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« Italia contemporanea », marzo 1980, n. 138 Studi e documenti Le istituzioni culturali del regime fascista durante la seconda guerra mondiale Il 15 aprile 1944 una pattuglia di Gap colpiva a morte, a Firenze, Giovanni Gen- tile, colui che, forse impropriamente — dato il carattere eclettico della ideologia del fascismo e il peso crescente che in essa aveva acquistato la cultura cattolica — era riconosciuto come « il filosofo del regime ». In realtà la Repubblica di Salò aveva utilizzato Gentile per rivolgere agli italiani un impossibile appello alla concordia nel momento in cui il paese era diviso in due con la oppressiva pre- senza delle armate naziste. E Gentile svolse ancora una volta, come nel 1925-26 di fronte agli incerti e ai fiancheggiatori del fascismo, una « politica di conci- liazione » che era un invito ad abbandonare la resistenza nei confronti del fa- scismo e del nazismo. « La sciagura infinita d’oggi non è l’invasione straniera e la devastazione delle nostre città e la strage delle nostre famiglie e l’incertezza del domani assegnatoci dagli eventi che non sono nelle nostre mani — scriveva il Io gennaio 1944 sulle pagine della <Nuova Antologia» —. È nell’animo no- stro, nella discordia che ci dilania, nello struggimento che ci assale innanzi allo sfacelo di quello che era la nostra fede comune, per cui si guardava cogli stessi occhi al nostro passato e con la stessa passione al nostro avvenire: questo non riconoscerci, non comprenderci; e perciò non ritrovarci più » '. Di fronte alla dilacerazione quasi improvvisa che aveva diviso il popolo e gli intellettuali italiani dopo venti anni di conformismo, Gentile proseguiva il suo discorso come se nulla di irreparabile fosse successo, e commemorando il 19 marzo 1944 all’Ac- cademia d’Italia •— di cui aveva assunto la presidenza — il secondo centenario della nascita di Giambattista Vico, lo esaltava come il « filosofo italiano per eccellenza, espressione profonda del genio della stirpe », critico di Cartesio e di Locke (= Francia e Inghilterra), simbolo dell’unione spirituale del popolo italiano: « l’insegnamento di Vico non è fatto per dividere gl’italiani; i quali vogliono una filosofia dell’immanenza, che concentri nella libertà dello spirito l’infinito uni- verso, ma vogliono pure vivere della fede della loro tradizione vittoriosa. Esso li inviterà sempre a cercare in se medesimi il principio in cui le parti avverse Relazione, presentata a nome dell’Istituto Nazionale, al colloquio internazionale su « Uni- versità e altri centri scientifici nella sfera d’influenza dei paesi dell’Asse 1938-1945 » (22-24 ot- tobre 1979), organizzato dalla Commissione per la storia della seconda guerra mondiale dell’Ac- cademia polacca delle scienze e dall’Università Jagellon di Cracovia. L’accademia polacca delle scienze aveva organizzato nel 1977, a Varsavia, un convegno analogo di cui sono stati editi gli atti (Inter arma non sileni musae. The War and thè Culture 1939-1945, edited and with a Foreword by Czeslaw Madajczyk, Warszawa, 1977). 1 Giovanni gentile, Ripresa, « Nuova Antologia », 1944, pp. 3-4.

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« Italia contemporanea », marzo 1980, n. 138

Studi e documenti

Le istituzioni culturali del regime fascista durante la seconda guerra mondiale

Il 15 aprile 1944 una pattuglia di Gap colpiva a morte, a Firenze, Giovanni Gen­tile, colui che, forse impropriamente — dato il carattere eclettico della ideologia del fascismo e il peso crescente che in essa aveva acquistato la cultura cattolica — era riconosciuto come « il filosofo del regime ». In realtà la Repubblica di Salò aveva utilizzato Gentile per rivolgere agli italiani un impossibile appello alla concordia nel momento in cui il paese era diviso in due con la oppressiva pre­senza delle armate naziste. E Gentile svolse ancora una volta, come nel 1925-26 di fronte agli incerti e ai fiancheggiatori del fascismo, una « politica di conci­liazione » che era un invito ad abbandonare la resistenza nei confronti del fa­scismo e del nazismo. « La sciagura infinita d’oggi non è l’invasione straniera e la devastazione delle nostre città e la strage delle nostre famiglie e l’incertezza del domani assegnatoci dagli eventi che non sono nelle nostre mani — scriveva il Io gennaio 1944 sulle pagine della <Nuova Antologia» —. È nell’animo no­stro, nella discordia che ci dilania, nello struggimento che ci assale innanzi allo sfacelo di quello che era la nostra fede comune, per cui si guardava cogli stessi occhi al nostro passato e con la stessa passione al nostro avvenire: questo non riconoscerci, non comprenderci; e perciò non ritrovarci più » '. Di fronte alla dilacerazione quasi improvvisa che aveva diviso il popolo e gli intellettuali italiani dopo venti anni di conformismo, Gentile proseguiva il suo discorso come se nulla di irreparabile fosse successo, e commemorando il 19 marzo 1944 all’Ac­cademia d’Italia •— di cui aveva assunto la presidenza — il secondo centenario della nascita di Giambattista Vico, lo esaltava come il « filosofo italiano per eccellenza, espressione profonda del genio della stirpe », critico di Cartesio e di Locke (= Francia e Inghilterra), simbolo dell’unione spirituale del popolo italiano: « l’insegnamento di Vico non è fatto per dividere gl’italiani; i quali vogliono una filosofia dell’immanenza, che concentri nella libertà dello spirito l’infinito uni­verso, ma vogliono pure vivere della fede della loro tradizione vittoriosa. Esso li inviterà sempre a cercare in se medesimi il principio in cui le parti avverse

Relazione, presentata a nome dell’Istituto Nazionale, al colloquio internazionale su « Uni­versità e altri centri scientifici nella sfera d’influenza dei paesi dell’Asse 1938-1945 » (22-24 ot­tobre 1979), organizzato dalla Commissione per la storia della seconda guerra mondiale dell’Ac­cademia polacca delle scienze e dall’Università Jagellon di Cracovia. L’accademia polacca delle scienze aveva organizzato nel 1977, a Varsavia, un convegno analogo di cui sono stati editi gli atti (Inter arma non sileni musae. The War and thè Culture 1939-1945, edited and with a Foreword by Czeslaw Madajczyk, Warszawa, 1977).1 Giovanni gentile, Ripresa, « Nuova Antologia », 1944, pp. 3-4.

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potranno conciliarsi superando gli esclusivismi che han sempre del paradosso e del fazioso. Da Vico impareranno sempre gl’italiani a disdegnare le fazioni » 2.L’uccisione di Gentile è un fatto senza precedenti nella storia italiana, che aveva conosciuto il martirio di tanti intellettuali all’opposizione, ma mai quello di un uomo di cultura che riceveva il suo potere dall’appoggio del governo. Dall’altra parte dell’Italia « tagliata in due » il vecchio amico e collaboratore di tante bat­taglie in comune, Benedetto Croce, commentava la notizia senza riuscire ad esprimere appieno la propria commozione e annotava laconicamente nel suo diario: « Ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggra­vato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo » 3, ribadendo così la propria distinzione fra politica e cultura, ma cogliendo al tempo stesso il profondo e nuovo legame che fra i due termini si era stretto durante il ven­tennio. La novità dell’evento era sbalzata invece dalle forze di sinistra: nell’ar­ticolo Senza necrologio pubblicato sul « Bollettino del Fronte della gioventù » Eugenio Curiel notava che « per la prima volta un accademico, un caposcuola se ne va solo coll’accompagnamento di ragli stipendiati di gazzettisti » e, pur riconoscendo che nella filosofia di Gentile « vi furono fermenti vivi, critiche progressive » ■— quelle stesse su cui aveva riflettuto il giovane Curiel agli inizi degli anni trenta —, affermava che essa si era ridotta « alla difesa teorica del­l’assolutismo, all’apologià della reazione, alla prosternazione di fronte alla auto­crazia mussoliniana » e infine al regime di Salò: « non l’ideologo della reazione, ma il lenone nazista fu colpito » 4. « La grande maggioranza degli intellettuali italiani — aveva scritto poco prima Curiel —- ha sentito il compito che le spet­tava e dà il suo contributo, a fianco del popolo lavoratore e di tutte le forze progressive della nazione, alla lotta contro il fascismo traditore e contro il tedesco invasore » 5. L’esempio era indicato nel discorso di apertura dell’anno accademico tenuto il 9 novembre 1943 dal nuovo rettore della stessa università ove Curiel insegnava, quella di Padova: un discorso coraggioso, tenuto di fronte alle autorità repubblichine, nel quale Concetto Marchesi, il noto storico della letteratura latina, di formazione socialista e comunista dal 1921, aveva rivendicato l’alta funzione dell’Università — « qua dentro, ora, si raduna ciò che distruggere non si può: la costanza e la forza deH’intelletto e del sapere » —, e aveva dichiarato che « oggi il lavoro ha sollevato la schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzare la testa e guardare attorno e guardare in su: e lo schiavo di una volta ha potuto anche gettare via le catene che avvincevano per secoli l’anima e la intelligenza sua » 6. E poco dopo, scrivendo dalla clandestinità nel gennaio 1944 una Lettera aperta al senatore Giovanni Gentile, Marchesi ne respingeva l’ennesimo invito alla con­cordia di tutti gli italiani con una recisa rivendicazione della necessità della lotta: « Quanti oggi invitano alla concordia, invitano ad una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sia combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta, va spezzata » 7. E un mese dopo che l’invito alla lotta aveva portato

2 G. gentile, Giambattista Vico nei secondo centenario della nascita, « Nuova Antologia », 1944, pp. 211-17.3 benedetto ceoce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Bari, Laterza, 1963, voi. I, p. 305.4 Eugenio curiel, Scritti 1935-1945, a cura di F. Frassati, Roma, Editori Riuniti, 1973,voi. II, pp. 214-16.5 E. cu riel , Intellettuali traditori (5 gennaio 1944), ibid., p. 212.6 concetto marchesi, Umanesimo e comuniSmo, a cura di M. Todaro-Faranda, Roma, Edi­tori Riuniti, 1974, pp. 123, 126.7 Ibid., p. 134.

