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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e accadimenti sono prodotti dell’immaginazione degli autori o sono utilizzati in maniera !ttizia. Ogni somiglianza a eventi,

luoghi o persone reali, vive o morte, è del tutto casuale.

Copyright © 2013 Multiplayer.it Edizioni.

Tutti i diritti riservati, incluso quello di riprodurre questo libro o porzioni di esso in una forma qualsiasi.

LE REALTÀ IN GIOCOSTORIE STRAORDINARIE PER VITE ORDINARIE

Edizione a cura di: Multiplayer.it EdizioniCoordinamento: Alessandro Cardinali, Francesco Giannotta, Manuela Paglia

Editing: Tommaso De Lorenzis, Francesco BianchiniCopertina: Alessio Pianesani, Andrea Turrini

ISBN: 9788863552300

Prima edizione italiana: Aprile 2013Finito di stampare nell’Aprile 2013 presso

Bieffe industrie Gra!che - Recanati

http://edizioni.multiplayer.it

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!"##$%&"Il progetto “Realtà in gioco”........................................pag. VII

Play The Game! Introduzione di Luca Crovi...................pag. IX

Racconti d’Autore

Kosplay© - Tullio Avoledo...................................................pag. 3La versione di Mario - Alessandra Contin...........................pag. 47I Nove - Massimo Gardella...........................................pag. 51Get a life (fatte ‘na vita) - Roberto Recchioni.................pag. 93Comecocos - Paolo Roversi.........................................pag. 111Funghi, monete, scimmioni e pallottole - Simone Sarasso......................pag. 137

Sinfonia con vampiri e eroi - Matteo Strukul................pag. 169

Racconti selezionati dalla giuria tecnica

Biospecie 2.0 - Stefano Adriani....................................pag. 205Protocollo Adamo - Eva Bassa.....................................pag. 221Tre biglie - Elisa Bazzani.............................................pag. 245Interno giorno - Alessandro Bazzucchini e

Alessio Pianesani...............................pag. 267So What? - Marco Bratovich.......................................pag. 287Chuang-Tzu e la farfalla - Uberto Ceretoli...................pag. 30532 bit-Eden - Linda De Santi.......................................pag. 333Il cimitero dei tamagotchi - Giorgio Giusfredi..............pag. 345Vincitori - Marco Migliori..........................................pag. 357Un fortunato incidente mortale - Manuel Nucci...........pag. 385Debito d’ossigeno - Enrica Orlando.............................pag. 405Hyperlink - Fulvio Poglio............................................pag. 415Jornata Tediosa - Eugenio Saguatti..............................pag. 425AK-666 - Mauro Saracino...........................................pag. 435Raid over Baghdad 2020 - Joe Tondelli........................pag. 459Il desiderio - Orso Tosco.............................................pag. 473

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Racconti selezionati attraverso i social network

NeverWay - Massimo Amadei.....................................................pag. 487Soap - Carlo Maria Baranzini......................................................pag. 499Il gioco di una vita- Denise Miceli..............................................pag. 511Vita da avatar - Luca Papale.........................................................pag. 521Dragonshredder inside - Francesco Pillitteri.............................pag. 531Trenta giorni di prova - Andrea Porta........................................pag. 547La resistenza - Danilo Simoni......................................................pag. 573Alice nel paese dei mostri - Marco Vallarino.............................pag. 595Ri!essi - Davide Za"aina..............................................................pag. 621Xandernet - Valerio Zavaglia.......................................................pag. 633

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Fino a qualche anno fa, devo ammetterlo sinceramente, l’antologia di racconti che avete fra le mani sarebbe stata impossibile. Non ci sarebbero stati né gli autori in grado di scrivere certe storie né ci sarebbero stati videogiochi così in!uenti mediaticamente da dimostrare che non esiste più un con"ne fra certi passatempi, un certo tipo di cinema e un certo tipo di letteratura. Al giorno d’oggi ci sono game che producono cicli fortunati di romanzi, "lm che vengono sviluppati parallelamente in formato gioco, e letteratura fantastica che reinventa per i lettori il linguaggio tecnologico e sincopato di piattaforme come la PlayStation, il Wii o l’Xbox.

Quando vidi entrare per la prima volta in casa mia il Pong dell’Atari mai mi sarei immaginato che quell’invenzione ludica potesse creare altri universi narrativi e potesse arrivare a costruire un vero e proprio immaginario. Mi ricordo ancora il mio babbo che goffamente portò a casa quella scatola nera che gli avevano dato in RAI (con allegato un semplice foglio bianco con pochissime istruzioni), dicendogli che era un gioco sperimentale da provare sulla televisione casalinga attaccandola con i cavi. I cavetti noi non ce l’avevamo e non erano nella scatola. Dovemmo costringere mia madre ad andare dall’elettricista del quartiere a cercarli. L’elettricista nemmeno capì a cosa le potevano servire. Io e mio fratello però, armati di cavetti, tentammo l’esperimento senza per fortuna prendere la scossa. Per un po’ lo schermo del televisore rimase scuro. Eravamo convinti di averlo rotto e mia mamma cominciò a dircene di ogni. Non si vedevano più nemmeno i canali. Poi, quasi magicamente, si materializzò una striscia bianca al centro dello schermo, assieme a due bacchettine ai

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lati con qualcosa che rimbalzava pigramente nel mezzo da una parte all’altra. Ci volle qualche istante per capire che era una sorta di ping pong elettronico e che il nostro ruolo era quello di dirigere la pallina da una parte all’altra in modo da segnare punti nel campo avversario, utilizzando le due bacchette attaccate alla scatola nera che facevano parte del kit del gioco. Nel giro di una settimana divenne dif!cile staccarci dal televisore. E per provare lo stesso tipo di stupore devo ammettere che dovemmo attendere qualche anno. Ovvero quando avvenne la diabolica invenzione delle macchinette da bar che si illuminavano con i videogiochi. Prima eravamo abituati ad avventarci sul calcio balilla, anche perché i colorati "ipper erano considerati territorio per adolescenti scafati e adulti che si erano stufati delle carte da scopone (e il jukebox ahimè era sempre rotto). Il primo videogioco ad apparire nel bar di montagna sull’Appennino emiliano, dove io e mio fratello passavamo le vacanze estive, fu quello che conteneva nella sua pancia Space Invaders. Immaginatevi mia nonna che cominciò a prendere sistematicamente per le orecchie me e mio fratello per portarci a casa, perché il bar non era esattamente luogo da bimbi e i videogiochi non erano certo una sana passione. Meglio mandarci a innaf!are le centinaia di rose del giardino con la scusa che potevamo giocare a cowboy e indiani. Potrei anche ricordare l’emozione tascabile di quando regalarono a mio fratello Alessio il Donkey Kong della Nintendo di colore arancione, piccola scatolina che produsse parecchi capricci e litigi in casa (visto che ce l’aveva solo lui). Ma torniamo al punto vero di questa introduzione: non mi sarei mai aspettato che quei giochini così ipnotici per noi bimbi (capaci persino di cancellare la forza attrattiva della televisione) alla lunga avrebbero prodotto altri mondi e soprattutto nuova letteratura. Eppure avrei dovuto sospettarlo !n da quando il desiderio di ascoltare una nuova canzone inedita della rock band americana dei Journey mi spinse ad andare al cinema a vedere Tron (1982). Un !lm rivoluzionario per la sua concezione gra!ca e narrativa, che ci mostrava cosa letteralmente succedeva fra le pieghe d’una realtà fantastica come quella di un videogioco. La Walt Disney non venne

