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LA FUNZIONE PARLAMENTARE ATTRAVERSO LA CASISTICA DEL DOTT. GIUSEPPE SERIO EMAIL: [email protected] 1 RELAZIONE PRESENTATA AL SEGUENTE CONVEGNO: Le immunità nel diritto interno, internazionale e comparato Perugia, 25, 26, 27 maggio 2006 Facoltà di Giurisprudenza – Aula Magna, Via pascoli, 33 ******* SOMMARIO 1.1. L'art. 68 della Costituzione: l'insindacabilità 1.2. 1968 - 1993: la funzione parlamentare tra incongruenze ed escamotages 1.3. La legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3 1.4. L'attività extraparlamentare: la relazione tra funzione e forme di comunicazione 1.5. La casistica Sgarbi 1.6. Il nuovo corso intrapreso dalla Corte Costituzionale 1.7. La casisitca dopo la "svolta" 1.8. L'immunità del Presidente della Repubblica: il caso Cossiga 1.9. Appendice normativa 1.10. Bibliografia

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RELAZIONE PRESENTATA AL SEGUENTE CONVEGNO:

Le immunità nel diritto interno, internazionale e

comparato Perugia, 25, 26, 27 maggio 2006

Facoltà di Giurisprudenza – Aula Magna, Via pascoli, 33

*******

SOMMARIO 1.1. L'art. 68 della Costituzione: l'insindacabilità 1.2. 1968 - 1993: la funzione parlamentare tra incongruenze ed escamotages 1.3. La legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3 1.4. L'attività extraparlamentare: la relazione tra funzione e forme di comunicazione 1.5. La casistica Sgarbi 1.6. Il nuovo corso intrapreso dalla Corte Costituzionale 1.7. La casisitca dopo la "svolta" 1.8. L'immunità del Presidente della Repubblica: il caso Cossiga 1.9. Appendice normativa 1.10. Bibliografia

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SOMMARIO: 1.1. L'art. 68 della Costituzione: l'insindacabilità. – 1.2. 1968 -1993: la funzione parlamentare tra incongruenze ed escamotages. - 1.3. La legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3. – 1.4. L'attività extraparlamentare: la relazione tra funzione e forme di comunicazione. - 1.5. La casistica Sgarbi. - 1.6. Il nuovo corso intrapreso dalla Corte Costituzionale. - 1.7. La casisitca dopo la "svolta". – 1.8. L'immunità del Presidente della Repubblica: il caso Cossiga. - 1.9. Appendice normativa. – 1.10. Bibliografia. 1.1. L'art. 68 della Costituzione: l'insindacabilità.

I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l'ordine di cattura. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione una membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile.

(Testo previgente)

I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.

(Testo vigente)

Primario rilievo, tra le prerogative di diritto interno, assume la c.d. "immunità

parlamentare", riconosciuta dall'art. 68 Cost. ai membri delle Camere al fine di tutelare l'indipendenza del Parlamento e dei singoli deputati, garantendo a costoro la possibilità di evitare e subire procedimenti dal carattere obiettivamente persecutorio. Vigente l'originario art. 68 Cost., l'immunità veniva distinta in tre fattispecie: l'insindacabilità, prevista dal primo comma, a tutela delle opinioni espresse e per i voti dati nell'esercizio della funzione parlamentare; l'immunità in senso stretto, consistente nel divieto di sottoposizione a procedimento penale senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza, come indicato dal secondo comma, e, in chiusura della norma, l'immunità dagli arresti e dalla perquisizioni. Dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 1993 ed il conseguente venir meno dell'istituto dell'autorizzazione a

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procedere, che copriva l'apertura del procedimento, tale distinzione non ha più ragion d'essere. Quindi, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, tendono ad individuare nell'art. 68 Cost. due diversi tipi: l'insindacabilità o irresponsabilità prevista dal primo comma e la inviolavilità o immunità dettata, invece, dal secondo e terzo comma della norma.

Nessun dubbio, allora, si pone sui profili che differenziano tali prerogative: l'insindacabilità opera, infatti, sul piano del diritto penale sostanziale, a carattere assoluto e permanente con efficacia preclusiva non soltanto nei confronti del giudice penale, ma anche civile e amministrativo1, a prescindere dal mantenimento della carica di parlamentare; l'immunità, invece, operante unicamente sul piano processuale, a carattere relativo e temporaneo quale mera condizione di procedibilità, destinata a cessare col la fine della legislatura2.

Se è pur vero che le "immunità parlamentari" generalmente intese non sono una garanzia posta a tutela della persona del singolo, bensì costituiscano una difesa della posizione costituzionale delle Camere nel loro complesso3, al contempo, è lapalissiana la profonda diversità tra insindacabilità ed immunità.

Il venir meno, infatti, dell'autorizzazione a procedere, che in precedenza riguardava ogni procedimento penale, a seguito della legge costituzionale 29 ottobre n. 3, ha indotto gli organismi parlamentari ad un uso eccessivo delle deliberazioni di insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati dai parlamentari, a tal punto che il problema della determinazione dell'ambito di applicazione del primo comma dell'art. 68 Cost. ha reso ancor più attuale la necessità di individuare con precisione il modus operandi dell'istituto de quo4.

1 Corte cost., 23 luglio 1997, n. 265, in Giur. cost., 1997, p. 2438, dove la Corte ha ulteriormente ribadito che la prerogativa costituzionale, diretta a garantire la libera espressione delle opinioni manifestate nell'esercizio delle funzioni del parlamentare, si riferisce non solo alla responsabilità penale, ma anche a quella civile, come a qualsiasi altra forma di responsabilità diversa da quella che può essere fatta valere nell'ambito dell'ordinamento interno della Camera di appartenenza […] una tale regola di limitazione della responsabilità (o della possibilità di farla valere in giudizio, che non è, in definitiva, cosa diversa) è dettata non solo a tutela della libertà di espressione del singolo membro delle Camere, ma a tutela, attraverso questa, della piena libertà di discussione e di deliberazione delle Camere stesse, e in definitiva a "tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari. 2 Sulla distinzione tra immunità sostanziale e processuale si veda A. PAGLIARO, voce Immunità (diritto penale), in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 218. 3 Corte cost., ord., 8 maggio 1998, n. 177, in Giur. cost., 1998, pp. 1478 ss. Sebbene una siffatta impostazione abbia prodotto un generale consenso, molto più problematico è apparso l'inquadramento, dal punto di vista del diritto penale, della citata norma. Si è cercato di accostare l'istituto alle cause di esenzione dalla giurisdizione ovvero alle cause di giustificazione (Cfr. M. MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 1979, p. 736), ma in generale è sembrato più coerente con i caratteri peculiari dell'irresponsabilità dare sfogo all'elemento meramente oggettivo, impedendo cioè la qualificazione del fatto come antigiuridico (Cfr. M. MORETTI, Sui limiti delle immunità parlamentari, in Giur. cost., 1976, pp. 765-768; F. POSTERARO, voce Prerogative parlamentari, in Enc. giur., vol. XXIV, Roma, 1991, p. 4). 4 T. MARTINES, Diritto parlamentare, Milano, 2005, p. 60: "È qui preliminarmente da notare che la medesima garanzia, a norma dell'art. 124, quarto comma, Cost. si estende anche ai consiglieri regionali, a conferma del principio che vuole i componenti delle assemblee rappresentative della sovranità popolare esenti da responsabilità nell'ambito del loro mandato politico, in modo da assicurane l'indipendenza, sottraendoli ad ogni forma di condizionamento o di metus". Al riguardo cfr. Corte dei Conti, 21 gennaio 2004, n 30, in Il Merito-Il Sole 24 Ore, 2004, 5, p. 105, con nota di Attanasio; Cass., sez. V, 4 dicembre 2002, in Dir. e giustizia, 2003, p. 43; Corte cost., 23 marzo 2001, n. 76, in Foro it., 2001, I, p. 1438, con nota di Romboli; Corte cost., 22 ottobre 1999, n. 391, in Giur. costit., 2000, p. 3043, con nota di Duranti; Corte cost., 27 novembre 1998, n. 382,

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La mancanza di un univoco punto di riferimento normativo ha stimolato una esponenziale crescita sul piano statistico dei casi in cui è stata invocata l'insindacabilità ex art. 68 Cost., e il vivace dibattito sull'argomento si è concentrato, da un lato, sugli aspetti inerenti l'individuazione dell'autorità competente a decidere circa l'applicazione della prerogativa e dell'estensione da riconoscere alla nozione di "opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni" e, dall’altro, alla affannosa ricerca del concetto di funzione parlamentare.

Nel corso dei decenni sul significato della predetta norma sono fiorite le più diverse interpretazioni, ciascuna delle quali ha subito successivamente critiche e obiezioni. Uno dei punti attorno ai quali si è maggiormente sviluppato il dibattito è stato ovviamente quello relativo all'ambito di operatività della prerogativa dell'insindacabilità e, cioè, quali atti possano essere ricoperti da tale garanzia. Il ventaglio delle opinioni è stato assai variegato ed articolato, ma può forse essere ricondotto ad una tripartizione5: una tesi restrittiva, una estensiva ed una intermedia.

La cd. tesi "restrittiva" fonda la proprie giustificazioni sul cd. "elemento spaziale". Secondo tale orientamento una determinata opinione che, ipoteticamente, concretizzasse una fattispecie delittuosa, come per esempio la diffamazione, per essere coperta da insindacabilità doveva verificarsi non soltanto nell'ambito del parlamento, ma doveva avere un legame con le tipiche funzioni connesse alla carica, come, ad esempio, i lavori dei gruppi parlamentari, i dibattiti in aula, la presentazione o illustrazione di interrogazioni, interpellanze, mozioni, ordini del giorno, proposte di legge ecc., a cui si aggiungevano attività extra moenia quali le missioni6.

Alla tesi restrittiva si è sempre contrapposta una visione diametralmente opposta, secondo la quale sarebbero coperti da insindacabilità tutti gli atti, parlamentari ed extraparlamentari, compiuti da un deputato o da un senatore nell'esplicazione dell'attività politica7.

Tali teorie, come detto tra loro opposte, negli ultimi anni sono state superate da una concezione dell'art. 68, primo comma, Cost., che, senza estremizzazioni, ha cercato di trovare una soluzione interpretativa capace di conciliare l'esigenza di evitare odiosi privilegi alla classe politica con la preoccupazione che la funzione parlamentare possa essere liberamente esercitata. Tale orientamento, comunemente denominato come "teoria

in Giur. costit., 1998, p. 3310, con nota di Cuocolo; Corte cost., 20 dicembre 1994, n. 432, in Giur. costit., 1994, p. 3801, con nota di Long; P. Trento, 18 novembre 1985, in Foro it., 1986, II, p. 327; Corte cost., 20 marzo 1985, n. 69, in Cass. pen., 1985, p. 1758, con nota di Pitruzzella. 5 C. MARTINELLI, L'insindacabilità parlamentare, Milano, 2002, p. 21; connessa a tale tesi ricostruttiva è l'opinione secondo la quale vengono ricoperti dalla garanzia dell'insindacabilità le riproduzioni, a mezzo stampa, di atti parlamentari tipici. Taluni autori caldeggiano tale orientamento, più che attraverso l'interpretazione della citata norma costituzionale, mediante il richiamo agli artt. 30 e 31 del Regio Editto n. 695 del 1848, la cd. Legge sulla stampa, che garantisce a chiunque la non perseguibilità per la riproduzione di atti parlamentari. Al riguardo si veda nel proseguio il caso relativo all'On. Cottone, in Atti Camera, V Leg., Doc. IV n. 11 A. 6 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico9, tomo I, Padova, 1975, p. 492. 7 E. CAPALOZZA, L'immunità parlamentare e l'art. 68, comma 1 della Costituzione, in Scritti giuridico-penali, Padova, 1962, p. 115, dove l'A. afferma che le funzioni del parlamentare non possono certo esaurirsi né nel ristretto ambito degli atti tipici, né, a maggior ragione, nei soli luoghi qualificabili come intra moenia. Così dovrebbero rientrare sotto l'egida di tale garanzia il comizio, l'intervista, gli incontri con gli elettori, la cura del collegio elettorale ecc.

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del nesso funzionale"8, afferma che la prerogativa dell'insindacabilità si applichi non soltanto agli tipici parlamentari, ma, anche, a quei comportamenti strettamente connessi alla funzione parlamentare, per i quali sia riscontrabile un nesso tra l'attività e le funzioni che il membro delle Camere è chiamato a svolgere.

Proprio il concetto di "funzione", sotto il profilo del labile confine tra insindacabilità e sindacabilità, tra lecito ed illecito, sarà oggetto del presente lavoro attraverso una esposizione di casi realmente verificatisi e certamente non esaustiva diretta ad evidenziarne l’evoluzione, senza con ciò dimenticare che, recentemente, il legislatore ha tentato di creare strumenti difensivi certamente non esaustivi, ma anzi diretti ad assicurare alle cd. alte cariche dello Stato ampie zone di garanzia . Ciò è avvenuto con la legge n. 130 del 20049, che ha dato adito ad una politica costantemente orientata all’immunità – per non dire all’impunità10 – incurante della linea di confine propria di una garanzia giustificata dall’esercizio indipendente della funzione che, si sottolinea, una legge ordinaria e non costituzionale, ha preteso di travalicare.

E’ possibile, allora, ricostruire alcuni momenti significativi che ben mettono in evidenza le tappe più importanti che hanno segnato il percorso compiuto dal Parlamento nel definire i tratti essenziali entro i quali far rientrare la garanzia prevista dal primo comma dell’art. 68 della Costituzione.

1.2. 1968 - 1993: la funzione parlamentare tra incongruenze ed escamotages.

Il nucleo principale delle vicende che di seguito si analizzeranno è costituito da una serie di casi in cui erano state riprodotte all’esterno dal parlamentare di opinioni già manifestate all’interno della Camera di appartenenza attraverso discorsi, interrogazioni, interpellanze e di quanto fosse riconducibile alla tipica attività parlamentare.

Il primo caso che di seguito ci si accinge a commentare è, probabilmente, l'unico che rispecchi l'interpretazione dettata dai fautori della cd. tesi restrittiva, capeggiata dal Mortati, il quale riteneva che la garanzia dell'immunità fosse applicabile soltanto alla semplice riproduzione all'esterno di una opinione espressa intra moenia, perché la divulgazione da parte della stampa di quella opinione costituiva manifestazione della libertà di informazione11. La prima decisione, e forse, l'unica in tal senso risale alla V legislatura: il caso Cottone12.

