nel settore pubblico, ed Esportazioni (X) ed Importazioni (M) nel settore estero -

viene a scomparire nella somma algebrica delle varie poste. Ciò vale sia riguardo ai

singoli settori all’interno di ciascun paese, sia nell’annullamento degli squilibri

reciproci all’interno di un’area valutaria. L’equilibrio macroeconomico dell’Eurozona

nel suo complesso è naturalmente un’identità contabile. Al netto dell’interscambio

dell’Eurozona con il resto del mondo (il cui bilancio non si allontana mai troppo dal

pareggio) una posizione di squilibrio in surplus in un paese o gruppo di paesi (Centro

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o Periferia) corrisponde una posizione di squilibrio in deficit in un altro paese o

gruppo di paesi (Centro o Periferia).

L’Eurozona si presenta oggi fortemente divaricata fra un Centro in surplus di bilancia

commerciale ed una Periferia in deficit di bilancia commerciale. Nella Periferia, in

particolare in Irlanda e Spagna dove il tasso di crescita è stato fino al 2007 superiore

alla media UME, l’origine del problema risiede nella rapida espansione della

domanda domestica, dove alla discesa del risparmio hanno corrisposto le “bolle

speculative” invece che gli investimenti produttivi necessari alla crescita e alla

“sostenibilità” dell’indebitamento bancario e sovrano. In Portogallo ed Italia, dove il

tasso di crescita è stato fino al 2007 inferiore alla media UME (come anche in Grecia,

alla luce della revisione dei dati sul PIL) un ruolo importante nel favorire

l’accumularsi di deficit commerciali con l’estero (il cui corrispettivo è in molta parte

il surplus commerciale del Centro) è stato svolto in anni passati anche dai deficit

presenti nel bilancio pubblico. Il messaggio di questa contabilità macroeconomica è

semplice. I paesi della Periferia non hanno individualmente le risorse non solo per

realizzare il catching-up di lungo periodo, ma neppure per uscire dalla recessione e

stimolare la ripresa economica per bloccare i deficit con l’estero di breve periodo.

L’attuale crisi dimostra come la struttura istituzionale dell’unione monetaria fosse

inadeguata a fronteggiare un grave shock esogeno, qual è stata la crisi finanziaria nata

negli Stati Uniti.

Per riequilibrare nel breve periodo esportazioni ed importazioni, i paesi della

Periferia hanno come unica politica ammessa dalla “troika” quella di deflazionare

l’economia, provocando una discesa del CLUP, e quindi del reddito e dei consumi.

Gli elevati costi sociali di una tale strategia sono sotto gli occhi di tutti. La

conseguente risalita del risparmio, da cui ci si aspetta un miglioramento della bilancia

commerciale, potrebbe non bastare a risolvere il problema della caduta del PIL. Essa,

infatti, causa una variazione di segno positivo sul lato sinistro dell’equazione, proprio

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mentre sul lato destro la forte restrizione fiscale produce nel bilancio pubblico una

variazione negativa.

Il fatto è che nel settore estero si registra un andamento diverso da paese e paese (in 3

delle 5 economie periferiche le esportazioni conoscono una riduzione superiore alla

discesa indotta dalla recessione nelle importazioni) ma complessivamente ben

lontano dal generare quel valore ampiamente positivo di ripresa delle esportazioni

che sarebbe necessario per ripristinare l’equilibrio macroeconomico complessivo e

frenare così la recessione evitando ulteriori cadute del reddito. In sintesi, al prezzo di

una drastica deflazione anche la Periferia ora presenta un risparmio netto nel settore

privato, ma lo squilibrio macroeconomico persisterà fintantoché non verrà alleviato il

divario di efficienza con il Centro.

La contabilità macroeconomica suesposta mostra come l’unione monetaria non possa

andare avanti senza tenere conto della divergenza reale che mina la coesione

economica e sociale al suo interno. A Maastricht si puntò su una progressiva

convergenza fra i sistemi economici, nell’aspettativa che le condizioni di minore

incertezza conseguenti al processo di unificazione monetaria avrebbero favorito il

catching-up. Nel breve periodo, occorre una ripresa della domanda tedesca, tale da

favorire la riduzione dei deficit di conto corrente della Periferia. Bisognerà poi, nel

medio periodo, creare le strutture istituzionali necessarie a sostenere un progetto per

la crescita, dove l’idea di integrazione della Periferia con il Centro abbia la stessa

dignità dell’idea di convergenza spontanea, guidata dalle sole forze di mercato, da

parte delle economie “meno avanzate”.

Supponendo per semplicità che sia stato già conseguito il pareggio del bilancio

pubblico richiesto dal Fiscal Compact: (G = T), l’equilibrio macroeconomico del

Centro si può schematicamente rappresentare così:

Centro: (S >I) = (G = T) + (X > M)

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A partire dall’avvio dell’unione monetaria – ed in misura crescente

all’indomani della crisi finanziaria - in alcuni paesi del Centro (in primis la

Germania, seguita da Austria e Finlandia) si registra un surplus dei risparmi sugli

investimenti, cui corrisponde un surplus di bilancia commerciale. Le condizioni

finanziarie delle banche dei paesi del Centro-Nord dell’Eurozona (pure essendo

banche internazionali, il loro capitale è in maggioranza ancora in mani nazionali)

hanno potuto naturalmente giovarsi delle buone performance economiche delle

economie “forti” in cui svolgono la maggior parte della propria attività, contribuendo

a favorire la formazione dei flussi di capitale che operatori esteri hanno destinato

all’acquisto delle esportazioni nette del Centro.

L’equilibrio macroeconomico della Periferia si può schematicamente

rappresentare così:

Periferia: (S < I) = (G = T) + (X < M)

I flussi di liquidità provenienti in primo luogo dalle banche del Centro hanno

finanziato le passività emesse a copertura dei deficit pubblici (G > T) in alcuni paesi

(Irlanda e Spagna) e di conto corrente (X < M) in altri paesi (Grecia e Portogallo).

Nell’equazione qui sopra, il dato complessivo del settore pubblico per la Periferia– il

bilancio in pareggio – si è progressivamente determinato grazie ai surplus

compensativi conseguiti dagli altri paesi della Periferia.

La Grande Recessione ha ridimensionato il disavanzo di conto corrente,

accumulatosi in seguito alla rapida espansione delle importazioni (in particolare, in

Irlanda, Grecia e Spagna), ed a causa della continua crescita, dal 1999 in poi, del

costo del lavoro per unità di prodotto, che misura il tasso di cambio reale effettivo

rispetto alla media dell’Eurozona. Il costo del lavoro per unità di prodotto

(relativamente al valore medio dell’Eurozona) si è andato notevolmente accrescendo

in Grecia e Portogallo (ed in minore misura in Italia) a causa di una sostanziale stasi

della produttività. Seguendo un andamento speculare rispetto alla Germania (ed in

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minore misura ad Austria e Finlandia), la dinamica salariale ha finito per causare una

progressiva perdita di competitività che ha notevolmente penalizzato le esportazioni.

Figura 7.

Fonte: AMECO

La notevole espansione delle esportazioni tedesche è il frutto - oltre che della

competitività sul piano della qualità - della moderazione salariale e della buona

dinamica della produttività, che hanno permesso un forte recupero della competitività

di prezzo rispetto ai primi anni del nuovo millennio. Il conto corrente in rapporto al

PIL del Centro, nel quale è naturalmente molto rilevante l’interscambio della

Germania, è così stato strutturalmente in surplus, a fronte del deficit della Periferia, in

diminuzione in seguito al crollo delle importazioni degli anni più recenti (vedi Figura

7).

Pertanto, una riduzione durevole dello squilibrio macroeconomico fra Centro e

Periferia potrà realizzarsi in seguito ad uno dei due seguenti cambiamenti strutturali:

1) un trasferimento di domanda dal Centro alla Periferia, attraverso un decremento e

un incremento del risparmio in ciascuna area, rispettivamente; 2) una ancora più

drastica deflazione reale nella Periferia, tale da ridurre il divario di competitività con

-12

-10

-8

-6

-4

-2

0

2

4

6

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

conto corrente/PIL

centro

periferia

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il Centro e riportare a valori positivi il tasso di crescita attraverso l’aumento delle

esportazioni.

Le due soluzioni non sono equivalenti. Dall’analisi fin qui svolta risulta evidente che

i problemi in cui oggi si dibatte l’Eurozona sono stati innescati dall’intreccio fra

banche e governi scaturiti dalla crisi finanziaria, ma affondano le loro radici nella

mancata convergenza fra Centro e Periferia acuita dalla debole crescita economica.

I paesi della Periferia non hanno individualmente le risorse non solo per realizzare il

catching-up di lungo periodo, ma neppure per uscire dalla recessione e stimolare la

ripresa economica per bloccare i deficit con l’estero di breve periodo. L’attuale crisi

dimostra come la struttura istituzionale dell’unione monetaria fosse inadeguata – in

particolare per l’assenza un meccanismo di mutual risk insurance fra i paesi

dell’Eurozona - a fronteggiare un grave shock esogeno, qual è stata la crisi

finanziaria. Per riequilibrare esportazioni ed importazioni, questi paesi non hanno

che la strategia di deflazionare l’economia, provocando una discesa del CLUP, e

quindi del reddito e dei consumi. A Maastricht si puntò su una progressiva

convergenza fra i sistemi economici, nell’aspettativa che le condizioni di minore

incertezza conseguenti al processo di unificazione monetaria avrebbero favorito il

catching-up. Si è probabilmente trattato di un eccesso di fiducia nella capacità di

convergenza delle economie più arretrate.

La divaricazione fra il Centro e la Periferia dell’Eurozona potrà ridursi solo se una

crescita più rapida del PIL riuscirà a frenare la crescita del rapporto debito pubblico /

PIL della Periferia.

Il problema della sostenibilità finanziaria del debito pubblico non accenna a trovare

soluzione (vedi l’incremento dei rapporti debito pubblico / PIL in Figura 3). In

Irlanda e Spagna, i rapporti debito pubblico / PIL sono balzati rispettivamente al

110% ed al 90%.

In altri paesi, la crisi economica è conseguita all’eccesso di spesa pubblica

rispetto alla tassazione (in primo luogo, in Grecia), ed alla diminuzione delle

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esportazioni a causa della progressiva perdita di competitività del sistema produttivo

(di nuovo la Grecia, ma anche il Portogallo e fino al 2010 l’Italia). L’aumento del

debito al numeratore si è andato così a sommare al crollo del PIL al denominatore,

aggravando le aspettative pessimistiche degli investitori, anche a causa del persistente

intreccio fra banche e governi.

Figura 3

020406080

100120140160180

debito pubblico/PIL

2007

2011

Fonte: AMECO

Uno dei limiti della struttura istituzionale dell’Eurozona è l’assenza di meccanismi

finalizzati a contrastare l’avvitarsi di una crisi bancaria dopo un forte shock negativo.

Il principale cambiamento finora adottato è stato il varo nel 2014 dell’Unione

bancaria, cui si è accennato sopra, che prevede tre pilastri:

1. Il Meccanismo Unico di Vigilanza (Single Supervisory Mechanism, SSM)

conferisce alla BCE la responsabilità di supervisionare le più grandi banche europee.

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Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) ricapitalizzerà direttamente le banche,

rompendo così il circolo vizioso tra banche e debito pubblico.

2. Il Meccanismo Unico di Risoluzione (Single Resolution Mechanism, SRM)

consentirà alle autorità bancarie europee il potere di intervenire per attuare piani di

recupero e per sostituire i manager bancari nel caso in cui una banca non dovesse

soddisfare i requisiti patrimoniali minimi. Le autorità nazionali dell’SRM saranno in

grado di prendere controllo di una banca in difficoltà, e di usare strumenti di

terminazione, come il trasferimento delle attività, la creazione di una “bad-bank” (un

salvataggio nel quale le perdite siano sostenute in primo luogo dagli azionisti, poi

dalle obbligazioni subordinate e a seguire dalle obbligazioni di categorie maggiori e

dai depositi superiori a €100.000). Le banche sarebbero tenute a mantenere sufficienti

fondi propri e a esprimere le passività ammissibili come percentuale delle passività

totali dell’istituto. Gli stati membri dovranno istituire un fondo di risoluzione, che

deve raggiungere lo 0,8% dei depositi coperti. Così, in linea di principio, i

contribuenti non dovranno pagare per le banche insolventi.

3. Un Sistema di Garanzia dei Depositi Europei (European Deposit Guarantee

Scheme, EDGS) dovrebbe fornire una garanzia per i depositi fino a €100.000, in

modo da superare la contraddizione tra banche internazionali e sistemi bancari

nazionali.

Nel prossimo paragrafo, si valuterà la strategia scelta dal consesso dei ministri

dell’economia dei governi nell’UME, sotto la guida della Germania, per combattere

la crisi di credibilità dell’Eurozona.

5. La politica dell’”austerità” ed il debito pubblico sul PIL

L’accumulazione di un elevato rapporto fra lo stock di debito pubblico ed il

PIL, una volta escluso che si faccia ricorso al finanziamento monetario del Tesoro, è

derivato dall’esigenza di coprire i deficit primari annuali ed una crescente spesa per

interessi. In questo quadro, più alto è il tasso di interesse nominale e più basso il

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tasso di crescita del reddito nominale, più alto dovrà essere il surplus primario che

stabilizza il rapporto debito pubblico/PIL. L’aumento del premio di rischio sul debito

pubblico dei paesi periferici riflette appunto la valutazione dei mercati di un

peggioramento della sostenibilità fiscale, dopo che il tasso di crescita è calato molto

al di sotto del tasso di interesse, con la conseguenza che per stabilizzare il debito

pubblico i governi debbono programmare un più ampio surplus primario per gli anni

futuri.