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immediatamente ripagata dell’investimento, ma il regista e sceneggiatore di quella pellicola, il geniale Steven Lisberger, svelò i segreti di un mondo che nessuno osava neppure immaginare. E !guratevi se io potevo arrivare a sognarmi che a ispirare !n dal 1976 l’idea narrativa di quel !lm era stata proprio la fascinazione per Pong. Quello stesso gioco in bianco e nero, che aveva sconvolto la mia vita e rischiato di distruggere la nostra televisione, aveva sconvolto anche quella di Lisberger. Ricordo poi lo stupore di adolescente quando al cinema vidi un altro mio cult movie: War Games (1983) di John Badham. Scoprii come si poteva penetrare nei sistemi di difesa del Pentagono semplicemente giocando a Space Invaders. Non era ancora né l’epoca di internet né l’epoca in cui gli hacker si divertono quotidianamente a bersagliare le major mettendo letteralmente in ginocchio i sistemi di accesso alle banche dati. Eppure c’era già uno scrittore che studiando il mondo informatico e ludico ipotizzava l’esistenza di altre realtà. Sto parlando di William Gibson che mi è capitato di intervistare qualche anno fa e che mi ha confessato apertamente: “Due cose mi hanno letteralmente suggerito l’idea che una realtà come il cyberspazio poteva esistere: la diffusione del primi personal computer e soprattutto l’avere osservato i ragazzini che giocavano con i primi videogame. Mi ha incuriosito vedere come questi giovani stavano ore e ore incollati agli schermi e consideravano quel momento sì un momento di gioco ed evasione, ma soprattutto mi davano l’impressione di voler in qualche modo entrare dall’altra parte dello schermo. I ragazzini volevano far parte della rete, entrare nei videogiochi. Erano consapevoli che quella era una sorta di nuova realtà senza limiti né confini, nella quale potevano penetrare in una maniera molto reale”. Quindi opere di Gibson come La notte che bruciammo Chrome (che contiene l’idea fondativa di internet), Negromante, Giù nel Cyberspazio, Monna Lisa Cyberpunk e Luce virtuale forse non sarebbero mai esistite se lo scrittore inglese non avesse osservato per ore i ragazzini che giocavano a Space Invaders. E mentre la fantascienza ha cominciato a esplorare in parallelo questo nuovo universo narrativo, a

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partire dal movimento cyberpunk, poco per volta anche il mondo del thriller ha capito che c’era materia narrativa da produrre e attingere dal mondo dei game. Pioniere in questo senso è stato il guru del tecno-thriller americano Tom Clancy che decise di accantonare per un po’ il suo eroe Jack Ryan (nonostante lo straordinario successo de La grande fuga dell’Ottobre Rosso) per dare vita, nel 2002, allo “sparatutto” di spionaggio Splinter Cell della Ubisoft. Un gioco che in seguito ha dato origine a una fortunata serie di romanzi a esso collegati, nella stesura dei quali Clancy si è fatto aiutare negli anni da un esperto cowriter come David Michaels. Poi sono arrivati i grandi successi in libreria della saga di Resident Evil, realizzati dalla scrittrice S. D. Perry, che ha dimostrato di saper sfruttare le tematiche zombesche indipendentemente dalle schermate dell’omonimo videogioco. Ma sono esplose anche le incursioni della serie Dawn of War, scritta dall’irlandese Goto Cassern S. ispirandosi al celeberrimo wargame tridimensionale futuristico Warhammer 40.000. Per non parlare poi del successo planetario dei romanzi storico-avventurosi di Oliver Bowden legati ad Assassin’s Creed e capaci di raccontare in maniera avvincente il Rinascimento italiano, ma anche le guerre d’indipendenza americane. E quanto epico possa essere lavorare con certi materiali lo conferma non solo il risultato di quei romanzi, ma anche il fatto che possano dare vita a vere e proprie rievocazioni storiche in costume come la battaglia di Bunker Hill, alla quale ho assistito personalmente l’anno scorso sotto le mura della città di Lucca assieme alle centinaia di "guranti coinvolti nell’impresa bellica, rischiando prima di essere investito dal cavallo imbizzarrito di Connor e poi di affondare in un acquitrino.

Solo sbirciando il catalogo di Multilpayer.it Edizioni, che ha coraggiosamente deciso di produrre l’antologia che avete fra le mani, vi accorgerete che – fra i titoli di narrativa prodotti in questi ultimi anni – spiccano quelli di serie come Metal Gear Solid, Brothers in Arms, Gears of War, Dragon Age, Mass Effect, Halo, God of War, Doom, BioShock. Titoli ormai indipendenti dai videogiochi che li hanno generati e che attingono a generi diversi come il fantasy, la fantascienza, il

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bellico, l’epic e l’horror, e che spesso possono essere mescolati fra loro ottenendo risultati incredibili. Ormai tutte le contaminazioni sono possibili. Chi si sarebbe mai aspettato che Dante Alighieri con la sua Divina Commedia potesse essere totalmente reinventato grazie a un gioco come Dante’s Inferno e chi si sarebbe mai aspettato che questo passaggio mediatico avrebbe poi prodotto anche cartoni animati e fumetti di successo? Grandi !lm come la trilogia de Il Signore degli Anelli, quella di Batman di Christopher Nolan, quella di Matrix dei fratelli Wachowski, la saga di Harry Potter ma anche Avatar non avrebbero avuto lo stesso impatto senza una tecnologia ludica di supporto che ha permesso a questi !lm di espandersi anche in altri territori. E che dire poi di grandi registi e sceneggiatori di Hollywood come John Milius che decidono di allearsi a scrittori di genere come Raymond Benson (già celebre per i suoi sequel di James Bond) per dare vita contemporaneamente a videogiochi e romanzi distopici come Homefront: La voce della libertà? Insomma ci troviamo davanti a una realtà narrativa davvero singolare, che ha bisogno di espandersi su più fronti e che pur utilizzando linguaggi molteplici riesce a mantenere la stessa forza immagini!ca. Vanno registrati anche fenomeni singolari come quelli delle storie nate on line che diventano poi videogame di successo. Pensate a Metro 2033 e Metro 2034 del russo Dmitry Glukhovsky, scaricati originariamente da oltre tre milioni di persone in rete e trasformati, in attesa di sbarcare al cinema, in un acclamato videogioco ma anche in una saga libraria capace di vendere oltre 500.000 copie in Europa, con tanto di spin-off letterari siglati da autori come Tullio Avoledo, Vrochek Shimun, Andrey Dyakov. Quanto gli universi dei giochi, dei fumetti, della letteratura e del cinema sono fusi e imprescindibili gli uni per gli altri, lo scoprirete proprio leggendo i racconti contenuti in quest’antologia, scritti da autori che non solo si sono impadroniti del linguaggio dei videogiochi, ma da essi hanno tratto un immaginario narrativo singolare. A Natale di quest’anno mi è capitato di vedere assieme ai miei !gli un divertente !lm d’animazione come Ralph Spaccatutto di Rich Moore. Nessuno dei miei puf! ha

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pensato che quella storia omaggiasse in molte sequenze giochi come Super Mario, Donkey Kong, Crash Team Racing, Gears of War, Halo, Street Fighter, Final Fantasy, Diablo, Tomb Raider, Pac-Man, Centipede e Pong. I miei quattro figli hanno però notato subito gli omaggi ad Alice nel Paese delle Meraviglie e alla serie di cartoni animati di Hanna-Barbera intitolata Wacky Races.

Vorrei che anche voi vi divertiste a leggere le storie che seguono, capendo lo spirito giocoso e avventuroso che hanno le citazioni e gli omaggi contenuti in questi racconti originali. Omaggi in alcuni casi espliciti e in altri più criptici che vi invito a scoprire e magari a commentare sul sito di Multiplayer.it. Vi troverete davanti a classici sparatutto, ad adventure game, a storie di vampiri e zombie, a love story impossibili, a fantasy avveniristici con draghi, maghi e principesse, a storie di guerra del passato e del futuro. Situazioni ludiche che possono appartenere a piattaforme diverse, ma che hanno in comune la passione per il divertimento. Una volta che le inizierete, anche voi comincerete a giocare e vi sarà dif!cile smettere. Sappiate che per tutti gli autori che hanno partecipato all’impresa è stato davvero una scommessa costruire certe trame e dar vita a certi personaggi. E credo che il grande narratore fantastico Richard Matheson approverebbe il desiderio di contaminazione che pervade tutte queste “storie straordinarie per vite ordinarie”. La sovrapposizione fra i generi non è un problema, anzi come mi ha raccontato Matheson stesso: “Uno scrittore che ragiona per generi è fuori strada. Forse i lettori avvertono la necessità di distinguere gli scrittori in base al genere, di inserirli in comode nicchie ma io ho sempre cercato di scansare quest’operazione. Io ho scelto volontariamente di scrivere romanzi che contenessero elementi noir ed elementi horror… È talmente facile saltare da un genere all’altro che si può ambientare una storia d’amore su Marte come se si trattasse di un romanzo di fantascienza, così come viceversa si può ambientare quella stessa storia d’amore nel buon vecchio West ed ecco che si è scritto un western. Oppure si può persino dislocarla in Transilvania ed ecco che si è scritto un romanzo dell’orrore! L’idea stessa di costringere uno

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scrittore entro con!ni prede!niti mi è aliena. Quegli scrittori che continuano a scrivere la stessa cosa e che non la smettono mai di ripetersi !niscono poi in trappola”. Non posso certo mentire dicendovi che tutti gli autori di questa antologia scrivono in maniera fulminante come Matheson, ma posso assicurarvi che ci hanno davvero messo tutti cuore e fantasia. Anche perché alcuni di loro sono stati costretti a combattere nell’arena di internet per potersi meritare il diritto di entrare a far parte di questa raccolta. Non è detto che amerete tutte le loro storie, ma sicuramente vi sarà impossibile dire che sono una uguale all’altra. Non ci sono cloni nei plot che leggerete e non impressionatevi se arrivati all’ultima pagina del volume vi apparirà la scritta: Game Over! Se vorrete riprendere la partita non avrete più bisogno di gettoni, vi basterà semplicemente riaprire a caso le pagine del libro. E allora che cosa aspettate a schiacciare “start”?!

