LEI E LUI - LORO

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RITORNA ALL’INDICE LEI E LUI - LORO LEI La prima volta che lo vedo è una normalissima giornata di marzo. Fuori piove, il cielo è grigio e nell’aria si sente quel fresco venticello primaverile. Sto uscendo dalla mia facoltà stretta nel mio impermeabi- le rosso, con la borsa buttata su una spalla e l’ombrello pronto. Soltanto che, come sempre, la mia sbadataggine ha la meglio, così il telefono che tenevo in mano vola per terra e per poco non faccio la stessa fine. Imprecando in mille lingue, mi chino a raccoglierlo ma alzandomi noto una sagoma appoggiata ad una colonna del porticato: è a qualche metro da me ed è talmente assorto nei suoi pensieri che neanche si è accorto della mia figuraccia. Resto imbambolata a fissarlo, col telefono a mez- z’aria e la bocca semi aperta. Non so perché io reagisca così, ma co- munque sono bloccata. È alto, più della media, i capelli scuri sono ta- gliati a spazzola, stile militare. Indossa una giacchetta di pelle e dei jeans logori mentre dal colletto intravedo delle indefinite macchie d’in- chiostro corrergli sulla pelle. Del volto vedo solo il profilo: il naso è dritto dritto, tutto severo, mentre le labbra rosate e carnose avvolgono il filtro di una sigaretta. Una mano è sprofondata nella tasca dei pantalo- ni, l’altra con arroganza va a sfilare l’arma mortale dalla bocca per dargli il tempo di buttare fuori il fumo. Resto lì, ferma, ad osservare la vita scorrermi davanti perché adoro guardare gli altri, immaginare chi sono e cosa fanno. E ora sono del tutto persa a studiare questo ragazzo, che mi procura un indefinito prurito sotto la cute. Non lo so, c’è qualco- sa che mi tira verso di lui. La mia contemplazione viene interrotta, brutalmente. Un gruppetto di ragazze rumorose esce, sbattendo la por- ta. Il tipo misterioso si gira a guardarle infastidito. Decisa a non farmi vedere apro l’ombrello e me ne vado. “È solo un ragazzo, domani te lo sarai dimenticato” mi dico tra me e me. Ma non ci credo nemmeno io. Sono passate due settimane, e per quanto il tempo fluisca via rapida-

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LEI E LUI - LOROLEILa prima volta che lo vedo è una normalissima giornata di marzo.

Fuori piove, il cielo è grigio e nell’aria si sente quel fresco venticelloprimaverile. Sto uscendo dalla mia facoltà stretta nel mio impermeabi-le rosso, con la borsa buttata su una spalla e l’ombrello pronto. Soltantoche, come sempre, la mia sbadataggine ha la meglio, così il telefonoche tenevo in mano vola per terra e per poco non faccio la stessa fine.Imprecando in mille lingue, mi chino a raccoglierlo ma alzandomi notouna sagoma appoggiata ad una colonna del porticato: è a qualche metroda me ed è talmente assorto nei suoi pensieri che neanche si è accortodella mia figuraccia. Resto imbambolata a fissarlo, col telefono a mez-z’aria e la bocca semi aperta. Non so perché io reagisca così, ma co-munque sono bloccata. È alto, più della media, i capelli scuri sono ta-gliati a spazzola, stile militare. Indossa una giacchetta di pelle e deijeans logori mentre dal colletto intravedo delle indefinite macchie d’in-chiostro corrergli sulla pelle. Del volto vedo solo il profilo: il naso èdritto dritto, tutto severo, mentre le labbra rosate e carnose avvolgono ilfiltro di una sigaretta. Una mano è sprofondata nella tasca dei pantalo-ni, l’altra con arroganza va a sfilare l’arma mortale dalla bocca perdargli il tempo di buttare fuori il fumo. Resto lì, ferma, ad osservare lavita scorrermi davanti perché adoro guardare gli altri, immaginare chisono e cosa fanno. E ora sono del tutto persa a studiare questo ragazzo,che mi procura un indefinito prurito sotto la cute. Non lo so, c’è qualco-sa che mi tira verso di lui. La mia contemplazione viene interrotta,brutalmente. Un gruppetto di ragazze rumorose esce, sbattendo la por-ta. Il tipo misterioso si gira a guardarle infastidito. Decisa a non farmivedere apro l’ombrello e me ne vado. “È solo un ragazzo, domani te losarai dimenticato” mi dico tra me e me. Ma non ci credo nemmeno io.

