Le Pietre della Vita

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Tutto inizia una sera di fine estate. Luigino assiste impotente all'aggressione del suo amico, Mario Spaghetti, per mano di un oscuro personaggio con i pantaloni neri. Mario, in fin di vita, consegna al ragazzino una piccola pietra blu dai poteri magici. Da quel momento Luigino dovrà scappare, inseguito da strani uomini neri e personaggi misteriosi, tutti interessati a riunire le tre pietre della vita, sprigionare il loro immenso potere e distruggere il mondo.

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Enrico Matteazzi

LE PIETRE DELLA VITA

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LE PIETRE DELLA VITA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Enrico Matteazzi ISBN 978-88-6307-295-2

Immagine di copertina e illustrazioni di Valeria Rambaldi

Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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Dedicato a tutti coloro che prima di cambiare il mondo

cambiano se stessi.

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I Tutto cominciò una sera d’estate in un piccolo e anonimo paesino di campagna del Nord Italia. Come suo solito, Luigino si era attardato sopra la collina davanti casa. Gli piaceva stare seduto sull’erba ad osservare il paesino di sotto, gli dava quasi una sensazione di onnipotenza. Spesso apriva le braccia abbandonandosi al vento fresco e guardava il crepuscolo immaginando di volare via co-me un uccello. Luigi, che tutti chiamavano affettuosamente Luigino, era un ragazzino di dieci anni. Portava i capelli biondi a ca-schetto e aveva gli occhi verdi. La sua vita scorreva nor-male, come quella di tanti altri ragazzini della sua età: giocava, era sereno, andava a scuola e portava a casa an-che dei bei voti. Quello che gli accadde, però, non se lo sarebbe mai aspettato. Una sera d’estate, mentre il sole calava lasciando il posto alle stelle, l’orologio al polso di Luigino segnava le nove e mezza. “Un po’ tardi”, si disse, “ma forse c’è tempo per andare a trovare un amico”. Si passò una mano tra i capelli e inspirò per l’ultima volta l’aria fresca della sera, prima di decidersi ad alzarsi e percorrere a passi brevi il sentiero che scendeva verso le prime case della periferia. Le poche persone che circolavano a quell’ora lo scruta-vano con diffidenza, fra qualche lamento per il caldo afo-so e per il fatto che, purtroppo, quell’anno in ferie non ci sarebbero potuti andare. Tutta colpa della crisi.

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Luigino ascoltava sempre, ma non capiva quasi mai i di-scorsi degli adulti. A lui interessava giocare, divertirsi e ogni tanto combinare qualche guaio. Camminava con passo furtivo lungo la via principale ad-dentrandosi ben presto nel cuore del paese. Mentre teneri raggi rossi illuminavano a tratti la sua faccia sbarazzina rendendolo quasi una figura spettrale, svoltò a destra in un vicolo stretto e male illuminato. Andava spesso a trovare il signor Mario. Era un cuoco molto ricercato, anche perché era l’unico del paese. Mario Spaghetti apparteneva ad una famiglia di ristorato-ri che, generazione dopo generazione, da secoli si tra-mandava l’arte della cottura degli spaghetti. Mario soste-neva addirittura che questo tipo di pasta si chiamasse così perché l’aveva inventata un suo antenato, il primo Spa-ghetti. E siccome nessuno in paese poteva provare il con-trario, tutti gli davano ragione. Luigino si fermò davanti ad un portone che dava sul retro di un edificio fatiscente. Spinse l’uscio semiaperto ed en-trò in una stanza buia. Tastò la parete in cerca dell’interruttore. Non appena spinse il pulsante, una luce gialla illuminò una spaziosa cucina con tanto di fornelli a gas, lavelli e banconi sopra i quali erano sparsi mestoli, pentole, cucchiai, forchette e coltelli. Raccolse alcune posate che erano cadute per terra e le rimise al loro posto, sopra il grande bancone centrale. Stava per gridare il nome dell’amico, quando proprio la voce grossa e roca del signor Mario lo sorprese rimbom-bando tra le pareti della cucina. Sembrava stesse litigan-do con qualche avventore notturno. L’altro tizio stava al-zando la voce.

