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Le spondiloartropatie del rachide dorso-lombare come malattia professionale non tabellata CARLO OTTAVIANI SOVRINTENDENZA MEDICA GENERALE Sovrintendente Medico Generale: dr. Giuseppe Cimaglia

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CARLO OTTAVIANI

SOVRINTENDENZA MEDICA GENERALE

Sovrintendente Medico Generale: dr. Giuseppe Cimaglia

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ISBN 88-7484-029-2

Stampato dalla Tipolitografia INAIL di Milano

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LE SPONDILOARTROPATIE DEL RACHIDE DORSO-LOMBARECOME MALATTIA PROFESSIONALE NON TABELLATA

INDICE GENERALE

PRESENTAZIONE

PREMESSA 7

CENNI DI ANATOMIA FUNZIONALE DEL RACHIDE 11

LA SPONDILODISCOARTROSI 15

L’ASSICURAZIONE SOCIALE CONTRO LE MALATTIE PROFESSIONALI 21

LA PATOLOGIA RACHIDEA POST-TRAUMATICA 27

I RISCHI LAVORATIVI 29

“LOW BACK PAIN” LAVORO-CORRELATA 38

I RISCHI EXTRAPROFESSIONALI 42

LA FASE CLINICO-DIAGNOSTICA 43

INDENNIZZABILITA’ DELLA SPONDILODISCOARTROSI COME MP NON TABELLATA 45

BIBLIOGRAFIA 47

Appendice:

LE RADICOLOPATIE LOMBARI 53

LA DIAGNOSI RADIOLOGICA DELLA SPONDILODISCOARTROSI 57

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PRESENTAZIONE

L’introduzione del sistema tabellare misto nella tutela delle malattie profes-sionali ha modificato sostanzialmente l’approccio del medico-legale e delmedico del lavoro nei confronti delle patologie a carattere degenerativoriguardanti la colonna vertebrale.Fino a pochi anni fa, infatti, le spondiloartropatie del rachide non avevanocittadinanza come malattie da lavoro in quanto non presenti nella tabella dilegge e quindi non solo non venivano tutelate dall’INAIL ma la loro naturadi “malattia comune” comportava un approccio solo terapeutico e non susci-tava interesse ai fini dello studio, della conoscenza e della prevenzione deirischi lavorativi.Con l’arrivo delle prime denuncie di malattia professionale la patologia delrachide è stata oggetto di particolare attenzione sia da parte degli istituti uni-versitari di medicina del lavoro sia da parte dei medici legali dell’Istituto assi-curatore.Lo scopo era quello di comprendere quando la patologia in questione fosseascrivibile a malattia comune e quando fosse stata causata dal lavoro.Il compito non risulta facile se ogni singolo caso non viene esaminato inmaniera approfondita verificando la sussistenza o meno di elementi connessiagli aspetti patologici remoti, alla natura, intensità e durata del rischio lavo-rativo, agli accertamenti specialistici, alla diagnosi clinica e alle risultanzeepidemiologiche.Il lavoro che presento è stato frutto di un approfondito studio condotto dallaSovrintendenza Medica Generale in collaborazione con l’Istituto diMedicina del Lavoro dell’Università dell’Aquila diretto dal Prof. A.Paoletti.L’intento è stato quello di fornire chiari indirizzi ai medici legali dell’INAILper una istruttoria e trattazione esauriente e corretta dei casi di patologia delrachide denunciati, al fine di arrivare al riconoscimento delle forme lavoro-correlate con esaurienti motivazioni e limitare, per contro, l’eventuale ricor-so al contenzioso.

GIUSEPPE CIMAGLIA

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LE SPONDILOARTROPATIE DEL RACHIDE DORSO-LOMBARECOME MALATTIA PROFESSIONALE NON TABELLATA

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PREMESSA

Le alterazioni a carico del tratto lombo-sacrale del rachide sono uno dei problemi di piùgrande rilevanza nei paesi occidentali, interessando una vastissima fascia della popola-zione adulta (60-80% dei soggetti >50 anni e circa il 100% di quelli >60 anni), sialavorativa che non.

Le affezioni cronico-degenerative della colonna vertebrale sono di assai frequenteriscontro presso collettività lavorative dell’agricoltura, dell’industria e del terziario.Esse, sotto il profilo della molteplicità delle sofferenze e dei costi economici e socialiindotti (assenze per malattia, cure, cambiamenti di lavoro, invalidità) rappresentanouno dei principali problemi sanitari nel mondo del lavoro. Il dolore lombo-sacrale(“low back pain” degli anglosassoni) è una delle più frequenti cause di riduzione, tem-poranea o permanente, della capacità lavorativa.

Il National Institute of Occupational Safety and Health (NIOSH – USA) pone talipatologie al secondo posto nella lista dei dieci problemi di salute più rilevanti nei luoghidi lavoro. Negli Stati Uniti il “low-back pain” determina una media di circa 30 giornidi assenza per malattia ogni 100 lavoratori; le patologie del rachide sono la principalecausa di limitazione lavorativa nelle persone con meno di 45 anni e gli indennizzi perpatologie professionali della colonna assorbono circa 1/3 dei costi totali di indennizzo.E’ stato stimato che, per tali affezioni, i settori produttivi dell’industria statunitensespendono ogni anno una somma dell’ordine di alcune decina di migliaia di miliardi inlire italiane per trattamenti curativi e compensi assicurativi. Nei Paesi anglosassoni escandinavi si osserva un trend assai simile.

In Italia, le sindromi artrosiche sono, secondo ripetute indagini ISTAT sullo stato disalute della popolazione, le affezioni croniche di gran lunga più diffuse. D’altro lato, leaffezioni acute dell’apparato locomotore sono al secondo posto (dopo le affezioni dellevie respiratorie comprendenti anche le sindromi influenzali) nella prevalenza puntualedi patologie acute accusate dagli italiani. Ancora in Italia, le sindromi artrosiche sonoal secondo posto tra le cause di invalidità civile. Secondo stime provenienti dagli Istitutidi Medicina del Lavoro, le patologie croniche del rachide sono la prima ragione nellerichieste di parziale non idoneità al lavoro specifico. Tra gli infortuni sul lavoro, lalesione da sforzo, che nel 60-70% dei casi è rappresentata da una lombalgia acuta, nonfa registrare alcun trend negativo.

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Da più parti le spondilodiscoartropatie vengono usualmente annoverate tra le “work-related diseases” ovvero tra quelle patologie cronico-degenerative ad eziologia multifat-toriale rispetto alle quali l’ambiente di lavoro può assumere talvolta il ruolo di concau-sa diretta ed efficiente. In particolare, tra tutte le diverse condizioni patologiche chepossono essere definite “spondilodiscoartropatie”, verrà presa per il momento in consi-derazione la sola spondilodiscoartrosi lombare, che presenta le problematiche cliniche emedico-legali assicurative di maggiore rilievo.

Numerosi studi hanno evidenziato come le alterazioni cronico-degenerative sono diassai frequente riscontro presso molteplici collettività lavorative dell’industria e del-l’agricoltura, in relazione a condizioni lavorative caratterizzate da posture coatte,movimenti abnormi del tronco, movimentazione manuale di carichi e vibrazioni inte-ressanti l’intero corpo, che rappresentano i fattori professionali causali o concausalinella etiopatogenesi di tali affezioni.

Va d’altro canto sottolineato che molteplici possono essere i fattori extralavorativi (età,sesso, fattori costituzionali, psicosociali, iatrogeni, ecc.) e che molto spesso la genesidel “low back pain” non risulta essere legata apparentemente ad alcuna causa specifi-ca cosi da venir definito “idiopatico”.

In letteratura è stato finora sufficientemente correlato il rapporto esistente tra attivitàdi movimentazione manuale di carichi ed incremento del rischio di contrarre affezioniacute e croniche a carico dell’apparato locomotore ed in particolare del rachide lomba-re. Questa constatazione ha spinto alcuni paesi occidentali ad emanare specifiche nor-mative e standards rivolti a limitare l’impiego della forza manuale nello svolgimentodell’attività lavorativa (CEE 269/90, NIOSH 1993 – v. infra), tentuo conto che èstato stimato come nei paesi europei circa il 20% della forza lavoro sia coinvolto in atti-vità lavorative comportanti la movimentazione manuale di carichi. Più recentemente èemerso il problema delle alterazioni del rachide legate alle WBV (vibrazioni-scuoti-menti interessanti l’intero corpo) ed alla postura assunta sul lavoro.

L’esperienza italiana dei servizi di medicina del lavoro sulla materia si è sviluppatasoprattutto a partire dagli anni ‘80 ed è stata in grado di dimostrare l’esistenza di spe-cifici rischi lavorativi in diversi contesti in cui vi è un largo ricorso alla forza manuale:addetti all’edilizia, operatori mortuari, addetti all’industria ceramica, cavatori, opera-tori ospedalieri, addetti ad operazioni di facchinaggio, sono tutte categorie in cui è statopossibile dimostrare un eccesso di patologie riconducibili alla concreta condizione lavo-rativa.

Pertanto, tenuto conto della notevole incidenza socio-economica di tali disturbi anchenel nostro Paese e del crescente interesse medico-sociale all’estensione della tutela pri-

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vilegiata INAIL per le patologie “work-related” come MP non tabellate (cfr. sentenzadella Corte Costituzionale n.179/88 - v. infra), l’Istituto ha deciso di definire ancheper queste patologie degli indirizzi tecnico-operativi idonei al riconoscimento di un’e-ventuale origine professionale delle stesse.

Al riguardo va infatti sottolineata la valenza sociale della scelta operata dall’INAIL nel1997 di partecipare più incisivamente alla ricostruzione degli elementi probatori delnesso etiologico, sia sul versante del rischio (indagine ispettiva, pareri della CON-TARP, etc.) sia in termini più propriamente medico-legali, avviando, tra l’altro, ini-ziative di studio e di approfondimento scientifico finalizzate all’elaborazione di apposi-ti protocolli diagnostici.

A questo proposito, la Sovrintendenza Medica Generale ha costituito nel secondosemestre del 1998 un gruppo di lavoro misto INAIL/SSN/UNIVERSITA’ pressol’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università degli Studi dell’Aquila (direttore prof.A. Paoletti) per l’approfondimento multidisciplinare delle problematiche connesse allepatologie del rachide. Il gruppo è stato coordinato dal sottoscritto e dal prof. A. Paolettied ha visto la partecipazione di medici specialisti in Medicina del Lavoro, MedicinaLegale, Clinica Ortopedica, Radiologia, Neurologia e Fisiatria.

Gli obiettivi del gruppo di lavoro sono stati i seguenti:• individuazione del quadro morboso più strettamente correlabile con i fattori di

rischio lavorativi noti;• definizione di parametri per livelli differenziati di rischio lavorativo;• diagnostica differenziale con altri quadri clinici di origine extralavorativa.

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CENNI DI ANATOMIA FUNZIONALEDEL RACHIDE

La colonna vertebrale è costituita da un’alternanza di vertebre ossee e di dischifibrocartilaginei. Le vertebre cervicali, dorsali e lombari restano libere ed indi-pendenti costituendo la parte mobile del rachide; le sacrali e le coccigee inveceperdono la loro individualità, saldandosi più o meno fra loro in modo da costitui-re, rispettivamente, il sacro (che si articola con la cintura pelvica) ed il coccige.

Una vertebra consiste tipicamente di un corpo anteriore e di un arco posteriore.Il corpo ha forma approssimativamente cilindrica; l’arco vertebrale è compostoda due peduncoli e due lamine, queste due ultime unite posteriormente a forma-re il processo spinoso. Su entrambi i lati inoltre, l’arco fa da supporto ai proces-si trasversi ed ai processi articolari superiori ed inferiori; questi ultimi formanole articolazioni mobili con i corrispondenti processi delle vertebre adiacenti,mentre i processi trasversi e spinosi danno inserzione ai numerosi muscoli che suessi terminano. I peduncoli e le loro apofisi articolari formano le incisure verte-brali superiori ed inferiori, che nel loro insieme realizzano i forami interverte-brali per i quali passano i nervi spinali ed i vasi.

Le 24 vertebre presacrali sono distinte in tre gruppi sulla base di peculiari carat-teristiche regionali, le vertebre delle zone di passaggio sono dette di transizione,presentando caratteristiche delle due zone contigue. In particolare, le vertebrelombari sono le più massicce, distinguibili da quelle cervicali o dorsali per lamancanza di forami trasversali e di faccette articolari costali.

Le articolazioni del rachide sono rappresentate da diartrosi (articolazioni mobili –ad es. articolazioni interapofisarie) e da anfiartrosi; tra queste ultime annoveria-mo le articolazioni dei corpi vertebrali veri e propri, con l’interposizione di undisco fibrocartilagineo.

I mezzi di unione del rachide sono costituiti da:- dischi intervertebrali, che si interpongono tra le due superfici articolari vicine; - legamenti intersomatici, che si dispongono attorno all’articolazione formando

due larghi nastri i quali occupano tutta l’altezza della colonna (legamento lon-gitudinale anteriore e legamento longitudinale posteriore);

- legamenti gialli (che si estendono ad unire tra loro le lamine);- legamenti interspinosi;- legamenti intertrasversari.

I dischi intervertebrali fungono da potenti mezzi di connessione e da ammortizza-tori elastici. Sono formati, schematicamente, da alcuni strati esterni concentri-ci di tessuto fibroso e cellule cartilaginee (anello fibroso) e da una zona elastica

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centrale semifluida ad alto contenuto idrico (nucleo polposo). Mentre la funzio-ne essenziale del nucleo è quella di ridistribuire le forze complessive all’internodel rachide, il compito più importante dell’anello fibroso è quello di opporsi allatensione ed alla sollecitazione in torsione. I dischi fibrocartilaginei sono privi diterminazioni nervose e di vasi, eccetto che nella loro porzione più periferica.

Nella regione cervicale, come in quella lombare, i dischi intervertebrali hannoforma di cuneo in quanto più alti nella loro sezione anteriore, contrariamente aquanto accade nella regione dorsale, dove i dischi hanno spessore uniforme. Laforma a cuneo accentuato del disco lombo-sacrale aiuta a minimizzare gli effettidella marcata angolazione lombo-sacrale. In un adulto sano i dischi interverte-brali costituiscono circa il 25% della lunghezza dell’intera colonna vertebrale.

La colonna vertebrale, nel suo complesso, assolve ad un ruolo statico di sostegnoe ad una complessa funzione statico-cinetica. La colonna vertebrale può essereconsiderata come una serie coordinata di segmenti costituiti da unità funzionalisovrapposte, a loro volta rappresentate da due vertebre adiacenti e dai tessutiinterposti; essa si configura come una struttura elastica capace di garantire, inopposizione alla gravità, sia la stazione eretta che l’equilibrio di forza e resisten-za necessari per ogni attività cinetica. E’ possibile distinguere le unità funziona-li in due sezioni: quella anteriore, costituita dai corpi vertebrali e dal disco, equella posteriore, rappresentata dalla coppia di articolazioni che pongono in reci-proca connessione le due vertebre.

La sezione anteriore dell’unità funzionale svolge la funzione di sostegno e di assor-bimento meccanico. Il liquido nucleare (gel colloidale), in quanto confinato inun contenitore chiuso (l’anello fibroso), obbedisce alle leggi fisiche dei liquidisotto pressione. Esso è infatti incompressibile, per cui qualunque forza esternaapplicata su una unità della sua superficie, si trasmette immodificata ad ogniunità della superficie interna del contenitore (legge di Pascal). La presenza delliquido nucleare impedisce che le sollecitazioni compressive provochino unavvicinamento dei corpi vertebrali maggiore di quello consentito dalla disten-sione delle fibre dell’anulus. Il movimento di una vertebra sull’altra è reso possi-bile dal fatto che il gel nucleare può spostarsi in avanti e all’indietro, con disten-sione delle fibre dell’anulus, rispettivamente, anteriori o posteriori e con deten-sione di quelle del versante opposto. La resistenza del rachide agli insulti mec-canico-cinetici è legata anche alla presenza dei legamenti longitudinali che pro-teggono i dischi ventralmente e posteriormente; a livello lombare il legamentolongitudinale posteriore si presenta meno sviluppato in larghezza, raggiungendoin corrispondenza dell’interspazio L5-S1 un’ampiezza pari alla metà di quella ori-ginaria. Il rischio di erniazione discale posteriore risulta pertanto più elevato neltratto lombare che in quelli sovrastanti.