Sono passate due settimane, e per quanto il tempo fluisca via rapida-

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mente e tutto continui la sua inesorabile corsa verso l’infinito, io nonriesco a togliermelo dalla testa. Sbuffando, mi dirigo verso la bachecaed eccolo lì come per miracolo, il fantasma senza nome, il mio colpo difulmine. Sta affiggendo qualcosa alla parete, poi dopo aver contempla-to la sua opera, se ne va. Quatta quatta, mi avvicino e leggo il volantinoche ha attaccato. Cerca un coinquilino ma questa è un’informazioneassolutamente secondaria, perché quello che mi interessa è il suo nomescritto di fianco al numero di telefono: Jacopo Dazi.

Google dice che fa il poeta. Sì, il poeta. Ha anche pubblicato qualcosinaper una sconosciuta casa editrice. Ho comprato tutto e ho passato ore aleggere. Per quanto debba ammettere che la poesia proprio non la capi-sco e mai la capirò, devo dire che mi sono piaciute. Non sono testicontorti, sono semplici pensieri accostati con maestria, pensieri incisisulla carta che svelano un po’ di lui. O almeno così sembra a me.

Oggi è il giorno. O meglio oggi finalmente mi deciderò a parlargli.L’ho appena deciso. È seduto in uno dei miei bar preferiti poco lontanodall’università, intento a leggere un tomo di proporzioni epiche. Miavvicino alle sue spalle ma non si accorge minimamente di me. Andia-mo bene, è già la seconda che volta che la mia presenza passa del tuttoinosservata, probabilmente dovrei iniziare a cogliere i segni. Ma no,tentiamo, non ho niente da perdere… a parte la dignità. Irritata da mestessa, cammino spedita fino alla sedia libera del suo tavolo, poi delica-tamente appoggio la mia copia del suo libro proprio sotto i suoi occhi.

“Posso avere un autografo?” Jacopo alza lo sguardo, fissa prima meper qualche secondo, poi la copertina del libro.

“Hai sbagliato persona” dice a mezza voce, annoiato.“La foto nella quarta di copertina dice un’altra cosa, oh e anche Google”

rispondo a tono con uno dei miei migliori sorrisi angelici. Mi fissa, conquell’aria indecifrabile e inizio a sentirmi un po’ nervosa. Mi batte il cuoretroppo velocemente, i palmi delle mani sudano freddo e le mie gambesono pronte a ballare la tarantella da sole, talmente tremano.

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“Posso sedermi? Naturalmente sì, a te fa piacere conoscere chi ap-prezza i tuoi scritti” faccio tutto da sola, ne sono consapevole. Piegaleggermente la testa di lato, aggrottando le sopracciglia. È perplesso,non riesce a capire se sono pazza o se mi trova interessante. E chi lo sa?

“Questo è stalking” mormora dopo un po’, divertito.“Naah, si chiama perseguire ciò che si vuole” ribatto pronta e sorri-

dente.“E tu cosa vuoi?” chiede, improvvisamente curioso.“Te. O meglio, conoscere te” rispondo, dopo alcuni secondi di esita-

zione. Ora è lui che sorride.“Perché?” insiste.“Così. Mi ispiri” cerco di non sbilanciarmi troppo.“Questa cosa non ha senso” dice ridendo di gusto.“Poche cose hanno senso nella vita. Prendi il tempo, trovami tu il

senso di queste stagioni. Siamo a marzo e a momenti fa più caldo che amaggio! Se non ha senso madre natura, che di sicuro, è più coscienzio-sa di me, perché dovrebbero averlo le mie azioni?” argomento convin-ta. Lui scuote la testa e continua a ridacchiare. Ora mi sento anchequalcosa di strano nello stomaco, tipo delle poiane giganti che spiccanoil volo. Sto diventando preoccupante.

Jacopo sfoglia il libro che ha davanti, soffermandosi sulle paginesegnate e sottolineate. Impulsiva come sempre, mi alzo.

“Senti, facciamo così. Io ti lascio il mio numero, quando avrai dige-rito il mio comportamento assurdo, chiamami e invitami a uscire” in-tanto scribacchio nome e cifre su un pezzo di carta.

“Perché devo chiamarti io, se hai fatto tutto tu?” domanda confuso.Lo guardo di sbieco, poverino non capisce.

“Sei tu l’uomo, io ho già fatto abbastanza” giro i tacchi pronta adandarmene.

“Aspetta! Hai dimenticato questo” dice indolente, tenendo sollevatoil libro tra due dita.

