Le Montagne del Gatto

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Sabrina Janesch LE MONTAGNE DEL GATTO Traduzione di Marialuisa Brambilla e Giovanni Giri «Un libro che merita molti lettori». Günter Grass

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Sabrina Janesch

Le montagne deL gattoTraduzione di Marialuisa Brambilla e Giovanni Giri

«Un libro che merita molti lettori».

günter grass

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altrevie • narrativa straniera

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Sabrina Janesch

Le montagne deL gattoTraduzione di Marialuisa Brambilla e Giovanni Giri

gran vía

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Per la traduzione si ringrazia il corso “Tradurre la letteratura” della Scuola Superiore per Mediatori Linguistici - Istituto San Pellegrino, Misano Adriatico.

Titolo originale: KatzenbergeCopyright © 2010 Aufbau Verlag GmbH & Co. KG, Berlin

© 2012 gran vía edizioni s.c.r.l.Tutti i diritti riservati

Prima edizione: ottobre 2012isbn 978-88-95492-23-0

Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it

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Le Montagne del Gatto

mojej Rodzinie

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Uscire di casa di prima mattina a ottobre, per di più quando la nebbia slesiana grava sui campi dei Katzenberge, le Montagne del Gatto, in genere è un sintomo certo di sonnambulismo. A chi potrebbe altrimenti venire in mente di abbandonare il calore del piumone per esporsi al freddo e all’umidità che in pochi minuti s’insinuano sotto il cappotto, ricoprendo la pelle di una pellicola gelata.

Tra le coltri scompaiono gli stagni e i ruscelli che si rincorrono per la campagna; si rischia di precipitare a testa in giù, nel panta-no, tra rane e rospi silenziosi, già immersi nel torpore invernale. Ma una volta raggiunta in bicicletta la piccola altura che separa i villaggi di Osola e Bagno, guardando giù, nell’avvallamento ecco fluttuare un mare biancheggiante. Sul suo fondale, fattorie, grandi proprietà terriere, piccoli borghi e corsi di fiumi.

La nebbia avvolge anche le case del fine settimana, con le loro terrazze, i gazebo, i laghetti per il bagno ricavati di recente sui prati. Eccoli avvicinarsi sempre più ai vecchi cascinali, accerchiar-li, racchiuderli.

Bisogna conoscere con precisione ogni singolo metro del sen-tiero che conduce, tra boschetti di larice, al villaggio più vicino, per non allontanarsi dall’altura o finire per sbaglio nel querceto che inizia subito dietro l’ultima casa dell’abitato. Il limite superio-

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re del bosco svanisce sotto lo strato pallido mentre al suo interno, dove cornioli e cespugli di ginepro si aggrovigliano l’uno nell’al-tro, la nebbia cinge i tronchi sfumandone i contorni. Ai piedi del querceto, separato solo da un ruscello e da un sentiero di ghiaia, c’è l’ultimo casale. È nascosto in una conca invisibile dal vicino villaggio di Osola e da Morzęcin Maly; nemmeno chi abiti vici-nissimo può scrutare in quel ferro di cavallo tracciato da abitazio-ni, stalle e granai.

Attorno ai giardini ci sono fitti filari di amarene e di pini bassi e ripiegati su sé stessi, così ci si accorge della fattoria solo davanti al cancello dipinto di verde. Appena oltre il cancello cresce un noce, che allunga i rami sulla strada. In ottobre quell’albero, di solito poco appariscente, sparpaglia uniformemente le sue palline verdi sul cortile e sull’ingresso. Tenendo stretta l’ingombrante bicicletta da uomo, apro il cancello dall’interno. Appoggiandomi con tutto il peso del corpo alla bicicletta, la spingo su ciuffi d’erba, foglie di quercia marce e gusci di noce.

La ruota anteriore cerca a tentoni il centro del viottolo, seguen-do le buche. Monto in sella e passo titubante accanto al luogo dove normalmente si vedono gli scheletri dei maraschi e dei pini. Il mio sguardo non va più in là del manubrio e del tratto di stra-da sottostante. Per sbaglio finisco sull’erbaccia e per poco non mi ribalto. Mi fermo per un attimo e resto in ascolto, ma non si sente nulla. Mi pare d’intravedere, a qualche metro di distanza, un’ombra, sì, è quella, incredibile, pare seguire passo passo ogni mio movimento. Ho il cuore che accelera e le mani sudate strette sulle manopole.

Un silenzio irreale incombe sui casali. Ogni cascina è sorda ai rumori provenienti dal mare di nebbia. E nessuno si accorge che sta accadendo qualcosa di straordinario: una persona, che nessuno può vedere ma solo udire, pedala a perdifiato tra i villaggi della Bassa Slesia e i campi che li separano.