La questione riguardava una richiesta di autorizzazione a procedere avanzata alla Camera dal giudice penale a seguito di querela per diffamazione, presentata a carico del parlamentare Benedetto Cottone, da un professore di scuola

8 La teoria del cd. nesso funzionale era già stata intuita negli anni '50. Al riguardo si veda P. STELLACCI, Problemi nuovi sulle immunità dei membri del Parlamento, in Giust. pen., 1951, pp. 68-77. 9 Tale legge è consultabile nella appendice normativa. 10 L. CARLASSARE, Responsabilità giuridica e funzioni politico-costituzionali: considerazioni introduttive, in Diritti e responsabilità dei soggetti investiti di potere, Padova, 2003, p. 4, dove, inoltre, si afferma che la suddetta legge opera da un lato trasformando la garanzia in privilegio personale esteso all’attività privata senza più riferimenti al nesso funzionale; dall’altro ampliando l’area dei destinatari fino ad includere nella zona protetta figure istituzionali per le quali la Costituzione ben altro aveva disposto. 11 C. MORTATI, op. cit., p. 492. 12 In Atti Camera, V Leg., Doc. IV n. 11 A.

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secondaria. Quest’ultimo si era sentito gravemente diffamato da un articolo, apparso sulla prima pagina di un quotidiano locale, che riproduceva, senza alcuna nota di commento, i contenuti di una interrogazione parlamentare presentata al Ministro della Pubblica Istruzione, nella quale si criticavano fatti accaduti nell'istituto di cui il querelante era preside. La Camera in quell'occasione, restituendo, come prassi, gli atti all'autorità giudiziaria, giudicò che i fatti rientrassero, non già sotto l'egida dell'art. 68, secondo comma, della Costituzione, bensì nella più ampia tutela offerta dall'articolo 68, primo comma13.

La Camera reputò, infatti, che nonostante l'interrogazione parlamentare risultasse

utilizzata ai fini, evidentemente, ricollegabili più alle esigenze del dibattito politico che non a quelle proprie della dialettica parlamentare, non si potesse ugualmente negare al deputato la più ampia garanzia dell'insindacabilità. Ciò proprio in considerazione del fatto che le opinioni ed i giudizi contestati trovavano, in ogni caso, la loro origine naturale in atti sicuramente parlamentari, rispetto ai quali la maggiore, pubblicità ad essi riservata attraverso la pubblicazione su un organo di stampa, doveva considerarsi, oltre che lecita, assolutamente conforme ai principi costituzionali. Il richiamo era puntualmente riferito agli artt. 30 e 31 del Regio Editto, 26 marzo 1848, n. 695, ritenuti allora vigenti14.

Le motivazioni richiamate dalla giunta per le autorizzazioni a procedere nella relazione presentata all'assemblea furono le seguenti:"Non si può attribuire in nessun modo all'On. Cottone altro fatto diverso da quello della presentazione di una interrogazione. Infatti la pubblicazione di un atto parlamentare, quale una interrogazione, è assolutamente lecita e non può di per sé dar luogo ad imputazione (articolo 30 del regio editto 26 marzo 1848 n. 695, sulla libertà di stampa tutt'ora in vigore); talché non si può privare l'On. Cottone di quella situazione poziore che deriva direttamente dall'articolo 68, primo comma, della Costituzione e da cui discende la sua assoluta non punibilità da riconoscersi in ogni tempo ed a prescindere dalla permanenza o meno nella carica che attualmente egli ricopre".

Nel caso di specie, rispetto alla atipicità del luogo (giornale locale) venne in rilievo la tipicità dell’atto, cioè l'interrogazione parlamentare. Tale interpretazione dava una

13 Tale escamotage aveva una giustificazione procedurale molto chiara. Dinanzi ad una autorizzazione a procedere le giunte competenti non entravano neppure nel merito della richiesta, bensì si limitavano a proporre all'Assemblea di restituire gli atti, tramite il Ministro di Grazia e Giustizia, all'Autorità giudiziaria. La ragione di questa prassi si spiegava con l'assunto che gli organi parlamentari non possono essere chiamati a deliberare su richieste che non avrebbero mai dovuto pervenire loro, poiché avrebbe dovuto essere la stessa Autorità richiedente ad applicare la prerogativa evitando, di conseguenza, l'apertura di un procedimento penale per fatti coperti da immunità che esclude l'antigiuridicità del fatto. Cfr. C. MARTINELLI, op. cit., p. 33. Più chiara sembra essere la spiegazione data al riguardo da T. MARTINES, op. cit., p. 63, dove l'A. afferma: " [Attraverso tale funzione] le Camere hanno fatto rientrare nell'esercizio del mandato parlamentare coperto dalla guarentigia dell'insindacabilità comportamenti che non si possono, in alcun modo ad esso ricondurre (grida, manifestazioni sediziose, l'apologia di reato, disturbo di una riunione elettorale, la bestemmia, il blocco stradale) e che attengono più latamente ad una attività impropriamente qualificata come collegata al mandato parlamentare". 14 Cfr. Regio Editto, 26 marzo 1848, n. 695, art. 30: "Non potranno dar luogo ad azioni, la pubblicazione di discorsi tenuti al Senato e alla Camera dei Deputati, le relazioni o, comunque, qualunque atto scritto stampato per ordine delle medesime"; art. 31: " Non darà neppure luogo ad azione il rendiconto esatto, fatto in buona fede, della discussione del Senato o della Camera dei Deputati".

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lettura forse troppo ristretta della garanzia dettata dalla Costituzione, laddove si escludevano tutte quelle opinioni che non fossero caratterizzate da un rapporto di identità, oggettiva e soggettiva con un tipico atto parlamentare. La giustificazione di fondo, presente, anche, in successive deliberazioni, seppur in contesti diversi, era ben chiara ed il paradigma seguito fu pressocché lo stesso15. L’utilizzo, infatti, di ultronee forme di pubblicizzazione degli atti parlamentari soddisfaceva un interesse peculiare, quello cioè di una più ampia conoscenza degli stessi al di là della pubblicazione dei resoconti ufficiali indubbiamente di limitata diffusione e di non facile consultazione ad opera di quella più vasta fascia di cittadini che si collocava oltre la ristretta cerchia di specialisti.

Il dibattito sulla nozione di funzione, profetizzata negli anni '50, trovò spazio in dottrina e nella giurisprudenza parlamentare dalla metà degli anni '70 in poi. Quest'ultima, trascurando il dato relativo al legame intercorrente tra atto e luogo, cercò di "rielaborare" l’ambito di tutela offerto dall’art. 68, primo comma, della Costituzione, facendo leva sulla relazione atto-funzione o, meglio, sul "nesso funzionale", allo scopo di ricomprendere nel novero delle condotte insindacabili quelle che, pur estranee al nucleo degli atti tipici, presentassero un nesso con la funzione demandata al membro della Camera16. Lo fece, soprattutto, in una serie di sentenze di condanna pronunciate a carico di parlamentari a conclusione di procedimenti civili per risarcimento danni ovvero di procedimenti penali intentati per alcune vicende per le quali non era stata concessa l’autorizzazione a procedere. Al riguardo viene in rilievo un “caso” verificatosi nella IX Legislatura, concernente talune dichiarazioni rese dal Sen. Vitalone17.

Il fatto riguardava una richiesta di autorizzazione a procedere, avanzata dal giudice penale a a carico del Sen. Vitalone, dal giudice penale, a seguito di querela presentata da alcuni magistrati, che si erano sentiti gravemente diffamati dalle accuse mosse contro di loro dal parlamentare in un’intervista rilasciata ad un noto quotidiano nazionale. In tali dichiarazioni il senatore, anticipando i contenuti di una interpellanza, presentata al Ministro di grazia e giustizia, ma non ancora discussa, aveva espressamente denunciato la loro appartenenza ad una associazione eversiva. Il G.I. su richiesta conforme del P.M., aveva in un primo momento emesso decreto di archiviazione, ritenendo, infatti, che l’intervista in questione fosse stata il naturale svolgimento dei temi trattati nell’interpellanza parlamentare e che, quindi, rientrasse pienamente

15 Nella VIII legislatura, infatti, la giunta delle elezioni e delle immunità si trovò ad esaminare una richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del Sen. Pisanò, querelato a causa di un articolo pubblicato su un periodico. Il caso mostra spunti di particolare interesse perché la giunta riscontrò la necessità di distinguere tra due parti dello stesso articolo. Una prima parte, costituita dalla riproduzione di un atto parlamentare, ed una seconda contenente alcune considerazioni del senatore, sia pure dietro pseudonimo. Le conclusioni della giunta furono quelle per cui soltanto alla prima parte dell'articolo dovesse essere applicata la garanzia dell'insindacabilità. Cfr. Atti Senato, VII Leg., Doc. IV, n. 14 A. 16 Trib. Palermo, sez. III, 14 febbaraio 1977, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1980, p. 302, con nota di Voena. Il giudizio espresso dal vicepresidente di una commissione parlamentare d’inchiesta, in sede di conferenza stampa tenuta nella sede parlamentare, obiettivamente diffamatorio dell’altrui reputazione, può considerarsi come diritto di libertà di manifestazione del pensiero, ricollegatesi all’esercizio delle funzioni parlamentare. L’ampiezza della formula contenuta nell’art. 68 Cost. impedisce un giudizio nel merito della manifestazione del pensiero del singolo parlamentare, non dovendosi l’interprete preoccupare né che l’opinione abbia a fondamento una notizia vera, né che la notizia rivesta realmente un interesse per la collettività, né che le espressioni usate siano giustificate o proporzionate rispetto ai fatti esposti. 17 In Atti Senato, IX Leg., Doc. IV, n. 7 A.

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sotto l’egida dell’art. 68, primo comma, della Cost. I querelanti, allora, presentarono un esposto al procuratore della Repubblica, lamentando una erronea interpretazione della norma costituzionale. Questi, accogliendo la richiesta, decideva per il proseguimento del processo, avanzando la relativa richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera d’appartenenza.

La giunta per le elezioni e le autorizzazioni a procedere e, poi, l’assemblea, esaminata la richiesta, ritennero che, per quanto ampia ed articolata fosse l’intervista e per quanto anomalo fosse il rapporto temporale con la relativa interpellanza parlamentare, non si potesse negare che il Sen. Vitalone avesse agito nell’esercizio delle proprie funzioni. In particolare fu sottolineato dalla giunta come, ai fini della pronuncia, non ci si fosse richiamati ad una nozione statica di funzione, bensì ad un concetto dinamico della medesima. Una funzione ricollegata non più al solo atto parlamentare, ma ad un vero e proprio procedimento, idoneo a contenere la cd. funzione tipica del parlamentare. La rotta intrapresa dalle assemblee parlamentari superava, quindi, il previgente principio di identità oggettiva e soggettiva, poiché esse ritennero sufficiente l'esistenza di un collegamento intenso e reciproco tra le dichiarazioni rese dal parlamentare e quelle poste in essere nell’esercizio della relativa funzione. Tale interpretazione che caratterizzò la vicenda del Sen. Vitalone, si rinvenne in altri due importanti episodi riguardanti i senatori Michele Marchio18 e Raimondo Ricci.

Il Sen. Marchio in data 9 dicembre 1980 presentava una interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia riguardante il comportamento della Sezione fallimentare del Tribunale di Roma. In merito alla vicenda oggetto dell'interrogazione furono pubblicati sul quotidiano "Il Secolo d'Italia" tre articoli datati, rispettivamente, 6 dicembre 1980, 18 dicembre 1980 e 16 aprile 1981. I giudici della citata Sezione fallimentare presentarono querela solo per i contenuti dell'ultimo articolo pubblicato sul quotidiano.

A seguito di tale querela, il Senato, nella VIII legislatura, era stato investito della richiesta di autorizzazione a procedere. L'Assemblea del Senato, però, nella seduta del 19 maggio 1982, non concesse l'autorizzazione a procedere, confermando le conclusioni alle quali era pervenuta la Giunta delle elezioni e delle immunità, secondo la quale: "Mentre per le opinioni espresse al di fuori delle sue funzioni il parlamentare incontra gli stessi limiti espressivi degli altri cittadini, tuttavia non possono essere frapposti condizionamenti ed ostacoli alla espressione di opinioni che il parlamentare intenda fare a commento del contenuto di atti tipici del mandato parlamentare anche quando tale commento è espresso dal parlamentare al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni, ma in connessione e a causa dell'esercizio delle funzioni stesse"19.

Improcedibile il giudizio penale, i soggetti offesi dalle dichiarazioni del Sen. Michele Marchio intrapresero un giudizio civile per i contenuti di tutti e tre gli articoli, in conseguenza del quale, con la sentenza 19 giugno 1985, il Tribunale di Roma, sezione I civile, condannava il senatore, in solido con l'on. Giorgio

18 Corte cost., 29 dicembre 1988, n. 1150, in Giur. it., 1990, I, 1, p. 352. 19 In Atti Senato, VIII Leg., Doc. IV, n. 74 A.

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Almirante e Franz Maria D'Asaro, direttore de "Il Secolo d'Italia" al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subìti dai giudici della Sezione fallimentare20.

Nel corso della IX legislatura, che aveva visto la rielezione del Sen. Marchio, la richiesta di autorizzazione a procedere venne ripresentata. Questa volta, però, anziché confermare il precedente diniego, l'Assemblea nella seduta del 5 marzo 1986, su proposta della Giunta, deliberò che i fatti per cui era stata richiesta l'autorizzazione a procedere nei confronti del Sen. Marchio ricadevano nella prerogativa di cui all'art. 68, primo comma, Cost., e che, dato che l'effetto naturale dell'insindacabilità sanzionata per i fatti esaminati consisteva nell'irresponsabilità assoluta, cioè penale, civile e amministrativa, il procedimento civile pendente veniva necessariamente assorbito nella suddetta dichiarazione di insindacabilità.

Nel corso del giudizio di secondo grado perveniva alla Corte di appello di Roma, I sezione civile, per il tramite della Presidenza del Senato e del Ministero di grazia e giustizia, il resoconto della seduta tenuta al Senato della Repubblica il 5 marzo 1986, nella quale il Senato aveva deliberato per la non sindacabilità delle opinioni espresse dal senatore. La Corte d'appello di Roma21 ritenendo che la suddetta delibera avesse un effetto impeditivo dello svolgimento delle proprie funzioni, sollevava conflitto di attribuzione ai sensi degli art. 134 Cost. e 37 della legge n. 87 del 195322, affinché la Corte costituzionale affermasse se il potere di decidere in ordine alla sussistenza o meno della imperseguibilità stabilita dal primo comma dell'art. 68 Cost. spettasse al Senato della Repubblica ovvero alla Magistratura.

