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www.invisible-dog.com [email protected] L'EFFETTO DOMINO DELLA PRIMAVERA ARABA : ANALISI E VALUTAZIONI DEL FENOMENO Il fenomeno della primavera araba si e' diffuso con una concatenazione temporale che ne ha alimentato la propagazione geografica in molti Paesi arabi. Nella pratica si e' determinato un cosiddetto "effetto domino" che ha fatto si' che un evento collocato nella realta' di un singolo Paese (soprattutto di instabilita' sociale) estendesse i suoi effetti ad altri Paesi limitrofi. E' una situazione che e' stata determinata dalla circolazione delle notizie che oramai avviene in modo globale, favorita dai mezzi di comunicazione di massa (televisione, internet, social network etc.) che legano cause ed effetti eliminando barriere di tempo e spazio. I fermenti sociali nei Paesi arabi si sono sviluppati e diffusi in questo modo, magari facilitati dal fatto che queste nazioni erano accomunate da caratteristiche sociali, economiche e politiche similari. Vale allora la pena di ripercorrere questi eventi concatenandoli l'uno con l'altro: - 17 dicembre 2010, Tunisia Mohamed Bouazizi, venditore ambulante di verdure di Sidi Buazid, si da' fuoco davanti al Governatorato per protesta contro la mancata possibilita' di potere esercitare il suo lavoro. La protesta si propaga in tutto il Paese - 29 dicembre 2010, Algeria L'innalzamento dei prezzi di alcuni generi alimentari innesca una serie continua di proteste popolari. Ci saranno nei giorni successivi almeno 11 tentativi di suicidi per protesta (4 moriranno) - 14 gennaio 2011, Giordania Dopo la preghiera del venerdi' sindacalisti e partiti di sinistra manifestano in varie citta' del Paese contro la politica del Governo e chiedono le dimissioni del Primo Ministro - 17 gennaio 2011, Mauritania Per protesta contro la politica del Presidente un manifestante, Yacob Ould Dahoud, si da' fuoco davanti al palazzo presidenziale - 17 gennaio 2011, Oman Qualche centinaio di manifestanti inscena proteste per strada per rivendicare un aumento dei salari e l'abbassamento del costo della vita - 21 gennaio 2011, Arabia Saudita Invisible Dog – Periodico online Direttore Responsabile – Alessandro Righi Edito da Invisible Dog Srl Via Cassia 833, Rome, Italy Testata registrata presso il Tribunale di Roma n.198/2011 del 17/6/2011

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L'EFFETTO DOMINO DELLA PRIMAVERA ARABA : ANALISI E VALUTAZIONI DEL FENOMENO

Il fenomeno della primavera araba si e' diffuso con una concatenazione temporale che ne ha alimentato la propagazione geografica in molti Paesi arabi.

Nella pratica si e' determinato un cosiddetto "effetto domino" che ha fatto si' che un evento collocato nella realta' di un singolo Paese (soprattutto di instabilita' sociale) estendesse i suoi effetti ad altri Paesi limitrofi. E' una situazione che e' stata determinata dalla circolazione delle notizie che oramai avviene in modo globale, favorita dai mezzi di comunicazione di massa (televisione, internet, social network etc.) che legano cause ed effetti eliminando barriere di tempo e spazio. I fermenti sociali nei Paesi arabi si sono sviluppati e diffusi in questo modo, magari facilitati dal fatto che queste nazioni erano accomunate da caratteristiche sociali, economiche e politiche similari.

Vale allora la pena di ripercorrere questi eventi concatenandoli l'uno con l'altro:

− 17 dicembre 2010, TunisiaMohamed Bouazizi, venditore ambulante di verdure di Sidi Buazid, si da' fuoco davanti al Governatorato per protesta contro la mancata possibilita' di potere esercitare il suo lavoro. La protesta si propaga in tutto il Paese

− 29 dicembre 2010, AlgeriaL'innalzamento dei prezzi di alcuni generi alimentari innesca una serie continua di proteste popolari. Ci saranno nei giorni successivi almeno 11 tentativi di suicidi per protesta (4 moriranno)

− 14 gennaio 2011, GiordaniaDopo la preghiera del venerdi' sindacalisti e partiti di sinistra manifestano in varie citta' del Paese contro la politica del Governo e chiedono le dimissioni del Primo Ministro

− 17 gennaio 2011, MauritaniaPer protesta contro la politica del Presidente un manifestante, Yacob Ould Dahoud, si da' fuoco davanti al palazzo presidenziale

− 17 gennaio 2011, OmanQualche centinaio di manifestanti inscena proteste per strada per rivendicare un aumento dei salari e l'abbassamento del costo della vita

− 21 gennaio 2011, Arabia Saudita

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La minoranza sciita protesta nella regione orientale per chiedere la liberazione di attivisti imprigionati. Benche' la manifestazione fosse pacifica, i promotori della protesta, tutti esponenti religiosi, vengono arrestati

− 24 gennaio 2011, LibanoIniziano le proteste popolari contro il sistema confessionale che ripartisce il potere nel Paese

− 25 gennaio 2011, EgittoDopo varie proteste limitate e locali, iniziano le prime manifestazioni di massa in varie citta' del Paese (soprattutto Cairo, Alessandria, Suez ). Due giorni dopo verra' presa d'assalto ed incendiata la sede del Partito Nazionale Democratico

− 26 gennaio 2011, SiriaUn manifestante, Hassan Ali Akleh, residente a Al Hasakah, si cosparge di benzina e si da' fuoco per protestare contro il governo siriano. Seguiranno, giorno dopo giorno, crescenti proteste contro il regime

− 27 gennaio 2011, Yemen Oltre 15000 manifestanti a Sana'a ed altre decine di migliaia in altri parti del Paese protestano nelle strade contro il regime e, soprattutto, contro la possibilita' che il Presidente Saleh trasmetta il potere in forma ereditaria al figlio Ahmed

− 28 gennaio 2011, Palestina Si verificano proteste a cavallo dei negoziati tra Hamas e Fatah

− 30 gennaio 2011, MaroccoIniziano le prime proteste per richiedere riforme democratiche nel Paese

4 febbraio 2011, BahreinCentinaia di persone si riuniscono davanti alla sede dell'ambasciata egiziana per dimostrare solidarieta' ai manifestanti anti-governativi del Cairo

− 14 febbraio 2011, IranA seguito delle notizie provenienti dall'Egitto e alla defenestrazione di Mubarak, si verificano manifestazioni a Isfahan che poi degenereranno in scontri ed arresti. In contemporanea altre manifestazioni avverranno a Teheran ed in altre parti del Paese. Seguiranno ulteriori arresti di oppositori

− 15 febbraio 2011, LibiaAlcune centinaia di persone manifestano a Bengazhi contro l'arresto dell'avvocato Fathi Terbil, difensore dei familiari dei detenuti morti ad Abu Salim, nonche' esponente di rilievo nella difesa dei diritti umani. Le forze di sicurezza intervengono brutalmente per interrompere la manifestazione

− 17 febbraio 2011, IraqManifestazioni di protesta a Wassit, a sud di Baghdad, per la mancanza di elettricita' ed acqua. Incendiati due palazzi governativi. Feriti ed arresti. Si protesta anche contro la

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corruzione nel governo. A Sulemanyah, nel Kurdistan iracheno, nelle proteste che prendono origine dalla richiesta di riforme e contro l'inflazione, muore un manifestante e 33 persone sono ferite

− 18 febbraio 2011, KuwaitL'emiro Sheykh Sabah al Ahmad al Jaber al Sabah, per prevenire eventuali proteste popolari di ordine economico, elargisce ad ogni suddito la somma di 4.000 $ (ufficialmente un contributo in occasione del ventennale per la liberazione del Paese all'occupazione irachena). Il giorno dopo, per protesta contro questo spreco di denaro, migliaia di persone scendono in strada a protestare indirizzando parte del risentimento popolare contro il governo del Primo Ministro Nasser al Mohammed al Ahmad al Sabah

ANALISI DELLA FATTUALITA' E DELLA CRONOLOGIA

La prima osservazione e' che le rivolte nei vari Paesi arabi, benche' cadenzate nel tempo in modo ravvicinato (e quindi legate fra loro da un rapporto di causa ed effetto), prendono spunti da istanze diverse anche se talvolta concatenate tra loro: un malessere sociale, una rivendicazione economica, una istanza di democrazia, una richiesta di diritti, una protesta per liberta' civili, la lotta delle minoranze religiose.

L'effetto domino si riscontra anche nelle modalita' di protesta: colpisce il comportamento per imitazione che porta a simili tentativi di suicidio in Tunisia, Algeria, Mauritania, Siria.