Buona lettura!

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Dove nascono le storie straordinarie...

IL PROGETTO “REALTA’ IN GIOCO”

“La realtà è solo un’illusione”

Questa raccolta antologica è frutto del primo concorso letterario promosso da Multiplayer.it Edizioni, dal titolo “Realtà in gioco”, che si è svolto tra giugno e ottobre 2012 e che ha visto la partecipazione di oltre 140 aspiranti scrittori.

Sul sito dedicato, visitato da oltre 100 mila lettori, sono stati pubblicati circa 80 dei racconti pervenuti, tutti prima visionati dal curatore del progetto Tommaso De Lorenzis e soggetti al giudizio e ai commenti dei lettori online e di una giuria tecnica composta da Danilo Arona, Alberto Grandi e i KaiZen.

I racconti presentati per “Realtà in gioco” mostrano che tutti per scrivere traggono ispirazione dalle esperienze quotidiane, dagli hobby e dalle proprie passioni: per questo le influenze di una certa generazione di film, libri e videogiochi sono spesso riconoscibili nei testi dei giovani aspiranti scrittori.

L’iniziativa è stata sostenuta da alcuni partner istituzionali come AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani) e Biblioteche Di Roma e si è sviluppata in collaborazione con Multiplayer.it, Aiv – Accademia Italiana Videogiochi, TrueFantasy.it, Fantascienza.com, Eldastyle.it e Libreria Lupo Rosso, ai quali Multiplayer.it Edizioni rivolge i più sentiti ringraziamenti.

Un saluto particolare, ovviamente, agli otto autori che hanno creduto in noi e in questo strampalato lavoro: in ordine di apparizione Luca Crovi, Tullio Avoledo, Alessandra Contin, Massimo Gardella, Roberto Recchioni, Paolo Roversi, Simone Sarasso e Matteo Strukul.

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Vorrei averla kwi davanti a me kwella stronza ministra di un sakko di anni fa, kwella che diceva a Vatti e agli altri della sua Gehenneration di non essere choosy. Choosy un kazzo. Vorrei vederla kwi lei, seduta su ’sta sedia, mentre la trukkatrice mongola la spalmazza tipo di trukko e dice Sai, io ho fatto il trukko a Lara Kroft. E che fosse l’urLara o una delle sue decinaia di inkarnazioni va’ a saperlo, anche se è poco truffolo sia la Kroftona originale, quella mega!ga ke ha bagnato i sogni di un kasino di nerd e nerde ke adesso sono allo Spizio.

Vatti ha tipo kreduto alla ministronza, e ha viaggiato il mondo, al tempo in kui i dinosauri ankora usavano tipo Google azziké Hoogle© e Big Steve© era più o meno vivo e diceva cose tipo Crescete e moltiplicatevi e stay hungry, stay foolish, e in kwuesto è stato tipo un profeta, perké la fame c’è alla grande e anche la pazzia, perké altrimenti kosa ci farei kwi ai provini notturni per Fallout 3 Reloaded©? Uno stomako ke brontola komanda alla grande sul cervello, non c’è lotta, anke se una voce dentro di te kontinua a dirti ke stai facendo una kazzata grossa tipo come il kannello di Pompeo Durhammer©.

Vatti ha provato tipo una decina di mestieri prima di trovare kwuello ke l’ha fatto morire: addestratore interinale di Shamu l’Orca© allo zoo di Berlino. Klaro ke non era mika tipo l’orca originale, ma tutti sulle kartoline la kiamavano Shamu l’Orca©.

Vatti ha lavorato allo zoo tipo dieci giorni prima ke kwella puttana di un’orka lo mangiasse. Cioè, non è ke l’ha mangiato veramente. L’ha tipo morso e inghiottito e sputato, tipo in mezzo minuto. Kwindi non era neanke hungry, la stronza. Hanno scritto sul tabellone una cosa tipo ke La Direzione Si

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Scusava Per L’Incidente e Offriva Pop Corn Gratis Per Tutti all’Uscita e hanno in!lato Vatti in una plastic bag© e la plastic bag© in un forno e la musika d’organo era tipo registrata e il sakko kon papà dentro è scivolato nelle !amme tipo varo di una barka come kwella ½affondata a Fiumicino dove vivo io.

Mentre la trukkatrice mi lavora gwardo la tele. Assassin’s Kreed 14, kwello in Cindia, dove Nelson Mandela Kremaster viaggia tipo dietro nel tempo e inkontra Siddartha. Non è un Kosplay. È un gioco-gioco, ma la gra!ka è !kissima.

Kome ke dici, ke non kapisci?Se uso l’italiano standard inizio Ventunesimo va meglio?Sì?Ne conosco altre quattro: Bimbominkia anni Venti,

Ambient, Disneytype e Sparacazzate, che era la lingua uf!ciale del Partito del Grande Lekkagnokka.

No, scherzo. Inglese, va bene. Inglese e Bimbominkia. Sarei di madrelingua Bimbominkia, per via di Mamma, appunto, per questo credo si chiami madrelingua, ma la Corporation di Mamma era la Soylent, che è tipo molto attaccata alle tradizioni e preferiva che noi bambini venissimo educati in italiano standard. Però Mamma era una testa dura e così ci ha fatti bilingui, io e i miei fratelli, Tanya e Jericho Echo Echo Echo.

Sì, si chiama proprio così.La macchina battezzatrice ha chiesto a Vatti, cioè, a Papà,

di digitare ancora il nome, ma ogni volta che Papà lo faceva la macchina diceva INPUT ERRATO. Finché, dopo il terzo tentativo, si è mangiata la tessera di Papà e abbiamo dovuto salire tipo sei piani di scale e far battezzare mio fratello a mano. Quelli manco sapevano come fare. Vivevano in un posto sporco e puzzolentissimo, uno degli uf!ci di una volta dove stanno ancora gli impiegati umani, mentre al piano di sotto ci sono quei bei saloni di plastimarmo luccicante, con le macchine tipo d’oro e cromate. Gli impiegati vivono ai piani alti, dove non arriva più la corrente. Dormono nei loro uf!ci di una volta, e scrivono con la matita su fogli di carta. Hanno delle cose rotonde chiamate timbri. Prendono il timbro, aprono una scatoletta bassa dove c’è una specie di cuscino nero umido, appoggiano il timbro sul cuscino e poi lo schiacciano su un

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foglio di carta così vecchio che è giallo invece che bianco. Dopo mettono il foglio in un contenitore tenuto insieme con lo scotch e ti dicono felicitazioni, signori. E così Jericho Echo Echo Echo comincia il suo meraviglioso viaggio nella nostra Democrazia Sostenibile. In mezzo all’odore di cavoli bolliti e calzetti bagnati. O viceversa. Cavoli bagnati e calzetti bolliti.

Invece io e Tanya siamo state battezzate a macchina.Una volta il battesimo era una cosa che si faceva in chiesa,

ma adesso lo fa lo Stato, tipo in subappalto. La Chiesa fa tipo i matrimoni, i funerali e tutto quello che ci sta in mezzo, ma non il battesimo, perché quello è il momento in cui lo Stato ti controlla i cromosomi, e se ti dice male vai nello Scarico, per cui la Chiesa ha detto che in questa cosa non ci vuole entrare, e semmai i bambini vengono ancora a lei, ma dopo.

Io dovevo chiamarmi Jeep, per via di una sponsorizzazione che c’era quando sono nata, ma poi l’offerta è scaduta e allora papà ha optato per Fanoni, che è il nome dei denti della balena. Papà è sempre stato !ssato con i cetacei, e penso che perciò sia molto ironico che proprio un cetaceo l’abbia spedito nella grande discarica celeste. Credo però che la !ssa del nome Jeep gli sia rimasta, perché se prendi le iniziali dei quattro nomi di Jericho Echo Echo Echo vedi che viene fuori JEEE.

