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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE n. 2/2004 Italo Magnani L’economia di Luigi Einaudi: ovvero la virtù del buon senso UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE

n. 2/2004

Italo Magnani

L’economia di Luigi Einaudi: ovvero la virtù del buon senso

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA

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QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE UNIVERSITA’ DI PAVIA ______________________________________________________________________ REDAZIONE Enrica Chiappero Martinetti Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale Università degli Studi di Pavia Corso Strada Nuova 65 27100 PAVIA tel. 0039-382-984401 -984354 fax 0039-382-984402 E-MAIL [email protected] COMITATO SCIENTIFICO Italo Magnani (coordinatore) Luigi Bernardi Renata Targetti Lenti La collana di QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE ha lo scopo di favorire la tempestiva divulgazione, in forma provvisoria o definitiva, di ricerche scientifiche originali. La pubblicazione di lavori nella collana è soggetta, con parere di referees, all’approvazione del Comitato Scientifico. La Redazione ottempera agli obblighi previsti dall’art. 1 del D.L.L 31/8/1945 n. 660 e successive modifiche. Le richieste di copie della presente pubblicazione dovranno essere indirizzate alla Redazione.

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Italo Magnani1

L’economia di Luigi Einaudi: ovvero la virtù del buon senso2

1 L’autore è professore ordinario di economia politica della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia. E-mail: [email protected] 2 Relazione presentata al Convegno: Luigi Einaudi: istituzioni, mercato e riforma sociale, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 18 e 19 febbraio 2004

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Sintesi

La relazione è dedicata a Einaudi economista: teorico non eccelso, sia pure non privo di qualche ambizione giovanile in questo senso, costretto a valersi di strumenti analitici rudimentali, capace di capire e ammirare la bellezza e la grandiosità delle grandi costruzioni teoriche e la forza della loro logica, ma non altrettanto attrezzato per fare altrettanto, per quanto capace di grandi intuizioni, non di rado condannato a teorizzare in modo inesatto, per quanto giusto potesse essere il metodo di indagine (non vi trovo contraddizione tra queste due ultime proposizioni) e attento a trovare nelle teorie più che astrazioni generalizzanti, veri strumenti concettuali utili a fini pratici.

Non di meno è stato, a suo modo, grande economista e non soltanto sul terreno del concreto. Sicché viene da chiedersi se vi era una teoria unificante e viene da chiedersi come fare a scoprire sotto quale teoria unificante Einaudi abbia posto la sua sterminata produzione di scrittore di cose economiche.

La mia risposta è si, come del resto si è cercato di fare vedere, sia pure a tratti e quasi per allusione, nel corso di questa memoria. Ma è una teoria fatta di grandi intuizioni e non di rigidi formalismi e perciò anche per questo essa si colloca su di un terreno diverso rispetto a ciò che normalmente si intende per teoria.

Forse è la teoria del buon senso propria di chi rifiuta le dottrine, il dottrinarismo, i suoi dogmi e i suoi paradigmi. E’ ciò che notava un economista che di economia pura se ne intende, Francis Ysidro Edgeworth, quando, nel leggere la pagina 53 della sua copia degli Studi sugli effetti delle imposte, scriveva di suo pugno a margine: “Common sense is piled up against the dogma that the demand for accomodation is anelastic”! A ben vedere, la constatazione va ben oltre la occasionalità della questione relativa alla rigidità della domanda di abitazioni e assume una valenza del tutto generale.

E’ anche la teoria del buon senso propria di un Einaudi che riaffermava la necessità di ricorrervi empiricamente nel continuo riscontro reciproco tra ipotesi della teoria e fatti della realtà. Forse è quel richiamo alla esigenza di cogliere la complessità delle azioni dei singoli individui, dei loro comportamenti e delle loro motivazioni ciò che costituisce il monito di quello sterminato affresco contenuto negli otto volumi delle Cronache economiche e politiche di un trentennio.

La relazione si articola secondo il seguente INDICE – SOMMARIO: I. – Premessa; II. – Economia tra analisi matematica e racconto

storico; III. – Il giovane Einaudi e il suo primo cimentarsi con le statistiche; IV. – Gli effetti delle imposte sulle aree edilizie: il precedente di J. S. Mill; V.- Luigi Einaudi e gli effetti delle imposte sulle aree edilizie; VI. – Il metodo delle approssimazioni successive; VII. – L’Economia della realtà concreta delle cose; VIII. – Einaudi a fronte di Antonio De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Francesco Saverio Nitti, Vilfredo Pareto e Benvenuto Griziotti; IX. – Gli effetti delle imposte come problema primo della finanza pura; X. – I Saggi sul risparmio e l’imposta; XI. – La doppia tassazione del reddito risparmiato; XII. – I limiti della teoria della doppia tassazione del reddito risparmiato; XIII. – Capitalizzazione e doppia imposizione; XIV. – La ricerca dell’”ottima imposta” e il principio della tassazione del reddito normale; XV. – Einaudi e Keynes; XVI. – Cenni conclusivi; XVII.- Opere citate.

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“Common sense is piled up against the dogma…”.

(Francis Ysidro Edgeworth)

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I

Sono molto grato alla Accademia dei Lincei nelle persone del presidente

uscente, prof. Edoardo Vesentini, e del presidente in carica, prof. Giovanni

Conso, che mi hanno dato l’opportunità di parlare qui di Luigi Einaudi che, in

una lettera di Pantaleoni a Adrien Naville del 9 maggio 1902, era giovane di 26

anni “dal carattere dolcissimo, piuttosto timido e dimesso, che si è sempre

condotto bene”3. Il mese prima Pareto si era indirizzato anch’egli a Naville (1°

aprile 1902) per presentargli Einaudi come il successore ideale di Pantaleoni a

Ginevra: “E’ un giovane che andrà lontano”4. Davvero profetico!

II

Nella nota di apertura (Economia: tra matematica e storia), apparsa sulla

rivista “Economia politica” (anno XX, n. 3, dicembre 2003), Pier Carlo Nicola

osserva: “Sembra dunque si possa affermare che bisogna essere decisamente

giovani per intraprendere con successo lo studio della Matematica, abbastanza

maturi per studiare e sfruttare adeguatamente la Storia”.

L’osservazione è acuta e si applica anche ad Einaudi, se per matematica

si intende, in senso lato, il ricorso alla elaborazione di schemi teorici di tipo

logico deduttivo e per storia si intende la consapevolezza di una realtà concreta

abbastanza complessa da prestarsi ad essere descritta più di quanto non

possa essere interpretata con l’impiego di metodi riconducibili alla matematica.

3 Fonte: Busino e Stelling-Michaud, Matériaux pour une histoire des sciences

sociales. Lettres de Pareto, Pantaleoni, Einaudi, d’Adrien Naville et d’autres, 1965, pp. 189-190; anche in Busino, Ricerche e documenti per una biografia di Luigi Einaudi, 1962, p. 6.

4 Fonte: Pareto, Epistolario, 1973, p. 449.

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La nostra tesi è che Einaudi non fu edificatore di teorie economiche, per

quanto abbia avuto l’ambizione di esserlo, appunto negli anni della gioventù, e

quando ci provò non fu fortunato.

Nondimeno egli fu economista di vaglia al quale non mancò una visione

unificante, ossia teorica, ma su un terreno diverso rispetto a ciò che sia

riconducibile alla descrizione del funzionamento di un sistema economico in

termini di relazioni logiche tra diverse grandezze.

Con ciò non vogliamo dire che Einaudi non avesse l’ambizione di essere

lui stesso capace di cimentarsi nelle elaborazioni teoriche o, meno che mai, non

avesse la capacità di ammirare la potenza logica dell’ingegno di studiosi che gli

erano irraggiungibili da questo punto di vista.

Gli mancò l’uso della matematica al quale dopo tutto non era interessato,

ma non ebbe neanche quegli “istinti matematici” che altri ebbero pur senza

essere matematici e pur senza proporsi di scrivere in matematica. Ma era in

grado di capire quello che gli mancava5 e di capire l’ammirazione che meritava

chi aveva ciò che lui non aveva. Ad esempio Davide Ricardo, da lui

diversissimo in tutto, ma del quale, in sede di Introduzione degli Studi sugli

effetti delle imposte (1902), scriveva:

Questo è il difetto della classificazione normale: che essa corrisponde ad uno stadio della scienza economica in cui si riteneva possibile di potere indicare di ogni fenomeno «la causa» e in cui si riteneva che l’unico rapporto dal quale i fenomeni potevano essere legati era il rapporto di causa ed effetto. Nella materia di cui ci occupiamo adesso, il metodo ora accennato era stato condotto ad altissima perfezione in un meraviglioso libro che si intitola Principles of Political Economy and Taxation di Davide Ricardo. Colla sua straordinaria potenza logica, il Ricardo aveva veduto che il problema fondamentale della scienza della Finanza era il problema della traslazione, della incidenza e degli

5 Ad esempio Walras, come lo stesso Einaudi ricorda nelle sue Reminiscenze, 1950, p. 113: “Lessi con lui [Giovanni Vailati] Walras ed allora, nonostante la mia inettitudine matematica, mi pareva averlo capito”.