Altra considerazione deve essere fatta tra l'inizio delle proteste ed i risultati che non sempre produrranno. Le varie storie nazionali hanno quindi avuto esiti diversi:

− in Tunisia c'e' stato un processo democratico che si sta completando in modo tutto sommato pacifico,

− in Algeria niente e' cambiato (nonostante le proteste avessero inizialmente avuto una particolare violenza),

− in Libia c'e' stata una guerra civile che ha cambiato il regime, ma non ha ancora prodotto una pacificazione sociale,

− in Marocco le istanze popolari sono state assecondate attraverso cambiamenti costituzionali e quindi pilotate pacificamente dalla monarchia,

− in Egitto al ruolo dei militari ed alla loro influenza nelle vicende politiche del Paese si e' sostituita una nuova dirigenza teocratico-centrica comunque legittimata dalle elezioni,

− in Mauritania piccole concessioni economiche hanno smorzato ogni rivendicazione di piazza,

− in Yemen si e' riusciti ad allontanare il Presidente Saleh senza ulteriori spargimenti di sangue (vedasi comunque il ruolo saudita di mediazione e la constatazione che le istanze popolari si sono poi esaurite con il cambio di regime),

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− in Siria il regime si e' sempre piu' arroccato su posizioni oltranziste usando violenza e dando spazio ad una guerra civile,

− in Giordania le proteste popolari hanno portato alla caduta del Governo, ma la richiesta di ulteriori liberta' costituzionali si e' trasformata in una lotta fra filo-monarchici e riformisti,

− in Libano le proteste per una diversa impalcatura istituzionale sono state poi sopravanzate da maggiori preoccupazioni per gli eventi siriani e le possibili ripercussioni sul proprio territorio, come poi la recente uccisione del capo dei Servizi interni Wassan Hassan ha ampiamente dimostrato,

− in Arabia Saudita la ribellione sciita e' stata debellata con l'uso della forza e le istanze a favore di maggiori liberta' sono state in buona parte represse e poi in parte minimamente concesse (vedasi la promessa di voto alle donne)

− in Oman le rivendicazioni economiche della popolazione hanno prima incontrato la repressione del governo, ma sono poi state accordate anche perche' in quel contesto non e' mai stata messa in discussione l'autorita' del Sultano Qabus,

− in Iraq l'endemica instabilita' del Paese non ha dato spazio all'accoglimento di richieste economiche, ne' di istanze sociali e ne' si e' trovato spazio per riforme adeguate (nonostante il 15 dicembre 2011 si sia chiusa ufficialmente la presenza americana nel Paese),

− in Iran la conflittualita' tra riformisti e conservatori, le tensioni tra Khamenei e Ahmadinejad e tra clero e laici hanno nei fatti diluito le istanze della societa' civile trasformandole, anche se forse involontariamente, in una faida all'interno del regime. Gli apparati di sicurezza hanno avuto poi mano libera nella repressione,

− in Bahrein la rivolta sciita e' stata risolta manu militari con l'intervento di reparti sauditi ed emirensi a protezione del regime sunnita di Hamad al Khalifa

− in Kuwait le proteste hanno portato allo scioglimento del Parlamento

− in Palestina l'accordo tra Hamas e Fatah ha poi disinnescato molte proteste e contrasti anche se la conflittualita' tra le due anime della diaspora palestinese e' tuttora molto accesa.

In tutte le situazioni esaminate non vi e' stata una correlazione tra il livello di violenza della protesta e la qualita' dei risultati ottenuti. Al contrario, esiste invece in maniera piu' accentuata una correlazione tra la repressione dei regimi e la conseguente limitatezza dei risultati acquisiti. Questo e' un dato che appare sempre piu' evidente in quanto ci troviamo, nella quasi generalita' dei casi in esame, di fronte a regimi autoritari che secondo le proprie convenienze hanno fatto uso della forza in modo indiscriminato.

Un altro elemento di interesse e' constatare che i regimi guidati da monarchie legittimate anche sul piano religioso hanno saputo meglio affrontare le turbolenze sociali della primavera araba. Ne fa fede quel che e' successo in Marocco (monarchia alawita), in Oman (sultano ibadita), in Arabia

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Saudita (monarchia wahabita), in Giordania (monarchia hashemita) e tutto sommato anche nella teocrazia iraniana.

Di converso i regimi militari (Siria , Egitto, Yemen) sono quelli che hanno affrontato la protesta con meno duttilita' negoziale e quindi sono stati coinvolti in una repressione sanguinaria.

Una ultima osservazione va fatta su quello che e' stato ottenuto dalle proteste popolari nei vari Paesi arabi. Levati il caso della Tunisia e dell'Egitto (a cui aggiungere la Libia nonostante l'intervento esterno), negli altri Paesi arabi, sia che ci riferisca a istanza sociali e/o economiche e/o politiche, molto e' stato chiesto dai vari manifestanti, ma poco e' stato ottenuto. La risposta a questa circostanza bisogna trovarla focalizzando il contesto sociale in cui si sono verificate queste proteste. Infatti :

− la mescolanza, all'interno delle varie manifestazioni nazionali di protesta, di istanze di liberta' e richieste di natura economica ha fatto si' che le prime siano state penalizzate dalle seconde e che quindi, prosaicamente, l'ottenimento di vantaggi economici abbia piu' volte disinnescato le proteste stesse. Mancava quindi, nell'ambito delle singole manifestazioni nazionali e poi nel mondo arabo nel suo complesso, un comune denominatore di riferimento. L'effetto domino si e' quindi innescato sulla volonta' comune di protesta, ma non sulla qualita' delle stesse. Di conseguenza, la spinta propulsiva della primavera araba si e' poi dispersa nella specificita' delle varie rivendicazioni nazionali;

− a fattor comune, nella popolazione del mondo arabo e' mancata quella consapevolezza nelle aspirazioni e nelle istanze che si acquista attraverso un lento processo di democratizzazione della societa'. Nei Paesi in considerazione la democrazia non e' un valore di comparazione in quanto non e' mai stato iniziato questo processo. Si tratta di Paesi passati dalla fase coloniale a quella post-coloniale in modo prevalentemente autoritario. La democrazia mai sperimentata non e' quindi un valore di riferimento, non se ne conoscono pregi o limiti, non costituisce particolare sensibilita' nell'immaginario del singolo. Quello che divulgano i mass media con la globalizzazione delle comunicazioni e delle notizie possono alimentare nell'arabo un concetto di societa' diversa dalla propria, ma piu' per gli aspetti estetici che non per quelli afferenti le liberta' individuali. E quando non si ha una contezza di quello che si vuole, rimane difficile chiederlo o ottenerlo e magari, se del caso, concederlo;

− la societa' che il manifestante arabo anela ad ottenere dopo la rivolta alla fine non e' molto diversa da quella contro cui combatte. Vuole il piu' delle volte il cambiamento del regime, ma se cio' avvenisse il nuovo regime alla fine manterrebbe tutti i limiti comportamentali che ne caratterizzavano il precedente: l'autorita' esercitata con la forza, la scarsa considerazione per chi si oppone o contesta , negazione – all'occorrenza – di quei diritti inalienabili in un contesto sociale democratico. In altre parole, il manifestante si pone il problema di un cambiamento di regime, ma non si pone il problema (mancandogli le esperienze culturali specifiche) di come sara' il nuovo. I suoi modelli di riferimento sono alquanto limitati al riguardo. Non e' escluso che alla dittatura di Gheddafi domani possa avvicendarsi un'altra forma di autorita' egemone e probabilmente scarsamente democratica. Quando si prefigura un nuovo modello di societa', l'arabo, per sua esperienza pregressa, assimila la gestione del potere all'utilizzo della forza e non, come sarebbe auspicabile, alla ricerca del consenso.

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− Quello che nel mondo occidentale viene definita "opinione pubblica" , intendendo con tale termine il comune sentire della popolazione e il volere della maggioranza, e' un altro dei valori di riferimento che manca, nella stragrande generalita', all'arabo della primavera araba. L'opinione pubblica viene identificata con il compagno che protesta con lui ma non include, nel suo pensiero, che un'altrettanta opinione pubblica possa contrastare la sua idea.

Quindi, l'insieme di queste affermazioni postula che dalla cosiddetta primavera araba non e' arrivato un beneficio significativo alla diffusione della democrazia, inteso come valore universale, in questa parte di mondo.

Poi bisogna considerare che ogni cambiamento di regime, se avviene in modo brusco, con l'uso della forza e non attraverso un lento processo di assimilazione, genera instabilita'. Ed e' questo il rischio potenziale maggiore che puo' generarsi dall'ondata di proteste della primavera araba. Sinora, laddove i cambi sono stati radicali, Libia in primis ed Egitto in quota parte, la pace e la sicurezza sociale sono state penalizzate. Fa eccezione la sola Tunisia (che non costituisce regola) per una serie di motivazioni particolari (si tratta di uno dei Paesi socialmente piu' emancipati del mondo arabo, risente in particolare dell'influenza europea anche per gli effetti del turismo, ha potuto contare sulla saggezza di un leader carismatico). Domani se lo stesso processo si compira' in altre nazioni arabe ci si deve aspettare molti piu' problemi sociali che soluzioni. Ci si domanda quindi se sia stato un bene o un male che alcune primavere arabe non abbiano raggiunto il loro obiettivo sociale.

La primavera araba, nella sua definizione, implica il risveglio delle coscienze delle popolazioni arabe alla ricerca di giustizia e liberta' e quindi, costituisce di per se', dal punto di vista concettuale, un evento positivo. Nella pratica si e' sicuramente enfatizzata la circostanza soffermandosi meno sulle implicazioni che una primavera araba compiuta avrebbe potuto produrre sugli equilibri in Medio Oriente e Nord Africa, sulla stabilita' del mercato del petrolio, sul controllo dei gasdotti, sul fenomeno e i flussi dell'immigrazione clandestina, sulla situazione geo-strategica che vede il mondo diviso comunque in sfere di influenza, sugli equilibri militari tra Paesi regionali, sulla conflittualita' tra sunniti e sciiti e di conseguenza anche sulla sicurezza dei cristiani, sulla protezione delle rotte marittime nel Golfo Persico e nel canale di Suez, sulla propagazione del terrorismo che si alimenta sulla instabilita' delle regioni, sulla conservazione di confini ed entita' nazionali in buona parte artificiosamente costituiti su spartizioni neo e post colonialiste, sull'incidenza di un mercato finanziario che vede immensi capitali provenienti dal commercio delle risorse energetiche, sulla vita di tutti i giorni di un cittadino arabo comune che si attendeva un miglioramento della propria vita in termini di liberta' e sicurezza e che invece probabilmente non otterra'.

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LA LIBIA DI GHEDDAFI E QUELLA DI OGGI

Il potere di Gheddafi dopo il colpo di Stato del primo settembre 1969 era stato strutturato su una serie di iniziative tese ad assicurarsi il controllo del territorio e soprattutto di una popolazione, peraltro numericamente limitata, su un territorio alquanto esteso.