Mamma stava ancora smaltendo i postumi della festa di benvenuto alle emorroidi, quando Papà le ha detto come mi aveva battezzato. Gli ha tirato dietro una bottiglia mezza piena di Ron Chavez Aniversario. Per fortuna era di plastica. Papà ha svitato il tappo, si è fatto un sorso e poi ha proposto a Mamma, ancora sderenata e tutta sottosopra per il parto, di fare a metà col nome. In pratica, poteva aggiungere cosa voleva, prima o dopo il nome Fanoni.

Mamma, per dispetto, ha scelto Margherita, che è tipo il nome di una qualche nonna che lei aveva avuto una volta. I Bimbominkia hanno di queste ricadute sentimentali.

Se uno adesso mi chiama Fanoni, tipo, gli in!lo lo stivale in gola. Con tutta la gamba dietro.

Se mi chiama Margherita, l’altro stivale.Margherita Fanoni: due stivali due, con un salto tipo

Brucelee Reeves.

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Chiamatemi Margo.È il nome che mi sono scelta.Il mio nome da Kosplayer.L’ho usato la prima volta a sedici anni, quando dovevo

saldare il debito delle tasse scolastiche, e ho giocato un livello di Pac-Man.

Prima di entrare nell’arena il Censore mi ha chiesto: Nome e Cognome?E io: Margo.Margo e poi cosa?Margo e basta.E lui ha tippato sul suo pad le parole: Nome: MARGO –

Cognome: EBASTA.Manco fossi una testariccia bantù, invece di una rossa con

tipo due galassie di lentiggini sulle guance.Poi lui si inginocchia, perché all’epoca ero alta un metro

e un cazzo per via dello sviluppo ritardato, e mi fa: Allora, signorina Ebasta, adesso tu ti in!li in quel bel costumino da ciliegia, entri in quel tunnel e cominci a correre.

Corro e basta?Lui mi ha guardato un attimo perplesso, poi ha detto: Beh, sì.Io da Mamma, oltre che il pelo rosso e la pelle di latte, ho

preso anche le gambe lunghe, lunghissime. Ero più gambe che altro, da bambina. Di sicuro non avevo cervello. Due centoni di tasse abbuonate in cambio di un giro di Pac-Man. Un vero affare.

Sì, come no.Ho capito che non era per niente un affare quando

sono saltata fuori dal tunnel e mi sono trovata nel corridoio nero del gioco. C’erano file di lucine piccole piccole proiettate a mezz’aria, e le pareti sembravano tipo velluto nero. Io ero vestita da ciliegia, e il costume mi impediva parecchio i movimenti. Me l’avevano detto, ma non pensavo fosse così lento.

Ho cominciato a muovermi. Cioè, a provarci.Il Censore mi aveva spiegato che il costume biometrico mi

permetteva di fare passi solo di una certa misura, e un tot di passi al minuto. Perciò dovevo stare attenta alla direzione

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che sceglievo, perché se sbagliavo e incocciavo nel Pac-Man, allora erano guai.

Che tipo di guai?Facile. L’ho scoperto meno di un minuto dopo, quando

una ciliegia come me è apparsa all’incrocio del corridoio. Si muoveva normale, ma ho visto gli occhi del Kosplayer dentro il costume, un cinese giovane coi brufoli. Gli occhi erano grandi come piattini, dilatati dalla paura.

Dev’essere terribile, ho pensato, provare a correre e trovarsi bloccato nel costume, che ti costringe ad andare al suo passo, con quell’andatura scanzonata e ignara.

Ignara di cosa?Beh, ma del Pac-Man, no?Il bionte giallo alto tre metri apparve alle spalle della ciliegia.

Mosso dai suoi algoritmi di intercettazione spalancò la bocca, scattò in avanti e trangugiò il cinese in un boccone.

Tutto qui: un attimo prima c’era, e un attimo dopo non c’era più.

Niente schizzi di sangue, o plastiche in frantumi. Il bionte ingurgita tutto nel suo ventre a fusione e rilascia energia nella griglia: un processo pulito e immediato. Così un disoccupato si trasforma in energia, con un jingle allegro.

Poi Pac-Man cambia direzione e si volta verso di me. Guardo le palline luminose sparire nella sua bocca che si apre e si chiude. Decidendo d’istinto, scatto a sinistra. Mossa sbagliata, direbbe chiunque. Immagino che lo stia pensando anche il Giocatore che muove il mostro. Ma io con la coda dell’occhio ho appena visto un grappolo d’uva passare in uno dei corridoi laterali. Era a destra, ma se il mio prodigioso QI non mi inganna...

Bingo!Pac-Man si accorge del bersaglio viola, che vale 1.000 punti

contro i miseri 150 della mia ciliegia. Punta immediatamente in quella direzione, lasciandomi libera di scappare.

Una volta un hacker, che cercava di impressionarmi perché glielo facessi in!lare nella mia ciccina adolescente, mi ha detto tipo che a questo mondo nessuno è davvero sicuro: tutto quello che puoi fare per salvarti è essere un po’ più sicuro del

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tuo vicino. Questo vale per la pirateria informatica come per la vita in genere. Così, invece di cadere nel panico e mettermi a correre come una scema in giro per il labirinto nero, ho cercato di immaginare dove potevano stare i bersagli più appetibili per il Pac-Man, e me lo sono tirato dietro !no a portarlo a tiro degli s!gati. Mentre il Pac mangiava, io svicolavo via, verso nuove e più grandi avventure.

Adieu ananas.Adiós banana.La !ne del livello è arrivata con un colpo di gong in

sensorround.Ce l’avevo fatta.Sei brava, per essere una dilettante, si complimentò il

Censore, posando il pollice sul mio pad e autorizzando l’accredito dei 200 buoni. Se te la senti, fra un paio d’ore abbiamo un livello 33.

No, grazie.Perché no? Ti muovi bene. Ho visto che partita hai fatto.

Sei tosta.Appunto perché sono tosta ti faccio marameo e telo via.Il corregidor mi segnala che “telare” è un verbo

anacronistico. Vuol dire che non si usava più nell’italiano standard inizio Ventunesimo. Faceva parte dei subgerghi temporanei di qualche minoranza del Ventesimo. Okay, Hokkaido, ogni tanto mi trampo, è normal, naw? Quando per risparmiare i tuoi genidatori ti fanno impiantare database di seconda mente, è normale che ci scappi un errore qua e là, kwa e law, quack quack. Buchi e voraginose voragini nella mia educazione, ahimè.

Per festeggiare, quel primo giorno da Kosplayer, esco dal Kolosseo© e spendo 50 buoni per un aerotaxi. So che non dovrei, ma si vive una volta sola. Il pilota è tipo un !go con tanto di giubbotto da aviatore in plastipelle. Si in!la le scarpe da decollo, mi fa salire sul sedile dietro, e poi solleva l’ultraleggero come se fosse una ciambella salvagente e comincia a correre lungo la strada, gridando PISTA, PISTA, PISTA, come una formula magica per trasformare la strada in

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una pista, immagino. Un carretto di paglia ci schiva all’ultimo momento, e così anche un branco di bambini che giocano a palla avvelenata. Saltano indietro e da tutte le parti, urlando. Un centurione con la cresta punk mi minaccia con la spada di plastica. I turisti indiani scattano holo ridendo.

Il pilota sbuffa, corre, sbuffa.Poi un ultimo colpo con le scarpe potenziate, un salto di

cinque metri e l’aereo è in aria.Ho lo stomaco sottosopra per via dei rimbalzi, ma il

momento in cui l’aereo si stabilizza e prende quota, spinto dall’energia cinetica accumulata, è sempre un momento magico. Dico sempre per fare la gran!ka, ma è solo la seconda volta nella mia vita che salgo su un aerotaxi.

È bello guardare la città dall’alto. Il grande raccordo anulare, col suo traf!co di camion e bus a metano che sembrano grandi balene dipinte coi loghi delle compagnie. Le superstrade del popolo, dove solo i VIP e i funzionari del Partito della Gioia possono andare. Guardo le loro auto scivolare come squali sull’asfalto liscio, cento metri sotto di noi.

“Tutto il mondo è un acquario, e noi siamo il mangime”, dice il Poeta. O qualcosa del genere.

Volare è la cosa più simile al sesso che conosco.Ma il sesso è meglio.Tra un articolo originale e una cosa che gli assomiglia

scegliete sempre l’articolo originale. Credetemi.L’aerotaxi planò sul ponte posteriore dei Kosta Kondo, e

dieci minuti dopo il tassista stava planando sul mio ponte anteriore. Mettersi d’accordo sullo sconto era stata questione di un attimo. Eravamo tutti e due infoiati a mille. Io per via dei 200 buoni e dell’aver schivato per una manciata d’attimi la bocca del Pac-Man, lui... Beh, lui un po’ per via dello sforzo fatto per portarmi lì, ma soprattutto, non per vantarmi, per il fatto che nessun essere umano dai quattordici ai trecento anni può resistere al richiamo del mio corpo. Dico sul serio. Sono piccola ma tosta. Dicono che il mio punto di forza sono gli occhi. Ma anche il resto non è niente male. Ed è tutta (beh, quasi tutta) roba mia.