La Corte Costituzionale sancì che spettava al Senato, ai sensi dell'art. 68, primo

comma, Cost., valutare le condizioni dell'insindacabilità delle opinioni espresse dal Sen. Marchio. Nella specie, però, il modo di esercizio di tale potere non legittimava la statuizione che il procedimento civile pendente, nel quale il senatore Marchio era convenuto per il risarcimento del danno, fosse necessariamente assorbito nella deliberazione di insindacabilità. Secondo la Corte, infatti, il Senato era stato investito soltanto della cognizione dei fatti sottoposti al suo esame dalla domanda di autorizzazione a proseguire l'azione penale, cioè delle dichiarazioni del sen. Marchio pubblicate nell'articolo del 16 aprile 1981, mentre il giudizio di responsabilità civile pendente davanti alla Corte d'appello di Roma, sul quale si era spostata la valutazione conclusiva del procedimento parlamentare, concerneva inscindibilmente tutti e tre gli

20 Trib. Roma, 19 giugno 1985, n. 8275, in Giur. cost., 1987, p. 13, con nota di Zanon: "Solo l’interrogazione parlamentare e non anche il commento che l’autore di essa venga a compiere su organi di stampa, costituisce esercizio del mandato parlamentare, rientrante nella garanzia della non perseguibilità prevista dal comma 1 dell’art. 68 Cost. Il diniego dell’autorizzazione a procedere sul commento che il parlamentare abbia inteso fare alla propria interrogazione spiega i suoi effetti unicamente nel campo penale e non preclude la cognizione del fatto da parte del giudice civile agli effetti della riparazione del danno. L’attività svolta in tal senso del giudice civile non costituisce una invasione della sfera di attribuzione del Parlamento, posto che al parlamento stesso nessuna attribuzione è riconosciuta dalla Costituzione in ordine alla riparazione del danno". 21 App. Roma, 2 novembre 1987,in Foro it., 1988, I, p. 586. 22 Tale legge è consultabile nella appendice normativa.

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articoli pubblicati su "Il Secolo d'Italia" tra il 6 dicembre 1980 e il 16 aprile 1981. Per la prima volta la corte passava da una condizione di "spettatore" degli indirizzi parlamentari sul tema, a quella di interlocutore, spesso in disaccordo ed in forte polemica con il Parlamento; come vedremo, questo mutamento verrà nel tempo sempre più ad accentuarsi, fino a divenire l'emblema dei conflittuali rapporti tra il potere legislativo e quello giudiziario.

Con la sentenza n. 1150 del 1988 la Corte ha posto tre capisaldi:

I) Spetta alla Camera di appartenenza il potere di valutare se il comportamento di un proprio membro sia riconducibile alla prerogativa dell'insindacabilità. tale decisione ha, infatti, un effetto inibente nei confronti di una difforme pronuncia di responsabilità da parte dell'Autorità giudiziaria;

II) Tale potere non è arbitrario, ma deve essere correttamente esercitato; III) Nel caso in cui l'Autorità giudiziaria ritenga che così non sia avvenuto

può sollevare conflitto di attribuzioni che si presenterebbe con le caratteristiche di in conflitto per menomazione, per la contestazione dell'esercizio del potere in concreto per vizi in procedendo, ovvero per omessa od erronea valutazione dei presupposti di volta in volta richiesti.

Nel caso concreto la delibera del Senato conteneva un vizio in procedendo, poiché

il Senato non poteva spogliare, senza motivare, la Corte d'Appello di Roma del potere di ius dicere su tutti i fatti dedotti in giudizio23. Del tutto simile fu la vicenda che riguardò il Sen. Raimondo Ricci24.

Il caso prende le mosse da un’azione giudiziaria esperita dal sig. Nicola Falde contro il Sen. Raimondo Ricci e la casa editrice Marsilio editori S.p.a. al fine di richiedere il risarcimento dei danni derivanti da alcune affermazioni pronunciate dal senatore Ricci - quale relatore in un convegno dibattito organizzato a Venezia l'11 e il 12 dicembre 1983 sul tema "I poteri occulti nella Repubblica: mafia, camorra, P2, stragi impunite" - e riportate nel volume, che pubblicava gli atti del convegno, "I poteri occulti dello Stato", edito dalla Marsilio. Le affermazioni ritenute diffamatorie e calunniose dal querelante consistevano nei riferimenti ad una pretesa partecipazione del sig. Falde ad attività politico-eversiva posta in essere dalla loggia massonica P2, attività estrinsecatasi, da un lato, nella nomina del predetto, a cura dei vertici della P2 nell'ambito del c.d. "progetto per la stampa", a direttore del settimanale O.P. di Mino Pecorelli, dall'altro, nella cooperazione per la costituzione del Nuovo Partito Popolare, nell'intento di creare una nuova formazione politica da contrapporre alla Democrazia Cristiana. Il Sen. Ricci, costituitosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda, facendo rilevare che il contenuto del volume

23 La dottrina, commentando la sentenza n. 1150/1988, non mancò di evidenziare come la Corte fosse pervenuta ad una soluzione, da un lato di compromesso tra le opposte esigenze di autonomia delle Camere e tutela dell'onorabilità dei cittadini, ma dall'altro essa avesse mancato di cogliere l'occasione per una compiuta definizione dei confini interpretativi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Ex multis cfr. R. MORETTI, Nota a commento della sentenza n. 1150 del 1988, in Foro it., I, 1989, p. 328. 24 Corte cost., 16 dicembre 1993, n. 443, in Foro it. 1994, I, p. 986, con nota di Romboli.

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citato riproduceva fedelmente la relazione da lui svolta nel convegno di Venezia, al quale egli era stato invitato nella sua qualità di parlamentare e specificamente di vice-presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2; e poiché la relazione riproduceva, a sua volta, atti e documenti acquisiti dalla Commissione d'inchiesta, ne derivava la copertura della guarentigia dell'insindacabilità delle opinioni da lui espresse, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Su tali basi il convenuto formulava eccezione di improponibilità della domanda di risarcimento avanzata nei suoi confronti. Con delibera datata 6 maggio 1987 l’assemblea del Senato confermava e recepiva la decisione del 16 aprile 1987 della Giunta per le immunità parlamentari, che aveva statuìto, all'unanimità, che i fatti per i quali era stata proposta l'azione civile di danno nei confronti del parlamentare ricadevano nella prerogativa dell'insindacabilità sancita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione.

Il giudice adito25 sollevava conflitto di attribuzioni, poiché riteneva che la partecipazione ad un convegno non potesse farsi rientrare tra i compiti istituzionali del parlamentare, e, dunque, detta partecipazione non poteva essere avvenuta, in concreto, che a titolo personale. La qualità di vice-presidente della Commissione di inchiesta, inoltre, sebbene fosse stata annunciata nella presentazione del convegno, non era, dal punto di vista funzionale, la veste nella quale il Sen. Ricci aveva esposto la propria relazione e, quindi, la Camera di appartenenza aveva dato una lettura eccessivamente estensiva della disposizione costituzionale di garanzia, desumendo, in definitiva, in base al principio di identità tra i contenuti degli atti della Commissione di inchiesta e le dichiarazioni espresse nel convegno, una uguaglianza tra le dichiarazioni rese intra moenia e quelle pronunciate extra moenia. Il Senato, al contrario, optò per una interpretazione "intermedia" secondo la quale i membri del Parlamento non potevano essere perseguiti per le opinioni, anche aventi una rilevanza extraparlamentare, espresse nell'esercizio delle funzioni di deputato o senatore. La rilevanza extraparlamentare, in questo caso, era costituita dalla diffusione all'esterno di opinioni espresse durante i lavori parlamentari; diffusione che si poteva estrinsecare non solo secondo le tradizionali forme di pubblicità previste nei regolamenti parlamentari, ma, anche, attraverso la ripetizione o riproduzione a mezzo di veicoli di pubblicità più diffusa; il che si raccorda con il principio costituzionale di pubblicità delle sedute (art. 64 della Costituzione) e con l'obbligo giuridico-morale del parlamentare di rappresentare, e ,quindi, informare, la Nazione (art. 67 della Costituzione).

Il Senato concludeva, sul punto, deducendo la inesattezza dell'affermazione del Tribunale civile secondo cui la partecipazione ad un convegno non rientrasse tra i compiti istituzionali del parlamentare e, che quindi detta partecipazione fosse avvenuta a titolo personale: "È al contrario da ritenere che anche l'attività svolta fuori del palazzo parlamentare con lo scopo di diffondere i risultati dell'attività - parlamentare - compiuta, e in stretta connessione con questa, costituisca esercizio delle funzioni"26.

25 Cfr. Trib. Roma, 19 marzo 1993, in Giur. cost., 1993, p. 3653. 26 Secondo la difesa del Senato nessun dubbio si poteva nutrire sulla qualificazione dell'attività di una Commissione di inchiesta come attività parlamentare in senso proprio; a tale riguardo venivano richiamate

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La Corte ritenne che la valutazione compiuta dal Senato circa la sussistenza del presupposto della insindacabilità non fosse stato arbitrario, ma anzi plausibile, poiché il parlamentare aveva riferito all'esterno della Commissione, in un convegno pubblico, fatti e circostanze di cui era venuto a conoscenza nell'esercizio delle sue funzioni, ed aveva nel contempo manifestato i punti di vista ed i convincimenti che avevano ispirato o cui avrebbe inteso in prosieguo ispirare sull'argomento il proprio comportamento in sede parlamentare sull'argomento.

La Consulta, quindi, come già affermato nella sentenza n. 1150 del 1988, dichiarò, nel caso di specie, che spettava al Senato della Repubblica affermare l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Ricci.

Nonostante l’innovativo intervento della Consulta, a seguito della già citata sentenza del 1988, non mancarono, soprattutto ad opera della “giurisprudenza camerale”, inaspettati ritorni alle più rigorose impostazioni interpretative27. Significativo è un caso della X legislatura, riguardante il senatore Ferdinando Imposimato28.

Il caso prende le mosse da una richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal giudice penale a seguito di una querela presentata da un magistrato della Procura di Napoli. Quest’ultimo si era sentito gravemente offeso dalle dichiarazioni che il Parlamentare aveva reso ad un quotidiano nazionale, con le quali era stato accusato di aver favorito durante le indagini alcuni ex assessori regionali imputati di gravi reati contro la P. A. La Giunta per le autorizzazioni a procedere avanzò la proposta, accolta poi dall’Assemblea, di applicare la garanzia dell’insindacabilità alle sole parti dell’articolo in contestazione che risultassero “meramente e letteralmente” ripetitive di atti parlamentari, quali interrogazioni o interpellanze. L’indirizzo intrapreso dall'Assemblea risultò essere chiarissimo: affinché potesse

operare la garanzia dell’insindacabilità era necessario che le dichiarazioni del parlamentare fossero oggettivamente riconducibili agli atti tipici di funzione e che esse, in sintesi, divenissero semplicemente uno strumento di “duplicazione” verso l’esterno di quanto compiuto ed affermato intra moenia.

Nel caso di specie, l’insindacabilità poté coprire soltanto gli atti tipici della funzione parlamentare e non quelli riconducibili all’astratto concetto di attività politica.

precedenti decisioni della Corte, ed in particolare la sentenza n. 231 del 1975, osservandosi più specificamente che rientrava nella discrezionale valutazione delle Camere stabilire di volta in volta il coefficiente di segretezza dei lavori dell'organo di inchiesta, in rapporto alle finalità peculiari della Commissione istituita. 27 Cfr. Atti Camera, X Leg.., Doc. IV n. 112 A. Un caso emblematico si verificò nel corso della X Legislatura; esso riguardò un membro della Camera, l’On. Massimo D’Alema, che all’epoca dei fatti era direttore de L’Unità. Il caso riguardava la richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dal giudice penale a seguito di querela presentata dall’On. Ciriaco De Mita. L’accusa era quella di aver fatto pubblicare sul quotidiano un articolo nel quale si avanzavano pesanti addebiti all’On. De Mita e alla sua famiglia, accusati di aver sfruttato a proprio vantaggio, i fondi stanziati dallo Stato per il terremoto del 1980 in Irpinia. La Giunta per le autorizzazioni a procedere, ritenendo esistente un collegamento soggettivo tra atti funzionali posti in essere dal parlamentare e le opinioni extraparlamentari da questi espresse e non discostandosi dalla giurisprudenza camerale ante 1988, negò la concessione dell’autorizzazione a procedere. 28 Atti Senato, X Leg.., Doc. IV n. 72 A.

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Il caso Imposimato fu un caso di scuola; esso finì col rimanere un caso isolato perché di lì a poco il Parlamento si sarebbe assestato su interpretazioni assai estensive dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

1.3. La legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3. La discussione circa l'opportunità di una riforma dell'art. 68 della Costituzione cominciò già agli inizi degli anni '80, a cavallo tra l'VIII e la IX legislatura. La legge costituzionale n. 3/1993 venne improvvisamente ad alterare il delicato equilibrio che, fino ad allora, aveva guidato l’attuazione di questa norma, aprendo una lacuna nell’ordinamento a causa dell’abolizione dell’autorizzazione a procedere per ogni procedimento penale. La scomparsa di quest’ultima fece venir meno il filtro istituzionale in grado di assicurare l’attivazione delle Camere per l’esercizio del potere, ad esse riconosciuto dalla Corte costituzionale, di valutare la condotta addebitata ad un proprio membro, con l’effetto, qualora fosse stata qualificata come esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità29. La modifica non fu certamente di poco conto; infatti sulla scia dell’onda emozionale suscitata dalle vicende giudiziarie di quegli anni la riforma costituzionale avrebbe potuto bloccare l’operatività del Parlamento. L’indiscussa riprova di tale timore venne avallata dall’approvazione del D. L. 15 novembre 1993 n. 455 che, in seguito ripetutamente reiterato, per ben 18 volte sino al D. L. 23 ottobre 1996 n. 555, avrebbe dovuto assicurare che la norma costituzionale fosse accompagnata da disposizioni atte a disegnarne le modalità operative30. Solo a seguito della nota sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 199631, con la quale si dichiarò costituzionalmente illegittimo - per contrasto con l'art. 77 cost. - il decreto legge che reiterasse un precedente decreto legge per il quale non fosse intervenuta la tempestiva conversione in legge, si giunse ad un punto fermo. Il disegno di legge di conversione del decreto n. 555/1996, approvato con

29 Cfr, M. C. GRISOLIA, Immunità parlamentari e Costituzione: la riforma del primo comma dell’art. 68 Cost., Padova, 2000, p. 156. 30 Venne introdotta la cd. pregiudizialità parlamentare che, in pratica, sostituisce surrettiziamente l’autorizzazione a procedere. La pregiudizialità parlamentare prevedeva: a) L'applicabilità dell’art. 68, primo comma: il giudice procedente doveva dichiarare d’ufficio l’insindacabilità in ogni stato e grado del giudizio; b) L’art. 68, primo comma, non è immediatamente applicabile: il giudice procedente sospendeva il giudizio sine die e trasmetteva gli atti alla Camera competente, affinché questa deliberasse in merito. Se il giudice avesse condiviso la decisione poteva, comunque, sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale. L'istituto della pregiudizialità parlamentare venne rivista dai successivi decreti legge ed assunse le seguenti caratteristiche: a) Era assicurata la garanzia del contraddittorio tra le parti prima della trasmissione degli atti alla Camera di appartenenza; b) La sospensione del giudizio non poteva essere superiore ai 90 giorni; c) Al giudice veniva attribuita la facoltà di dichiarare manifestamente infondata la questione relativa all’applicazione del privilegio dell’insindacabilità ed il giudizio poteva continuare. Al riguardo si veda R. ROMBOLI, La "pregiudizialità parlamentare" per le opinioni espresse ed i voti dati dai membri delle camere nell'esercizio delle loro funzioni: un istituto nuovo da ripensare (e da abolire), in Foro it., 1994, I, p. 995 ss. 31 Corte cost., 24 ottobre 1996, n. 360, in Giust. civ.,1997, I, p. 19.