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all’uccisione di Gentile, il professore padovano si rivolgeva ai giovani per invitarli a chiedere all’arte e alla scienza « un ufficio di liberazione » e per ricordare che

mentre sul proletariato si avventava la furia di una viltà e di una ferocia senza esempio e senza nome, il mondo intellettuale e accademico, come quello padronale — dal grande al piccolo padrone — fu quasi tutto al servizio della smisurata vergogna: e per più di vent’anni si mantenne animato da una mai svigorita libidine di servitù. Un giorno un triste ricercatore e raccoglitore di cose tristi, sfogliando atti e volumi accademici italiani di quest’ultimo ventennio, potrà mettere insieme un’antologia che riempirà di stupefa­zione i posteri e noi stessi, che tante cose ignoriamo della infamia vissuta. Così potrà es­sere composta l’autobiografia della intellettualità italiana durante il regime fascista8.Tutti questi giudizi convergono nel rilevare il contatto più stretto che si attuò durante il fascismo tra cultura e politica, nel senso della subordinazione della prima alla seconda, ma lasciano aperto un interrogativo: come avvenne il pas­saggio degli intellettuali dalla « servitù » al fascismo ricordata da Marchesi, al contributo alla lotta antifascista esaltato da Curiel? E in quale misura? Tempi, modalità, vie di questo passaggio restano ancora tutti da studiare.Sono domande non irrilevanti, che ruotano attorno ad un momento storico che è un nodo importante per la storia degli intellettuali italiani. È a nostro parere innegabile, anche se da taluni contestato9, che con il 1945 si è manifestato un netto rinnovamento culturale, sia pur lento; ne è testimonianza ad esempio una rivista come «Società», che nel 1945 si apriva con gli Appunti sullo storicismo di Cantimori il quale approfondendo — ma anche, in alcuni punti, riproducendo —- osservazioni fatte nel 1940 su « Civiltà fascista » a proposito dell’opera Dallo storicismo alla sociologia del crociano Carlo Antoni, poneva le premesse per un superamento degli schemi concettuali idealistici attraverso la critica della « pura storia della storiografìa » cui opponeva il « materialismo critico come pensiero politico e storiografico », pur senza coinvolgere nella condanna la concreta opera di Croce storico. Il processo di chiarimento non sarà facile e immediato, proprio in rapporto alla grande influenza culturale di Croce, cui il fascismo aveva attri­buito valore politico: è quanto riconosceva nel 1952 Togliatti, ricordando che

per far penetrare il marxismo nella cultura italiana noi dobbiamo scontrarci essenzial­mente, si diceva ed è vero, con il crocianesimo, cioè con l’indirizzo culturale idealistico. Nel corso della lotta di liberazione, e anche prima, sotto il fascismo, eravamo però stati alleati di molti intellettuali appartenenti a questo indirizzo culturale, e ciò era avvenuto nonostante che Benedetto Croce non avesse favorito questa collaborazione, anzi, l’avesse apertamente ostacolata. Inoltre, l’indirizzo di pensiero idealistico, che noi critichiamo e respingiamo, è un indirizzo moderno, in confronto per esempio con i tentativi di portare il pensiero italiano al tomismo, alla scolastica medioevale. L’indirizzo idealistico, infine, nei primi tempi del suo manifestarsi in Italia, sulla fine del secolo XIX, dette senza dubbio un contributo per liberare la cultura italiana dalle volgarità positivistiche, che si erano accumulate in modo particolare nelle manifestazioni culturali del socialismo e avevano ostacolato la diffusione del vero pensiero marxista. Bisognava dunque saper distinguere, evitare di metter tutto e tutti in un sol sacco, conoscere bene la realtà e la storia e sapersi adeguare ad esse per poter lavorare in modo efficace nella direzione che noi vogliamo. Non credo si possa dire che in questo nesso di questioni siamo sempre riusciti a vederci chiaro. Vi sono state discontinuità, asprezze, capitolazioni non necessarie, oscil­lazioni tra la pura propaganda e l’azione culturale di più ampia portata, e anche con­traddizioni 10.Nel primo tentativo di storicizzazione delle vicende degli intellettuali italiani nel ’900, le Cronache di filosofia italiana, Garin ha posto un problema di grande im-

» Ibìd., p. 138.5 Cfr. ad es. romano lu per in i, Gli intellettuali di sinistra e l'ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Roma, Ideologie, 1971.10 Intervento alla commissione culturale nazionale del 3 aprile 1952, in palmiro togliatti, La politica culturale, a cura di L. Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 195-96.

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portanza — « le estreme conclusioni politiche cui molti giunsero (e non per brusche conversioni, ma per lineare sviluppo) dopo la seconda guerra mondiale — quanti uomini di origine <attualista> nel Partito d’azione, ed anche nel comunismo! — non possono non indurre a riflettere sulle possibilità e sul significato di certe impostazioni » 11 12 —, al quale egli stesso ha cominciato a dare risposta in alcuni esemplari ritratti di intellettuali, come Codignola e Cantimori, che provenivano dalla scuola gentilianan. Eppure, ove si rifletta al profondo condizionamento degli intellettuali da parte del regime fascista, che coronava e accentuava un pro­gressivo spostarsi a destra della cultura italiana dagli inizi del ’900 secondo le linee indicate da Amendola — richiesta di uno stato forte, avversione per il movimento operaio, difesa dei privilegi di classe, antiparlamentarismo 13 —, resta ancora diffìcile individuare le vie attraverso le quali si ebbe, negli anni della seconda guerra mondiale e della Resistenza, una spinta generale in senso opposto, di marca antifascista. Né è sufficiente a spiegare il fenomeno l’analisi di singoli « viaggi attraverso il fascismo » inaugurata da Zangrandi14, in quanto tende a eludere il rapporto dialettico fra le trasformazioni della società italiana, l’inci­denza dei movimenti politici e la posizione degli intellettuali, sopravvalutando, in definitiva, la coscienza individuale e il ruolo autonomo dell’intellettuale elabo­ratore di cultura.Lo spostamento a destra degli intellettuali all’inizio del ’900 non è del resto un fenomeno circoscrivibile all’Italia, anche se qui ebbe caratteristiche peculiari che andrebbero studiate approfonditamente per meglio analizzarne i successivi svi­luppi. Nel 1910 Trockij, esaminando un opuscolo di Max Adler su Gli intellettuali e il socialismo, notava che

l’afflusso più vasto di intellettuali al socialismo — e ciò vale per tu tti i paesi europei — si è avuto nel primo periodo dell’esistenza del partito; in seguito, quanto più concreta­mente il socialismo ha manifestato il proprio contenuto e quanto più accessibile a tutti è diventata la comprensione della sua missione storica, tanto più deciso è stato il ripie­gamento degli intellettuali dal socialismo stesso. Se questo non vuole ancora dire che essi erano spaventati dal socialismo in sé, in ogni caso è chiaro che nei paesi capitalistici d’Europa si erano dovuti compiere certi profondi mutamenti sociali che ostacolavano la fraternizzazione tra accademici e operai nella stessa misura in cui facilitavano l’unione degli operai al socialismo 15.

Da un altro punto di osservazione, nel 1920 Lukàcs, intervenendo Sul problema dell’organizzazione degli intellettuali dopo il fallimento dell’effimero tentativo rivo­luzionario dell’Ungheria di Bèla Kun, notava che « le organizzazioni intellettuali, tranne alcune sporadiche eccezioni, sono passate tutte prima o poi nel campo della controrivoluzione. I loro dirigenti, spesso genuinamente rivoluzionari, sono rimasti col tempo o totalmente isolati oppure, se non riuscirono a staccarsi dal gruppo, sono stati risospinti come gli altri nelle file della borghesia » 16. È una tematica che, come è noto, ricorre frequentemente nelle riflessioni di Gramsci sulle vicende della «filosofia della prassi»:

i grandi intellettuali formatisi nel suo terreno, oltre ad essere poco numerosi, non erano

11 Eugenio garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza, 1966, p. 409.12 E. Garin, Intellettuali italiani del X X secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974.13 Giorgio amendola, Fascismo e movimento operaio, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 49.14 ruggero zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 19643.13 Ora in lev trockij, Letteratura e rivoluzione, introduzione e traduzione di V. Strada, Torino, Einaudi, 1973, p. 416. Per la posizione di Adler cfr. l’introduzione di L. Paggi a max adler, Il socialismo e gli intellettuali, Bari, De Donato, 1974.16 E aggiungeva che « oggi l’intellighenzia, in quanto classe, non è rivoluzionaria », per cui « gli intellettuali possono diventare rivoluzionari solo come individui », uscendo dalla propria classe di origine per raggiungere « il punto dell’intelligenza teorica di tutto il movimento storico »

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legati al popolo, non sbocciarono dal popolo, ma furono l’espressione di classi intermedie tradizionali, alle quali ritornarono nelle grandi « svolte » storiche; altri rimasero, ma per sottoporre la nuova concezione a una sistematica revisione, non per procurarne lo sviluppo autonomo. L ’afFermazione che la filosofia della prassi è una concezione nuova, indipen­dente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione, che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali17.

Ma in Gramsci è assai marcata la « traduzione » nazionale di questa asserzione, sia che rimproveri il socialismo italiano di non conoscere le caratteristiche dello stato e della società in cui opera, sia che individui gli elementi di scollamento presenti nelle correnti culturali della borghesia italiana, come quando osserva, in un passo che interessa il nostro discorso e che andrà ripreso, che in Italia « manca ogni struttura culturale che si impernii sull’università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale » 18. Questo iato fra cultura accademica ed extra-accademica era stato colto anche da Prezzolini nel 1923, quando rivendicava il ruolo di rinnovamento della cultura italiana svolto dalle riviste militanti del primo ’900 w, oltre che da Croce e da Gentile. Ma questo « rinnovamento » aveva portato per molti aspetti, con l’infatuazione patriottica della prima guerra mondiale e con i contraccolpi della rivoluzione d’Ottobre, al- l’emergere di una forte corrente nazionalista che traeva forza anche dalla debo­lezza del socialismo; « i partiti d’opposizione non hanno alimentato alcuna grande ideologia, il socialismo non ha trapiantato Marx in Italia », annotava nel 1923 Gobetti, per cui « il trionfo fascista si connette a queste condizioni di imprepa­razione » 20. È a questo punto che si pone il tentativo di « unificazione spirituale » della nazione da parte di Gentile, consapevole della necessità di rafforzare, anche attraverso la cultura, la compagine statale: « Oggi [...] la questione delle attinenze tra lo Stato e la cultura, tra lo Stato e la religione, non è più una questione che ci trasporti in un campo remoto dalla nostra stessa coscienza personale [...] Dove lo Stato è la nostra più salda, più reale volontà, distinta da tutte le fantastiche velleità, onde dilettantescamente troppo spesso crediamo di farci parte per noi stessi, e prescindere da quella realtà che immaginiamo lontana da noi, e che pure vive dentro di noi » 21. Con la riforma della scuola del 1923 Gentile iniziava la sua opera di « conquista » degli intellettuali al fascismo; resta da vedere fino a che punto questa sia riuscita, e fino a che punto corrispondessero alla realtà le preoccupazioni di Vossler, che scriveva a Croce il 23 maggio 1925, dopo esser venuto a conoscenza del suo definitivo distacco da Gentile: « Dappertutto, in Francia, in Germania, in Italia, gli universitari si buttano in braccio al naziona­lismo astratto e cieco: tanto si fan comuni le sciocchezze e miserie del dopoguerra » 22. Riferendosi alla vigilia della seconda guerra mondiale, Ragionieri ha giustamente osservato che « forse mai come in questi anni di incipiente crisi del fascismo ci fu un coinvolgimento altrettanto ampio di intellettuali nelle strutture del regime», proprio mentre la forza organizzata dell’antifascismo toccava il suo punto più

(georgy lu k à cs, Scritti politici giovanili 1919-1928, introduzione di P. Manganaro, Bari, La- terza, 1972, pp. 89, 93).17 Antonio gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, voi. Ili, pp. 1862-63.18 Ibid., voi. I, p. 13.19 Giovanni prezzoline La cultura italiana, Milano, Corbaccio, 19383.20 pierò gobetti, La nostra cultura politica, « La Rivoluzione liberale », 8 marzo 1923, ora in Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969, pp. 457, 459.