Come si è detto, il nuovo strumento di controllo sulle finanze pubbliche

nazionali, il Fiscal Compact varato nel 2012 stabilisce che in 20 anni i paesi

dell’Eurozona debbano completare il rimborso di tutto il debito pubblico in rapporto

al PIL in eccesso rispetto al 60% . Ciò comporta una programmazione di surplus di

bilancio - per venti periodi futuri - di ampiezza direttamente proporzionale al livello

del rapporto debito/PIL rispetto del vincolo del 60%. L’ampiezza dei surplus annui da

realizzare è particolarmente gravosa per i paesi della Periferia: i rapporti debito/PIL,

notevolmente aumentati fra il 2007 ed il 2011 a causa della crisi (vedi Figura 4)

vedono a fine 2012 quattro paesi al di sopra del 100% del PIL: Grecia (152,6%),

Italia (127,3%), Portogallo (120,3%), Irlanda (117%) (dati Eurostat).

La Grecia, oggi in deflazione (-1,35%), e con un rapporto debito/Pil oltre il

177% e un tasso d’interesse sul debito calmierato al 3%, non potrà mai rispettare le

regole fissate dal Fiscal Compact: per farlo dovrebbe registrare una crescita superiore

al 5-6%. Il Portogallo, con un avanzo primario dello 0,4%, un tasso d’inflazione

leggermente negativo, una crescita prevista dell’1,2% e un rapporto debito/Pil al

129%, dovrebbe crescere anch’esso più del 5%. L’Italia sta molto meglio, ma come

gli altri non è comunque in grado di soddisfare alla lettera il Fiscal Compact. Già nel

2015, mancherebbero circa 30 miliardi, considerando l’avanzo primario al 2,2%,

l’inflazione attorno allo 0,5% e un tasso di crescita annuo vicino allo zero.

L’aspetto paradossale della deflazione attuale è che verrà ancora più aggravata

dal Fiscal Compact. Mentre quest’ultima è una istituzione di governance

macroeconomica finalizzata a vigilare sui governi di un’area valutaria con debito

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pubblico più che sostenibile: l’Eurozona presenta infatti - relativamente al Regno

Unito e Stati Uniti, ormai al di sopra del 100% rispetto al PIL, per non parlare del

Giappone (236%) - un rapporto di debito pubblico sul PIL di gran lunga più basso.

Consideriamo le due visioni dell’impatto atteso dall’”austerità” sull’andamento

del PIL. La prima, assimilabile alla prospettiva keynesiana, ritiene che la ricerca del

pareggio di bilancio attraverso impulsi di restrizione fiscale comporterà un calo del

reddito.

La seconda, la tesi degli “effetti non-keynesiani”, riflette l’analisi

macroeconomica della Nuova Economia Classica (NCE). Come si è detto nella Parte

Seconda, questa modellistica sostiene che il consolidamento fiscale induce un effetto

espansivo sull’output: il ridimensionamento dell’intervento pubblico indurrebbe

infatti soggetti razionali ad accrescere la domanda di consumo intertemporale, dando

quindi impulso alla crescita. Infatti, se è credibile una strategia del governo di

abbassamento permanente della spesa pubblica, la conseguente aspettativa di

riduzione permanente delle tasse fa sì che i soggetti si attendano un incremento del

proprio reddito disponibile, il che li induce ad aumentare il consumo (Giavazzi e

Pagano, 1990). Pertanto, una restrizione fiscale di tipo strutturale, che portasse ad un

ridimensionamento della spesa sociale (ad esempio, una riforma pensionistica che fa

scendere stabilmente questa voce della spesa pubblica), sortirebbe l’effetto di

cambiare il segno del moltiplicatore del reddito – da negativo, come accade nel

modello keynesiano – a positivo.

Va ricordato che l’ipotesi degli “effetti non-keynesiani” della politica fiscale

(Giavazzi e Pagano, 1990; Alesina et al., 2012; Alesina e Ardagna, 2013), è stata più

enunciata che verificata. Recenti stime econometriche (Guajardo, 2011; Perotti, 2011)

hanno confermato le conclusioni da tempo note riguardo ai limiti teorici e

metodologici di tale ipotesi (Farina e Tamborini, 2002). Deboli effetti espansivi sono

stati rilevati in piccole economie aperte (Danimarca, Irlanda, Svezia e Finlandia), ma

solo in concomitanza con episodi di deprezzamento del cambio (Barrios et al, 2011).

A generare gli effetti espansivi sull’output è stata quindi la domanda estera, non i

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tagli di bilancio pubblico. Ciononostante, l’influenza intellettuale di questo

approccio teorico sulla Commissione Europea è stata costante. Di fatto, il Patto di

Stabilità e Crescita (PSC) - che è stato in vigore dal 1997, poi rivisto nel 2005, fino

alla sua sostituzione con i vincoli ancora più stringenti del Fiscal Compact - si è

configurato come l’applicazione dell’ipotesi degli “effetti non-keynesiani” alla

politica fiscale nell’unione monetaria, in quanto prometteva che il ridimensionamento

del bilancio pubblico avrebbe dato impulso alla ripresa del PIL.

In letteratura, la maggior parte delle verifiche econometriche sono condotte

mediante modelli neo-keynesiani DSGE, che alle rigidità nominali dei modelli neo-

keynesiani affiancano molte ipotesi neo-classiche favorevoli al verificarsi degli

“effetti non-keynesiani”. Nelle simulazioni su questi modelli, tale risultato non trova

però conferma.

In realtà, per la Periferia dell’Eurozona vale l’esito affermato dalla prospettiva

keynesiana. In altre parole, una restrizione fiscale aumenta il surplus di bilancio

necessario a stabilizzare il rapporto debito pubblico / PIL. In un paese periferico,

l’”austerità” è destinata a causare un incremento del surplus necessario ad impedire

un’ulteriore accumulazione del debito pubblico in rapporto al PIL. I mercati si

chiedono: riuscirà il governo a tagliare la spesa pubblica? Se non ci riesce, dove

troverà le aggiuntive entrate fiscali?

Il vero discrimine fra la prospettiva teorica ortodossa e quella keynesiana si

coglie nei modelli con eterogeneità fra i soggetti, dove la principale fonte di

eterogeneità è rappresentata dalla disparità di reddito. Affinché si realizzi il risultato

keynesiano – il segno positivo del moltiplicatore fiscale - è sufficiente abbandonare

l’ipotesi di mercati finanziari perfetti - che livellano redditi e piani di consumo

intertemporale di tutti i soggetti in virtù dell’apertura di linee di credito illimitate da

parte delle banche – e tenere conto del fatto che una quota di popolazione è soggetta a

“vincolo di liquidità”.

Il “vincolo di liquidità” riveste un ruolo cruciale per il determinarsi del risultato

keynesiano: se nelle mani di persone che in passato sono state costrette a non

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realizzare i propri piani di consumo un reddito aggiuntivo, è attendibile una

propensione a destinarlo al consumo per la quasi totalità. Questo ragionamento, e

cioè che tanto più calano occupazione e reddito tanto più alto è il moltiplicatore del

reddito. rappresenta la cartina di tornasole dell’importanza della diseguaglianza di

reddito nella determinazione dell’equilibrio macroeconomico. Un impulso fiscale

espansivo ha l’effetto sia di innalzare il livello della domanda globale che di alleviare

le conseguenze di una distribuzione del reddito sperequata. Una volta che, per effetto

dell’espansione fiscale, un incremento del reddito corrente (la variabile indipendente

della funzione del consumo, secondo l’originaria formulazione di Keynes) abbia

liberato i soggetti dal “vincolo di liquidità”, al posto dei tagli ai piani di consumo cui

tali soggetti erano stati costretti subentra l’incremento delle decisioni di spesa e si

innesca un processo di espansione del reddito.

In Europa gli stimoli fiscali si sono troppo precocemente esauriti. Dopo le

timide manovre fiscali di sostegno all’economia seguite allo scoppio della crisi

finanziaria, i governi hanno dovuto sottostare all’obbligo di continue manovre

restrittive per ridurre il deficit complessivo (primario e secondario) fino al pareggio

di bilancio, nonostante i loro paesi non fossero affatto usciti dalla fase recessiva.

L’”austerità” però non riduce ma aumenta il rapporto debito pubblico/PIL, in quanto

la restrizioni fiscali hanno l’effetto di deprimere il reddito. E’ allora probabile che il

principale fattore che fa temere agli investitori il default degli Stati non sia tanto

rappresentato da un alto debito pubblico quanto dall’impulso negativo che l’austerità

determina sulla crescita. La restrizione fiscale imposta ai paesi periferici, riducendo il

livello del reddito, fa lievitare il tasso di interesse (per la richiesta di un più alto

premio per il rischio sul debito pubblico rispetto a quello sul Bund tedesco), che a sua

volta fa aumentare il surplus necessario a stabilizzare il debito pubblico. L’obiettivo

perseguito dall’austerità, ovvero mettere un freno all’accumulazione di debito e

recuperare la sostenibilità fiscale, è destinato ad auto-distruggersi. Come si vedrà nel

prossimo paragrafo, l’“austerità” si rivela essere self-defeating, perché le manovre di

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restrizione fiscale hanno determinato una perdita di output tale da fare aumentare –

invece che diminuire - il rapporto debito pubblico / PIL.

6. Gli effetti deflazionistici della politica dell’“austerità”

Proviamo a misurare l’impatto sulla crescita della politica di austerità imposta ai

paesi dell’Eurozona. . Nella Figura 5, per ciascun paese dell’Eurozona, il tasso di

crescita del PIL (asse verticale) è messo in relazione con l’“austerità” rispetto al PIL

(asse orizzontale).

La variabile ”austerità” è misurata come differenza fra l’effettiva variazione del saldo

di bilancio pubblico e il valore che tale saldo “avrebbe dovuto assumere” in base ai

valori “normali” della quota della tassazione sul PIL e del tasso di crescita

dell’Eurozona. L’ipotesi è che l’impulso fiscale restrittivo induce una caduta del PIL,

con la conseguente diminuzione delle entrate fiscali.

Qual è l’impatto dell’austerità sul tasso di crescita del PIL? Una sua

contrazione, come sostengono i keynesiani, oppure una sua espansione come

sostengno il neo-classici?

La variabile dipendente è dunque il tasso di crescita di lungo periodo

dell’Eurozona. Per calcolare la variabile indipendente, il valore simulato, si è

moltiplicata la variazione della crescita del PIL (in quattro bienni fra il 2007 e il

2012) al netto del valore medio di lungo periodo del tasso di crescita (2% annuo,

quindi 4% su due anni) per il valore medio della tassazione dell’’Unione Europea

(0.45%).

Come si vede dall’interpolante nei vari grafici, in tutto il periodo successivo

alla crisi finanziaria, l’impatto dell’austerità sulla crescita è negativo. L’analisi

statistica condotta sulle due variabili rivela che il moltiplicatore è quasi pari ad 1 nel

2007-09 e raggiunge il valore più alto (1,43) nel biennio 2009-11, allorché le misure

di restrizione fiscale imposte ai paesi periferici hanno finito per bloccare la ripresa

della crescita dopo il primo crollo del PIL nel 2009.

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Figura 5. Tasso di crescita del PIL (asse verticale) e “austerità” / PIL (asse

orizzontale) nell’Eurozona (2007-2012)

-20

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

-15 -10 -5 0 5

2007-9

-15

-10

-5

0

5

10

-20 -15 -10 -5 0 5 10 15

2008-10

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

-10 -5 0 5 10 15

2009-11

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

-15 -10 -5 0 5 10 15 20 25

2010-12

Il risultato di austerità self-defeating illustrato dalla Figura 5 è compatibile con vari

“paradossi” descritti in letteratura, ciascuno riconducibile a diverse ipotesi

sull’inclinazione delle rette di offerta e domanda aggregata (il modello AS-AD).

Keynes introdusse il “paradosso della parsimonia”: quanto più si risparmia, tanto più

il risparmio declina a causa della discesa del reddito da cui viene a formarsi. La

necessità di accrescere il risparmio per fare fronte ad un abbassamento atteso dei

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redditi futuri (o al ripianamento di debiti accumulati) ha l’effetto di ridurre il reddito

perché le imprese prevedono che la domanda aggregata subirà un calo. Poiché

l’”austerità” implica una riduzione del reddito disponibile delle famiglie, le imprese

non aumentano la produzione e si innesca un moltiplicatore negativo di abbassamento

del reddito.

Un secondo paradosso discende dall’”effetto Fisher”: il deleveraging attuato

per fare fronte alla crisi sortisce effetti negativi sulla domanda. Il deleveraging,

invece di migliorare le condizioni di liquidità dei soggetti, provoca una deflazione

che ha l’effetto di aumentare il valore del debito, che a sua volta costringe famiglie e

imprese ad una spirale di continui tagli di spesa.

Il terzo paradosso prende il nome di “paradosso della fatica” (Eggertsson,

2010a e 2010b). La contrazione della componente pubblica dei redditi delle famiglie -

determinata dal ridimensionamento dei trasferimenti monetari e/o dei servizi pubblici

gratuiti goduti – induce la forza lavoro ad aumentare le ore di lavoro offerte. Per

quanto l’aggregato dei lavoratori si sforzi di ridurre il livello di disoccupazione con

un aumento dell’offerta di lavoro a salario invariato, la flessibilità verso il basso di

salari e prezzi innesca un processo deflattivo. L’aumento dell’offerta di lavoro resta

puramente nozionale, poiché la domanda aggregata e quindi il livello di attività

economica si riducono, vanificando il miglioramento delle condizioni di costo del

lavoro ottenuto dalle imprese (Eggertsson e Krugman, 2010).