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Sto già lasciando i viottoli sterrati per imboccare la strada asfal-tata che conduce a Bagno. Da qui in poi si va sempre dritti. Ac-celero, la nebbia si dissolve a contatto col mio viso, ogni tanto vedo sfrecciarmi accanto un’ombra scura. L’unico segno della mia presenza è il rumore metallico del telaio, che nessuno sente, tran-ne me. Non la vedo più, l’ombra, ma ciò non significa che sia sparita. È sempre stata abilissima a nascondersi per poi riapparire nei momenti più improbabili. La cerco scrutando tra le sagome dei cespugli, ma non vedo nulla.

Ogni avvenimento, ogni minuscolo fatto che esuli dagli schemi arcinoti e accuratamente studiati del quotidiano, viene registrato nei villaggi e iscritto negli annali paesani.

La raccolta di episodi singolari si trasforma col tempo, non solo crescendo ma arricchendosi vieppiù di fantasticherie. Fantasie che, soprattutto, vengono tramandate fino ad avere la certezza che non ci sia nessuno, in tutta la comunità, ignaro del fatto che una nebbiosa mattina d’ottobre, di buon mattino – pare che nemmeno i galli abbiano cantato, brutto segno – qualcuno, come in un so-gno, avrebbe attraversato i campi in direzione del cimitero, su una bicicletta da uomo, stringendo nella sinistra un mazzo di garofani scarlatti e sistemandosi in continuazione un fagotto che, a quanto pare, teneva sotto il cappotto.

Appena dopo poche settimane, quella persona in bicicletta all’orizzonte sarebbe diventata una specie di fantasma, spinto dal-la sua anima verso il cimitero. E i garofani non sarebbero più stati garofani, ma cristalli di sangue gelato, e il fagotto quanto meno un bimbo rapito.

Avevo dovuto aspettare che gli ultimi ospiti della festa di batte-simo della notte se ne andassero o si addormentassero. All’ini-zio della festa zio Darek, zio Szymek e zio Józek si erano seduti

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nella stanza della stufa, relegando le mogli all’estremità opposta del tavolo. Zia Gosia, zia Zosia e zia Aldona confabulavano in disparte con lo sguardo basso sulla neonata, in una culla davanti al tavolo, dondolata dalla madre. Maciek, padre orgoglioso, era con me in cucina, le mani sui fianchi, intento a osservare Titus con un’espressione perplessa. Nessuno conosceva con precisione il rapporto di parentela che lo legava a quell’uomo, ma per un vago senso del dovere quel contadino calvo proveniente da Morzęcin Maly era stato invitato lo stesso. Era arrivato già ubriaco e se ne stava spaparanzato sulla sedia. Zio Józek non faceva che togliergli dalle mani la bottiglia di vodka per spingerlo impercettibilmente, con tutta la sedia, verso la porta.

Lo zio mi aveva ceduto subito il suo posto a capotavola dicen-do: Siediti lì, Nelunia, quello è il posto d’onore. Io avevo risposto che non potevo accettare, e poi da lì sarebbe stato difficile alzarsi.

Ma certo! Stavolta non ti molleremo tanto facilmente, jaktwjamka!, aveva ribattuto trionfante zio Józek, tamburellando col palmo della mano su una caraffa panciuta. Aveva l’abitudine di aggiungere a tutto ciò che mi diceva l’espressione “come tua madre” che con gli anni aveva talmente abbreviato da renderla incomprensibile, sebbene ormai tutti sapessero che Józek vedeva nella nipote la copia esatta della propria sorella, donna un po’ stra-vagante. Maciek si era messo a ridere gridandogli di essere indul-gente, ché certo non era mica facile ritrovarsi un padre tedesco. Io avevo alzato gli occhi al cielo. Mai, in occasione delle mie visite, si stufavano di tirare fuori l’argomento: quello della povera ragazza costretta a crescere in Germania, e tutto perché sua madre aveva voluto girare il mondo e si era cercata uno di quelli là.

È proprio vero, ognuno ha la sua croce. Alcuni, per esempio, sono un po’ deboli di polmoni e non reggono molto! Maciek si ac-carezzò la barba, mi fece un occhiolino di complicità e mi riempì il bicchiere con la grappa di vinaccia, distillata dai frutti della pro-

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pria vite. Indicò la finestra e i viticci al di là, e io, per fargli piacere, finsi di non sapere che la grappa era prodotta coi frutti più acerbi di tutta la Polonia. Peggio della grappa c’era solo il vino, ma grazie al cielo non era ancora pronto. Alzai il bicchiere verso gli uomini sogghignanti: Na zdrowie, wujkowie. Alla vostra salute, cari zii.