G. gentile, Discorsi di religione (1920), ora in La religione, Firenze, Sansoni, 1965, p. 307. Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, Bari, Laterza, 1951, p. 295.22

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basso23. Al tempo stesso, però, se istituiamo un raffronto con la prima guerra mondiale, ora non troviamo più l’entusiasmo patriottico degli intellettuali-ufficiali studiati da Adolfo Omodeo, bensì, come documentano varie testimonianze e lo stesso diario di Bottai, forti riserve, come del resto in gran parte della popola­zione24; ed è forse per questo che, mentre nel 1915-18 il governo fece appello alla propaganda degli intellettuali solo dopo Caporetto, il fascismo cercò fin dall’inizio l’appoggio di tutto il mondo della cultura a quella che era presentata come una guerra di ideologie. E la risposta degli intellettuali, se prescindiamo dal pur fre­quente ricorso al nicodemismo, fu assai ampia, a riprova del vasto consenso che, almeno ufficialmente, il fascismo era riuscito ad acquistare in questo ceto nel corso degli anni trenta, attraverso una politica culturale estesa e articolata quale mai si era vista nella storia italiana, che si faceva forte di quella ideologia eclettica e camaleontica che, notava Togliatti, « serve a saldare assieme varie correnti nella lotta per la dittatura sulle masse lavoratrici e per creare a questo scopo un vasto movimento di massa » 25.Studi sugli strumenti messi in opera dal fascismo per organizzare gli intellettuali e utilizzarli ai propri fini politici o come mediatori del consenso, sono cominciati solo da poco, ma anche un rapido cenno sui principali di essi, molti dei quali ebbero come principale animatore — e prescindiamo dal settore scolastico — Giovanni Gentile, ci dà il senso dell’imponenza dello sforzo del regime in questo campo, riconosciuto anche dagli avversari26. Se un discorso a parte merita, per origini e finalità, il Consiglio nazionale delle ricerche del 1923, che pur risentì dell’atteggiamento antiscientifico dell’idealismo e vide la scienza subordinata alle esigenze autarchiche del regime27, interessa porre attenzione a quegli istituti cul­turali che il fascismo cominciò a fondare nel 1925 quando, dopo l’eliminazione delle libertà politiche, avvertì che motivi di non adesione o di opposizione pote­vano venire ormai solo da parte degli intellettuali. Particolarmente rivolto a una attività di propaganda, e ancora da studiare28, è l’Istituto nazionale di cultura

23 ernesto ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, voi. IV, Dall’Unità a oggi, t. 3, Torino, Einaudi, 1976, pp. 2262-63.24 Cfr. Alberto aquarone, L o spirito pubblico in Italia alla vigilia della seconda guerra mon­diale, «Nord e Sud», 1964, pp. 117-25, e simona colarizi, L ’Italia antifascista dal 1922 al 1940, Bari, Laterza, 1976, pp. 423 sgg.25 p. togliatti, Lezioni sul fascismo, prefazione di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 15.26 Cfr. ad es. n. travi (L. Venturi), La cultura italiana sotto il fascismo, « Quaderni di giu­stizia e libertà », giugno 1934, p. 47. Utili spunti per lo studio delle istituzioni culturali fasciste offre ora Mario isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979.27 Cfr. Roberto maiocchi, Scienza, industria e fascismo (¡923-1939), « Società e storia », 1978, pp. 281-315. « Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) — notava Gramsci proprio pensando al CNR e all’Accademia d’Italia — hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di isola­mento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neosco­lastico. Così gli scienziati < laici > hanno contro la religione e la filosofia più diffusa: non può non avvenire un loro imbozzolamento e una < denutrizione > dell’attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale. D’altronde: poiché l’attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all’atrofizzarsi di uno sviluppo del < pensiero > scientifico, della teoria, non può per compenso neanche aversi uno svi­luppo della < tecnica > strumentale e sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni. Questo disgregarsi dell’unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando, anche in questo campo, un < nazionalismo > scientifico, cioè sostenendo la tesi della < nazionalità > della scienza » (Quaderni del carcere, cit., voi. Ili, pp. 1694-95).28 Un invito a questo studio è venuto da Mario isnen g h i, Strumenti e pubblico dell’organizza­zione culturale fascista, « Belfagor », 1976, pp. 341-43.

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fascista, inaugurato il 19 dicembre 1925 da Gentile con un discorso in cui, dopo aver fatto appello agli intellettuali non fascisti che « lavorarono pur seriamente, onestamente, a recare in campo quelle pietre, con cui la giovane Italia ha comin­ciato a costruire il suo grande edificio. Noi a quelle pietre — perché non dirlo? — non possiamo, non vogliamo rinunziare», raccomandava cinicamente la «transi­genza, che diverrà ogni giorno più facile, via via che, adempiuto il secondo ter­mine, apparirà sempre più opportuno e più giusto il primo termine del grande monito romano: parcere subiectis et debellare superbos. Poiché non è lontano, se io non m’inganno, il giorno, in cui tutta l’Italia sarà fascista » 29. Versione fascista delle Università popolari, le 94 sezioni dell’Istituto, che raggiunsero nel 1941 i 210.000 iscritti, svolsero un’attività prevalentemente propagandistica che venne accentuandosi, già sotto la direzione di Gentile (1925-37), con la fondazione dell’Impero30, e, naturalmente, con lo scoppio della guerra, quando a dirigere l’Istituto fu chiamato Camillo Pellizzi, docente di Dottrina del fascismo all’Uni­versità di Firenze. L’Istituto, dichiarava il 23 maggio 1940 il segretario del Pnf, « deve accentuare il suo carattere di strumento del Pnf [...] deve, da un lato, ap­profondire lo studio dei princìpi fascisti su un piano elevato di cultura; dall’altro, curare un’agile azione divulgativa aderentissima allo sviluppo delle situazioni ed ai problemi che di volta in volta si pongono al Regime sul piano interno come su quello internazionale ». A questo duplice scopo corrisposero volumi come Fascismo e cultura di Gentile o Vitalia in cammino di Volpe, la collana dei « Clas­sici del pensiero politico » — con le Riflessioni sulla rivoluzione francese di Burke —, e i «Quaderni di cultura politica», volumetti divulgativi per le masse popolari, la tiratura di ciascuno dei quali raggiunse nel 1940 le 128.000 copie31.Ma il vero blasone del regime, la massima espressione della cultura fascista ad alto livello avrebbe dovuto essere l’Accademia d’Italia, alla cui presidenza Gentile sarà chiamato nel 1944, sotto la repubblica di Salò. Fondata nel 1926 con lo scopo « di promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato», esercitò fin dagli esordi quella «dittatura intellettuale» che il senatore Ettore Ciccotti aveva paventato e Gentile recisamente negato32.

Dissidio con gl’intellettuali non c’è — dichiarò il suo primo presidente Tommaso Tittoni inaugurandola ufficialmente nel 1929 — , e se ci fosse potrebbe essere facilmente com­posto, poiché gli intellettuali, memori dei danni che vennero all’Italia nell’estremo R ina­scimento, quando ridussero la loro a una professione appartata dal mondo, non devono isolarsi dall’ambiente in cui vivono e rimanere insensibili alla realtà che si agita intorno a loro. Ben più ardui dissidi — aggiungeva significativamente — , che turbavano profon­damente la vita del paese e minacciavano di sommergerlo, sono stati composti dal fasci­smo: dissidi tra l’individuo e lo Stato; tra il principio d’autorità e quello di libertà; tra la democrazia e l’ordine sociale; tra il governo e il parlamento che ne usurpava le funzioni e ne interrompeva senza posa la continuità; tra i datori di lavoro e i lavoratori sulla base funesta della lotta di classe33.

Il compito dell’Accademia, ricordava a un anno di distanza il suo segretario Gioac­

29 G. gentile, Fascismo e cultura, Milano, Treves, 1928, pp. 60-62.30 Cfr. G. gentile, L ’Istituto nazionale di cultura fascista, « Civiltà fascista », 1936, pp. 773-74: per il 1936 il programma era la lotta al bolscevismo, l’analisi del rapporto fascismo-democrazia e di quello fascismo-Europa.31 Cfr. camillo pe ll izz i, Istituto nazionale di cultura fascista, in Panorami di realizzazioni del fascismo, voi. Ili, Dai Fasci al Partito Nazionale Fascista, Roma, 1942, pp. 453-64.32 Annuario della Reale Accademia d’Italia, 1930-31, Roma, 1932, p. 7; per la posizione di Gentile cfr. Fascismo e cultura, cit., p. 130. Assolutamente insufficiente è lo studio di marinella ferrarotto, L ’Accademia d ’Italia. Intellettuali e potere durante il fascismo, Napoli, Liguori, 1977.33 tommaso tittoni, La Reale Accademia d’Italia, « Nuova Antologia », 1929, pp. 11-12.

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chino Volpe, « è non solo promuovere una generica cultura, ma questa cultura che viene affiorando con i segni del fascismo; concorrere a darle ordine e chiarezza, cioè il senso della legge e della continuità » 34.È facile immaginare quale tipo di « cultura » elaborasse questa istituzione, che dipendeva gerarchicamente, per le nomine dei suoi membri, dalla decisione del capo del governo, e che sottopose a sé tutte le altre accademie esistenti, com­presa, nel 1939, la gloriosa Accademia dei Lincei. Pur senza dimenticare iniziative di rilievo, come la collana « Studi e documenti » dove apparvero le Fonti per la storia d’Italia dal 1789 al 1815 nell’Archivio Nazionale di Parigi a cura di Baldo Peroni (1936) e Per la storia degli eretici italiani del secolo XV I in Europa a cura di Delio Cantimori e di Elizabeth Feist (1937), lo stretto legame fra l’Accademia e le mire imperialistiche del regime si rivela subito, fin da quando nel 1935 è fondato il Centro studi sull’Africa Orientale Italiana che appoggiò le missioni esplorative dell’Agip e che dette vita nel 1941 a una « Rassegna di studi etiopici » per « diffondere la conoscenza di genti e contrade, che la storia ha legato al­l’Italia». Nel giugno del 1939 venne istituito il Centro studi per l’Albania sotto la direzione di Francesco Ercole, che pubblica la « Rivista d’Albania » e che all’inizio della guerra è occupato nella preparazione di un Atlante linguistico al­banese « destinato a gettare nuova luce su l’agitato problema dei confini etnici della Nazione, i cui destini sono indissolubilmente congiunti con quelli dell’Italia». Nel 1941, infine, sono istituiti il Centro studi per la Svizzera italiana presieduto da Arrigo Solmi e diretto da Giovanni Ferretti, che rileva la pubblicazione del- 1’« Archivio storico della Svizzera italiana», e il Centro studi sul Vicino Oriente, con Federzoni presidente e Michelangelo Guidi direttore35. Gli esempi dei pro­dotti culturali di quella che dopo il 25 luglio 1943 Piero Calamandrei giudicherà « una delle fonti più perniciose di inquinamento della nostra cultura » 36, potreb­bero essere numerosi: basti pensare che nell’adunanza della Classe di scienze morali e storiche del 22 novembre 1940 Alessandro Luzio propose che la Classe « si faccia promotrice di una serie di pubblicazioni le quali, in forma accessibile a tutti, ma con la più serena e coscienziosa probità scientifica, svolgano le su­preme ragioni della nostra guerra, distruggendo la leggenda del liberalismo e della equità con cui l’Inghilterra ha velato la sua politica rapace e feroce; e riaffermino il programma altamente nazionale della unità mediterranea costantemente avver­sata e compromessa dall’ingerenza britannica » 37. Lo stesso presidente Federzoni dichiarava nell’adunanza generale del 1° giugno 1941 che « le contingenze deter­minate dallo stato di guerra, anzi che inceppare o ritardare, hanno [...] maggior­mente stimolato la fervida opera dell’Accademia», la quale «tende sempre più, sia pure inspirandosi a pure finalità culturali, ad interessarsi dei problemi che toccano da vicino la vita e l’avvenire della Nazione » 38. Non poteva mancare, anche in questa sede, l’esaltazione della romanità, che con il sostanzioso apporto degli studiosi cattolici dell’Istituto di studi romani toccò il suo punto più alto nel 1938 con le celebrazioni del bimillenario augusteo39, o l’inno all’armonia fra la romanità e il germanesimo40. Né meno significative sono, per confermare