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effetti delle imposte e vi consacrò quasi tutti i capitoli del suo libro in cui si occupa dei tributi. Ed in questa analisi, come in tutte le altre, egli seguì il suo metodo preferito, di astrarre da tutte le circostanze secondarie, formando un’ipotesi la più semplice possibile e deducendo logicamente da quella ipotesi tutte le conseguenze che vi erano contenute.

III

E’ il metodo che l’Einaudi teorico predilige, vogliamo dire quello che fa

riferimento alle relazioni tra causa ed effetto piuttosto che al concetto di mutue

interdipendenze, e si ritrova nei Principles of Political Economy di Ricardo e

soprattutto, credo, nel Pantaleoni della Teoria della traslazione dei tributi

(1882). Lo preferisce agli equilibri generali di Pareto. E lo segue con rigore

negli Studi sugli effetti delle imposte e tuttavia non aveva una sua, né di altri,

teoria economica sottostante.

Non aveva la vocazione né l’inclinazione, e gioverà forse ricordare che nel

suo primo lavoro di carattere scientifico-accademico, La distribuzione della

ricchezza nel Massachusetts (1897)6, Einaudi non poté giovarsi dei

suggerimenti che lui stesso aveva sollecitato e che Pareto gli aveva indirizzato il

26 maggio 1897 su alcuni aspetti tecnici elementari, perché non si sentiva

sufficientemente ferrato nell’uso delle statistiche. E’ Pareto che, a questo

riguardo, scrive a Giovanni Vailati il 20 giugno 1897:

Coll’Einaudi ci siamo scritti a proposito delle sue ricerche sulla distribuzione della ricchezza nel Massachusetts.

Io gli avevo detto come procedere per interpolare i numeri che aveva trovato e figurarli con una curva. Egli stimò che era troppo difficile e non volle fare nulla. A parer mio ebbe torto. Quando si è giovani, si ha sempre tempo d’imparare7.

6 Einaudi, La distribuzione della ricchezza nel Massachusetts. Nota statistica proveniente

dal Laboratorio di economia politica dell’Università di Torino, 1897, pp. 221-233.

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Né riteniamo che il giovane Einaudi sia uscito vittorioso quando, cinque

anni dopo, andava cimentandosi con una teoria generale degli effetti delle

imposte sulle aree edilizie, apparse negli Studi sugli effetti delle imposte

(Bocca, Torino, 1902). Prima di allora non era stato fatto nulla al riguardo, o

pressoché nulla, e dunque va riconosciuto all’Einaudi quantomeno il merito di

apripista su di un tema assai ambizioso8. E tuttavia converrà dedicare qualche

attenzione per mettere in risalto i limiti della costruzione teorica.

IV

Sullo sfondo crediamo che vi sia la stessa logica impiegata da John Stuart

Mill9 per analizzare gli effetti economici delle imposte applicate alla rendita

urbana in una città statica, nella quale la rendita agricola rappresenta il costo

alternativo della destinazione dell’area all’impiego edilizio. Ne segue che, al

margine della città, la rendita urbana e la rendita agricola sono tra di loro eguali,

sicché l’imposta sulla rendita che colpisce con la medesima aliquota entrambe

le destinazioni, agricola ed edilizia, non altera le convenienze relative e quindi

nulla cambia della situazione pre-esistente. Diverso sarebbe il caso che

l’imposta colpisse solamente la rendita edilizia, con esenzione per quella

agricola: la rendita edilizia marginale si abbasserebbe del suo ammontare e

scenderebbe al di sotto della rendita agricola alternativa, sicchè i terreni si

7 Fonte: Busino, a cura di, L’Italia di Vilfredo Pareto. Economia e società in un carteggio del 1873-1923, 1989, p. 311, nota 5. Sulla vicenda cfr. anche la relazione di Carlo Augusto Viano presentata in questo Convegno.

8 E’ lo stesso Einaudi a sottolinearlo a pag. XVI della Prefazione al vol. II delle Cronache

economiche politiche di un trentennio, 1959: “Credo davvero di essere stato in Italia colui che primamente discusse il problema dell’aumento di valore delle aree fabbricabili e si fece promotore della sua tassazione”.

9 Cfr. Mill, Principles of Political Economy, 1848, p. 502.

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sposterebbero dall’uso edilizio a quello agricolo, l’offerta per l’edilizia si

ridurrebbe con spinte al rialzo dei prezzi delle abitazioni e in definitiva

traslazione dell’imposta in avanti dai proprietari dei suoli agli inquilini.

Einaudi non fa altro che pigliare il ragionamento sotteso allo schema di

Mill e immagina, sia pure senza dichiararlo esplicitamente, che lo si possa

adattare a una città dinamica semplicemente affidando all’incremento periodico

di valore dell’area inedificata lo stesso significato e lo stesso ruolo di costo

alternativo all’edificazione che Mill attribuisce alla rendita agricola. Ed è una

scelta sciagurata dalla quale poi tutto segue conseguentemente: alla periferia

della città la rendita dell’area edificata sarà eguale all’incremento di valore

dell’area libera, sicchè le imposte, riducendo del loro ammontare ciò che

colpiscono (rendita dell’area edificata e/o incremento di valore dell’area libera),

sposteranno gli impieghi dell’area verso la destinazione esente o, quantomeno,

tassata nel modo più lieve10.

10 Cfr. Einaudi, Studi sugli effetti delle imposte, 1902, cap. II, sez. I, p. 84 e sez. II, p. 103:

si abbiano, al margine dell’edificazione, aree le quali possano fruttare, se costruite, una rendita annua di 100, mentre, tenute vuote, fruttino una rendita agraria di 10 più un incremento di valore capitale di 91. In tali condizioni sarebbe più conveniente tener libera l’area onde lucrare un reddito di 101, maggiore di 100 ottenibile dalla edificazione, almeno, sino al momento in cui i fitti non siano aumentati tanto i da far apparire conveniente l’edificazione (nel nostro caso, non siano aumentati almeno di 1).

Se ora introducessimo un’imposta di aliquota pari al 10% sia sulla rendita edilizia, sia sulla rendita agricola, con esenzione per gli incrementi di valore, la rendita edificata si ridurrebbe da 100 a 90, mentre il reddito dell’area vuota si ridurrebbe a 91 + (10 - 1) = 100 (cfr., in particolare, ivi, par. 26, p. 99).

La differenza tra il reddito che si otterrebbe costruendo sopra l’area e il reddito che si otterrebbe lasciandola vacante si eleva a 10, onde sarà necessario un fortissimo aumento della domanda dei consumatori perché si abbia la trasformazione dall’uso speculativo all’uso edilizio. L’esenzione dell’incremento di valore dei terreni vuoti agirebbe dunque come stimolo a non costruire. L’imposta sulla rendita edilizia darebbe quindi luogo ad una rarefazione dell’offerta di abitazioni e si trasferirebbe in avanti sugli inquilini.

Nessuna traslazione sarebbe possibile quando, sia gli incrementi delle aree libere, sia le rendite dei terreni edificati, fossero colpiti dalla medesima aliquota di imposta.

Infatti se l’incremento di valore e la rendita edilizia fossero entrambi pari a 100 prima dell’imposta, entrambi sarebbero ridotti da un imposta generale del 10% a 90, per cui, riuscendo indifferente “il risolversi per l’uno o per l’altro uso, l’imposta inciderebbe sul

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V

Sembra di poter dire che i limiti dello schema che abbiamo

sommariamente illustrato sopra attengono non tanto al metodo utilizzato,

quanto piuttosto all’impianto teorico e alle deduzioni che ne vengono cavate

fuori: Einaudi mostra di ignorare del tutto le relazioni intercorrenti tra la rendita

edilizia e il prezzo dei terreni edificati e cioè, in definitiva, tra rendita edilizia e

incremento di valore delle aree inedificate. Egli considera, infatti, l’aumento del

valore periodico e la rendita edilizia come due entità assolutamente distinte e

tra loro indipendenti e tali che l’una rappresenta il costo alternativo dell’altra; in

questo modo dimentica che un’imposta sulla rendita edilizia non può non

incidere sul valore capitale dell’area e quindi sul modo con cui questo va

crescendo nel tempo. Del pari non coglie il fatto che l’imposta sull’incremento di

valore periodico delle aree fabbricabili aumenta il “costo dell’immobilizzo”

sicchè, ai fini delle destinazione dell’area, gli effetti saranno gli stessi di quelli di

un aumento del tasso di interesse11.