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“Forse è meglio nascondersi”, pensò Luigino rintanando-si sotto un tavolo, protetto da una tovaglia, cercando di non fare rumore. Scorse appena le gambe di Mario che si avvicinavano ad una credenza. Stava armeggiando con un pannello di le-gno. Non poteva vederlo, ma l’amico aveva sollevato il pannello e aveva estratto una piccola scatoletta d’oro. All’improvviso il vento fece sbattere la porta d’ingresso del ristorante. Mario appoggiò la scatoletta sopra il ban-cone, gli occhi sbarrati per la paura. Anche Luigino era rimasto sorpreso, ed ora il cuore gli batteva forte. Le due ante della porta della cucina si spalancarono e un losco figuro entrò con passo pigro. Ne poteva intravedere solo i pantaloni e le scarpe, entrambi neri come la pece. Quando il nuovo venuto si fermò proprio di fronte a lui, ebbe per un attimo il timore di essere stato scoperto. In-vece quei pantaloni neri si accostarono indifferenti alla parete bianca e una nuvola di fumo scese fin sotto il tavo-lo. Luigino si sfregò il naso: “Pantaloni Neri” stava fu-mando una sigaretta e a lui il fumo dava molto fastidio. – Ti avevo chiesto di aspettare fuori! − esclamò il signor Mario con una goccia di sudore che colava dal suo volto paffuto. – Sì, lo so – rispose pacato l’altro – ma ci stavi mettendo troppo e cominciavo a spazientirmi. Le gambe dello straniero si avvicinarono a quelle di Ma-rio con un movimento rapido. – Dammela! Scese un’altra nuvola di fumo. – Non credo tu abbia compreso la gravità della situazione − disse ancora lo straniero. − Devi darmela subito, altri-menti morirai!

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Mario non disse nulla. Seguì una pausa glaciale interrotta dal rumore di mestoli e posate che cadevano sulle mattonelle. – Dammi quella dannata scatoletta! – ripeté pantaloni ne-ri rabbioso. Luigino non riusciva a capire cosa stesse succedendo, ma era chiaro che il suo amico era in pericolo. Però, d’altra parte, che cosa poteva fare? Come un topino impaurito, decise di aspettare la fine del-la colluttazione. Udì un lamento soffocato. Poi più nulla. Scorse i panta-loni neri che si lanciavano verso la porta, raggiungevano decisi l’altra stanza e uscivano dal ristorante. Solo allora uscì dal nascondiglio e raggiunse Mario Spaghetti. Il po-veretto se ne stava appoggiato contro il forno, con una mano sporca di sangue premuta sul ventre e il respiro af-fannoso. Non appena il cuoco si accorse della presenza del ragaz-zino, estrasse faticosamente dalla tasca un piccolo ogget-to blu. – Luigino… – bisbigliò. – Dà questa al dottore… Furono le sue ultime parole. Dalla sua mano insanguinata una pietra cadde e rotolò ai piedi del ragazzino. Terroriz-zato, Luigino rimase a fissare l’uomo che pareva morto accanto al forno. Avrebbe voluto urlare e piangere, inve-ce raccolse quel piccolo oggetto blu e trovò addirittura il coraggio per chiamare un’ambulanza; quindi corse fuori e, senza voltarsi, si incamminò lungo la stradina in salita di Via della Collina. Arrivato sul prato che stava di fronte casa sua, si sedette sull’erba e rimase lì a fissare il vuoto. Si strinse le ginoc-chia contro il petto: non riusciva a pensare a nulla.

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Una luna piena di tristezza si stava alzando in cielo. Scorse qualcosa che usciva dal ristorante di Mario e s’immaginò che fosse la lettiga con il suo amico adagiato sopra, ricoperto da un lenzuolo bianco come in quel film poliziesco che aveva visto qualche giorno prima. Strinse forte quella strana, piccola pietra blu. Con gli oc-chi ancora lucidi, la osservò attentamente: era liscia, di forma ovale, simile a una nocciolina.

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II La luna piena illuminava una stradina nera e silenziosa, popolata da gatti randagi che rovistavano tra i rifiuti ma-leodoranti. Luigino bussò al portone del dottor Curaro e dopo qualche secondo si udì un borbottio dall’interno di un vecchio edificio dai muri ammuffiti e scrostati. Da una piccola finestrella fece capolino un vecchio in pi-giama: portava una lunga barba bianca e aveva un aspetto decisamente assonnato. – Chi disturba a quest’ora di notte? – domandò sottovoce. – Sono io, Luigino! – fu la risposta sommessa del ragaz-zino. – Luigino…? – fece il dottore alzando il tono. – Luigino, sei proprio tu? Poi si accorse che stava urlando, allora tornò a parlare sottovoce: – Ma che ci fai qui a quest’ora? Luigino voleva piangere, invece deglutì e rispose deciso: – Mario… – E’ successo qualcosa? – E’… morto, dottore.