34 Gioacchino volpe, Il primo anno dell’Accademia d’Italia, « Nuova Antologia », 1930, p. 496.35 Cfr. Annuario della Reale Accademia d’Italia, 1940-41, Roma, 1942, pp. 134, 275, 317-19.36 pierò Calamandrei, Lettere 1915-1956, a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Firenze, La Nuova Italia, 1968, t. I, p. 319.37 Annuario, cit., p. 114.38 Ibid., pp. 282-83.39 Cfr. mariella cagnetta, Il mito di Augusto e la « rivoluzione » fascista, « Quaderni di storia », 1976, n. 3, pp. 139-81 (che alla n. 51 mette in rilievo il non coinvolgimento di Marchesi); della stessa autrice cfr. ora Antichisti e impero fascista, Bari, Dedalo, 1979.40 Cfr. il discorso inaugurale dell’a. acc. 1941-42 tenuto da Amedeo Maiuri su Roma e

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l’opera corruttrice di un’Accademia largamente dotata di mezzi finanziari, le scelte delle opere da premiare nei vari concorsi: ne fa fede la motivazione con la quale nel 1942 viene negato il premio del ministero dell’Educazione Nazionale per le scienze storiche a II medioevo barbarico d’Italia di Gabriele Pepe, edito da Einaudi e lodato da Croce su « La Critica », mentre alla commissione esami­natrice « l’autore appare sovente dominato da tesi preconcette che non gli per­mettono di avere una visione serena degli avvenimenti e di uomini di una età lontana da quella nella quale viviamo. Con sprezzante severità egli giudica tutti i capi, sia religiosi che laici d’Italia in quel tempo », mentre « la politica e la stessa concezione della Chiesa sono oggetto di aspra censura. Non parliamo poi dei Longobardi! » 41. In questo contesto, appaiono isolate e senza seguito le voci di quegli antifascisti che, come Concetto Marchesi, cercano di ricondurre a scopi puramente culturali le attività dell’Accademia42, che invece continuerà a mani­festarsi — sono parole dello stesso Marchesi —• « come una delle più colossali insidie che il fascismo abbia teso alla insanabile vanità del ceto intellettuale » 43.Nel corso degli anni trenta nasce e si sviluppa inoltre, in analogia con quanto si era già fatto in altri paesi all’indomani della prima guerra mondiale — si pensi all’inglese Royal Institute of International Affairs diretto da Arnold J. Toynbee —, l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), fondato a Milano nel 1933 e diretto dal 1935 dall’industriale Alberto Pirelli, interessato all’iniziativa come strumento di espansione della sfera di influenza politica ed economica dell’Italia44. L ’Istituto aveva la duplice funzione, attraverso le sue numerose riviste e collane di politica internazionale — come la « Rassegna di politica internazionale » e « Relazioni internazionali » —, di raccogliere la documentazione diplomatica dei vari paesi, e di orientare l’opinione pubblica sulla politica estera del regime, anche se questo secondo scopo propagandistico venne a prevalere sul primo nel corso della guerra, quando la pubblicazione integrale del discorso in cui nel 1941 il primo ministro greco Metaxas denunciava l’aggressione fascista provocò l’inter­vento censorio del regime. All’attività politica si affiancò ben presto un vasto impegno dell’Ispi nel campo della documentazione storiografica, che si avvalse dell’opera di Gioacchino Volpe e della sua Scuola di storia moderna e contem­poranea — e sarà da ricordare che tutte le istituzioni storiche subirono una rior­ganizzazione in senso accentratore culminata nel 1934-35 sotto gli auspici di Gentile, di Volpe e di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon45. Se l’idea di una Storia della politica estera italiana non potè essere realizzata se non in parte da Chabod nel secondo dopoguerra, i numerosi volumi che furono pubblicati fino al 1943 nelle varie collane storiche dimostrano come la storia diplomatica potesse « rappresentare una sorta di campo neutro in cui potevano cimentarsi fianco a

l’Oriente europeo (« Romanità e Germanesimo sono oggi associati per la difesa della comune civiltà, e nessuna forza nemica potrà abbattere la loro forza congiunta »), in Annuario della Reale Accademia d’Italia, 1941-42, Roma, 1943, p. 114. Concetti analoghi ispirano il volume collettaneo Romanità e germanesimo, a cura di J. De Blasi, Firenze, Sansoni, 1941, cui parte­cipano, fra gli altri, Bottai e Gentile.11 Annuario, cit., p. 292.42 Nell’adunanza della classe di scienze morali e storiche del 4 giugno 1942 il socio aggregato Marchesi « parla sull’opportunità di riprendere e continuare con nuovi criteri storici e filologici le pubblicazioni dei volgarizzamenti toscani inediti del buon secolo della lingua » (ibid., p. 220).43 c. m archesi, Regie Accademie (25 febbraio 1945), in Umanesimo e comunismo, cit., p. 328.44 Cfr. angelo montenegro, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica internazionale 1933-1943, « Studi storici », 1978, pp. 777-817.45 Cfr. Simonetta soldani, Risorgimento, ne II mondo contemporaneo, voi. I, Storia d’Italia, 3, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 1144-46.

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fianco storici fascisti e storici antifascisti o storici provenienti da diverse scuole con differenti indirizzi di ricerca » 46: spiccano infatti, fra i collaboratori, i nomi di storici antifascisti come Luigi Salvatorelli e Adolfo Omodeo, che si decidono a dare la loro opera a iniziative fasciste proprio nel corso della guerra, come tanti altri intellettuali antifascisti le cui firme compaiono nel 1940-43 su « Pri­mato » di Bottai. Restano da valutare i contenuti culturali di queste collaborazioni, ma, anche se non si sfugge a un’impressione di eclettismo, la nota dominante appare l’impostazione nazionalistica di opere come la Storia della Corsica italiana di Volpe o II Mediterraneo dall’unità di Roma all’impero italiano in cui nel 1939 un antico allievo di Salvemini, Pietro Silva, aggiorna una sua opera del 1927 alla luce dei « grandi e fulgidi avvenimenti che hanno avuto come glorioso suggello la fondazione del secondo Impero di Roma ». È tuttavia da ricordare che anche in questo caso, come per « Primato », l’aspirazione del regime a chiamare a rac­colta durante la guerra tutte le forze intellettuali non poteva non comportare che in alcuni casi gli sfuggisse il controllo sul loro operato: è significativo che la rivista di alta divulgazione storica e geografica «Popoli», iniziata nel 1940 da Chabod e Morandi, pubblicato dall’Ispi, avesse fra i collaboratori numerosi ebrei che si firmavano con pseudonimi, e che fosse soppressa nel 1941 per un articolo su Cecil Rhodes e l’impero inglese, considerato « glorificatore del nemico » 47.A questo stesso coinvolgimento politico-culturale non riuscirono a sfuggire nep­pure i quasi 3.300 collaboratori di un’opera che ancora qualche studioso considera impermeabile al fascismo, l’Enciclopedia italiana, pubblicata fra il 1929 e il 1937 sotto la direzione di Gentile. E non solo perché, come ha osservato Arnaldo Mo­migliano, collaborare a iniziative fasciste si traduceva in un appoggio oggettivo al regime48, ma anche e soprattutto perché, come ho cercato di dimostrare in altra sede49, gli stessi esponenti di maggior prestigio e di orientamento non fa­scista subirono l’influsso delle impostazioni di Gentile o di Volpe, o, più in gene­rale, i condizionamenti di quella ideologia del fascismo che proprio neWEnciclo- pedia fu codificata nel 1932 nella voce Dottrina del fascismo firmata da Mussolini. Ne sono una riprova, neli’Appendice dell’opera apparsa nel 1938, l’esaltazione delle realizzazioni del fascismo fatta nella voce Italia da Virginio Gayda, o le voci dedicate alla storia degli altri paesi in cui gli autori, pur senza far propria la più vieta propaganda di marca fascista, svolgono una continua e sottile svalu­tazione della democrazia parlamentare, del liberalismo e del socialismo: ciò appare scopertamente a proposito della Spagna, per cui lo scoppio della guerra nel 1936 è spiegato da Guido Gigli come una manovra sovietica, ma anche nel tono « aristo­cratico » col quale Carlo Morandi parla, per la Francia, della legislazione sociale del governo di Léon Blum, spiegando inoltre che « se il governo potè godere sul terreno parlamentare di un’effettiva sicurezza, le difficoltà gli vennero, all’esterno, da talune insospettate resistenze padronali e — soprattutto — dalla marea cre­scente ed eterogenea dei seguaci, dalle masse che, poste in movimento, moltipli­cavano reclami e richieste. E il governo aggravò quest’impressione, che cioè le masse organizzate comandassero nel paese, riaffermando ogni giorno di voler ren­dere conto del proprio operato ai sindacati dei lavoratori e chiederne l’approvazione ».

46 A. MONTENEGRO, art. cit., p. 807.47 Cfr. franco venturi, Profilo di Federico Chabod, « Rivista storica italiana », 1978, p. 869.41 Arnaldo Momigliano, Appunti su Federico Chabod storico, « Rivista storica italiana »,1960, p. 644.45 Gabriele t u r i, lì progetto dell’Enciclopedia italiana: l’organizzazione del consenso fra gli intellettuali, e Ideologia e cultura del fascismo nello specchio dell’Enciclopedia italiana, rispetti­vamente in « Studi storici », 1972, pp. 93-152, e 1979, pp. 157-211.