Questi luoghi teorici sono poco praticati dal cosiddetto “Brussels – Frankfurt

consensus”, le visione macroeconomica di molti economisti delle due principali

istituzioni Europee (Commissione Europea e BCE) ispirate alla teoria ortodossa. Un

influente approccio alla crisi dell’Eurozona elaborato dalla Commissione Europea

vuole che tanto più è alta la credibilità del programma di consolidamento fiscale e

l’impegno del governo nell’attuarlo, tanto più i paesi in difficoltà per l’innalzamento

dello spread potranno limitare le riforme strutturali di aggiustamento reale

dell’economia (Buti, Roeger e Turrini, 2009). Di fatto, si propone ai governi un trade-

off: un più rapido consolidamento fiscale in cambio di un’ampiezza minore della

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deflazione di salari e prezzi. Se i governi fanno mostra di non accettare tale scambio,

resistendo ad un rapido consolidamento fiscale, Bruxelles potrebbe fare ricorso ad

una strategia di “complementarietà”: il consolidamento verrebbe comunque imposto,

minacciando il ricatto della sospensione degli aiuti finanziari.

L’impostazione che il “Brussels – Frankfurt consensus” dà al problema del

riequilibrio dei conti pubblici non tiene conto di un problema di breve periodo e di

uno di lungo periodo.

Il problema di lungo periodo è che la riduzione della spesa pubblica consiste

sostanzialmente nel ridimensionamento dei trasferimenti e delle tutele del Welfare,

dimenticando che il ritorno dei paesi della Periferia su un sentiero di crescita e di

convergenza economica di lungo periodo è incompatibile con l’ingente costo sociale

di riforme strutturali che si sostanziano in tagli alla sanità e all’istruzione. Nel lungo

periodo, la diseguaglianza inter-regionale di reddito è infatti fortemente correlata con

la diseguaglianza di opportunità di popolazioni residenti in aree con diverso grado di

sviluppo, il che a sua volta presenta una serie di interrelazioni con la diseguaglianza

interpersonale di reddito (Wilkinson e Pickett, 2009; Aghion e Cage, 2011).

Il problema di breve periodo è che sia il taglio del deficit pubblico realizzato

con la riduzione della spesa pubblica e l’aumento delle tasse, sia il taglio dei costi di

produzione realizzato con l’abbassamento del salario ed i licenziamenti, esercitano un

effetto depressivo sulla domanda. Una strategia di rientro da un alto debito pubblico

deve tenere conto del fatto che quando il tasso di crescita si trova al di sotto del tasso

di interesse – come accade ormai da anni nell’Eurozona - il surplus generato dai

governi (attraverso consolidamenti fiscali che richiedono grandi sacrifici per i

cittadini) si rivela fatalmente insufficiente a causa della concomitante caduta

dell’output e quindi delle entrate fiscali.

La questione del moltiplicatore fiscale non si esaurisce tuttavia nel dibattito

teorico sulle relazioni analitiche che presiedono alla variazione dell’output dopo un

impulso espansivo o restrittivo di politica fiscale. C’è anche la questione delle ipotesi

che presiedono ai modelli economici utilizzati nell’analisi previsionale delle

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principali istituzioni internazionali di analisi macroeconomica, che risentono

del’influenza intellettuale del pensiero economico dominante. Non è stato ad esempio

adeguatamente sottolineato che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) –

nell’ambito della troika formata con la Commissione Europea e la BCE – ha potuto

obbligare i governi dei paesi periferici a misure fiscali fortemente restrittive proprio

sulla base di una valutazione dei loro effetti in termini di produzione ed occupazione

perdute che è risultata ex post largamente sottostimata.

In un recente lavoro (Blanchard e Leigh, 2013), Olivier Blanchard,

l’economista capo del FMI, ha riconosciuto che l’effetto negativo che il

moltiplicatore fiscale ha esercitato sul reddito si è rivelato durante la crisi molto

superiore a quanto la teoria economica e le analisi econometriche avevano indotto a

credere. L’utilizzo di parametri sottostimati nella previsione dell’impatto sul reddito

dell’”austerità” ha determinato un significativo errore di misurazione rispetto

all’effettiva caduta del PIL (l’errore per difetto è stato di - 1,2 nel caso del FMI e di -

0,4 nel caso dell’OECD) (IMF, 2012). Che la distorsione verso il basso delle

previsioni sull’impatto dell’”austerità” sia la conseguenza dei modelli teorici

utilizzati è dunque un dato oggettivo: lo testimonia l’erroneità dei valori dei parametri

inseriti nei modelli econometrici. Il vasto consenso sviluppatosi nella teoria

macroeconomica attorno alla più recente versione della “sintesi neo-classica” ha

orientato i policy-makers ad attribuire autorevolezza assoluta a verifiche empiriche

condotte in base a modelli rigorosamente basati sulle ipotesi di aspettative razionali e

mercati perfetti. Hanno così acquisito indiscussa reputazione scientifica le tesi

secondo le quali l’espansione della spesa pubblica ha un impatto poco rilevante

sull’attività economica (Ramey, 2012) e che il valore del moltiplicatore fiscale più

elevato sia quello relativo alla tassazione (Alesina et al., 2012).

Ben diversi sono i risultati cui pervengono gli studi il cui schema teorico non è

ancorato alla “sintesi neo-classica” dominante e le cui stime econometriche tengono

conto:

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1) della quota di popolazione con “vincolo di liquidità”. Un indizio

dell’importanza del “vincolo di liquidità” cui sono soggette le famiglie a basso

reddito è l’elevato valore del moltiplicatore negativo - la forte perdita di output ed

occupazione - prodotto dalle misure di austerità (Auerbach e Gorodnichenko, 2012).

In presenza di tali condizioni, una espansioni quantitativa della liquidità può generare

un moltiplicatore del reddito non inferiore ad 1,5 (in alcuni casi superiore a 2) e di

valore di norma più alto in relazione alla spesa pubblica che non alle tasse (Coenen et

al., 2012a e 2012b). Questa evidenza empirica suggerisce che nella formulazione di

piani di consolidamento fiscale si sarebbe dovuto tenere in maggior conto la

distribuzione del reddito e che per accrescere l’effetto moltiplicativo degli auspicabili

impulsi fiscali espansivi sarebbe opportuno attivare trasferimenti monetari mirati ai

soggetti in condizioni di “vincolo di liquidità”. Se si vuole, una minore quota della

restrizione del bilancio pubblico a carico della spesa sociale si impone per ragioni di

teoria macroeconomica, prima ancora che di equità;

2) delle condizioni del ciclo economico. Il risultato keynesiano di valore

positivo ed elevato del moltiplicatore sconfessa le politiche di “condizionalità”

imposte dalla troika per invertire il trend di aumento del rapporto debito pubblico /

PIL causato dai salvataggi e dalla caduta dell’output. Quando, a partire dal 2009-10,

molti governi dell’Eurozona hanno dovuto attuare gli interventi fiscali restrittivi, si

sono generati aspettative pessimistiche ed effetti pro-ciclici sul reddito (Creel e

Saraceno, 2010). Allo stesso modo, il risultato keynesiano accresce l’importanza di

attivare la spesa pubblica. Nelle condizioni macroeconomiche di domanda di

consumo particolarmente depressa che oggi caratterizzano le economie avanzate, è

molto probabile che ad un impulso fiscale espansivo si associ un moltiplicatore

positivo ed elevato (Baum, 2012).

3) del grado di “accomodamento” della politica monetaria. Una forte

espansione monetaria ad un tasso di interesse nominale vicino allo zero, in assenza di

tensioni al rialzo dell’inflazione, genera un moltiplicatore positivo, tanto più elevato

quanto più la manovra “accomodante” si prolunga fino a due anni (Christiano et al.,

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2011). In presenza di una recessione molto grave come quella in corso, probabilmente

caratterizzata anche dalla “trappola della liquidità” , la strategia di politica monetaria

più appropriata consiste in una decisa azione espansiva diretta a ribaltare le

aspettative degli agenti economici. La BCE potrebbe condurre una politica monetaria

più aggressiva, mediante un tasso di interesse che non si mantenga di fatto a ¾ di

punto al di sopra del livello fissato dalla Fed. Il cambiamenti strutturale risolutivo per

generare l’aspettativa di maggiori guadagni e dare un forte stimolo all’attività di

investimento, ma precluso ad una banca centrale non sostenuta da un potere sovrano,

consisterebbe nell’inserimento di un più alto valore-obiettivo di tasso di inflazione

nella “regola di Taylor”, in modo da determinare un eccesso di inflazione attesa

rispetto al tasso di inflazione corrente (Eggertsson e Krugman, 2012).

4) dell’impatto espansivo sul PIL esercitato dalla spesa pubblica per

investimento. In generale, l’impatto della variazione della spesa pubblica risulta

essere superiore a quello della tassazione, il che smentisce la tesi sopra menzionata -

molto propagandata ma poco verificata - secondo la quale la ripresa della crescita è

subordinata alla riduzione dell’intervento pubblico nell’economia, per l’impatto

espansivo che una minore tassazione determinerebbe sull’economia reale.

Per quanto riguarda le regole di politica fiscale, l’impatto sulla domanda sta

diventando sempre più grande. L’accordo del Fiscal Compact, siglato nel 2012,

prevede che in 20 anni tutti i paesi – con restrizioni fiscali commisurate alla distanza

dal limite massimo di debito pubblico /PIL pari al 60% - conseguano questo obiettivo

di Maastricht da cui quasi tutti i paesi dell’Eurozona si sono allontanati dopo la crisi

finanziaria. Inoltre, l’accordo prevede che il deficit pubblico strutturale (ovvero al

netto dell’impatto che il ciclo economico produce sul bilancio pubblico attraverso

l’operare degli ammortizzatori sociali) non debba superare lo 0,5% del PIL; per i

paesi che superano il limite ammesso nel corso di una recessione (il 3%) la

Commissione europea commina automaticamente una sanzione – diversamente dal

PSC, che prevedeva la ratifica dal sanzionamento da parte dell’Ecofin, il gruppo de

ministri dell’economia).

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Questa rapida ricognizione della vasta letteratura empirica sulla crisi induce a

ritenere che, in presenza dei due dati oggettivi del “vincolo di liquidità” e della grave

recessione, l’”austerità” dovrebbe lasciare il posto ad un’intonazione ancora più

espansiva della politica monetaria e ad una maggiore spesa in investimenti pubblici.

L’elevata spinta sul reddito esercitata dalla spesa pubblica in investimenti dimostra

quanto miope sia rigorismo di Bruxelles e di Berlino, che hanno respinto la richiesta

di mitigare l’impatto sulla crescita delle misure di rientro dagli alti deficit pubblici

attraverso l’esclusione delle spese per investimenti dal calcolo del bilancio pubblico

(la cosiddetta “regola aurea”). Se poi la politica monetaria della BCE avesse seguito

quella della Fed, che all’indomani della crisi finanziaria ha portato fino a zero il tasso

di interesse – a fronte dell’0,75 cui ancora permane in Europa - e realizzato

programmi di Quantitative Easing ben molto più ampi, la successiva recessione

sarebbe probabilmente stata meno pronunciata. I valori del moltiplicatore

corrispondenti al più forte impulso alla risalita del PIL sono infatti quelli attivati dagli

investimenti pubblici sotto le due condizioni già citate ( cioè realizzati durante una

fase di grave recessione e da consumi famigliari “liberati” dal vincolo di liquidità) ma

anche in presenza di un tasso di interesse nominale vicino allo zero (Auerbach e

Gorodnichenko, 2013).

Una politica monetaria della BCE più “attiva” avrebbe ridotto i guasti

dell’”austerità” (nel 2011 il governatore Trichet persino aumentò due volte per

contrastare inesistenti tensioni inflazionistiche). Mentre la Fed ha drasticamente

ridotto il tasso di interesse base dal 5,25% dell’agosto 2007 all’intervallo fra 0 e

0,25% già nel dicembre 2008, la BCE lo ha diminuito molto lentamente dal 4,25%

del luglio 2008 allo 0,5% del maggio 2013, al 0,25% nel settembre 2013, allo 0,15%

nel giugno 2014, allo 0,05% nel settembre 2014.

L’idea che una più aggressiva azione di politica monetaria permetterebbe

all’Eurozona di raggiungere e mantenere un più elevato livello di attività economica

converge con la tesi spesso sostenuta da Olivier Blanchard. Per evitare il rischio che

la politica monetaria finisca per essere sub-ottimale, e cioè per peggiorare il livello

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del benessere della popolazione, la monetary stance determinata dai modelli

macroeconomici dovrebbe riflettere la resilienza delle istituzioni del mercato del

lavoro in Europa (Blanchard e Galì, 2009). In breve, in regime di rigidità nominali, la

politica monetaria ottimale deve abbandonare l’inflation targeting e assumere

l’obiettivo di un tasso di inflazione non troppo vicino allo zero.

In coerenza con tale prospettiva teorica, in lavori precedenti la crisi finanziaria

Blanchard suggerì implicitamente che il presupposto per risollevare la domanda

aggregata nell’Eurozona con una politica monetaria espansiva di stabilizzazione

consiste in un valore-obiettivo del tasso di inflazione più vicino al 4% della Fed che

non al 2% della BCE. La tendenza espansiva impressa alla politica monetaria da Fed

e BoJ – che da molti mesi accettano l’innalzamento dell’inflazione e manifestano un

benign neglect nei confronti della debolezza del tasso di cambio di USD e Yen –

risponde all’esigenza di rilanciare la crescita guadagnando quote di mercato estero

attraverso un cambio più competitivo.