Gli effetti delle imposte che Einaudi preconizza non possono essere presi

per buoni.

Lo stesso Einaudi se ne rese conto al punto da rettificare la sua posizione

in ordine all’opportunità di tassare le aree. Lo fece nella memoria Intorno al

concetto di reddito imponibile (1912) e poi nei Miti e paradossi della giustizia

tributaria (1938), e lo farà notare lui stesso nella Prefazione al vol. II delle

Cronache economiche politiche di un trentennio: “…forse che non e’ doveroso

mutar sentenza quando gli occhi si aprono e si vedono i fatti diversamente da

come si vedevano in cecità?”.

proprietario e, non essendo intervenuta alcuna mutazione dell’equilibrio economico, non si produrrebbe nessun effetto sul livello dei fitti” (ivi, p. 110).

Sull’opportunità di colpire contemporaneamente sia la rendita edilizia che l’incremento periodico di valore dei terreni vuoti, cfr. anche Einaudi, Accaparramento ed imposta sulle aree fabbricabili, 1903, in Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. II (1903-1909), pp. 25-41, soprattutto p.30. Un analogo ragionamento è svolto dall’Einaudi nell’articolo L’imposta sulle aree edilizie, in “La riforma sociale”, 1900, pp. 785-786.

11 Sulla questione ci permettiamo rinviare a Magnani, La teoria pura dell’equilibrio della

città e gli effetti delle imposte, 1971.

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In particolare Einaudi, pur senza impegnarsi a ricostruire una nuova

diversa teoria degli effetti economici dell’imposte ma guardando piuttosto a

problemi di doppia tassazione, rinnega la sua antica idea per cui l’incremento

periodico di valore dell’area fabbricabile sarebbe un reddito che dunque, come

tale, dovrebbe essere soggetto ad imposta12: “Come il bosco non dà reddito se

non al momento del taglio, così l’area non da reddito se non al momento della

sua maturazione economica”. E tuttavia, in quel momento, l’imposta c’è già ed è

quella che grava sul reddito dell’area una volta che questa fosse stata edificata.

La capitalizzazione di questa imposta, infatti, riduce in proporzione anche il

valore dell’area stessa: “L’imposta sul reddito e imposta sul capitale, sono lo

stesso, stessissimo fatto. Sono le due facce della medesima medaglia. E’

stravagante dire che occorre una nuovissima imposta sulle aree perchè esse

danno un reddito esente da imposta; chè l’imposta c’è ed è quella che colpirà il

reddito dell’area costrutta”.

VI Eppure, nonostante tutto e nonostante che ”cotale verità palmare non

vedevo io [Einaudi] in principio del secolo...”, gli Studi sugli effetti delle imposte

non sono privi di interesse sul piano del metodo degli equilibri parziali e della

statica comparata, ma soprattutto sul piano di un percorso di “approssimazioni

successive”, attraverso le quali poter raccordare l’economia pura con i fatti del

mondo reale.

Nate da Walras e da Pareto e quindi riconducibili a quegli equilibri generali

che Einaudi non amava e dai quali Pareto voleva togliere quel troppo di

astrazione che li caratterizzano, Einaudi le impiega in ambito estraneo a quegli

equilibri generali da cui avevano preso origine onde passare da un astratto che

accettava senza essergli congeniale a un concreto che invece lo interessava

nel profondo, insomma da una economia analitica a un’economia descrittiva,

tanto che, al termine della sua Prefazione poteva esprimere la speranza che il

12 Einaudi riassume la sua posizione originaria nella Prefazione al vol. II delle Cronache:

“Esiste un qualche motivo per il quale un reddito, comunque nato o denominato, non sia colpito da imposta? No; chè il principio antico, accettato, tradizionale e punto rivoluzionario, dell’uguaglianza di tutti i redditi d’innanzi al dovere tributario, esige che quel reddito sia soggetto ad imposta”.

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libro, “pur conservando il carattere di indagine teorica”, potesse essere utile

“anche a coloro che studiano la scienza della finanza dal punto di vista della

politica pratica”.

VII E’ il medesimo metodo che Einaudi aveva utilizzato due anni prima ne La

rendita mineraria (Unione Tipografica Editrice, Torino, 1900), un libro negletto

ma ricco di meriti tra i quali quello di essere piacevolissimo ed interessante nel

modo con cui le approssimazioni successive fanno vedere come le leggi

teoriche della rendita mineraria abbiano modellato le forme che essa aveva

assunto nei tempi e nei paesi più diversi e abbiano condizionato “le questioni

economiche, legislative e politiche a cui le sue modalità e la sua attribuzione

avevano dato origine” (ivi, p. V).

Se tuttavia le approssimazioni successive de La rendita mineraria sono un

metodo “per osservare per quali vie e per quali mezzi esso [mondo reale] si va

avvicinando alla forma che avrebbe nello stato ideale” (per dirla con

Jannaccone, 1898, p. 245), negli Studi sugli effetti delle imposte esse hanno

invece un significato diverso, ossia di strumento per passare dall’astratto al

concreto, dove il “common sense” vince sulla teoria, o forse il “common sense”

diventa esso stesso teoria.

Si vuole dire che, nel passare dall’astratto al concreto, anche gli errori, al

pari delle verità proprie dell’analisi teorica, finiscono per stemperarsi e

paradossalmente per perdere rilevanza a misura in cui si procede verso il

concreto e a misura in cui, in questo modo, si stempera anche il significato

dell’analisi teorica sottostante. D’altro canto, l’approdo delle approssimazioni

successive verso un modo di fare economia sbilanciato verso il descrittivo

consente ad Einaudi di sentirsi più libero rispetto agli ingombri di una teoria alla

quale dover rimanere fedele, e di approdare su di un terreno che, dopo tutto,

era quello che gli era più congeniale, quello di chi sa bene, troppo bene,

quanto la realtà concreta delle cose sia ricca di infinite complicazioni, che vanno

tenute tutte in conto, considerate, apprezzate, valutate, soppesate, selezionate

perché il legislatore sappia poi che cosa fare e quali siano i limiti della sua

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azione: Conoscere per legiferare è il notissimo titolo di un suo articolo apparso

su il Corriere della sera del 2-3 marzo 1960.

Entra in gioco il ruolo degli enti locali, la condotta degli inquilini, dei

costruttori, dei proprietari dei suoli (siano essi speculatori o, semplicemente,

agricoltori), la normativa urbanistica, i piani regolatori, i vincoli di destinazione,

la natura e la durata dei contratti tra le parti in causa, le tecniche di

determinazione delle basi imponibili, la forma dell’imposta, l’aliquota, le

esenzioni e deduzioni, e quant’altro. Insomma starei per dire che è un Einaudi

“scienziato delle finanze” più che “economista teorico”, e cioè cultore di quella

disciplina che ha a che fare con comportamenti discrezionali delle pubbliche

autorità, entro i quali economia positiva ed economia prescrittiva finiscono per

mischiarsi insieme inestricabilmente e per chiedere allo studioso non solo di

sapere ma anche di fare proposte.

Da questo punto di vista Einaudi, crediamo, somiglia assai a quel De Viti

De Marco al quale veniva da osservare che la scienza delle finanze è una

“scienza concreta, in confronto di altre scienze più astratte, che non potrebbe

usare dell’astrazione logica nella misura in cui può l’economia”13.

VIII Se si potessero capire le qualità di uno studioso, le sue inclinazioni e le

caratteristiche del suo personale contributo, valutandone l’atteggiamento nei

rispetti di ciò che avessero significato per lui gli studiosi che gli stavano attorno,

mi sembra di poter dire di Einaudi che era più vicino a De Viti De Marco di

quanto non si sentisse alla altezza di un Pantaleoni. E perciò più propenso ad

ammirare Pantaleoni di quanto non si sentisse vicino a De Viti De Marco. Si

vuole dire il Pantaleoni autore di quei Principii di economia pura (1889), “i quali

sono un calcolo filato dalla prima all’ultima pagina”, “un prezioso gioiello di

logica”, tal che, “se vi fosse chi sfrondasse i Principii delle veste utilitaristica, si

vedrebbe che essi altro non sono se non un moderno Euclide economico”14.

13 Cfr. De Viti De Marco, Principi di economia finanziaria, 1934, p. 35. 14 Le citazioni sono tratte da Einaudi, Reminiscenze, 1950, p. 99.