Fu una lunga notte, passata ad aspettare che gli stinchi di maia-le, le uova alla maionese e i funghi al forno terminassero, ad aspet-tare che venissero cantate tutte le canzone, note e sconosciute, ad aspettare che tutta la vodka e tutti i distillati fatti in casa fossero stati scolati. Poi il giorno apparve all’orizzonte.

Mi ero alzata dal divano facendo meno rumore possibile, e con attenzione avevo scavalcato zio Szymek. Russava sfinito, sdraiato con le braccia e le gambe larghe, sul pavimento della cucina. Ogni tanto, scosso da un rantolo più potente, dai capelli castano chiaro, come i miei, gli cadeva un pisello. Tranne la nonna Maria, che fino alla morte aveva avuto i capelli neri come la pece, nella mia famiglia li hanno tutti dello stesso colore.

Al culmine dei festeggiamenti, zio Szymek si era messo in te-sta come fosse un elmo la ciotola dell’insalata di patate – senza accorgersi che non era del tutto vuota – poi, battendosi il petto gonfio, aveva declamato rivolto a me: Sella il cavallo, torniamo in Ucraina, in Galizia! Allora uno schizzo di maionese gli era caduto sul naso, prima che sua moglie Gosia lo pulisse con una fetta di patata arrosto. Che fai?, aveva detto la donna ridendo, non lo sai quanta fatica è costata?

La sera prima dei festeggiamenti avevo preparato tutto il neces-sario: il cappotto per coprirmi, il fagotto che vi avrei nascosto sot-to e il mazzo di garofani, che tutti avevano pensato fosse per zia Aldona. Sarebbe bastato sgattaiolare per il corridoio, attraversare la veranda e lasciare che la porta d’ingresso, che non era chiusa a chiave, si richiudesse piano dietro di me. Mi fermai un momento sul pianerottolo e inspirai avidamente l’aria fresca. La mattina in

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cui lasciai la cascina e la tomba del nonno per il mio viaggio nel passato, l’aria odorava di terriccio rivoltato.

I cani si dimenticano di abbaiare, quando appoggio la bicicletta al muro del convento di Bagno e controllo che il fagotto sia al suo posto, fra cappotto e maglione. Lascio la bicicletta contro il muro ricoperto di lichene giallo, anche se dire che sono andata in cielo in bicicletta suona proprio bene. Ma chiunque conosca que-sta strada, capisce subito che non può essere così, tanto è ripida e disseminata di ciottoli appuntiti. I bordi non hanno muretto e si rischia di precipitare, una caduta smorzata appena dagli sterpi di camomilla che crescono sul pendio, per poi schiantarsi su una delle lapidi più belle che il marmista Garniecki tiene esposte in giardino, nella sua casa di campagna.

Da bambina avevo chiesto al nonno: Djadjo, perché chiamano la via del cimitero “la strada per il cielo”? E lui aveva risposto: Non so, Nelunia, ma forse quel nome glielo ha dato la Chiesa, o quel maledetto figlio d’un cane di Garniecki. Tutti e due, aveva detto, così si erano fatti gli affari loro. Solo che Garniecki lo si scopriva più facilmente. Lui, il nonno, avrebbe preferito farsi divorare dalle bestie feroci, tanto che non restasse nulla del suo corpo, pur di non permettere a quel buono a nulla di piazzargli sopra una delle sue creazioni.

Gli dispiaceva solo che, se fosse stato mangiato da un lupo o da un orso, non avrebbe potuto riposare sulla collina sopra Bagno. Perché quello, aveva detto il nonno, era l’unico luogo tranquillo in tutta la Slesia.

Il muro di nebbia s’incrina lentamente, la luce penetra e io in-travedo le acacie ai lati dell’ingresso del cimitero. In primavera, i loro fiori bianchi pendono a grappoli ricoprendo la strada con miriadi di petali. Quelle infiorescenze incipriate cadono sui cap-

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pelli bianchi delle signore e sugli abiti neri degli uomini, si spar-pagliano sulle scarpe appena lustrate per poi risalire lentamente le brache dei calzoni. Il nonno era nella bara e non se ne curava.

Il cancello di ghisa cigola quando lo apro e per un secondo ne sono sicura: saranno ormai tutti svegli, giù a Bagno, si saranno appena alzati dal letto e, una volta infilati gli stivali di gomma rivestiti di pelo di coniglio, s’incammineranno subito verso il ci-mitero. E invece del demonio in carne e ossa chi ti troveranno? Nele Leibert, certo in carne e ossa, ma in combutta col demonio no, benché la mia sorte lo facesse pensare.