LE KABILE

La prima mossa di Gheddafi era stata quella di assicurarsi il sostegno delle kabile, cosi' come vengono chiamate in Libia le tribu' di origine beduina che popolano il Paese. Lui stesso beduino, aveva saputo muoversi in questo contesto con particolare destrezza.

Aveva elargito prebende, favorito matrimoni di interesse, conferito cariche sempre con l'unico scopo di assicurarsi il sostegno dei capi kabila e delle loro tribu'. Provenendo da una kabila del Fezzan centrale (il Fezzan rappresenta arealmente il 33% del Paese), era piu' facile a Gheddafi operare anche nel contesto della storica rivalita' tra le popolazioni della Cirenaica (51% del Paese) e quelle della Tripolitania (16% del Paese). Chi non aderiva a questo mercimonio, veniva poi emarginato (nel caso migliore) o eliminato (caso piu' ricorrente).

Le kabile della Cirenaica erano quelle potenzialmente piu' ostili al regime perche' legate alla Confraternita della Senussia e alla precedente monarchia, per cui erano subito diventate oggetto di discriminazione e persecuzione. La stessa Cirenaica veniva - per punizione - sistematicamente esclusa da ogni investimento o beneficio finanziario e non sara' quindi un caso che nel 2011 la rivolta contro il regime partira' proprio da questa regione.

Le kabile libiche sono circa una cinquantina a cui poi vanno aggiunte le sottokabile, le federazioni di kabile e vari sottogruppi. L'abilita' relazionale di Gheddafi faceva si' che ognuna di queste entita' avesse poi a livello centrale un rappresentante di prestigio.

A parte la kabila di appartenenza - la "Qadadfa" stanziale nell'area della Sirte che ovviamente godeva di una posizione di privilegio - che aveva un maggior numero di personaggi nei posti chiave (i cugini Ahmed e Said Gheddafeddam, Ahmed Mohammed Ibrahim, Mohammed Masoud Al Majdud etc.), altre kabile che risultavano particolarmente schierate nel sostegno al regime erano :

− I "Warfalla" di Bani Walid, la piu' grande kabila nel centro nord del Paese che forniva l'ossatura dell'esercito e della sicurezza del dittatore ;

− I "Magarha", la piu' grande kabila del sud ovest della Libia (nord Fezzan) e peraltro la piu' numerosa del Paese (circa il 10% della popolazione) a cui apparteneva Abdel Salam Jalloud (ex numero due del regime) ed il cognato del dittatore, Abdallah Senussi (marito della sorella della seconda moglie di Gheddafi);

− I "Barasa", una kabila stanziale nella Cirenaica (intorno a Al Baida), inizialmente ostile al regime ma poi affiancata al potere dopo il matrimonio di Gheddafi con Safia Sarkash, sua seconda moglie;

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− Parte degli "Obeidat", una kabila stanziale intorno a Benghazi e Tobruk, il cui maggiore rappresentante era il Ministro degli esteri Abdullati al Obeidi;

− I "Jawari" della Tripolitania, da dove provenivano due altri membri del Consiglio Rivoluzionario: Kweldi al Humaidi e Mustafa al Kharroubi.

Come gia' enunciato, le altre entita' tribali che non sostenevano Gheddafi erano nei fatti escluse da ogni spartizione di potere e/o denaro (vedasi i "Magharba" e gli " Awlad Suleimann" in Cirenaica, i "M'nifa" nel Huan Waddan).

GLI STRUMENTI DI REPRESSIONE

La seconda leva che utilizzava a piene mani il dittatore per controllare il Paese era la repressione. Opposizioni, anche se pacifiche, non avevano spazio nell'immaginario di Gheddafi. Chi si permetteva di contestare il suo potere veniva eliminato o incarcerato. Per rendere efficace questo sistema di repressione venivano utilizzati i Servizi di sicurezza : l'Internal Security Service ( Jihaz al Aman al Dakili) ultimamente guidato da Khaled Tuhami, l'External Security Service ( Jihaz Al Aman al Kharigi) negli ultimi anni gestito da Abu Zied Durda, il Military Security Service (Jihaz Al Aman Akaria), ultimamente ritornato sotto il controllo assoluto di Abdallah Senussi.

Il primo organismo operava incontrastato sul territorio nazionale raccogliendo informazioni sui cittadini libici e gli stranieri, svolgeva attivita' di controspionaggio e controterrorismo.

Il secondo organismo era invece dedicato al contrasto alle minacce esterne, ma soprattutto - specie nei primi periodi della dittatura - alla ricerca ed eliminazione degli oppositori all'estero. Questa seconda attivita' era prevalentemente fiorente quando l'E.S.S. era diretto da Mussa Kusa tra il 1994 al 2008, ora defezionato in Inghilterra. La data di inizio della caccia agli oppositori viene indicata nell'11 giugno 1980, in occasione del decimo anniversario della cacciata degli americani dalla base aerea di Whelus Field, data ultimativa indicata dal regime per il rientro dei dissidenti in Libia.

L'Intelligence militare era invece dedicato a controllare le Forze Armate che, comunque, Gheddafi aveva scientemente mantenuto sempre a un basso livello operativo memore del fatto che lui stesso, a suo tempo, aveva ordito il colpo di Stato nel suo ambito.

IL CONTROLLO DELLE MOSCHEE

Gheddafi temeva un'opposizione che potesse prendere connotazioni religiose soprattutto perche' la precedente monarchia, da lui defenestrata con il colpo di Stato, si identificava con la Confraternita della Senussia, molto diffusa in Cirenaica, portatrice di un Islam ortodosso (il suo fondatore, Mohammed bin Ali al Senussi, aveva avuto contatti con il wahabismo saudita) e di un sistema sociale articolato su fattorie di lavoro (generalmente agricolo) denominate "zawiya". Dopo aver espropriato tutti i beni della Chiesa cattolica (ad eccezione di due modeste chiese in Tripoli e Benghazi - l'attuale grande moschea della capitale e' una trasformazione della precedente cattedrale) perche' religione ritenuta collusa con il pregresso regime coloniale, il leader libico aveva fatto altrettanto con le proprieta' della Confraternita.

Le strutture religiose di quest'ultima erano poi confluite in una neo-creata organizzazione, il "Dawa

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al Islamiya" ( "Appello Islamico") che controllava l'attivita' delle moschee, presiedeva alla formazione degli ulema, controllava la stampa islamica, ma soprattutto era cintura di trasmissione del consenso tra il regime e la comunita' religiosa del Paese. Questa organizzazione, creata nel 1970 come emanazione libica del Consiglio mondiale dell'Appello Islamico che a sua volta e' una branca dell'O.C.I. (Organizzazione della Conferenza Islamica), aveva anche lo scopo della diffusione dell'Islam e dei dettami del Libro verde nel mondo, di creare rapporti di collaborazione con altri organismi similari stranieri e, soprattutto, costituire elemento di penetrazione politico-religiosa del regime verso l'estero. Nei primi anni della sua attivita', il Dawa Islamiya era anche strumento di destabilizzazione verso quei Paesi ritenuti ostili alla Libia ed era risultata coinvolta anche nell'individuazione ed eliminazione dei dissidenti all'estero.

Come un po' tutti gli organismi emanati dal regime, nella variegata formula di compiti e funzioni anche questa struttura assicurava al regime sostegno interno ed estero. Non casualmente il Dawa Islamiya era coadiuvato nelle sue attivita' da un "Ufficio dei Movimenti Rivoluzionari Islamici" e coordinava le sue iniziative con altri organismi di supporto al regime (Servizi di Sicurezza, Comitati rivoluzionari, Centro studi e ricerche sul Libro Verde, Segretariato permanente del Congresso del Popolo, Mathaba).

LE FORZE MILITARI DI SICUREZZA

Avendo preso il potere attraverso un colpo di Stato in ambito militare, Gheddafi aveva sempre temuto che un esercito forte ed efficiente potesse non essere un elemento di stabilizzazione del suo potere ma, al contrario, un elemento di potenziale pericolo per la sopravvivenza del regime. Per tale motivo, dopo il 1969, le FF.AA. libiche sono sempre state tenute ad un basso livello di operativita'. La catena di Comando faceva comunque sempre riferimento al Rais attraverso un Comitato Generale provvisorio per la Difesa (equivalente di un omonimo Ministero) guidato da un Segretario generale del Comitato Provvisorio della Difesa (Ministro) nella persona di un suo fedelissimo della prima ora, il Generale Abu Bakr Younes Jaber, membro del Consiglio del Comando Rivoluzionario.Dal punto di vista militare chi presiedeva alla difesa del regime erano le cosiddette "Forze di Sicurezza", cioe' reparti di e'lite, ben armati ed addestrati ma soprattutto composti da uomini di specchiata fedelta' al regime (quindi con un reclutamento incentrato su base tribale) che ovviamente, bypassando ogni eventuale dipendenza gerarchica, rispondevano del loro operato direttamente a Gheddafi.

Nel particolare, c'era la Guardia Repubblicana (circa 3000 uomini equipaggiati con carri armati, sistemi missilistici e semoventi, articolati su 2 brigate, una a Tripoli e una a Benghazi), le Forze di deterrenza (dedicate alla difesa delle installazioni sensibili, soprattutto nell'area della capitale), il 9^ reggimento (dislocato a Tripoli e dotato di sistemi d'arma meccanizzati e di controcarri), le unita' di sicurezza (battaglioni di fanteria leggera incaricati di garantire la sicurezza durante gli eventi in cui partecipava Gheddafi), la 32^ Brigata (di circa 10.000 uomini) comandata dal figlio di Gheddafi, il capitano Khamis Muammar al Gheddafi (poi presumibilmente morto in combattimento il 29 agosto 2011). Un totale di 15.000/18.000 uomini, tutti volontari, su un Esercito a coscrizione obbligatoria (denominato "popolo in armi") di circa 60/70.000 effettivi a cui aggiungere circa 6/8.000 uomini della Marina, 6/8.000 dell'Aeronautica e 12/15.000 della Difesa Aerea. A queste forze in armi bisognava comunque aggiungere circa 12.000 della Polizia, le guardie confinarie, la guardia costiera (poi inglobata nella Marina). Quindi altri 25/30.000 uomini che comunque, a diverso grado di fedelta', potevano sostenere il regime.