Prima di scoparmi, il tassista mi chiese (che carino) se

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doveva farsi una doccia. Ma a me piaceva così. Sudato e lustro per lo sforzo. Con i muscoli duri come il marmo. Non solo quelli superottimizzati delle gambe. Gli spruzzai il preservativo sul cazzo, dritto in verticale come un atleta ginnico o un soldato sull’attenti.

Aveva tecnica, questo non si discute. Mi portò al primo orgasmo tipo in quattro minuti, e al secondo sedici spinte dopo. Venimmo insieme, con effetti speciali tipo fuochi d’arti!cio.

Uscì da me vincendo la mia resistenza. Avrei voluto tenerlo dentro di me per un mese o due, come un’ostrica intorno al pilone di un molo. Si scusò, dicendo che aveva una corsa urgente per l’aeroporto. Le chiamano ancora “corse”, invece che volo.

Quando il ragazzo fu uscito (in tutti in sensi, ahimè) presi possesso mentale del mio Lebensraum: otto metri quadri sul ponte di seconda classe, con oblò. Okay, Hokkaido, l’oblò guarda sull’acqua sedici metri più in basso, dato che la Kosta Kondo, come la chiamano tutti, si è arenata su un !anco, con un angolo di dodici gradi. Qui tutto è storto, e la chiusura e apertura delle porte è un problema. Ma i pavimenti in legno applicati sghembi su quelli veri rimettono le cose abbastanza a posto, se uno non si fa prendere dalla nausea. I Kosta Kondo sono un’alternativa economica (beh, relativamente economica) ai terra"at. Finché dura, non è una brutta sistemazione.

Li chiamano Kosta Kondo per via di un disastro navale di uno ziliardo di anni fa. C’è un Kosta Kondo, o anche più di uno, davanti a ogni grande città. Sono navi in disarmo, credo si dica così. Non tutte sono affondate, ma prima o poi lo saranno. Al largo di New New York mi pare ce se sono tipo 20, e una è una portaerei. Ci abitava Tanya, prima di morire. Il suo "at l’ha ereditato Jeee. Lavora come barista a SubLowerManhattan e si fa un sacco di !ga fresca ogni giorno, almeno a sentire lui. Ha sedici anni, e il cervello di una rana. Nel senso che è selettivo. Le rane sembra che vedano solo quello che mangiano, tipo mosche e zanzare. Tutto il resto non se lo cagano manco di striscio, come se non lo vedessero proprio. Jericho Echo Echo Echo è così con la passera. Vede solo quella. Per il suo Quindicesimo, quando è diventato maggiorenne, mi

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ha mandato un vid parecchio interessante. C’erano cinque sue vicine di !at che gli avevano organizzato questa festa di compleanno, dove una dopo l’altra gli leccavano il cazzo, e poi si facevano fare, e alla "ne, quando lui sborrava in bocca alla più "ga delle cinque, lei poi passava un po’ di sborra a ognuna delle altre, come una specie di comunione del cazzo, ahahah, bella battuta.

Adesso il mio fratellino ha sedici anni, e per quello che ne capisco non arriverà ai venti, mi sa. Non col suo stile di vita e le endemìe di NNY.

Avevo anch’io sedici anni quel giorno, quando giocai il mio primo livello di Pac-Man. E guadagnai i miei primi 200 buoni da Kosplayer. E mi presi il trivax dal tassista. Ragazze (e ragazzi, ovviamente), quando spruzzate il preserv sul cazzo del vostro amante, accertatevi che la bomboletta non sia scaduta.

Me ne costò 2000, di buoni, curarmi il trivax, e solo perché lo feci fare da un medico albanese, di quelli che non fanno domande e se gliele fai non rispondono.

Ovviamente, per trovare i 2000 buoni, dovetti giocare ancora.Di anni ne ho quattro di più, e vivo ancora ai Kosta

Kondo, che in questo tempo si sono inclinati solo di un grado. I pavimenti sono di nuovo storti, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.

Ho vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita. Il fatto è che come giocatrice di Kosplay non ho molte probabilità di arrivare ai trenta, e nemmeno ai venticinque. Volete sapere esattamente quante probabilità?

Tre su dieci di arrivare ai ventuno.Una su dieci per i venticinque.E questo se uno è dannatamente bravo.Da lì in poi ci muoviamo nei campi della fede. Ho sentito di

Kosplayer arrivati addirittura a trentatre anni, che è l’età in cui devi smettere e i Videocrati ti regalano un ciondolo di legno vero, e una pensione e un !at da qualche parte nel sesto mondo.

Ma sinora non ho incontrato nessuno che l’abbia ricevuto davvero, quel ciondolo.

Solo perché se ne parla, non vuol dire che una cosa sia vera.

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Comunque questo è quanto: venti e non più venti. Quindi la morale è: fattela piacere, questa schifa età. Non ne avrai altre.

Penso a questo, e a tante altre cose, mentre la truccatrice mongola !nisce di prepararmi per il provino di Fallout 3 Reloaded©. Deve truccarmi da ghoul, cioè da vittima delle radiazioni. Una specie di zombie che però parla normalmente e non si rende neanche conto di sembrare un mostro. Tipo Moira Brown nel game originale, ma solo tipo, perché in questo reboot non ci sono grossi personaggi femminili. Per dire, avrò tipo cinque battute.

So che non è Lara Croft, Nicole Brennan o neanche Eliza Cassan o Sheba Varnadze, ma è comunque un lavoro. Non è che ci siano tanti ruoli femminili, nel Kosplaying. Qualche volta ho dovuto recitare vestita da maschio. Mi ricordo una partita di Napoleon Total War©. Quella volta l’ho scampata per un sof!o. Truccata con un paio di baffoni stavo in !la assieme ad altri duecento Kosplayer. Eravamo un reggimento della guardia. Davanti a noi c’erano tipo i Prussiani del generale Blucher, o qualcosa del genere. Era un fottuto ruolo da comparsa. Neanche una battuta. Dovevo solo camminare e marciare, e sparare quand’era il momento. Era proprio quello, il problema. Quello stronzo che ci comandava non si decideva a ordinarci di sparare. E se lui non dava l’ordine, non potevamo sparare. I nostri costumi biometrici ci impedivano di farlo.

Cominciavo a pensare che quell’idiota che giocava la partita si era dimenticato del nostro reggimento. Magari in quel momento era concentrato nel muovere quel cazzo di cavalleria che stava caricando i Prussiani sul !anco, e di noi si era scordato, o magari si stava sparando una sega. Era la terza volta che i fucilieri duecento metri davanti a noi ricaricavano e sparavano. Per la terza volta il Kosplayer alla mia sinistra era caduto. All’ultimo era esplosa la testa. Appena il Kosplayer cadeva una subroutine automatica ne spostava un altro a prenderne il posto. “Ranghi serrati!”, urlava ogni volta il sergente.

Eravamo a meno di cento metri dalle !le nemiche, e

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continuavamo a venire avanti tipo come bersagli, quando !nalmente ricevemmo l’ordine di sparare. Stavo per farlo, quando i fucili del nemico esplosero in una nuvola di fumo, e l’ultima raf!ca ci falciò come mosche.

Mi beccai una pallottola alla spalla, e caddi giù distesa, facendomi calpestare dagli altri Kosplayer che andavano a morire.

Mi diedero il culo di porpora, che è una medaglia di plastica dorata, e 1000 buoni extra.

Un medico mi curò la ferita in un ospedale da campo del gioco. Era un altro elemento della ricostruzione Kosplay. Mi andò bene che non ci fu bisogno di amputare. Dietro il tavolo del chirurgo c’era un mastello di legno pieno !no all’orlo di gambe e braccia segate, e una !la di almeno sedici cadaveri impilati come legna da ardere.

Il Kosplaying non è un lavoro facile. Ma è comunque un lavoro. Chiedetelo a Vatti, se il suo lavoro era meglio. Vi piacerebbe avere come referenza “cibo per orche”?

La truccatrice !nisce di applicare l’ultima pustola. Devo dire che è in gamba. Non ci credo nemmeno per un attimo che ha fatto il trucco a Lara Croft. Le extraunionarie sono delle bugiarde nate. Però ha una mano niente male.