La sezione posteriore dell’unità funzionale svolge le funzioni di mantenimento dellastazione eretta, di locomozione e di esecuzione di movimenti più complessi. E’costituita dagli archi, dai processi trasversi, dai processi spinosi, e dalle coppie diarticolazioni posteriori che pongono le vertebre in reciproca connessione. Le fac-cette articolari fungono da guida per il movimento fra due vertebre adiacenti inrelazione al loro orientamento spaziale (lungo un asse verticale ed antero-poste-

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riore, come nel tratto lombare, od orizzontale, come nel tratto dorsale), consen-tendo o limitando la libertà di movimento dei vari segmenti della colonna.

I movimenti del rachide, scaturenti dai reciproci spostamenti delle diverse unitàfunzionali contigue, possono essere definiti “cumulativi” nel senso che, purestrinsecandosi in maniera più o meno apprezzabile come singoli movimenti intutta la colonna che è situata al di sopra del sacro, essi si manifestano tangibil-mente solo quando un certo numero di vertebre prendono parte al movimentostesso. Nel suo insieme il rachide può compiere movimenti di flessione, esten-sione, rotazione ed inclinazione. Tutti i movimenti sono eseguibili con il rachi-de cervicale, mentre la flesso-estensione è prevalente nel tratto lombare, la rota-zione e l’inclinazione nel tratto dorsale. In sintesi, quindi, i movimenti dellacolonna vertebrale derivano da una sommatoria di azioni dovute principalmen-te: ai muscoli spinali profondi (prevalentemente per il movimento di estensionedel rachide), che prendono inserzione sui processi spinosi e trasversi, agli spo-stamenti del nucleo polposo all interno dell’anulus (motilità della sezione ante-riore), ai legamenti longitudinali, che impediscono flesso-estensioni eccessive eproteggono l’anello, alle articolazioni posteriori che guidano il movimento.Inoltre l’ampiezza del movimento dipende da molteplici fattori: distensibilità deilegamenti longitudinali, rapporto altezza/diametro dei dischi, elasticità dellecapsule articolari, elasticità dei muscoli, mobilità delle coste, orientamento delleapofisi spinose.

Va in ultimo ricordato che sebbene la cinetica flessoria sia attribuibile per granparte al tratto lombo-sacrale il meccanismo che completa l’escursione flessoria èil movimento di rotazione della pelvi intorno all’asse trasversale delle coxo-femorali. Se il tronco viene flesso in modo naturale, la rotazione pelvica e la fles-sione lombare avvengono simultaneamente: mentre la pelvi inizia a ruotare, iltratto lombare subisce un iniziale appiattimento e quindi una graduale inversio-ne della sua lordosi.

I fattori che determinano la statica e la dinamica rachidea sono dunque iseguenti:• la normale morfologia dei corpi vertebrali,• l’integrità anatomo-fisiologica dei dischi intervertebrali e dei legamenti che

ne condizionano l’elasticità• l’orientamento della pelvi e delle estremità inferiori• l’integrità anatomo-fisiologica della muscolatura, la quale, mediante fini

meccanismi nervosi (riflessi propriocettivi, vestibolari, oculari, ecc.), per-mette le correzioni posturali necessarie al mantenimento dell’equilibrio.

Il metabolismo del disco intervertebraleI dischi intervertebrali nell’adulto non possiedono un sistema vasale di nutrizio-ne, ma ricevono le sostanze nutritive esclusivamente per diffusione attraverso lelimitanti somatiche dei corpi vertebrali (meccanismo predominante) ed attra-verso l’anello fibroso. Un’alterazione di queste strutture (ed in particolare dellelimitanti) comporterebbe uno stato di carenza nutrizionale responsabile dellapatologia degenerativa del disco. Le strutture intradiscali che per prime risento-

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no del deficit nutrizionale sono le cellule fibroblastiche (con emivita di pochesettimane) produttrici delle sostanze fondamentali e delle fibre. La sintesi cellu-lare degli elementi extracellulari richiede l’apporto costante di glucosio, ammi-noacidi, sali minerali ecc. che vengono richiamati per diffusione dagli adiacentivasi sanguigni paravertebrali, così come le sostanze cataboliche vengono elimi-nate dallo spazio intervertebrale. Si comprende come sia necessario un costantericambio per garantire l’equilibrio tra biosintesi e catabolismo delle strutture cel-lulari.

I meccanismi che garantiscono il ricambio metabolico nel disco sono rappresen-tati, principalmente, dalle variazioni del carico di pressione vertebrale e dall’as-sorbimento di acqua nello spazio intradiscale. Infatti, l’insieme dello spaziointradiscale, dei piatti cartilaginei, dell’anello fibroso, dei tessuti paravertebralie dalla spongiosa delle vertebre adiacenti può essere considerato come un siste-ma osmotico in equilibrio. L’interfaccia semipermeabile è costituita dall’anellofibroso e dai piatti cartilaginei che separano l’interstizio intradiscale da quelloextradiscale, mentre le sostanze macromolecolari contenute nello spazio intradi-scale sono responsabili della pressione colloidale osmotica od oncotica.Applicando una forza meccanica (pressione) sul sistema osmotico si determinala fuoriuscita di liquidi dal disco con diminuzione di volume dello stesso edaumento della concentrazione della soluzione intradiscale. Nel momento in cuicessa la forza pressoria si ha un richiamo di liquidi all’interno del disco ad operadella pressione oncotica. Il regolare alternarsi di condizioni di carico (postura inpiedi seduta senza appoggio, sollevamento di carico) e scarico (postura sedutacon il rachide appoggiato e postura sdraiata) sulla colonna e quindi sui dischiconsente dunque una corretta nutrizione dei dischi stessi.

Sedi tessutali di origine del doloreCome già detto i dischi intervertebrali sono privi di terminazioni nervose equindi privi di sensibilità dolorifica; anche i legamenti gialli ed interspinosi sonoinsensibili agli stimoli algogeni. Al contrario il legamento longitudinale poste-riore e la sinovia delle articolazioni posteriori presentano una ricca innervazio-ne. Si comprende così come le alterazioni della colonna vertebrale sia di tipolegamentoso che osteo-articolare, anche se non a carico di strutture anatomichedirettamente innervate, possono determinare la comparsa di una sintomatologiadolorosa in rapporto ad una azione esercitata nei confronti dei tessuti contiguisopraddetti.

Un’altra importante sede di origine del dolore è dovuta alla componente musco-lare; uno stato di contrattura muscolare protratta può originarsi da spasmi rifles-si locali mentre una contrazione muscolare troppo energica può dare doloreanche per irritazione locale del periostio. A livello lombo-sacrale una frequentecausa di dolore (irradiato) è rappresentata infine dalla compressione delle radicidel nervo sciatico.

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LA SPONDILODISCOARTROSI

Per artrosi si intende un’artropatia cronica, a carattere evolutivo, consistenteinizialmente in alterazioni regressive della cartilagine articolare e secondaria-mente in modificazioni delle altre strutture che compongono l’articolazione(tessuto osseo, sinovia, capsula). Clinicamente l’artrosi si manifesta con dolore,limitazione funzionale, atteggiamenti viziosi. L’artrosi si instaura in un’articola-zione quando in essa si verifica, per fattori generali o locali, uno squilibrio traresistenza della cartilagine e sollecitazioni funzionali.

Fattori generali- età (modificazioni del pH del liquido sinoviale);- erditarietà (predisposizione alle affezioni artro-reumatiche);- squilibri ormonali (con particolare riguardo agli estrogeni);- obesità (sovraccarico delle articolazioni ed accumulo di colesterolo);- alterazioni metaboliche (calcio, etc.);- ambiente (abitazione, clima, condizioni di lavoro).

Fattori locali- concentrazione o alterata distribuzione delle sollecitazioni meccaniche sulla

superficie articolare (deviazione dei normali assi di carico, etc.);- alterazioni articolari prodotte da affezioni di natura infiammatoria, traumati-

ca, necrosi epifisarie, etc.

ClassificazioneDistinguiamo un’artrosi primaria (riferibile solo a fattori generali) ed un’artrosisecondaria (da cause locali). Dal punto di vista anatomo-patologico si rilevanoi seguenti reperti (pur se variamente accentuati in rapporto al grado evolutivodella malattia):- alterazioni cartilaginee articolari (assottigliamento, fissurazioni, ulcerazioni

con messa a nudo dell’osso subcondrale);- osteofiti marginali (neoformazioni ossee di varia forma – a becco, a rostro –

per ossificazione della cartilagine o delle inserzioni capsulari) in corrispon-denza del margine periferico della superficie articolare. In caso di grossolanaosteofitosi che determina la completa deformazione dei capi articolari si parladi artrosi deformante;

- osteosclerosi subcondrale (addensamento del tessuto osseo in corrispondenza dellezone di maggiore usura della cartilagine, laddove il carico è più accentuato);

- cavità psudocistiche o “geodi” (sono alternate o nel contesto delle zone diosteosclerosi);

- alterazioni della mebrana sinoviale;- alterazioni della capsula.

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La sintomatologia clinica è esclusivamente locale. Si instaura tuttavia in manie-ra subdola e tardiva rispetto all’inizio della malattia, evolvendo in maniera cro-nica attraverso fasi di attenuazione e remissione. Fondamentalmente abbiamodolore locale, progressivamente ingravescente, e limitazione articolare (da osta-colo meccanico e/o da contrattura), segno costante e relativamente precoce.

Quadro radiografico.I più comuni reperti sono costituiti da:• restringimento della rima articolare fino alla sua completa scomparsa (usura

cartilaginea);• osteofitosi (precoce) a livello dei bordi delle superfici articolari;• alterazione della struttura ossea subcondrale, con zone di osteosclerosi e

cavità geodiche.

L’osteoartrosi incide per i 2/3 sul totale delle malattie reumatiche ed è una dellepatologie più frequenti in assoluto, insieme alle patologie cardiovascolari e respi-ratorie. L’osteoartrosi non deve però essere considerata come un’ineluttabile con-seguenza dell’invecchiamento ma una vera malattia, caratterizzata da fenomenidegenerativi della cartilagine articolare precoci ed intensi, a cui si associano pro-cessi flogistici della sinovia e delle altre strutture anatomiche periarticolari.

Bisogna pertanto fare una chiara distinzione tra l’osteoartrosi (che si manife-sta tipicamente a 45-50 anni) e l’artrosi senile, tipica dei soggetti anzianiultrasessantacinquenni e legata esclusivamente alla senescenza della cartilagi-ne articolare.

La diagnosi di osteoartrosi è dunque una diagnosi clinica, che scaturisce da uninsieme di dati anamnestici, obiettivi, di laboratorio e strumentali. Non apparepertanto corretto porre diagnosi di osteoartrosi solo in presenza di reperti radio-logici (ad es. osteofiti) ininfluenti dal punto di vista fisiopatologico, che in effet-ti sopra una certa età (65-70 anni) possono essere riscontrati in alcuni distrettianatomici (ad es. vertebre) nel 100% dei soggetti (Schmorl, 1932)

L’osteoartrosi ha poi una notevole incidenza sociale, perché colpisce tipicamen-te soggetti lavorativamente attivi e quindi determina, oltre che elevati costi percomplessi e reiterati interventi di assistenza medica e fisiatrica, perdita di nume-rose giornate lavorative e corresponsione di pensioni d’invalidità, in Italia limi-tate (finora) agli ambiti giuridici della causalità di servizio e dell’invalidità pen-sionabile INPS ma in altri Paesi (USA, UK e paesi scandinavi) fortemente inci-denti anche sul versante dell’indennizzo dell’inabilità lavorativa per infortunisul lavoro e malattie professionali.

Le principali localizzazioni dell’artrosi sono all’anca, alla colonna vertebrale e alginocchio. Alla colonna vertebrale si localizza frequentemente al tratto cervica-le e lombare. L’artrosi vertebrale suole essere distinta in artrosi anteriore o inter-somatica (spondilodiscoartrosi propriamente detta) e di artrosi posteriore o apo-fisaria.

Nel primo caso (spondilodiscoartrosi) si hanno alterazioni dei corpi vertebrali in

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relazione alla progressiva disidratazione, degenerazione e schiacciamento di unoo più dischi intervertebrali adiacenti. Come già detto, i dischi intervertebralisono composti da un anello fibroso e da un nucleo polposo: il primo rappresen-ta la porzione periferica, di natura consistente ed elastica, costituito da lamelledisposte concentricamente, formate da fibre collagene ed elastiche, mentre ilsecondo è costituito da una massa gelatinosa sferoidale posta al centro del discointervertebrale con funzione di assorbire e ridistribuire uniformemente sullesuperfici cartilaginee dei corpi vertebrali contigui, le sollecitazioni statico-dina-miche ricevute. Dopo l’età di 40-50 anni tutti i dischi (ma soprattutto quelli deltratto inferiore del rachide cervicale e lombare) vanno incontro a fenomeniregressivi: riduzione del tenore idrico del nucleo e perdita delle proprietà elasti-che dell’anulus. A causa della degenerazione discale le sollecitazioni di pressio-ne si concentrano sui bordi dei corpi vertebrali, con sclerosi reattiva delle limi-tanti somatiche superiore ed inferiore e proliferazione osteofitaria marginaleche, insieme alla riduzione dello spazio intersomatico, costituiscono la triaderadiografica della spondilodiscoartrosi.L’artrosi apofisaria o artrosi vertebrale posteriore consiste invece nella comparsadelle tipiche alterazioni artrosiche a carico delle apofisi articolari posteriori.

Tutte e due le forme presentano la stessa sintomatologia: dolore locale e rigiditàarticolare. Possibili complicazioni sono:- le sindromi midollari (a livello cervicale);- le sindromi vascolari (a livello cervicale – sindrome di Neri-Barrè-Lieu);- le sindromi radicolari (cervicobrachialgie e lombosciatalgie): gli osetofiti,

sviluppandosi in sede postero-laterale in corrispondenza del forame diconiugazione, comprimono la rispettiva radice nervosa.

Classificazione.Tenendo presenti le molteplici sovrapposizioni causali di origine vertebrale enon che concorrono alla genesi di una sindrome dolorosa a localizzazione lom-bare è possibile individuare le seguenti forme:1) Patologia discale

- Protusione dell’anello fibroso- Ernia del nucleo polposo

2) Patologia dell’istmo vertebrale- Spondilolisi-spondilolistesi

3) Patologia discosomatica- Spondilodisplasia metafisaria giovanile (Malattia di Scheuermann)- Spondilodiscoartrosi

4) Patologia da stimolazione di strutture algogene rachidee e non.- Artropatia interapofisaria- Vizi di transizione lombo-sacrali- Sindrome delle spinose- Sindrome del passaggio dorso-lombare- Sindromi miofasciali- Entesiti legamentose- Tendinopatie dei muscoli stabilizzatori del rachide

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SPONDILOLISI E SPONDILOLISTESI

Per spondilolisi si intende l’interruzione mono o bilaterale dell’istmo, cioè dellaporzione vertebrale compresa tra le apofisi articolari superiori ed inferiori del-l’arco neurale. In caso di interruzione bilaterale, si avrà in una elevata percen-tuale di casi una spondilolistesi, ovvero lo scivolamento anteriore del corpo ver-tebrale, dei peduncoli, delle apofisi trasverse e dei processi articolari superiorisulla vertebra sottostante.

Sulla base della letteratura più recente, la spondilolisi viene oggi ritenuta unalesione acquisita, che si verifica nell’epoca dell’accrescimento corporeo e dunqueinterpretata come una frattura da stress dovuta a notevoli sollecitazioni statico-dinamiche settoriali, specie in iperestensione. La spondilolisi può essere del tuttoasintomatica o manifestarsi, in altri casi, con una dolenzia localizzata in corri-spondenza del segmento vertebrale interessato, che si accentua con la stazioneeretta, con la deambulazione e con i tentativi di eseguire un’attività lavorativae/o sportiva. Nei casi in cui si associa una listesi, è possibile talvolta apprezzarecon la palpazione la sporgenza dell’apofisi spinosa della vertebra listesica.