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IL SISTEMA ISTITUZIONALE

Nel dicembre del 1969, a tre mesi dalla rivoluzione, la Libia emanava una nuova Costituzione basata su 37 articoli che delineavano i nuovi principi ispiratori del nuovo regime (panarabismo, anti-imperialismo, nazionalismo). Si introduceva il principio generale del potere al popolo, si indicava l'Islam come religione di Stato, la solidarieta' sociale, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il diritto al lavoro, l'istruzione obbligatoria gratuita, la famiglia come elemento fondante della societa', il diritto all'assistenza sanitaria, la liberta' di opinione (naturalmente nei "limiti" del pubblico interesse e dei principi rivoluzionari), un sistema economico di tipo socialista (preminente proprieta' pubblica, proprieta' privata tollerata solo se non configurante un sistema di sfruttamento e intervento diretto dello Stato con pianificazione centralizzata ed espropri per pubblica utilita'). Si introduceva anche l'idea di una riunione delle masse arabe, ora divise dalle artificiose frontiere post- colonialiste, in quella visione utopica che negli anni ha sempre contraddistinto le iniziative internazionali di Gheddafi.

Il 2 marzo del 1977 venne invece promulgata una Dichiarazione sulla "Istituzione dell'autorita' al popolo" che introduceva due principi fondamentali : l'autorita' spetta al popolo (quindi potere alle masse), la democrazia diretta e' considerata l'unica forma di gestione della cosa pubblica. Da entrambe queste due premesse venne poi articolato il sistema dei Congressi e dei Comitati che gia' era stato delineato nel Libro Verde di Gheddafi del 1973 come unica soluzione del problema della democrazia.

La Dichiarazione del 1977 specificava (art. 3) che il potere del popolo doveva essere esercitato attraverso i Congressi Popolari, sindacati, federazioni, le unioni, le associazioni professionali ed il Congresso generale del Popolo. Nella pratica si creava un sistema piramidale di aggregazione e di partecipazione popolare a vari livelli partendo da Congressi popolari di base (con una loro segreteria e un comitato popolare di base come organi esecutivi) fino ad arrivare, attraverso organismi territoriali similari, al Congresso Generale del Popolo (alias Parlamento, organismo unicamerale composto da 760 persone con mandato annuale), un Segretario del Congresso Generale del Popolo (alias Presidente del Parlamento) ed a un Comitato Generale del Popolo (alias Governo) presieduto da un Segretario del Comitato generale (alias Primo Ministro) e composto da tanti Comitati generali del popolo (quanti i ministeri di volta in volta designati).

Una struttura piramidale che partiva dai quartieri ("mehallat", circa1.500), ai Comuni (oltre 400), ai distretti (Sha'biyah, 32 in totale) per arrivare al vertice politico del Paese. Quindi un coinvolgimento, sia spontaneo che forzato, di un'enorme massa di persone a fronte di una popolazione alquanto limitata (6.173.579 secondo i dati del 2008) e di un territorio enorme (1.759.540 kmq).

Con questa struttura capillarmente presente su tutto il territorio Gheddafi aveva l'opportunita' non solo di rendere operante la trasmissione del consenso, ma soprattutto di monitorare eventuali apparizioni di dissenso. Nessun partito era autorizzato ad operare nel Paese.

Il sistema istituzionale della Libia (la Grande Jamahiriya Araba Popolare Socialista come andra' chiamarsi ufficialmente dal 1977) non prevedeva la carica di Capo dello Stato, incarico comunque assolto "indirettamente" da Gheddafi nel suo ruolo di "Leader Supremo della Rivoluzione del

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Grande Fatah".

Dopo il tentato colpo di Stato dell'ottobre 1993 ed in occasione del 25ennale della Rivoluzione (1 settembre 1994), Gheddafi aveva inoltre annunciato la creazione delle "Guide sociali popolari libiche". Guidate da un generale, formate da elementi influenti di varie kabile fortemente fedeli al Colonnello, in ogni distretto (sha'biyah) svolgevano la funzione di "controllo" del tessuto sociale. Si trattava in pratica di una ennesima misura messa in opera dal regime per controllare la popolazione attraverso l'inserimento del sistema tribale nel complesso sistema amministrativo libico.

LA MATHABA

Nel 1982 Gheddafi aveva deciso la costituzione di un nuovo organismo denominato "Mathaba" (in arabo "Ritrovo" o "Riunione") con lo scopo di creare un collegamento diretto tra la Jamahiriya e vari movimenti rivoluzionari mondiali, nonche' provvedere al loro sostentamento ideologico e finanziario. La Mathaba era anche etichettato come "Centro mondiale contro l'imperialismo, il sionismo, il razzismo ed il fascismo". Non casualmente, la fondazione della Mathaba era avvenuta in simultaneita' con altri Paesi co-fondatori : la Siria e l'Iran.

Questa struttura operava autonomamente all'interno del Ministero degli Affari esteri con un legame diretto con l'External Security Service (sul piano operativo) e con "l'Ufficio per l'esportazione della Rivoluzione" (preposto alla diffusione del Libro Verde) sul piano ideologico. I suoi uomini erano dislocati nelle sedi diplomatiche estere con funzioni di "commissari politici". Erano dedicati anche alla ricerca ed eliminazione degli oppositori all'estero.

Emanazione della Mathaba era stata la costituzione di una "Forza combattente rivoluzionaria" da cui poi prendera' corpo l'idea della "Legione Islamica". Nel settembre del 1989, in occasione del ventennale della Rivoluzione libica, era stato creato un reparto paramilitare denominato "Guardia della Mathaba" composto da 4/500 individui appartenenti a movimenti stranieri, ma affiliati all'organizzazione libica. La Mathaba poi era diventata nel tempo strumento essenziale di finanziamento dei movimenti rivoluzionari stranieri in tutto il mondo (E.T.A. spagnola; I.R.A. irlandese; Poder Popular in Argentina; la sinistra rivoluzionaria in tutta l'America latina in chiave anti-statunitense; le minoranze musulmane in Guyana, Suriname e Trinidad Tobago; la A.N.C. sudafricana, l'M.P.L.A. angolano ; la SWAPO namibiana ; il FRELIMO mozambicano etc). Era quindi un veicolo di penetrazione e di ingerenza ideologica a livello mondiale, ma anche strumento di repressione e controllo del regime.

I COMITATI RIVOLUZIONARI

Una nuova serie di strutture di supporto al regime furono create nel 1977 con la denominazione di "Comitati Rivoluzionari" che, almeno nell'idea originaria, dovevano servire a diffondere le idee del Libro Verde realizzando la rivoluzione prefigurata da Gheddafi monitorando organismi statali, scuole, istituzioni, gli stessi congressi e comitati popolari, le Forze Armate e facendo, nel contempo, opera di proselitismo.

I Comitati erano i cultori dell'ortodossia del regime, contro forme di tribalismo, ideologie reazionarie o straniere, opposizione. Composti in prevalenza da giovani, su aggregazione piu' o meno spontanea , nel tempo si sono evoluti da strumento di sostegno e proselitismo politico in

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strumento di intimidazione e repressione. Braccio armato del regime, implicati anche nell'eliminazione degli oppositori all'estero, il loro potere e' diventato sempre piu' esteso e sempre meno controllato parallelamente ad una escalation di abusi e soprusi.

Negli anni '80 la loro consistenza numerica era sull'ordine di qualche migliaio di uomini; ultimamente - dati ufficiali del regime al riguardo - erano circa 30.000. I Comitati Rivoluzionari rispondevano del loro operato direttamente a Gheddafi e nel tempo si erano inseriti anche nel sistema giudiziario, creando i cosiddetti Tribunali Rivoluzionari.

Fra il 1987 ed il 1988 il loro approccio troppo invasivo nel sistema sociale libico aveva consigliato il Rais a ridimensionarne il potere facendo transitare parte della loro attivita' sotto il controllo di un neo-organismo denominato "Segretariato per la mobilitazione di massa e la leadership rivoluzionaria". Anche il loro attivismo all'interno delle strutture di sicurezza e polizia veniva ridimensionato. Ma comunque, nonostante alti o bassi del loro potere, i Comitati Rivoluzionari rimanevano uno strumento in mano al regime da attivare in caso di necessita'. Nella ultima guerra civile hanno combattuto fino all'ultimo a fianco dei reparti lealisti, come entita' paramilitari macchiandosi spesso di episodi brutali.

IL RUOLO DELLA FAMIGLIA

Oltre agli storici compagni del Comando del Consiglio Rivoluzionario (Kweldi al Hameidi, Mustafa al Kharroubi, Abu Bakr Youni) che garantivano a Gheddafi un sostegno fattivo nell'esercizio del potere (ovviamente in regime di reciprocita' e complicita'), il Rais, che ufficialmente non rivestiva alcun potere istituzionale, poteva contare sui membri della sua famiglia come strumenti operativi delle sue volonta'. I suoi familiari erano quindi parte integrante del sistema e del suo potere personale.

Gheddafi aveva 8 figli di cui 7 maschi e 1 femmina.

Il piu' vecchio era Mohammed, figlio della prima moglie di Gheddafi (Khaled Nuri Fateya) da cui il leader aveva divorziato e per questo non aveva ruoli politici di prestigio. Ingegnere, considerato un ottimo uomo d'affari, esercitava la sua attivita' principale nel settore delle telecomunicazioni. Oltre allo strategico ruolo delle telecomunicazioni e dei collegamenti internet , il personaggio era comunque elemento di contatto tra il regime e la classe imprenditoriale libica. Lui stesso aveva sposato una ex compagna di universita', figlia di commercianti.