Butto in aria un po’ di polvere-specchio. Notevole.Pustole realistiche, occhiaie da zombie, colorito da pesce

marcio. Semplicemente perfetto.L’altoparlante gracchia il mio nome, storpiandolo come

al solito.Scatto su dallo sgabello, e sono già nel personaggio.Le scenog di questo game sono davvero !ghe. Sembrano vere,

città in lontananza comprese. Gli holo sono impeccabili. Sento che dietro c’è la mano di uno screenwizard di HolyBolywood. E siamo solo alla versione beta: il gioco comincia la settimana prossima. Siamo ancora ai provini.

Lo so cosa state pensando. Che bisogna essere matti per prendere parte a un gioco in cui le probabilità di sopravvivenza sono quelle di un !occo di neve all’inferno. Ma è tutto il

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business del Kosplay che succhia. Migliaia di giocatori che muoiono ogni giorno, in tutto il mondo, per il divertimento di pochi. Perché le nostre partite non vengono trasmesse. O registrate. Sono come quelle partite con gli scacchi giganti che facevano in quella città, una volta. Solo che non c’è il pubblico. Ci sono soltanto i due giocatori, seduti alle consolle, e sono loro due a muovere le pedine, che saremmo noi Kosplayer.

Uno si chiede che senso abbia una roba del genere.Okay Hokkaido, mi rispondi tu, guarda che i giochi

gladiatori ci sono sempre stati. Si sono solo evoluti, dekaffeinati, civilizzati. Così sono !niti i tempi in cui la gente si sbudellava con le spade e i forconi, e siamo passati alle corse automobilistiche a 300 all’ora e al pugilato e ad altre cose del genere. E siamo andati avanti così per secoli. Certo, i gladiatori, quelli veri, non sono mai spariti davvero. Gente che combatteva e si spaccava a pugni nudi, o che si ammazzava in qualche altro modo creativo per divertire gli altri. Solo che era una cosa clandestina, fuorilegge.

E poi è arrivato il Kosplay.Nel momento in cui i videogame sono arrivati al

livello massimo di realismo, e non potevi distinguere un personaggio ammazzato da un morto vero, qualcuno ha avuto l’idea di ricostruire i giochi con persone reali. E non l’ha fatto di nascosto. Macché. L’ha reso un business planetario, con tanto di avvisi di reclutamento online e negli uffici di collocamento. All’inizio erano giochi dove ti facevi poco male, al massimo un paio di costole rotte. In certe corpocrazie tipo Dai Nippon e Aztlan i figuranti agli inizi erano carcerati per reati comuni, o dissidenti politici. C’erano dei precedenti: all’inizio del millennio, in Cina, migliaia di prigionieri venivano costretti a giocare ai MMORPG1 anche per 20 ore di seguito, per procurarsi oggetti virtuali che poi venivano venduti in rete a giocatori troppo pigri per sbloccare gli oggetti a forza di ore di gioco.

1 Acronimo di Massively Multiplayer Online Role-Playing Game, gioco di ruolo on line multigiocatore di massa.

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L’inizio del Kosplaying era tutto lì.Dove non era il caso di utilizzare prigionieri (ad esempio

nella nostra Democrazia Sostenibile) non mancavano comunque i volontari. I cosplayer2 dei giochi on line erano migliaia. Quasi tutti accolsero con entusiasmo la novità del gioco.

All’inizio, per i primi anni, le cose sono andate lisce.Ma poi il gioco ha cambiato le regole d’ingaggio.Il primo Kosplayer morto non ha un nome. O meglio,

nessuno se lo ricorda.Successe durante una partita di Call of Duty: Siberian

Counterstrike©.Uno dei giocatori, annoiato dalla partita, fece voltare uno

dei suoi Kosplayer. Erano armati di fucili taser, di quelli che ti stendono con una scarica ammazzabuoi ma che poi ti fanno riprendere in pochi minuti.

Questo se spari dalla distanza giusta.Ma il Kosplayer mosso dal giocatore annoiato si voltò

verso i suoi compagni di squadra e sparò loro in faccia a meno di due metri.

Così almeno racconta radio Kospa, il samiszdat omeo che gira tra la truppa dei !guranti.

Tre uomini e una donna rimasero ustionati. Uno morì, con la faccia ridotta a una pizza bruciata. Girano foto, di quella faccia. Nessuno sa se sono vere o meno. Ma girano. Come ci girano le balle all’idea che quel coglione che ha sparato ha trasformato un gioco di ruolo in un massacro.

Quello che all’origine era stato un incidente, l’effetto di una molecola impazzita, diventò tipo un moto browniano, e poi una moda. Gli uf!ci legali di tutto il mondo ebbero un picco di lavoro, ma nel giro di un mese i nuovi contratti di Kosplaying erano pronti, e tra i giocatori e le assicurazioni si era trovata un’intesa soddisfacente.

2 Il termine Cosplay (giapponese kosupure) è una contrazione delle parole inglesi costume e play. De!nisce la pratica di indossare un costume simile a quello del proprio personaggio preferito e di imitarne il comportamento.

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Come dite? Se ai Kosplayers chiesero qualcosa? Nahw, macché. La Videocrazia dominante si basa sull’idea dell’accesso totale alle informazioni sui media. Sono lì, basta prenderle. Se uno non lo fa e preferisce i porno 3D o le telenovela cambogiane alla gazzetta uf!ciale sono cazzi suoi.

Non esistono dati sulle perdite di Kosplayer. Personalmente avrò visto morire almeno tremila !guranti. Ma può darsi che siano solo una goccia d’acqua nel mare. Nessuno sa quante partite si svolgono, in questo momento. Viene da chiedersi come cazzo fanno a trovare il tempo di giocare, i nostri amati governanti. È vero che non ci sono più guerre, e che il Kosplay calma la loro frustrazione e funge tipo da surrogato per i con"itti veri. Ma non hanno niente di meglio da fare?

C’è chi dice che non sarebbero i Patroni della Videocrazia a giocare, ma i loro !gli e nipoti. In effetti questo spiegherebbe la crudeltà e l’insensatezza di certe azioni, che hanno fatto meritare al gioco la “K” iniziale. Il poeta elisabettiano Philip Sidney scrisse qualcosa tipo che gli esseri umani sono come palline da tennis lanciate dalla racchetta degli dei. Come lo so? Perché ho interpretato la veggente Giokasta nel reload di Secret of the Templars III©. Una delle sue battute diceva proprio questa cosa, delle palline da tennis. Anche l’idea che siamo pedine in mano al destino è vecchia come il mondo. È solo che adesso è da prendere alla lettera. E che il destino sono i Patroni. Sponsorizzano grandi cose, è vero, tipo la boni!ca delle favela di Bergamo o la metropolitana Milano-Roma, ma puoi scommetterci che non è !lantropia. Hanno sempre il loro tornaconto. Non subito, magari, ma prima o poi il denaro che scuciono torna nelle loro tasche, moltiplicato di parecchie volte. Non è che quando c’erano ancora gli Stati le cose andassero meglio. Rubare era solo un po’ più complicato.

Ma basta pensare. Muovi il culo, Kosplayer.“Una giornata nel Kosplaying è una giornata al Grand

Hotel. Ogni pranzo è un banchetto...”Quando entro nella scenog rimango senza parole.Tutto è così preciso. Sembra di essere davvero in un deserto

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postatomico, tipo vicino alla centrale di Beauvais. La città di Megaton sembra reale: le baracche di lamiera precariamente abbarbicate ai bordi del cratere, le pericolanti insegne luminose, le passerelle di ferro arrugginito.

C’è un figurante uguale, ma proprio uguale, allo sceriffo Lucas. Scuote la testa, guardando gli adoratori della bomba inginocchiati nell’acqua stagnante, tutti intorno all’ordigno nucleare inesploso. Poi mi vede e sale la collina, venendo verso di me.

Ho quattro battute quattro, in questo reload. Interpreto un personaggio che nella versione originale non c’era. È stato pensato per i giocatori di sesso femminile. Non ce ne sono molti, ma qualcuno evidentemente c’è.

Lo sceriffo Lucas è un nero di bell’aspetto, sulla quarantina. Cammina con una scioltezza fantastica. Sto pensando che non mi spiacerebbe farmi ingrassare la pagnottella da lui, quando pronuncia la sua prima battuta.

“Ehi, straniera. Da dove vieni? Cosa ti porta a Megaton?”A questo punto il Giocatore ha diverse opzioni di risposta.

Il Kosplayer invece non ne ha nessuna, dato che deve limitarsi a pronunciare le parole che il Giocatore gli fa apparire davanti agli occhi.