La conferma del sospetto clinico si basa sullo studio radiologico nelle ordinarieproiezioni ortogonali, integrate dalle due proiezioni oblique; la protezione late-rale è spesso assai utile per documentare lo spostamento anteriore del corpo ver-tebrale che non appare più allineato con i margini posteriori dei corpi vertebra-li contigui. Le proiezioni oblique sono le più idonee invece per dimostrare ladiscontinuità dell’istmo che appare come un difetto lineare radiotrasparente amargini più o meno regolari, spesso definito come “cagnolino con la testa moz-zata”. La scintigrafia ossea può, nei casi di negatività radiologica, fornire l’unicadocumentazione della lesione.

L’ERNIA DEL DISCO

Consiste nella migrazione posteriore o più spesso postero-laterale del nucleopolposo, attraverso fissurazioni dell’anello fibroso; il materiale erniario può rima-nere contenuto dal legamento longitudinale posteriore ovvero interromperne lacontinuità, penetrando nel canale vertebrale. In questi casi, accanto alla sinto-matologia dolorosa ad esordio brusco di origine discale, si associano sintomiperiferici sul territorio di distribuzione della radice, con caratteristiche diverse aseconda dell’entità e della sede della compressione.

Se l’ernia comprime la quarta radice lombare (per ernie tra L3-L4), il dolore siirradierà lungo la faccia anteriore della gamba e sul ginocchio. Per un’ernia checomprime la quinta radice lombare (per ernia tra L4-L5), il dolore si distribuiràsulla faccia postero-laterale della coscia, su quella laterale della gamba e suldorso del piede sino al 1° dito.

Se risulta coinvolta la prima radice sacrale (per ernia tra L5-S1), il dolore si irra-dierà sulla superficie posteriore della coscia, della gamba e sulla pianta del piede,coinvolgendo il 4° e 5° dito.

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Alla caratteristica sintomatologia periferica da irritazione radicolare si associala positività dei segni di Delitala (accentuazione del dolore irradiato alla pal-pazione profonda del metamero interessato), di Valleix, che suscita dolore allapressione esercitata su alcuni punti elettivi (ischiatico, gluteo, peroneo dietrola testa del perone e malleolare) e di Lasegue (elevazione dell’arto inferioreesteso). A questi segni si accompagnano, nelle forme conclamate, riduzioni diforza e della sensibilità con iporiflessia nell’area di distribuzione della radiceinteressata.

La diagnosi di ernia discale può essere facilmente confermata mediante la riso-nanza magnetica nucleare che fornisce una rappresentazione panoramica delcanale vertebrale e del suo contenuto; nelle scansioni assiali ed in condizioni dinormalità, il bordo posteriore del disco appare lievemente concavo e non supe-ra i margini dei corpi vertebrali adiacenti. Nella protrusione o nell’ernia disca-le, il bordo posteriore del disco appare deformato con una convessità più o menoacuta che impronta lo spazio epidurale esercitando un effetto compressivo sullaradice nervosa.

LOMBALGIE E LOMBOSCIATALGIE

La causa più frequente è rappresentata da alterazioni discali lombari. La lombal-gia è una sintomatologia dolorosa limitata alla regione lombare, espressione cli-nica di un’alterazione delle strutture osteofibrose del rachide distrettuale senzarisentimento delle radici spinali corrispondenti. La lombosciatalgia si ha allor-ché la sintomatologia dolorosa si irradia all’arto inferiore in corrispondenza delterritorio del nervo sciatico per sofferenza radicolare.

Il dolore lombare è l’espressione clinica dell’irritazione o della compressione delnervo seno-vertebrale di Luschka, che si distribuisce alla porzione periferica del-l’anulus, al legamento longitudinale posteriore, al periostio, all’arco posteriorevertebrale, alla capsula delle articolazioni interapofisarie. La lombalgia è carat-terizzata da:- dolore spontaneo localizzato al rachide lombare, accentuato dalla pressione

locale e dai tentativi di mobilizzazione del tronco;- contrattura della muscolatura paravertebrale, con secondario atteggiamento

obbligato del rachide lombare in flessione anteriore o laterale;- rigidità del tronco.

La lombalgia acuta si ha a seguito della distensione repentina dell’anulus e/o perdistorsione delle articolazioni interapofisarie. La lombalgia cronica è invece inrapporto a:- protrusione dell’anulus;- artrosi intersomatica e interapofisaria;- anomalie congenite del tratto lombo-sacrale;- squilibri statico-dinamici (obesità, gravidanza, scoliosi, ipocinesie, etc.);- processi infettivi;- osteopatie metaboliche;- neoplasie vertebrali.

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LombosciatalgiaE’ una sindrome dolorosa che dalla regione lombare si irradia con distribuzioneradicolare all’arto inferiore, nel territorio del nervo sciatico. La causa più comu-ne è l’ernia discale, che, come già detto, si verifica quando, sotto l’impulso di unasollecitazione abnorme, il nucleo polposo supera le fibre dell’anulus facendosistrada attraverso preesistenti deiscenze di natura degenerativa (discopatia) cherappresentano l’indispensabile presupposto anatomo-patologico dell’ernia stessa.Gli stretti rapporti esistenti tra gli ultimi due dischi e le radici spinali L5-S1 ren-dono ragione della frequente sofferenza radicolare (sciatalgia) che si instaura aquesto livello. L’alterazione colpisce infatti di regola l’ultimo disco lombare o,meno frequentemente, il penultimo. Abitualmente si tratta di ernia postero-late-rale, dove in effetti il legamento longitudinale posteriore si assottiglia.

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L’ASSICURAZIONE SOCIALECONTRO LE MALATTIE PROFESSIONALI

A seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n.179/88, nel nostroordinamento giuridico è stato introdotto il cosiddetto “sistema misto”, che hasostituito il precedente “sistema della lista chiusa”. In sostanza si è passati da unsistema caratterizzato dall’esclusivo indennizzo di determinate malattie (elenca-te in apposite tabelle periodicamente aggiornate, cosiddette “MP tabellate”) adun sistema aperto, in cui qualsiasi manifestazione morbosa è suscettibile diindennizzo purché ne sia provata in concreto l’origine professionale (cosiddette“MP non tabellate” o malattie da lavoro).La diagnosi di malattia professionale (sia tabellata che non) riconosce in ognicaso due fasi:- la fase clinica, consistente nell’accertamento di una manifestazione morbosa

nosologicamente qualificata;- la fase medico-legale, consistente nella ricostruzione del nesso causale tra

quest’ultima e una noxa lavorativa.

Nel caso delle malattie professionali tabellate, la manifestazione morbosa insorta sigiova del criterio della “presunzione legale di origine” qualora sia compatibilecon l’azione di una determinata noxa patogena e sia stata contratta nell’eserci-zio ed a causa di una lavorazione la cui nocività è presunta dalla tabella di legge,salvo prova contraria da parte dell’istituto in merito all’efficienza causale di altrifattori patogeni.

In buona sostanza sul lavoratore grava l’onere di provare, secondo il principiogenerale sancito dall’art. 2697 c.c., di essere affetto da un’infermità compresanell’elenco delle malattie professionali e di essere stato precedentemente espo-sto al rischio morbigeno tabellato, restando presunto, in caso positivo, il nessocausale fra la lavorazione e l’infermità. Ovviamente il criterio della presunzionelegale d’origine professionale trova concreta applicazione nei casi in cui la pato-logia denunciata presenti i caratteri peculiari della malattia indotta dalla speci-fica noxa patogena (caratterizzazione in senso tecnopatico).

Con l’introduzione del sistema misto, la Corte ha ritenuto comunque che la pre-sunzione nascente dalle tabelle di legge fosse divenuta insufficiente a compensa-re il divieto all’allargamento dell’area della eziologia professionale. E ciò nonsolo per quel che concerne l’individuazione di nuove malattie, ma anche perquel che concerne gli ostacoli che all’accertamento dell’eziologia professionaledelle malattie può opporre la distanza temporale tra la causa patologica e lamanifestazione morbosa. L’estensione della tutela, avvenuta al di fuori di unacompiuta e organica disciplina normativa, in un sistema dove la previsionetabellare, con le sue tipiche caratteristiche aveva consentito di superare le diffi-

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coltà connesse alla elaborazione di una adeguata definizione giuridica di malat-tia professionale, ha sollevato, come è noto, un complesso di problematiche siainterpretative, di carattere giuridico e medico-legale, sia operative legate almomento gestionale del nuovo sistema.

Per le forme morbose che non trovano riscontro nell’elencazione tabellare, illavoratore deve dunque dimostrare, secondo le norme del diritto comune, i fattiche costituiscono fondamento del diritto che intende esercitare e, cioè, l’esi-stenza di una malattia contratta nell’esercizio ed a causa dell’attività lavorativaprestata, che deve, ovviamente, rientrare tra quelle previste dagli articoli 1, 206,207 e 208 del Testo Unico. A tale fine deve esibire:a) idonea documentazione sanitaria attestante l’esistenza e la natura professio-

nale della malattia;b) elementi probatori, con riscontro obiettivo della esposizione al rischio (natu-

ra, durata, intensità, ecc.) che ha determinato la malattia stessa.Innanzitutto va ribadito che l’entrata in vigore del sistema misto non ha altera-to o snaturato la nozione assicurativa di MP che (sia essa tabellata che non)resta caratterizzata dall’esposizione al rischio specifico determinato dalle lavora-zioni di cui agli articoli 1, 206, 207 e 208 del Testo Unico approvato con D.P.R.30 giugno 1965, n. 1124, e successive modificazioni e integrazioni, nonché nelrapporto causale con tali lavorazioni.

Circa la prova degli elementi di fatto del rapporto causale, questi vengono valu-tati differentemente nel caso di malattia tabellata e di quella extratabellata (pre-sunzione legale in un caso, onere a carico del lavoratore nell’altro), non perchésia diversa la nozione di malattia professionale, ma per le caratteristiche che, amonte, contraddistinguono il sistema tabellare rispetto a quello misto. Requisitoessenziale resta in ogni caso l’esistenza del nesso eziologico fra la malattia e lalavorazione espletata, configurabile in un rapporto causale, diretto ed efficientecon lo specifico rischio lavorativo. Ciò non significa che nell’insorgenza dellapatologia denunciata, non possano avere concorso anche concause extralavora-tive, purché queste non risultino le sole responsabili dell’evento ovvero nonsiano preponderanti rispetto alle cause lavorative.

In pratica il problema si pone per le malattie ad origine plurifattoriale, per lequali non è sufficiente che lo specifico rischio lavorativo abbia in qualche misu-ra influito sul decorso della affezione morbosa, bensì rimane di decisiva impor-tanza, per un concreto giudizio medico-legale, che le alterazioni siano peculiar-mente rapportabili, con legame di causalità tutt’altro che ipotetico, alle attivitàlavorative cui si vogliono attribuire. Deve, cioè, essere riconosciuto nel lavorol’agente causale o concausale eziopatogeneticamente valido ed indispensabile aprodurre lo specifico danno in osservanza del principio del rischio professionale,che, come la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ripetutamenteaffermato, costituisce in sostanza il presupposto essenziale di detta tutela.

L’esposizione allo specifico rischio lavorativo è quindi il “punto qualificante”che caratterizza il sistema assicurativo nel suo complesso, differenziandolo dallealtre forme di tutela previdenziale. Di qui la centralità che l’accertamento delrischio assume ai fini del riconoscimento della tecnopatia.

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A tale riguardo risulta pertanto indispensabile accertare con adeguati metodi d’in-dagine (tecnici ed ispettivi) la natura ed entità del rischio lavorativo, indagined’importanza preminente ai fini della prevenzione ed ai fini della affermazione delnesso causale, non essendo certamente sufficiente dal punto di vista scientifico,clinico e medico-legale, una ricostruzione del rischio professionale fondata esclu-sivamente sulla base delle dichiarazioni anamnestiche rese dal lavoratore.

L’attuale quadro legislativo in tema di MP può comunque così riassumersi:1. per le malattie tabellate, provocate da lavorazioni tabellate e denunciate entro

i termini massimi di indennizzabilità: resta in vigore l’attuale normativa, conparticolare riferimento al principio della presunzione legale d’origine;

2. per le malattie tabellate, provocate da lavorazioni tabellate, denunciate dopoi termini massimi d’indennizzabilità a) se il lavoratore dimostra che la malattia si è manifestata entro i suddetti

termini, fruisce della presunzione legale insita nel sistema tabellare;b) in mancanza di tale dimostrazione cade sul lavoratore l’onere di provare la

natura professionale della malattia;3. al di fuori delle previsioni tabellari, fermi restando i principi che presiedono

all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali,è tutelata qualsiasi malattia di cui sia dimostrata, con onere della prova acarico del lavoratore, l’origine professionale.

In tema di malattie non tabellate, l’onere della prova degli elementi di fatto delrapporto causale lavorazione-malattia posto a carico del lavoratore rappresentail punto di snodo della tutela aperta da cui dipende la potenzialità della tutelastessa. La prova, come noto, deve riguardare:• l’esistenza della malattia;• l’adibizione ad una delle lavorazioni di cui agli articoli 1, 206, 207 e 208 del

T.U. con riferimento all’agente patogeno;• l’esposizione al rischio mediante precisazione delle relative modalità (durata

e intensità) e quindi delle mansioni svolte e delle condizioni di lavoro.

In quest’ottica si ritiene centrale una adeguata e specifica conoscenza del rischiolavorativo come presupposto per una effettiva garanzia assicurativa in materia dimalattie professionali, per la quale appare necessaria una più stretta collabora-zione interdisciplinare.

Sull’esposizione a rischio si deve concentrare l’attenzione per il rilievo che taleelemento assume quale supporto della diagnosi medico-legale di malattia profes-sionale. L’esposizione a rischio professionale deve essere considerata infatti,come già detto, il punto qualificante dello specifico sistema d’assicurazioneobbligatoria, atto a differenziarlo da altre forme di tutela previdenziale degli statiinabilitanti che attengono al rischio generico (malattia comune e invaliditàpensionabile) ovvero dalle altre forme di tutela cosiddetta privilegiata (causa diservizio) che prescindono dalla natura specifica del rischio.

La conferma della centralità di tale elemento per l’assicurazione obbligatoria con-tro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali emerge del resto con sempremaggiore precisione dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha

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costantemente riconosciuto una specifica rilevanza giuridica all’origine professio-nale dei rischi oggetto di tale assicurazione obbligatoria. Il che conferma la neces-sità di accertare in ogni singolo caso l’eziologia professionale delle malattie denun-ciate non comprese in tabella seguendo i criteri medico-legali della causalità.

Per quanto attiene il rapporto causale, con riferimento alle considerazioni dellaCorte Costituzionale “sull’eziologia professionale” delle malattie non tabellate e“sulla causa specifica” da lavoro che caratterizza la malattia professionale rispet-to alla malattia comune e dalle indicazioni che emergono dalle sentenze emessedalla Corte di Cassazione in materia, detto rapporto deve essere diretto ed effi-ciente (fatta salva comunque la possibilità del concorso di fattori causali extra-lavorativi), onde evitare che nella tutela assicurativa, incentrata sull’esposizio-ne a rischio professionale, possano confluire stati inabilitanti tutelabili ad altrotitolo (malattia comune, invalidità pensionabile, invalidità da causa di servizio).

Posto che non può attribuirsi rilievo determinante al fattore cronologico e aquello topografico, i criteri di cui al precedente punto sono i seguenti:a) l’efficienza qualitativa e quantitativa intesa come idoneità dell’agente nocivo

a produrre l’evento e sua concentrazione necessaria per indurre la nocività;(tale criterio va verificato mediante l’identificazione e la determinazione del-l’agente nocivo e mediante riferimenti fisiotossici e epidemiologici);

b) la continuità nella seriazione degli eventi;c) l’evidenza di agenti patogeni non connessi al rischio professionale.

Da tempo inoltre l’Istituto persegue l’obiettivo di costruire le condizioni per unagestione del sistema di tutela delle malattie professionali efficace e dinamica,capace cioè di rispondere adeguatamente alle continue sollecitazioni provenien-ti dall’evoluzione tecnologica del mondo del lavoro.