Seif al Islam era il primo figlio maschio della seconda (ed ultima) moglie di Gheddafi e quindi, nella tradizione araba, era in pectore l'erede diretto del potere del padre. Su di lui si erano accentrati piu' volte gli interessi degli analisti internazionali per individuarne il potere, le idee, le iniziative. Presidente della "Gheddafi Charity Organization and Development Foundation" si era distinto per iniziative di carattere umanitario nel mondo al fine di accentuarne la statura internazionale e, nel contempo, con analoghe iniziative in ambito nazionale operava per disinnescare malumori sociali (vedasi i contatti con i parenti delle vittime di Abu Salim, i contatti con le N.G.O. internazionali per la questione dei diritti umani, le trattative con i ex terroristi detenuti del gruppo Islamico Combattente Libico). Nel campo politico professava idee alquanto riformiste ed innovative (Costituzione, democrazia, diritti umani), ma "pericolose" incontrando spesso l'opposizione piu' o meno latente da parte di altri personaggi del regime. Laureato in Architettura, un master a Vienna in

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International Management, ha recitato nella parte finale del regime fino alla morte del padre il ruolo che gli competeva come primo figlio maschio. Da politico (negli ultimi tempi, per dargli maggiori ruoli politici, era stato creato giuridicamente un nuovo organismo denominato "Consiglio per la Guida Sociale e Popolare" che lui doveva presiedere e che avrebbe dovuto presiedere a tutte le iniziative politiche del Paese) e' dovuto diventare militare ed e' stato poi - forse ingiustamente - indiziato per crimini contro l'umanita' presso il Tribunale Internazionale de L'Aia. Sicuramente, in questo tipo di accuse, paga piu' per il suo ruolo di delfino che non per i suoi presunti misfatti.

Mutassim al Billah per anzianita' anagrafica veniva dopo Seif Al Islam ed al fratello aveva cercato anche di contendere il ruolo di erede principale del padre. Presiedeva il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ed in tale veste recitava un incarico di spessore nell'ambito della sicurezza. Quindi, rispetto al fratello "politico", lui era il fratello "operativo". Forse anche per questo, dopo la cattura, e' stato subito eliminato.

I due fratelli maschi meno anziani, Saadi e Hannibal, erano quelli che piu' che un sostegno al regime, creavano problemi alla famiglia. Saadi aveva il grado di Colonnello e un qualche non meglio specificato incarico militare (veniva accreditato del comando di una "Joint Special Force" composta da militari dell'Esercito/Marina/Aviazione di cui non era nota l'operativita'). La sua notorieta' era legata soprattutto alla sue velleita' calcistiche. Aveva pero' il "pregio", ai fini della sostenibilita' del regime, di aver sposato la figlia di Kweldi al Hameidi, membro del Comando del Consiglio Rivoluzionario. Un matrimonio (peraltro abbastanza tribolato), ma che garantiva una saldatura fra i personaggi di potere del regime. Hannibal, al contrario, era famoso solo per le intemperanze di cui rendeva si protagonista in patria e all'estero. Al riguardo basta ricordare la storia degli ostaggi svizzeri, iniziativa di ritorsione del regime per il suo arresto in Svizzera. (*)

Aisha Muammar era l'unica figlia femmina del Rais ed era molto legata al padre. Come avvocato aveva partecipato al collegio difensivo di Saddam Hussein. Personaggio dal carattere forte e combattivo, emancipata, dedita anche a iniziative umanitarie, assicurava al regime un sostegno indiretto nel mondo femminile.

Seif Al Arab era un figlio dal ruolo alquanto defilato nell'ambito della famiglia. Non gli si accreditava alcun ruolo nel sistema di potere della famiglia. E' stato il primo dei figli a morire nella guerra civile, in silenzio e nell'ombra come praticamente aveva sempre vissuto.

Khamis era invece il figlio "militare" per eccellenza nell'ambito della famiglia. Il piu' importante sotto questo aspetto. Comandava una Brigata di fedelissimi, la piu' efficiente dell'Esercito, che garantiva la sicurezza del regime. Come peraltro prevedibile, Khamis morira' (almeno finche' questa notizia non trovera' elementi sostanziali di smentita) nel corso di una operazione militare.

LA NEMESI DI UN REGIME

Il potere di Gheddafi aveva i suoi punti di forza in questo insieme di elementi e strutture che ne assicuravano la solidita' e la continuita'. Tale potere non avrebbe potuto durare oltre 42 anni se non fosse stato cosi'. Dopo la morte del dittatore nord-coreano Kim II Sung e di Omar Bongo del Gabon, nelle statistiche del settore Gheddafi era il dittatore piu' longevo in servizio attivo.

Nella cosiddetta "primavera araba" che ha travolto alcuni Paesi del Nord Africa e del Medio

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Oriente, la Libia avrebbe sicuramente mantenuto il suo regime se non fossero avvenute circostanze negative nei Paesi limitrofi (e quindi con le conseguenze di un effetto domino di natura esogena), ma soprattutto se non fossero intervenute forze militari straniere a supporto dei rivoltosi. L'andamento della guerra ha ampiamente dimostrato che Gheddafi aveva comunque sostegno popolare (anche attraverso le kabile) e una conseguente forza militare.

Il limite del regime, per quanto sanguinario come quello di Gheddafi, e' stato nella difficolta' di essere flessibile, di accettare nuove situazioni e/o di saperle affrontare. Un parametro ricorrente a tutte le dittature dove prevale la logica della forza e della repressione a scapito del consenso.

Nel caso libico questa circostanza era aggravata dal fatto che Gheddafi aveva per se' e per il suo ruolo un approccio messianico. Non poteva accettare che il suo popolo non si riconoscesse in lui. E questo e' anche dimostrato dal fatto che Gheddafi non e' scappato davanti ad una sconfitta certa, e' stato tra la sua gente fino alla fine, ha preferito il martirio al disonore, ha mostrato stupore di fronte al rancore dei suoi aggressori che lo catturavano e lo stavano uccidendo.

Gheddafi si sentiva latore di un messaggio e un ruolo universale anche nel contesto internazionale. Il suo filo-nasserismo iniziale, il panarabismo di molti anni, fino all'africanismo finale e al suo procurato titolo di "Re dei Re" da parte di vari capi tribu' africani, viaggiavano sulla stessa considerazione di se' stesso e conseguente approccio.

Gheddafi non era un personaggio da operetta come talvolta veniva descritto per le sue stravaganze comportamentali o l'eccentricita' dei suoi abbigliamenti.

Aveva l'acume del beduino, sapeva fiutare situazioni e pericoli. Per questo, nella sua gestione del potere, e' passato attraverso posizioni diverse, talvolta etichettate come imprevedibili o istrioniche, ma sempre motivate dalla sopravvivenza del regime. E' stato terrorista e rivoluzionario, ma ha anche combattuto il terrorismo. E' stato anti-americano a corrente alternata, laico e poi fondamentalista islamico e poi islamico moderato. Ha accarezzato il sogno di una bomba nucleare e poi se ne e' dissociato, ha fatto ammazzare i suoi oppositori all'estero e poi - nella parte finale del suo regno - li ha perdonati. Ha combattuto i Fratelli Musulmani e poi li ha amnistiati, ha combattuto contro il Gruppo Islamico Combattente libico e poi li ha graziati e liberati. E' stato tutto ed il contrario di tutto. E' stato un dittatore, ma anche un fine politico. Sicuramente un personaggio scomodo, anche per l'Italia, che si e' dovuta spesso confrontare tra preminenti interessi economici e relazioni bilaterali difficili.

La sua scomparsa non pone, il linea di principio, problemi etici di rilievo. Un dittatore che scompare puo' teoricamente migliorare il mondo. Affermazione di per se' ancora piu' valida se fosse in essere un sistema internazionale di giustizia sociale che intervenisse con equita' di fronte ai vari dittatori del mondo (il caso della Siria dimostra che cosi' non e').

LA LIBIA DI OGGI

Un Gheddafi morto lascia pero' dietro di se' un Paese ancora dilaniato da divisioni e prevaricazioni. La Libia di oggi ha gli stessi limiti della dittatura precedente (violazione dei diritti umani, soprusi, abusi) con l'aggiunta di un altro valore negativo: la mancata stabilita' sociale che, anche in modo forzato, Gheddafi assicurava. Nella pratica, la Libia di oggi non sta meglio di quella di ieri.

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Nell'ultimo periodo del regime di Gheddafi, i detenuti politici erano circa 600. Oggi le persone incarcerate dopo la guerra risulterebbero essere molte di piu'.

Si puo' arguire sul valore aggiunto di una dittatura che non c'e' piu', ma in una popolazione che non ha mai goduto nella sua storia di un periodo democratico, questo valore potrebbe risultare ininfluente. Il rischio e' che la Libia possa adesso transitare da una dittatura ad un altro regime autoritario. Ed e' una circostanza fortemente probabile.

Inoltre, una Libia socialmente instabile, come oggi lo e', crea spazi operativi al terrorismo che si giustifica nel fondamentalismo islamico. L'uccisione dell'ambasciatore americano, Chris Stevens, l'11 settembre a Benghazi da parte di membri di "'Ansar al Sharia" lo dimostra ampiamente.

Ad oltre un anno dalla morte di Gheddafi, le milizie armate che hanno combattuto il regime continuano ad operare indisturbate senza aderire, come richiesto dal governo, alla smobilitazione. Ogni milizia, inoltre, tende a rappresentare gli interessi delle kabile di riferimento e quindi ad inficiare la coesione sociale che ai tempi di Gheddafi, magari in modo magari irrituale, era comunque garantita. Nel gioco delle vendette incrociate ed in applicazione di quella legge del taglione tanto diffusa nelle popolazioni beduine della regione, continuano ad essere perpetrati abusi e spargimenti di sangue incrociati.