***

Il dottor Ernesto Curaro era un vecchio amico dei genito-ri di Luigino ed era stato il loro medico fino a che non si ritirò in pensione. Conosceva molto bene Luigino, come del resto anche tutti gli altri bambini del paese. Sempre indaffarato in qualche lavoretto extra, Ernesto non riusciva mai a riposarsi. Era un tipo simpatico: scherzava sul fatto che il proprio cognome rimandava a

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un potente veleno, e quindi sosteneva di essere un tipo… “velenoso”. Dopo avergli aperto la porta, fece accomodare Luigino su una scomoda seggiola di legno della cucina. Nel frattem-po lui corse al piano superiore per vestirsi. Luigino si guardò intorno: non era mai stato nella casa del dottore prima di allora. La cucina era carina, ma assai ristretta: c’era posto appena per un tavolino quadrato e tre seggiole sgangherate, tanto che, da soli, credenza e frigo-rifero occupavano metà dello spazio disponibile. Ernesto si avvicinò al tavolino, dove c’era un piccolo centrino di pizzo bianco sopra il quale Luigino aveva ap-poggiato le mani tremanti. Il dottore si sedette sulla sedia proprio di fronte al bam-bino, mentre questi tirava fuori la piccola pietra blu dalla tasca dei suoi pantaloncini beige. La cosa strana, che non era ancora accaduta, fu che la pietra iniziò ad emettere una debole luce blu. – Oh, Signore! – commentò Curaro portando una mano alla bocca. – Ma questa è… no, non può essere… Te l’ha data Mario? Trattenendo a stento una lacrima, Luigino trovò a mala-pena la forza di chiedere perché Mario si fosse fatto uc-cidere per un sasso. – Guai a te se osi ancora chiamarlo sasso! – lo rimprove-rò il dottore. – Questa è una delle tre pietre della vita! Vedi, questa qui è la pietra dell’acqua. Ne esistono altre due: una per il cielo e una per la terra. Il loro potere non è da sottovalutare. Questa qui, per esempio, ha la capacità di comandare tutte le acque, e non solo: può farsi obbedi-re da tutti gli abitanti dei fiumi, dei laghi e anche dei ma-

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ri. Sai che perfino i batteri che vivono in una goccia di pioggia rispondono al suo comando? Quindi iniziò a raccontargli una leggenda che gli fece dimenticare per un momento tutto quanto era successo quella sera: Tanti e tanti anni fa, quando ancora l’uomo non esisteva, la Terra viveva in pace, coccolata da mari puliti e fiumi limpidi e popolata di animali di tutte le specie. Tra la Terra e i suoi abitanti esisteva un equilibrio che nessuno osava infrangere. Fino all’arrivo dell’uomo, il solo esse-re in grado di assoggettare ogni forma di vita, la cui bramosia di potere e la cui estrema arroganza minacciò la bellezza di tutto il creato. L’uomo è l’unica creatura in grado di pensare in modo razionale, cioè può giudicare tutte le cose, ma non riesce a giudicare se stesso. La sua natura selvaggia, malvagia e improntata alla distruzione indiscriminata già allora lo condusse ad inquinare le acque, la terra e il cielo. Fu un disastro per il mondo…

– Insomma, come adesso! – commentò Luigino. Il dottore annuì e continuò il suo racconto.

Gli uomini, però, non erano tutti così. Esisteva, infatti, un gruppo di tre saggi che un giorno si riunì con l’intento di evitare la catastrofe. Ma in fondo erano pur sempre uomini e il loro cuore era corruttibile. E nono-stante si fossero prefissi il compito di riportare l’ordine nel caos, si fecero sedurre da esso. Unendo l’arte dell’alchimia a quella della stregoneria, i tre saggi crearono una piccola pietra che avrebbe per-

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messo loro di governare le tre principali forze che muo-vono il nostro pianeta: la terra, l’acqua e il vento. Si dice che queste tre forze insieme ne sprigionino una quarta, la più potente di tutte. I tre saggi volevano ridare serenità al mondo, ma invece lo distrussero: lo resero una landa desolata e incolore, dove pochi sopravvissero. Poi, per fortuna, lentamente la vita ricominciò. – E poi, che successe?