IL DPR. 336/94 (NUOVE TABELLE DELLE MP)

Con il DPR 336/94 sono state aggiornate le vecchie tabelle delle MP sulla basedei progressi delle conoscenze mediche ed epidemiologiche in tema di nocivitàdel lavoro, e costituiscono altresì un adeguamento alle trasformazioni tecnologi-che intervenute nella realtà produttiva. La tutela del rischio tecnopatico risultamigliorata ed ampliata con l’inserimento di malattie e lavorazioni prima noncontemplate ed è stata dedicata una speciale cura all’individuazione di formenosologiche specifiche (per i tumori definendo anche l’organo bersaglio) e alladescrizione analitica delle corrispondenti fonti di rischio.

Le previsioni tabellari, in pratica, hanno recepito gran parte delle indicazioniemerse dopo la sentenza n. 179/1988 della Corte Costituzionale e hanno ripor-tato perciò equilibrio nel sistema, restituendo all’area di tutela non tabellata,affidata all’onere della prova a carico del lavoratore, il corretto ruolo di sussi-diarietà nei confronti dell’area tabellata, certa e salvaguardata da precise garan-zie per l’assicurato.

La nuova disciplina ha realizzato inoltre un sostanziale allineamento con la legi-

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slazione comunitaria, colmando gran parte delle divergenze fino ad allora esi-stenti rispetto all’elenco europeo delle malattie professionali oggetto dellaRaccomandazione CEE del 22.5.1990, tranne che per le malattie infettive eparassitarie, le quali come noto sono nel nostro sistema tutelate come infortunisul lavoro, e per le malattie “da postura e da movimenti ripetuti”, rispetto allequali questo lavoro intende fornire un utile contributo.

In particolare si segnala che la nuova voce 52 (Malattie osteoarticolari e angio-neurotiche da strumenti vibranti) ha previsto la tutela delle sole malattie deter-minate dalla trasmissione delle vibrazioni meccaniche al sistema mano-braccio,precisazione questa che, peraltro, non costituisce un elemento innovativo rispet-to alla corrente prassi medico-lavoristica e medico-legale. E’ stato poi introdot-to, peraltro, l’innovativo concetto che le lavorazioni con uso di strumentivibranti, per essere considerate presuntivamente rischiose, devono essere svolte“in modo prevalente”. Anche se la formulazione letterale della norma dà adito aqualche dubbio interpretativo, è tuttavia chiaro l’intento del legislatore di esclu-dere dall’area del rischio tabellato queste lavorazioni quando sono svolte perperiodi di tempo tali da renderne irrilevante la nocività.

Quanto all’elenco degli strumenti vibranti, si richiama l’attenzione sul fatto che,al punto a), sono previste indistintamente tutte le macchine portatili munite diutensili, essendo stata abolita la limitante specificazione “ad aria compressa” pre-sente nella precedente tabella. Inoltre per “portatile” deve intendersi lo stru-mento che per funzionare deve essere tenuto in mano o perlomeno fisicamentemantenuto in equilibrio, differenziandosi sia dagli apparecchi fissi che da quellitrasportabili.

Rimangono pertanto non tabellate:- le malattie osteoarticolari e le angioneurosi provocate da strumenti non

tabellati o da uso “non prevalente” di strumenti tabellati ;- le patologie dei tendini, delle guaine aponeurotiche, dei nervi (ad es. sindro-

me del tunnel carpale, epicondilite, etc.), anche se la causa è costituita dal-l’uso di strumenti tabellati, a meno che non compaiano in concomitanza conle manifestazioni angioneurotiche ed osteoarticolari proprie della sindromeda strumenti vibranti;

- le malattie da vibrazioni-scuotimenti (WBV);- le malattie da posture incongrue, microtraumi ripetuti, ipersollecitazioni fun-

zionali, sovraccarichi articolari.

LA CIRCOLARE N.80/97

Per quanto riguarda le malattie da posture incongrue e da microtraumi ripetuti,queste continuano ad essere sottoposte, se ritenute suscettibili di ammissione atutela, all’esame della Direzione Generale. Con la stessa circolare è stato predi-sposto un protocollo diagnostico sperimentale per l’eventuale ammissione all’in-dennizzo della sindrome del tunnel carpale, basato su un’accurata diagnosi diffe-renziale, sull’esclusione di cause note extraprofessionali e sull’analisi del rischiolavorativo.

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Sulla falsariga di tale protocollo, che finora ha registrato soddisfacenti risultati(aumento del numero dei casi indennizzati), si vuole in questa sede delinearealcuni orientamenti per la stesura di un analogo protocollo per il riconoscimen-to delle spondiloartropatie come MP non tabellate.

I DATI INAIL

I dati più significativi risalgono al 1993, in quanto solo con la circolare INAILn.35/92 sono state impartite istruzioni sulla trattazione di tali patologie. Nelperiodo 1993-1998 emerge chiaramente un netto e costante aumento delledenunce a partire dal 1994, interessante sia le MP non tabellate nel loro com-plesso che quelle in esame (spondilodiscoartrosi), che corrispondono a circa il10% di tutte le denunce. Di questi ne sono stati indennizzati circa il 2%, cherappresentano poco meno della metà (46%) di tutti i casi di patologie dell’ap-parato muscolo-scheletrico per le quali è stata costituita una rendita nel periodoin esame.

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LA PATOLOGIA RACHIDEAPOST-TRAUMATICA

Nell’ambito della patologia rachidea l’INAIL tutela da sempre come infortunisul lavoro tutte quelle lesioni dell’apparato muscolo-scheletrico che sono cau-salmente ricollegabili ad un trauma diretto (ad es. frattura di una o più vertebrea seguito di caduta dall’alto) o indiretto (lombalgia o ernia discale da sforzo),purché le cause e circostanze dell’evento denunciato configurino in concretol’intervenire di una causa violenta in occasione di lavoro (art.2 T.U.). Al riguar-do deve anzi essere sottolineato come, una volta affermata la sussistenza deirequisiti di cui sopra, la preesistenza di condizioni morbose di origine extralavo-rativa che abbiano concausato o comunque favorito l’insorgenza della manife-stazione clinica in questione (peraltro di comune riscontro nei traumi indiretti)non pregiudichi affatto l’ammissione all’indennizzo, potendo tuttalpiù incideresulla valutazione medico-legale della quota di danno di competenza dell’Istituto(v. infra).

Lo sforzo implica l’impiego improvviso, imprevisto ed abnorme di energiamuscolare, superiore a quella richiesta da un normale atto di forza, identificabilequest’ultimo in un comune impiego di energia muscolare richiesta dalla naturastessa di un determinato lavoro. Non vi è dubbio che allo “sforzo” inteso cometale debba riconoscersi dignità causale in ambito infortunistico lavorativo, pos-sedendo questo, nel suo estrinsecarsi, tutti i requisiti della causa violenta. Pervalutare se l’atto muscolare abbia le caratteristiche dello “sforzo” è dunque indi-spensabile accertare accuratamente:• le modalità dell’atto compiuto con le sue esatte cause e circostanze (natura ed

entità dell’atto lavorativo, coordinazione e sinergismo dei movimenti, tipo-logia del dispendio energetico muscolare, caratteristiche del piano di calpe-stio, ecc.);

• le caratteristiche della sintomatologia dolorosa (epoca d’insorgenza, sede edecorso);

• la diagnosi clinica attuale e lo stato anteriore dell’assicurato, specie per quan-to riguarda le preesistenze extralavorative.

Per quanto attiene all’atto di forza, il riconoscimento dell’eventuale sussistenzadella “causa violenta” presuppone necessariamente che l’atto stesso, oltre aglialtri attributi specifici, abbia avuto una entità traumatica superiore a quella delcosiddetto “momento sciogliente o liberatore”, tipicamente posseduta dai comu-ni atti fisiologici.

Inoltre, in presenza di evidenti preesistenze extralavorative, fatta salva, comun-que, la sufficienza della “vis lesiva” di cui sopra si è detto, l’attuale orientamentogiurisprudenziale ammette infatti che anche un atto lavorativo ordinario ed

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usuale (vale a dire abituale) possa essere valutato come “abnorme ed eccessivo”,in rapporto all’indole della prestazione ed alla minore resistenza organica del-l’assicurato, dovuta a preesistenti fatti morbosi. In altri termini, poiché si abbiaun infortunio indennizzabile è necessario accertare concretamente l’entità trau-matica dell’atto lavorativo in rapporto allo stato anteriore dell’assicurato, al finedi stabilire se l’atto in questione (anche se ordinario ed usuale) abbia acquista-to, nel caso specifico, i caratteri dell’“abnormità”, divenendo, in tal modo, effet-tivamente responsabile della repentina rottura di un equilibrio preesistente,ancorché precario. Appare essenziale quindi non tanto la gravità del danno con-statato quanto la valutazione della concreta efficienza causale dell’atto lavo-rativo compiuto.

Per quanto concerne la criteriologia valutativa, si ricorda poi che l’ammissionedel caso all’indennizzo comporta il riconoscimento e la valutazione integrale deldanno (ivi compreso quello concausato dalla preesistenza), qualora tale preesi-stenza abbia agito esclusivamente come “concausa di lesione” (ad es. rottura ten-dinea). Se invece la preesistenza ha agito anche come “concausa di inabilità”,dovrà essere applicata la formula di Gabrielli ex art. 79 T.U. (ad es. distacco diretina in soggetto con grave miopia preesistente), sempreché l’inabilità preesi-stente sia quantificabile; qualora invece quest’ultima non sia quantificabile ediscriminabile da quella derivante dall’infortunio (come di regola accade nellelesioni della colonna), si dovrà procedere alla valutazione del danno conseguen-te all’infortunio con criterio di “massima, possibile obiettività”.

In particolare, nelle lombalgie da distrazione muscolare, l’unica prestazione conce-dibile è, di norma, quella dell’indennità per inabilità temporanea assoluta,anche nei casi in cui al fattore distrattivo si associ una preesistente spondiloar-trosi. In quest’ultima circostanza, infatti, non si può ammettere che una lesioneinteressante esclusivamente le parti molli possa modificare peggiorativamenteed in modo permanente una condizione discoartrosica vertebrale preesistente.

Per quanto riguarda invece l’ernia discale, allorché sia accertata la dipendenzacausale con l’evento traumatico, occorre procedere alla valutazione del dannolavorativo, tenendo conto di eventuali preesistenze extralavorative. Qualora siverifichi, a seguito di uno sforzo, l’espulsione traumatica di un nucleo polposo inun lavoratore già affetto da una grave preesistente spondilodiscoartrosi a livellolombare, il danno risultante dopo l’infortunio dovrà essere valutato (in assenzadi una indicazione precisa sull’entità della “limitazione funzionale” antecedenteed essendo, inoltre, i postumi lavorativi ed extralavorativi indiscriminabili) conuna percentuale di inabilità permanente proporzionalmente ridotta rispetto aquella globale, avendo in tal caso la preesistenza agito sia come concausa dilesione, favorendo l’espulsione del nucleo polposo, sia come concausa di inabi-lità, avendo verosimilmente determinato, già in epoca precedente all’infortunio,una apprezzabile limitazione funzionale della colonna vertebrale.

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I RISCHI LAVORATIVI

Come abbiamo visto, le affezioni cronico-degenerative della colonna vertebralesono di frequente riscontro presso le più disparate collettività lavorative dell’in-dustria, dell’agricoltura e del terziario. Se è vero che le affezioni in questionehanno una genesi tipicamente multifattoriale nella quale ricorrono fattori costi-tuzionali, anagrafici, metabolici, endocrini, etc., è del pari vero che in moltepli-ci occasioni sono stati rilevati fattori meccanici e traumatici, fra cui quelli dinatura professionale possono svolgere un importante ruolo.

Al fine di valutare l’entità degli insulti meccanici (in termini di sovraccaricobiomeccanico da trauma cumulativo) per il rachide lombare durante il lavoro, siè proceduto da tempo ad una schematizzazione del complesso sistema osteo-muscolo-legamentoso lombare che interviene a bilanciare il momento meccani-co esterno. Ciò ha comportato tuttavia notevoli difficoltà, dovendo necessaria-mente considerarsi, oltre all’azione svolta dai muscoli erettori spinali, anchequella esercitata dai legamenti spinali, dalle faccette articolari vertebrali, dallacontrazione addominale e di numerosi altre variabili biomeccaniche.

I carichi agenti sui dischi intervertebrali e l’impegno dei muscoli paravertebralisono stati studiati da numerosi autori mediante modelli matematici basati suiprincipi e sulle conoscenze della biomeccanica. Tali studi hanno permesso laquantificazione dei carichi articolari e, in seconda istanza, delle tensioni svilup-pate da altre strutture periarticolari a partire da una relativamente sofisticataschematizzazione degli atteggiamenti posturali, dalla quantificazione delle forzeesterne applicate (ad es. il sollevamento di un peso), nonché dall’apprezzamen-to di alcuni parametri antropometrici del soggetto esaminato.

Detti studi sono stati basati sostanzialmente sul principio della leva “in equili-brio” in cui i diversi segmenti corporei e le forze esterne agiscono come potenze,i muscoli e gli altri tessuti molli come resistenze e gli snodi articolari come ful-cri. Stante la relativa complessità del corpo umano come “complesso di leve”,che peraltro possono agire secondo svariate direzioni nello spazio e sotto la sol-lecitazione di forze sia statiche che dinamiche, sono stati definiti diversi model-li di studio la cui accuratezza è stata di regola inversamente proporzionale allasemplicità e praticità applicativa. I modelli biomeccanici più studiati sono stati,in ordine crescente di complessità, quello statico monodimensionale, quellomonodimensionale dinamico, quello statico tridimensionale e quello tridimen-sionale dinamico. I modelli citati sono stati in gran parte sviluppati per la quan-tificazione dei carichi agenti sui corpi e sui dischi vertebrali a livello lombare,ma hanno consentito anche la quantificazione di carichi agenti ad altri livelliarticolari del rachide.

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Nella tabella che segue vengono riportati alcuni valori approssimativi del caricoagente sul disco L3-L4, calcolato per alcune principali posizioni del rachide inun soggetto del peso di 70 Kg. che assume certe posture e che svolge alcune azio-ni di sollevamento (Nachemson 1981). Va ricordato ad ogni modo che tali livel-li di carico sembrerebbero essere sostenibili grazie all’azione combinata di alleg-gerimento esercitata dalla pressione addominale e dalle articolazioni vertebrali.

Postura Carico lombare (in Kg.)Supina 30Eretta 70Seduta senza supporto 100Flessione del tronco di 20° 120Flessione del tronco di 20° con 10 Kg. in mano 185Sollevamento di 20 Kg. con schiena dritta e ginocchia flesse 210Sollevamento di 20 Kg. con schiena dritta e ginocchia estese 340

Con altri studi condotti con i tests di forza è stato poi possibile individuare altriparametri:a) La massima forza muscolare (MCV) sviluppata da uno o da più gruppi musco-

lari (estensori del tronco, addominali, flessori del braccio, etc.) in condizioniisometriche (contrazione statica) o isocinetiche (contrazione con spostamen-to a velocità costante);

b) La massima capacità di sollevamento dinamico (M.D.L.) di un peso concaratteristiche controllate in funzione della tecnica di sollevamento, dell’en-tità del dislocamento orizzontale e verticale nonché della dimensione del-l’oggetto sollevato.

Un ulteriore metodo di studio molto interessante è rappresentato dalla determi-nazione della pressione endoaddominale (I.A.P.), consistente nella registrazionedegli incrementi di pressione nella cavità addominale durante il trasferimentomanuale di pesi. La pressione endoaddominale (registrata in mmHg) si è dimo-strata, in condizioni statiche controllate, entro certi limiti correlata linearmen-te con la pressione intradiscale registrata in vivo.

I fattori di rischio lavorativo per la colonna vertebrale attualmente conosciu-ti ed evidenziati dagli studi sperimentali e statistico-epidemiologici sono rap-presentati da:

1. Movimentazione manuale di carichi2. WBV (vibrazioni trasmesse a tutto il corpo)3. Posture incongrue (fisse/protratte)4. Movimenti e torsioni (abnormi/ripetuti) del tronco

Solo per i primi due fattori di rischio esistono norme tecniche e valori limite diriferimento, ancorché elaborati con finalità preventive da vari istituti ed orga-nizzazioni scientifiche (NIOSH, CEN, BS, HSE, ISO, ACGIH, EPM). In parti-colare nel nostro ordinamento giuridico è previsto esplicitamente da alcuni anni(D.Lgs. 626/94) l’obbligo della valutazione del rischio e l’eventuale conseguen-

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te sorveglianza sanitaria per la sola movimentazione manuale dei carichi, men-tre per le WBV è previsto dal recente D. Lgs. 459/96 (direttiva macchine) il soloobbligo per i costruttori di macchine mobili di dichiarare il valore quadraticomedio ponderato in frequenza, quando questo sia superiore a 0,5 m/s2.