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Non solo, ma l’ammirazione per Pantaleoni è anche in ciò che De Viti De

Marco faceva notare: “Ciò che più colpisce dei suoi scritti [è] la completa

fusione dei principi teorici con l’elaborazione dei fatti concreti”15, come ad

esempio nella monografia dedicata a La caduta della società generale di credito

mobiliare italiano (1895), che Einaudi, sulla scorta di Sraffa16, commenta

ammirato: “Come analisi economica delle banques d’affaires di tipo

continentale, è ancora ineguagliata, un vero capolavoro, paragonabile, per certi

versi, al Lombard Street di Bagehot” (che Einaudi conosceva bene per averlo

tradotto lui stesso nel 1905). E soggiunge: “Pantaleoni scrisse il Saggio sulla

caduta del credito mobiliare, che resterà il documento insuperato nella

letteratura economica contemporanea di quel che possa fruttare il

ragionamento economico in mano di chi, prima di concludere, volle conoscere

uomini, affari, operazioni, bilanci, copialettere, segreti di una grande banca

lungo tutta una vita accidentata di fortune e insuccessi; volle pesare e

confrontare uomini economici e uomini vivi, indagarne i sentimenti, le passioni,

le insidie e gli odii; tutte cose non comprese nella fondamentale premessa

economica edonisticamente formulata o, se compresa, bisognosa di una

urgente interpretazione caso per caso. Pantaleoni […] intuiva i moventi delle

azioni economiche degli uomini; e perciò scrisse La caduta, che è il suo

capolavoro”17.

E ancora viene alla mente un Einaudi pronto a cogliere l’eredità

intellettuale di Francesco Saverio Nitti, sia pure depurato di qualche residuo di

storicismo tedesco e di ripetute testimonianze di “statolatria”, e non per caso fu

proprio Einaudi a subentrare a Nitti nella direzione della Riforma Sociale,

la quale – nelle parole dello stesso Einaudi -, senza mutar nome, mutò a poco a poco di indirizzo, apprezzò maggiormente l’economia classica e, pur non trascurando i problemi di riforme nella distribuzione della ricchezza, prese a insistere maggiormente sui problemi di convivenza nella produzione e di lotta

15 Cfr. De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, 1925, p. 169. 16 Cfr. Sraffa, Maffeo Pantaleoni – Obituary, 1924. 17 Cfr. Einaudi, Reminiscenze, 1950, pp. 101-102.

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contro tante specie di protezioni, di vincoli e monopoli, i quali tendevano e proseguono ancora oggi nel tentativo di appropriarsi e, così, ridurre la torta comune che si tratta di dividere fra i vari gruppi produttivi18.

Certo vicino a Nitti più di quanto si sentisse ammiratore di Pareto,

nonostante che Nitti fosse campione di una economia storico-descrittiva e

nonostante che Einaudi fosse affascinato dalle teorizzazioni di quegli

economisti “cosiddetti puri” che invece Nitti dileggiava come “canonici

dell’ortodossia” e “distillatori di quintessenza”19.

Si vuol dire di Einaudi vicino a un Nitti descrittivo più di quanto non si

sentisse ammiratore delle astrazioni di Pareto, che Einaudi principiò con

l’ammirare ma delle quali col tempo divenne insofferente.

Steve20 ricorda “il metodo di studio che è stato largamente impiegato dall’

Einaudi e che costituisce uno dei caratteri più notevoli della sua opera: lo

scambio, cioè, e il controllo continuo tra i due piani delle ipotesi teoriche e

dell’osservazione dei fatti”. Con tutto ciò e con quanto si legge nelle Ipotesi

astratte e ipotesi storiche (1943), Einaudi non poteva sentirsi vicino a Pareto di

cui avvertiva tutto il contrasto tra “la contemplazione dei problemi generali, in

cui egli divenne maestro sommo, e i problemi minuti ai quali guardava con una

certa estraneità, sicché egli quasi appare indifferente ai materiali da lui assunti

a riprova delle sue dimostrazioni teoriche; e l’indifferenza cresce con il tempo, sì

da diventare, nell’ultimo periodo della sua vita, quasi disprezzo”21. Finirà per

18 Cfr. Einaudi, Prefazione a F.S. Nitti, “Scritti sulla questione meridionale”, vol. IV-I

(1958) della Edizione nazionale delle opere di Francesco Saverio Nitti, p. IX. 19 Sono le espressioni che Nitti usa nella lettera a Loria del 24 gennaio 1895 per riferirsi

al gruppo del Giornale degli economisti. Fonte: Malandrino, a cura di, Una rivista all’avanguardia: “La riforma sociale”, 2000, p. 23.

20 Cfr. Steve, Luigi Einaudi e gli studi di finanza pubblica, 1974, p. 451. 21 Cfr. Einaudi, La scienza economica – Reminiscenze, 1950, p. 102. Einaudi riprende qui

in modo anche più esplicito le valutazioni a proposito della sociologia paretiana già presentate (nel 1939) nella Recensione del libro del 1939 di Umberto Ricci, Tre economisti italiani: Pantaleoni, Pareto, Loria, pp. 91-92.

Noto che nell’intestazione il titolo dell’opera recensita è modificato in Economisti italiani e che Einaudi tratta solamente di Pantaleoni e di Pareto, mentre invece omette Loria. Presumo che Einaudi, umanamente vicino a Loria, abbia preferito astenersi dal commentare il ritratto che ne aveva fatto Ricci perché sarcastico e in più di un punto sprezzante. Sulla questione cfr. Magnani, Dibattito tra economisti italiani di fine Ottocento, 2003, p. 165, nota 1.

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essere insofferente per tutto ciò che era di Pareto: “Lo schema generale”, le

“elementarissime proposizioni”22, le “interdipendenze, élites, miti”, le “strane

dimenticanze”23, il suo modo stesso di fare scuola24, la boria e il sussiego. Tutto

ciò gli era sommamente antipatico sino alla personalizzazione: “Considero

ingiusto, anzi indecente, il disprezzo facile con cui taluno di loro [il riferimento a

Pareto e alla sua scuola è di immediata evidenza] guarda ai poveri diavoli –

talvolta questi poveri diavoli si chiamano Galiani o Smith o Ricardo o Ferrara! –

i quali non sapevano di matematica”25.

Per alcuni aspetti, era lontanissimo da Griziotti, il quale “andando avanti

negli anni, si [era] persuaso che, al di sopra dell’economia, esistono più sublimi

dottrine”. Einaudi soggiungeva: “dubito dei voli, chè in lontananza Benedetto

Croce ammonisce a non volare se non si è sicuri di non far cattiva filosofia”26 (è

evidente il riferimento agli attacchi che Croce aveva portato su questo terreno

ad Achille Loria27 e a Pareto)28. Lontano da Griziotti, si diceva, per le ragioni

22 Cfr. Einaudi, ad esempio nella Recensione di A.C. Pigou, “A Study in Public Finance”,

1928, p.102, nota: “…e dà un qualche fastidio la persuasione, in cui visse fino all’ultimo, che nessuno (o pochissimi suoi discepoli soltanto) avesse compreso talune sue elementarissime proposizioni; come quella che al rapporto di causa ed effetto si dovesse sostituire il rapporto o concetto di interdipendenza: proposizione che, appena divulgata, fu capita da tutti e applicata da tutti entro i limiti in cui ne è feconda”.

23 Sono note le accuse che Einaudi rivolse in più di una occasione a Pareto, colpevole di

avere copiato la dottrina della “circolazione delle elités “, elaborata prima di lui da Gaetano Mosca [cfr. Mosca, 1884 e 1896]. Si veda in particolare la recensione di Einaudi al libro di Pigou, A Study in Public Finance, 1928, pp. 100-102, nota 1: “Il Pareto si ostinò ingiustamente fino all’ultimo a non voler riconoscere di aver portato via di sana pianta al Mosca le teorie della classe e della formula politica, da lui diversamente battezzate ma rimaste tali e quali”. Einaudi avrebbe riproposto le medesime accuse nella Prefazione alla edizione del 1934 dei Princìpi di economia finanziaria di De Viti De Marco. Ad essa avrebbe reagito Alfonso De Pietri-Tonelli con una recensione assai critica degli stessi Princìpi devitiani, apparsa nel fascicolo del 30 giugno 1934 della “Rivista di politica economica”. Di nuovo interviene Einaudi a replicare e a rinnovare le accuse a Pareto (Dove si discorre di Pareto, di Mosca e anche di de Viti, 1934, pp. 294-295). Da ultimo cfr. ancora le accuse che Einaudi rinnova nelle sue Reminiscenze del 1950.