Resto in ascolto per un momento, ma non succede nulla, niente urla né fracasso di gente che corre su per la collina con lanter-ne, bastoni, aglio e croci. Forse sono l’unica sopravvissuta dopo la catastrofe colossale che ha annientato tutti gli abitanti, umani e bestie, facendo alzare questa nebbia, ma prima di ammettere lo sconforto i miei piedi si rimettono in movimento.

Il terreno è sabbioso e leggero. Un pensiero mi balena in testa: prima che costruissero il cimitero, qui non crescevano certo né le acacie né il ginepro che oggi si avvinghia alle vecchie lapidi. Sono più piccole delle lapidi normali, quasi volessero fingersi pietre di campo che solo per caso hanno assunto la forma di croci. I primi polacchi costretti a piangere i loro morti in Slesia non si erano az-zardati a occupare con le lapidi più spazio di quello strettamente necessario.

Il cimitero non è particolarmente vecchio, le croci di pietra più antiche, mezze rovinate, furono piantate nel 1946. Come se prima di allora qui non ci fossero uomini, esseri mortali. O comunque non polacchi. Il nonno reagiva alzando le spalle, tirando su col naso e dando una botta sul tavolo: Non si viaggia per mille chilo-metri per poi lasciarsi andare. L’uomo non è un pesce, un’anguil-la che affronta coraggiosa un’infinità di fiumi per morire appena raggiunta la meta. Il nonno pensava che venire in Slesia, dove

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ancora aleggiava la puzza dei tedeschi, e crepare dalla stanchezza senza alzare un dito per bonificare la terra, come si fa dopo una lunga pestilenza che ha imperversato per la campagna, fosse un gesto da gente senza spina dorsale, da cattolici. No. Lui, il nonno, l’aveva capito: il suo momento non era ancora arrivato. Prima di esalare lui l’ultimo respiro lo avrebbe insufflato tutto dentro quel corpo morto e arso che era la Slesia.

La tomba è ancora un po’ più alta delle altre. Eccomi arrivata. A un passo dall’imponente lastra di granito preparo con mani ner-vose un drappeggio di garofani, prima di posarlo al centro della lapide. Sulla tomba sono indicati il nome del nonno e le date di nascita e di morte. 1920 e 2007. Non c’è dubbio, è la sua tomba, una certezza che neanche il fatto di vedere, due metri e mezzo sopra la sua testa, un’imponente lapide della bottega di Garniecki riesce a far vacillare. Non è stato un lupo, né un orso che vagava per i boschi lungo il confine tedesco-polacco a divorare il nonno. Lui riposa qui, da me lo separano uno, o forse due metri cubi di terra. Dalla nebbia che si dirada spuntano in lontananza i vasti boschi, vedo il fumo che sale dalle case, riesco a seguire con lo sguardo le curve della strada. Conosco ogni croce, ogni spiazzo erboso. Sento il cuore battere contro il fagotto, e comunque non trovo la forza di tirarlo fuori. Nele, Nelunia, mi ripeto per calmarmi e stranamente, in testa, la mia voce ha il suono della voce di mia madre.

Il mio sguardo torna di nuovo sulle acacie, all’ingresso del ci-mitero, cerca di scrutare un movimento, è un’occhiata furtiva. Non vedo nulla. Sono successe tante cose, nonno, da questa primavera. Nel giro di poche settimane mi hanno dichiarata pazza, chiamata santa, sdolcinata, demente, depressa, nevrotica, e alla fine mi han-no creduta morta o quanto meno in fin di vita. Mi hanno sempre visto come una un po’ strana, ma da quando sono tornata dal mio

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viaggio, nonno, mi credono un fantasma, un’apparizione. Mi pos-sono sentire e toccare, ma non credono che abbia un corpo.

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Foto di copertina: Francesco Schirato © 2012

Cover design: Mirko Visentin€ 16,00

4922307888959

ISBN 978-88-95492-23-0

Sabrina Janesch

Le montagne deL gattoaltrevie • narrativa straniera

Quand’ero ancora piccola, una volta il nonno mi aveva det-to che io e la mia gioia avremmo benedetto questa terra. In me tutto si era ricongiunto: il sangue galiziano dei nonni che erano dovuti venire in questi luoghi e il sangue tedesco della famiglia di mio padre, che se n’era dovuta andare.

«Un romanzo d’esordio splendidamente narrato, che si muove con il più leggero dei tocchi tra presente e passato».

Hanns-Josef ortheil

«Un libro triste e bellissimo sull’inquietante potere dell’immagina-zione e sui legami famigliari che sfidano il tempo e i confini».

NDR Kultur

«Un romanzo di grande forza e tensione narrativa».Der Spiegel