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Ciò ci esimerebbe da ogni commento sul Dizionario di politica del partito nazio­nale fascista pubblicato nel 1940 in contrapposizione al taglio considerato esclu­sivamente « informativo » dell’Enciclopedia italiana50, per presentarsi -— sono parole di un suo redattore, Antonino Pagliaro — come « opera di politica in atto che comprende tutto quanto possa giovare alla formazione spirituale rigorosamente fascista delle nuove generazioni, liberandole dalle residue deformazioni e dagli impacci delle soprastrutture con cui il demoliberalismo si illuse di fissare in eterno la vita dei popoli » 51 52. Il carattere arcifascista del Dizionario è fuori di ogni dubbio; eppure un esempio ci può rendere accorti di quanta cautela occorra nel valutare l’opera degli intellettuali in questi anni di crisi del fascismo. La voce Nazionalsocialismo del 1940 è di Delio Cantimori, che aveva già spostato i suoi interessi verso lo studio degli eretici, e ricalca quasi parola per parola la sua introduzione ai Principii politici del nazionalsocialismo di Karl Schmitt (Firenze, Sansoni, 1935), già apparsa del resto nel 1934, col titolo Note sul nazionalsocia­lismo, nell’« Archivio di studi corporativi ». Ma il confronto fra i due scritti mette in rilievo variazioni di termini o di frasi che esprimono anche un mutamento di linea interpretativa nello storico che successivamente dichiarerà di essere già «semimarxista» nel 19365Z. Mentre, in generale, nel 1940 la caratterizzazione di destra della Nsdap è più netta che nei 1934, molte frasi si fanno più precise nel linguaggio e nell’analisi delle classi sociali: se nel 1934 Cantimori dice che « le dottrine del Feder e di Hitler sui < principi della banca e dell’industria > arric- chentisi a spese del popolo facevano forte impressione sui diseredati dall’infla­zione», nel 1940 si parla delle «dottrine del Feder e di Hitler sull’attività sfrutta­trice del capitale finanziario, che attiravano i ceti medi diseredati dall’inflazione »; l’affluenza nel partito, nel 1930, delle « moltitudini di coloro che cominciavano a sentire la pressione della incipiente crisi economica, di coloro i cui pregiudizi e sentimenti sociali ripugnavano alla < proletarizzazione > » (1934), è spiegata più puntualmente nel 1940: « quando sopravvenne la crisi mondiale, che in Germania fu più acuta e più inacerbita da contrasti stridenti fra ricchezza e povertà che in ogni altra parte d’Europa, sempre più numerose folle di disoccupati dei ceti operai e piccolo-borghesi e di contadini oppressi dal fiscalismo governativo presero ad affluire nei ranghi del nazionalsocialismo». E mentre nel 1940 si cita, a diffe­renza del 1934, l’incendio del Reichstag che « fornì l’occasione per mettere fuori legge i comunisti», ha un significativo spostamento d’accento anche il giudizio sulla composizione sociale del partito: « Certo la diffidenza dei conservatori e reazionari ancien-régime, dei monarchici, dei grandi capitalisti e degli agrari at­torno ed accanto al Hugenberg, era grande, di fronte alla turba di giovani spostati, nel senso sopra veduto, di piccoli borghesi ed operai fanatici e radicaleggianti del nuovo partito; ed era contraccambiata » (1934); e nel 1940: « Certo la diffidenza dei conservatori e reazionari monarchici ancien-régime, della maggior parte dei grandi capitalisti e degli agrari attorno ed accanto al Hugenberg e al Herrenklub era grande, verso quella turba di giovani spostati ed irrequieti, di piccoli borghesi ed operai fanatici e radicaleggianti alla quale, per loro come per tanti altri uomini del vecchio mondo [corsivo mio], si riduceva il nuovo partito. E quella diffidenza era contraccambiata con una viva antipatia, che poteva giungere all’odio ».

50 Cfr. R. de m attei, Cultura fascista e cultura dei fascisti, « Critica fascista », 1937-38.51 Antonino Pagliaro, Il Dizionario di politica del P.N.F., « Civiltà fascista », 1940, p. 35.52 Introduzione di D. Cantimori a Johann h u izin g a , La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1962, p. XVII. Ai contributi cantimoriani al Dizionario di politica, « così singolarmente espliciti nel trattare le idee e le battaglie di idee come fatti »,- ha accennato G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 162-63.

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Senza voler sforzare eccessivamente i testi, ci sembra che l’esempio di Cantimori sia una spia di modificazioni importanti avvenute nel ceto intellettuale negli anni dalla guerra d’Etiopia alla seconda guerra mondiale, tanto più significativa in quanto si manifesta alTinterno di un’opera ufficiale del Pnf. Di qui la necessità non tanto di individuare altri casi individuali di maturazione in senso antifascista, bensì di vedere dove, all’interno delle istituzioni del regime, potessero verificarsi delle smagliature nell’organizzazione del consenso.Lo sforzo imponente compiuto dal fascismo, alla vigilia della guerra e durante il suo corso, per ottenere l’appoggio degli intellettuali, sembra direttamente propor­zionale all’incrinarsi del rapporto fra il mondo dell’alta cultura e il regime, le cui prime avvisaglie sono avvertibili a partire dalla guerra di Etiopia e da quella di Spagna. Nell’agosto del 1940 il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai consegnava a Mussolini una relazione « sulla posizione della cultura ita­liana, in ¡specie universitaria, dinnanzi al conflitto », in cui, dopo aver affermato che il punto di massima fascistizzazione della cultura si era avuto nel 1932-35, con il dibattito sul corporativismo, notava preoccupato che,

sopravvenuta la guerra d’Etiopia, la cultura italiana ha taciuto, rinunciando a ogni ulte­riore collaborazione. Sul piano speculativo la critica sempre più rigorosa condotta contro l ’idealismo l’ha estraniata definitivamente dal processo rivoluzionario. Sul piano sociale la fine della discussione intorno ai princìpi del corporativismo ha arrestato l’elaborazione della nuova scienza politica ed economica. Messa a tacere la minoranza rivoluzionaria, la vecchia cultura conservatrice s’è trovata senza avversari, e s’è rafforzata sulle sue posizioni, mascherandosi in gran parte con un ossequio estrinseco e adulatorio nei con­fronti del regime [perciò] quattro anni di silenzio ostile della cultura non potevano non influire sulla coscienza politica della nazione. Sempre più antirivoluzionaria, la classe intellettuale si ritirava sulle sue posizioni tradizionali. D’altra parte, le esigenze della rivoluzione sul piano politico, non secondate tra noi dal movimento culturale, erano co­strette a far leva sulle ideologie del nazionalsocialismo, che procedeva rapidamente sul proprio cammino. Era, da nostra parte, un’implicita rinuncia alla primogenitura, che di fatto accentuava, a sua volta, l’ostilità della cultura, e alimentava un movimento di reazione, che s’estendeva alle classi popolariS3.

Sono gli anni in cui si verificava la « semina comunista » 54 e in cui il fascismo, mentre con la creazione del ministero della Cultura popolare cercava di stringere i freni della censura, lasciava contraddittoriamente aperti degli spazi di discus­sione ai giovani, allo scopo di « mantenere sul terreno delle idee la lotta delle idee, quando impedirla non era possibile, e di orientarla in modo tale da trarne da essa qualche vantaggio » 55, ad esempio con i littoriali della cultura, nei quali si misurarono e presero contatto tanti giovani intellettuali, alcuni dei quali già su posizioni decisamente antifasciste. Non a caso nel 1938 Croce ripubblica i saggi sul materialismo storico di Labriola con il suo commento su Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), in cui «dà prova di presentire la possibilità di tempi nuovi anche per l’Italia, dal fondo oscuro del fascismo, e in

53 Giovanni bottai, Vent’anni e un giorno (24 luglio 1943), Milano, Garzanti, 1949, pp. 64-65 e 190.54 Cfr. paolo spriano, Storia del Partito comunista italiano, III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970, pp. 181 sgg. « Per me i quadri — intesi come giovani che vogliono dare una soluzione a tutti i problemi della gioventù italiana — esistono soltanto tra i giovani intellettuali. I giovani, si può dire, rappresentano una classe a sé [...] Bisogna perciò legarsi ai germi di pensiero, ancora confusi, anticapitalistici, che esistono in correnti fasciste e cattoliche », affermò Celeste Negarville nel quadro dell’appello del Pei ai « fratelli in camicia nera » (ibid., p. 107).55 Lucio lombarbo radice, Fascismo e anticomunismo. Appunti e ricordi 1935-1945, Torino, Einaudi, 1946, p. 15. In generale, per la propaganda e la censura fascista, cfr. p h il ip cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, 1975.

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certo modo di anticiparli non senza sfida», cioè «forniva gli elementi e in pari tempo tentava di precostituire i termini in cui una ripresa del dibattito marxista in Italia avrebbe dovuto non tanto essere evitata o bloccata, quanto venire, ancora una volta, riassorbita e risolta ad opera della cultura e ideologia liberale » 56È per reagire a una eventuale « diaspora » degli intellettuali che nel 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, Bottai fonda «Primato», la rivista cui invita a collaborare anche gli antifascisti nel nome della contrapposizione alla Kultur nazista e del « coraggio della concordia » fra gli intellettuali, e nella pro­spettiva di un consolidamento del regime sul piano ideologico 57. È da sottolineare comunque che solo con la guerra e con l’evidenziarsi della crisi del regime per la maggior parte degli intellettuali che si schiereranno contro di esso assume connotazioni politiche quel distacco dal fascismo che si era venuto manifestando, fino ad allora, sul piano strettamente culturale, sia che ci si rifugiasse nella lette­ratura con un più o meno espPcito rifiuto della politica — come nel caso di « So­iaria », la rivista fiorentina fondata nel 1926 da Alberto Carocci58 —, sia che, come notava Bottai, si cominciasse a sottoporre a critica l’idealismo crociano e gentiliano, in un dibattito che coinvolse lo stesso gruppo bottaiano, consapevole che i giovani fascisti, la futura classe dirigente del regime, era ancora cultural­mente impreparata: nel 1931 si poteva leggere su « Critica fascista », a commento di un articolo di Bottai, Invito allo studio, un intervento di Giuseppe Lombrassa dal titolo significativo Prima studiare poi discutere, in cui l’autore affermava che « ci tocca confessare di non avere la preparazione, la cultura politica di molti giovani liberali o socialisti di vent’anni fa, i quali conoscevano profondamente, dal punto di vista delle loro dottrine politiche s’intende, i problemi politici, sociali, economici italiani e stranieri » 59.Per molti giovani fu elemento decisivo per un lento distacco dal fascismo rincontro con il pensiero di Croce, spesso fatto proprio e in un secondo tempo confutato e superato. Ciò vale, in linea generale, per i cattolici60, ma anche per molti futuri comunisti, sia per l’apertura alla politica che provocò in Alicata la lettura delle opere storiche di Croce61, sia per il fastidio avvertito da Giaime Pintor per uno storicismo ridotto a giustificazione dell’esistente62; così nel luglio 1941 un altro intellettuale ormai orientato verso il marxismo, Ranuccio Bianchi Bandinelli, os­servava che

[...] lo storicismo crociano ci ha liberati dalla pedanteria della ricerca documentaria e filologica fine a se stessa, ricollocando la storia sul cammino della vita, tornando cioè a porre l’esigenza della coincidenza fra storia e cultura, anziché fra storia ed erudizione. Ma mi sembra che si corra il pericolo di creare, con l’immanentismo della storia, un nuovo mito che torni ad allontanare la storia dal realistico contatto con gli avvenimenti umani; e concludeva profeticamente: non so se le teorie del Croce sembreranno così

56 cesare lu porin i, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, in Storia d’Italia, voi. V, I documenti, 2, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1588-89.57 Cfr. le osservazioni di L. Mangoni nell’antologia da lei curata di « Primato » 1940-1943, Bari, Dedalo, 1977.5S Giorgio l u t i, Cronache letterarie tra le due guerre (1920-1940), Bari, Laterza, 1966, pp. 77 sgg., e Lettere a Soiaria, a cura di Giuliano Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1979.55 « Critica fascista », 1931, p. 66.60 Per la polemica antiidealista dei cattolici cfr. in generale E. Garin, Cronache, cit., passim.61 Cfr. la testimonianza di Alicata in La generazione degli anni difficili, Bari, 1962, p. 61, e le osservazioni di Gianfranco tortorelli, Contributi sulla formazione culturale e politica di Mario Alicata, « Italia contemporanea », 1978, n. 132, pp. 93-98.62 « Era naturale che mi ribellassi quando lo storicismo mi insegnava che in ogni modo sarebbe stato così », annotava nel 1941 giaim e pintor, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino, Einaudi, 1978, p. 114.

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belle agli intellettuali quando, finita la guerra e finito il fascismo, non avranno più il fascino del frutto proibito e non saranno più simbolo di opposizione al fascismo. Ho la sensazione che, dinanzi al riaprirsi di orizzonti europei, anzi mondiali, la nostra cultura italiana, form ata esclusivamente, in ciò che ha ora di meglio, sull’idealismo crociano, possa apparire un fenomeno provinciale63 *.