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modificazioni dalla sola Aula della Camera il 9 dicembre 1996, ha rappresentato il testo base per la elaborazione delle successive proposte di legge volte a regolare la materia32. La norma forniva, ora, una puntuale tipizzazione delle condotte riconducibili al concetto di funzione parlamentare. A norma, infatti, dell'art. 2, primo comma, della legge di conversione, veniva stabilito che l'art. 68, primo comma, Cost., dovesse essere applicato in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze, per le interrogazioni e per gli interventi nelle assemblee o negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata e per ogni altro atto parlamentare. Ed ancora, la norma estendeva tale concetto a tutte quelle attività che, pur non essendo tipiche e pur essendo poste in essere al di fuori del Parlamento, risultassero comunque attività divulgative connesse, e cioè attività volte a propagandare, nelle più diverse occasioni e con qualsiasi mezzo iniziative o posizioni politiche maturate all'interno delle sedi parlamentari. Col venir meno della decretazione d'urgenza, la Corte Costituzionale venne nuovamente chiamata a risolvere diversi conflitti di attribuzioni tra Parlamento e Autorità Giudiziaria, in relazione all'applicazione della garanzia dell'insindacabilità. Tra le questioni di maggior rilevanza tre si riferivano rispettivamente all'On. Vittorio Sgarbi, all'On. Bossi e all'On. Bargone. In realtà ad inizio legislatura erano ben tre i procedimenti cui si trovava sottoposto l'On. Sgarbi; tutti, ritenuti gravemente diffamatori, poiché il parlamentare aveva espresso delle dichiarazioni in circostanze sicuramente non istituzionali quali trasmissioni televisive ed interventi sulla stampa. Fra di esse , in particolare, un caso suscitò un certo interesse33.

Due procedimenti, uno civile ed uno penale, infatti erano stati intentati contro l'On. Sgarbi dai direttori di alcuni importanti quotidiani nazionali e dal gruppo editoriale cui essi facevano capo. Questi, in occasione di una intervista apparsa sulla stampa e di ripetuti interventi in televisione, erano stati gravemente offesi dal deputato ed esplicitamente accusati di essere stati tra gli iscritti alla Loggia Massonica P2. La vicenda prendeva le mosse da una copertina apparsa su un settimanale nazionale, nella quale il deputato si era fatto ritrarre privo di abiti. L'immagine era stata pubblicata in polemica con l'industriale Benetton (il quale a sua volta si era fatto ritrarre nudo per pubblicizzare i propri prodotti), con l'intento di richiamare l'interesse dell'opinione pubblica sul fenomeno dell'evasione fiscale, di cui il noto industriale veniva in tal modo fatto segno. Il caso, costato all'On. Sgarbi l'anticipata risoluzione del rapporto di collaborazione con le testate del gruppo Monti, veniva da questo polemicamente commentato in occasione di alcuni suoi interventi sulla stampa ed in televisione, nei quali egli, appunto,

32 In seguito alla decadenza del d.l. n. 555 del 1996, al Senato sono stati presentati i disegni di legge per l'attuazione dell'articolo 68 Cost. n. 1943 e n. 2021, mentre alla Camera le proposte n. 2939, riproduttiva del testo varato il 9 dicembre 1996, e n. 2985 recante alcune «correzioni» suggerite dall'esperienza del lavoro della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio maturata nel corso della XIII Legislatura. La proposta n. 2985, assorbita dalla proposta n. 2939, è stata approvata in testo unificato il 17 febbraio 1999 e poi trasmessa al Senato, ove con il n. 3819 è stata assegnata alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia, senza che l'iter sia mai giunto a conclusione. Sul finire della XIII Legislatura alla Camera dei deputati è stata presentata anche la proposta n. 7701. 33 Atti Camera, XII Leg., Doc. IV ter, n. 1 A.

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avanzava nei confronti dei direttori di tali testate e dello stesso direttore del gruppo editoriale, non solo pesanti giudizi, ma veri e propri insulti.

La vicenda nel suo complesso fu abbastanza intricata. Inizialmente la giunta per le autorizzazioni a procedere ritenne che le opinioni espresse dal parlamentare fossero sindacabili in quanto i fatti addebitati dovevano essere interpretati e visti nel contesto di una questione personale. Successivamente, la questione, tornata all'esame della giunta per questioni meramente procedurali, venne risolta in maniera diametralmente opposta, laddove si ritenne che le affermazioni del parlamentare fossero riconducibili all'attività politica latu sensu intesa e, comunque, ricollegabili ad una situazione a sfondo politico, di cui il deputato si era con tutta evidenza ritenuto investito. Le altre vicende si riferivano a due procedimenti penali intentati a carico degli onorevoli Umberto Bossi e Antonio Bargone, a seguito dei giudizi espressi da questi, rispettivamente, nel corso di un comizio elettorale organizzato dalla Lega Nord in occasione delle allora recenti elezioni elettorali, e in un'intervista rilasciata ad un quotidiano locale.

Nel primo caso, l'accusa mossa contro l'Onorevole Bossi era quella di vilipendio all'Ordine giudiziario, per aver aspramente criticato il funzionamento del CSM, accusando i suoi componenti di operare secondo logiche meramente partitiche e di fomentare, in questo senso, anche l'attività di alcuni magistrati34. Il secondo caso traeva, a sua volta, origine da una querela presentata a carico dell'onorevole Bargone, allora membro della Commissione antimafia, da parte di un pentito e dei suoi familiari, accusati nel corso di un'intervista giornalistica, nella quale il parlamentare commentava polemicamente alcune dichiarazioni rilasciate, con tono intimidatorio, dal pentito sia nei confronti suoi che nei confronti del partito di appartenenza, di gravi strumentalizzazioni del comportamento collaborativo assunto da tale soggetto35.

Tutte e tre le vicende venivano decise dalla Giunta della Camera e, poi, dall'Assemblea, con una pronuncia di insindacabilità, che poggiava le proprie ragioni su criteri messi volutamente a punto dall'ordinamento parlamentare, in occasione dell'esame dei primi casi presentatisi dopo il periodo della "decretazione d'urgenza". Tali criteri possono essere così riassunti: a) nella definitiva proclamazione dell'irrilevanza della sede, interna od esterna alle Camere, in cui venisse esplicata l'attività parlamentare; b) nella estendibilità della prerogativa anche all'attività latu sensu politica posta in essere dal membro delle Camere; c) nell'irrilevanza dell'oggettiva gravità dei giudizi resi da un deputato o da un senatore, con la sola eccezione dei giudizi che apparissero palesemente gratuiti o, comunque, riferibili a vicende strettamente personali, prive, quindi, di alcuna rilevanza pubblica. Si ritenne, quindi, che costituisse indicazione sufficiente dell'esistenza di un «nesso funzionale» tra attività posta in essere all'esterno delle Camere e quella

34 Atti Camera, XII Leg., Doc. IV ter, n. 2 A. 35 Atti Senato, XII Leg., Doc. IV ter, n. 5 A.

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propria invece della funzione parlamentare, ogni comportamento che risultasse comunque collegato alla «qualità» di membro delle Camere, indipendentemente da qualsiasi riferimento con un atto tipico, formalmente riconducibile all'esercizio delle funzioni ad esse assegnate. Ed ancora, e allo stesso modo, si giudicò che un comizio elettorale costituisse occasione per portare all'esterno le tesi, le opinioni, le critiche, le proposte di riforma, sostenute nei dibattiti e nelle sedi parlamentari Da tali criteri appariva evidente una interpretazione che, trasfigurando la ratio delle legge di riforma, estendeva piuttosto che ridimensionare la tutela fino ad allora riconosciuta al parlamentare nell'applicazione della garanzia costituzionale. Ulteriore dimostrazione dell'arbitrarietà dei criteri appena richiamati si ebbe nel primo caso esaminato dal Senato, sempre nella XII legislatura, anch'esso deciso in base a tali criteri.

La questione riguardava un procedimento penale, intentato a carico del Sen. Donato Manfroi, a seguito di una querela presentata nei suoi confronti da un privato cittadino, candidatosi alle allora recenti elezioni, il quale si era sentito gravemente diffamato dai giudizi espressi dal senatore, durante la campagna elettorale, in un'intervista rilasciata ad alcune emittenti locali. In occasione di tale intervista, il parlamentare aveva additato tale soggetto, quale esponente, neppure di primo piano, di una classe politica legata alla cd. Prima Repubblica, dimostratasi corrotta ed ormai dequalificata36.

Il caso era evidentemente di particolare delicatezza, in quanto si riferiva ad una vicenda inerente le opinioni espresse in campagna elettorale, nella quale i soggetti implicati potevano risultare diversamente tutelati in considerazione del solo fatto che uno di essi avesse già rivestito la carica di parlamentare. La decisione della giunta e, poi, dell'assemblea fu – come detto – di dichiarare l'insindacabilità dei giudizi espressi dal proprio membro. Essa basò il suo giudizio sulla mera considerazione delle affermazioni politiche del senatore, che furono ritenute direttamente riferibili alla corruzione della classe politica, che era stata per molto tempo all'ordine del giorno nel dibattito politico. Tali affermazioni furono, quindi, intese come proiezioni verso l'esterno dell'attività istituzionale e come tali ricomprese nel più ampio mandato rappresentativo di cui ogni parlamentare è investito. Siffatto filone interpretativo caratterizzò tutta la XII legislatura che finì per essere contrassegnata, quindi, da una nuovo schema interpretativo, quello cioè della cd. insindacabilità esterna, capace di garantire ai membri delle Camere ambiti di tutela assicurati soltanto sotto l'egida della previgente autorizzazione a procedere. L'impronta fortemente evolutiva, dal punto di vista della giurisprudenza parlamentare, si ritrovò anche relativamente ad un processo penale intentato a carico del Sen. Cesare Previti su querela di un altro parlamentare37.

La vicenda traeva origine dalle dichiarazioni rese dal senatore Previti nel corso di un'intervista pubblicata su un quotidiano nazionale, nella quale egli aveva

36 Atti Senato, XII Leg., Doc. IV ter, n. 1 A. 37 Atti Senato, XII Leg., Doc. IV ter, n. 2 A.

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accusato il collega di gravi strumentalizzazioni, a fini partitici, della magistratura e degli apparati istituzionali preposti alla lotta contro la mafia.

La questione, particolarmente delicata per la gravità dei giudizi espressi e per il rilievo delle persone in essa coinvolte, appariva ancor più interessante in considerazione del fatto che il parlamentare aveva espresso i giudizi in questione in limine iuris , e cioè nello stesso giorno in cui era stato proclamato membro del Senato. La giunta, e poi, l'assemblea ritennero che sebbene le dichiarazioni del senatore Previti fossero state rese nello stesso giorno della proclamazione e, quindi, non collegabili all'esercizio della funzione parlamentare non ancora svolta, fossero ugualmente coperte dalla garanzia costituzionale. Si sottolineò che, se da un lato, non si poteva pretendere, ai fini di valutarne la connessione con l'attività parlamentare, che ogni intervista di un parlamentare contenente critiche o giudizi anche pesanti di natura politica sull'operato altrui dovesse essere preceduta o seguita da un particolare atto formale; dall'altro e allo stesso tempo, si mise in evidenza come nulla escludesse che i giudizi politici resi dal senatore potessero poi tradursi, nel corso della legislatura, in attività formali riconducibili all'esercizio del suo mandato. In sintesi la giuirisprudenza parlamentare, lungo tutta la XII Legislatura, si attestò su un filone interpretativo in base al quale l'art. 68 avrebbe avuto ad oggetto, oltre alle opinioni espresse nell'esercizio della funzione tipicamente parlamentare (interpellanze, interrogazioni, ecc.), anche quelle esternate nello svolgimento di attività lato sensu politica in contesti extraparlamentari (comizi, riunioni di partito, incontri con la stampa o con gli elettori, ecc.): alla base di tale concezione vi era l'idea, fondata sulla lettura coordinata e sistematica degli artt. 67 e 68 Cost. ed incentrata sulla esaltazione della qualifica soggettiva, che la guarentigia dell'insindacabilità servisse a liberare il deputato o il senatore da eccessive preoccupazioni circa la sua condotta politica e che la manifestazione di opinioni anche al di fuori delle Camere costituisse momento essenziale dell'adempimento del mandato. Detta tesi, avversata tanto dalla dottrina e quanto dalla giurisprudenza di merito, sembrava agganciare l'attività propriamente parlamentare, e quindi, la tutela per essa predisposta, al vago concetto di "contesto politico" che finiva con il ricomprendere, in molti casi, l'intera attività politica del parlamentare, eliminando il legame tra l'atto compiuto e la funzione parlamentare. Per altro verso l'estensione dell'insindacabilità agli atti compiuti in sede extraparlamentare non soddisfaceva, in realtà, l'esigenza di tutelare il corretto funzionamento della Camere, prestandosi ad abusi e strumentalizzazioni. La XIII legislatura si aprì all'insegna della riconferma degli indirizzi appena richiamati. Di questa continuità sono esempi significativi due delibere prese dal Senato all'inizio delle attività delle Camere; entrambe relative a casi già decisi dalla giunta, nella precedente legislatura, nel senso dell'insindacabilità e, quindi, mai esaminati dall'assemblea, per la fine anticipata della stessa. La prima questione riguardava una denuncia avanzata a carico del senatore Francesco De Notaris, poi non rieletto38.