La BCE non pare però orientata ad impedire che il rafforzamento dell’Euro

deprima ulteriormente il livello della domanda aggregata nell’Eurozona. Eppure,

come si vedrà nel paragrafo successivo, la soluzione del problema della domanda

nell’UME è urgente, in quanto si connette strettamente con la questione dello

squilibrio macroeconomico esistente all’interno dell’Eurozona, che vede una forte

divaricazione fra un eccesso di risparmio nel Centro (essenzialmente in Germania,

date le dimensioni della sua economia) ed un deficit di risparmio nella Periferia. Di

fronte al rifiuto della Germania ad indirizzare la propria economia verso un aumento

della domanda interna - invece di puntare tutto sul traino delle esportazioni - il

rilancio della domanda nell’Eurozona sembra essere affidato soprattutto alle politiche

monetarie e fiscali comuni.

Concludiamo analizzando, con riferimento all’economia italiana, le conseguenze che

il protrarsi dell’impasse dell’Eurozona potrebbe causare. Ci serviremo ancora una

volta di una semplice verifica sull’identità contabile dell’equilibrio macroeconomico

completo: (S-I) = (G-T) + (X-M) .

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Nel corso della recessione seguita alla crisi finanziaria, le famiglie hanno teso a

mantenere i livelli di consumo, supplendo ai minori trasferimenti pubblici (dovuta ai

tagli alla spesa pubblica per gli stabilizzatori automatici, indotti dalla necessità di

ottemperare al Patto di stabilità) con la contrazione del risparmio. Tuttavia, la

recessione ha provocato in Italia una caduta degli investimenti che ha sopravanzato la

riduzione del risparmio (S < I), sicché il moltiplicatore negativo ha prodotto la

discesa del PIL ad un livello più basso. Il nuovo equilibrio macroeconomico vede il

saldo negativo del settore privato sul lato sinistro dell’equazione trovare

compensazione nel saldo negativo del settore pubblico (G < T) dopo la creazione di

surplus generata dai tagli di spesa pubblica; il saldo del settore estero è pressoché in

pareggio (X = M ), dal momento che la caduta del reddito ha determinato

l’annullamento dell’eccesso delle importazioni sulle esportazioni.

Come abbiamo argomentato in precedenza, nell’attuale fase di profonda recessione, e

di pesanti “tagli” nei piani di spesa delle famiglie, una volta esaurito lo smobilizzo

dei risparmi, una politica fiscale keynesiana è l’alternativa alla deflazione (la

“svalutazione reale” consistente nell’abbassamento dei salari e dei prezzi). Il rilancio

degli investimenti pubblici e una riduzione delle tasse sui redditi bassi

innescherebbero un moltiplicatore dei consumi, generando così la ripresa economica.

7. La struttura istituzionale dell’Eurozona

Il passaggio alla centralizzazione della politica monetaria, in presenza di un controllo

della Commissione sui bilanci nazionali orientato soltanto alla disciplina fiscale, ha

rappresentato un percorso di unificazione delle politiche pubbliche europee lasciato a

metà. Nel contesto di marcata eterogeneità che caratterizza i sistemi produttivi dei

paesi dell’UME, un tasso di interesse sull’euro “uguale per tutti” può causare una

sotto-stabilizzazione in un paese il cui output gap ha un’ampiezza superiore alla

media UME, oppure un tasso di interesse reale negativo per i paesi a più alto tasso di

inflazione (come è avvenuto in Irlanda e Spagna nel 2004-07) con conseguente

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eccesso di espansione della domanda. Così pure, la crisi finanziaria ha mostrato come

un mix di politica monetaria e fiscale ambedue di segno restrittivo possa creare una

tendenza deflazionistica in tutta l’Eurozona.

La recessione conseguita alla crisi imporrebbe una politica fiscale anti-ciclica. Un

ciclo economico recessivo, attraverso il prolungarsi della disoccupazione, può infatti

causare un abbassamento durevole del tasso di occupazione, indebolendo la crescita

fino al punto di generare una stagnazione di lungo periodo. Il fatto è che con la

perdita dell’autonomia di politica monetaria e valutaria ed i vincoli stringenti posti

dal PSC sulla politica fiscale, la cassetta degli strumenti di politica macroeconomica

si è pressoché svuotata. I governi sono così più indifesi di fronte agli effetti perversi

degli shock sull’espansione di lungo periodo.

Come si è già accennato, uno shock esogeno che non sia sufficientemente contrastato

a livello nazionale dall’aggiustamento mercati del lavoro e dei beni vede Bruxelles

priva di un bilancio comunitario che possa impegnare risorse per una politica di

stabilizzazione del reddito degna di questo nome. Né il varo dell’Unione bancaria

rappresenta un passo risolutivo nella direzione della coesione macroeconomica

dell’Eurozona. L’obiettivo dell’unione bancaria è quella di impedire il propagarsi di

una recessione attraverso insolvenze bancarie, ma residua in ogni caso il problema di

misure atte a ridurre l’impatto di uno shock sui PIL nazionali sui livelli di

occupazione e di domanda dei paesi dell’Eurozona. Come la crisi in corso ha

abbondantemente dimostrato, dato che le condizioni dei rapporti debito pubblico /

PIL impediscono politiche anti-cicliche dei governi nazionali, è indispensabile una

modifica dei Trattati, in modo da introdurre un’Unione fiscale dotata di un

meccanismo di aggiustamento centralizzato a Bruxelles.

Le prospettive di ripresa economica di lungo periodo dell’Eurozona sono legate

soprattutto alla revisione del suo assetto istituzionale, con il varo dell’Unione

bancaria ora in corso, e con un futuro approdo all’Unione fiscale. Tuttavia, anche le

istituzioni attuali possono contribuire nel breve periodo al rilancio della crescita. La

BCE è indebolita da uno Statuto che le vieta di svolgere la funzione di prestatore di

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ultima istanza e di effettuare acquisti di debito sovrano nel mercato primario per

ripristinare il canale di trasmissione della propria politica monetaria nei paesi in cui i

mercati finanziari reputano sia in dubbio la sostenibilità fiscale e quindi provocano

una tendenza al rialzo dei tassi di interesse. La funzione di comportamento del

governatore della BCE – precedentemente illustrata con riferimento alla Regola di

Taylor - consentirebbe tuttavia di utilizzare due strumenti importanti di politica

monetaria – per favorire la ripresa delle economie più colpite dalla recessione. Primo,

la fissazione di un tasso-obiettivo di inflazione più elevato permetterebbe di

aumentare l’efficacia della politica monetaria in due modi:

1a. Accrescendo la flessibilità dello strumento di politica monetaria, il tasso di

interesse, mediante un più alto obiettivo di inflazione. Il tasso di interesse base (il

tasso di rifinanziamento alle banche) potrebbe essere maggiormente ridotto: con un

obiettivo di inflazione П = 4% invece che П = 2%. Supponiamo di essere in

recessione e che occorra un drastico abbattimento del tasso di interesse. In presenza

di inflazione effettiva pari al valore-obiettivo del 2%, e di un tasso di interesse

nominale al 5%, il tasso-base potrebbe essere ridotto di ben 3 punti senza che il tasso

di interesse reale. Una tale riduzione è però impedita dall’incremento del tasso di

inflazione al di sopra del valore-obiettivo che conseguirebbe dall’espansione

produttiva divenga negativo. Con un obiettivo pari al 4%, ci sarebbe invece “spazio”

per il necessario drastico abbattimento del tasso di interesse, con conseguente

aumento sia della produzione reale sia del tasso di inflazione (che potrebbe

aumentare anche di 2 punti).

1b. Supponiamo nuovamente la presenza di recessione economica e che occorra un

drastico abbattimento del salario reale. Con un’inflazione effettiva pari al valore-

obiettivo del 2%, una dinamica salariale pari al 2% non può essere contrastata – se

non al prezzo di una violazione del limite del 2% di inflazione - da una espansione

monetaria inflazionistica (indotta dalla riduzione del tasso di interesse) che riduca il

potere di acquisto del salario nominale. Il salario reale potrebbe invece essere ridotto

se la banca centrale potesse sfruttare con un’espansione monetaria i 2 punti d

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aumento dell’inflazione disponibili. Tale manovra espansiva avvicinerebbe il tasso di

inflazione-obiettivo al 4%, parallelamente alla ripresa dell’occupazione (favorita

dalla riduzione in termini reali del salario reale) e della produzione.

Secondo, se la BCE, nel fare politica monetaria in base alla Regola di Taylor,

modificasse il tasso di interesse anche in funzione del tasso di cambio con il dollaro,

una sopravvalutazione come l’attuale rapporto 1,40 dollari circa per 1 euro andrebbe

subito corretta. La riduzione del tasso di interesse avrebbe l’effetto di rendere meno

profittevole l’acquisto di attività finanziarie dei paesi dell’Eurozona, innescando così

un deflusso di capitali, che finirebbe per indebolire l’euro rispetto al dollaro. Tutti i

paesi dell’Eurozona si avvantaggerebbero per il conseguente aumento delle

esportazioni. In particolare, però, sarebbero i paesi della Periferia – costretti dai

vincoli di politica fiscale a seguire politiche di austerità - a goderne maggiormente. I

paesi della Periferia avrebbero infatti la possibilità di rilanciare le loro economie: la

ripresa delle esportazioni non sarebbe infatti più legata alla capacità di realizzare la

deflazione reale (al prezzo della discesa dei salari e/o dell’occupazione), ma

scaturirebbe dall’espansione della domanda extra-UME. In altri termini, la Periferia

potrebbe conseguire la ripresa economica accrescendo la domanda estera a domanda

interna invariata (avendo evitato la contrazione del monte-salari) senza dovere

ricorrere all’”austerità”, cui non segue un aumento del Pil, ma - come si è visto – una

sua ulteriore contrazione.

8. Cenni sul sistema monetario internazionale

Il sistema monetario internazionale rappresenta la cornice di relazioni fra le valute

entro la quale hanno luogo le transazioni di beni, servizi e capitali fra i paesi. Com’è

noto, il passaggio nell’antichità dall’economia di baratto all’economia di scambi di

beni mediati dalla moneta è stato interpretato dalla teoria economica in base al

concetto di moneta-merce: il valore di una moneta corrispondeva al contenuto aureo

o d’argento con cui veniva realizzato il mezzo di pagamento. Successivamente, si è

affermata l’idea che il potere del principe o del sovrano il cui volto è stampigliato su

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una faccia della moneta fosse la vera base su cui poggiava la fiducia nella moneta con

cui si viene pagati quando si vende un bene. Ad esempio, la ricerca storica ha

evidenziato come le monete circolassero nonostante la pratica di limare le monete ne

riducesse il contenuto aureo. Nella teoria economica è così maturato il concetto di

moneta-segno: i cittadini di uno Stato sono disposti a riconoscere alla moneta la

capacità di estinguere un debito perché le si riconosce non solo la funzione di unità di

conto e di mezzo di pagamento, ma anche quella di mezzo per trasferire valore nel

tempo senza timore (sempre che sussista la fiducia che le autorità monetarie

impediranno che il suo potere di acquisto venga a ridursi per l’inflazione).

Nella circolazione interna ai singoli paesi, la moneta – cartacea e metallica – ha in

effetti progressivamente perso il legame con il contenuto metallico nel corso del XIX

secolo, fino alla dichiarazione dello Stato che la moneta circola a corso forzoso

(ovvero, lo Stato impone la sua sovranità attribuendo al proprio segno monetario un

valore non correlato al contenuto metallico). Per quanto riguarda la circolazione dei

mezzo di pagamento fra Stati, il discorso è più complesso. Per comprendere il ruolo

svolto dai tassi cambio fra le valute, in congiunzione con la politica monetaria delle

banche centrali, analizzeremo ora i due principali sistemi monetari internazionali

della storia recente.

Il primo sistema, che possiamo datare dal 1870 al 1914 (ma che venne ripristinato per

alcuni anni da alcuni paesi fra il 1918 ed i primi anni 1930), è denominato Gold

Standard. In questo sistema monetario internazionale ciascuna valuta aveva un tasso

di cambio fisso con l’oro. Le banche centrali fissavano il valore della propria valuta

in termini di oro, sicché dal rapporto di ciascuna moneta con l’oro scaturivano i tassi

di cambio fissi fra le valute. L’oro veniva detenuto come riserva internazionale

ufficiale: ogni eccesso di pagamenti da effettuare all’estero rispetto alle entrate

dall’estero - ad esempio, un eccesso delle importazioni sulle esportazioni -

comportava il trasferimento di oro all’estero in modo da estinguere il debito

(gradualmente, le banche centrali si dotarono però anche di valuta estera,

essenzialmente sterline, per regolare il debito con l’estero).

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Ad ogni scostamento della propria valuta del suo prezzo in oro, ogni banca centrale

era tenuta ad intervenire (acquistando o vendendo oro, a seconda di una tendenza

della valuta ad apprezzarsi o a deprezzarsi). L’autonomia di una banca centrale, e in

particolare la possibilità di condurre una politica monetaria avente un obiettivo

distinto da quello della preservazione del tasso di cambio con l’oro – ad esempio, un

obiettivo di livello del reddito e dell’occupazione – erano dunque precluse. Se una

banca centrale creava moneta in quantità eccessiva, il tasso di interesse (il prezzo dei

fondi prestabili) tendeva al ribasso e gli investitori erano indotti a vendere i propri

depositi alla banca centrale per poi investire al’estero e realizzare un maggior tasso di

rendimento.

Mentre in cambi flessibili la valuta si deprezza attraverso gli scambi degli operatori

privati, nei cambi fissi del Gold Standard l’aggiustamento ha luogo attraverso la

fuoriuscita dell’oro. Pertanto, per estinguere un debito con l’estero, si vendeva attività

denominate nella valuta della banca centrale ottenendo in cambio un quantitativo di

oro al tasso di cambio fisso, oro che provvedevano a presentare alla banca centrale di

un paese dove il tasso di interesse era più elevato, per ottenere in cambio depositi in

tale valuta. A questo punto, la banca centrale registrava un decremento della propria

riserva in oro e la banca centrale straniera godrà di un incremento della propria

riserva in oro.