Accortisi che il potere della pietra era ingovernabile, i saggi decisero di spezzarla in tre pietre più piccole, o-gnuna delle quali avrebbe racchiuso uno dei tre poteri. Con il tempo le pietre furono disperse, in attesa che si avverasse la profezia del saggio più anziano… Un rumore interruppe il racconto proprio sul più bello. Un’ombra passò rapida oltre il debole lume di un lam-pione. Una figura nera camminava guardinga stando bene attenta a non farsi scoprire. – Che cos’è? – chiese allarmato Luigino udendo il rumo-re. – Viene dal portone! – disse allarmato il dottore. Uno sparo improvviso li fece sussultare. Fuori alcune luci si accesero ed i cani cominciarono ad abbaiare innervosi-ti. Poi una voce tenebrosa urlò sbattendo con violenza la porta contro il muro. Il dottore e Luigino si guardarono e, come lo avessero deciso da tempo, si diressero alla fine-stra, la aprirono e si gettarono senza esitare all’esterno. Un uomo in completo nero, giunto con affanno in cucina, puntò la pistola davanti a sé, ma non vide nessuno.

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Il vento fece oscillare le tendine della finestrella che dava sul retro del caseggiato. L’uomo capì e si affacciò sul da-vanzale, dove appoggiò l’arma e imprecò. Impugnò nuo-vamente la pistola e imprecò ancora una volta, prima di decidersi a saltare dall’altra parte ed iniziare l’inseguimento. – Dobbiamo raggiungere al più presto la stazione… – mormorò con affanno il dottore. Assieme a Luigino, percorse un vialetto residenziale fino a trovarsi in mezzo a un incrocio. In alto lampeggiava la luce gialla di un semaforo spento. Luigino stava già pro-seguendo oltre, quando la voce stremata del vecchio dot-tore lo bloccò: – Aspetta… devo rifiatare! – E’ l’uomo nero, quello che ha ucciso Mario! Dobbiamo scappare, dottore! Non c’è tempo! Quelle parole parvero rinvigorire il dottore, che riprese la corsa sostenuto dal braccio di Luigino, il quale era torna-to sui suoi passi, pronto a dare manforte al compagno. Proprio in quel momento una mano spuntò dall’ombra e afferrò Luigino per il polso. Senza troppi sforzi il bambi-no fu trascinato verso il basso e cadde tra le braccia un uomo robusto che puzzava di alcol e sigaretta. Poi avvertì il calore di una mano che si posava sulle sue labbra ser-randogliele per bene, mentre un coltellino a serramanico gli veniva puntato alla gola. – Dottore! – urlò il sequestratore con tono intimidatorio. – Le conviene fare ciò che le diremo, se non vuole che… ahi! – Luigino gli aveva morso la mano. – Ahia! Dannato ragazz… – l’uomo nero stava per spa-rargli, ma un calcio sullo stinco lo fece desistere. Luigino si era liberato agilmente dalla stretta dell’uomo nero ed ora stava già correndo incontro al dottore.

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– Luigino! – Urlò questi estraendo qualcosa dalla giacca – prendi la pietra! – e gliela lanciò. Per fortuna Luigino aveva una buona presa! Però ora non sapeva che fare. – Corri! Corri! – ripeteva disperato Ernesto. Il bambino obbedì e cominciò così a correre lungo la strada principale, in direzione della stazione.

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III Ernesto Curaro venne raggiunto da altri due individui ve-stiti di nero: cappello nero, giacca nera, scarpe nere. Por-tavano perfino degli occhiali da sole, neri ovviamente. Si chiese come potessero vedere al buio, ma non ebbe il tempo di rispondersi che i due energumeni lo bloccarono, mentre un terzo era partito all’inseguimento di Luigino. – Dottor Curaro – disse uno, con voce calma e impostata – abbiamo svolto delle ricerche sul suo conto. Sappiamo tutto di lei. – Ma voi chi siete? – Chi siamo è affar nostro! – rispose stizzito l’altro, dalla voce più stridula e fastidiosa. – Piuttosto, ci dica: dove stavate correndo così di fretta? – Dove è affar nostro! – rispose il dottore alzando le spal-le, ma un pugno allo stomaco lo fece pentire di questa ri-sposta. – Le conviene stare attento a come risponde, DOT-TO-RE. – Allora? – chiese ancora quello con la voce fastidiosa. All’improvviso si udì un rumore di passi svelti sull’asfalto. – Lascia perdere Toni, l’ho perso! – Dov’è andato il ragazzino con la pietra? – chiese furi-bondo quello pacato, rivolto a Curaro. E siccome questi ancora non rispondeva, gli assestò un bel ceffone. – Lascia perdere, ho detto! La gente qui intorno si sta al-larmando. Prevedo guai. E’ meglio che ce ne andiamo, e alla svelta!