E nel 1938 sulle pagine di « Stato operaio » un giovane universitario operante in Italia ma già in contatto con i centri del Pei e del Psi, Eugenio Curiel, poteva cogliere il disorientamento dei giovani presso i quali « il marxismo è pochissimo conosciuto e spesso soltanto attraverso alla deformazione ed alla critica idealistica di Croce e di Gentile », ma nonostante tutto poteva osservare che questi giovani « vogliono e cercano di combattere per la libertà, per l’affermazione della loro volontà di pace e di benessere » M.Focolai importanti per l’orientamento antifascista degli intellettuali furono indub­biamente, accanto a Croce, con la « Critica » e casa Laterza, giovani case editrici come la Nuova Italia di Ernesto Codignola presso la quale si raccolse nel corso della guerra un cospicuo numero di liberalsocialisti e di azionisti, o come quella di Giulio Einaudi, che negli anni del conflitto fu il punto d’incontro di tanti intel­lettuali di orientamento azionista, ma anche comunista, come Alicata e Pintor. Resta tuttavia ancora da studiare e da valutare, accanto a centri di indub­bia risonanza come queste case editrici, la funzione svolta durante il venten­nio da quell’università in cui Bottai coglieva, nel 1940, una sorta di resistenza passiva nei confronti del fascismo e della guerra da esso scatenata. Riferendosi alla minaccia avanzata nel 1926 da Roberto Forges Davanzati di « cacciare dalle cattedre universitarie, anche se occorre, manu militari », la cultura antifascista, Norberto Bobbio ha affermato che

manu militari, la cultura accademica non fu cacciata, né allora, né poi [...] Non ce ne fu bisogno perché tra università e regime si venne stabilendo un modus vivendi: l’università fu lasciata in pace (in realtà non fu mai tentata, come avrebbero richie­sto gl’intransigenti, una sua compiuta fascistizzazione) purché lasciasse in pace. Non fu necessario il bastone perché bastò l’aggrottam ento di ciglia. Di fronte al processo di trasformazione dello Stato, la cultura accademica non eccedette nell’inneggiare né si ribellò: accettò, subì, si uniformò, si conformò, si rannicchiò in uno spazio in cui poteva continuare, più o meno indisturbata, il proprio lavoro6S.

Al contrario, l’unico studio esistente a questo proposito, quello di Bongiovanni e Levi sull’università di Torino, pur mettendo in luce il non traumatico passaggio della cultura accademica dal regime liberale al fascismo e gli elementi di con­tinuità con la tradizione monarco-sabauda, giunge alla conclusione che l’università fu « coinvolta nel processo di massificazione e di fascistizzazione, talora fornì allo Stato-regime importanti strumenti ideologici, talora li subì. Lasciò relativamente in pace, ma non fu lasciata in pace, fu organizzata, a più riprese riformata » 66. Il problema non è di facile soluzione, e richiederebbe studi specifici sulle singole università e facoltà in rapporto alla loro collocazione culturale precedente il fa-

63 eanuccio bianchi bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, Milano, Il Saggia­tore, 1962, p. 80.M E. curiel , Tendenze e aspirazioni della gioventù intellettuale, ora in Scritti, cit., voi. I, pp. 223-24.65 norberto bobbio, La cultura e il fascismo, in aa.vv., Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Torino, Einaudi, 1973, p. 214.66 bruno bongiovanni-Fabio levi, L ’università di Torino durante il fascismo. Le Facoltà umanistiche e il Politecnico, Torino, Giappichelli, 1976, p. 112. Ma nello studio di Bongiovanni sulle facoltà umanistiche, non si riesce ad andare molto al di là delle fonti ufficiali, come i discorsi inaugurali dei rettori, ai quali limita la propria indagine anche m . isnen g h i, L ’educazione dell'italiano. Il fascismo e l’organizzazione della cultura, Bologna, Cappelli, 1979, pp. 50-65.

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seismo, sui diversi insegnamenti e sull’efficacia che questi ebbero nella formazione dei giovani; così come non può non essere oggetto di riflessione il fatto che alla caduta del regime fossero nominati rettori di varie università dei docenti che vi avevano insegnato durante il ventennio e che erano venuti maturando un orien­tamento decisamente antifascista: Marchesi a Padova, Omodeo a Napoli, Cala­mandrei a Firenze, Russo alla Scuola Normale di Pisa.A nostro parere le due tesi citate sono troppo perentorie, e non si escludono necessariamente a vicenda, bensì richiedono di essere meglio articolate e sfumate. Il problema del controllo dell’università si pose più volte durante il ventennio, anche se non con l’impellenza degli altri ordini di scuole, e sia per la crescita di massa degli studenti, che nessun provvedimento riuscì a bloccare, sia per i con­tenuti culturali che vi erano impartiti. I dati quantitativi non potevano del resto non riflettersi su quelli qualitativi, se pensiamo che dai 60.000 studenti del 1935-36 si passò ai 165.000 del 1942-43, mentre il numero dei docenti — professori di ruolo e incaricati — rimase sostanzialmente immutato, aggirandosi nel 1939-40 attorno ai 350067. Le preoccupazioni del fascismo si fecero sentire subito dopo il varo della riforma Gentile, che si era limitata ad introdurre i primi elementi di gerarchizzazione che saranno sviluppati in seguito, come l’eliminazione della elettività dei rettori, lasciando però l’autonomia didattica alle università. Alle osservazioni fatte nel ’27 dal Gran Consiglio altre seguirono ben presto68. L’11 luglio 1931 il segretario generale dei Guf, Carlo Scorza, inviava a Mussolini una relazione in cui rilevava che « le masse universitarie non sono ancora quali il Duce le vuole », che i più lontani dal fascismo erano gli studenti di giurispru­denza, lettere e filosofia, e che era ben avvertibile « tra gli universitari un acceso senso di autonomia nei confronti del Partito, ed una vivissima insofferenza di vincoli disciplinari e gerarchici ». Dopo aver osservato che i meno fascisti erano gli studenti provenienti dalle classi elevate, Scorza avvertiva la difficoltà di « con­trobattere la perniciosa azione non fascista, afascista ed antifascista dei professori avversi al Regime », anche perché « i professori antifascisti, se non sono sempre e in ogni caso i migliori per altezza d’ingegno, quasi mai sono i peggiori; e qualche sostituzione, operata con faciloneria, non ha dato — per la inevitabile legge dei confronti — ottimi frutti di propaganda fascista » 69. La risposta del regime non si fece attendere: nell’agosto 1931 fu introdotto l’obbligo per i professori univer­sitari di giurare fedeltà, oltre che al re, al fascismo. Solo 11 professori rifiutarono il giuramento, ma sarebbe errato dedurre da ciò la convinzione fascista degli altri docenti: già nel 1925, al momento in cui Salvemini fu costretto a lasciare la cat­tedra fiorentina, Armando Sapori non si era dichiarato d’accordo con lui sul fatto che « il dovere della cattedra non si può compiere in regime di dittatura », e anzi si era dimostrato convinto della necessità di non « abbandonare questo povero paese alla fazione che eravamo sicuri l’avrebbe distrutto » 70. E sia nell’ambiente liberale che in quello comunista venne fatto proprio il ragionamento di Luigi Einaudi, che accettò di giurare « perché altrimenti le cattedre cadrebbero tutte in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti. Gli studiosi veri,

67 Cfr. La politica e la legislazione scolastica in Italia dal 1922 al 1943, preparato dalla Sotto­commissione dell’educazione della Commissione alleata in Italia, Milano, Garzanti, 1947, p. 286 e 292.68 Cfr. Renzo DE felice , Mussolini il duce. Gli anni del consenso. 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 189-190.65 Citato in Alberto aquarone, L ’organizzazione dello stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 514-517.70 armando sapori, Mondo finito, Roma, Ed. Leonardo, 1946, p. 70.

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anche se iscritti [al Pnf], sapranno sempre insegnare quella che nella loro retta coscienza reputeranno essere la verità » 71.Nel 1933 era lo stesso Gentile a intervenire per esaltare il « regime di libertà » introdotto dal fascismo nell’università ma, al tempo stesso, per cogliere nei giovani universitari « una sfrenata affermazione di autonomia » che si rivolgeva contro l’idealismo e l’attualismo in nome del « realismo » — « salvate alcune formule sacre di dottrina fascista, tutto il resto, via, in soffitta » —, e per notare « l’atteg­giamento dei giovani che reclamano una nuova cultura, che è poi, viceversa, la cultura più vecchia che ci sia nel nostro mondo occidentale: la cultura cattolica»: di qui « la sfiducia nella ragione umana, il misticismo e il cattolicesimo » che « si crede autorizzato anzi promosso e incoraggiato dallo stesso regime e quindi dalla dottrina fascista, che è a base della politica concordataria » 72. La risposta di Gentile al problema dei giovani era in realtà elusiva — « meno polemiche, più lavoro » —, ma non ottusamente autoritaria come quella di De Vecchi di Val Cismon che, dopo aver osservato nel 1933 come « in questa zona dell’alta cultura i fini non sono per anco raggiunti » 73, nel 1935-36, in qualità di ministro dell’Educazione nazionale, cercò di attuare quella « bonifica fascista della cultura » che avrebbe dovuto disciplinare anche l’università, conferendo al ministro ampi poteri di controllo anche sulle nomine dei docenti, ed eliminando l’autonomia delle facoltà nella scelta degli insegnamenti, rigidamente distinti in « fondamen­tali » e « complementari » 74. Anche Bottai, ministro dell’Educazione nazionale dal novembre 1936, cercò con la Carta della scuola del 1939 di avvicinare l’uni­versità alla «vita», cioè al fascismo, anche se nel frattempo all’istituzione di nuove facoltà si era accompagnata l’introduzione di alcuni insegnamenti tipica­mente fascisti, come cultura militare, diritto corporativo, demografia generale e demografia comparata delle razze e, nel 1938, biologia delle razze. Ma, per quanto riguarda l’università, gli interventi di Bottai si limitarono a un appello per intro­durvi lo «spirito fascista», perché « l’università italiana non ha bisogno di una nuova riforma di struttura, quanto di una riforma morale, del costume dei suoi docenti e dei suoi discenti», e, nel 1940, a una circolare sulla disciplina univer­sitaria che introduceva un controllo gerarchicamente organizzato75; senza arrivare però alla proposta avanzata nel 1940 da padre Gemelli, rettore dell’Università cattolica, di operare una drastica selezione, basata sui metodi della « psicologia scientifica », ispirandosi alla legge nazista del 25 aprile 1933 contro raffollamento delle università, con la quale, egli affermava, « scomparve anche la minaccia di una massa d’intellettuali senza funzioni da compiere, votati ad essere vittime del

71 Citato in Antonio pesen ti, La cattedra e il bugliolo, Milano, La Pietra, 1972, p. 281. Luigi Russo affermerà nel 1945 che « un comitato segreto di liberali, presieduto dal Croce, concluse che bisognava restare sulle cattedre, perché non cadessero esse nelle mani dei barbari, e perché nella stragrande maggioranza non si fosse privati dell’unica fonte di sostentamento per le nostre famiglie » (De vera religione. Noterelle e schermaglie. 1943-1948, Torino, Einaudi, 1949, p. 74); il fatto è confermato da una lettera di Luigi Einaudi a Croce del 19 novembre 1931, in cui gli ricordava di essersi « recato a Napoli per chiedere, come altri, conforto e consiglio da Benedetto Croce innanzi di decidermi, con grave sacrificio della mia coscienza, a prestare ubbi­dienza all’inevitabile » (Archivio Luigi Einaudi presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino, Sezione 2, fase. Croce). Marchesi ebbe da Togliatti il consenso a giurare « per mantenere un contatto con la gioventù e svolgere una certa funzione educatrice » (Giorgio amendola, Lettere a Milano. Ricordi e documenti. 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 101).72 Giovanni gentile, La nuova Università italiana e il problema dei giovani, in « Nuova An­tologia », 1933, pp. 481-494.73 CESARE MARIA de vecchi di VAL cism on , Bonifica fascista della cultura, Milano, 1937, p. 35.74 Cfr. La politica e la legislazione scolastica in Italia, cit., pp. 275-78.75 Cfr. g. bottai, La Carta della scuola, II ediz. accresciuta, Milano, 1941, pp. 234 e 294, e « Gli annali della università d’Italia », 1940, pp. 58-63.