24 Cfr. Einaudi, Recensione a A.C. Pigou, “A Study in Public Finance”, 1928, pp. 101-102,

nota: “…perciò, il Pareto non ebbe e forse non avrebbe tollerato discepoli, ossia uomini atti a superarlo; esigendo egli che i discepoli ripetessero esattamente le sue formule, ossia cessassero di pensare per conto proprio”. Sono le stesse valutazioni di Jannaccone ne Il “Paretaio”, 1912, su cui vedasi Magnani, Il “Paretaio”, 2004.

25 Cfr. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, 1938, p. 21. 26 Cfr. Einaudi, La scienza economica – Reminiscenze, 1950, p. 108.

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sommariamente esposte sopra e anche per la sua concezione della scienza

delle finanze: “Dissento furiosamente da molte fra le vedute proprie degli

scritti metodologici e teorici del Griziotti“. La ragione è che economia e scienza

delle finanze, per Einaudi, non sono affatto due discipline tra loro autonome,

come vorrebbe Griziotti, anzi “tra economia politica e scienza finanziaria vi è lo

stesso rapporto come da scienza generale e scienza particolare”29.

IX Il che significa che Einaudi scienziato delle finanze è interessato a quella

parte della scienza delle finanze che è più direttamente riconducibile alla

scienza economica, come del resto si vede bene nella Introduzione degli Studi

sugli effetti delle imposte, dove Einaudi, dopo aver presentato la posizione di

Edgeworth, gli viene da sottolineare: “Da qualunque punto lo si guardi, il

problema degli effetti, che per l’Edgeworth è uno dei due problemi fondamentali

della scienza pura della finanza, ha un carattere di preminenza indiscutibile e di

precedenza logica sull’altro problema, quello dei principi giustificativi

dell’imposta” (ivi, pp. VIII-IX).

E tuttavia, dopo tanti anni, il giorno 8 gennaio 1943 il medesimo Einaudi

scriverà a Griziotti per trasmettergli un suo scritto destinato alla Rivista di diritto

finanziario e scienza delle finanze, nel quale gli tocca spiegare

l’omissione che fino a pochi anni fa avrei fatto nei miei corsi di scienza delle finanze, precisamente del capitolo sugli effetti delle imposte, che sarebbe, a parer mio, l’unico capitolo veramente scientifico, della scienza delle finanze, perché di economia pura.

Ecco come sia accaduto il fattaccio non saprei precisamente. Se, riandando al passato, cerco di rendermene ragione, non trovo se non questa:

27 Cfr. Croce, Les théories historiques de M. Loria, 1896. 28 Cfr. Croce, Recensione di V. Pareto, “Les systèmes socialistes”, 1902; Croce,

Economia filosofica ed economia naturalistica, 1906; Croce, Recensione della 2ª ed. (1923) di V. Pareto, “Trattato di sociologia generale”, 1924.

29 Fonte: Ghessi, Un carteggio inedito Einaudi-Griziotti sul modo di concepire la

scienza delle finanze, 1991.

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che quello, appunto perché il solo scientifico, è anche il capitolo più difficile della materia finanziaria […]. Questa è la parte che ritenevo e ritengo vera gemma preziosa incastonata nella disciplina finanziaria. Quel che avevo da dire in proposito, colla vaga illusione di non ripetere soltanto il già detto da altri, lo scrissi altrove e lo raccolsi in parte or ora in un volume di Saggi sul risparmio e l’imposta (Torino, 1942) 30.

X Dei nove Saggi sul risparmio e l’imposta riuniti in volume nel 1941

saranno ristampati nel 1958 solamente quattro perché, “toccando tutti il

medesimo problema della tassazione del risparmio, compongono una

trattazione insieme legata da un unico filo logico e può essere reputata libro a

sé stante” (ivi, ed. 1965, p. XXIII). Sono apparsi in un lungo intervallo di tempo

(tra il 1912 e il 1929), sicchè Einaudi si trova a doversi giustificare e lo fa

affermando: “Non rimpiango di avere dedicato diciassette anni della mia vita a

meditare e a scrivere praticamente su un solo problema: quello che

impropriamente dissi allora della “esenzione” ed avrei voluto dire della

“esclusione” del risparmio dall’imposta” (ivi, p. XI).

E’ il c.d. “teorema della doppia tassazione del reddito risparmiato”. Ma non

è soltanto quello. Piuttosto è tutto ciò che possa essere ricondotto alla “teoria

della tassazione del reddito consumato”, rispetto alla quale Kaldor (An

Expenditure Tax, 1955), aggiungendo il nome di Luigi Einaudi a quelli di

Tommaso Hobbes, John Stuart Mill, Alfred Marshall, Arthur Cecil Pigou e Irving

Fisher, poteva affermare: “Poche idee nel campo della economia sono così

rivoluzionarie per le illazioni che se ne possono trarre e ciononostante possono

vantarsi di antenati tanto rispettabili”.

30 L’articolo di Einaudi non fu pubblicato. Il dattiloscritto è custodito in originale

nell’Archivio Griziotti presso il Dipartimento di economia pubblica e territoriale dell’Università di Pavia. E’ ora pubblicato in Gessi, 1991.

Griziotti risponderà ad Einaudi il 26 gennaio 1943: “E’ interessante conoscere il motivo, che già intuivo, della omissione del capitolo sugli effetti delle imposte nelle prime edizioni del Tuo interessantissimo corso (ti confesserò a mia volta che anche nei miei corsi sono proprio i principi politici quelli più trascurati, perché sono ancora in me nello stadio della elaborazione teorica). Ma il fatto resta che hai professato oralmente per molti anni e pubblicato ripetutamente corsi di scienza delle finanze senza quel capitolo, nel quale soltanto dovrebbe risiedere la parte scientifica della finanza. Il fatto non può che smentire questa affermazione, perché penso che Ti saresti rifiutato di professare e pubblicare dottrine non corrispondenti alle esigenze scientifiche”.

Le citazioni sono tratte da Ghessi, 1991, pp. 288-313.

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XI Non è solo, dicevamo, il “teorema della doppia tassazione del reddito

risparmiato” che entra in gioco. E, se fosse solo questo, sarebbe povera cosa e

probabilmente sbagliata, sicchè condividiamo l’opinione di Steve secondo cui

“non sembra che il tentativo dell’Einaudi abbia conseguito il suo obiettivo”.31 Di

fatti crediamo che la parte più debole dell’argomento a favore dell’esenzione del

risparmio (riassunto nell’Introduzione, ivi, p. XIV) sia proprio la “doppia

imposizione”.

Intanto, occorre dire che il metodo è pericoloso, condotto com’è in termini

di esempi numerici elementari secondo un costume che gli era divenuto

famigliare sin dal 1902, da quando cioè Einaudi si era occupato degli effetti

delle imposte negli Studi sugli effetti delle imposte: “Imbevuto, come ero, della

fecondità dello strumento logico dell’equilibrio generale, ma inadatto ad

applicare lo strumento matematico con eleganza, mi impegnai a chiarire il mio

pensiero con esemplificazioni numeriche, non giunte al di là delle quattro

operazioni elementari” (ivi, p. XIII).

Ma forse c’è anche qualche errore. Sta bene anche a me che l’imposta

(del 10% ad esempio) la quale “porta via 500 lire alla quota consumata [di 5.000

lire] non ha un seguito”. Mi sta meno bene il destino che Einaudi assegna alle

residue 5.000 lire risparmiate, una volta che anch’esse siano state ridotte a

4.500 lire nette dall’imposta di 500 lire. Ad esempio, si potrebbero impiegare in

attività non fruttifere, che perciò non pagherebbero imposta, sicché cadrebbe la

tesi della doppia tassazione. Certo chi fosse fortunato godrebbe di guadagni di

capitale, ma allora il problema non sarebbe più soltanto quello einaudiano di

assicurare parità di trattamento tra reddito consumato e reddito risparmiato in

coerenza con Una teoria dell’imposta dedotta esclusivamente dal postulato

dell’eguaglianza (come recita il sottotitolo del primo dei Saggi sul risparmio e

l’imposta). Diventa invece anche quello di assicurare parità di trattamento

fiscale tra la crescita dal patrimonio dovuta a reddito risparmiato e la crescita

dovuta ad incrementi patrimoniali di altro tipo, per i quali occorre tener conto del

fatto che risulterebbero già decurtati dalla capitalizzazione dell’imposta sul

31 Cfr. Steve, Luigi Einaudi e gli studi di finanza pubblica, 1974, p. 450.

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reddito. E’ un tema che Einaudi non ha affrontato se non indirettamente

quando, come si ricorderà, finì per rinnegare la sua antica posizione e per

dichiararsi contrario ad un’imposta sulle aree fabbricabili che avrebbe il torto di

colpire un valore già decurtato dalla capitalizzazione dell’imposta sul reddito

dell’edificio, e sul quale merita menzionare il bel volumetto di Franco Romani:

Gli incrementi patrimoniali e l’imposta sul reddito, pubblicato tanti anni fa ormai

(nel 1964) e al quale è seguito un duello cavalleresco fatto di repliche e

controrepliche tra lo stesso Romani e Domenico Da Empoli32.