Per i rischi da posture incongrue e da movimenti abnormi ripetuti del tronco nonsono disponibili ad oggi né linee guida tecniche né specifiche norme. Tuttaviac’è da dire che i movimenti del tronco vengono considerati come parametro dirischio nella valutazione della movimentazione manuale dei carichi e che leposture sono tenute in considerazione soprattutto negli studi riguardanti l’ef-fetto delle WBV. Pertanto si ritiene che essi possano essere presi in considera-zione non di per sé stessi ma solo come fattori di aggravamento dei due rischisopramenzionati, specie in determinate condizioni (spazi ristretti, catena dilavoro, etc.)

Va sottolineato comunque che la rilevazione dei parametri utilizzabili per laquantificazione del rischio risulta ancor oggi relativamente complessa, presup-ponendo un intervento tecnico diretto in attualità di lavoro per l’acquisizionedei dati necessari, anche con specifica strumentazione (videocamere, accelero-metri, etc.).

Inoltre va ricordato in questa sede come in sede medico-legale assicurativa sianecessaria, specie per le malattie non tabellate, l’elaborazione di criteri che con-sentano una valutazione quanto più oggettiva possibile in termini quali-quanti-tativi di una pregressa esposizione a fattori di rischio che in precedenza possonoessere stati misconosciuti ovvero non valutati neppure a fini preventivi.

LA MOVIMENTAZIONE MANUALE DEI CARICHI

La valutazione del rischio lavorativo connesso alla attività di movimentazionemanuale di carichi è incentrata fondamentalmente sulle linee guida elaborate daautorevoli istituti italiani e stranieri (NIOSH 1981, EPM 1989, CEN 1992, HSE1992, NIOSH 1993) e sul titolo V (con il relativo allegato VI) del D. Lgs.626/94. Mentre i protocolli attualmente in uso sono mirati alla valutazione dellepiù tipiche ed usuali azioni di sollevamento/abbassamento di carichi, l’art.47 delD. Lgs. 626/94 ricomprende nel concetto di movimentazione manuale dei cari-chi a rischio anche quelle, rilevanti, di spinta, traino e trasporto, che, se com-piute “in condizioni ergonomiche sfavorevoli” possono comunque costituire unrischio per il rachide dorso-lombare.

L’allegato VI si rivela oltremodo interessante, essendo il frutto dell’accorpamen-to dei due allegati originari alla direttiva CEE 269/90, dedicati rispettivamenteai fattori lavorativi e ai fattori individuali di rischio. Il testo è rimasto sostan-zialmente immodificato, fatto salvo l’inserimento di una specifica quantitativalimite (30 kg) che individua, appunto, il massimo peso di carico sollevabile indi-vidualmente senza tener conto di altri elementi. Sul piano più generale, l’esi-stenza di un sovraccarico per il rachide dorso lombare va valutata dunque tenen-do conto del complesso dei diversi fattori di aggravamento rischio lavorativo

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riportati nell’allegato (caratteristiche del carico, sforzo fisico richiesto, caratte-ristiche dell’ambiente di lavoro, etc.), che consentono di definire per ogni sce-nario lavorativo dato qual’è il massimo peso del carico movimentabile (o la mas-sima forza esercitabile) in quella determinata condizione.

Ai fini della valutazione della pregressa esposizione a rischio, dobbiamo pertan-to distinguere innanzitutto se si sia trattato prevalentemente di azioni di solle-vamento (o abbassamento) di carichi ovvero di azioni di trasporto, di traino o dispinta di carichi con ausili meccanici (ad es. carrelli). Per le azioni di solleva-mento può essere utile infatti ricorrere al modello proposto dal NIOSH (1993):con essi in pratica si è in grado di determinare, per ogni azione di sollevamento,il cosiddetto limite di “peso raccomandato” attraverso un’equazione che a parti-re da un peso limite sollevabile in condizioni ideali (23 Kg. unico per il NIOSHe 30 Kg. secondo il D. Lgs. 626/94), considera l’eventuale esistenza di elementisfavorevoli e tratta questi ultimi con appositi fattori di demoltiplicazione. I varicoefficienti applicati sono definiti in funzione dei seguenti parametri:• peso medio e caratteristiche del carico;• distanza del peso dal corpo;• frequenza del gesto (nel turno/al minuto);• durata dell’azione;• postura assunta;• dislocazione angolare;• altezza di prelievo;• dislocazione verticale.

Relativamente al carico lombare sostenibile il NIOSH ha poi individuato duelimiti:a) “Action Limit” (AL) corrispondente a 350 kg. di carico lombare, al di sotto

del quale non sono da prevedersi particolari misure cautelative;b) “Maximum permissible limit” (MPL) corrispondente a 650 kg. di carico lom-

bare, corrispondente al limite da non superare mai nel sollevamento e trasfe-rimento manuale di pesi.

Per valori di carico lombare fra 350-650 kg. sono previste varie misure preventi-ve come la riprogettazione ergonomica del compito lavorativo, la selezione e iltraining dei soggetti adibiti, il controllo clinico dei lavoratori. Per facilitare l’ap-plicazione pratica di questi limiti il NIOSH ha predisposto, tra l’altro, un proto-collo che consente di definire un indice sintetico di rischio in base al rapportotra peso sollevato e peso limite raccomandato sulla base dei sopracitati parame-tri di rischio.

In via orientativa, tenuto anche conto delle indicazioni contenute nell’allegatoVI del D. Lgs. 626/94, si può ritenere che un rischio relativamente elevato sus-sista per lavoratori impiegati da lungo tempo nelle seguenti attività:• magazzinieri con stoccaggio su bancali molto alti/bassi;• lavoratori edili con passaggio da terra su ponti di sacchi o mattoni;• facchinaggio pesante e traslochi manuali;• talune attività infermieristiche e parasanitarie (cfr. Medicina del Lavoro,

marzo/aprile 1999).

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LE VIBRAZIONI WBV

Le vibrazioni trasmesse al corpo (“whole body vibration” - WBV) costituisconoun rilevante fattore di rischio sia per la varietà e l’importanza degli effetti ad esseassociati sia per il numero di lavoratori esposti. Mezzi di trasporto, semoventi,macchine ed impianti fissi rappresentano le principali sorgenti di vibrazioni.Queste due categorie di sorgenti implicano differenti superfici di trasmissionedelle vibrazioni e differenti posture degli addetti; la rilevanza del rischio per idue tipi di sorgenti è inoltre nettamente diversa.

In genere, nel caso dei mezzi di trasporto (autobus, camion, ecc.) e semoventi(trattori agricoli, carrelli elevatori, pale meccaniche, ecc.), le vibrazioni si tra-smettono attraverso i sedili di guida agli addetti in posizione assisa, mentre nelcaso di macchine ed impianti fissi (magli, presse, mulini, ecc.), le vibrazioni sitrasmettono attraverso i pavimenti o le piattaforme di lavoro agli addetti in posi-zione eretta. Rispetto alle vibrazioni prodotte da macchine ed impianti fissi, levibrazioni generate da mezzi di trasporto e semoventi presentano maggiore inte-resse, sia perché sono di livello più elevato, sia perché coinvolgono un numerodi lavoratori notevolmente superiore.

Per la valutazione tecnica delle vibrazioni trasmesse al corpo viene generalmen-te seguita la norma internazionale ISO 2631/1-1997, che ha integrato ed aggior-nato la precedente versione del 1985. Nella norma viene definito un sistema dicoordinate ortogonali riferito al soggetto esposto, con origine fissata in corri-spondenza del torace: - l’asse z passa per i glutei e la testa (per i piedi e la testa nel caso di un sog-

getto in posizione eretta);- l’asse x per la schiena ed il petto;- l’asse y per le due spalle.

Di fatto, se si considera la direzione di marcia di un mezzo di trasporto o semo-vente, tali coordinate corrispondono generalmente agli assi verticale (z), longi-tudinale (x) e trasversale (y). L’intensità delle vibrazioni viene descritta in ter-mini di accelerazione (a) espressa in m/s2; l’intervallo di frequenza da conside-rare risulta compreso tra 0,5 e 80 Hz.

Circa gli effetti delle WBV sull’uomo, sono state definite due curve, una validaper l’asse verticale, l’altra per gli assi orizzontali, che congiungono i livelli delleaccelerazioni che, alle diverse frequenze, producono lo stesso effetto in terminidi percezione da parte di un soggetto esposto per otto ore. La sensibilità dei sog-getti esposti alle vibrazioni è maggiore negli intervalli di frequenza compresi tra4 e 5 Hz sull’asse verticale e tra 1 e 2 Hz sugli assi orizzontali mentre diminuisceper valori di frequenza esterni a tali intervalli.

Per esposizioni di durata inferiore alle otto ore, la norma ISO prevede altre curvelimite, di identico andamento in frequenza ma caratterizzate da accelerazioni diintensità più elevata: per tempi di esposizione più brevi sono consentiti infattilivelli di accelerazione più alti. Inoltre va tenuto presente che, trattandosi dicurve di isopercezione, le componenti di valore diverso per accelerazione posso-

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no determinare lo stesso tempo massimo di esposizione (ad es. 4 ore) per fre-quenze differenti.

Le curve limite fin qui discusse si riferiscono al mantenimento dell’efficienzalavorativa del soggetto esposto in termini di comparsa di fenomeni diaffaticamento tali da incidere negativamente sulle prestazioni lavorative (ad es.compito di guida). Sono state poi definite altre due serie di curve che, purmostrando lo stesso andamento delle curve precedenti, si riferiscono invece almantenimento del comfort ed al mantenimento della salute-sicurezza: a parità didurata di esposizione, sono sufficienti accelerazioni di livello più basso per com-promettere il comfort, mentre sono richiesti livelli più alti per pregiudicare lasalute-sicurezza dei soggetti esposti.

Le vibrazioni presenti sui mezzi di trasporto sono dovute prevalentemente al fun-zionamento del motore ed alla traslazione del mezzo. Nel caso delle macchineoperatrici semoventi, le vibrazioni sono prodotte non solo dal funzionamentodel motore e dalla traslazione ma anche dalle operazioni effettuate dall’attrezzo.Il funzionamento dei motori a combustione interna produce vibrazioni di fre-quenza relativamente elevata, in genere tra 20 e 60 Hz. Come è noto la sensibi-lità del corpo umano a queste frequenze è modesta, in quanto superiori alla fre-quenza di risonanza del rachide (5-15 Hz). Le vibrazioni dovute alla traslazionedel mezzo ed alle sollecitazioni originate dal profilo irregolare del terreno sonocaratterizzate da componenti di bassa frequenza (1-20 Hz). Generalmente, neglispettri delle accelerazioni verticali si presenta un picco di frequenza pari alla fre-quenza di risonanza del mezzo (2-6 Hz).

Per quanto riguarda gli spettri delle accelerazioni orizzontali, questi, in genere,sono piatti o presentano elevati valori a frequenze molto basse. In relazione alparticolare andamento delle curve di isopercezione delle vibrazioni, la sensi-bilità alle accelerazioni verticali è massima tra 4 e 8 Hz, mentre la sensibilitàalle accelerazioni orizzontali è massima tra 1 e 2 Hz.

L’entità delle vibrazioni dipende dunque dalle sollecitazioni a cui il mezzo è sotto-posto ed in particolare dalla velocità di traslazione e dal tipo di terreno. Nel casodei mezzi di trasporto, che operano su superficie uniformi (strada o rotaia), la velo-cità di traslazione, generalmente elevata, assume un rilievo determinante.

Nel caso delle macchine semoventi, che in genere si muovono a bassa velocitàe sono per lo più prive di sospensioni, sono invece le caratteristiche del terrenoad essere determinanti: la traslazione su terreni duri o dissestati determina infat-ti vibrazioni di livello più alto. Le lavorazioni effettuate con mezzi semoventidotati di attrezzi (agricoli, forche, benne, ecc.) influiscono in misura complessasulle vibrazioni. Generalmente tali lavorazioni incrementano le vibrazioni dovu-te alla sola traslazione, in particolare nei casi in cui si verificano fenomeni diimpatto (ad es. benna che raccoglie materiale).

Diversi sono i parametri che possono pertanto influire sulle vibrazioni. Questisono legati non solo al tipo di mezzo (sospensioni, gommatura, sedile, ecc.), altipo di percorso (superficie, ecc.), alla velocità di traslazione ed alle lavorazioni

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eventualmente effettuate, ma anche a fattori casuali (ad es. frenate improvviseper traffico intenso) e soggettivi (modalità di guida, ecc.).

In definitiva i parametri tecnici utilizzati tendono a misurare l’accelerazioneequivalente, che tiene conto dell’entità dell’accelerazione, dell’asse (x, y, z),della frequenza (0,5-80 Hz) e del tipo di vibrazione (impulsiva, traslazionale,rotazionale). Le curve dose-risposta sono ad oggi validate solo per gli effetti acutied in rapporto al mantenimento dell’efficienza della prestazione lavorativa, dellecondizioni di salute/sicurezza e di comfort del soggetto esposto. Come indicato-re di rischio effettivo viene assunta l’esposizione quotidiana al valore totale qua-dratico medio dell’accelerazione ponderata in frequenza nelle diverse posture; illivello di azione attualmente considerato è di 0,50 m/s2, peraltro ripreso dalrecente D. Lgs. 459/96. Da un punto di vista pratico-operativo, in carenza di datitecnici significativi, dovrà dunque essere acquisita documentazione probante inmerito a:

automezzi➣ tipo di autoveicolo (di trasporto, semoventi, etc.);➣ caratteristiche del contatto al suolo (gomme, cingolato, rotaia, etc.);➣ percorrenza chilometrica (media e complessiva);➣ velocità media;➣ caratteristiche del percorso;➣ operazioni di lavoro svolte con eventuale uso di attrezzi ausiliari;➣ condizioni di esercizio (sospensioni, sedile, motore, etc.)

velivoli➣ tipo di velivolo;➣ caratteristiche del propulsore;➣ ore di volo (medie e complessive);➣ tipo di servizio svolto.

Al riguardo va infine sottolineato che il livello più basso di rischio da WBV siha per i mezzi su rotaia, rispetto ai quali possiamo avere valori medi di accelera-zione aumentati di circa due volte (per gli autobus), tre volte (per i trattori agri-coli), quattro volte (per i carrelli elevatori diesel), nove volte (per le pale mec-caniche).

LE POSTURE

Gli studi dell’attività muscolare e dei carichi articolari quali si sviluppano nelleposture di lavoro, genericamente intese, sono stati finora mirati essenzialmentea verificare la tollerabilità della postura stessa nelle concrete condizioni spazio-temporali in cui essa viene adottata. Una postura viene definita tollerabile quan-do:non induce sensazione di disagio, fatica o dolore a breve termine;non causa patologia morfo-funzionale dell’apparato locomotore a lungo termine.

A tutt’oggi non sono disponibili però metodi e criteri per esprimere giudizi di

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tollerabilità di una data postura di lavoro. Inoltre non va dimenticato che, nellapratica, si valuta generalmente non tanto una singola postura quanto unasequenza di posture, quale si determina nello svolgimento dei compiti lavorativida parte di singoli lavoratori o gruppi di addetti durante un intero turno di lavo-ro, nei diversi contesti operativi. Sotto questo aspetto lo studio delle caratteri-stiche di entità dell’attività muscolare e del carico articolare dovrebbe essereeffettuato in parallelo con lo studio delle caratteristiche di durata degli stessi, inmodo da valutare non solamente l’accettabilità di singoli gesti o atteggiamenticorporei ma piuttosto la loro iteratività.