A tal proposito giova rilevare che la vicenda in esame risale al 14 novembre 1994. In tale giorno vi furono tafferugli tra studenti e forze di Polizia nella città

38 Atti Senato, XIII Leg., Doc. IV ter, n. 1 A.

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di Napoli. Il senatore De Notaris si recò a protestare in Questura serbando una condotta dalla quale scaturì a suo carico una denunzia per i reati di oltraggio, resistenza e rifiuto di generalità in quanto – secondo l’informativa della pubblica sicurezza in atti – adoperò parole offensive nei confronti di funzionari ed agenti di pubblica sicurezza quali «questa Polizia fa schifo non siete degni di far parte di questa Repubblica», rifiutando di declinare le proprie generalità, opponendo resistenza e spingendo con violenza l’agente di pubblica sicurezza Toreschi Vincenzo, reati questi contemplati rispettivamente dagli articoli 341, 651 e 337 del codice penale. La giunta e, poi, l'assemblea deliberarono l'insindacabilità delle affermazioni rese dal

senatore in quella circostanza, in quanto si ritenne che, per quanto esse non potessero ovviamente essere ricollegate ad una qualche attività istituzionale, trovavano ugualmente la loro giustificazione nella qualifica di parlamentare del soggetto agente, il quale – si disse – solo in quanto tale, aveva posto in essere i fatti contestati.

La seconda questione, invece, riguardava una causa civile per il risarcimento dei danni promossa contro un altro senatore (anch'egli poi non rieletto, Elidio de Paoli)39.

Il senatore De Paoli veniva citato in giudizio presso il Tribunale di Brescia in una causa civile, a seguito della posizione da lui assunta durante la presentazione della lista dei candidati alla carica di consiglieri provinciali del comune di Brescia nelle consultazioni elettorali amministrative dell'epoca. La citazione proveniva dal dottor Francesco Bettoni, presidente della Camera di commercio di Brescia e amministratore delegato dell’Ente Fiera, che pretendeva il risarcimento dei danni – quantificati in lire cento milioni – a causa delle dichiarazioni rilasciate dal senatore De Paoli al quotidiano «Brescia Oggi» nell’aprile 1995 a proposito del medesimo Ente. Il senatore De Paoli, dopo aver affermato che il programma della sua parte politica si proponeva la soppressione degli enti inutili, menzionava tra questi l’Ente Fiera, dichiarando che tale ente «non deve servire solo a Bettoni per fare viaggi all’estero». Il Bettoni riteneva fortemente lesive della sua reputazione e non corrispondenti al vero tali affermazioni. Tra i documenti depositati nella precedente legislatura dell’ex senatore De Paoli vi era anche la comparsa di risposta, nella quale faceva presente che la frase ritenuta diffamatoria dal Bettoni era stata estrapolata da un’intervista collettiva riguardante temi molto più ampi, e solo parzialmente riprodotta sul quotidiano «Brescia Oggi», intervista nella quale egli affrontava, indicando i punti del programma elettorale della sua parte politica, anche i problemi degli sprechi continui di pubblico denaro. Il senatore De Paoli sottolineava che il suo impegno politico e parlamentare era stato caratterizzato da interventi diretti a eliminare tutti gli sprechi di denaro pubblico.

Anche in questo caso la giunta e, poi, l'assemblea ritennero che le dichiarazioni del senatore De Paoli dovessero considerarsi insindacabili poiché, scendendo alla fattispecie concreta, l’intervista concessa dal parlamentare a «Brescia Oggi» e considerata diffamatoria, conteneva una valutazione critica generale, per quanto concerneva

39 Atti Senato, XIII Leg., Doc. IV quater, n. 2 A.

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l’eliminazione degli Enti inutili, ed una specifica, in ordine alla inutilità dell’Immobiliare Fiera spa presieduto dal dottor Francesco Bettoni. La dichiarazione resa a «Brescia Oggi» si inseriva nella campagna elettorale per le elezioni provinciali di Brescia nelle quali il senatore De Paoli si presentava quale candidato e più ampiamente nella tematica del contenimento della spesa pubblica, particolarmente cara al senatore De Paoli e costantemente affrontata nel corso della sua attività parlamentare, come dimostravano gli interventi compiuti nelle varie sedi parlamentari. Il senatore De Paoli avrebbe addirittura fatto oggetto di una specifica interrogazione parlamentare riguardante, appunto, l’Immobiliare Fiera di Brescia e le manifestazioni e viaggi dalla stessa indetti. Da tali circostanze era indubitabile che la Camera d'appartenenza ritenesse l'insindacabilità di tali dichiarazioni in base alla connessione fra l’opinione espressa dal senatore De Paoli e la sua attività parlamentare sia tipica che no.

Gli esempi ora richiamati evidenziano in modo esemplare come si fosse espansa l'aria dell'insindacabilità. Un'area che, ormai, era capace di includere nella garanzia costituzionale, non solo la gran parte delle esternazioni rese da un parlamentare nelle più diverse circostanze, ma, anche, la manifestazione di qualsivoglia opinione che, seppur caratterizzata da una indiscutibile connotazione privata o personale, poteva essere catalogata, in virtù della sola qualità del soggetto esternatore, quale espressione del dibattito politico o della critica politica, che ad esso è propria. 1.4. L'attività extraparlamentare: la relazione tra funzione e forme di comunicazione.

La diffusione e la moltiplicazione delle tecniche di comunicazione e, in ultima analisi, dei canali grazie ai quali il parlamentare può rivolgersi al proprio elettorato e veicolare all'esterno le iniziative da lui assunte all'interno dell'istituzione - fenomeni che hanno incisivamente condizionato l'evoluzione delle modalità di svolgimento del confronto dialettico connaturato ai moderni sistemi democratici - hanno inciso notevolmente sul concetto di funzione. A tal riguardo rilevano non pochi casi riguardanti frasi o giudizi espressi da molti parlamentari al di fuori delle sedi istituzionali, nella maggior parte dei casi sui mass-media ed anche sulla carta stampata, che si distinguono per la loro spiccata natura personale e per la forte connotazione offensiva, che costituiva l'oggetto di tali esternazioni.

Emblematiche, al riguardo, furono le questioni che coinvolsero alcuni membri delle Camere. In particolare, si possono ricordare, proprio per il loro carattere estremo, due casi relativi ad episodi che riguardavano rispettivamente un deputato ed un senatore.

Il primo caso si riferiva ad un procedimento civile per il risarcimento dei danni a carico dell'On. Zoppi, intentato dall'ammiraglio Gino Birindelli il quale il giorno 19 giugno 1993 aveva partecipato ufficialmente alla cerimonia che si teneva a La Spezia in occasione del giuramento delle reclute della Marina militare, invitato per la circostanza dal Comando in Campo del Dipartimento della Marina militare dell'Alto Tirreno. Nel corso di tale cerimonia, ammiraglio Birindelli aveva preso la parola pubblicamente, come previsto dal programma, per tenere ai novecento giurandi un discorso di augurio ad essi che in quel momento si stavano accingendo a ricoprire il ruolo di militari al servizio della

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Repubblica, sottolinenado che era necessario predisporre idonei stanziamenti economici per il funzionamento dell'apparato difensivo, obiettivo che non sempre nel passato era stato ritenuto primario dalla classe politica dirigente. Alla cerimonia aveva partecipato anche l'onorevole Pietro Zoppi che, risentito per i contenuti del discorso dell'ammiraglio Birindelli aveva abbandonato in anticipo la tribuna delle autorita` ed aveva rilasciato un'intervista al giornalista Sergio Buonadonna inviato dal quotidiano Il Secolo XIX, esprimendosi nei seguenti termini: " Birindelli? Vada a farsi fottere". Tale frase era stata pubblicata il giorno 20 giugno 1993 dal quotidiano sopramenzionato, sia in prima pagina accompagnato da una foto in primo piano dell'ammiraglio, sia a pagina 6 dello stesso giornale, con un ampio servizio dedicato all'episodio. Su tali premesse, l'ammiraglio chiedeva la condanna, per diffamazione aggravata a mezzo stampa, dell'onorevole Pietro Zoppi, del dottor Mario Sconcerti, quale Direttore responsabile del quotidiano Il Secolo XIX, e del dottor Sergio Buonadonna, quale autore dell'articolo, al risarcimento dei danni, da liquidarsi equitativamente e da devolversi a favore dell'Istituto Benefico Andrea Doria di Roma40. Trasmessa la richiesta di deliberazione in materia di insindacabilità, la giunta e, poi,

l'assemblea coprirono con la relativa garanzia i veri e propri insulti pronunciati dal deputato. Esse fondarono, peraltro, il giudizio su elementi assai poco concludenti: quali il particolare rapporto esistente tra il parlamentare e la sede in cui si svolgeva la manifestazione, e i contenuti, fortemente critici nei confronti delle Camere, del discorso pronunciato dall'alto ufficiale nel corso della cerimonia. Ancora più significativa la seconda questione, in quanto portata anche di fronte alla Corte Costituzionale, a seguito del conflitto di attribuzione promosso dal giudice procedente a fronte della delibera di insindacabilità pronunciata dal Senato, che ebbe una notevole rilevanza sulla stampa.

In data 26 novembre 1996 la Pretura Circondariale di Milano trasmetteva – ai sensi degli articoli 2 e 4 del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 555, vigente a tale data – la richiesta di deliberazione in materia di insindacabilità ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, nell’ambito di un procedimento penale nei confronti del senatore Francesco Tabladini, per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale. L’accusa nei confronti del senatore Tabladini traeva origine dall’apposizione di scritte di contenuto oltraggioso su edifici del centro di Brescia, in zona contigua alla sede della Procura della Repubblica presso il locale Tribunale, scritte formate dallo stesso Tabladini insieme con altri, che avevano il seguente contenuto: «I ladri assolvono i ladri», «Lisciotto picciotto», «Lisciotto amico dei ladri», «Lisciotto amico dei ladri, Di Martino vai a casa», «Lisciotto Di Martino tornate al paesino». Tali scritte offendevano l’onore e il prestigio dei magistrati Francesco Lisciotto e Anna Di Martino, in servizio presso la Procura della Repubblica diBrescia e presso il Tribunale di Brescia, a causa delle loro funzioni e precisamente per avere archiviato il

40 Atti Camera XIII Leg., Doc. IV ter, n. 39 A.

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procedimento relativo alla costruzione dell’immobile denominato «Cristal Palace». Si ricorda che, per i medesimi fatti, nell’XI legislatura era stata chiesta l’autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Tabladini, all’epoca già componente del Senato. Il Senato negò l’autorizzazione a procedere e, a seguito di ciò, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Milano pronunciò decreto di archiviazione. A seguito della riforma costituzionale del 1993 il Giudice per le indagini preliminari, accogliendo la richiesta del Pubblico Ministero, autorizzò la riapertura delle indagini in relazione ai fatti addebitati al senatore Tabladini, disponendone il rinvio a giudizio41. La decisione della giunta e, poi, dell'Assemblea, fu quella di coprire il

comportamento del proprio membro con la garanzia dell'insindacabilità. La scelta fu giustificata in quanto il comportamento del senatore fu ritenuto espressione di una critica politica, riferita a fatti rientranti nella vicenda di Tangentopoli, come tale rinconducibile nel contesto della battaglia condotta da senatore e dal suo partito, la Lega Nord, contro i fenomeni di corruzione e mal costume. In nulla rilevando l'estemporaneità e il linguaggio forte tipico, a dire degli organi parlamentari, dell'atteggiamento della Lega Nord, già dimostrato in diverse sedi, anche istituzionali. E' pur vero che, nonostante la puntuale riconferma di tali indirizzi per tutta la XIII legislatura, non si può dire che essi corrispondessero ad un posizione indiscussa. Non mancarono, infatti, casi in cui si giunse ad una delibera di insindacabilità, non senza che si manifestasse più di un dissenso relativamente alla posizione assunta o comunque un acerrimo dissenso tra la valutazione della giunta e quella dell'assemblea. Emblematica sotto questo profilo una questione – anch'essa verificatasi al Senato – riguardante i senatori Giuseppe Ayala e Pino Arlacchi.

I due senatori erano stati chiamati in giudizio a seguito di una querela presentata nel loro confronti da un magistrato della Corte di Cassazione, il dott. Corrado Carnevale. I capi di imputazione erano due; entrambi facevano riferimento al reato di diffamazione col mezzo della stampa, ma le modalità offensive erano state poste in essere in due sedi diverse. Il primo capo di imputazione faceva riferimento ad una lettera, firmata da entrambi i senatori in questione, indirizzata al direttore del «Corriere della Sera», dal titolo «Ayala ed Arlacchi: ora porteremo Carnevale in giudizio», pubblicata sul predetto quotidiano il 14 maggio 1995. In tale missiva è attribuito al dottor Carnevale «un linguaggio volgare e violento da lui abitualmente usato », rispondente al suo «profilo tracciato di recente dai giudici di Palermo che indagavano sui rapporti tra Andreotti e Cosa Nostra », «un magistrato che per ambizione di carriera non si faceva scrupolo di chiedere appoggi e sostegni ad esponenti politici. Un uomo capace di mentire, capace di indossare in pubblico la maschera della irreprensibilità e disponibile poi, in privato, a ricevere e fare raccomandazioni al fine di condizionare l’esito dei processi. Un uomo privo di qualsiasi sentimento di umana pietà per uomini e donne atrocemente uccisi da Cosa Nostra».

41 Atti Senato XIII Leg., Doc. IV ter, n. 6 A.

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Il secondo capo di imputazione riguarda esclusivamente il senatore Arlacchi, il quale è chiamato a rispondere per alcune dichiarazioni pronunciate nel corso di una conversazione informale all’interno della Camera dei deputati tra lo stesso Arlacchi e i deputati Ayala e Bonsanti e riportate da un giornalista casualmente presente, nell’articolo di stampa dal titolo «La Sinistra: un Guardasigilli sospetto», apparso sul «Corriere della Sera» del 12 maggio 1995. Le dichiarazioni pubblicate riguardano il rapporto tra il dottor Carnevale e l’ex Ministro Mancuso, a proposito del quale il senatore Arlacchi avrebbe affermato: «Sì che sono amici; anzi tra i due c’è qualcosa di più... Ci sono certe intercettazioni telefoniche che riguardano il Ministro e l’ex giudice... C’è il segreto istruttorio su quelle carte»42.