Il sistema tendeva naturalmente al riequilibrio. In seguito al fatto che beni ed attività

finanziarie del primo (secondo) paese erano diventate meno (più) appetibili lo

squilibrio tendeva ad annullarsi. Alla riduzione della quantità di moneta nel primo

paese conseguiva una riduzione delle transazioni economiche e quindi un

abbassamento dei prezzi, compreso il tasso di interesse. A tale contrazione

corrisponderà l’incremento della quantità di moneta nell’altro paese, con opposta

variazione di livello di attività economica e dei prezzi, compreso il tasso di interesse.

Pertanto, la politica monetaria eccessivamente espansiva del primo paese – che era

stata all’origine dello squilibrio – non ha avuto effetti permanenti nell’economia

reale. Come si è già accennato, il risultato è che nel Gold Standard era assente

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l’autonomia della politica monetaria (la creazione di moneta era stata eccessiva,

cosicché la parte eccedente viene distrutta).

Per ottemperare all’impegno di mantenere fisso il tasso di cambio con l’oro, una

banca centrale doveva disporre di un ammontare sufficiente di oro. La vendita di

attività finanziarie era la via seguita dalle banche centrali per fare salire i tassi di

interesse in modo da attrarre flussi di capitale e dotarsi di riserve in oro (prima del

1914, le banche centrali avevano però cominciato a detenere riserve in valuta estera,

in primo luogo sterline) per non trovarsi in difficoltà nel fare fronte al proprio

impegno di conversione in oro delle valute. Una perdita prolungata di oro avrebbe

infatti avuto l’effetto di impedire alla lunga alla banca centrale di onorare l’impegno a

convertire in oro le attività finanziarie interne.

Come sopra accennato, questo meccanismo - definito “price specie flow” -

funzionava automaticamente: le banche centrali riuscivano a far sì che un

disequilibrio nelle partite correnti trovasse compensazione in un disequilibrio di

segno opposto nei movimenti di capitale e viceversa, preservando così l’equilibrio

della bilancia dei pagamenti. Infatti, le banche centrali reagivano ad una perdita di

oro vendendo le attività finanziarie interne per attrarre capitali e continuare ad

onorare l’impegno di convertibilità della valuta. Il conseguente aumento del tasso di

interesse deprimeva l’attività economica e la conseguente discesa dei prezzi favoriva

la formazione di un attivo nelle partite correnti, che compensava il disavanzo

finanziario, senza che fosse necessario un trasferimento di riserve. Tale strategia di

vendere attività interne per evitare di dovere continuare a cedere oro aveva però una

grave conseguenza: innescare una deflazione interna, con relativa perdita di

produzione ed occupazione.

Il meccanismo di riequilibrio automatico previsto dal Gold Standard si rivelò poco

virtuoso, in quanto finiva per penalizzare le economie più deboli. Il costo del

riequilibrio ricadeva infatti tutto sui paesi in disavanzo di conto corrente.

La tendenza a generare deflazione dipendeva dalla caratteristica del gold standard di

causare un aggiustamento asimmetrico, eccessivamente a carico delle economie più

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deboli. Tale caratteristica è stata successivamente condivisa anche dal SME, e dopo la

crisi finanziaria si è ripresentata nell’UME. Nello SME, il cambio fisso delle valute,

in luogo dell’oro, era mantenuto con il DM, la valuta di riferimento del sistema. Se

l’accordo di cambio fosse stato di tipo cooperativo, la valuta di riferimento sarebbe

stata l’ECU. Ciò avrebbe comportato che l’aggiustamento del cambio avrebbe potuto

essere richiesto anche alla Germania e non solo – come invece è sempre accaduto dal

1979 al 1999 - ad uno o più degli altri paesi. Ad esempio, durante il progressivo

rafforzamento del dollaro sui mercati valutari internazionali fra il 1980 ed il 1985, il

marco seguì il trend ascensionale del dollaro creando notevoli problemi a molti paesi

dello SME che dovettero subire più di un aggiustamento verso il basso del valore

della propria valuta.

Con l’accordo SME cooperativo si sarebbe potuto spesso verificare - attraverso

l’esame delle variazioni dei cambi in ECU delle varie valute - che le deviazioni dalla

parità centrale erano determinate dal legame del marco con il dollaro, e che quindi le

tensioni all’interno dello SME andavano risolte con l’apprezzamento del marco

rispetto all’ECU. Al contrario, dato il carattere egemonico dell’accordo di cambi fissi,

la Germania rifiutava di essere costretta a perdere competitività rispetto a tutte le altre

economie dello SME ed impose che fosse di volta in volta il paese che rischiava di

sfondare la banda di oscillazione superiore a svalutare, formalmente rispetto all’ECU

ma sostanzialmente rispetto al marco.

La scelta di accelerare l’integrazione monetaria, culminata con il varo dell’UME nel

1999, fu indotta dal cambiamento strutturale rappresentato dalla completa abolizione

dei controlli sui capitali nel 1990.

Il problema della “tripletta impossibile”, messo in luce proprio dalla piena

liberalizzazione dei flussi di attività finanziarie fra i vari mercati globali, consiste

nella mutua incompatibilità dei tre obiettivi che gli Stati dello SME avevano

raggiunto: cambi fissi, autonomia della politica monetaria, libertà dei movimenti dei

capitali. Per gli N-1 paesi del Sistema monetario europeo (in quanto si deve omettere

di considerare la Germania, la nazione che di fatto forniva la valuta di riferimento per

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le parità bilaterali), la scelta a favore della completa mobilità dei capitali non poteva

essere contemperata con tassi di cambio stabili, se non accettando la rinuncia totale

all’autonomia di politica monetaria. In altri termini, le banche centrali erano sotto la

continua minaccia di attacchi speculativi contro la valuta da parte di operatori

finanziari interessati a realizzare extra-profitti una volta provocata una svalutazione.

Ciò apparve chiaro ad Italia e Regno Unito, che decisero di non tentare di restare

nello SME dopo l’attacco dell’estate 1992 a lira e sterlina, quando gli stessi titoli che

erano stati venduti per indebolire il cambio, e provocare il riallineamento rispetto al

marco, potettero poi essere riacquistati al più basso prezzo della valuta nella quale

erano denominati). Era ormai chiaro che, in assenza di un impegno cooperativo a

sostenere la valuta sotto attacco per l’indisponibilità della Germania, il carattere self-

fulfilling degli attacchi speculativi avrebbe a breve portato ad una nuova

svalutazione. Pertanto, il costo della rinuncia allo strumento della variazione del

cambio apparve molto più basso di quanto non fosse stato prima del 1990 (fra il 1987

ed il 1992 era stato possibile fare fronte a deficit commerciali attirando capitali con

appropriati differenziali di tasso di interesse senza che intervenissero attacchi alla

valuta) il che spianò la strada alla moneta unica.

La prima guerra mondiale lasciò il retaggio di alti tassi di inflazione, che

continuarono a crescere una volta che i governi aumentarono la spesa pubblica per

favorire la ripresa economica post-bellica. Gli Stati Uniti tornarono al gold standard

nel 1919; il Regno Unito nel 1925; nel 1922 Regno Unito, Italia, Francia e Giappone

si accordarono per il varo di un Gold Exchange Standard (GES), che prevedeva che i

paesi più piccoli detenessero come riserve le valute dei paesi più grandi, le cui riserve

fossero totalmente rappresentate da oro. Poiché la banca di Inghilterra fu costretta a

politiche monetarie restrittive per combattere l’inflazione, la stabilità del GES era in

dubbio: da un lato, la sterlina era la valuta di riserva per eccellenza. Dall’altro le

riserve della Banca di Inghilterra erano limitate e l’economia ristagnava. Fu quindi

proprio dopo la prima guerra mondiale che ebbe inizio il declino del Regno Unito.

Gli Stati Uniti, che erano tornati nel 1934 al Gold Standard dopo averlo abbandonato

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l’anno precedente, assieme ai paesi che restarono nel gold standard senza svalutare,

conobbero una prolungata fase di caduta del Pil e dell’occupazione, la Grande

Depressione degli anni ‘30 . La soluzione di cercare il riequilibrio attraverso il ritorno

al protezionismo – dopo la fase di accentuata globalizzazione degli scambi

commerciali fra il 1870 ed il 1914 – fallì a causa dell’avvitarsi dei paesi in una

deflazione sempre più grave. La lunga fase di elevata disoccupazione degli anni ‘30

venne superata solo con lo scoppio della seconda guerra mondiale.

L’accordo di cambi fissi denominato Bretton Woods, dal nome della cittadina del

New Hampshire in cui venne siglato a sorti della guerra mondiale ormai acquisite, ha

rappresentato il sistema monetario internazionale operante dal 1944 al 1971. A

Bretton Woods, gli Stati Uniti si erano opposti alla proposta avanzata dal Regno

Unito di dare vita ad un sistema monetario internazionale con una distribuzione

paritaria del potere economico. La delegazione inglese, avanzò la proposta ideata da

Keynes di creare una valuta fittizia – il Bancor – rappresentativo del potenziale

economico di tutte le grandi economie invece di assegnare la supremazia economica

mondiale agli Stati Uniti. La proposta venne però rifiutata dalla delegazione

americana, forte dell’influenza politica guadagnata con i soldati morti per salvare

l’Europa dal nazismo.

Al termine delle negoziazioni, il sistema stabiliva che una sola valuta – il dollaro

statunitense – mantenesse un valore fisso in termini di oro e fungesse da valuta di

riserva per tutte le altre banche centrali, la cui valuta veniva legata da un tasso di

cambio fisso con il dollaro (e per questa via, indirettamente, con l’oro). Pertanto,

poiché gli N-1 paesi con valuta non riserva internazionale fissavano il proprio tasso di

cambio con la valuta ennesima, soltanto la politica monetaria del paese che emetteva

tale moneta riserva internazionale era libera da vincoli. In altri termini, essendo la

Federal Reserve impegnata a preservare il rapporto fisso del dollaro unicamente

rispetto all’oro (garantendo agli altri paesi la conversione di dollari in oro), la

creazione di dollaro da parte della Fed poteva essere effettuata secondo le esigenze di

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pagamento degli Stati Uniti, senza riguardo al rapporto con le altre valute del sistema.

Fra le N valute degli altri N paesi si determinavano N-1 tassi di cambio fissi, ed era

quindi responsabilità di ciascuna delle loro N-1 banche centrali il mantenimento del

rapporto di cambio fisso con il dollaro.

L’esigenza delle N-1 banche centrali di avere un ammontare di riserve in dollari - di

ampiezza tale da fare fronte alla necessità di effettuare nei mercati transazioni in

valuta nazionale contro attività finanziarie denominate in dollari - comportò la

necessità di detenere ingenti capitali in Buoni del Tesoro USA e depositi a breve

termine in dollari. Poiché il tasso di cambio che le banche centrali si impegnavano a

mantenere fisso era solo quello con il dollaro, ogni eventuale discrasia nel tasso di

cambio - di ciascuna valuta con ciascuna altra valuta priva del ruolo di riserva

internazionale - stimolava gli operatori di mercato ad operazioni di arbitraggio.

Supponiamo ad esempio che in seguito ad una perdita di valore del marco tedesco

rispetto al franco francese il tasso di cambio franco/marco si discostasse dalla parità

“indirettamente” fissata dai rispettivi tassi di cambio con il dollaro. In tal caso, le

forze di mercato realizzavano acquisti di franchi in cambio di dollari nella misura tale

da riportare in equilibrio il tasso di cambio franco/marco, ovvero da renderlo

nuovamente coerente con i rispettivi tassi di cambio di franco e marco con il dollaro.

Il varo del sistema di Bretton Woods cercò di trarre frutto dalla lezione della

depressione degli anni ’30. Venne creato un sistema nel quale una perdita di capitali –

causata da deficit commerciale o da una politica monetaria espansiva che riducesse

gli afflussi di capitali nel paese - non rendesse inevitabile una tendenza

deflazionistica. Come si è accennato, i pilastri del sistema di Bretton Woods erano i

seguenti:

1. la centralità del tasso di cambio fisso con il dollaro; 2. politiche macroeconomiche

espansive condotte dagli Stati Uniti; 3. i controlli sui movimenti di capitale,

necessari a garantire che fluttuazioni economiche divergenti fra i diversi paesi non

minacciassero la stabilità dei tassi di cambio fra USD e le varie valute.

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L’accordo di Bretton Woods del 1944 sancì l’inizio dell’egemonia degli Stati Uniti

sull’economia mondiale post-bellica, il paese che forniva la valuta mezzo di

pagamento internazionale, la cui domanda faceva da traino all’espansione economica

delle economie occidentali. Tale regime di cambi fissi ebbe le caratteristiche del Gold

Exchange Standard. Le valute erano infatti convertibili non solo in oro (sebbene

all’interno dei paesi naturalmente circolassero in regime di corso forzoso) sicché i

deficit di conto corrente potevano essere coperti con la cessione sia di oro che di

dollari,ma anche in valuta.

Gli Stati Uniti hanno così sostenuto per trenta anni - con la loro domanda - la crescita

delle economie europee, consentendo l’espansione degli apparati produttivi erano

stati fortemente ridimensionati dalle distruzioni belliche. Il dollaro fu così elevato al

rango di unica valuta di riserva internazionale e la funzione di prestare capitali

(mediante un fondo finanziati da tutti i paesi aderenti) ai paesi la cui bilancia dei

pagamenti fosse in difficoltà venne attribuita al Fondo monetario internazionale

(IMF International Monetary Fund).