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comunismo, così come si va purtroppo attuando in altri paesi, e specie negli Stati Uniti d’America » 76.Ed è ancora la rivista di Bottai, « Primato », che nel 1941 apre un ampio dibattito sull’università come problema politico, che si traduce nel rapporto tra cultura universitaria ed extrauniversitaria. Lo iato tra le due culture, cioè tra cultura accademica e «vita», tra università e fascismo, è sottolineato da tutti i giornali dei Guf, come « Il Bò » di Padova, « Rivoluzione » di Firenze e « Roma fascista », per la quale « la Rivoluzione ha esautorato la vecchia cultura, la vecchia cultura s’è vendicata facendo come poteva un po’ di fronda », per cui accanto alla cul­tura fascista, ancora in formazione, permaneva la cultura liberale, « vecchia, supe­rata e, se non antifascista, normalmente afascista ». Fra gli intellettuali interpellati, il contrasto tra le due culture è recisamente negato da Gentile, e per un contatto fra di esse si pronuncia anche Carlo Morandi, pur preoccupandosi di auspicare « quel libero esercizio della critica che, sinceramente professato, rappresenta la premessa indispensabile per una feconda funzione dell’alta cultura nella vita unitaria dello Stato ». Contro i docenti che politicizzano direttamente le loro materie si schierano Luigi Russo e Sebastiano Timpanaro, mentre Giaime Pintor nota che con l’invasione idealistica dell’università « non solo alcune scuole o alcuni canoni di interpretazione, ma addirittura alcune forme di pensiero sono scomparse dal nostro orizzonte culturale. Tutto quel vario rigoglio sociologico che dà ancora frutti in Francia e in America da noi non riesce a produrre un libro leggibile. (È così per quasi tutti i derivati della vecchia cultura positivistica: i nostri teorici sono passati come falciatrici meccaniche e non hanno lasciato traccia di culture estranee; tanto che quasi si desidera di vedere un sociologo o un evoluzionista sia pure confinati in una riserva di caccia) ». Ma numerosi sono gli intellettuali che notano il rinchiudersi della cultura accademica au dessus de la mêlée, come Camillo Pellizzi, Luigi Volpicelli e, con un’analisi per molti aspetti acuta, Pompeo Biondi, docente di dottrina generale dello stato presso la facoltà di Scienze politiche di Firenze: il fascismo, nato come « un movimento anti-acca­demico », egli osserva,

non rinnova l’università e la cultura dall’interno sulla base dei suoi stessi presupposti attivistici, non ne fa uno strumento vivo e attivo, e per ciò responsabile, nella vita dello Stato, non costringe la cultura a farsi azione concreta-, ma ne lascia intatto lo spirito intellettualistico che si istituzionalizza nelle linee maestre della scuola superiore, e tuttavia, proprio per i motivi ideali e polemici di cui si sostanzia, svalorizza la cultura e l’università nella cultura nazionale e le toglie ogni concreta efficacia ed ogni concreta funzione [...] L ’attivismo non crea la sua cultura, ma si trascina dietro la vecchia cultura non si sa bene se per deriderla o per venerarla, certo non per servirsene e farla servire come tale, nell’opera costruttiva della rivoluzione;

né è valso l’obbligo del giuramento dei professori, perché « l’italiano è da troppi secoli maturato dalla esperienza cattolica per non conoscere a fondo la tecnica della riserva mentale ».Così Bottai, a conclusione dell’inchiesta, non poteva far altro che registrare il distacco esistente fra la cultura e la vita politica e sociale del paese, a conferma delle preoccupazioni che aveva già avanzato precedentemente77.

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76 agostino g em elli, Orientamento e selezione nelle Università, « Gli annali della università d’Italia », ottobre 1940, pp. 18-29, e febbraio 1941, pp. 205-16.77 L’inchiesta si svolge su « Primato » dal 15 febbraio al 1° giugno 1941. Questo distacco sarà registrato da Bottai, sempre su « Primato », nell’editoriale del 15 febbraio 1943 su Gli intellettuali e la guerra-, un discorso che sarà ripreso nel numero del 15 maggio successivo, da Aldo Airoldi (iOltre una polemica), che noterà negli intellettuali « ripiegamenti interiori, spesso di natura religiosa, e revisioni critiche profonde e sostanziali; oppure, accentuati dogmatismi e fanatismi

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Questo rapido esame del dibattito sul problema universitario ci fa ritenere che, nel programma generale dell’organizzazione degli studi e della ricerca che si era venuta delineando nel periodo fascista, le università costituissero l’anello più de­bole e meno facilmente controllabile dal regime; è l’ipotesi che avanzerà con molta cautela, nel 1946, l’indagine della Commissione alleata in Italia: « le uni­versità per parecchi anni dopo l’avvento del regime, continuarono a essere accusate di essere le ultime fortezze dell’antifascismo. È però dubbio che esse fossero veramente qualche cosa di così ben definito e rivoluzionario » 78. Il fatto stesso che in Italia non si verificò, come in Germania dopo il 1933, una emigrazione di intellettuali di un qualche rilievo, se non tardi, con la legislazione antiebraica del 1938, fa propendere per l’ipotesi che, nel complesso, il corpo docente e quindi un vasto ventaglio degli indirizzi culturali dell’università durante il ventennio non subirono drastici mutamenti. Ma la verifica è, ripetiamo, assai difficile, anche perché gli atti ufficiali delle varie università, come gli annuari, non ci presentano che la loro facciata fascista. Sarebbe ad esempio assai interessante ricostruire l’iter che portò alla maggiore realizzazione del fascismo in tempo di guerra, il codice civile del 1942, per il quale fu richiesto il parere di tutte le facoltà di giurisprudenza, in modo da verificare l’affermazione, abbastanza diffusa tra gli studiosi, che i giuristi riuscirono a impedire o a smussare la tendenza a fare del codice l’espressione dell’ideologia corporativa79.Si può comunque affermare che, rispetto allo studio sull’università di Torino, una ricerca in corso sull’università di Firenze presenta un’immagine più frastagliata in cui, se moltissime sono le ombre, non mancano spiragli di luce, dal momento che ancora nel 1934 il rettore Bindo De Vecchi auspicava un rinnovamento del­l’università, in modo che « sia messa in grado di marciare al passo con la vita del paese, inspirandosi alle esigenze del periodo storico nel quale noi tutti dob­biamo operare » m. Di impronta più marcatamente fascista appare la facoltà di Scienze politiche inaugurata nel 1938 sul tronco dell’Istituto «Cesare Alfieri», nella quale Pompeo Biondi, che abbiamo già visto intervenire nell’inchiesta di «Primato», nei suoi scritti, «come nei corsi e nei seminari», «precisa, in sede teorica, e in ordine a concreti problemi legislativi e di politica internazionale, l’idea di una società corporativa che imposti e risolva in senso umanistico il pro-

e difese ad oltranza delle proprie posizioni », per concludere che « rimane aperto anche per la politica moderna il problema di cercare e di fare un posto adeguato alla ragione ».71 La politica e la legislazione scolastica in Italia, cit., p. 270.79 « Da un canto — ha scritto Rosario Nicolò — premevano confuse istanze politiche chevolevano fare del codice una espressione delle ideologie fasciste, aderente a quella che si quali­ficava la concezione corporativa dello Stato e dell’economia, dall’altro si facevano valere esigenze tecniche che postulavano la necessità di un armonico collegamento dello spirito della codificazione di diritto privato con i valori della nostra tradizione giuridica e attraverso le quali si volevano evitare eccessi e salti nel buio. I giuristi italiani [...], nella loro grande maggioranza, si valsero della loro educazione culturale e della loro esperienza tecnica per impedire che prevalessero, nella riforma della materia patrimoniale, ideologie politiche [...], mantenendo il codice in quelle posizioni di cauto rinnovamento che erano emerse prima e comunque indipendentemente dalla dottrina fascista » (Codice civile, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffré, 1969, pp. 245-46). Sconfessa invece « la favola di una codificazione del 1942 puramente tecnica, dotta e neutrale », paolo ungari, Storia del diritto di famiglia, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 229; di diverso avviso è Stefano rodotà, Calamandrei Piero, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto del­l’Enciclopedia italiana, 1973, voi. XVI, p. 409: « la partecipazione di alcuni giuristi fu il modo attraverso il quale si riuscì a spuntare (o a limare) gli aculei ideologici della più ambiziosa opera legislativa concepita dai regime fascista ».!0 Università degli studi di Firenze, Annuario per l’anno accademico 1934-1935, Firenze, 1935, pp. 7-8. La ricerca in corso è affidata a Laura Tinti e a Maria Dina Tozzi.

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blema sociale nella struttura organica e funzionale di uno Stato del lavoro » 81. Più variegata appare Giurisprudenza che, pur affermando di « considerare le di­scipline giuridiche oltre che per il loro valore puramente scientifico, per il loro valore di strumenti essenziali nella disciplina concreta della vita sociale, secondo le finalità poste come scopi statali dal Regime fascista » 82, accanto alla figura di Gino Arias, uno dei maggiori teorici del corporativismo, preside della facoltà nel 1930-36 e docente di diritto corporativo e di economia corporativa, annovera il nome di Piero Calamandrei, a suo tempo legato a Salvemini e che il 3 settem­bre 1943, assumendo la carica di rettore quando Firenze non era ancora liberata, riconosceva a Giulio Chiarugi, primo rettore dell’università, il merito di aver insegnato « che per lasciar profonda traccia nel campo della scienza vale la pro­fonda disciplina che sorge dalla coscienza morale, non le formule comandate di una costrizione caporalesca; e che il lavoro del vero scienziato, come quello del vero artista, ha in se stesso il suo premio, senza bisogno di esterni riconoscimenti di cui sia prezzo l’avvilimento servile » 83; o il nome del cattolico Giorgio La Pira, docente di diritto romano, la cui ricerca mira « a mostrare come la giurisprudenza romana (sotto gli influssi del cristianesimo) seppe offrire al mondo posteriore certe categorie fondamentali del diritto fondate sul < diritto naturalo »; per cui « l’utilità di queste ricerche — che importano, naturalmente, richiamo alle dottrine greche sul diritto naturale (Platone, Aristotele) — è grande in questi periodi di sbanda­mento per i giuristi: perché si tratta di tenere saldi alcuni punti essenziali di riferimento (persona, libertà, proprietà ecc.) che una affrettata meditazione con­temporanea cerca di scardinare dall’ordine del diritto » 84. E mentre a Magistero insegna Ernesto Codignola, animatore di imprese culturali come « Civiltà mo­derna » e la casa editrice La Nuova Italia, attorno alle quali si raccolsero nu­merosi antifascisti, abbastanza impermeabile al fascismo appare, in una conti­nuità di rigore scientifico con l’Istituto di studi superiori, la facoltà di Lettere e Filosofia, dove accanto alla interpretazione élitaria della storia romana fornita da Guido Giannelli, circolava l’apertura europea di un filologo come Giorgio Pasquali, e fra i vari firmatari del manifesto Croce figuravano Francesco De Sarlo, fino al 1934 docente di filosofia teoretica, che al VI Congresso nazionale di filo­sofia del 1926 aveva parlato su L ’alta cultura e la libertà richiamandosi ad An­tonio Labriola, o Ludovico Limentani, fino al 1938 docente di filosofia morale, nella cui opera è ravvisabile 1’« esaltazione, sul piano politico-sociale, del diritto ad esistere di ogni spinta ideale, che scenda a collaborare sul piano della concreta discussione con le altre idealità » 8S.Non mancano testimonianze di atteggiamenti antifascisti anche in altre università. Nella facoltà di Economia e Commercio di Bologna il docente comunista Paolo Fortunati fondò nel 1942, nell’Istituto di statistica, il « Gruppo intellettuali An­tonio Labriola», al quale partecipò anche Galvano della Volpe86. «All’università di Padova — ricorderà Rossana Rossanda Banfi — l’aria profonda di fronda spirava non solo dalle lezioni di Concetto Marchesi, il cui impegno politico era scoper­