“Tienilo tu. Me lo ridarai la prossima volta. Con la dedica mi racco-

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mando” urlo, camminando all’indietro. Gli mando un bacio e me nevado per davvero. Appena girato l’angolo mi metto a saltare. Ce l’hofatta, ora tocca a lui.

LUIL’ho chiamata. Non so neanche perché. Le ho chiesto se voleva bere

una birra con me, lei ha detto sì. Allora ho aggiunto che secondo me,fuori com’è, manco la reggeva una birra e lei ha riso. Quella risata,quella risata, mi ha tolto qualcosa dal petto. Sono abituato al mio sche-ma, alla mia routine senza donne in giro, almeno non più. Il mio appar-tamento, i miei libri, l’università, gli amici, tutto il resto semplicementenon esiste. Però lei… è piombata di brutto, del tutto casualmente, nellamia quotidianità ed è stato inevitabile registrarla. È diventata una co-stante nei miei pensieri, nei miei sogni.

Sono seduto sul sellino della mia moto, lo sguardo puntato sulla stra-da. La vedo subito quando arriva. Per assurdo è la seconda volta che misi para davanti ma già potrei riconoscerla ovunque. Tacchi alti, pantalo-ni a zampa, giacca di pelle, capelli sciolti in onde di miele. E quel viso,con gli occhi affusolati e il naso all’insù, è praticamente impossibile dadimenticare.

“Ciao” dice con un sorriso, fermandosi davanti a me. Sembra che unraggio di sole le si sia infiltrato sottopelle.

“Ciao” mormoro in risposta, trafiggendola dal basso. Si agita, a di-scapito della sua sicurezza, batte freneticamente il piede per terra e simorde le labbra rosso fuoco.

“Questo è tuo, se non sbaglio” le porgo il suo libro, tutto consunto espiegazzato. Si vede che le è piaciuto. Lo apre e legge ad alta voce.

“A una pazza di nome Mia. Sono felice che almeno a qualcuno le mieparole piacciano” chiude la copertina e ride “Sei stato originale”.

“Ovviamente” mormoro. Ha una bocca stupenda e l’unica cosa chevoglio fare è baciarla, scoprire se è così morbida come sembra. Però leimi precede e avvicina con prepotenza la mia testa alla sua. Perdo il

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contatto con la realtà, so solo che quando si allontana per prenderefiato, io ho perso il mio cuore.

Siamo sdraiati a letto dopo aver fatto l’amore, come mille altre volte.Pelle contro pelle, anima che tocca un’altra anima. Le mie dita scorro-no tra i suoi capelli morbidi. A un tratto si alza e recupera qualcosa dalcassetto di fianco al letto. La guardo curioso, attento a seguire ogni suomovimento, come faccio sempre. Si corica al mio fianco, la testa ap-poggiata nell’incavo della mia spalla. Ancora non le ho staccato gliocchi di dosso, riesco solo a percorrere quel viso che mi toglie il fiato equel corpo che non mi stanco mai di venerare. La stringo a me, deside-rando che non se ne vada mai, poi comincia a leggere. Legge ad altavoce una delle mie poesie, una delle più tristi, che ho scritto quando ilcuore sanguinava trafitto da artigli crudeli, unghie laccate di rosa. Lemie dita si arrestano, i miei occhi corrono al suo viso. La sua voce èsalda ma pian piano si incrina, una lacrima le sfugge dalle ciglia, peròcontinua a leggere quelle parole che le dilaniano l’anima, a me ormainon fanno praticamente più effetto. Chiude il libro, si volta a guardar-mi, il cielo che incontra la terra.

“L’hai scritta per lei, vero?” la sua voce è esitante ma i suoi occhisono d’acciaio.

“S씓Mi dispiace, non meriti ciò che ti ha fatto” le sue adorabili sopracci-

glia si corrugano, sdegnate.“Ora non importa più. Ci sei tu al mio fianco” rispondo piano, mentre

i battiti accelerano. È la prima volta che ho il coraggio di confessare.“Ho intenzione di restarci finché mi vorrai qui” mormora con un

sorriso da sirena ammaliatrice. Questo è tutto quello di cui ho bisogno.

NOINon siamo una coppia straordinaria o fuori dal comune. Siamo due

ragazzi che si amano, che si sono trovati per volere del caso, che stanno

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insieme nella banalità della vita quotidiana. Litighiamo, ci assaltiamoquasi fisicamente ma alla fine troviamo il modo per sistemare le cose epassiamo giorni a fare pace. Cerchiamo di essere noi stessi e vivere almeglio la vita, lottiamo e non ci arrendiamo. Siamo semplicemente unlui e una lei, un noi.

Martina Pagliuca