XII Einaudi si è invece limitato a considerare che le 4.500 lire risparmiate

crescono, in assenza di imposta, di 225 lire (ossia del 5% annuo, essendo tale -

in ipotesi - il saggio dell’interesse), le quali però, tassate al 10%, si ridurrebbero

a 202,5 lire nette che capitalizzate al 5% valgono 4.050 lire. Dunque le 5.000

lire si riducono a 4.500 nette di imposta se consumate e in misura maggiore

(4.050 lire) se risparmiate.

Sarebbe la prova della doppia tassazione e invece è solo un errore dovuto

al fatto che le 4.500 lire risparmiate non possono crescere di 202,5 lire all’anno

nette, ma continuano a crescere di 225 lire, quando il tasso di interesse netto

continuasse a rimanere il 5% anteriore all’imposta (e cioè in caso di

capitalizzazione: il risparmiatore-creditore non paga nulla sugli interessi

maturati perché l’imposta è trasferita sul debitore). Del pari è impensabile che il

tasso di interesse netto rimanga il 5%, quando si volesse far crescere le 4.500

lire risparmiate di 202,5 lire nette all’anno (è il caso di mancata capitalizzazione:

il tasso di interesse si riduce sino a che la annualità di 202,5 lire annue torna a

valere 4.500 e non 4.050). In nessun caso il valore capitale di 4.500 lire può

32 Cfr. Da Empoli, Note critiche intorno ad una trattazione sull’imposizione degli

incrementi patrimoniali, 1965; Romani, Replica alle note critiche di Da Empoli, 1965; Da Empoli, Ancora a proposito dell’imposizione degli incrementi patrimoniali, 1966. Con riferimento a quella polemica cfr. anche il contributo di Magnani, Effetti di benessere derivanti da variazioni del saggio d’interesse e imposizione degli incrementi patrimoniali, 1969.

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essere altro fuorché 4.500. Come si fa a dire che 4.500 non possono essere

4.500 lire ma debbono essere 4.050 lire?

XIII Ma tant’è . Einaudi intuisce che la capitalizzazione dell’imposta rileverebbe

ai fini della doppia tassazione, anzi pensa che essa si realizzi solo in caso di

capitalizzazione dell’imposta; d’altra parte, vuole che la doppia tassazione sia

un fenomeno il più generale possibile ed dunque ha bisogno di superare la

teoria tradizionale la quale avrebbe il torto di confinare il fenomeno della

capitalizzazione alla sola imposta speciale e non invece a quella generale.

Gli argomenti prospettati nei due saggi del 1919 e del 192833 contro la tesi

della mancata capitalizzazione dell’imposta generale sono pregevoli quanto si

voglia e certamente sono un contributo interessante ad un problema

caratterizzato da ben più ampia complessità di quanto fosse il fondamento della

tesi tradizionale. Ad esempio, entra in gioco la difficoltà (impossibilità?) di

identificare un’imposta che sia effettivamente generale; entra del pari in gioco

l’impiego del gettito dell’imposta e il suo diverso grado di produttività rispetto al

caso che le risorse fossero lasciate nelle mani dei privati, e vi è molto altro

ancora in un ventaglio di argomentazioni fittissime, tanto numerose quanto

numerosi sono i casi della vita secondo ciò che caratterizza uno dei tratti più

salienti della produzione anche scientifica di Einaudi. Il guaio è che, almeno a

mio parere e all’opposto di quanto ritiene Einaudi, è proprio nel caso di

mancata capitalizzazione che, caso mai, si può parlare di doppia imposizione

del reddito risparmiato. La ragione è semplicissima: i frutti del reddito

risparmiato subiranno una decurtazione solamente nel caso che l’imposta non

si capitalizzi e non invece nel caso che l’imposta si capitalizzi.

XIV

33 Cfr. Einaudi, Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e

teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, 1919; Einaudi, Metodologia della teoria della capitalizzazione dell’imposta, 1928.

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Non mancano dunque perplessità attorno al modo con il quale Einaudi ha

ritenuto di trovare nella doppia tassazione del reddito risparmiato il fondamento

teorico rigoroso all’idea che il principio dell’uguaglianza richiede l’esenzione del

risparmio. Ma tutto ciò non sminuisce minimamente l’importanza, l’originalità e

l’interesse dell’analisi con la quale Einaudi ci mostra sul terreno concreto e caso

per caso che cosa significhi effettivamente discostarsi dalla tassazione del

reddito consumato e ci fa vedere come il sistema economico e gli individui che

lo compongono finiscono per reagire alla “imposta sbagliata” in modo tale da

rendere instabile l’imposta stessa. E’ una intuizione che scavalca e va ben oltre

il problema della doppia tassazione del reddito risparmiato.

I suoi scritti degli anni dal 1912 al 1929 ristampati nei Saggi sul risparmio

e l’imposta sono appunto rivolti a far vedere e combattere “questi errori – forse

l’errore fondamentale – e per errore si intende, ripetasi ancora una volta, la

norma instabile, la norma che non dura, la norma che di fatto non è attuata per

tacito consenso di tassatori e di contribuenti, la norma contro la cui violazione è

impresa disperata ostinarsi a lottare” (ivi, p. XXII).

C’è insomma la ricerca della ottima imposta attraverso un percorso

indiretto, ai nostri occhi quanto mai ricco di fascino, e cioè di una imposta che

sia neutrale sotto il profilo dei diversi possibili modi di destinazione del reddito,

che è intesa anche come condizione di “sostenibilità” del sistema tributario per il

lungo periodo, e c’è anche l’intuizione geniale che sta dietro al tentativo di

chiarire “non che il metodo di tassazione del reddito guadagnato fosse falso ed

empio […], ma che non era stabile, che non durava e non poteva durare e che i

legislatori, nel tempo stesso nel quale dichiaravano di volerlo applicare, in realtà

seguivano tutt’altra via” (ivi, p. XII). Le quattordici “prove” che Einaudi propone

nella memoria del 1912 per documentare come l’imposta sul reddito

guadagnato, in realtà, esentando il risparmio, tenderebbe a tassare il reddito

consumato, sono un piccolo brano di scienza finanziaria ben raffinata.

Del pari, il processo attraverso il quale Einaudi individua “il principio della

tassazione del reddito normale come qualche cosa di più di un espediente”, e

anzi la considera “la approssimazione più alta e probabilmente più perfetta che

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si conosca al principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile”34

è un contributo meritevole di ammirazione. Del pari è degna di nota l’intuizione

per cui il ricorso al reddito normale consente di cancellare con un colpo di

spugna tutte le difficoltà che si incontrano quando ci si trova nella necessità di

ricorrere alla tassonomia degli infiniti casi in cui il reddito merita di essere

esentato. E’ una intuizione e una testimonianza di pragmatismo davvero

geniale.

XV Dunque Einaudi vuole esentare il risparmio secondo gli argomenti e le

tecniche fiscali sommariamente presentate sopra.

E’ un risparmio, mette conto notare, che non è una parola vuota

applicabile ad un mondo astrattamente semplificato. Einaudi conosce bene con

che cosa ha che fare: con la infinita gamma di motivazioni che ispirano la

condotta delle famiglie, con la varietà notevolissima di impieghi che possono

essere ricondotti alla parola risparmio, con le connessioni tra risparmi, capitali e

loro redditi e attività finanziarie tanto strette da essere oramai divenute oggi

inestricabili, con i modi più svariati attraverso i quali le famiglie rinunciano al

consumo oggi in cambio di una speranza di un domani migliore, e con molto

altro ancora. Ed ha anche sullo sfondo la sua particolare concezione dei modi

con cui il risparmio si inserisce tra le grandezze che compongono il

funzionamento di un modello teorico dell’economia e il significato che il

risparmio riveste nella concreta realtà di un paese come era l’Italia del suo

tempo.

Il mio piano non è quello di Keynes, intitolava Einaudi nel 1933 e non

possiamo esserne sorpresi. La sequenza logica di Keynes secondo la quale

l’utilità dipende dall’occupazione e l’occupazione dipende dal reddito di altri

fuorché di coloro della cui occupazione si tratta e, a sua volta, il reddito dipende

dal consumo di altri fuorché di coloro del cui reddito si tratta doveva suonare

come rivoluzionaria agli occhi di Einaudi, legato come era ad una

interpretazione del risparmio che si inserisce nella sequenza logica tipica del

34 Cfr. Einaudi, Contributo alla ricerca dell’ottima imposta, 1929, p. 465.

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marginalismo, ed esattamente rovesciata rispetto a quella di Keynes: lavoro –

reddito – consumo – risparmio – consumo futuro – utilità. Il tutto in capo ad un

singolo individuo, del quale lo stato è la rappresentazione in esploso.