I controlli sui movimenti di capitale svolgevano un ruolo fondamentale, in quanto

permettevano di contrastare un allontanamento del cambio fisso con il dollaro, la

valuta àncora del sistema perché convertibile in oro ad un tasso fisso. I controlli

davano agio ai governi di condurre politiche di stabilizzazione del reddito anche in

presenza di deficit commerciale, evitando così la distorsione deflazionistica del GS,

senza che i mercati finanziari – attraverso l’imposizione di premi per il rischio di

cambio (basati sulle aspettative di svalutazione) e per il rischio di default (basati sulle

aspettative sulla sostenibilità del debito pubblico) - avessero il potere di condizionare

la loro autonomia in campo monetario e fiscale. In particolare, i controlli riducevano

l’esigenza di attrarre capitali dall’estero - con l’apertura di un differenziale positivo di

tassi di interesse con l’estero attraverso una restrizioni monetaria - a compensazione

dei deficit commerciali, impedendo perciò che tassi di interesse e tassi di cambio

fossero soggetti a forti fluttuazioni.

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Pertanto, Bretton Woods difese l’Europa dall’instabilità macroeconomica che sarebbe

scaturita dai differenti livelli di efficienza (e quindi di competitività sui mercati) dei

sistemi produttivi, e permise l’”età dell’oro” di tassi di crescita reale dell’ordine del

5%. I controlli sui movimenti di capitale mitigarono il rischio per le economie

europee che un’espansione della creazione di moneta portasse ad instabilità

macroeconomica e deficit commerciale, fino a rendere inevitabile la svalutazione del

cambio.

Con Bretton Woods, il ruolo dell’oro venne considerevolmente ridimensionato.

Diversamente dal Gold Standard, non era necessario difendere un tasso di cambio

sopravvalutato ed evitare la perdita di oro attraverso una dolorosa deflazione. In

aggiunta ai controlli sui movimenti dei capitali, fu infatti costituito – come si è già

detto - l’IMF, con l’obiettivo di aiutare i paesi a mantenere il tasso di cambi fisso con

il dollaro. Lo strumento era l’erogazione di credito per permettere ai paesi di tenere in

equilibrio la bilancia dei pagamenti, senza essere costretti alla deflazione di salari e

prezzi allo scopo di creare un surplus commerciale per compensare una tendenza ai

deflussi di capitale.

La centralità del dollaro rappresentò al tempo stesso la forza e la debolezza di questo

sistema monetario internazionale. Infatti, la fiducia nella valuta emessa dalla

principale potenza economica mondiale permise il rispetto della fissità dei tassi di

cambio bilaterali e perciò una prolungata fase di stabilità monetaria internazionale.

D’altro canto, a partire dagli anni ’60, divenne progressivamente meno credibile

l’impegno della Federal Reserve USA ad accettare il cambio in lingotti di oro di

qualsiasi ammontare di dollari presentato alla Fed da una qualsiasi altra banca

centrale. Una enorme massa monetaria venne creata negli anni dagli Stati Uniti per il

pagamento del deficit commerciale del paese, per finanziare le truppe NATO in

Europa e per gli interventi militari (in particolare, per la guerra nel Vietnam). Ciò

esponeva la banca centrale statunitense al rischio di dovere rifiutare il cambio ed il

governo statunitense ad una perdita di prestigio. L’ingente quantità di valuta USA in

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circolazione, in notevole eccesso rispetto alle riserve in oro di Fort Knox, fu la causa

efficiente dell’abbandono del sistema di Bretton Woods.

Dopo che la Francia ebbe a più riprese minacciato di chiedere il cambio in oro delle

proprie riserve in dollari, allo scopo di indebolire il primato statunitense di prima

potenza economica e militare del mondo, il 15 agosto 1971 il presidente Nixon prese

la decisione di dichiarare unilateralmente il dollaro non più convertibile in oro. Da

quel momento in poi, le valute dei paesi avanzati hanno circolato in regime di cambio

flessibile con un dollaro ormai privo di qualsiasi “tallone aureo”, sicché per definire

l’attuale regime si parla di dollar standard.

I controlli sui movimenti di capitale svolgevano un ruolo fondamentale. Poiché la

convertibilità introduceva la possibilità di una perdita di valore rispetto alla valuta

àncora del sistema, i controlli:

1. davano agio ai governi di condurre politiche di stabilizzazione, evitando così il bias

deflazionistico tipico del Gold Standard, senza che i mercati finanziari – attraverso

l’imposizione di premi per il rischio di cambio (basati sulle aspettative di

svalutazione) e per il rischio di default (basati sulle aspettative sulla sostenibilità del

debito pubblico) - avessero il potere di condizionare la loro autonomia in campo

monetario e fiscale;

2. impedivano che tassi di interesse e tassi di cambio fossero soggetti a forti

fluttuazioni. Bretton Woods difese l’Europa dall’instabilità macroeconomica che

sarebbe scaturita dai differenti livelli di efficienza (e quindi di competitività sui

mercati) dei sistemi produttivi, e permise l’età dell’oro di tassi di crescita reale

dell’ordine del 5%. Per le economie europee, furono i controlli sui movimenti di

capitale a mitigare il rischio che un’espansione della creazione di moneta portasse ad

instabilità macroeconomica e deficit commerciale, fino alla svalutazione del cambio.

L’età dell’oro durò dal 1945 al 1973, quando la quadruplicazione del prezzo del

petrolio nel 1973-74 segnò la fine dell’espansione post-bellica a bassa inflazione e

disoccupazione calante. La nuova epoca fu segnata da forte instabilità

macroeconomica, a cominciare dalla riduzione drastica degli investimenti conseguita

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al conflitto intorno alla distribuzione del reddito (da cui per un breve periodo scaturì

una breve fase di aumento della quota del salario sul reddito a scapito di quella del

profitto in alcune economie europee). Agli incrementi dei salari monetari del 1973-

74, e poi di nuovo nel 1979 soprattutto nel Regno Unito ed in Italia, seguirono la

tendenza delle imprese a sostituire capitale a lavoro al fine di contenere la crescita del

costo del lavoro, e tensioni inflazionistiche per l’aumento continuo dei prezzi.

L’obiettivo di preservare le quote di mercato estero, indebolite dalla discesa della

competitività portò a svalutazioni competitive indotte da politiche monetarie

espansive dirette ad abbassare i salari in termini reali. Il sistema monetario europeo

(SME), l’accordo di cambi fissi - ma aggiustabili - in vigore fra il 1979 ed il 1999,

nacque dalla consapevolezza che una flessibilità illimitata dei tassi di cambio stava

portando ad un “gioco a somma zero” riguardo al livello di attività economica in

Europa, perché nessun paese riusciva a sostenere la crescita attraverso il breve

recupero di competitività permesso dalla svalutazione nominale, ed “a somma

negativa” riguardo al tasso di inflazione, perché le aspettative di inflazione,

continuamente confermate, alimentavano una crescita esponenziale dei prezzi in tutti

i paesi.

La scelta di convertirsi ad una strategia anti-inflazionistica, diretta conseguenza del

predominio culturale riguadagnato dal pensiero neoclassico-monetarista, implicò non

solo un drastico freno all’inflazione alimentata dalle aspettative di continuo

incremento, ma significò di fatto per l’Europa anche un’evoluzione verso un nuovo

potere egemonico. Con uno SME soggetto all’egemonia dell’economia tedesca

l’Europa si distanziava dalla predominante influenza degli Stati Uniti, che sul piano

economico si imperniava sulla crescita garantita da sostanziosi flussi di domanda e

dalla concessione ai partners sia del proprio mercato interno che dalla autonomia di

politica macroeconomica.

Oggettivamente, la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro dell’agosto

1971 aveva indebolito tale rapporto gerarchico. I paesi europei, che uscivano dagli

anni turbolenti della stagflazione, finirono così per trovare la promessa di un nuovo

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ordine economico nell’egemonia della Germania. La Germania non volle tenere

conto del fatto che ogni apprezzamento del marco sul USD costringeva gli altri paesi

membri ad inasprire le politiche monetarie e fiscali di segno restrittivo che la difesa

dei cambi fissi già imponeva (infatti, non venne mai utilizzato l’ECU, lo strumento

pensato per stabilire quale fra due valute in avvicinamento ciascuna al proprio limite

della banda di oscillazione rispetto alla parità centrale fosse responsabile per

l’imminente necessità di modificare la parità bilaterale. In molti casi, l’utilizzo di tale

strumento avrebbe finito con lo stabilire che il deprezzamento non era l’effetto di una

declinante competitività delle altre economie ma dell’apprezzamento marco sul

dollaro USA. In alcuni casi, infatti, l’ECU avrebbe segnalato che la tensione sul tasso

di cambio non dipendeva da una tendenza a deprezzarsi della valuta di un’economia

poco competitiva, ma da una tendenza del marco tedesco ad apprezzarsi sul dollaro).

La rigida intonazione deflazionistica della Bundesbank, la banca centrale che

imponeva di fatto la creazione di base monetaria compatibile con la difesa del cambio

a tutte le altre, era in evidente collisione con l’eventualità che gli accordi dello SME

imponessero alla banca centrale tedesca una espansione monetaria inflazionistica

diretta ad abbassarne il valore all’interno delle parità fisse dello SME. Questa

opposizione ad una interpretazione non egemonica dello SME fece sì che la politica

monetaria di tutte le banche centrali fosse sempre rigorosamente restrittiva.

La vittoria sull’inflazione venne così pagata dai paesi dello SME con un forte

incremento del tasso di disoccupazione e con due decenni di crescita lenta. In assenza

del traino delle esportazioni verso la maggiore economia europea, i divari di

produttività maturati negli anni dalle economie più deboli costrinsero spesso le n-1

valute dello SME a riallineamenti delle parità centrali con il marco. In definitiva, la

messa in comune del segno monetario da parte di realtà eterogenee ha rafforzato l’

integrazione, soprattutto quella dei mercati finanziari, ma ha anche allontanato Centro

e Periferia dalla convergenza.

A differenza dalla dipendenza del ciclo economico delle economie europee dal traino

dell’economia statunitense, l’interdipendenza con l’economia tedesca imponeva

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un’ipoteca deflazionistica sull’equilibrio macroeconomico. I paesi a CLUP più

elevato della Germania pagarono la progressiva rinuncia alla periodica svalutazione

del cambio nominale con la perdita di competitività che veniva provocata dal

conseguente apprezzamento reale, la penetrazione commerciale delle merci tedesche,

e quindi anche più bassi livelli di reddito e di occupazione.

Il vero spartiacque fra l’epoca di Bretton Woods ed il mondo in cui viviamo non fu

tuttavia l’integrazione monetaria, avviata nel 1979 con il passaggio ai cambi fissi per

combattere l’inflazione, ma il completamento della liberalizzazione dei flussi di

capitale nel 1990.

Fino al 1990, infatti, i cambi fissi dello SME sostanzialmente riflessero la logica di

Bretton Woods. I controlli sui movimenti di capitale in Europa proteggevano infatti la

convertibilità rispetto alla valuta àncora – prima il dollaro, poi il marco - del sistema

di cambi fissi. Tuttavia, la natura dell’egomonia esercitata dal paese-guida era affatto

diversa. Al traino della domanda mondiale garantito dalla sostenuta domanda interna

degli SU durante il regime di Bretton Woods si era sostituita la bassa crescita

economica indotta nelle economie europee dalla strategia deflazionistica della

Germania, la cui espansione dipendeva, all’opposto che negli SU, dalla domanda

estera. Si può dire che nel passaggio da SME a UME si è andata rafforzando

l’egemonia della Germania Germania sull’Eurozona. Il mancato utilizzo dell’ECU

aveva permesso alla Germania di ottenere che fossero sempre i paesi la cui valuta si

deprezzava a procedere all’aggiustamento attraverso una svalutazione della parità di

cambio con il DM, in modo da mantenere alla Bundesbank il ruolo di unica banca

centrale ad avere il privilegio dell’autonomia nella creazione di base monetaria.

Nell’UME, abolite le valute nazionali, i paesi più deboli (a più alto CLUP rispetto

alla Germania) non hanno più la possibilità di recuperare competitività mediante la

svalutazione del cambio.

In un certo modo, con l’unione monetaria si realizza l’equivalente della sostituzione

del gold standard al gold exchange standard. Infatti, con l’abbandono della propria

valuta, venne meno la funzione svolta dal processo di deprezzamento all’interno delle

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bande di oscillazione del tasso di cambio rispetto alla parità centrale: dare il tempo

alle misure restrittive fiscali e monetarie di ridurre il differenziale di inflazione e

recuperare competitività, prima che si rendesse improcrastinabile il ricorso alla

svalutazione con la definizione di una nuova parità centrale con il DM.

Nell’Eurozona, esattamente come nel gold standard, se l’economia “debole” non

realizza un immediato aggiustamento di mercato allineando il CLUP a quello del

paese egemone con una drastica deflazione di salari e prezzi, cioè con il

ridimensionamento del benessere della popolazione (il reddito pro capite si abbasserà

infatti in proporzione alla discesa dei salari), il prezzo del divario di efficienza andrà

comunque pagato con l’equivalente moderno del trasferimento di oro: la perdita dei

guadagni sui mercati esteri ormai non più raggiungibili da un paese che non esporta

più, vendendo le merci a prezzi troppo cari.

Una soluzione non egemonica ma cooperativa non era realizzabile nello SME e non

è disponibile nell’UME. La Germania, forte della propria egemonia politica in

Europa, conquistata con la propria maggiore efficienza economica, non è disponibile

a un accordo cooperativo. Nello SME, un accordo cooperativo sarebbe consistito

nella rivalutazione del DM, in modo da rendere più competitive le merci degli altri

paesi. Nell’UME, esso consisterebbe nella disponibilità della Germania ad aumentare

la domanda interna tedesca, cosicché la più alta inflazione in Germania renderebbe

minori le esportazioni tedesche nell’Eurozona, permettendo una ripresa negli altri

paesi trainata dalle maggiori esportazioni.