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In effetti, alcuni erano usciti in strada dopo aver sentito lo sparo proveniente dalla casa del dottore, e ora i più si e-rano riversati sui marciapiedi per guardare incuriositi. Non era da escludere che qualcuno avesse chiamato an-che la polizia. – Avanti Toni, lascia andare il vecchio! Ricorda cos’ha detto il Frate: dobbiamo recuperare la pietra blu, solo questo conta. Lasciarono dunque il dottore moribondo sul marciapiede e sparirono tra la folla che si stava radunando in strada. Mentre lontano si udivano le sirene della polizia, da un cespuglio fece capolino una testa bionda. Luigino uscì dal suo nascondiglio con la pietra in mano e corse verso Curaro. – Aiutami, ragazzo… Lo aiutò a rialzarsi prendendolo sottobraccio. – Questi uomini… – disse Curaro asciugandosi tremante un rivolo di sangue che gli colava sulla barba – sono pro-prio degli stupidi scimmioni. Invece tu… – tossì – … tu devo dire che sei proprio un ragazzino in gamba… E ora andiamo, non perdiamo altro tempo. Devo prendere il primo treno che esce dal paese. – Per andare dove? – Non ha importanza per te. – Posso venire anch’io? Curaro lo guardò corrugando le sopracciglia: – Hai già passato troppi guai a causa di questo sassolino – disse os-servando la pietra che Luigino teneva ancora in mano. – Ora coraggio: accompagnami alla stazione, prima che la polizia ci fermi per farci delle stupide domande. Quindi si avviarono lasciandosi alle spalle le auto della polizia che si fermavano facendo stridere i freni. Cammi-

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navano a fatica, il dottore tutto dolorante e Luigino e-stremamente confuso. Alla fine, dopo più di mezzora, giunsero alla stazione. Guardarono il tabellone luminoso: un treno stava parten-do dal primo binario. Se avessero corso in fretta, ce l’avrebbero fatta a prenderlo. Il fischio del capotreno era il segnale che dovevano muo-versi. – Dai, veloce! – intimò il dottore, come avesse recuperato di colpo tutte le sue energie. – Corri… corri! – ripeteva affannoso, perfino quando Luigino era avanti ed era lui che doveva correre. La porta automatica della carrozza si stava per chiudere, ma Luigino riuscì a salire sul treno. Ernesto, invece, tar-dava a raggiungerlo. – Veloce, dottore! – urlò disperato il ragazzino osservan-do la chiusura lenta della porta scorrevole. – Si muova! Ma era troppo tardi. La porta si chiuse sbuffando e a nul-la servì premere il pulsante di apertura. Disperato, il bambino cominciò a battere con violenza il vetro, ma dall’altra parte il vecchio dottore aveva posato le mani sulle ginocchia, rassegnato. Sollevò lo sguardo sulla car-rozza che si stava già muovendo. Tastò le tasche in cerca di… – Luigino! – gridò – la pietra… ce l’hai tu? Luigino accostò l’oggettino blu al vetro. Il dottore impre-cò. – Be’, allora ascolta bene quello che devi fare… – co-minciò a rincorrere il treno, che prendeva velocità. – Scendi alla prima stazione e resta là. Io ti raggiungerò con il prossimo treno. Se non mi vedrai arrivare, dovrai portare la pietra… professore… Russia!