Questo fa si' che le kabile piu' esposte nel difendere il regime del Rais siano adesso ancora ostili al cambiamento non trovando spazio per una riconciliazione nazionale. Il caso recente di Bani Walid, abitata prevalentemente dai Warfalla ed ancora fuori del controllo governativo e oggetto di un attacco militare negli ultimi giorni, lo dimostra.

La corruzione - elemento sfruttato ad hoc da Gheddafi come elemento aggiuntivo di coesione sociale - rimane oggi un fenomeno ampiamente diffuso per arricchimenti illeciti. Dei beni della Libyan Investiments Authority, ente dedicato agli investimenti esteri del regime con un capitale stimato di oltre 60 miliardi di dollari, si e' persa ampia traccia ora che la gestione e' passata in mano alle nuove autorita'. Si litiga sulla creazione di un sistema federale, ma soprattutto sulla spartizione dei proventi petroliferi tra regioni. In ultima analisi, nella Libia di oggi prevale il caos sociale e finanziario, la diffusione del fondamentalismo militante e sovversivo, mancanza di sicurezza, una societa' divisa e contrapposta.

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(*) 15 luglio 2008 : Hannibal e la moglie Alina risiedono in un albergo di Ginevra. Due domestici alle loro dipendenze si recano alla Polizia per denunciare maltrattamenti. Quando i poliziotti si recano in albergo vengono aggrediti dai coniugi Gheddafi e dalle loro guardie del corpo (queste ultime armate con armi non denunciate all'arrivo in Svizzera). Dopo alcune collutazioni, Hannibal e moglie vengono arrestati. Il giorno dopo verranno rilasciati su cauzione. Per Gheddafi padre l'evento e' considerato un affronto. Ne sortira' una crisi tra Tripoli e Berna che durera' oltre 2 anni.

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TUNISIA: ANALISI DI UN BUON ESEMPIO

La rivolta tunisina nasce per caso il 17 dicembre 2010. Un venditore abusivo di verdure, Mohamed Bouazizi, si vede sequestrare dalla Polizia le sue mercanzie. Non e' la prima volta che capita. Ma questa e' l'unica sua fonte di reddito. Ha un diploma, vorrebbe o potrebbe fare lavori piu' qualificanti, ma la disoccupazione, soprattutto giovanile, che affligge il suo Paese non gli permette alternative. E' esasperato. Si reca davanti al governatorato di Sidi Bouzid e si da' fuoco. E' la scintilla che fa scattare la rivolta contro il regime. La rabbia della popolazione si propaga in altre zone: Kasserine, Jendouba e arriva fino a Tunisi.

Il Presidente Zine el Abidine Ben Ali, ex Capo dei Servizi segreti, era salito al potere come Presidente dal 7 novembre 1987. Un colpo di Stato aveva defenestrato due anni prima Habib Bourghiba, il fondatore della patria (con lui la Tunisia era riuscita ad ottenere l'indipendenza dalla Francia il 25 marzo 1956) oramai malato e colpito da primi sintomi di demenza senile. Ben Ali affronta inizialmente la rivolta con minacce di intervento armato, accusa i mass media stranieri, promette dure sanzioni ai rivoltosi. Lo fa comparendo piu' volte alla televisione di Stato dove lancia proclami e moniti.

Ben Ali ha sempre gestito il suo potere in modo assoluto, come ogni dittatore, e con mano pesante. Ha nel tempo represso ogni forma di dissidenza e di opposizione. Non conosce nel suo repertorio altri metodi per affrontare la piazza. Il suo maggiore oppositore, Rashid Ghannouchi, un islamico gia' condannato a morte da Bourghiba (per un presunto tentativo di colpo di stato) e poi graziato, fondatore di un partito poi messo all'indice, era stato costretto a scappare e a vivere in esilio a Londra.

Ben Ali si era cosi' assicurato le benemerenze del mondo occidentale per aver combattuto il fondamentalismo islamico, mentre nessuno poneva la dovuta attenzione agli abusi del suo regime e, nel contempo, si curava del fatto che il Presidente governasse il suo Paese con i metodi tipici di una dittatura. Ben Ali aveva peraltro frequentato corsi militari in Francia (scuola di artiglieria a Chalon sur Marne), scuole militari e di intelligence negli U.S.A. (Scuola di artiglieria contraerea in Texas, corso di senior intelligence in Maryland), era arrivato al potere con la benedizione ed il sostegno del governo italiano (Primo Ministro Craxi, capo del SISMI, l'Ammiraglio Fulvio Martini), aveva fatto l'addetto militare in Marocco e Spagna, era stato ambasciatore in Polonia. Era, nei fatti, una garanzia.

Ben Ali era quindi un tiranno odiato dalla sua gente. Peggio di lui faceva la moglie, Leila Trabelsi, che godeva di una pessima reputazione. Il suo clan familiare era accusato di corruzione e di appropriazione di fondi pubblici. Proveniente da una famiglia di basso lignaggio (Leila esercitava la professione di parrucchiera prima di incontrare Ben Ali e di sposarlo nel 1992), cultura alquanto limitata, con il matrimonio la sua famiglia si era da subito dedicata all'arricchimento piu' o meno lecito. Circondata da 10 tra fratelli e sorelle, non c'era affare di particolare appetibilita' finanziaria che non passasse per i Trabelsi. Lei stessa ostentava una vita lussuosa ed atteggiamenti sprezzanti. La forte differenza di eta' (lui nato nel settembre del 1936; lei nell'ottobre del 1956) rendeva particolarmente efficace la sua presa ed influenza sulle decisioni del marito.

Dopo le minacce contro i manifestanti, rendendosi conto dell'ampiezza e determinazione della protesta, Ben Ali ricompare in televisione utilizzando toni piu' moderati. Promette riforme

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istituzionali, maggiori liberta' individuali, l'utilizzo di internet senza restrizioni, ma soprattutto promette di non ricandidarsi nel 2014 (con una riforma costituzionale del 2002 il suo mandato poteva essere rinnovato - senza limiti temporali – all'infinito).

Ma le sue profferte non servono a niente e le proteste continuano: il 14 gennaio 2011 con la moglie e tre figli se ne scappa in Arabia Saudita. Aveva inizialmente tentato di ottenere il diritto di asilo in Francia, ma gli era stato rifiutato. Lascia dietro di se' un'ondata di violenze che in meno di un mese aveva causato circa 200/250 morti tra i manifestanti disarmati nelle strade.

Ma la sua partenza non pone fine alla repressione: le milizie fedeli al regime continueranno a sparare causando morti, feriti e dedicandosi con sistematicita' ad abusi e torture.

Il 15 gennaio Fouad Mebazaa, un vecchio personaggio legato soprattutto alla lotta per l'indipendenza ed al periodo di Bourghiba con lungo pedigree di incarichi ministeriali e diplomatici, viene nominato Presidente della Repubblica ad interim (incarico che manterra' fino al 12 dicembre 2011).

Il 17 gennaio 2011 viene formato un governo di unita' nazionale che comprende personaggi del vecchio regime ed esponenti dell'opposizione. L'esperimento non ha successo: 5 ministri presentano subito le dimissioni.

Nel Paese continua l'opera di smantellamento del vecchio regime: spariscono i ritratti dell'ex presidente dalle strade, la televisione di stato cambia nome (la "Tunisie 7" - il numero ricordava la data della sua presa di potere - diventa adesso solo "Television Tunisie'nne" ), i nomi toponomastici delle strade associati al dittatore vengono cambiati.

Il 30 gennaio tornera' in patria Rachid Ghannouci dopo un esilio durato 22 anni passato tra Algeri e Londra. Una folla acclamante lo aspetta all'aeroporto.

Le autorita' tunisine spiccano un mandato internazionale di arresto per Ben Ali e sua moglie. Le accuse: alto tradimento, riciclaggio, appropriazione indebita dei beni dello Stato. Ben Ali viene accusato di avere trasferito all'estero fondi, nonche' aver effettuato investimenti immobiliari, per una cifra intorno ai 5 miliardi di euro durante i 23 anni del suo mandato presidenziale.

Il "Rassemblement Costitutionnel democratique" (R.C.D.), partito di regime (erede del vecchio Partito Desturiano Socialista di Bourghiba), viene sospeso il 6 febbraio 2011 e poi sciolto il mese successivo (9 marzo).

La situazione sociale rimane ancora molto critica, molti giovani tunisini tentano l'immigrazione clandestina, via mare, verso l'Italia. Il 27 febbraio incominciano ad arrivare ondate di clandestini a Lampedusa a bordo di natanti partiti dalla Tunisia, un esodo che fa proclamare all'Italia lo stato di emergenza umanitaria.

Le manifestazioni per le strade non si placano ed il Primo Ministro Mohamed Ghannouchi rassegna le dimissioni sempre il 27 febbraio (moriranno quel giorno 5 manifestanti). Personaggio del vecchio regime, membro dell'R.C.D. (partito da cui si dimettera' nel gennaio 2011), piu' volte ministro sotto Ben Ali (Ministro delle Finanze dal 1989 al 1992 per poi passare, fino al 1999, alla

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guida del dicastero della Cooperazione internazionale e degli Investimenti esteri e con una successiva parentesi come Premier) era stato incaricato, dopo la fuga di Ben Ali, di guidare (affiancato da un direttorio di 6 persone) la transizione democratica e la pacificazione nazionale. Ma il personaggio non e' gradito alla gente, troppo compromesso con il vecchio regime, etichettato, a livello popolare, come " M. Oui Oui" per la sua acquiescenza verso il dittatore.

Al suo posto subentra Beji Caid Essebsi, un anziano avvocato (nato nel 1926) ed uno dei primi consiglieri di Buorghiba, piu' volte ministro (Ministro dell'Interno dal 1965 al 1969, Ministro degli Esteri dal 1981 al 1986) e Presidente del Parlamento (1990/1991). Dopo il colpo di Stato di Ben Ali era stato ambasciatore in Germania e nel 1994 aveva abbandonato il Parlamento per ritirarsi a vita privata. Il tentativo e' sempre lo stesso: facilitare una transizione democratica nel Paese. Ed il personaggio, proprio perche' meno legato al passato regime, risulta piu' gradito alla popolazione.