In questa sequenza, il consumo, lungi dall’avviare il ciclo produttivo, lo

esaurisce, e perciò la tassazione del consumo non interferisce con esso. E’ per

giunta una sequenza che a Einaudi viene facile seguire perché la sua scienza è

radicata nella scienza di coloro che lo hanno preceduto, e perché la sua

economia è radicata nell’intimo della economia della terra, con il suo ciclo

produttivo racchiuso nell’arco dell’anno e con quella sua caratteristica di

rendere possibile separare senza difficoltà i frutti dalla pianta e dunque di

poterli tassare soltanto una volta colti. Ma è ben radicata nella terra perché è lì

principalmente che si coglie il significato anche morale del risparmio, che

consiste anche nel cavarsi il pane di bocca onde potersi trovare nella

condizione di rinnovare la semina anno dopo anno, perché il risparmio significa

rinuncia e parsimonia, essendo l’unico modo per creare spazio da cui poter

attingere al fine di far crescere un paese che non saprebbe dove rivolgersi

altrimenti.

Si potrà forse dire che era un Einaudi antiquato (nonostante che tante

volte il progresso consista nel tornare indietro) quello che non guardava a

Keynes se non con sospetto:

All’uomo della strada e agli economisti antiquati pare dunque assurdo

trovare a prestito 10 miliardi, se prima i 10 miliardi non siano stati messi da parte e non siano tuttora disponibili. Senza la lepre non si fanno pasticci di lepre. Pare invece che nei paesi avanzati i pasticci di lepre di facciano ora con i conigli. Ho l’impressione cioè che, da qualche tempo, gli economisti inglesi siano assidui alla nobile fatica di cercare conigli da sostituire alle lepri. Quando sentono parlare di risparmio all’antica, fanno smorfie […].

Sta di fatto che molti economisti d’avanguardia rivolgono a preferenza la loro attenzione al surrogato del risparmio piuttostochè al risparmio inteso nel senso tradizionale.35

Dunque Einaudi preferiva guardare piuttosto che a Keynes ad un’Italia

alla quale la proposta di Keynes non si adattava, perché era essa stessa

35 Cfr. Einaudi, Il mio piano non è quello di Keynes, 1933, cit. in Forte, Luigi Einaudi: il

mercato e il Buongoverno, 1982, p. 36.

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antiquata essendo ricca di una povertà ben risalente nel tempo. Era l’Italia

descritta da Nitti nella Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in

Calabria (1910), per la quale lo stesso Nitti suggeriva proposte “idonee ad un

paese povero di ferro e di carbone, anzi tra i più poveri d’ Europa”36. Era l’Italia

povera di frumento e ricca di malaria quella tra le due grandi guerre alla quale si

voleva rimediare ampliando la disponibilità di terra con le bonifiche, e non solo

con esse. Era infine l’Italia uscita distrutta dalla seconda guerra mondiale e

perciò povera di tutto quanto occorresse per l’oggi e per il domani (posso

concedere che il piano Marshall potesse essere keynesiano per gli Stati Uniti

che avevano bisogno di creare domanda per i loro prodotti; non posso invece

immaginare che lo fosse per l’Italia che aveva bisogno di rimpiazzare un

risparmio finito sotto le bombe).

E’ a questa Italia che Einaudi fa riferimento quando guarda al risparmio

come unica fonte a cui attingere per un’Italia povera, che perciò non soffriva dei

problemi di cui soffrono i paesi che soffrono di un eccesso di risparmio. E

dunque esso va tutelato, sia sotto il profilo fiscale sia anche sotto il profilo delle

istituzioni e della stabilità economica, quando si consideri che il reddito

risparmiato37 è esposto ad ogni sorta di rischio prolungato a fronte di un reddito

consumato i cui rischi si esauriscono invece con il consumo:

L’uso a ripetizione del gioco delle fughe [dalle monete] ha solo un effetto certo: l’aggravarsi della tendenza all’aborrimento del risparmio, che è forse il più grosso guaio del dopoguerra. Al problema della scelta, da parte di chi ha già deciso di risparmiare, fra il conservare il risparmio sotto forma di moneta o sotto forma di beni reali, si sostituisce il problema fra il risparmiare e il consumare; e

36 Cfr. Nitti, La conquista della forza, 1905. Era d’idea di abbandonare il vapore e di

rivolgersi alle potenzialità delle risorse idriche affrancandole da un sistema privato soffocante. 37 Cfr. Einaudi, Della moneta “serbatoio di valori” e di altri problemi monetari, 1939

(cit. in Forte, 1982, p. 15): “Nelle condizioni odierne, nelle quali, per la tendenza ancora prevalente della popolazione a crescere e soprattutto per la necessità di promuovere l’incremento della produzione e perciò l’innalzamento del tenore di vita dei popoli, tuttora basso nei paesi più civili nei quali il reddito medio è pur discreto, e bassissimo, straordinariamente basso, nel paese dove tenue è il reddito medio, è possibile rinunciare alla formazione di una qualunque delle categorie di risparmio sopraelencate? Pare potersi rispondere con tutta sicurezza di no”.

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poiché tutte le alternative possibili nel caso del risparmio sono fatte ugualmente spiacevoli, si finisce di preferire il consumo al risparmio.38

Di qui appunto la straordinaria attenzione di Einaudi a favore di un

trattamento fiscale favorevole al risparmio in un quadro che esigeva la certezza

del diritto e la stabilità monetaria: “Pertanto – ricorda Steve -, nel momento più

critico [Einaudi] decise ed impose, contro forti interessi, l’arresto dell’inflazione.

E – riportando il giudizio di Bruno Foa – […] egli non permise a nulla di

smuoverlo dalla linea che aveva tracciato e … la sua condotta degli affari, da

quel momento , fu un capolavoro finanziario, che produsse il massimo effetto

con il minimo di azione diretta”39.

XVI Si è detto sopra di Einaudi economista: con la passione per la storia e, al

tempo stesso, con l’ammirazione per gli economisti puri; fondatore e artefice

della Rivista di storia economica e, al tempo stesso, persuaso, in polemica con

Michels40, che “quella scritta secondo il tipo pantaleoniano [allude a Pantaleoni,

1898] sarebbe la più stupenda tra le tante possibili specie di storie delle dottrine

economiche”41; liberale e liberista ma non appartenente a quella schiera di

38 Cfr. Einaudi, Fondo disponibile di risparmio e lavori pubblici, maggio-giugno 1933, cui

farà seguito nel settembre-ottobre dello stesso anno: Risparmio disponibile, crisi e lavori pubblici. Le citazioni sono tratte da Forte, 1982, pp. 40-41.

39 Cfr. Steve, La lezione di Einaudi, 1975, p. 429.

40 Michels, Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche, 1932. Cfr. anche

Michels, Disamina di alcuni criteri direttivi per la storia delle dottrine economiche, 1929.

41 L’allusione è a quella pseudo-storia che dovrebbe essere ispirata al criterio di narrare soltanto le dottrine vere (senza alcuno spazio alla storia degli errori) e che implica quella particolare visione della scienza economica che fu di Pantaleoni (Del carattere delle divergenze d’opinione esistenti tra economisti, 1897) e che si comporrebbe appunto di una serie di proposizioni, di leggi e di apporti nati in epoche diverse ma tra di loro perfettamente compatibili ed anzi parte di un’unica coerente costruzione logica che, come tale, non ha alcuna dimensione temporale o storica.

L’opinione di Einaudi è nel suo articolo Del modo di scrivere la storia del dogma economico, 1932, pp. 213. La frase riportata nel testo riassume il dissenso che Einaudi manifesta contro i dubbi sollevati da Michels (Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche, 1932) a proposito del metodo pantaleoniano di fare storia delle dottrine economiche (ivi, pp. 209-213). Alla recensione di Einaudi fece seguito una breve replica di Michels e una nota finale di Einaudi (cfr. Einaudi e Michels, Ancora intorno al modo di

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studiosi che Jannaccone riuniva sotto il binomio “economisti puri - liberisti”42;

teorico non eccelso, sia pure non privo di qualche ambizione giovanile in questo

senso; costretto a valersi di strumenti analitici rudimentali; capace di capire e

ammirare la bellezza e la grandiosità delle grandi costruzioni teoriche e la forza

della loro logica, ma non altrettanto attrezzato per fare altrettanto, per quanto

capace di grandi intuizioni; non di rado condannato a teorizzare in modo

inesatto, per quanto giusto potesse essere il metodo di indagine (non trovo

contraddizione tra queste due ultime proposizioni) e attento a trovare nelle

teorie più che astrazioni generalizzanti, veri strumenti concettuali utili a fini

pratici.