In base alle caratteristiche di entità e di durata, si possono delineare infatti con-testi lavorativi in cui le prime sono preponderanti rispetto alle seconde (gene-ralmente caratterizzati da uno spostamento manuale di pesi: carico e scarico dimerci, edilizia, alcuni reparti ospedalieri, etc.) o, al contrario, situazioni in cui lecaratteristiche di durata divengono preponderanti rispetto a quelle di entità(generalmente caratterizzate da posture fisse prolungate: lavoro in catena dimontaggio, dattilografia, VDT, guida di automezzi, parrucchieri, orchestrali,etc.).I metodi biomeccanici di studio sono del tutto sovrapponibili a quelli già esami-nati per il trasferimento manuale di pesi. Le differenze sono rappresentate daalcune varianti nei modelli analitici e nei criteri valutativi. Nelle posture fissel’analisi con modelli statici monodimensionali è generalmente adeguata e suffi-ciente. Sovente si presenta tuttavia, specie nella posizione assisa, la necessità diquantificare alcune forze esterne specie in termini di reazioni di appoggio (vin-coli) per il tronco. Al di là di ciò, resta tuttavia il problema di come valutare irisultati ottenuti dall’applicazione dei modelli biomeccanici. Anche in tal caso,i criteri valutativi sono disponibili in larga parte per il solo segmento lombarementre rimangono ancora approssimativi per gli altri segmenti corporei.

Come già detto, per comprendere tali criteri va schematicamente fatto riferi-mento ai ricordati meccanismi di nutrizione del disco intervertebrale. Questastruttura anatomica è priva di vasi e la sua nutrizione dipende da processi di dif-fusione delle sostanze dei tessuti adiacenti. La diffusione è a sua volta funzionedi un complesso rapporto fra pressione idrostatica e pressione osmotica ed onco-tica all’interno ed all’esterno del disco stesso, restando in sostanza affidata ad unmeccanico di “pompa”. In particolare, a proposito del processo nutritivo per dif-fusione, è stata ribadita da più parti l’esistenza di un valore “soglia” a 80 kg. dipressione intradiscale lombare come elemento discriminante fra condizioni disottocarico e condizioni di sovraccarico. Da tali cognizioni ne deriva che l’opti-mum del processo nutritivo del disco (e pertanto della postura) è determinatodal costante alternarsi attorno al valore soglia di condizioni di carico e scaricodello stesso.

Per contro, condizioni prolungate di sovraccarico o di sottocarico discale, comesono quelle che possono realizzarsi nelle posture fisse prolungate, ostacolano ilricambio nutritivo e possono, a lungo termine, favorire i processi di degenera-zione discale, con tutte le note conseguenze che tale fenomeno comporta.Per la valutazione delle posture fisse prolungate sono stati finora applicati glistessi metodi e criteri adottati per lo studio della movimentazione manuale di

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pesi, in quanto sufficientemente ben codificati, anche se qui gli elementi didurata divengono relativamente predominanti rispetto agli elementi di entità dicarico. Ciò significa che, nell’analisi delle posture statiche la valutazione di tol-lerabilità deve avvenire non già sulla base della semplice quantificazione deicarichi articolari e dell’impegno muscolare ma anche della loro distribuzione neltempo. Non va dimenticato poi che l’analisi degli atteggiamenti posturali è statafinora sempre integrata con quella delle strutture organizzative, ricorrendo inogni caso a metodi di valutazione soggettiva che, pur se pratici e sintetici, pre-sentano alcuni svantaggi:- il giudizio soggettivo può essere anche fortemente influenzato da altre varia-

bili ambientali ed individuali scarsamente controllabili e/o quantificabili;- il giudizio soggettivo non è sempre in grado di distinguere “gli elementi criti-

ci” (strutturali, posturali, organizzativi) di una determinata postura protrattanel tempo e, anche quando sia correttamente espresso, raccolto ed utilizzato,non dà indicazioni utili sulla potenziale “dannosità” della postura assunta.

Per quanto riguarda le posture fisse va comunque ricordato che le contrazioniisometriche superiori al 20% della MVC diminuiscono l’apporto di sangue conprecoce comparsa di fatica muscolare. Livelli elevati e protratti di stress (even-tualmente indotti da fattori psicosociali sfavorevoli) possono indurre contrazio-ni statiche prolungate della muscolatura.Il compito di guida rappresenta infine un esempio di associazione di più fattoridi rischio (da postura e da WBV), presupponendo il mantenimento della postu-ra seduta fissa con contemporanea esposizione a vibrazioni e scuotimenti in rela-zione alle caratteristiche tecniche del mezzo alle qualità ergonomiche del postodi guida ed alle condizioni del fondo stradale.

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“LOW BACK PAIN” LAVORO-CORRELATA

Per “low back pain” (LBP) si intende, come già detto, una sintomatologia dolo-rosa localizzata in corrispondenza del tratto lombo-sacrale del rachide (lombal-gia o lombosacralgia), con conseguente limitazione funzionale e difficoltà odimpossibilità ad assolvere i compiti lavorativi propri della mansione.

Molte delle difficoltà finora incontrate nell’inquadramento etiopatogeneticodelle patologie cronico-degenerative della colonna dorso-lombare derivano pro-prio dall’uso indiscriminato di tale termine, finora sistematicamente utilizzato intutte le indagini epidemiologiche realizzate a livello internazionale nonostantestia ad indicare esclusivamente un sintomo, senza alcuna indicazione sull’etio-patogenesi del disturbo (muscolare, vertebrale, discale). Tale termine di per séstesso non indica neppure la presenza di un’eventuale irradiazione algica agli artiinferiori (lombosciatalgia o sciatalgia franca), la cui forte associazione epide-miologica con i fattori fisici di carico e con la spondilodiscoartrosi è stata sotto-lineata da Riihimaki nel 1995. Per tali ragioni quest’ultimo autore ha proposto,unitamente alla raccolta di informazioni più dettagliate sulla durata della sinto-matologia stressa, l’adozione di una diversa terminologia: “local low back pain”e “radiating low back pain”.

“LOW BACK PAIN” E SPONDILOARTROPATIE

Da molti anni le patologie della colonna vertebrale rappresentano nei paesi indu-strializzati una delle maggiori cause di assenza dal lavoro e di disabilità in base aiparametri epidemiologici utilizzati (tasso di prevalenza, visite mediche e consultispecialistici, assenza dal lavoro, indennizzi) nell’ambito dei “back disorders”.

Nonostante la sempre più spinta meccanizzazione ed automazione sui luoghi dilavoro l’incidenza di tali patologie non è fino ad oggi diminuita nella popolazio-ne lavorativa; del resto, a dispetto dell’elevato numero di studi epidemiologicieffettuati negli ultimi decenni, non è stato possibile stabilire con sufficiente pre-cisione l’etiologia ed il ruolo assunto di volta in volta dai vari fattori di rischiofinora individuati (sia lavorativi che non). Tuttavia si ritiene che circa il 20% ditutti i casi di LBP possa essere teoricamente attribuibile a fattori fisici lavorati-vi, approfonditamente indagati negli ultimi anni.

Molti studi hanno confermato che una percentuale oscillante tra il 60 e l’80%di tutta la popolazione sperimenta una lombalgia invalidante ad una certa etàdella vita. L’80-90% dei lavoratori affetti da LBP ritorna al lavoro entro 30-60giorni dall’esordio della sintomatologia; solo un’esigua minoranza va incontro ad

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una invalidità (5-10%). Un’ ulteriore piccola quota va incontro a episodi dilombalgia ricorrente che diventano progressivamente più dolorosi e lunghi.

Come abbiamo già detto, sulla base di studi sperimentali a breve termine sono stateinvero prodotte linee guida per i carichi di lavoro (“physical load at work”) conprecise indicazioni quantitative rispetto ai principali parametri fisiologici (NIOSH1993, CEE 269/90), anche se non è stata ancora raggiunta una sufficiente eviden-za epidemiologica che consenta di affermare che dette linee guida siano effettiva-mente in grado di prevenire l’insorgenza di spondiloartropatie nei lavoratori.

Le spondiloartropatie sono patologie tipicamente multifattoriali; nel tentativodi definire lo specifico contributo di fattori nocivi correlati al lavoro, finora leindagini epidemiologiche hanno identificato fattori individuali, psicosociali efisici. In ogni caso le osservazioni sono state spesso contraddittorie o comunquenon univoche: molti studi purtroppo hanno stimato i vari fattori di rischio solodal tipo di lavoro (“job title”), senza analizzare gli specifici aspetti quantitativi(curve dose-risposta, etc.), che hanno caratterizzato solo poche ricerche.

I fattori nocivi lavorativi ad oggi conosciuti ed indagati sperimentalmente sonostati da tempo classificati in fattori fisici, psicosociali ed individuali:

FATTORI FISICI- movimentazione manuale dei carichi;- flessioni e torsioni del tronco;- pesantezza del carico;- postura coatta;- movimenti ripetuti;- vibrazioni trasmesse a tutto il corpo.

FATTORI PSICOSOCIALI- stress mentale;- insoddisfazione sul lavoro;- ritmo di lavoro elevato;- scarso supporto e/o autonomia;- deresponsabilizzazione;- monotonia.

FATTORI INDIVIDUALI- età;- sesso;- altezza;- peso;- fumo;- esercizio fisico e sport;- stato civile;- grado di istruzione.

I fattori psicosociali descrivono come il lavoro viene percepito dai lavoratori;l’ottimale organizzazione del lavoro è infatti l’obbiettivo naturale del processo

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lavorativo ed interagisce con il modo in cui il lavoro è strutturato. In effetti èben nota la possibilità d’insorgenza di sindromi dolorose come conseguenza ditensione muscolare protratta o di contrazioni isometriche senza adeguate pausedi riposo, in risposta a situazioni stressanti ed in assenza di un lavoro fisico.

Un interessante studio epidemiologico condotto in Inghilterra nel 1997(Hemingway), basato sulla codifica nosologica delle assenze dal lavoro di alcu-ni impiegati londinesi (“white collar”), ha evidenziato che nel 70% dei casipresi in esame si è trattato di periodi isolati di assenza dal lavoro (“non-recur-rent back pain”). Lo stesso autore ha inoltre confermato, oltre all’eterogeneitàdelle voci morbose prese in considerazione (ernia discale; sciatica; dolore allegambe; dolore alla schiena; lombalgia), anche le persistenti difficoltà nel defi-nire esattamente un caso di “back pain”: i casi basati sui sintomi riferiti nonsono del tutto attendibili per la distorsione dovuta alla risposta (“responsebias”), che interferiscono oltretutto anche con l’individuazione delle caratte-ristiche del lavoro.

Determinare con accuratezza l’esposizione del sistema muscolo-scheletrico alcarico biomeccanico rappresenta in effetti una vera e propria sfida, perché si vaa misurare qualcosa a cui ciascuno è esposto per la maggior parte del propriotempo: il carico dovuto alle posture e al movimento, con o senza carico ester-no. Tuttavia grazie alla moderna tecnologia è divenuto possibile monitorare eregistrare posture e movimento: clinamometri, accelerometri, elettromiografia,etc. L’esposizione può essere caratterizzata in termini di ampiezza (intensità),frequenza e durata ma il problema è come sintetizzare i dati complessivi inmaniera tale da avere misure attendibili dell’esposizione in relazione ai rischi dipatologie muscolo-scheletriche. Molta “esposizione” a posture e movimento èparadossalmente un’ottima cosa per il sistema muscolo-scheletrico ed in molticasi ha un effetto di “training” (allenamento). Il problema è dunque stabilire ilimiti di intensità, frequenza e durata oltre i quali l’esposizione produce effettidannosi.

Ma se è difficile stabilire l’esposizione attuale è ancora più difficile stabilire l’e-sposizione pregressa, soprattutto in relazione agli effetti cumulativi, particolar-mente importanti per l’insorgenza di patologie cronico-vegetative del rachide(lombare). Infatti non è di regola possibile disporre di dati retrospettivi accura-ti e pertanto l’esposizione pregressa è spesso basata su “self-reports” e pertantosoggetta a distorsione d’informazione (“information bias”).

I modelli biomeccanici finora sviluppati hanno rappresentato uno strumentooltremodo utile per stimare il carico sul sistema muscolo-scheletrico, unitamen-te ai dati sperimentali sulle caratteristiche dei tessuti. Tuttavia c’è da notare chealcuni dati sperimentali attualmente disponibili potrebbero essere non corretti:ad esempio le proprietà meccaniche delle vertebre si modificano sostanzialmen-te in rapporto alla circolazione sanguigna, che finora non è stata tenuta in con-siderazione nei modelli sperimentali e non si conosce con esattezza l’evoluzionedel processo degenerativo dei dischi intervertebrali nel singolo individuo.Inoltre non sono fino ad oggi disponibili “biomarkers” per le patologie dell’ap-parato muscolo-scheletrico.

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Il dato maggiormente rilevato negli studi epidemiologici delle malattie muscolo-scheletriche è rappresentato dall’insorgenza del dolore, che tuttavia non con-sente nella gran parte dei casi una diagnosi specifica. Uno degli strumenti piùutilizzati negli studi epidemiologici di queste malattie è finora stato il questio-nario nordico, che tuttavia risulta sotto questo aspetto troppo semplicistico.

Uno dei maggiori problemi è costituito, oltre che dalla difficoltà di stabilire unrapporto causa-effetto, dalla valutazione dell’incidenza dei fattori lavorativirispetto a quelli extralavorativi.

La “low back pain” può essere vista sotto un duplice punto di vista:1) il punto di vista clinico si sofferma sui danni tessutali prodotti dai fattori

lavorativi e considera l’invalidità derivante da eventi lesivi più gravi (ad es.ernia discale);

2) il punto di vista biomeccanico individua nelle abnormi esposizioni biomec-caniche lavorative la causa della LBP e quindi ritiene che con adeguati inter-venti preventivi si possa efficacemente prevenire la LBP.

La “low back-pain” può essere definita come caso clinico o come causa di assen-za dal lavoro. In questo secondo caso tuttavia interferiscono altri fattori del tuttoestranei, come ad esempio la tempestività e la adeguatezza delle cure mediche.

E’ ormai riconosciuto da molti autori che il termine di “low back pain” nonabbia uno specifico significato clinico in termini diagnostici, prognostici e tera-peutici. Meno del 5% di pazienti in età lavorativa con LBP hanno quadri mor-bosi oggettivamente dimostrabili anche se sottoposti a TAC e RMN: da ciò sca-turisce la convinzione che la LBP sia ormai diventata una diagnosi di esclusio-ne.

Riguardo la gravità della LBP c’è da dire che molto spesso ci si è riferiti al perio-do di assenza dal lavoro o comunque al periodo o all’entità dell’indennizzo rice-vuto ovvero a parametri soggettivi di misurazione del dolore piuttosto che aparametri biomedici tradizionali. Attualmente i sistemi di assicurazione socialedei paesi anglosassoni tendono ad enfatizzare gli aspetti traumatici acuti dellaLBP. Molto spesso inoltre gli studi epidemiologici hanno posto l’accento sui fat-tori di rischio prognostici piuttosto che eziologici cioè su quei fattori in grado dipredire l’evoluzione della malattia una volta instaurata.

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I RISCHI EXTRAPROFESSIONALI

Questi possono essere distinti, per i fini che qui interessano, in fattori fisiologi-ci ed eredo-costituzionali nonché patologici acquisiti. I primi sono rappresenta-ti da:- fattori ormonali (distiroidismi, menopausa, etc.); - costituzione fisica (tappe dello sviluppo scheletrico, obesità);- gravidanze portate a termine (numero, epoca, decorso);- para/dismorfismi della colonna;- malformazioni congenite vertebrali e/o degli arti;- pratica di talune attività sportive (rugby, equitazione, pesistica, windsurf,

sports motoristici), specie se a livello agonistico.

Per quanto riguarda i fattori patologici acquisiti, qui di seguito si riporta inoltreun elenco (non esaustivo) di patologie da valutare attentamente nella diagno-stica differenziale della spondilodiscoartrosi lombare: • Artrosi senile • Spondilite anchilosante • Artrite psoriasica • Artrosi post-traumatica (fratture vertebrali) • Malattia di Baastrup • Spondiloartrosi secondaria ad alterazioni congenite o acquisite della pelvi o

degli arti inferiori • Reumoartropatie a localizzazione rachidea • Artrosi da terapia cortisonica • Artrosi da malattie dismetaboliche • Spondilodisciti (tubercolari e non) • Malattia di Paget • Spondiloartriti • Sindrome di Reiter • Spondilopatia iperostosante • Morbo di Scheuermann • Malattia di Calvè • Malattia di Forestier • Spondilolisi/listesi • Patologia tumorale (angioma, encondroma, osteosarcoma, metastasi, ecc.).