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– Come? Dove…? – urlò disperato Luigino. – Dovrai andare… e chiedere di Lewinsky. Lui sa… – ma non riuscì a capire altro. Il treno aveva preso velocità e il rumore copriva tutto il resto, così le ultime parole del dottore si persero con lui che diventò sempre più piccolo fino a sparire oltre gli ultimi vagoni. Luigino cercò uno scompartimento vuoto e, rassegnatosi ad aspettare la prossima stazione, si sedette su un sedile morbido. Passò un quarto d’ora, ma il treno non accennava a fer-marsi. Ad un certo punto a Luigino venne sonno, quindi, dato che lo scompartimento era vuoto, decise di stendersi e fare un sonnellino, sicuro che a treno fermo si sarebbe svegliato. Così si addormentò, e dormì fino a che non venne sve-gliato dal suono di alcune voci.

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IV Il treno era fermo. Luigino udì degli strani rumori provenienti dagli scom-parti accanto al suo: due persone stavano cercando qual-cuno. – Niente! – stava dicendo uno dalla voce grossa. – Prova nel 56! – Niente neanche qui! – rispose decisa una seconda voce, più acuta. – Andiamo avanti… 57! Di sicuro stavano cercando qualcuno, magari proprio Luigino! “E se fossero gli uomini neri?”, si ritrovò a pensare pre-occupato il ragazzino. Nel dubbio preferiva scappare, ma come? Di sicuro tutte le vie di fuga erano bloccate. Re-stava il finestrino… Accidenti! Era uno di quei maledetti vetri senza maniglia, tipico degli ambienti climatizzati. E adesso? Luigino era disperato, ma non si fece prendere dal pani-co. Non rimaneva che un’unica soluzione: tentare di spaccare il vetro in qualche modo. Batterci sopra i pugni nudi? No, non sarebbe servito a nulla, e poi c’era il peri-colo di tagliarsi. Mentre pensava ad una soluzione, le voci si facevano sempre più vicine. Ormai non c’era più tempo… All’improvviso un’idea. – Qualcuno fa rumore, qui! – gridò quello dalla voce acu-ta – viene dal 59!

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Luigino aveva cominciato a tirare calci contro il vetro con tutta la forza che aveva: una, due, tre volte, finché si ruppe in mille frammenti che si sparsero per terra e sui sedili. In quel momento entrarono due uomini in unifor-me da poliziotto. Uno dei due aveva già estratto la pisto-la, mentre l’altro prendeva in mano il walkie-talkie. Vedendosi puntare contro un’arma, Luigino sudò freddo, ma ancora non perse la calma. – Fermo, non ti muovere! – gli intimò quello con la pisto-la. – Lo abbiamo trovato! – stava dicendo intanto l’altro al walkie-talkie; poi aggiunse, rivolto al compagno: – Per l’amor di Dio, Giuseppe, metti via quella pistola! Non vedi che è solo un bambino? L’altro eseguì l’ordine con una faccia a metà tra l’irritato e il deluso. Approfittando del momento di distrazione dei due, Lui-gino raccolse tutte le sue energie, prese una breve rincor-sa e si gettò dal finestrino. Il salto era più alto di quanto s’aspettasse, ma ebbe fortu-na: rotolò sull’erba oltre i binari e se la cavò con qualche scorticatura alle ginocchia e ai gomiti. Rimasti basiti, lì per lì i due poliziotti non seppero che fare. – Non restare lì impalato! – urlò quello con il walkie-talkie. – Dobbiamo inseguirlo! Ma Luigino aveva già superato il tratto erboso, scavalca-to il fosso che delimitava i campi ed era scomparso oltre le piante di granoturco. – Porca miseria! – grugnì Giuseppe. – Non lo prendere-mo mai in mezzo a quella giungla! Ma il compagno non lo stava a sentire, impegnato com’era a rispondere al cellulare che stava squillando.

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– Spero per voi che l’abbiate presa – fece una voce ca-vernosa, dall’altra parte. – Ci stiamo lavorando, signore. – Razza di idioti! Non posso fidarmi neanche di voi… Bah, restate dove siete, sistemerò personalmente questa faccenda!

Clic! I due poliziotti si guardarono preoccupati.