“Vengo in pace. Ho solo bisogno di riposare un po’”.“Daniel Simmons ha tirato le cuoia, due giorni fa. Puoi

prenderti la sua capanna, se vuoi”.“Splendido. Sei davvero gentile”. “Dovere, madame”, fa lui, con un inchino che mi fa

sciogliere come il burro. “Però non ho le chiavi”. Che battute del cazzo. Sembra l’inizio di un porno 4D.“Qui a Megaton non chiudiamo le porte a chiave, madame”.Anche se la parola la pronuncia all’inglese, quel “madame”

modulato dalla sua voce ben impostata è tipo un invito a letto per direttissima.

“STOOOP!”, urla una voce da arpia, in alto. Solo che è stata una donna a urlare, e che è tutt’altro che un’arpia. Ha solo la gola secca, credo.

È piccola, bruna. Scende dal suo sgabello alto tre metri e

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viene verso di me, muovendo il bacino in un modo che mi fa quasi star male, per quanto è sensuale.

Jessica Ormond Bigelow Sackville Welles, c’è scritto sulla sua sedia da regista (casomai si dimenticasse chi è).

È chiaramente un nome d’arte, dato che i suoi geni sono un misto asiatico-messicano.

Tutti i registi, nel campo del Kosplay, hanno i primi quattro nomi che formano l’acronimo JOBS. È così da quando è uscito quel game dove Big Steve©, il boss della Apple©, resuscita che è tipo uno zombie e vive nella torre campanaria di Notre Dame a Parigi e progetta macchine incredibili e giochi crudeli dove muoiono persone vere. Così, dicevo, tutti i registi di Kosplay hanno JOBS come iniziali dei nomi. Non si sa chi è stato il primo, ma ormai è così per tutti. È una specie di club identitario, come quello dei !nti Huroni e dei commercialisti tossici.

Di sicuro la piccoletta ha in realtà un nome etno, tipo Conchita o Carmen.

Anche se, da come si comporta, una serie di nomi di grandi dittatori del passato sarebbe più giusta.

“Chi cazzo ha scritto questo copione di merda?” “La NeuBeth©...”, balbetta un’assistente di studio, rossa in

faccia come un peperone.“Rimandateglielo indietro. Non posso girare una scena con

battute del genere. Capito? Non, punto, posso, punto”.Poi si volta verso di me. Non sorride, ma gli occhi sono caldi.“Sei carina. Sei brava. Hai mai avuto un ruolo di prima !la?

Hai cicatrici? Verresti a letto con me? Rispondimi subito. Non necessariamente nell’ordine”.

Due ore dopo siamo a letto insieme, nel suo flat romano tipo New New York©, con vista sul Circeo e un buonissimo odore di macchia mediterranea. Anche se il panorama è solo un ologramma, e il profumo dev’essere artificiale, l’illusione è perfetta.

La camera è grande, fresca. Il letto enorme, con lenzuola di stoffa vera.

Jessica Ormond Bigelow Sackville Welles è entrata vestita

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solo di una vestaglietta di seta. Ha sorriso, immagino vedendo che sedevo abbastanza rigida sul bordo del letto e non mi ero tolta i vestiti. Ci ha pensato lei. Ha posato le dita lunghe e affusolate, leggere come farfalle, sulla zip della tuta, e l’ha tirata lentamente giù, lasciando liberi i seni. Li ha baciati a lungo, facendomi indurire i capezzoli. Poi ha tirato ancora un po’ più giù la lampo e mi ha leccato l’ombelico.

E poi ancora più giù. Mi ha rovesciato indietro sul letto. Si è allungata su di me,

chiedendomi sottovoce di toglierle la vestaglia. La seta ha fatto un rumore sensuale scivolando sulla sua pelle nuda e abbronzata, sul bel culetto tonico che si muoveva mentre lei stro!nava il suo pube sul mio, e la sensazione di quei peli cortissimi sulla mia pelle era un’estasi. Ero carica come una molla, pronta ad esplodere. L’ho accarezzata, era incredibilmente liscia. I suoi seni si stro!navano contro i miei, e mi sembrava impossibile che i nostri corpi potessero aderire così bene, nonostante la differenza di statura. Il fatto è che fra le lenzuola Jessica non sembrava più così piccola. Era tipo come se fossimo alte uguali.

Aveva mani esperte. Un sacco esperte. Non era la mia prima volta con una donna, ma è stata di sicuro la più soddisfacente. Era come se le sue dita fossero collegate in presa diretta con il mio desiderio. Non c’era bisogno di dire Toccami più giù o non ti muovere da lì. Il suo corpo rispondeva al mio come due strumenti bene accordati, componendo una sinfonia di piacere che sembrava non !nire mai.

Non so quanto tempo fosse passato quando lei smise di toccarmi e si stese accanto a me. Io ero madida di sudore, lei fresca come una rosa. Nella !nestra-ologramma, il sole al tramonto bagnava il promontorio in una luce dorata.

Sorridendo, Jessica passò lentamente l’indice sulle mie cosce, sui fianchi, sulla curva del seno. Stuzzicò il capezzolo, lo fece diventare duro, prima di scendere di nuovo sui fianchi, sulle natiche.

Poi il dito premette contro il buco del mio culo. Senza violenza, ma senza nemmeno rallentare, mi s’in!lò per intero nel sedere. Jessica lo mosse lentamente, voluttuosamente.

“Sei stata brava”, sussurrò baciandomi. Tolse di scatto il

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dito dal mio culo, facendomi male. Poi, forzando le mie labbra, me lo mise in bocca. “Leccalo”, ordinò.

Obbedii.Sorrise. La pelle intorno agli occhi non si distese. Mantenne

una rigidità innaturale. Come se i muscoli reagissero in ritardo.Fu allora che capii che la sua giovinezza era solo

un’illusione. I minuscoli segnali lasciati dalla chirurgia rivelavano la verità.

Tolse il dito dalle mie labbra.In bocca avevo il sapore della mia merda.Mi carezzò la guancia, teneramente. Con l’altra mano mi graf!ò il seno.Poi, prima che potessi accennare una qualsiasi reazione,

saltò giù dal letto con un’agilità che faceva pensare a muscoli potenziati da un miurgo di grido.

“Stronza!”, gridò, con gli occhi che luccicavano nel buio, modi!cati anch’essi dalla chirurgia estetica. “Mi fai rabbia!”, sibilò scivolando nuda lungo la parete, muovendosi a scatti: ora veloce, ora lenta. Con una mancanza di ritmo che mi faceva perdere concentrazione, come un ipnotismo. “Mi fai pena!”, aggiunse, scattando verso il letto e afferrandomi per le spalle.

Mi scosse due, tre volte. Le mani che poco prima mi avevano accarezzato ora stringevano come morse, facevano male.

Aveva gli occhi gon! di lacrime.Mi scaraventò contro la testiera del letto. I cuscini morbidi

attutirono l’impatto. L’ologramma del golfo scivolava verso la notte. Il promontorio si riempiva di luci, e altre luci si accendevano nel cielo, luminose come le lacrime di Jessica.

Rimase immobile, in ginocchio sul letto, ansimando, ma non per lo sforzo. Era come se lottasse con un animale dentro di lei.

La guardavo senza capire. Teneva la testa china, i capelli le mascheravano gli occhi,

come in un horror subcoreano del cazzo.Poi dalle sue labbra invisibili uscirono delle parole.Dovetti tendere l’orecchio, per capirle.Fu una cosa tipo monologo in un vecchio!lm©, se capite

cosa voglio dire.

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Parlava, e sembrava non fare caso se l’ascoltavo o meno.Parlava di me.

“Mi chiedo come fate a sentirvi vivi. Come fate a dire che siete  umani, quando vi lasciate usare come materiale da costruzione. Siete legno, pietra. Siete carne che viene mangiata e cagata. E dimenticata. Siete i pezzi di un fottutissimo gioco di scacchi. Vi fate scannare a migliaia ogni giorno per il piacere dei vostri padroni. E fate la "la per avere un posto nel massacro. Siete voi a mandare avanti questo orrore”.

Questo non doveva dirlo. La schiaffeggiai forte. Non so se le feci male. Probabilmente no.

Ma rialzò la testa.“Sei brava a insultarci”, le urlai. “Sei bravissima a

giudicare! Come se avessimo scelta! Tu sei nata nelle Seicento Famiglie, vero?” 

“Nelle Trecento”, sussurrò.Scossi la testa, incredula. “Le Trecento? Sei nata nelle Trecento

Famiglie e fai la regista di Kosplay? Mi prendi per scema?”Gli occhi di Jessica rivelavano la sua età vera. Incastonati in

una pelle liscia e giovanile, avevano dentro la profondità e le ferite del tempo.