La situazione attuale fa assomigliare l’Eurozona ad una sorta di Bretton Woods, con

l’euro al posto della stabilità dei cambi ed il sistema Target2 al posto dei controlli sui

capitali. Come si è già sottolineato, una differenza fondamentale con Bretton Woods

rimane: in luogo del traino della domanda USA, che permise elevati tassi di crescita

del PIL in Europa, oggi c’è il rischio di una depressione di lungo periodo a causa

della tendenza deflazionistica indotta dalla strategia di politica fiscale della

Germania, orientata a comprimere la domanda interna puntando alla creazione di

reddito incentrata sull’espansione sui mercati esteri. Tuttavia, c’è un’altra differenza

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egualmente importante. Nel sistema di cambi fissi di Bretton Woods, vedendo

deperire la propria competitività molti paesi – Stati Uniti escluso, naturalmente – si

trovarono nelle condizioni di dover chiedere un sostegno finanziario, il che permise

loro di evitare il ricorso ad una svalutazione reale. Contesto tutt’affatto diverso è

quello dell’UME. Così come nel Gold Standard nei vari paesi avanzati una politica di

espansione monetaria era vincolata alla capacità di accumulare oro preservando

condizioni di competitività sui mercati esteri, pena il ricorso alla svalutazione reale

(la deflazione, con forte riduzione di salari e prezzi), nell’UME i singoli paesi non

hanno il controllo sulla valuta in cui è denominato il proprio debito pubblico. Non

possono quindi chiedere alla banca centrale di “monetizzarlo” per tranquillizzare i

mercati sulla solvibilità del proprio debito sovrano e sono costretti ad attuare una

svalutazione reale. Pertanto, sia nel Gold Standard che nell’UME i paesi sono

esposti ad attacchi speculativi ul debito pubblico nel caso viene meno la fiducia dei

mercati nella solvibilità dei governi. Inoltre, il Fiscal Compact e la politica monetaria

della BCE, con un obiettivo di tasso di inflazione al 2%, non permettono ai paesi

periferici di ridurre il salario reale – invece con tagli ai salari monetari socialmente

insostenibili – con politiche fiscali espansive che attraverso un aumento

dell’inflazione ne riducano il potere d’acquisto rendendo conveniente per le imprese

accrescere la domanda di lavoro

Perché all’inizio degli anni ’90 non si comprese in Europa che si stava creando un

unico segno monetario per economie con livelli di efficienza ancora troppo distanti

fra loro? Proviamo a dare una risposta.

Come si è già accenntato, la crisi del 1992 - con gli attacchi speculativi che portarono

all’uscita di lira e sterlina dallo SME - rese evidente la necessità di avere non solo la

convergenza nominale ma anche la convergenza reale prima di adottare una valuta

unica. Il motivo della scelta di accelerare ugualmente l’integrazione monetaria con il

varo nel 1991 del trattato di Maastricht fu essenzialmente politico: lo scambio –

concordato fra i governi tedesco e francese, ed accettato dagli altri partners -

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dell’accettazione dell’unificazione politica fra le due Germanie contro la rinuncia al

DM.

La crisi dello SME del ’92 fu un chiaro segnale: con l’unione monetaria scompariva

il rischio di cambio, ma in ogni momento i mercati finanziari avrebbero potuto

reagire ad una perdità di credibilità di un paese. In altre parole, gli operatori finanziari

non avrebbero continuato a detenere il debito pubblico, anche se denominato in euro,

una volta che la sua sostenibilità fosse revocata in dubbio, come è accaduto dopo la

bancarotta di Lehman Brothers. Il segnale del 1992 non venne quindi recepito, e si

continuò a mantenere in piedi un simulacro di SME. Si decise infatti di passare dalla

banda stretta alla banda di ± 15%, un regime fittizio di cambi fissi unicamente diretto

a mettere i governi al riparo da attacchi speculativi (una volta resa ammissibile un

deprezzamento entro la banda di oscillazione fino al 15% rispetto alla parità centrale,

troppo ingente era l’ammontare di capitali necessario ai mercati per mettere in crisi

una valuta). Il conseguimento del premio della partecipazione all’unione monetaria

venne quindi subordinato al perseguimento di politiche monetaria e fiscale

rigorosamente di segno restrittivo, al fine di ottemperare ai criteri di Maastricht (una

bassa inflazione, un basso tasso di interesse ed una sana gestione del bilancio

pubblico). Il calcolo erroneo, come si è detto, consistette nel ritenere che bastasse

ottenere la convergenza fra i valori nominali – e non anche fra quelli reali – di

economie a diverso grado di efficienza.

Nel limitarsi ad indicare l’obiettivo della convergenza nominale, senza organizzare un

meccanismi di condivisione dei rischi di divergenza reale connessi all’instabilità

macroeconomica ed ai ritardi delle economie periferiche, il Trattato di Maastricht

volle ignorare il fatto che – per dirla con Joe Stiglitz – la “Mano Invisibile” è tale per

il preciso motivo che non c’è. In modo un po’ inconsapevole, si affermò la previsione

fin troppo ottimistica che sotto la spinta del completamento del processo di

liberalizzazione nel 1993 dei mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, l’impegnativo

processo di catching-up da parte dei paesi periferici potesse essere affidato alle sole

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forze di mercato (con il piccolo aiuto dei fondi dell’Unione Europea a vantaggio delle

aree più arretrate, destinati alle politiche strutturali e di coesione).

Si è voluto credere che integrazione fosse sinonimo di convergenza. Al contrario,

l’integrazione realizzata in Europa è prevalentemente “negativa”: l’abbattimento

delle barriere tariffarie e non-tariffarie, e una parziale armonizzazione della

regolamentazione dei mercati, che non a caso non ha toccato la libertà di competere

attraverso la tassazione. Si è voluto credere all’ottimistica tesi di Robert Mundell

sulla suddivisione e condivisioni dei rischi di shock asimmetrico nei mercati

finanziari. Il che si è tradotto nell’esporre a regole comuni sistemi produttivi ed

istituzionali molto differenti. E’ molto dubbio che i risultati del gioco del mercato

possano consistere in un armonioso processo di convergenza economica senza uno

sforzo coordinato di politica industriale fra i paesi dell’Eurozona.

Nel mondo della piena libertà di movimento dei capitali, per guadagnare profitti con

la strategia degli hedge funds – i fondi a carattere speculativo che nel vendere e

comprare titoli danno seguito, con estrema prontezza, alle aspettative rispettivamente

al ribasso ed al rialzo delle quotazioni dei titoli) non è necessario disporre di una

pluralità di valute e giocare sulle aspettative sul loro tasso di cambio futuro. Una

strategia speculativa è realizzabile anche con paesi che condividono la valuta. Come i

paesi periferici hanno a loro spese constatato, basta mettere sotto pressione – con

ondate di vendite coordinate che ne abbattono il valore di mercato provocando la

salita del tasso di rendimento - il debito sovrano e i titoli delle banche che li hanno in

portafoglio, ancorché denominati nella valuta comune. Né è necessario che vi sia una

ragione perché ad un dato bond si applichi un più alto premio per il rischio. E’

sufficiente una aspettativa pessimistica innescata da un esogeno shock negativo (ad

esempio, una crisi come quella dei sub-prime) perché si decida di ristrutturare il

proprio portafoglio scaricando sui governi maggiormente in difficoltà il proprio

desiderio di “coprirsi dal rischio”.

In Europa si sarebbe dovuto tenere conto del fatto che anche nell’unione monetaria

gli investitori internazionali - divenuti arbitri dei destini delle economie dopo la

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rinuncia ad ogni governance dei flussi monetari - avrebbero potuto non solo lucrare

profitti speculativi ma anche diventare i “padroni” del destino dell’euro. Un grave

shock simmetrico subito dai paesi dell’Eurozona, quale è stato la trasmissione in

Europa della crisi dei titoli sub-prime, ha così provocato una crisi finanziaria che si è

propagata in modo asimmetrico all’interno dell’Eurozona, mettendo a nudo le

debolezze dei sistemi produttivi della periferia, la vulnerabilità del debito pubblico e

la fragilità delle istituzioni bancarie di molti paesi.

9. Eurozona e sistema monetario internazionale

La creazione dell’euro ha senza dubbio rappresentato il più importante cambiamento

nel sistema monetario internazionale avvenuto dopo il 1971. Nel 1992-93, come si è

detto, fu evidente che una volta completata la liberalizzazione dei movimenti dei

capitali era divenuto molto più difficile preservare i cambi fissi. La creazione

dell’euro, in un certo qual modo, non fece altro che trasformare un regime di cambi

fissi “ma aggiustabili” in un regime di cambi “irrevocabilmente” fissi.

La stabilità dei mercati finanziari, favorita dalla fine del rischio di cambio, è durata

fino al collasso di Lehman Brothers. All’avvio della crisi finanziaria nel 2008, le

economie deboli dell’Eurozona – che pure non erano più chiamate a difendere un

tasso di cambio fisso e non erano dunque esposte alla sfiducia dei mercati in un segno

monetario la cui credibilità era stata ridotta dalle politiche inflazionistiche adottate

dalla propria banca centrale – si trovarono di nuovo sotto l’attacco della speculazione

internazionale a causa della vendita di grandi quantitativi del loro debito pubblico.

Come mai i paesi periferici dell’UME, pur avendo aderito all’euro e quindi rinunciato

ad usare la propria valuta per difendere la competitività della propria economia

attraverso il meccanismo di inflazione-svalutazione, andavano perdendo la fiducia

degli operatori finanziari?

Il fatto è che i paesi dell’Eurozona non hanno tenuto conto non solo delle difficoltà

dei paesi “deboli” una volta rinunciato allo strumento della politica del cambio, ma

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anche dell’handicap rappresentato dall’essere formata da tanti governi nazionali. In

presenza di tanti debiti pubblici, si determinano tanti diversi premi per il rischio di

default del governo. In altre parole, generando un differenziale di tasso di interesse

con la Germania, i mercati esprimono un premio per il rischio legato ai fondamentali

macroeconomici di ciascun paese, generando uno spread di tasso di interesse rispetto

al paese-leader.

E’ difficile non condividere il giudizio di Stiglitz sull’errata teoria economica in base

alla quale è stato costruito l’assetto istituzionale dell’unione monetaria: “Much of the

euro’s design reflects the neoliberal economic doctrines that prevailed when the

single currency was conceived. It was thought that keeping inflation low was

necessary and almost sufficient for growth and stability; that making central banks

independent was the only way to ensure confidence in the monetary system; that

low debt and deficits would ensure economic convergence among member

countries; and that a single market, with money and people flowing freely, would

ensure efficiency and stability”.

La creazione dell’euro non poteva di per sè risolvere i problemi di squilibrio

economico fra i paesi europei. Si può dire che gli economisti ed i politici responsabili

dell’assetto istituzionale dell’Eurozona non hanno tenuto conto degli insegnamenti

della storia monetaria: la condizione dei paesi deboli dell’Eurozona è contigua con la

condizione di questi stessi paesi nel gold standard. Una valuta unica condivisa da

Stati diversi, con sistemi produttivi di differente efficienza e debito pubblico di

differente ampiezza, finisce per causare nei paesi periferici un avvitamento della crisi

prodotta da uno shock esogeno del tipo della crisi finanziaria dei sub-prime.

Al pari del gold standard, che imponeva la deflazione interna per evitare la perdita di

oro, i paesi periferici debbono restringere la spesa pubblica e deregolamentare

l’economia per tornare ad essere competitivi attraverso la deflazione interna.

L’obiettivo è quello di facilitare una discesa di salari e prezzi tale da ridurre il costo

del lavoro rispetto ai paesi con cui sono in competizione. La speranza di una ripresa

economica si fonda però sulla visione del recupero di efficienza sostenuta dai teorici

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della supply-side, mentre la crescita può riprendere soltanto se la domanda effettiva

risale.

Tale ripresa non può però realizzarsi, perché i consumatori sono indotti a

procrastinare i piani di consumo (in quanto salari bassi e disoccupazione crescente

fanno ristagnare la domanda monetaria) e le imprese non investono per le basse

aspettative di profitto. Inoltre, i mercati possono essere rassicurati sulla solvibilità del

debito sovrano soltanto se il bilancio pubblico è sostenuto da un flusso crescente di

entrate fiscali, il che ha come precondizione la risalita del tasso di crescita del PIL.

Inoltre, al traino della domanda mondiale garantito dalla sostenuta domanda interna

degli Stati Uniti durante il regime di Bretton Woods si è oggi sostituita la bassa

crescita economica indotta nelle economie europee dalla strategia deflazionistica

della Germania. L’espansione del paese dominante dell’UME dipende sempre più

dalle proprie esportazioni, dopo avere contratto il proprio mercato interno, mentre gli

Stati Uniti durante il regime di Bretton Woods espandevano la domanda interna,

fornendo domanda estera agli altri paesi.

I saldi Target2 di ciascun paese dell’UME registrati presso la BCE rappresentano la

contabilità degli squilibri macroeconomici fra i vari paesi. A partire dalla costituzione

dell’UME, i crediti target della Germania sono aumentati proprio perché la Germania

ha accumulato surplus delle partite correnti con il resto dell'Eurozona, senza che una

corrispondente quantità di capitale privato fluisse nei paesi in deficit. Fra il 2004 ed il

2007, tuttavia, ai surplus commerciali dei paesi del Centro, in primo luogo la

Germania (ai deficit della Periferia) hanno corrisposto deflussi di capitali investiti in

attività finanziarie private e pubbliche dal Centro verso la Periferia. La mancanza nei

paesi in deficit di fondi per acquistare l’eccesso di importazioni sulle esportazioni è

principalmente coperta da tali afflussi.