Non di meno Einaudi è stato, a suo modo, grande economista e non

soltanto sul terreno del concreto. Sicché viene da chiedersi se vi era una teoria

unificante e viene da chiedersi come fare a scoprire sotto quale teoria unificante

Einaudi abbia posto la sua sterminata produzione di scrittore di cose

economiche.

La mia risposta è sì, come del resto si è cercato di fare vedere, sia pure a

tratti e quasi per allusione, nel corso di questo resoconto. Ma è una teoria fatta

di grandi intuizioni e non di rigidi formalismi e perciò anche per questo essa si

colloca su di un terreno diverso rispetto a ciò che normalmente si intende per

teoria.

Forse è la teoria del buon senso propria di chi rifiuta le dottrine, il

dottrinarismo, i suoi dogmi e i suoi paradigmi. E’ ciò che notava un economista

che di economia pura se ne intende, Francis Ysidro Edgeworth, quando, nel

leggere la pagina 53 della sua copia degli Studi sugli effetti delle imposte, gli

veniva da scrivere di suo pugno a margine: “Common sense is piled up against

the dogma that the demand for accomodation is anelastic”!43 A ben vedere, la

scrivere la storia del dogma economico, maggio - giugno, 1932). Einaudi riproporrà la propria posizione nelle sue Reminiscenze, 1950, p. 101: “…e sola vera, ma difficilissima storia della scienza sarebbe quella di chi dalla esposizione dello stato attuale della scienza risalisse via via nel tempo alle formulazioni meno perfette, o approssimative, o parziali; ed in questa analisi dichiarasse come l’errore medesimo abbia contribuito, per via del contrasto provocato, ad eccitare alla scoperta della verità ed al suo successivo perfezionamento”. Sulla posizione di Einaudi cfr., in particolare, Spoto, 1972 e 1984.

42 Cfr. Jannaccone, Gli studi economici alla fine dell’Ottocento, 1898, p. 31.

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constatazione va ben oltre la occasionalità della questione relativa alla rigidità

della domanda di abitazioni e assume una valenza del tutto generale.

E’ anche la teoria del buon senso propria di chi, come fa notare Steve,

riaffermava la necessità di ricorrervi empiricamente nel continuo riscontro

reciproco tra ipotesi della teoria e fatti della realtà. Forse è quel richiamo alla

esigenza di cogliere la complessità delle azioni dei singoli individui, dei loro

comportamenti e delle loro motivazioni ciò che costituisce il monito di quello

sterminato affresco contenuto negli otto volumi delle Cronache economiche e

politiche di un trentennio.

Certamente Einaudi si è interessato principalmente alla condotta dei

singoli individui così come si è interessato a ciò che fa da ponte tra la infinita

varietà delle situazioni e delle motivazioni umane e un unico risultato collettivo.

Vogliamo dire le istituzioni, quelle istituzioni che in particolare presiedono

alla condotta delle persone (fra queste anche le istituzioni tributarie) e la cui

bontà va giudicata in ragione della loro capacità di coniugare equilibrio e

stabilità. Mi sembra questo il modo con cui Einaudi è stato economista e

liberale o, per lo meno, mi sembra che questo sia il modo che mi piacerebbe di

poter cogliere di Einaudi per il mio essere liberale.

43 Debbo la citazione alla cortesia di Massimo Paradiso, che possiede la copia degli Studi

sugli effetti delle imposte che fu già di Edgeworth.

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PANTALEONI Maffeo, 1897, Del carattere delle divergenze d’opinione esistenti tra economisti, pre-lezione al corso di Economia letta nell’università di Ginevra il 23 ottobre e tradotta dall’originale in francese (Du caractère logique des differences qui séparent les économistes, Imprimerie P. Richter, Genève, 1897), in “Giornale degli economisti”, serie seconda, anno VIII, vol. XV, dicembre, pp. 501-530. Ristampato in PANTALEONI M., 1925, vol. I, pp. 157-187 (cui si riferiscono le citazioni). Parziale ristampa in RICOSSA S., a cura di, 1976, pp. 13-24. PANTALEONI Maffeo, 1898, Dei criteri che devono informare la storia delle dottrine economiche, pre-lezione al corso di Economia del semestre 1898-99 nell’università di Ginevra, in “Giornale degli economisti”, serie seconda, anno IX, vol. XVII, 4 novembre, pp. 407-431. Ristampato in PANTALEONI M., 1925, vol. I, pp. 223-247 (cui si riferiscono le citazioni). PANTALEONI Maffeo, 1925, Erotemi di economia, raccolta di scritti a cura dell’Istituto di studi economici, finanziari e statistici dell’università di Roma, 2 voll., Laterza, Bari (ristampa: Cedam, Padova, vol. I, 1963; vol. II, 1964). La Prefazione dell’Autore è apparsa anche in “Giornale degli economisti e rivista di statistica”, serie quarta, anno XL, vol. LXV, aprile 1925, pp. 235-236. PANTALEONI Maffeo, 1936, Studi storici di economia, raccolti a cura dell’Istituto di Politica economica e finanziaria della Regia Università di Roma, Zanichelli, Bologna (con Prefazione di Alberto De Stefani). PARETO Vilfredo, 1973, Epistolario – 1890-1923, a cura di Giovanni Busino, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2 voll. PIGOU Arthur Cecil, 1928, A Study in Public Finance, McMillan, London. Trad. it. sotto il titolo: Uno studio sulla finanza pubblica, Giuffré, Milano, 1959. QUADRO CURZIO Alberto e SCAZZIERI Roberto, a cura di, 1977, Protagonisti del pensiero economico, Il Mulino, Bologna, 2 voll. RICARDO David, 1817, On the Principles of Political Economy and Taxation, John Murray, London. RICCI Umberto, 1939, Tre economisti italiani: Pantaleoni, Pareto, Loria, Giuseppe Laterza e figli, Bari. RICOSSA Sergio, a cura di, 1976, Il manicomio del mondo, Volpe, Roma. ROMANI Franco, 1964, Gli incrementi patrimoniali e l'imposta sul reddito, Quaderni dell'Associazione fra le società italiane per azioni, n. 32, Tip. Armellini, Roma. ROMANI Franco, 1965, Replica alle note critiche di Da Empoli, in “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze”, vol. XXIV, anno XXIV, parte I, pp. 710-721. SPOTO Luciano, 1972, Per un nuovo esame della storiografia del pensiero economico secondo Maffeo Pantaleoni, in “Annali della Facoltà di economia e commercio dell’Università di Palermo”, anno XXVI, nn. 3-4, Palermo, pp. 190-243. SPOTO Luciano, 1984, Montemartini, Pantaleoni e la storiografia del pensiero economico, in “La cultura delle riforme in Italia fra Ottocento e Novecento: i Montemartini”, Atti del seminario nazionale, Pavia, 15 dicembre 1984, pp. 129-143. SRAFFA Piero, 1924, Maffeo Pantaleoni – Obituary, in “The Economic Journal”, vol. XXXIV, n. 136, dicembre, pp. 648-653 (siglato: “P.S.”). Trad. it. in QUADRO CURZIO A. e

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SCAZZIERI R., a cura di, 1977, vol. I, pp. 211-215. Anche in “Rivista di politica economica”, serie terza, anno LXXXV, n. 3, marzo 1995, pp. 5-10. STEVE Sergio, 1974, Luigi Einaudi e gli studi di finanza pubblica, in “Cultura e scuola”, gennaio-giugno, pp. 216-226. Ristampato in FINOIA M., a cura di, 1980, pp. 448-460 (cui si riferiscono le citazioni). STEVE Sergio, 1975, La lezione di Einaudi, in “Il problema della moneta oggi”, prolusione al convegno internazionale indetto nel centenario della nascita di Luigi Einaudi, Roma, 6-8 febbraio 1975, “Atti dei convegni lincei. 12”, Accademia nazionale dei lincei, Roma 1976, pp. 11-24. Ristampato in “Rivista di diritto finanziario e scienza della finanze”, giugno, 1976, pp. 161-178. Parzialmente ristampato in Finoia M., a cura di, 1980, pp. 429-440. Ultima ristampa in Steve S., 1997, pp. 695-711. STEVE Sergio, 1997, Scritti vari, Ciriec, Franco Angeli, Milano. VIANO Carlo Augusto, 2004, Einaudi e Croce: due forme di liberalismo, relazione presentata al convegno “Luigi Einaudi: istituzioni, mercato e riforma sociale”, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 18 e 19 febbraio 2004.