“Sono la pecora nera”, disse. E poi aggiunse: “Non per le mie abitudini a letto. Se è quello che ti stai chiedendo. Non vengo da Singapore, o dall’Unitarietà. E ho una figlia più vecchia di te”. 

“Non mi interessa”.“Oh, ma dovrebbe. Perché sai, anche lei vuole fare

kosplaying. Fare l’amore con te è stato uno sbaglio. Mi ha... Mi ha fatto capire cosa sta succedendo davvero. Una cosa è pensare, o meglio non pensare, con l’aiuto di qualche droga. Un’altra è stringere tra le braccia una ragazza e sentire che stai per perdere tua "glia...”

La guardai senza crederci. A bocca aperta come un pesce. Come l’orca che ha ucciso mio padre. È un pesce, vero, l’orca? Non è tipo come i del"ni, che sembrano pesci ma invece sono mammiferi...

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Il mio cervello balla lo zakk fra le pareti del cranio.“Ma se anche lei fa parte delle Trecento...”“Lo so. È assurdo. Potrebbe avere tutto. Tutto. E invece ha

scelto di giocare”.“Perché? Non capisco...”“Potresti fermarla”. “No che non posso! Ha compiuto da un pezzo quindici

anni. È maggiorenne”.“Puoi impedirle di giocare. O farla giocare in un ruolo

tranquillo”.“Si è venduta ad un’altra compagnia!”, gridò.“Cazzo”.Il braccio destro di Jessica si sollevò. Mi aspettavo di tutto.

Invece la sua mano mi carezzò la spalla. Una carezza tenera. Da madre, o da amica. Non più da amante.

Quel gesto mi fece venire un groppo in gola.

“Che esperienza ha?”“Nessuna. È carne da macello”.“Oh. Per che compagnia ha !rmato?”“La Bandamco”.Fischiai tra i denti.Cazzo.La Bandamco© è una compagnia senza scrupoli. Nata da

una fusione aziendale tra la Yakuza© giapponese e il Soviet degli Urali, ha i più grandi teatri di posa al di fuori degli Stati Confederati e della buona vecchia Cinecittà. Dicono che ci sia la mano della Bandamco© dietro il bombardamento nucleare di Old Bollywood. La Bandai© ha cercato di farle guerra per le prime cinque lettere del marchio, ma dopo un migliaio di morti, fra cui il suo CEO, ha deciso di lasciar perdere.

Il presidente della Bandamco© è un vecchio politico americano, George qualcosa. Dev’essere stato tipo un presidente, quando c’erano ancora gli Stati Uniti. Adesso la bandiera a stelle e strisce, naturalmente, è proprietà della Pepsi©.

La Bandamco© ha un esercito di 2.000 uomini, truppe da sbarco scelte, e si dice abbia anche armi chimiche e nucleari. Chiedete pure conferma alla Bandai©.

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“Dove la tengono, tua !glia?”“Pamukkale. Nel Califfato Ottomano. Hanno un campo

d’addestramento, laggiù. In realtà un campo di prigionia”.Hai altre !glie?, mi veniva da chiederle. Questa è la donna che cinque minuti fa mi ha sodomizzata

con un dito.Ma è una madre, cazzo. Cosa ne so, io, delle madri? La mia

era una Bimbominkia. Si faceva di dopa, di suma, di phol, di qualsiasi cosa venisse sfornata dai complessi orbitali della Ma!a©. A casa si parlava Bimbominkia.

Ricambiai la carezza. La mano mi si bagnò di lacrime.Erano calde, erano vere. Era la cosa più vera che mi fosse

scivolata addosso in tutta la mia vita.

STOP.FINE DEL CAPITOLO.

Tornai al Kosta Kondo con l’umore sotto i tacchi.Niente aerotaxi. Non avevo nemmeno un decimo della

somma necessaria. Forse Jessica si sarebbe anche offerta di pagarmelo, ma non mi sembrava una cosa da chiedere. E lei non si era offerta di chiamarmelo.

Dopo un’ora di !la alla dogana della Zona Verde, una scarpinata di due ore lungo il corridoio umanitario che porta dal centro di Roma alla periferia. Di lì, bus a metano !no a Ostia, tre ore in piedi stretta in mezzo a un macello di gente sudata. Poi, dal terminal forti!cato di Ostia, pedibus con scorta armata !no all’imbarcadero. Il mare per fortuna era tranquillo. Il traghetto era una zattera montata su un centinaio di taniche vuote. Costava un po’, ma era sempre meglio che farsi la passerella stretta e alta che collegava la terraferma con il Kondo. Non era illuminata, e di notte era meglio evitare di passarci.

Il mare non somigliava per niente a quello della !nestra virtuale nel "at di Jessica. Era denso come una minestra della Mezzaluna Rossa. E puzzava. Di cose morte e di vecchie ciabatte sfondate e di speranze inculate, come diceva Vatti.

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Soprattutto di cose morte. Carcasse di topi galleggiavano sul liquame brodoso, con le zampette all’aria che invitavano a fare il solletico ai ventri gon! di gas. Mi ricordavano una poesia che Malcolm, il mio primo ragazzo, mi aveva letto una volta.

Parlava di una ragazza morta annegata, dentro la quale viveva una famiglia di topolini. Mangiavano il fegato e le reni della ragazza. E lì dentro, diceva la poesia, quei topolini avevano vissuto una bella gioventù.

Malcolm X Y (Y era il cognome) sapeva un sacco di cose, sulla poesia. Se fossi stata un po’ meno oca o un po’ più interessata, chissà quante cose saprei, a quest’ora.

Bien sçay, se j’eusse estudiéOu temps de ma jeunesse folleEt a bonnes meurs dedié,J’eusse maison et couche molle.Mais quoy! je fuyoië l’escolleComme fait le mauvaiz enffant...

Questo per esempio, signore e signori e in!nite via di mezzo, era François Villon, un’altra delle !sse di Malcolm. Io avevo un bel dirgli che la cultura non serve a niente in un mondo di merda come il nostro, e che poteva solo farti star male. Lui insisteva che anche star male è qualcosa, nel mondo vuoto in cui ci tocca vivere. Star male vuol dire reagire, prendere coscienza. Vuol dire che dentro di te c’è ancora qualcosa di vivo...

Un anno dopo vinceva un posto di terzo assistente alla Wilbur King Writing Academy di Los Alamos e ci si trasferiva in due giorni, lasciandomi un cane ChiBaw© della Sony© e tre mesi d’af!tto da pagare.

Il padrone di casa mi abbuonò l’af!tto in cambio di un bel po’ di sesso orale. Niente passera, chissà perché.

Mi chiedo come si sarebbe fatto risarcire da Malcolm, se fossi stata io a bidonarlo.

La cosa ironica è che la cattedra era quella di Letteratura Hip Hop.

E Malcolm odiava l’Hip Hop.

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Mi ero tenuta il cane, !nché le batterie non si erano esaurite e lui era rimasto accovacciato per l’eternità tipo quel cane giapponese che aveva perso il padrone.

Una sera, !nalmente, l’ho buttato fuori dall’oblò.

Così non c’è nessun cane ad accogliermi quando entro nel mio "at sbilenco, che puzza di mare morto e di ruggine e di lenzuola sudate. Ho i pensieri che sembrano un piatto di noodles condito con l’acido. Ho giocato così tante volte, ho rischiato la vita in così tanti ruoli, che è diventato davvero tipo una specie di gioco, invece di una cosa seria. Mortalmente seria.

Ma pensare alla !glia di Jessica mi ha incasinato le sinapsi.Mi dico che non dovrei.Che il culo mi duole ancora per il dito di quella stronza.Solo che stronza non è la parola giusta.Devo sforzarmi, per trovarla.È mamma.Stringo fra le dita il foglietto di cartaplastica con il numero

di telefono.Lo appallottolo.Lentamente, il foglio si stende di nuovo, sul piano del

tavolino. Torna perfetto, come nuovo.

Non la chiamo subito. Guardo il numero. Lo leggo. Lo rileggo al contrario. Lo imparo a memoria.Ma non la chiamo.Prima mi faccio una doccia.Quella che uso è acqua di mare !ltrata. Più o meno dovrebbe

essere sicura. Solo che devi stare attenta a non fartela !nire tipo in bocca, o in un occhio.

Così metto una maschera da bagno, un affare dal look sadomaso che !ltra l’aria e impedisce all’acqua di entrare. Poi mi laverò la faccia con acqua in bottiglia. Teoricamente è più sicura, anche se nessuno ha accesso ai dati e alle statistiche dei tribunali commerciali, per cui potrebbe essere anche solo teoria, appunto.

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