Il 3 marzo 2011 il Presidente Mebazaa ufficializza la tenuta delle elezioni parlamentari per la nomina di un'Assemblea costituente (composta da 217 membri) da tenersi il 24 luglio. Ma questa data verra' poi spostata al 23 ottobre per delle difficolta' nella compilazione delle liste elettorali.

Il 20 giugno 2011 Ben Ali e la moglie Leila, dopo un processo alquanto sommario basato su un vecchio codice tunisino e senza possibilita' di difesa da parte degli imputati, ricevono una prima condanna in contumacia a 35 anni per furto e appropriazione indebita di soldi e gioielli. Altri processi paralleli si svolgeranno nei confronti di altri personaggi della famiglia Trabelsi, anche se, in contemporanea con la fuga di Ben Ali, molti familiari di Leila erano gia' scappati all'estero (Francia, Qatar, Arabia Saudita, Canada). Alla fine Ben Ali assommera' in totale 66 anni di carcere dopo ulteriori provvedimenti giudiziari. La moglie viene nel frattempo accreditata di un tentativo di suicidio.

Intanto proseguono sempre le manifestazioni e le proteste con ininterrotta intensita': il 17 luglio 2011 vengono attaccati edifici pubblici e stazioni di polizia: 4 agenti rimangono feriti. Il giorno dopo un bambino di 14 anni rimarra' ucciso da un colpo vagante nei pressi di Sidi Bouzid dopo ripetuti scontri tra la polizia ed i manifestanti.

Una grossa manifestazione avverra' l'8 agosto 2011 per impedire ai dirigenti del vecchio regime di rientrare in politica ed il 2 settembre viene imposto il coprifuoco in diverse aree del Paese a seguito di continui scontri e proteste. Una ragazzina di 17 anni morira' e ci saranno svariati feriti.

Ma nonostante tutto il processo di democratizzazione va avanti. Il 23 ottobre 2011 si tengono le elezioni per l'Assemblea costituente con una forte partecipazione popolare. Votera' oltre il 90% degli aventi diritto. E' il primo frutto di un risveglio sociale abbinato al desiderio di cambiamento. Era dal 1956 che non si votava nel Paese.

Le elezioni avverranno con la presenza di 500 osservatori stranieri, le accuse di brogli sono limitate e quindi la circostanza conferma sostanzialmente la regolarita' delle votazioni. I parlamentari vengono eletti con il sistema proporzionale.

Vince il partito islamico moderato di Ghannouchi Ennahda ("la rinascita") che con oltre 1.500.000 preferenze su oltre 4 milioni di votanti ottiene 89 seggi su 217. Seguiranno:

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Il "Congresso per la Repubblica", un partito laico di centro-sinistra, con 29 seggi

La "Petizione Popolare per la liberta', la giustizia e lo sviluppo" (Aridha Chaabia in arabo), una formazione populista creata solo qualche mese prima da un uomo d'affari residente a Londra che otterra' 27 seggi (poi ridotti a 19 per irregolarita' finanziarie)

Il "Foro Democratico per il lavoro e le liberta'" (Ettakatol) di ispirazione socialdemocratica che avra' 20 seggi

Infine si piazza con 16 seggi il "Partito Democratico Progressista" (formazione laica di centro) poi una serie di formazioni minori.

Il 22 novembre 2011 i 3 maggiori partiti si accordano sulla spartizione degli incarichi: Hamadi Jebali di Ennahda diventa Primo Ministro, Moncef Marzouki del Congresso per la Repubblica diventa Presidente della Repubblica e Mustafa ben Jaafar dell'Ettakatol viene nominato Presidente dell'Assemblea costituente. Aderiranno al governo anche alcuni indipendenti.

Rimangono pero' ancora da risolvere i grossi problemi che affliggono il Paese: corruzione, disoccupazione, ordine pubblico. Manifestazioni e contro-manifestazioni si susseguono per le strade di Tunisi. L'Assemblea costituente il 10 dicembre 2011 adotta una Costituzione provvisoria ("legge sull'organizzazione provvisoria dei poteri pubblici") e due giorni dopo Marzouki viene confermato come primo Presidente eletto del Paese. Quest'ultimo dara' mandato a Ennahda, nella persona di Hamadi Jebali, di formare entro 3 settimane un nuovo governo. Il primo febbraio 2012 Habib Khedher verra' nominato responsabile per la redazione della nuova Costituzione ed il 14 febbraio 2012 saranno poi nominate 6 Commissioni proprio per questa incombenza.

LA SITUAZIONE ATTUALE

Il processo di democratizzazione della Tunisia non si e' ancora completato. Non si e' completata la riforma costituzionale che procede in modo accidentato ogni qual volta si cerca di limitarne l'approccio libertario con l'inclusione di norme islamiche (un emendamento di Ennadha di introdurre la Sharia il 3 marzo poi ritirato il 26 marzo, una proposta che attribuisce alla donna un ruolo complementare a quello dell'uomo presentata il 6 agosto e poi ritirata sull'onda di proteste il 28 settembre).

Non sono neanche finite le manifestazioni e proteste che ciclicamente si verificano nel Paese perche' non e' stata superata la crisi economica che comporta alti tassi di disoccupazione, specie giovanile. Fenomeni sociali come la corruzione non sono stati ancora debellati.

Allora viene ovvio domandarsi dove possono trovarsi quegli elementi positivi che fanno sperare che il caso Tunisia sia comunque da considerarsi uno degli esempi piu' riusciti della Primavera Araba.

Intanto vale sottolineare che ogni trapasso tra una dittatura ed una nascente democrazia non e' mai indolore. C'e' chi vince e chi perde, c'e' un potere che si trasferisce in mani diverse, equilibri e rapporti di forza che cambiano, gli abusi che vengono perpetrati da chi non hai mai goduto di liberta' e non ne apprezza i limiti, istituzioni e strutture statali che collassano e che non trovano subito adeguato rimpiazzo, caos sociale. Da tutto questo non se ne esce se non dopo un adeguato

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periodo di transizione perche' le modifiche in essere non riguardano solo le strutture, le formule politiche, gli apparati dello Stato, ma anche gli uomini che sono preposti a realizzarle.

Ci sono uomini che passano da relazioni e comportamenti sociali in un contesto autoritario e dispotico ad un'altra modalita' di inter-relazioni basate sul consenso, sull'importanza dell'opinione pubblica, sul non-uso della forza e sul dialogo. Poi ci sono uomini che vengono da fuori, che nella vita precedente avevano recitato un ruolo di opposizione illegale, sono portatori di nuove esperienze, che adesso si confrontano con nuove responsabilita'. Ed e', senza andare lontano, il caso di Rashid Ghannouci.

La strada che porta alla democrazia e' sempre lunga, segue percorsi tortuosi perche' non solo deve cambiare le cose, ma deve anche cambiare le menti. Ed un'elezione popolare nel 2011, la seconda dopo oltre 55 anni, non puo' costituire elemento probante di un comune denominatore della politica di un Paese, ma deve essere significativa proprio come evento in se' stesso. Occorre il tempo perche' anche il senso civico degli aventi causa faccia il suo corso.

Fatta questa premessa e' bene sottolineare quel che di positivo si ritiene ci sia nell'esperienza tunisina:

il caso Ghannouci

la sua prima esperienza politica la fa sotto Bourghiba. Fonda un partito di ispirazione islamica nel 1981 dopo precedenti infatuazioni politiche per il nasserismo il "Movimento di Tendenza Islamica" (Harakat al Ittijad al islami ). Viene arrestato e condannato a 7 anni di prigione. Viene liberato nel 1984 e arrestato nuovamente nel 1987. Questa volta la condanna e' a vita per un presunto tentativo di colpo di Stato. Torna in liberta' con l'avvento di Ben Ali e fonda Ennahda, ma dopo pochi anni e' costretto a rifugiarsi all'estero. Viene accusato dalle autorita' tunisine di essere a capo di una formazione terroristica e come tale viene considerato in buona parte del mondo occidentale.

Ha un curriculum che potrebbe portarlo, dopo il suo rientro in patria, ad un atteggiamento di rivalsa verso il regime e/o l'Occidente ed a posizioni estremistiche sia in politica che nella religione. Non lo fara' nemmeno di fronte ad un risultato elettorale che non solo lo legittima alla guida del Paese, ma gli concederebbe il potere politico per farlo. Da simbolo della resistenza alla dittatura, diventa invece uomo del dialogo. Si accorda subito con altri partiti laici dell'Assemblea per favorire una transizione democratica nel Paese. Non si oppone neanche, nel primo periodo delle rivolte, affinche' personaggi alquanto collusi col precedente regime occupino temporaneamente incarichi pubblici. Il suo Islam politico e' moderato. Predica la tolleranza e lo dimostrera' quando nella commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione si votera' per il mantenimento dell'articolo 1 cosi' come era stato formulato da Bourghiba nel 1959: " La Tunisia e' uno Stato libero, sovrano, che ha l'Islam come religione di Stato, l'arabo come lingua ufficiale ed e' una repubblica" (in realta' un tentativo abortito di introdurre la Sharia da parte di Ennadha c'era stato, come precedentemente segnalato, soprattutto per coprirsi politicamente dalle idee estremistiche dei salafiti). L'impostazione laica dei precedenti regimi viene sostanzialmente confermata. Gannouchi sa che la societa' tunisina ha fortemente assimilato questi concetti di laicita', sa che il turismo e' una delle fonti di maggiore risorse finanziarie del Paese. Sa anche che la

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rivoluzione contro Ben Ali non l'ha iniziata Ennahda, ne' e' stata ispirata da istanze religiose. E' stato il popolo a cacciare Ben Ali, non un'idea religiosa. Accetta quindi indirettamente che altre istanze sociali siano rappresentate in questo cambiamento politico. Ghannouci sa che oggi e' anche legittimato dai suoi trascorsi politici (ma non e' il solo che puo' contare su questo pedigree) e dal fatto contingente che il suo partito gode di un'ampia simpatia per le sue iniziative filantropiche, ma sa anche che la Tunisia deve guardare avanti.