Ritenuta pacifica l'applicazione dell'insindacabilità riguardo al secondo capo di

imputazione relativo al conversazione informale tenutasi all'interno del Senato, diversa fu, invece, la valutazione fatta dalla giunta prima e dall'assemblea poi. La giunta, infatti, ponendo in particolare l'accento sulle modalità delle esternazioni, giudicò non estendibile la garanzia dell'insindacabilità. Ciò «in conformità al medesimo spirito del dettato costituzionale volto a garantire e tutelare l’indipendenza esclusivamente della funzione rappresentativa», non poteva estendere l'insindacabilità ad un'opinione posta in essere attraverso una modalità che poteva essere compiuta da qualunque cittadino43. Quindi, per la giunta non trattandosi di un tipico atto parlamentare, né extraparlamentare, riconducibile alla funzione rappresentativa, la garanzia dell'insindacabilità non poteva essere concessa. Di tutt'altro avviso l'aula che, trascurando qualsivoglia profilo oggettivo, relativo all'atipicità dell'occasione ed alla modalità con cui era stata posta in essere l'esternazione dei parlamentari, si dette, ancora una volta rilievo ai soli profili soggettivi, legati alla qualità di membro del Parlamento. Si sottolineò che in quanto componenti della Commissione Antimafia potevano essere a conoscenza di fatti, oggetto della missiva al quotidiano, che riproduceva sostanzialmente il contenuto di atti processuali difficilmente conoscibili da privati cittadini. Pertanto, a dire dell'assemblea, le opinioni espresse dai due parlamentari dovevano essere in maniera assoluta coperte da insindacabilità. 1.5. La casistica Sgarbi. Di fronte all'utilizzo sempre più strumentale che le Camere fecero della garanzia predisposta dall'art. 68, primo comma, Cost. la frattura tra magistratura e Parlamento divenne ancor più evidente. Al fine di evitare un uso forse troppo liberale di tale garanzia, la magistratura arrivò ad attivare le Camere solo in presenza di una sentenza di condanna.

42 Atti Senato XIII Leg., Doc. IV ter, n. 5 A. 43 S. TRAVERSA, Immunità parlamentare (voce), in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, pp. 195-196, dove l'A. afferma che la protezione immunitaria concessa dall’articolo 68 della Costituzione ai parlamentari, posta a tutela della loro indipendenza, dai più ritenuta doversi interpretare in senso ampio e estendibile altresì alle attività svolte all’esterno dei palazzi, limitatamente però alle ipotesi in cui anche queste ultime siano comunque riconducibili alla loro funzione, non risulta estendibile alle attività non esclusive del parlamentare stesso, bensì riconosciute a ciascun cittadino e ciò proprio in conformità al medesimo spirito del dettato costituzionale volto a garantire e tutelare l’indipendenza esclusivamente della funzione rappresentativa.

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E' questo il caso, ad esempio, di alcune questioni che hanno riguardato lo stesso parlamentare solo a seguito di sentenze di condanna pronunciata in primo grado. La prima questione si riferiva ad affermazioni rese dall'On. Vittorio Sgarbi44 nel corso di dieci puntate della trasmissione « Sgarbi quotidiani » andate in onda dal 16 maggio al 20 luglio 1994.

Nelle suddette trasmissioni il parlamentare esprimeva dichiarazioni offensive nei confronti della dott.ssa Triassi, magistrato del Tribunale di Napoli. Sgarbi affermava che la dottoressa Triassi sarebbe un magistrato: a) di cui è giusto chiedere l’arresto; b) che pone alla base delle sue decisioni falsità , menzogne e bugie; c) che tiene un comportamento violento contro le persone, imponendo il carcere anche con motivazioni risibili; d) che ha sequestrato e sequestra De Lorenzo, come altri il cui nome è meno noto; e) che sputa sulla legge; f) che anziché far rispettare la legge la violenta; g) mosso da chiara intenzione politica; h) per cui va chiesto il carcere per flagranza di reato; i) che usa il codice come un’arma; l) che ha tenuto uno schifoso comportamento; m) tra i piu` feroci della Repubblica. Per tali affermazioni, il soggetto offeso chuiedeva la condanna dello Sgarbi per danni morali. Con sentenza n. 3167 del 26 giugno 2001 il tribunale di Napoli, I sezione civile, ha condannato il deputato Sgarbi, in solido con la Reti Televisive Italiane spa, al pagamento a titolo risarcitorio di 100milioni di (vecchie) lire45.

In particolare, il Tribunale osservava, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, che il deputato Sgarbi si era pronunciato « in un contesto avulso da ogni connotazione istituzionale, per cui [le affermazioni] non sono coperte dall’invocata immunità parlamentare [...] evidenziandosi che nelle suddette trasmissioni televisive di intrattenimento, la qualità che lo Sgarbi spendeva non era certo quella di membro del Parlamento ma di conduttore impegnato contrattualmente a prestare dietro compenso la propria opera [...] ». La giunta e, poi, l'assemblea, nonostante la gravità dei fatti sottoposti al suo esame, deliberarono l'insindacabilità delle opinioni espresse dal proprio membro, in quanto ritennero che le affermazioni rese dal deputato, sia pure di contenuto particolarmente sgradevole, fossero strumentali alla polemica di natura politica condotta da Sgarbi, in quella, come in altre occasioni, contro gli arresti facili e, in genere, contro l'istituto delle misure cautelari. Nel secondo caso, riguardante lo stesso deputato, la questione giunse ad un giudicato definitivo46.

Il Tribunale di Brescia emise sentenza di proscioglimento dell'on. Vittorio Sgarbi imputato del delitto di diffamazione aggravata per aver, in data 11 dicembre

44 Nel corso della XIII legislatura sono stati ber 41 casi i procedimenti in materia di insindacabilità riguardanti l'On. Vittorio Sgarbi. 45 Atti Camera, XIII Leg., Doc. IV quater, n. 29 A. 46 Cass. pen., sez. V, 21 aprile 1999, n. 8742, in Riv. pen. 1999, p. 867.

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1994, nel corso della trasmissione televisiva "Domenica IN" e in una dichiarazione rilasciata al Corriere della Sera, pubblicata il 12 dicembre 1994, indicato il sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Antonio Di Pietro come responsabile del suicidio dell'ing. Gabriele Cagliari. «Quando ho detto assassini è chiaro che non mi riferisco ad un atto diretto di un pubblico ministero che ha tenuto in carcere un signore finché questi, con una lettera terribile ha denunciato quello che avrebbe fatto, si è suicidato... Si è tolto la vita a causa di un Procuratore.. Giorni e giorni in galera... Chiamerò a rispondere con una serie di denunzie i magistrati di Milano per tutti i morti suicidi nelle carceri per l'inchiesta Mani Pulite. A cominciare dalla morte di Cagliari». La Corte di Appello, su impugnazione della Procura Generale, condannava l'imputato, sostenendo l'esistenza del reato e la non configurabilità dell'esimente del diritto di critica, per l'attribuzione ad un pubblico ministero della responsabilità morale e giuridica del suicidio Cagliari accusa esclusa nel procedimento disciplinare e archiviata in quello penale. L'imputato proponeva ricorso. Nelle more del giudizio il Presidente della Camera dei deputati faceva pervenire copia della deliberazione 10 febbraio 1999 di approvazione della proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere di insindacabilità della condotta dell'on. Vittorio Sgarbi, nel senso che i fatti per i quali è in corso il procedimento concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni: «È apparsa prevalente l'opinione secondo cui le frasi profferite dal deputato in questione -sia pure caratterizzate da uno stile particolarmente insinuante e astrattamente diffamatorio- costituiscono, tuttavia, con chiara evidenza, un giudizio e una critica di natura sostanzialmente politica. su fatti e circostanze che all'epoca erano al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica nonché del dibattito politico - parlamentare. Ciò sia pure in assenza di un collegamento specifico con atti e documenti parlamentari, che comunque deve ritenersi implicito, attesa l'ampiezza e la diffusione che ebbe a suo tempo la discussione tanto sugli organi di stampa, quanto in generale nel dibattito politico».

Con il ricorso la difesa del deputato Sgarbi deduceva diversi vizi procedurali, ma in particolar modo richiedeva l'immediata applicazione dell'art.68 Cost., a seguito della deliberazione della Camera dei deputati di insindacabilità della condotta incriminata. La Cassazione riteneva fondata la dedotta questione di insindacabilità della condotta incriminata. Per la Corte, infatti, l'art. 68 della Costituzione statuendo la non perseguibilità dei membri del Parlamento per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni, era di immediata applicazione. Essa era immediatamente cogente perché, assicurando la libertà giuridica di manifestazione del pensiero del parlamentare, esplicitamente impone ai titolari degli altri poteri dello Stato di adeguarsi al principio e impedisce loro di emanare e applicare confliggenti norme. La immediata precettività della norma si basava, a dire della Corte, sul fatto che essa non rappresenta uno ius singulare, ma una causa, prevalentemente oggettiva, di esclusione dell'antigiuridicità del fatto, tutelando la norma, non la persona del parlamentare, ma la di lui funzione e, cioè, l'esercizio concreto di poteri pubblici di natura costituzionale. La non perseguibilità o la non sindacabilità veniva assimilata, per l'identità di ratio, sotto il profilo sostanziale, ad

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una causa di non punibilità, applicabile in ogni stato e grado del giudizio, ex art. 129 c.p.p., qualora non risulti dagli atti o dal provvedimento impugnato una prevalente causa di proscioglimento nel merito. Per la Suprema Corte, la eventuale dichiarazione di insindacabilità pronunciata dalla Camera di appartenenza è tale da produrre effetti vincolanti per l'autorità giudiziaria che, qualora non ne contesti la legittimità e non proponga, quindi, conflitto di attribuzione per vizi in procedendo o per l'arbitrarietà o non plausibilità della valutazione del nesso funzionale, "ha l'obbligo di prendere atto della deliberazione parlamentare, di adottare le pronunce conseguenti, di dichiarare, immediatamente, in ogni stato e grado del processo, la causa di irresponsabilità", con "l'effetto inibitorio dell'inizio o della prosecuzione di qualsiasi giudizio di responsabilità". Ciò posto, si osserva nella sentenza che il nesso funzionale della prerogativa parlamentare ha una duplice prospettazione, una soggettiva e l'altra oggettiva. Sotto il primo aspetto, il fatto incriminato era stato posto in essere dal soggetto uti homo publicus. cosicché le espressioni diffamatorie, non punibili se poste in essere in un atto di funzione, non sono scriminate se con esse il parlamentare aggredisce l'altrui reputazione per motivi del tutto personali, dimostrando cosi di agire come homo privatus. La seconda prospettazione investiva l'accertamento degli atti oggettivamente definibili come atti di funzione parlamentare. Esulando da qualsiasi criterio di tipo spaziale, risultava decisivo, invece, il criterio sostanziale in base al quale il nesso funzionale sussiste ogni qual volta nello svolgimento dell'attività parlamentare - in qualsiasi luogo e con qualsiasi forma e mezzo, in Parlamento, in convegni, sui giornali e nelle trasmissioni televisive di attività – si trattino questioni nell'interesse superiore della res publica o, comunque, di rilevanza pubblica. La Corte, ritenendo di non dover sollevare il conflitto di attribuzione e di applicare la causa di non punibilità, prevista dall'art. 68 Cost., annullava senza rinvio la sentenza impugnata così motivando: "Non è arbitrario ritenere il nesso funzionale nell'attività che il singolo deputato o senatore svolge alimentando, secondo principi di democrazia, nelle forme e con i moderni mezzi di comunicazione, il dibattito politico - parlamentare, sorto nella società civile e, perfino nelle sedi istituzionali, circa il preteso abuso della custodia cautelare per i fatti, pur contingenti, ma diffusi e clamorosi, di numerosi suicidi di cittadini nelle carceri della Repubblica. Come si ricava dalla prassi parlamentare ciò che rileva, in definitiva, è la finalità perseguita, rivolta a realizzare un bene giuridico essenziale per la democrazia e non un interesse personale, ascrivibile a ius singulare". La considerazione generale che può farsi, sulla base degli esempi citati, è quella per cui la "giurisprudenza" parlamentare fino a tutta la XIII legislatura, abbia segnato lo sviluppo di un filone interpretativo poco coerente, caratterizzato da fattori occasionali e contingenti, che resero sempre meno credibile l'operato degli organi parlamentari nell'applicazione del primo comma dell'art. 68 Cost., isolandoli o meglio contrapponendoli in primis alla magistratura, ma, anche alla Corte Costituzionale. 1.6. Il nuovo corso intrapreso dalla Corte Costituzionale. La tesi del c.d. "nesso funzionale" è stata recepita dalla Corte Costituzionale che, dopo l'abrogazione dell'istituto dell'autorizzazione a procedere, è stata più volte chiamata a

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pronunziarsi sulla ricorrenza dei presupposti per l'applicazione del primo comma dell'art. 68 Cost. in sede di conflitto d’attribuzione tra Parlamento e magistratura ordinaria. In un primo momento la Corte, preoccupata di non indulgere verso indebite intromissioni nelle attribuzioni dei poteri dello Stato, ha costantemente curato di precisare che il proprio ambito di decisione è circoscritto alla verifica esterna della legittimità della statuizione parlamentare e non si estende, alla stregua di giudizio d'appello, al suo riesame e, nel merito, ha definito i presupposti per il riconoscimento dell'insindacabilità, propendendo per un’interpretazione piuttosto ampia della norma costituzionale, che parifica alle opinioni espresse nell'ambito delle attività funzionali quelle scaturite da attività che delle prime costituiscono antecedente necessario o divulgazione esterna. L'insindacabilità, pertanto, prescinderebbe dalla formale identità delle espressioni utilizzate, rispettivamente, nell'ambito degli atti funzionali e dell'attività divulgativa, oltre che dalla maggiore o minore continenza del frasario del parlamentare, e sarebbe vincolata al solo nesso di collegamento tra l'attività parlamentare e quella divulgativa; fuori della portata della norma resterebbero, invece, gli atti che, concretizzazione dell'attività politica del parlamentare, non evidenziano alcun nesso di collegamento con le funzioni istituzionali a lui demandate. L'orientamento seguito dalla Corte Costituzionale è stato oggetto di un acceso dibattito dottrinale, poiché è stato rimproverato alla Corte un eccessivo tasso di cautela, palesatasi, da un lato, nella resistenza a sancire, in parecchi casi in cui il collegamento tra atto e funzione era di difficile percezione, la non correttezza dell'operato del ramo del Parlamento (ciò è accaduto soprattutto in relazione a decisioni di insindacabilità adottate dalla Camera di Deputati) e, dall'altro, nella ritrosia ad indicare, sul piano concreto, gli indici da utilizzare per ravvisare la dedotta sussistenza del nesso funzionale. Sul finire della XIII legislatura la Corte ha dato il via ad un revirement applicativo, adottando un'interpretazione più rigorosa nell'individuare l'area entro cui deputati e senatori possono essere chiamati a rispondere per le opinioni da loro espresse. Le sentenze della Corte da cui si prendere le mosse sono la n. 10 e la n. 11 del 200047 relative sempre a talune dichiarazioni improprie rese dall'On. Vittorio Sgarbi. Il primo caso è il seguente:

L'on. Sgarbi era imputato di diffamazione col mezzo della stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, all'epoca procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, per averne offeso la reputazione, anche con l'attribuzione di fatto determinato, affermando, in dichiarazioni rese alle agenzie giornalistiche ANSA ed AGI rese pubbliche il 27 aprile 1994, in relazione al procedimento penale nei confronti del sen. Giulio Andreotti, indagato da quella procura, di aver dato mandato ai suoi legali di denunciare il magistrato; che il processo Andreotti era un processo politico; ed ancora che avrebbe denunciato il Caselli per "truffa aggravata e abuso d'ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo

47 AZZARITI G., Cronaca di una svolta: l'insindacabilità dei parlamentari dinanzi alla Corte Costituzionale, in Le Camere nei conflitti a cura di G. Azzariti, Torino, 2002, p. 237, nota n. 97, dove l'A. afferma: "Le sentt. nn. 10 e 11/2000, sono state discusse nella stessa udienza pubblica e pubblicate in pari data: sono chiaramente concepite come pronunce «gemelle», elaborate per rafforzare e ribadire i principi in esse espressi. Persino il fatto che siano stati prescelti due diversi relatori (e redattori) indica il coinvolgimento non di un singolo giudice ( e del Presidente della Corte), ma del collegio nel suo insieme. Anche da questi elementi «minori» può dedursi la consapevolezza della Corte nell'intraprendere la svolta giurisprudenziale.