Tutti i sopracitati fattori di rischio extralavorativi dovranno essere sempre scru-polosamente ricercati ed eventualmente documentati in occasione degli accer-tamenti clinico-strumentali e di laboratorio a cui il soggetto verrà sottoposto,onde consentirne la valutazione in termini etiopatogenetici (diagnosi clinicadifferenziale) e medico-legali (concause).

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LA FASE CLINICO-DIAGNOSTICA

Dopo aver preso visione della documentazione medica (RX, TAC, cartelle clini-che, certificati specialistici, etc.) il medico valutatore (auspicabilmente specia-lista in medicina del lavoro o in medicina legale) procederà di regola a racco-gliere minuziosamente l’anamnesi (specie quella lavorativa) e ad effettuare l’e-same obiettivo generale. In particolare, nell’anamnesi familiare, fisiologica e patologica remota si dovràindagare sulla presenza di patologie dismetaboliche ereditarie e costituzionali,sulle tappe dello sviluppo scheletrico, sulle eventuali pregresse gravidanze, sulleattività sportive praticate (sia precedentemente che attualmente), sui preceden-ti traumatici, su eventuali pregresse altre reumoartropatie e su altre abitudini divita potenzialmente dannose. Infine è necessario indagare sull’eventuale presen-za di situazioni cliniche che possono provocare una sintomatologia dolorosalocalizzata al rachide lombare: calcolosi renale, dismenorrea, colecistiti, etc.L’anamnesi lavorativa dovrà essere particolarmente minuziosa, raccogliendoeventuali documenti in materia di valutazione del rischio (certamente riscon-trabili in caso di movimentazione manuale dei carichi almeno a partire dallaseconda metà degli anni ‘90) e riportando tutti i parametri noti dei fattori dirischio dianzi ricordati, precisando per ciascuno il periodo di esposizione su basegiornaliera, mensile ed annuale nonché rispetto all’intera vita lavorativa.

Circa la anamnesi patologica prossima, occorrerà riportare minuziosamente tuttele caratteristiche della sintomatologia dolorosa accusata (insorgenza, sede, tipo,durata, irradiazione, remissione).

Per quanto riguarda l’esame obiettivo, questo sarà mirato a raccogliere tutti idati utili all’inquadramento nosografico del caso, rilevando eventuali deviazionidall’asse della colonna, asimmetrie del tronco, stato della muscolatura paraver-tebrale, mobilità della colonna e localizzazione del dolore. L’esame dovrà valu-tare anche gli arti inferiori (eventuali dismetrie, riflessi, stato della muscolatura,mobilità ai vari livelli) ed essere integrato dagli accertamenti clinico-strumen-tali specialistici ritenuti necessari. A questo proposito vanno ricordati i limitiposti dall’attuale legge in tema di radioprotezione (DPR n.230/95) all’esecuzio-ne di esami radiografici e di TAC; in caso sarà senz’altro opportuno utilizzare laRMN, tenuto anche conto delle specifiche indicazioni clinico-diagnostiche.Inoltre, in caso di irradiazione algica agli arti inferiori, dovrà essere disposta unavisita specialistica neurologica integrata, se del caso, da un idoneo esame stru-mentale (EMG o PESS). Dopodiché si provvederà a:- disporre l’acquisizione della documentazione relativa al rischio (integrata da

parere tecnico in caso di WBV);- far sottoporre il paziente a visita specialistica ortopedica ed ev. neurologica

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(quest’ultima integrata, se del caso, con i necessari esami strumentali - EMGe/o PESS);

- acquisire parere specialistico radiologico sui radiogrammi e/o esami TAC e/oRMN esibiti, con eventuale indicazione ad effettuare una RMN risolutiva neicasi dubbi. Si ricorda infatti che è esclusa di regola la possibilità di ricorreresistematicamente alla TAC in base al D.Lgs. n.230/95;

- far sottoporre il paziente agli accertamenti di laboratorio per screening reu-matologico: VES, esame emocromocitometrico, proteina C-reattiva, alfagli-coproteina acida, elettroforesi proteica.

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INDENNIZZABILITA’DELLA SPONDILODISCOARTROSICOME MP NON TABELLATA

Sulla scorta delle sopra riportate conoscenze di biomeccanica e fisiopatologiarachidea nonché dei dati statistico-epidemiologici riportati in letteratura si pos-sono formulare le seguenti linee guida.

Innanzitutto appare indispensabile la formulazione di una diagnosi nosologica-mente definita (ad es. spondilodiscoartrosi) e non meramente sindromica (lom-balgia), tenuto oltretutto conto che trattasi di patologia cronico-degenerativa.

Successivamente dovrà essere vagliata l’ipotesi di relazione causale tra noxaelavorative e quadro morboso osservato. Pur se riesce utile la conoscenza di datistatistico-epidemiologici dell’incidenza delle spondiloartropatie nel settore lavo-rativo di appartenenza, non bisogna dimenticare che la valutazione medico-lega-le assicurativa deve considerare la singola fattispecie in esame. In particolaredovranno essere soddisfatti tutti i criteri medico-legali in tema di nesso causale,ricordando che non può attribuirsi rilievo determinante ai soli criteri cronologi-co e topografico. Per quanto riguarda i tempi di esposizione (parametro comunea tutte le fattispecie di rischio), si ricorda che occorre tenere conto dell’esposi-zione media annua, mensile e giornaliera (almeno per il 50% dell’orario di lavo-ro) e dell’esposizione complessiva nell’intera vita lavorativa (almeno 10 anni).

Per ciascuna noxa lavorativa concretamente individuata e documentata si dovràquindi sinteticamente definire il livello di rischio (meglio se in tre gradi cre-scenti: basso, medio, alto), considerando sia l’entità che la durata di esposizionee precisando altresì le eventuali condizioni di aggravamento del rischio stesso.

Quindi si procederà al vaglio dei fattori di rischio extralavorativi, focalizzandol’attenzione su quelle situazioni cliniche (congenite o acquisite) di per sé stessesuscettibili di produrre normalmente le alterazioni degenerative osservate.

Riassumendo, per indennizzare una spondiloartropatia come MP non tabellata,dovrà essere necessariamente precisata:- la diagnosi in termini di un quadro clinico, anatomo-funzionale e strumentale

nosograficamente definito in senso diagnostico-differenziale (spondilodiscoartro-si lombare come sopra definita) e caratterizzato da fenomeni biologici più preco-ci e/o intensi rispetto a quello/i presentato/i dalla popolazione non lavorativa,tenuto conto delle caratteristiche individuali (costituzione, sesso, età, etc.);

- la pregressa esposizione in termini significativi per natura, intensità e durataad uno o più fattori di rischio lavorativo;

- la relazione tra fattori morbigeni extralavorativi e noxae professionali, chedevono aver svolto un ruolo superiore a quello assunto etiopatogeneticamen-te dai primi.

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APPENDICE

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LE RADICOLOPATIE LOMBARIF. Rossi EspagnetConsulente Neurologo Centrale INAIL

Dal punto di vista anatomico, il plesso lombare è costituito dalle prime quattroradici lombari secondo il seguente schema:• la prima radice lombare (L1) si divide nel nervo ileo-ipogastrico (con il con-

tributo di D12) e nel nervo ileo-inguinale;• la seconda radice lombare (L2), dopo anastomosi con la prima, si divide nel

nervo femoro-cutaneo, nervo genito-crurale, nelle radici superiori del nervootturatore e del nervo femorale;

• la terza radice lombare (L3) dà le radici medie del nervo femorale e del nervootturatore;

• la quarta radice lombare (L4) dà luogo alle radici inferiori del nervo femora-le e del nervo otturatore e si anastomizza con la quinta radice lombare (L5)dando luogo al tronco lombo-sacrale;

• la quinta radice lombare (L5) dà luogo a tre branche collaterali, da cui origi-nano i nervi addomino-genitali, il nervo genito-crurale ed il nervo femoro-cutaneo, e a due branche terminali, da cui prendono origine il nervo ottura-tore ed il nervo femorale.

Si definisce radicolopatia una sofferenza nervosa periferica che interessi una opiù radici nervose. Può essere dovuta a spondiloartrosi o a fenomeni patologicidel disco intervertebrale (protrusione, erniazione). Questi ultimi, per ragionianatomo-funzionali, interessano prevalentemente le radici L4-L5 e L5-S1.

La sofferenza radicolare si manifesta clinicamente con la presenza di diversi sin-tomi e segni clinici, a seconda della radice interessata e dello stadio evolutivo.Da un punto di vista generale distinguiamo:- segni di irritazione (dolore, parestesie, contrattura muscolare, rigidità artico-

lare);- segni di compressione (ipotonia e ipotrofia muscolare, deficit di forza, ridu-

zione dei riflessi);- segni di interruzione (ipotonia e ipotrofia muscolare fino all’atrofia, paralisi

nel territorio radicolare corrispondente, abolizione dei riflessi).

Il dolore lombosciatalgico deve essere accuratamente descritto riportando lapositività o meno dei seguenti segni clinici:- Delitala (evocato con la pressione digitale profonda sulla doccia paraverte-

brale);- Laségue (con il paziente in decubito dorsale, si afferra il piede dell’arto infe-

riore malato e a gamba estesa, lo si flette sul bacino);- Wassermann (con il malato in decubito prono si flette la gamba sulla coscia

e si iperestende quest’ultima);

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- Neri I (al paziente in posizione supina viene flesso improvvisamente il caposul tronco);

- Neri II (al paziente eretto, ad arti inferiori divaricati, viene flesso il tronco);- Kernig (al paziente sdraiato, con arti inferiori estesi, viene flesso il tronco

sulle cosce);- Sicard (al paziente sdraiato viene flesso il piede in senso plantare);- Roussy e Corni (evocato con l’intrarotazione del piede sulla gamba).

Momento centrale dell’esame clinico è in sostanza la formulazione di una dia-gnosi di livello radicolare, per la quale si dovrà esaminare minuziosamente, nelterritorio d’innervazione corrispondente, la sensibilità, lo stato dei riflessi e laforza muscolare.

L1-L2 (L3)sensibilità: alterata in corrispondenza della regione inguinale, della coscia, del

ginocchio;riflessi: non alterati;motilità: deficit di forza nella flessione della coscia.

L2-L3 (L4)sensibilità: alterata in corrispondenza della coscia, del ginocchio, della regione

mediale della gamba;riflessi: non alterati;motilità: deficit di forza nell’estensione della gamba e nell’adduzione della

coscia.L4

sensibilità: alterata in corrispondenza della regione mediale della gamba, delmalleolo interno;

riflessi: riduzione/abolizione del rotuleo;motilità: deficit di forza nell’estensione della gamba e nella dorsi-flessione del

piede.L5

sensibilità: alterata in corrispondenza della regione laterale della gamba e deldorso del piede;

riflessi: non alterati;motilità: deficit di forza nell’estensione delle dita del piede, alluce compreso.

S1 (plesso sacrale)sensibilità: alterata in corrispondenza della regione posteriore latero-mediale

della coscia, della regione laterale della gamba e della pianta delpiede;

riflessi: riduzione/abolizione dell’achilleo e del medio plantare;motilità: deficit di forza nella flessione della coscia sul tronco, nella flessione

della gamba sulla coscia e del piede sulla gamba, nella flessione delledita del piede.

Infine, è necessario che lo specialista neurologo, qualora si trovi di fronte ad unpaziente con dolore lombosciatalgico, integri l’esame clinico con uno studioneurofisiopatologico al fine di trovare o meno conferma al proprio orientamen-to diagnostico. Gli accertamenti strumentali ad oggi ritenuti più utili sia da unpunto di vista clinico che medico-legale sono ad oggi l’elettromiografia (EMG)ed i potenziali evocati somatosensitivi (PESS) degli arti inferiori.

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ELETTROMIOGRAFIA (EMG)

L’indagine elettromiografica ad ago può documentare a riposo una parzialedenervazione sotto forma di aumento di attività d’inserzione, potenziali di fibril-lazione e potenziali positivi di denervazione, mentre l’attività volontaria puòessere caratterizzata da una ridotta attività di unità motorie con occasionaleaumento di durata dei singoli potenziali ed aumentata incidenza dei potenzialipolifasici. Le velocità di conduzione sono in genere normali, con eventualemodesto rallentamento della V.C.M. nelle radicolopatie croniche di vecchiadata.

In caso di sofferenza radicolare le risposte muscolari tardive (onda F e riflessoH*) mostrano latenze aumentate, soprattutto se paragonate a quelle della gambaasintomatica, a dimostrazione che esiste un deficit di propagazione nei settoripiù prossimali delle fibre che governano il nervo tibiale. Nei casi gravi il rifles-so H è totalmente assente e corrisponde all’impossibilità clinica ad elicitare ilriflesso achilleo.

POTENZIALI EVOCATI SOMATOSENSITIVI (PESS) DEGLI ARTI INFERIORI

I PESS del nervo SPI, come la maggioranza delle altre metodiche utilizzate(EMG, onda F, riflesso H) risultano inalterati se non vengono obiettivati deficitsensitivo-motori. Nei pazienti con una multiradicolopatia lombo-sacrale possia-mo comunque avere un aumento dell’interpicco PG-N22 (indicativo di un ritar-do di conduzione prossimale e di un danno prevalentemente mielinico) o unadestrutturazione morfologica o assenza delle risposte evocate spinali (indicativedi un blocco di conduzione o di una grave assonopatia).

* Onda F: si riscontra nei muscoli flessori del piede durante la stimolazione del nervo tibiale al malleolo inter-no. E’ riscontrabile durante la stimolazione sovramassimale di un nervo misto (20-40 msec dopo la risposta M)e viene utilizzata per avere indicazioni sulla propagazione nervosa lungo i settori piu prossimali di nervi peri-ferici (plessi, radici). La differenza tra i due arti inferiori non supera i 3 msec, tra i due superiori i 2 msec.Riflesso H: durante la registrazione dal muscolo soleo con stimolazione del nervo al poplite. E’ così denomi-nato dal nome del suo scopritore: Hoffman. Il riflesso è caratterizzato dalla comparsa di una risposta muscola-re tardiva, intorno ai 30 msec, in seguito a stimolazione elettrica delle fibre afferenti di grosso calibro (conimpulsi di lunga durata, circa 1 msec e d’intensità intorno alla soglia di elicitazione dell’onda M). Rappresentail corrispettivo elettrofisiologico del riflesso miotatico.

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LA DIAGNOSI RADIOLOGICA DELLASPONDILO-DISCO-ARTROSIO. Michelini, M. Caulo, G. Spacca*, C. MasciocchiDip. Diagnostica per Immagini, ASL-Università L’Aquila* Servizio di Riabilitazione, ASL L’Aquila

LE METODICHE DI INDAGINE

La radiologia convenzionale rappresenta la tecnica di esame fondamentale perlo studio dell’apparato scheletrico e, il più delle volte, è sufficiente da sola performulare una corretta diagnosi. La naturale radioopacità del tessuto osseo, lega-ta alla presenza di un’alta concentrazione di sali minerali ad elevato numero ato-mico, ne consente la facile evidenziazione con questa tecnica, essendo il tessutoosseo ben differenziato dalla cartilagine, dalle strutture fibrose e dai tessuti mollicircostanti. Inoltre con l’esame radiografico è possibile valutare non solo lamorfologia dell’osso, ma anche la sua organizzazione strutturale in osso compat-to e osso spongioso, potendo così evidenziare quelle lesioni che determinanoalterazioni della forma e/o della struttura normale dell’osso. Nella maggior partedei casi è sufficiente eseguire l’esame radiografico nelle due proiezioni ortogona-li, ma a volte essendo l’immagine radiografica un’immagine sintetica planare diuna struttura tridimensionale è necessario ricorrere a proiezioni oblique in gradodi sproiettare determinate formazioni che si andrebbero a sovrapporre, masche-randosi a vicenda, nelle proiezioni ortogonali standard.

La tomografia assiale computerizzata (TC) invece, grazie alla sua elevata riso-luzione spaziale e alla buona risoluzione di contrasto, consente la visualizzazio-ne, oltre che della componente scheletrica e del suo stato di mineralizzazione,anche delle strutture cartilaginee, capsulo-legamentose e muscolo-tendinee.Risulta pertanto molto utile nello studio della patologia articolare e della pato-logia traumatica dell’osso, soprattutto in caso di traumi particolari e complessi.La possibilità di ottenere ricostruzioni tridimensionali delle scansioni assialiacquisite ha aumentato di molto le potenzialità diagnostiche di questa tecnicasoprattutto nell’ambito della patologia traumatica e tumorale dell’osso.