Il ruolo delle Forze Armate

Le Forze Armate in Tunisia non hanno mai costituito, come nel vicino Egitto o in Algeria, fulcro centrale del potere politico. Nel momento della rivoluzione i vertici militari si sono tenuti fuori dalle contese politiche ed i soldati sono rimasti nelle caserme. Altrettanto hanno fatto le Forze di sicurezza, salvo un iniziale sostegno a Ben Ali fino al momento della sua fuga. Questa circostanza ha permesso il progredire della transizione democratica senza particolari spargimenti di sangue.

Il programma di Ennahda

Ennahda si e' modulato sul pragmatismo del suo leader.

Il partito di Ghannouci ha vinto non solo perche' l'Islam e' e rimane, come dimostrato da identiche vicende in altri Paesi arabi, l'unico elemento identificativo delle popolazioni di questa parte di mondo. E' arrivato al potere democraticamente e democraticamente porta avanti il suo programma nella consapevolezza che nel Paese esistono altre importanti istanze politiche laiche. Il messaggio con cui Ennahda ha vinto le elezioni e' semplice : integrita' e onesta', valori musulmani. Un Islam come garanzia di moralita'.

In altre parole, combina da un lato tradizione e innovazione e pone l'attenzione su quelli che sono i mali endemici del Paese (corruzione, disparita' sociali, lotta alle lobby finanziarie, disoccupazione, clientelismo). Il partito non si e' arroccato sulla rendita di posizione che poteva derivargli da un appeal religioso, non ha fatto sfoggio di sola retorica, ma si e' voluto subito confrontare con i problemi di tutti i giorni. Lo ha fatto potendo contare su un'organizzazione capillare (comitati di quartiere, associazioni caritatevoli , contatti strette con le moschee) che altre formazioni non avevano e quindi con una catena di trasmissione diretta tra le istanze sociali del popolo e il conseguente programma politico. Inoltre, elemento non irrilevante, Ennahda ha potuto contare su rilevanti finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo.

Ennahda si e' posizionato nel contesto politico tunisino non come un partito in contrapposizione ad altre idee, ma ha saputo subito assimilare sia il nazionalismo laico di Bourghiba sia le istanze riformiste e di modernizzazione che sono prevalenti nella popolazione. Riguardo ai diritti delle donne, Ennahda e' stato chiaro nel ribadire la loro libera scelta nell'indossare o meno il velo, ma soprattutto non e' stato abrogato il diritto al divorzio, introdotto dal codice di famiglia di ispirazione laica del 1959.

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Sul piano economico Ennahda e' si' favorevole ad una economia di mercato ma intende aggiungervi un sistema di solidarieta' sociale. Una qualsivoglia forma di socialismo musulmano. Ogni trattato internazionale pre-esistente e' stato confermato.

Il percorso democratico della Tunisia

La Tunisia ha scelto, come iter per raggiungere e completare un processo democratico, la creazione di una Assemblea costituente. In questo e' stata imitata dalla Libia. Sotto questo aspetto quindi Tunisi potrebbe costituire esempio per altri Paesi. Non si e' limitata ad avvicendare una dirigenza con un'altra, ma intende modificare una impalcatura istituzionale proiettandosi nel futuro.

Il ruolo dei Salafiti

I salafiti tunisini rappresentano, in Tunisia cosi' come altrove, un pericolo potenziale per la democratizzazione del Paese ed ultimamente violenze sociali ed episodi di intolleranza da parte di formazioni islamiche estremiste sono aumentate. Questo si verifica soprattutto perche' il posizionamento di Ennahda verso un Islam moderato fornisce al fondamentalismo islamico molto spazio politico.

E' pur vero che le frange piu' radicali di questo movimento si sono piu' volte distinte per manifestazioni violente, cortei di protesta, incursioni nelle universita' ed altro, ma e' altrettanto vero che la Tunisia viene da una lunga esperienza di laicita' con correlate liberta', emancipazioni di genere, leggi sociali egualitarie.

I salafiti nel contesto politico tunisino oggi non superano i 10.000/15.000 adepti (quindi numericamente non rilevanti) e sono divisi soprattutto tra "Hezb al Tahrir", una formazione fuorilegge ma comunque tollerata, che predica l'instaurazione di un califfato e la stretta applicazione della sharia, ed il Fronte della Riforma ("Al Islah"), guidato da Mohammed Khoja, autorizzato dal Ministero dell'Interno ad operare legalmente l'11 maggio 2011 (e per dare un senso al proliferare delle istanze democratiche del Paese, Al Islah era la 118ma formazione politica autorizzata).

Ma alcune intemperanze (aggressioni verso le donne, proibizione dell'uso dell'alcol, discorsi e sermoni estremisti dei loro leader, antisemitismo dichiarato) hanno forse dato a queste frange politiche un interesse mediatico sicuramente superiore al loro peso nel panorama politico tunisino. L'attacco all'ambasciata americana di Tunisi il 14 settembre 2012 da parte di un'altra formazione estremista islamica, la "Ansar al sharia" guidata da Seif Allah ibn Hussein, noto anche con il nome di Abu Iyad, e' un campanello di allarme di un equilibrio instabile in cui si manifesta l'Islam, non solo come religione, ma anche come politica. Quindi non solo un problema della Tunisia, che forse piu' di altre nazioni e' in grado di esorcizzare o metabolizzare questo fenomeno con un approccio democratico e nel contempo pragmatico, ma di tutto il mondo arabo.

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LE SFIDE DEL FUTURO

A a fronte a qualche iniziale vittoria, alla Tunisia rimangono ancora molte sfide da vincere. Un percorso ancora lungo e difficile.

La prima vittoria e' stata quella di rendere operante una democrazia attraverso un voto popolare. E sicuramente non e' poco in questa parte di mondo.

La seconda vittoria e' stata quella di integrare in questo processo di democratizzazione tutte le diverse istanze della societa'.

La terza vittoria e' stata quella di avere raggiunto questi obiettivi, sicuramente con difficolta' e disordini sociali, ma senza eccessivi ed indiscriminati spargimenti di sangue.

Rimangono ancora delle grosse sfide davanti alla nuova dirigenza tunisina : l'approvazione della nuova Costituzione, la riforma del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione e al clientelismo, dare impulso all'economia, ridurre la disoccupazione, combattere la poverta' soprattutto nelle regioni interne del Paese, creare una maggiore giustizia sociale, ricostruire gli apparati di sicurezza, rinnovare completamente la classe dirigente del Paese dando spazio ai giovani, ricostruire e/o costruire le istituzioni democratiche, far si' che il rispetto dei diritti umani non sia piu' un evento episodico ma sistematico, eliminare arresti indiscriminati e torture che hanno rappresentato il modus operandi delle autorita' del Paese sia con Bourghiba che con Ben Ali, dare piu' sicurezza al Paese anche di fronte alle turbolenze sociali nei Paesi vicini (e' il caso della Libia e dei suoi profughi che tuttora stazionano sul territorio tunisino), no alle malversazioni, repressioni e soprusi tanto ricorrenti nel precedente regime ( in altre parole no al dispotismo), no alla diffusione del terrorismo (in febbraio con una operazione di polizia era stata smantellata una cellula di Al Qaeda nel paese).

Da' speranza lo spirito di moderazione e di inclusione sociale che sta accompagnando questo percorso democratico. Ed e' un merito che va ascritto a tanti attori sociali. Ma la lotta tra i cosiddetti "modernisti" e gli islamisti" e' ancora in atto.

Che il percorso democratico assecondato da una ispirazione moderata dell'Islam sia la strada giusta lo dimostra indirettamente un proclama dell'attuale capo di Al Qaeda, Al Zahawiri, che ha esortato qualche mese fa i tunisini a rivoltarsi contro "il governo del falso Islam".

Molti analisti internazionali hanno trovato affinita' di approccio politico tra l'Ennahda tunisino ed il "Partito per la Giustizia e lo Sviluppo" (AKP) turco di Recep Tayyip Erdogan. Entrambe le formazioni sono portatrici di un Islam moderato, entrambe sono arrivate al potere sostituendo regimi laici e con presenze militari, entrambe sono favorevoli al multipartitismo, entrambi i Paesi sono proiettati verso l'Occidente, entrambi i leader sono pragmatici, inclini al compromesso e alla tolleranza.

Lo stesso Ghannouchi, nei suoi interventi pubblici, ha fatto spesso riferimento a Erdogan ed al modello turco.

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Comunque le specificita' dei due Paesi rimangono. Partono da due vicende politiche diverse, hanno alle spalle storie diverse, le societa' nazionali sono diversamente strutturate, i tunisini non debbono confrontarsi con l'ingerenza dei militari come capita quotidianamente a Erdogan, hanno diverse priorita' in politica estera e sono inseriti contesti regionali con cui devono confrontarsi diversi.

In questo percorso virtuoso verso la democrazia (percorso che si dovrebbe completare il 23 giugno del 2013 con le elezioni del nuovo Parlamento e del Presidente) la Tunisia recita il ruolo di battistrada nei confronti di altri Paesi investiti dalla cosiddetta Primavera Araba. Costituisce quindi un esempio, peraltro positivo, che potrebbe aiutare altre nazioni a raggiungere lo stesso traguardo. A fattor comune con molte altre realta' nazionali arabe e' il ruolo dell'Islam politico che pero' ha trovato in Ghannouchi un oculato interprete politico di questo connubio tra religione e impegno pubblico. Purtroppo, nel contesto mediorientale, altri esponenti politico-religiosi come Ghannouchi non se ne intravedono.

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