I deficit Target2 sono quindi liquidità che supera lo stock di moneta disponibile per

quella data banca centrale dell’UME e che è stato impiegato per l’acquisizione di

beni e attività di altri paesi dell’euro. Corrispondentemente, il surplus Target2 misura

il surplus di stock di moneta della banca centrale in circolazione in un paese al di

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sopra della moneta creata all’interno, e che nasce dalla vendita di beni e di attività ad

altri paesi dell’euro

In assenza del sistema Target2, le relazioni economiche fra i paesi dell’UME

tornerebbero ad un contesto simile a quello vigente nel Gold Standard. In luogo del

trasferimento di oro, dovrebbero essere regolate con compensazioni di natura reale.

Ovvero: 1.una profonda deflazione reale attraverso gli opportuni aggiustamenti del

CLUP e quindi dei prezzi relativi nei mercati dei beni; in assenza di tale drastica

forma di aggiustamento di mercato, si assisterebbe all’impoverimento causato dalla

progressiva perdita di redditi legati all’esportazione di beni verso i mercati delle altre

economie UME, con corrispondente progressiva cessione di quote del mercato intra-

UME alla Germania.

L’Eurozona naviga ancora fra la Scilla della prima opzione (una profonda deflazione

di salari e prezzi si è realizzata solo in Irlanda e Grecia, e più recentemente, ma in

minore misura, in Portogallo e Spagna) e la Cariddi della seconda opzione (al surplus

di conto corrente della Germania corrispondono i deficit di conto corrente di molti

paesi della Periferia e del Centro, solo in parte riassorbitisi a seguito della politica

dell’austerità imposta ai paesi a rischio di default; l’auspicato riequilibrio, con

politiche di stimolo della domanda interna in Germania, non si è ancora realizzato).

Dopo la crisi, l'aumento dell'incertezza riguardante il futuro e l'aumento del rischio di

default hanno portato alla crescita dei premi per il rischio e ad una riduzione dei

volumi delle transazioni nel mercato interbancario. Le banche hanno iniziato ad

accumulare liquidità invece di offrire le loro eccedenze al mercato impedendo la

riallocazione di moneta tra le banche.

Il sistema Target2, concepito quindi come un semplice strumento tecnico contabile

per il regolamento delle partite correnti e dei pagamenti, è diventato un vero e proprio

mezzo per mantenere solvibile l’Eurosistema, in quanto evita che le imprese di un

paese con un saldo contabile di deficit di conto corrente presso la BCE debbano

estinguere immediatamente il proprio debito.

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Il fatto che i crediti netti della Bundesbank nei confronti dell'Eurosistema sono

aumentati più velocemente del rispettivo avanzo di conto corrente suggerisce che ci

sono stati flussi di capitale in Germania che riflettono - oltre che l'esportazione di

beni e servizi - il rimpatrio di fondi tedeschi precedentemente investiti nella Periferia.

I fondi privati dall'estero verso l'Italia sono crollati di 200 miliardi: circa il 14% del

Pil. Ad essi si è sostituita la Bce comprando direttamente titoli di Stato, oppure

prestando alle banche italiane perché lo facessero. Il risultato è che nel sistema dei

pagamenti interno del sistema di banche centrali l'Italia o la Spagna sono sempre più

in debito e la Germania sempre più in credito.

Al momento del concepimento del sistema Target2, la convinzione prevalente era che

i saldi si sarebbero pressoché compensati ogni giorno, e non si è ritenuto necessario

l’installazione di un meccanismo che poteva evitare gli squilibri. I crediti Target2

avevano la caratteristica di essere crediti a breve termine per appianare i picchi di

operazioni monetarie, inizialmente solo i pagamenti di grandi dimensioni dovevano

essere erogati tramite il sistema e in aggiunta a questo le banche commerciali dei

singoli paesi avevano i propri sistemi di compensazione.

La visione del sistema Target2 propagandata dalla Bundesbank riflette la logica del

Gold Standard. Affinché la stabilità macroeconomica non venga compromessa dal

diverso livello di efficienza dei sistemi produttivi del Centro e della Periferia, si vuole

che ciascun paese trovi capitali in entrata non grazie alla benevolenza delle istituzioni

comuni (la BCE) ma in modo più appropriato nel mercato.

Come si è detto, l’abolizione della convertibilità esterna con l’oro aveva concesso ai

governi un’autonomia di creazione di moneta a sostegno della crescita (anche al

prezzo di svalutazione del cambio). Tuttavia, nello stabilire la convertibilità ad un

cambio fisso di ciascuna valuta con l’oro, il ritorno al Gold Standard finiva per legare

strettamente alle riserve di oro la quantità di moneta da immettere in circolazione,

impedendo che la politica monetaria potesse svolgere quelle manovre espansive di

stabilizzazione del reddito che sarebbero state necessarie dopo la crisi del ’29.

Qualcosa di molto simile si sta ripetendo oggi in Europa, con le manovre di austerità

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imposte all’indomani della crisi finanziaria alle politiche fiscali di stabilizzazione

dalla commissione di Bruxelles.

Pertanto, la Grande Depressione degli anni ’30 e la Grande Recessione degli anni

2010 sono entrambe state aggravate da tesi economiche oscurantiste, orientate a

privilegiare l’aggiustamento deflazionistico esterno sulla ripresa dell’espansione

interna. Nello SME prima del 1990, i controlli sui flussi di capitale e l’aggiustamento

delle parità centrali garantivano l’autonomia di politica monetarie; nello SME dopo il

1990, aboliti i controlli era divenuto molto difficile orientare la politica monetaria ad

obiettivi diversi dalla difesa del cambio. Nell’UME, abolita la politica della

svalutazione del cambio, i mercati finanziari hanno di fatto sottratto alle banche

centrali europee l’autonomia di politica monetaria (già di molto limitata, negli anni

precedenti, dall’impegno a difendere i cambi fissi).

Il principale tratto distintivo dell’UME rispetto al Gold Standard ed al Gold

Exchange Standard è che a coprire i disavanzi formatisi nella bilancia dei pagamenti

non è il trasferimento di oro oppure di riserve valutarie internazionali, ma la semplice

iscrizione a debito dei finanziamenti che la BCE concede alle banche nazionali. Il

sistema Target2 che regola i flussi di liquidità all’interno dell’Eurozona, dà la

possibilità alle banche dei paesi che soffrono per l’aumento del deficit commerciale

di contrarre un debito con la BCE ottenendo liquidità senza vincoli.

La principale differenza fra Gold Standard e Bretton Woods è che nel Gold Standard

non era presente quell’asimmetria, consistente in tassi di cambio pari ad N-1, che sarà

tipica del sistema con valuta di riserva vigente dal 1944 al 1971.

La principale differenza fra Gold Standard e SME è che mentre in questo accordo i

cambi fissi erano aggiustabili, e quindi in presenza di deficit commerciale crescente

era possibile moderare la stretta deflazionistica di politica monetaria in virtù del

miglioramento di competitività ottenuto con una nuova parità centrale conseguente ad

una svalutazione, nel GS non v’è alternativa al trasferimento di oro, sicché i

governatori hanno come obiettivo prioritario della politica monetaria la costituzione

di riserve di oro e di valute internazionali attraverso l’afflusso di capitali.

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Nonostante l’uso dello strumento per l’aggiustamento macroeconomico del tasso di

cambio della propria valuta sia stato per definizione abolito e quindi una deflazione

reale non sia procrastinabile, il sistema Target2 di contabilizzazione delle transazioni

valutarie consente ai paesi con deficit commerciale di non dovere estinguere

immediatamente un disavanzo e di evitare perciò una brusca manovra deflattiva.

10. La divergenza reale all’interno dell’Eurozona

Una interpretazione “dalla parte della Germania” della mancata convergenza fra i PIL

pro capite dei paesi dell’Eurozona viene proposta dell’ European Economic Advisory

Group (EEAG), che fa capo all’istituto di ricerca tedesco di indirizzo “ortodosso”

CESifo. L’idea è che all’interno di un’area valutaria europea gli squilibri

macroeconomici siano fisiologici: i paesi impegnati nel catching-up - conoscendo

tassi di crescita maggiori di quelli dei paesi più avanzati - finiscono necessariamente

per trovarsi in deficit commerciale.

La più rapida integrazione finanziaria determinatasi dopo il passaggio alla moneta

unica avrebbe quindi opportunamente favorito il trasferimento di capitali dal Centro

alla Periferia, la cui dotazione di capitale relativamente inferiore garantisce il

conseguimento di tassi di rendimento dell’investimento più elevati (Blanchard e

Giavazzi, 2002). Il fatto è che tale processo virtuoso, che avrebbe dovuto culminare

nel catching-up della Periferia, non si è realizzato, perché i mercati sono perfetti

soltanto nei manuali di economia. Come uno dei due suddetti autori ha recentemente

riconosciuto nel lavoro appena citato (Giavazzi e Spaventa, 2011), il trasferimento di

capitali non ha imboccato la strada degli investimenti in settori innovativi, ma la più

facile via della speculazione.

Secondo la ricerca dell’EEAG guidata da Sinn, l’economista tedesco che guida la

“guerra santa” contro i governi dei paesi periferici (Sinn e Wollmershäuser, 2012), il

sistema Target2 è una sorta di finanziamento che la BCE fornisce per il catching-up

della Periferia. Nel momento in cui la BCE fa fronte agli squilibri macroeconomici

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dell’Eurozona fornendo liquidità ad libitum alle banche dei paesi in deficit

commerciale, si determina una sorta di crowding-out (un “taglio” dei fondi

disponibili) ai danni della Germania. A causa del dirottamento del risparmio verso i

paesi periferici, l’economia tedesca avrebbe subito una caduta dell’attività di

investimento (EAAG, 2013). Non sussisterebbe poi alcun motivo di invocare un ri-

proporzionamento della domanda fra Centro e Periferia, incentivando una espansione

della domanda interna soprattutto in Germania, in quanto con la discesa delle

importazioni provocata dalla Grande Recessione gli squilibri macroeconomici si

sarebbero di molto ridimensionati.

Questa interpretazione non corrisponde ai dati della realtà. In primo luogo, l’analisi

dell’EAAG è inficiata dal fatto che i flussi di liquidità di gran lunga più consistenti

non sono le partite correnti ma i movimenti di capitali, che sono in gran parte ritornati

al Centro dopo il raid speculativo in Sud Europa. In secondo luogo, la prova addotta

dall’istituto di ricerca per dimostrare l’esistenza di convergenza reale è inconsistente.

Il catching-up che viene misurato nel Rapporto dell’EAAG – mediante l’evidenza

empirica di una forte correlazione fra tasso di crescita del PIL pro capite e deficit

commerciali - è quello dei paesi dell’Europa Centro-Est nei confronti dei 12 paesi che

hanno dato avvio all’UME, non quella dei paesi della Periferia nella loro “rincorsa”

dei paesi del Centro. Il buon andamento del catching-up dei paesi CEEC è una di

pochi aspetti positivi nell’evoluzione dei redditi pro capite all’interno dell’Unione

Europea (Farina, 2012).

La Germania, attraverso l’influenza intellettuale di un gruppo consistente di

economisti molto presenti nei media e nelle riviste scientifiche, lamenta l’”azzardo

morale” dei paesi periferici. Nella loro interpretazione dell’EEAG, il sistema Target2

non rappresenterebbe lo strumento operativo dei rapporti istituzionali fra la BCE e le

BCN preposto alle poste attive e passive contabilizzate a Francoforte, ma lo

strumento per dilazionare il necessario aggiustamento reale delle economie

periferiche. Per provare la loro tesi, gli economisti tedeschi mettono in luce come il

rifinanziamento delle banche greche oberate dai debiti a seguito di crediti inesigibili

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si presenti perfettamente correlato con l’indebitamento della Banca di Grecia

nell’ambito del Target2. Gli economisti tedeschi fanno notare come, a fine 2011, il 93

% dello stock di moneta creato dall’Eurosistema (l’autorizzazione data dalla BCE alle

BCN a stampare moneta) prevenisse dai 5 paesi periferici (Grecia, Irlanda, Italia,

Portogallo and Spagna) che rappresentano solo il 34% del PIL dell’Eurozona.

Come ha ironicamente osservato Sinn, il più rigorista fra gli economisti tedeschi “(t)he European system may prove more robust than the Bretton Woods system, given that the

national central banks of the Netherlands, Finland, Luxembourg and Germany, which

accumulated Target claims instead of dollar claims, will be unable to follow General De

Gaulles’s example and convert their claims into gold (…) The Target imbalances show that a

system with idiosyncratic country risks and international interest spreads for public and private

bonds is incompatible with a monetary system that allows countries to finance their balance-of-

payments deficits with the printing press, without having to pay for the extra money-printing with

marketable assets as is the case in the USA. Such a system will always induce the less-solid

countries to draw Target credit to avoid the risk premium that the market demands, leading

eventually to a balance-of-payments crisis. To avoid this problem, Europe has only two options.

Either it socializes national debts in order to eliminate the international differences in interest

rates (by creating a uniform default risk for all countries), limiting excessive borrowing through

the imposition of politically mandated constraints. Or it ensures that the Target balances are

redeemed annually with marketable assets, keeping the debt burdens within the national

responsibility and allowing for country defaults and interest differentials The US obviously chose

the second route. States can go bankrupt, excessive capital flows are prevented by state-specific

interest spreads, and the Target balances are unattractive, since they have to be settled with

marketable assets. This system is stable, because it avoids excessive capital flows between the

states and thus excessive US-internal trade imbalances.”

Questa posizione interpretativa rivela una incomprensione della differenza fra

integrazione e convergenza. Se il sistema USA prevede la responsabilizzazione dei

singoli Stati è proprio perché ha attraversato una lunga fase di integrazione

economica, coordinata dagli interventi di politica economica del governo federale,

che ha permesso a tutti gli Stati di raggiungere un certo livello di sviluppo. L’assenza

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di tale coordinamento nell’Unione Europea ha lasciato che l’integrazione fosse

affidata alla sola convergenza di mercato.