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per un'azione politica". Il tribunale di Roma, davanti al quale pendeva il procedimento penale promuoveva, con ordinanza emessa il 18 gennaio 1999, conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla deliberazione di quest'ultima, nella quale si dichiarava che le opinioni del deputato erano state espresse nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, poiché la questione oggetto delle dichiarazioni dell'on. Sgarbi aveva costituito anche l'argomento di alcune interrogazioni parlamentari", che "le affermazioni di quest'ultimo avevano un contenuto eminentemente politico e non erano intese a diffamare la persona del procuratore della Repubblica di Palermo" e, peraltro, rilevava che "i suddetti temi erano stati a lungo al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito in ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva, ogni singolo parlamentare ha legittimamente maturato le proprie opinioni"48.

Con ordinanza n. 238 del 1999 la Corte dichiarava ammissibile il conflitto ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953. Preliminarmente il Giudice delle leggi chiarì, rispetto al passato, che non poteva più limitarsi a verificare la validità o la congruità delle motivazioni con le quali la Camera di appartenenza del parlamentare avesse dichiarato insindacabile una determinata opinione. In questo senso la Consulta "rettificava" quanto già affermato nella pregressa giurisprudenza, circa i caratteri di controllo sulle deliberazioni di insindacabilità adottate dalle Camere (cfr. sentenza n. 265 del 1997). Si trattava ora di precisare, in vista di esigenze di certezza, quando ricorresse il nesso funzionale. Era pacifico che costituissero opinioni espresse nell'esercizio della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facoltà proprie del parlamentare in quanto membro dell'assemblea. Invece l'attività politica svolta dal parlamentare al di fuori di questo ambito non poteva dirsi di per sé esplicazione della funzione parlamentare nel senso dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, fatto salvo il normale esercizio della libertà di espressione comune a tutti i consociati. Ad esse dunque non poteva estendersi, senza snaturarla, una immunità che la Costituzione ha voluto riservare alle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni. A dire della Corte infatti: "La linea di confine fra la tutela dell'autonomia e della libertà delle Camere, e, a tal fine, della libertà di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall'espressione di opinioni, dall'altro lato, è fissata dalla Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della prerogativa. Senza questa delimitazione, l'applicazione della prerogativa la trasformerebbe in un privilegio finendo per conferire ai parlamentari una sorta di statuto personale di favore quanto all'ambito e ai limiti della loro libertà di manifestazione del pensiero: con possibili distorsioni anche del principio di eguaglianza e di parità di opportunità fra cittadini nella dialettica politica. Non si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una definizione della "funzione" del parlamentare così generica da ricomprendervi l'attività politica che egli svolga in qualsiasi

48 Cfr. Corte cost., 17 gennaio 2000, n. 10, in Giur. cost., 2000, p. 70 con nota di Pace; in Corriere giuridico, 2000, p. 315 con nota di Carbone; in Danno e resp., 2000, p. 381 con nota di Costanzo; in Giur. it., 2000, p. 1105 con nota di Giupponi.

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sede, e nella quale la sua qualità di membro delle Camere sia irrilevante. Nel linguaggio e nel sistema della Costituzione, le "funzioni" riferite agli organi non indicano generiche finalità, ma riguardano ambiti e modi giuridicamente definiti: e questo vale anche per la funzione parlamentare, ancorché essa si connoti per il suo carattere non «specializzato»". Per questo motivo la semplice comunanza di argomento fra la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni espresse dal deputato o dal senatore in sede parlamentare non può bastare a fondare l'estensione alla prima della immunità che copre le seconde. Tanto meno può bastare a tal fine la ricorrenza di un contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca. Siffatto tipo di collegamenti non può valere di per sé a conferire carattere di attività parlamentare a manifestazioni di opinioni che siano oggettivamente ad essa estranee. In questo senso la Consulta precisa che il significato del "nesso funzionale" tra la dichiarazione e l'attività parlamentare non deve presentarsi in un semplice collegamento di argomento o di contesto, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare.

Nella specie in esame, quindi, le dichiarazioni rese dal deputato a due agenzie giornalistiche, risultavano essere al di fuori dell'esercizio di funzioni parlamentari, salva l'identità sostanziale di contenuto fra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede "esterna".

Pertanto la Corte concludeva nel senso che le dichiarazioni dell'On. Sgarbi, per la parte priva di sostanziale corrispondenza con un tipico atto parlamentare, non potevano ritenersi rese nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e dunque coperte dall'immunità ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e, quindi, in relazione a tale parte, veniva annullata la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati. Per concludere l'excursus che ha riportato la Corte a modificare la sua giurisprudenza in materia di insindacabilità dei parlamentari , deve considerarsi anche la sentenza n. 11 del 200049, che pure ha confermato i principi della precedente sentenza n. 10, annullando anch'essa una ulteriore deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei Deputati. Nonostante, dunque, il parallelo quadro di principi entro cui si colloca quest'ultima pronuncia, la particolarita della motivazione della proposta della Giunta di dichiarare l'insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato, ha permesso alla Consulta di segnalare ulteriori precisazioni e rettifiche di principi affermati con la giurisprudenza precedente. Il caso, che di seguito sinteticamente si espone, riguardava nuovamente l'On. Sgarbi.

L'On. Sgarbi si trovava sottoposto a procedimento penale pendente presso il tribunale di Bergamo in seguito ad una querela sporta dal dottor Antonio Di Pietro. Il procedimento traeva origine dalla trasmissione « Sgarbi quotidiani » del 15 novembre 1997, occasione nella quale l’onorevole Sgarbi ebbe ad affermare: « Ora io posso dirvi questo. Di Pietro è laureato, mae` ignorante lo stesso.Come centinaia di laureati.Posso dirlo ? Non conosce la grammatica, non conosce la sintassi, e me l’ha perfino scritto lui. Ho una lettera di Di Pietro,

49 Corte cost., 17 gennaio 2000, n. 11, in Giur. cost., 2000, p. 89; in Corriere giuridico, 2000, p. 313 con nota di Carbone; in Danno e resp., 2000, p. 384 con nota di Costanzo; in Giur. it., 2000, p. 1105 con nota di Giupponi.

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mirabile lettera di Di Pietro, che vi leggerò : “Se io sono difettoso nella forma, spero di imparare qualcosa da lei”, così mi scrisse.E adesso si offende perché io dico “documenti” ? Si offende per questo ? E` laureato, due lauree, tre lauree, ma non conosce la grammatica. D’altra parte le vedete come sono le universita` ? Assassini, criminali, e ci sono anche quelli che non sanno la grammatica. Ora, per quello che mi riguarda, Di Pietro dovrebbe ripetere anche la quinta elementare, la prima media, la seconda media, la terza media, io lo boccerei sempre; è laureato, benissimo. E` laureato, quattro lauree, è più che laureato, però come laureato non fa onore alla sua laurea.Posso dirlo ? Mi vuol querelare ? Querelami. Un laureato che ha fatto il concorso, che fa il magistrato, e che non conosce la sintassi. Posso dirlo ? Ecco, aspetto la querela, leggo: “Io non tengo peli sulla lingua” dichiara. Niente matita rossa, bocciato in terza elementare. Per quello che mi riguarda dovrebbe ripetere anche la prima elementare la prima elementare, seconda elementare, tutto da ripetere. Chi lo ha promosso e` corrotto. Ma guarda un pò, non lui chi lo ha promosso, quel delinquente di professore che non l’ha bocciato e` un corrotto, mi denunci. [...]Bastava che uno, che so, avrà fatto lo scientifico, l’istituto tecnico, cosa avrà fatto ? Non so il perito aziendale... al secondo anno dicesse: scusi, venga qua, Tonino, venga, ci scriva qui l’esempio di una preposizione articolata. Quello scriveva e a casa bocciato. Bastava fosse fermato lì. No, per fermarlo dovevano fare tre Camere, per fermarlo dovevano fare il turno triplo, per fermarlo dovevano fare qualunque cosa, bastava che ci fosse un professore onesto, uno solo onesto, uno solo, che gli dicesse: scusi, ma, Tiziano, Tiziano chi era ? Lui avrebbe risposto: Tiziano il mio compagno di banco .Piu` o meno, immagino avrebbe risposto così. E Vittore Carpaccio ? Carpaccio? “Che domanda, e che ciazzecca Vittore Carpaccio ? Che ci azzecca Vittore Carpaccio”... avrebbe risposto. Presumo io, presumo. Quindi bastava a fermarlo un piccolo professore dell’istituto tecnico.

Per tali affermazioni, il deputato Sgarbi veniva querelato dal dottor Di Pietro e rinviato a giudizio dal giudice delle indagini preliminari. La giunta per le autorizzazioni a procedere e, poi, l'assemblea ritennero che per quanto concerne l’insindacabilità delle opinioni espresse, che l'assetto politico-istituzionale e le concrete modalità di esercizio della funzione rendevano imprescindibile la considerazione dell’esposizione sui mass-media sulla base del connubio tra attività di denuncia, propaganda, contatto con l’elettorato, opinion making sui giornali e sulla televisione da un lato e l’operato parlamentare che si concreta in atti tipici della funzione dall’altro. In questo le affermazioni dell’onorevole Sgarbi si inserivano nel contesto della perdurante polemica politica nel nostro Paese inerente al modo di procedere della magistratura e in particolare nella forte critica politica manifestata dal deputato Sgarbi nei confronti dell’operato di taluni magistrati, critica che in molte precedenti occasioni l’Assemblea ritenne insindacabili ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione. Per il complesso delle ragioni sopra evidenziate gli organi parlamentari dichiaravano che i fatti per i quali era in corso il procedimento concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni. La Corte, come accennato in precedenza, annullò la delibera di insindacabilità su questo presupposto: "Il conflitto di attribuzione tra autorità giudiziaria e Assemblee

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parlamentari relativamente all'applicabilità dell'art. 68, primo comma, Cost., postula che il confine tra i due distinti valori confliggenti - autonomia delle Camere e legalita'-giurisdizione - sia posto sotto il controllo della Corte costituzionale, che puo' essere adita dal potere che si ritenga leso o menomato dall'attivita' dell'altro. In tale funzione di controllo la Corte non può limitarsi a sindacare la validità e la congruenza delle motivazioni - talvolta neppure espresse - adottate dalla Camera, ma deve necessariamente accertare se, in concreto, l'espressione dell'opinione in questione possa o meno ricondursi a quell'esercizio delle funzioni parlamentari, il cui ambito, trattandosi di norma costituzionale, spetta ad essa definire, entrando quindi direttamente nel merito della controversia sulla portata e l'applicazione della norma medesima"50. 1.7. La casisitca dopo la "svolta". I principi indicati dalle sentt. nn. 10 e 11/2000 sono stati recepiti in diverse decisioni successive. Tuttora il «modello» del controllo della Corte sulle delibere di insindacabilità dei parlamentari per la risoluzione dei conflitti tra giudice i Parlamento appare quello da ultimo definito con le due pronunce di inizio secolo. La profondità della "svolta" ha indotto la Consulta ad abbandonare gli stretti limiti della mera verifica esterna della decisione della Camera e, al contempo, ad abbracciare un sindacato concernete l'accertamento dei fatti, al fine di verificare in concreto la sussistenza del «nesso funzionale» tra comportamento incriminato e attività propria del parlamentare. In sintesi la Consulta ha aperto un filone interpretativo in base al quale la <<riproduzione>> all'esterno delle Camere di dichiarazioni rese in sede parlamentare è insindacabile solo ove <<si riscontri l'identità sostanziale di contenuto fra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede esterna51.

Emblematico al riguardo è un caso deciso durante la XIV legislatura riguardante l'On. Fabio Mussi, meglio conosciuto come il caso della bouvette52.