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V Dopo aver percorso parecchi metri dentro una foresta di granoturco, Luigino si voltò indietro. Non vide alcun movimento sospetto: forse i due poliziotti ci avevano ri-nunciato. Meglio, così poteva rallentare un po’ la corsa. Mentre riprendeva fiato si chiese se il poliziotto con la pistola avrebbe mai avuto il coraggio di sparare ad un bambino. E ora? Non sapeva cosa fare, o quale direzione prendere. Si sedette per terra, tra una fila di pannocchie e l’altra. Avrebbe tanto voluto essere a casa. “Chissà”, si disse, “la mamma sarà in pensiero. Forse era meglio seguire i poli-ziotti…”, ma ormai aveva scelto di scappare. Riprese a correre tra il ruvido fogliame giallognolo, fin-ché sbucò in una stradina sterrata. Luigino la percorse quasi tutta e si ritrovò di fronte a un piccolo caseggiato rurale dai muri tutti scrostati. Affannato, Luigino rag-giunse la casetta speranzoso di trovare qualcuno. A prima vista pareva un magazzino o qualcosa del gene-re. Avvicinandosi di più, però, Luigino notò un cartello blu tutto arrugginito che riportava una scritta bianca, or-mai illeggibile, probabilmente il nome della località di campagna in cui si trovava. Forse era la vecchia stazione. E a guardar bene, in effetti, c’erano due rotaie arrugginite che spuntavano da dietro un gruppo di alti cespugli d’erba secca. Luigino provò a chiamare a gran voce, ma nessuno rispo-se.

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C’era una strana atmosfera cupa che aleggiava sopra quel luogo, come se quella stazione fosse abitata dagli spettri. Al solo pensiero, un brivido gli percorse la schiena. Cercò un telefono per chiamare casa. Era dietro l’angolo, uno di quelli vecchissimi, con i gettoni e nemmeno la fessura per inserire la scheda telefonica. Luigino sollevò la cornetta e si tastò le tasche dei pantaloncini in cerca di monetine, ma le sue dita incontrarono solamente un og-getto liscio. Solo allora si ricordò della pietra: meno ma-le, credeva di averla persa nella fuga e invece l’aveva sempre avuta in tasca. Luigino osservò sconsolato la cornetta: senza gettoni te-nerla in mano non aveva molto senso. Riappese. E ades-so? Per un momento gli venne da piangere, ma non era un ti-po che si rassegnava. “Tanto vale provare ad entrare”, pensò, anche perché il sole si stava alzando e, se non al-tro, dentro il caseggiato sarebbe stato sicuramente un po’ più fresco. L’unica entrata di quella specie di casetta era un pesante portone di ferro: era semiaperto, ma fu difficile spostarlo perché era pesantissimo. Luigino però riuscì ad aprire un piccolo pertugio che gli permise a fatica di entrare. Chissà da quanto tempo nessuno metteva piede lì dentro. L’aria puzzava di vecchio; dai vetri infranti di due fine-strelle filtrava un po’ di luce che illuminava le pareti scrostate e dagli angoli dei muri pendevano gigantesche ragnatele bianche. Luigino mosse alcuni passi. Il pavimento di legno marcio scricchiolò in modo sinistro. Dalle fessure delle assi uscì uno scarafaggio, disturbato dai movimenti del bambino.

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La stanza in cui si trovava probabilmente era stata un uf-ficio, dato che in fondo, appoggiato al muro, c’era una piccola scrivania di legno tutta mangiucchiata dalle ter-miti. Accanto vide una porta bianca, mezza sverniciata. Luigino la aprì piano piano e scorse, dall’altra parte, una stanza più piccola: una cucina! Bene! Aveva una fame… Senza pensarci troppo, si gettò alla ricerca di cibo, ma ahimè, non c’era nulla in quell’unica credenza sganghe-rata che affiancava un piccolo lavello arrugginito, nean-che una misera scatoletta di tonno, o una salsa di qualche tipo, o un po’ di zucchero. Figuriamoci! E cosa sperava di trovare in una vecchia stazione abbandonata? “Pazienza!”, provò a consolarsi, “cercherò del cibo altro-ve. Proviamo a vedere se c’è almeno un po’ d’acqua…” Si affacciò al lavello arrugginito, ma il rubinetto era bloccato. Niente acqua. Acqua…? Un momento! Luigino si ricordò del sassolino blu che aveva in tasca. Presolo in mano, lo osservò atten-tamente. “Ma come cavolo funzionerà questo affare? Se non sbaglio, il dottore diceva che può comandare tutte le acque…” Girò e rigirò la pietra guardandola da ogni lato. Provò a concentrarsi: chiuse gli occhi, contò fino a cinque e li riaprì. Ma non successe niente di strano. Uffa! Lui voleva solo un po’ d’acqua, che diamine! FINE ANTEPRIMACONTINUA...