81 R. Università degli studi di Firenze, Attività scientifica nel triennio 1938 XVI - 1940 XVIII, Firenze, 1942, pp. 152-53.82 Ibid., p. 123.83 p. Calamandrei, Lettere, cit., t. I, p. 321.84 R. Università degli studi di Firenze, Attività scientifica nel triennio, cit., p. 126.85 Si veda in generale E. Garin, Un secolo di cultura a Firenze da Pasquale Villari a Piero Calamandrei (1959), ora in La cultura italiana tra ’800 e ’900, Bari, Laterza, 1963, pp. 77-101, e in particolare, per il giudizio su Limentani, e . garin, Il pensiero di Ludovico Limentani, « Rivista di filosofia », 1947, p. 199.86 Cfr. la testimonianza di Paolo Fortunati in l u ig i bergonzini, La Resistenza a Bologna, Testimonianze e documenti, voi. I, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1967, pp. 310 sgg.

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to [...], ma perfino dalla <religione delle lettere) di Valgimigli, che, parlandoci dei portici di Bologna e di Severino Ferrari, tracciava ogni giorno l’immagine d’un’altra Italia. Perfino dalle lezioni su Tucidide di Aldo Ferrabino. Il rischio che alcuni di noi corsero allora non fu quello di diventare fascisti, ma di salvarsi l’anima per sempre nella aristocrazia degli studi » 87. In realtà la lezione di Marchesi, quale appare ad esempio dalla sua fortunata Storia della letteratura latina (1925-27), era tale da suggerire continue riflessioni sul presente, come ricorderà Giorgio Amendola che, dopo averla letta in carcere con « diletto e profitto », ritenne utile farne acquistare una copia dalla biblioteca dei confinati di Ponza, perché nette erano le allusioni politiche in un’opera in cui appare tra i prota­gonisti « l’attore di un immenso e incompiuto dramma storico, il pauper plebeius atque proletarius » 88. L’antifascismo dei docenti e degli studenti dell’università di Padova ebbe modo di manifestarsi anche dopo il breve rettorato di Marchesi (settembre-novembre 1943); ne è testimone la stampa repubblichina, che lamentava come « questi professori vanno ripetendo ancora che la guerra è una infamia, quando è fatta dallTtalia o dalla Germania, è stata un gran bene quando era fatta dagli Inglesi e Francesi elargitori di libertà disinteressata a tutti i popoli. Così in quattro anni di guerra non una parola di giustificazione o di incitamento è stata detta ai giovani » 89. Proprio gli studenti diffusero nella notte precedente l’8 feb­braio 1944 — ricorrenza dell’insurrezione del 1848 — un manifesto clandestino in cui si affermava che « fascismo è improvvisazione maldestra, incompetenza presuntuosa, ignorante vaniloquio, goffo istrionismo, laddove Università è sforzo continuo di perfezione, preparazione indefessa, faticosa conquista, sobrietà vigilata, selezione severa » 90. Perciò nel 1945 un manifesto del Comitato universitario di liberazione poteva affermare che il fascismo ebbe sempre l’università « in dispet­toso sospetto: sia ricordato a nostro onore » 91. Così, mentre l’Università cattolica manteneva, attraverso le parole di padre Gemelli, un atteggiamento decisamente conformistico92, alla Statale di Milano già nel 1934 « Banfi rappresentava col suo magistero, la difesa del libero pensiero e delle nostre speranze di antifascisti», ricorderà una sua allieva, che nelle lezioni del filosofo aveva trovato « un invito costante, a ricercare nell’ambiente democratico e costituzionale della borghesia illuminata olandese, la tolleranza dei culti, il rispetto per il popolo d’Israele, la libertà di coscienza e la dignità socratica della creatura umana » 93. E, mentre 07

07 La generazione degli anni difficili, cit., p. 241.88 Per la figura di Marchesi cfr. e . franceschini, Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto, Padova, 1978, e la mia voce in franco andreucci - tommaso detti, Il mo­vimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, Roma, Editori Riuniti, 1977, voi. III.89 « Regime fascista », 26 gennaio 1944, cit. da anonimus, L ’università di Padova durante l’occupazione tedesca, II ediz. con aggiunte, Padova, Zenocco, 1946, p. 28.90 Università degli studi di Padova, Annuario per l’anno accademico 1945-46, Padova, 1946, p. 14.91 anonimus, op. cit., p. 253.92 Tale almeno risulta, ad es., dal discorso inaugurale per l’anno accademico 1938-39 su Cattolicismo e italianità nell’educazione universitaria', « debbo essere un italiano del mio tempo, ossia di questa Italia alla quale il fascismo ha ridato la missione di esercitare nel mondo la sua opera civilizzatrice e della quale il duce ha fatto strumento efficace per portare in questa Europa turbata e sconvolta, la pace della giustizia » (in a. g em elli, Idee e battaglie per la coltura cattolica, Milano, 1940, pp. 188-189). Sul conformismo della Cattolica insiste p . ranfagni, 1 clerico fascisti. Le riviste dell’Università Cattolica negli anni del regime, Firenze, 1975; di « limiti del consenso » verso il fascismo ha parlato invece Giorgio r u m i, Padre Gemelli e l’Università Cat­tolica, in aa.vv., Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici nel ’900, a cura di Giuseppe Rossini, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 288, e in questo senso è orientato, nell’analisi della Fuci e del Movimento laureati cattolici, renato moro, La for­mazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna, Il Mulino, 1979.93 o. abate, Cronaca di una universitaria (1939-1945), Firenze, 1967, p. 10.

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alla vigilia della guerra Banfi fondò una Società filosofica che fu luogo d’incontro con intellettuali cattolici antifascisti94, nel 1940 egli dava vita, con Remo Cantoni e Giulio Preti, a quegli « Studi filosofici » che, reagendo al conformismo culturale e aprendo le loro pagine alla fenomenologia, all’esistenzialismo, al neopositivismo, alla filosofia nord-americana, si richiamavano a un Hegel liberato da schemi idea­listici per « approfondire all’estremo il processo della sinistra hegeliana » 9S; esplicite erano del resto le « parole d’introduzione » alla rivista:

l’opera comune esige necessariamente alcuni princìpi comuni. E il primo di essi è il riconoscimento dell’essenziale natura scientifica, e perciò razionale, del sapere filosofico, a cui nulla è più estraneo di intenzioni edificanti, se non si tra tti di quella che è la vera edificatrice intenzione del filosofo: l’amore e il coraggio della verità; e a cui nulla è più ripugnante di contaminazioni tra l’ordine delle idee e l’ordine dei valori e di fini pratici particolari. 11 secondo principio è quello del carattere antidogmatico — critico e dialet­tico — di tale razionalismo filosofico, per cui esso costituisce una sistemazione aperta in cui si ordina e si integra l’esperienza tutta. La filosofia vuol essere sapere razionale del­l’esperienza senza schematizzazioni o prospettive parziali pragmatiche o metafisiche, senza irrigidimenti intellettualistici o graduazioni valutative, in un processo di infinita costruzione.

Anche la Scuola Normale di Pisa, sotto la direzione di Gentile, potrà apparire un tempio di « libertà » dove, nonostante l’allontanamento d’autorità del suo se­gretario Aldo Capitini, che aveva maturato un antifascismo dall’intensa carica religiosa96, si poteva sfuggire al provincialismo culturale attraverso i contatti con intellettuali come Calogero, Russo, Cantimori, Luporini97. Luigi Russo, che ne sarà rettore dopo la liberazione — e che, è necessario ricordare, farà propria l’antitesi crociana fra cultura e fascismo — parlerà di Pisa come di una « città- rifugio » nella cui università « non si parlava di politica dalla cattedra, per rispetto allo stesso ministero scientifico, che non patisce ibridismi di propaganda: ma la chiarezza e la severità nel campo scientifico si estendeva necessariamente anche nel campo politico » ; e dirà che per Gentile la Scuola Normale era stata « la sua innocenza», perché «durante la sua direzione, era diventata il covo dell’antifa­scismo più persuaso e più consapevole » 98: un giudizio che un altro ex-gentiliano, Delio Cantimori, farà proprio ".Marchesi e Curiel, Russo e Cantimori: due valutazioni opposte di un uomo e di un’esperienza culturale da parte di intellettuali antifascisti se non addirittura uniti sotto la stessa bandiera politica, ma la cui formazione culturale aveva seguito itine­rari diversi. Il 15 aprile 1944, se politicamente segnò la rottura con un nemico con il quale non era più possibile la collaborazione o la concordia, sul piano cul­turale aprì un periodo di nuove discussioni, a volte di contrasti, che saranno alimentati dall’incontro della cultura accademica — nella quale spesso, quando non accettò i dogmi del fascismo, « l’indifferenza politica e morale divenne il gelido manto della dottrina » 100 — con la cultura maturata nelle carceri o nell’esilio.

GABRIELE TURI

54 Ibid., p. 20. Un testimone di parte cattolica ricorderà — ma senza specificare l’università frequentata — che la tesi di laurea lo portò « a contatto con un pensiero ricco di umanità e cristianamente intenso » (Autobiografie di giovani del tempo fascista, Brescia, Quaderni di « Huma- nitas », 1947, p. 83).95 Cfr. E. Garin, Antonio Banfi e « studi filosofici », in Intellettuali italiani del X X secolo, cit., pp. 241-264.96 Cfr. aldo capitini, Antifascismo tra i giovani, Trapani, 1966, pp. 26-34.97 Cfr. la testimonianza di Mario Pomilio in La generazione degli anni difficili, cit., pp. 210-211.98 LUIGI ru sso , L ’Università di Pisa riaperta (discorso inaugurale del 25 novem bre 1944), in De vera religione, cit., pp. 35 e 41.99 delio cantimori, Per il 150° anniversario di fondazione della Scuola normale, « Belfagor », 1963, pp. 720-721.100 c. m archesi, Fascismo e università (1945), ora in Umanesimo e comuniSmo, cit., p. 326.