La risonanza magnetica nucleare (RM) possiede infine una ottima risoluzionespaziale e di contrasto ed offre la possibilità di effettuare scansioni multiplanari;pertanto viene attualmente considerata come un’indagine con enormi potenzia-lità nella diagnostica osteo-articolare. L’immagine RM dell’osso è interamentedovuta al midollo osseo in esso contenuto: l’osso spugnoso e ancor più quellocompatto, essendo privi di protoni liberi ed avendo una struttura piuttoto rigidae ripetitiva non contribuiscono al segnale e pertanto vengono rappresentaticome aree di assenza di segnale e quindi neri. La RM viene utilizzata con suc-cesso nello studio della maggior parte delle articolazioni, con buona valutazionedei costituenti articolari, soprattutto delle strutture legamentose. Ruolo semprepiù importante sta acquisendo la RM nello studio delle lesioni muscolari. Ognimutamento di tipo acuto o cronico della composizione del tessuto muscolare può

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risultare in un’alterazione dell’intensità di segnale all’indagine RM. I vari tipi disequenze utilizzabili per lo studio della patologia muscolare consentono quasisempre di formulare una corretta diagnosi.

LA DIAGNOSI RADIOLOGICA

La semeiotica radiografica dell’artrosi vertebrale contempla una notevole varietàdi quadri che vanno dalla sclerosi, alla presenza di geodi, alla produzione diosteofiti e, estendendo il concetto alla disco-artrosi, ai processi di degenerazio-ne discale ed alla patologia erniaria. Ad una tale varietà di quadri si è tentato diriferire un unico movente patogenetico che è stato riassunto in due differentiteorie: quella biochimica e quella biomeccanica (anche detta del sovraccaricofunzionale).

La sintomatologia clinica dell’artrosi delle grandi articolazioni è caratterizzatageneralmente da dolore ed impotenza funzionale. Nel caso dell’artrosi vertebra-le i sintomi sono inoltre correlati anche agli stretti rapporti anatomici che lacolonna vertebrale contrae con strutture anatomiche vascolari e nervose. Perquesto motivo la clinica dell’artrosi vertebrale si arricchisce di dati determinatidal conflitto tra vasi arteriosi (arterie vertebrali) e strutture nervose (radici spi-nali, midollo spinale) con i processi artrosici.

La gravità clinica dell’artrosi vertebrale non è sempre strettamente correlabile alla“quantità” dei processi degenerativi ma spesso va valutata considerando la localiz-zazione e la “strategicità” di questi. Il concetto di “strategicità” è senza dubbio unaacquisizione “antica” in radiologia, ma soprattutto oggi riveste un ruolo fonda-mentale in radiodiagnostica, grazie alle possibilità che offrono la TC e la RM dieffettuare studi a spessore di strato sottile e addirittura (RM) su diversi piani dellospazio, in modo da poter stabilire con esattezza i rapporti che i fenomeni degene-rativi artrosici contraggono con le strutture anatomiche circostanti.

Ad esempio, nel caso di un piccolo osteofita che origini dal muro posteriore diun corpo vertebrale o da un’articolazione interapofisaria e che impegni un fora-me di coniugazione, questo è in grado di dare una sintomatologia dolorosa e fun-zionale importante pur essendo lesione di piccole dimensioni che qualora loca-lizzata a livello del muro vertebrale anteriore non avrebbe avuto alcun significa-to clinico (Fig.1). Con la RM e soprattutto la TC, è possibile evidenziare anchepiccole formazione osteofitosiche e giustificare un quadro clinico di irritazioneradicolare. Lo studio radiologico deve pertanto essere quantitativo ma soprat-tutto qualitativo nel caso dell’artrosi vertebrale e deve costantemente ricercarela correlazione tra il dato clinico e quello dell’immagine.

Le tecniche e le metodiche radiologiche oggi disponibili permettono di diagno-sticare facilmente la patologia artrosica vertebrale e di seguirne nel tempo i pro-cessi evolutivi. La crescente attenzione nei confronti dei “costi” delle procedu-re diagnostiche indirizza il radiologo verso l’utilizzo di procedure il più possibile“economiche”. La radiologia tradizionale permette di effettuare una corretta dia-gnosi di artrosi vertebrale, ma non sempre è in grado di offrire informazioni tali

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da consentire la creazione di un esatto correlato clinico-radiologico né è oggipossibile accettare per la diagnosi della patologica spondilo-disco artrosica ilricorso a metodiche obsolete (ad es. la tomografia) o invasive quali la saccoradi-culografia, la febografia epidurale e la discografia.

Il radiogramma convenzionale resta il primo atto diagnostico nello studio del-l’artrosi vertebrale ma, qualora il giudizio clinico lo richieda, deve essere inte-grato con metodiche di diagnostica “pesante” quali la TC e la RM. Tradizionalmente in radiologia si distinguono nell’artrosi vertebrale segni gene-rici e segni specifici. Tra i segni generici ricordiamo la riduzione dello spazio inter-somatico, la sclerosi ed irregolarità delle lamine vertebrali, l’osteofitosi verte-brale, la sclerosi ed irregolarità delle faccette articolari interapofisarie (Fig. 2).

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Fig. 1 - Esame TC. Presenza in L4-L5 di piccolo osteofita cheimpegna il forame di coniugazione di destra,ove transita la radice di L4 destra.

Fig. 2 - Esame RXRiduzione dello spaziointersomatico L5-S1 consclerosi corticale a livellodelle limitanti somatiche efenomeni osteofitosici apartenza dalle articolazioniinterapofisarie.

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Gli aspetti radiologici specifici di artrosi vertebrale vengono divisi in aspettitipici di discopatia e quelli tipici della stenosi del canale. I segni tipici di disco-patia sono:- nodi di Schmorl (si tratta di ernie intraspongiose che originano dalle limi-

tanti somatiche inferiore o superiore di un corpo vertebrale);- segno di Harris-Mc Nab (in proiezione A-P e L-L si apprezza asimmetrica

riduzione di altezza dello spazio intersomatico);- fenomeno di Knutsson (presenza di stria di densità gassosa nello spazio inter-

somatico);- spondilolistesi degenerativa.

I segni tipici della stenosi del canale vertebrale sono a loro volta suddivisi per leforme congenite e per quelle acquisite:CONGENITE: rapporto interapofisario-somatico <50% e accorciamentopeduncoli <1,5cm;ACQUISITE: osteofitosi, ipertrofia delle faccette articolari delle articolazioniinterapofisarie, ipertrofia dei legamenti gialli

Un cenno particolare merita la spondilolistesi degenerativa che va differenziatadalla forma congenita, in quanto in quest’ultima sono interrotti gli istmi pedun-colari. Per diagnosticare una spondilolistesi è spesso necessario effettuare deiradiogrammi funzionali. Nella massima flessione infatti si accentua o compare loscivolamento del corpo vertebrale cui solitamente si associa una riduzione inampiezza del forame di coniugazione con conseguente conflitto radicolare; que-sta evenienza risulta ancora più probabile qualora coesistano osteofiti “strategi-ci” aggettanti nel forame di coniugazione.

Pur essendo la semeiotica radiologica dell’artrosi la stessa per tutti i distrettirachidei, alcuni distinguo vanno effettuati.

La cervico-artrosi è una entità patologica molto comune dopo i 40 anni. In que-sto distretto l’esplorazione radiologica richiede una tecnica in grado di studiaretre differenti sistemi articolari dei quali due comuni agli altri distretti rachidei:articolazioni interapofisarie e discosomatiche e un sistema articolare peculiaredel tratto cervicale: articolazioni unco-vertebrali. L’artrosi interapofisaria inte-ressa prevalentemente il tratto C3-C5 ed è caratterizzata radiologicamente dariduzione dello spazio intersomatico, sclerosi dell’osso subcondrale e deformazio-ne osteofitosica marginale dei contorni. Nel caso della spondilosi la deformazio-ne osteofitica interessa gli spigoli somatici. L’artrosi unco-vertebrale è caratte-rizzata dal riscontro di apposizioni osteofitosiche a livello degli apici dei proces-si uncali che appaiono slargati (slargamento a fungo) o inclinati verso l’esterno.Ai fini clinici sono importanti le degenerazioni artrosiche delle articolazioniinterapofisarie che possono determinare impegno del canale di coniugazione econseguente conflitto radicolare e la degenerazione artrosica delle articolazioniuncovertebrali che può determinare compressione a livello dell’arteria vertebra-le anche se nell’insufficienza vertebro-basilare la cervico-artrosi giuoca un ruoloancillare (15% dei casi). A livello del tratto dorsale l’artrosi è un’evenienzapatologica rara dovuta alla rigidità della gabbia toracica che impedisce che siabbiano osteofitosi ad estrinsecazione nel canale vertebrale o degenerazioni

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discali con protrusioni. Nel tratto toracico, più spesso che altrove, l’artrosi deicorpi vertebrali si esplica prevalentemente sul versante anteriore dei corpi ver-tebrali data la presenza della cifosi fisiologica e pertanto è scarsamente sintoma-tica e quindi spesso misconosciuta.

Lo studio della spondilo-artrosi mediante TC consente di evidenziare numerosiaspetti peculiari della malattia. La sclerosi delle limitanti somatiche apparecome un aumento di spessore e di densità della corticale mentre l’osteofitosi sipresenta con protuberanze ossee ben visibili poste in continuità con l’osso ver-tebrale. Facilmente evidenziabili con lo studio TC sono i fenomeni degenerati-vi delle strutture legamentose: tali fenomeni sono dovuti a deposizioni di sali dicalcio e si presentano sui radiogrammi TC come lamelle di densità elevata cheseguono per tratti più o meno brevi più frequentemente il decorso del legamen-to longitudinale posteriore. Le ernie di Schmorl hanno alla TC un aspetto carat-teristico ed appaiono come lacune ipodense circondate da un orletto sclerotico(Fig.3). Le modificazioni degenerative delle faccette interapofisarie sono carat-terizzate da riduzione dello spazio articolare, fenomeni di vacuum e presenza diformazioni pseudo-cistiche. A questo quadro si associano quasi sempre alterazio-ni ossee che vanno dalla sclerosi delle faccette alla produzione di grossolaniosteofiti. I fenomeni degenerativi disco-somatici sono estremamente comuni a carico deltratto lombo-sacrale ed aumentano con il progredire dell’età.

Per quanto riguarda la patologia discale, questa inizia con un processo degenera-tivo caratterizzato da una progressiva disidratazione e trasformazione fibrosa deldisco intersomatico che porta alla fine ad una perdita di continuità dell’anulus

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LE SPONDILOARTROPATIE DEL RACHIDE DORSO-LOMBARECOME MALATTIA PROFESSIONALE NON TABELLATA

Fig. 3 - Immagini TC.In A grossolana calcificazione del legamento longitudinale posteriore. In B è presente ernia intra-spongiosa con tipico aspetto di lacuna ipodensa circondata da orletto sclerotico.

A B

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fibroso con conseguente possibile erniazione del nucleo polposo attraverso la fis-surazione.

Circa 1/3 della popolazione sessantenne è affetta da ernia discale. Il 90% delleernie discali sono localizzate a livello lombare distale (L4-S1), mentre più raresono le ernie cervicali che però sono nella maggior parte di origine traumatica enon degenerativa. Il tratto di rachide cervicale maggiormente interessato dallapatologia erniaria è quello C5-C7. La TC, la RM e la mielografia presentanostessi valori di sensibilità nella diagnosi di patologia erniaria. Nei pazienti conernia discale lo studio mielografico evidenzia un difetto di riempimento extra-durale, la dislocazione e rigonfiamento della radice spinale. L’immagine TC evi-denzia, nel caso di ernia discale, una massa di tessuto che protrude in direzionedel canale vertebrale e che disloca il grasso epidurale ed il sacco durale poste-riormente. Con la RM la patologia erniaria viene solitamente studiata sul pianodi scansione assiale e su quello sagittale. L’ernia discale in questo modo vieneben evidenziata come pure vengono evidenziati i rapporti che questa contraecon le strutture anatomiche viciniori (Fig.4). I piani di scansione sagittali para-mediani permettono di identificare con facilità i forami di coniugazione pervalutare un eventuale impegno di uno o entrambi questi. In alcuni casi il mate-riale discale può superare le fibre più periferiche dell’anulus fibroso (fibre diSharpey) e il legamento longitudinale posteriore e migrare in direzione cranialeo caudale all’interno del canale vertebrale. In questo caso si parla di ernia disca-le espulsa e anche in questo caso sia la TC che la RM che la mielografia posso-no esprimere un corretto giudizio diagnostico.

Generalmente la diagnosi di ernia viene oggi effettuata mediante esame TC e/oRM. Esistono delle indicazioni all’uso di una metodica piuttosto che un’altra a

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Fig.4 - Immagini RM e TCIn A e B esame RM con sequenze T2-dipendenti. E’ presente ernia discale paramediana destra alivello L5-S1 ben evidente sia sul piano assiale che su quello sagittale. In C immagine TC che benevidenzia la presenza di un’ernia discale a prevalente estrinsecazione mediana. Concomitano feno-meni artrosici a carico delle articolazioni interapofisarie.

A B C

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parità, come abbaiamo detto, di sensibilità nella diagnosi di ernia discale. Il datoa favore dell’utilizzo della RM consiste nella capacità da parte di questa metodi-ca di esprimere un giudizio diagnostico sulla compressione e compromissione delmidollo spinale da parte di un’ernia discale o di un osteofita che protrudano indirezione del canale vertebrale nel tratto cervico-dorsale. Le sequenze T2-dipen-denti, condotte su piani di scansione sagittali ed assiali sono in grado di rileva-re la presenza di aree di alterato segnale a livello midollare che indicano una sof-ferenza ischemica dovuta a compressione dell’arteria spinale anteriore. La con-dizione di sofferenza midollare va necessariamente sempre ricercata in caso dicompressioni da parte di osteofiti o di ernie discali e pertanto lo studio RM risul-ta assolutamente imprescindibile nel tratto di colonna cervicale e dorsale. Di particolare importanza nel campo della diagnostica per immagini in infortuni-stica è la possibilità che offre la RM di stabilire la cronologia di una ernia discalepermettendo di distinguere le ernie discali “acute” da quelle inveterate. Il riscon-tro nelle sequenze T2-dipendenti di alta intensità di segnale a livello dell’erniadiscale depone per la presenza di una quota di edema che risulta tipica delle ernie“acute”, al contrario il riscontro di bassa intensità di segnale è segno di avvenutifenomeni fibrotici che depongono per una condizione di cronicità.

In alcuni casi di quadri degenerativi della colonna la RM mostra dei limiti dia-gnostici nella capacità di differenziare una compressioni dovuta ad una erniadiscale o ad un osteofita. In questi casi l’integrazione TC-RM risulta indispensa-bile ai fini di una corretta diagnosi (Fig.5).

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LE SPONDILOARTROPATIE DEL RACHIDE DORSO-LOMBARECOME MALATTIA PROFESSIONALE NON TABELLATA

Fig. 5 - Immagini TC e RMStesso caso studiato in TC ed RM. L’esame TC (A) permette di evidenziare la presenza di volumi-noso osteofita anteriormente al muro posteriore. L’esame RM (B) evidenzia la dislocazione del mi-dollo spinale in senso postero-laterale ma non risulta in grado di riconoscere la natura della lesio-ne che determina la compressione.

A B

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Altro limite imposto alla RM è quello di riconoscere la presenza di una compo-nente di metaplasia ossicalcifica all’interno di un’ernia discale. Questo riscontroè al contrario facilmente evidenziabile con lo studio TC (Fig.6).

In conclusione, se nello studio dei tratti cervicali e dorsali la RM si imponecome esame di scelta, nella valutazione del tratto di rachide lombare la TC rive-ste ancora un ruolo diagnostico importante anche in considerazione della mag-giore diffusione sul territorio di apparecchiature TC rispetto a quelle RM e delminor costo dell’esame.

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Fig. 6 - Esame TC.Fenomeni di metaplasia calcifica a livello di un’ernia discale lombare.