Il Tribunale di Roma, XIII sezione civile, nel corso di un giudizio civile di risarcimento danni promosso dal deputato Cesare Previti nei confronti del deputato Fabio Mussi, sollevava conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione alla delibera adottata dalla Camera dei deputati il 15 luglio 1998 (documento IV-quater, n. 30), chiedendo che non spettasse alla Camera dei deputati dichiarare l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, "dei fatti oggetto" del giudizio civile. In particolare, stando agli atti del giudizio, l'On. Mussi veniva ritenuto responsabile per talune dichiarazioni lesive della reputazione del deputato Cesare Previti nel corso di una conversazione avuta con un altro deputato all'interno della buvette della Camera dei deputati, utilizzando un tono di voce

50 in Foro it., 2000, I, p. 331. 51 Tali affermazioni venivano ripetutamente ribadite dalla giurisprudenza successiva della Corte (sentenze numeri 56, 58, 82, 420 del 2000; numeri 137 e 289 del 2001; numeri 51, 52, 207, 257, 270, 283, 294, 421, 435, 448, 508, 509 e 521 del 2002), la quale ha più volte riaffermato che il <<nesso funzionale>> tra la dichiarazione resa extra moenia dal parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento esiste se ed in quanto la dichiarazione possa essere identificata come <<divulgativa all'esterno di attività parlamentari>>, ossia se ed in quanto esista una sostanziale corrispondenza di significato con opinioni espresse nell'esercizio di funzioni parlamentari, non essendo sufficiente una mera comunanza di argomenti. 52 Corte cost., 4 dicembre 2002, n. 509, in Dir. e Giust., 2002. p. 20, con nota di Corvelli.

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tale da rendere percepibile il colloquio ad oltre dieci metri, al punto da essere ascoltato da uno dei giornalisti presenti, il quale ne riportava il contenuto.

La Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio sosteneva che: "Le dichiarazioni rese dal deputato Fabio Mussi sono insindacabili, in quanto opinioni spresse, nell'ambito della Camera, da un parlamentare ad un altro parlamentare su questioni che in quel tempo, con riferimento all'on. Previti, venivano discusse in Parlamento e in ogni parte del Paese e che, per le ragioni che tutti sanno, hanno assunto un marcato rilievo politico", le quali non perdono "la loro natura per essere espresse ad un solo collega invece che a tutta l'Assemblea, o per essere state pronunciate in un luogo piuttosto che in un altro degli edifici parlamentari, magari e proprio per ciò con un linguaggio meno curiale". Inoltre, "lo scambio di opinioni su questioni che abbiano un rilievo politico in conversazioni private può contenere considerazioni e giudizi anche crudi che, proprio per la natura non formale della comunicazione privata, non hanno bisogno di quella cautela e prudenza che ci si aspetta nelle dichiarazioni formali (...) pertanto le conversazioni tra parlamentari che riguardino temi politici (...) sono insindacabili". La Corte Costituzionale nel decidere sul conflitto preliminarmente asseriva che non era mai stato accolto nella sua giurisprudenza, in base alla formulazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, il criterio della mera "localizzazione" dell'atto, specificando che venivano coperti dall'immunità gli atti svolti all'interno dei vari organi parlamentari, o anche paraparlamentari cioè atti che si esplicassero nell'ambito di lavori comunque rientranti nel campo applicativo del "diritto parlamentare". In base a questo criterio, dunque, si ritenevano coperti dall'insindacabilità gli "atti di funzione", anche se posti in essere extra moenia, mentre, invece, non potevano ritenersi coperti da tale immunità gli atti non "di funzione", anche se compiuti all'interno della sede della Camera o del Senato.

In definitiva, il criterio di delimitazione dell'ambito della prerogativa dell'immunità adottato dalla Corte era quello funzionale e non già quello spaziale La sede di svolgimento non poteva pertanto, di per sé sola, conferire carattere di funzione parlamentare ad una "comunicazione privata" svoltasi tra due parlamentari nella buvette della Camera, giacché tale circostanza sarebbe stata riconducibile semmai ad un asserito "contesto politico", che, di per sé stesso, non avrebbe potuto far presumere l'esistenza di un nesso funzionale idoneo a rendere insindacabili le opinioni espresse.

Pertanto la Corte dichiarava che non spettava alla Camera dei deputati deliberare che i fatti, per i quali era in corso presso il Tribunale di Roma il giudizio civile, conseguentemente annullando la relativa deliberazione in tal senso adottata dalla Camera dei deputati.

È indubitabile che, almeno sul piano sostanziale, il sindacato della Corte Costituzionale riguardi espressamente, se non esclusivamente, la verifica della sussistenza del nesso funzionale. Non è difficile constatare come tutte le decisioni, anche quelle più recenti53, si siano sempre fondate su tale aspetto. La questione vera è se il cammino

53 Corte cost., 19-11-2004, n. 347, in Foro it., 2005, I, p. 6, riguardante il Presidente del Senato Marcello Pera, della quale si riporta quanto più sinteticamente la ricostruzione del fatto: "Nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 31 maggio 2000 relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Marcello Pera nei confronti del dott. Giancarlo Caselli ed altri, promosso con ricorso del Tribunale di Roma, IV sezione penale, notificato il 9 agosto 2001, quest’ultimo chiedeva alla

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intrapreso che, almeno apparentemente, ha contribuito a stabilire un certo equilibrio, sia definitivo e, per questo, capace di durare nel tempo.

1.8. L'immunità del Presidente della Repubblica: il caso Cossiga. Si è visto precedentemente, nella patologica frequenza con la quale si verificano conflitti di attribuzione ex art. 68, comma 1, Cost. tra l'autorità giudiziaria e la Camera o il Senato, come la Corte costituzionale abbia cercato di accertare in concreto il concetto di insindacabilità per le opinioni espresse «nell'esercizio delle funzioni» parlamentari. A fronte di tale attività del tutto priva di precedenti risulta essere, invece, il richiamo all'operatività della prerogativa che l'art. 90 Cost. garantisce al Capo dello Stato per gli atti compiuti «nell'esercizio delle sue funzioni» presidenziali. L'art. 90 Cost., infatti, dispone che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per

Corte di annullare la deliberazione con la quale l'Assemblea del Senato, nella seduta del 31 maggio 2000, aveva dichiarato che i fatti per i quali era in corso il procedimento penale riguardavano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle funzioni parlamentari, in quanto insindacabili ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione. In particolare, era contestato al senatore Pera di essere stato l'autore dell'articolo “I PM? Mostri a tre teste”, pubblicato sul “Messaggero” del 14 gennaio 1999, articolo nel quale egli tra l'altro scriveva “… o le forze dell'ordine fanno quello che vogliono i PM e indagano nelle direzioni e nei modi da essi voluti, oppure sono nei guai. É così che sono nati (…) i casi Contrada e Mori a Palermo, dove si è visto che quando i poliziotti non si comportano come vogliono i PM, questi li fanno processare, condannare o rimuovere dal ministro compiacente”. In tal modo il senatore Pera, secondo la contestazione, aveva offeso la reputazione del dott. Giancarlo Caselli, Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, nonché quella del dott. Vittorio Teresi e del dott. Antonio Ingoia, sostituti delegati alla trattazione dei procedimenti penali a carico di Contrada Bruno nel corso dei quali veniva sentito come teste il generale Mario Mori. Osservava il Tribunale ricorrente che la prerogativa di cui all'art. 68, primo comma, Cost., non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma solo quelle legate da nesso funzionale con le attività svolte nella qualità di membro delle Camere. Nella specie – secondo il Tribunale ricorrente – sarebbe mancato il collegamento funzionale tra le affermazioni del sen. Pera e l'esercizio dell'attività parlamentare. La Corte nel verificare la ricorrenza in concreto del <<nesso funzionale>> tra le dichiarazioni rese extra moenia dal parlamentare e l'esercizio di un'attività parlamentare rinvia alla sentenza n. 10 del 2000, nella quale già aveva affermato che “la semplice comunanza di argomento fra la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni espresse dal deputato o dal senatore in sede parlamentare non può bastare a fondare l'estensione alla prima della immunità che copre le seconde. Tanto meno può bastare a tal fine la ricorrenza di un contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca. Occorre invece l'<<identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare>> (così anche la sentenza n. 11 del 2000). Occorre cioè la <<riproduzione>> all'esterno delle Camere di dichiarazioni rese in sede parlamentare, e tale riproduzione è insindacabile solo ove <<si riscontri l'identità sostanziale di contenuto fra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede esterna. Pertanto, le dichiarazioni rese da un senatore o da un deputato fuori della sede parlamentare, ritenute da un cittadino lesive della propria reputazione, in tanto sono coperte dalla garanzia di insindacabilità di cui al primo comma dell'art. 68 della Costituzione, in quanto un <<nesso funzionale>> le colleghi ad atti già posti dal loro autore nell'esercizio delle sue funzioni di membro del Parlamento, mentre sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari e quelli compiuti bensì dall'autore delle dichiarazioni, ma in epoca ad esse posteriore. La Corte dichiara che non spetta al Senato della Repubblica deliberare che i fatti per i quali era in corso il procedimento penale nei confronti del senatore Marcello Pera riguardano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, annullando la deliberazione di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 31 maggio 2000"

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attentato alla Costituzione e che in tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. A tal riguardo non sembra peregrina la disamina di due episodi, divenuti ormai casi di scuola, che hanno visto come protagonista principale l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. I fatti in discussione si riferiscono a due vicende gemelle e parallele, oggetto di distinti procedimenti per risarcimento danni54 intentati contro l’allora Capo dello Stato da noti esponenti della vita politica nazionale in riferimento a giudizi, ritenuti gravemente diffamatori, che questi aveva espresso nei loro confronti; giudizi i quali, secondo Cossiga, sarebbero stati pronunciati in risposta ai tentativi compiuti al fine di gettare discredito sull’istituzione presidenziale. Le persone offese hanno, prima, visto accogliere le loro istanze dal tribunale, quindi capovolgere la sentenza in sede di appello, infine, di nuovo, riconoscere le loro ragioni dalla Cassazione, che annullando, con rinvio, le decisioni della Corte di appello, ha sostanzialmente confermato l’interpretazione del giudice di primo grado55.

Il deputato Sergio Flamigni, nel suo libro “La tela del ragno – Il delitto Moro” e in dichiarazioni rese, nel 1991, davanti alla Commissione parlamentare d’indagine sul caso Moro, prospettava l’ipotesi di un collegamento, all’epoca della strage di Via Fani, tra il Ministero dell’Interno, all’epoca guidato da Francesco Cossiga, e la loggia P2. In seguito a ciò, nell’ottobre del 1991 Francesco Cossiga, durante una conferenza stampa tenuta come Presidente della Repubblica, attaccava Flamigni dichiarando fra l’altro:“Poveretto, dice un sacco di sciocchezze … non per cattiva volontà, ma per poca intelligenza”. Tali frasi venivano ampiamente riportate dalla stampa e dalle emittenti radiotelevisive. Nel novembre del 1991 Sergio Flamigni chiedeva al Tribunale Civile di Roma di condannare Francesco Cossiga al risarcimento dei danni per le offese rivoltegli. Cossiga, d'altro canto, si difendeva invocando l'applicabilità dell’articolo 90 della Costituzione ed in via subordinata egli sosteneva di avere esercitato il diritto di critica nell’ambito di un acceso scontro politico, richiedendo, pertanto, la condanna di Flamigni per le affermazioni rese sul suo conto con riferimento al caso Moro.

Il Tribunale di Roma escludeva l’applicazione del principio di irresponsabilità affermato dall’art. 90 Cost. poiché riteneva che l’attacco personale, di natura diffamatoria, rivolto dal Cossiga a Flamigni non potesse essere ritenuto un atto rientrante nell’esercizio delle funzioni presidenziali e che comunque non potesse configurarsi, nel caso in esame, un corretto esercizio del diritto di critica. Pertanto il giudice di prime cure condannava il sen. Cossiga al risarcimento del danno morale, quantificato in quaranta milioni di lire oltre alla pubblicazione della sentenza e alle spese di giudizio. La decisione veniva integralmente riformata dalla Corte d’Appello di Roma che, dichiarando improponibile la domanda proposta da Flamigni e pur riconoscendo la portata diffamatoria delle dichiarazioni rese

54 Al riguardo si vedano Cass., 27-06-2000, n. 8733, in Danno e resp., 2000, 828, n. Carbone; in Giur. it., 2001, 214, con nota di Fenucci; Cass., 27-06-2000, n. 8734, in Danno e resp., 2000, 828, con nota di Carbone. 55 Al riguardo si vedano Trib. Roma, 23 giugno 1993; Trib. Roma, 14 maggio 1994; Corte d'Appello di Roma, 21 aprile 1997; Corte d'Appello di Roma, 16 marzo 1998. Per la consultazione delle sentenze si rinvia a Giur. cost., 1988, 2829 ss.

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da Francesco Cossiga, riteneva applicabile per esse l’immunità prevista dall’art. 90 della Costituzione per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni presidenziali. Secondo la Corte d’Appello al Presidente della Repubblica deve riconoscersi il potere di esternare valutazioni ed orientamenti ritenuti a suo insindacabile giudizio indispensabili per l’esercizio della sua funzione di garante dei valori costituzionali. La Corte riteneva, quindi, che Cossiga, con la sua reazione diretta a demolire la credibilità dell’avversario, avesse inteso tutelare la Presidenza della Repubblica assicurandone la piena funzionalità.

Con citazione del 6.3.1992 il sen. Pierluigi Onorato conveniva davanti al Tribunale di Roma il sen. Francesco Cossiga per sentirlo condannare al risarcimento dei danni nella misura di L. 2 miliardi per le ingiustificate e gravissime offese recategli dal medesimo ed integranti comportamenti astrattamente riconducibili alle ipotesi dei reati di diffamazione aggravata a mezzo stampa, radio, televisione ed oltraggio pluriaggravato a pubblico ufficiale. Il sen. Onorato, in particolare, faceva riferimento all'incontro tenutosi il 15.3.1991 al Quirinale sul tema della "operazione Gladio", tra il Comitato parlamentare sui servizi per l'informazione e la sicurezza dello Stato ed il senatore Cossiga, allora Presidente della Repubblica, nel corso del quale quest'ultimo, rivolgendosi ad Onorato, componente del Comitato, l'aveva ingiuriosamente apostrofato; 2) alla trasmissione radiofonica dell'1.8.1991 (G.R. 2 delle ore 8,30) nel corso della quale veniva denigrata dal Presidente Cossiga l'iniziativa e la persona di esso senatore Onorato in relazione alla proposta di aprire indagini ufficiose sulle eventuali responsabilità del Presidente Cossiga, a norma dell'art. 90 Cost.; 3) all'intervista giornalistica del 16.10.1991, durante la quale, al termine di un convegno sull'enciclica "Rerum Novarum", il Presidente Cossiga aveva nuovamente proferito una frase offensiva nei propri riguardi. Si costituiva in giudizio il Presidente Cossiga, eccependo, in via principale, l'improponibilità della domanda in quanto relativa a dichiarazioni rese nella qualità di Presidente della Repubblica e, quindi, coperte dal principio dell'irresponsabilità sancito dall'art. 90, primo comma, Cost. e, in linea subordinata, chiedendo la reiezione della domanda nel merito, per legittima difesa e reazione giustificata.

Il caso Onorato/Cossiga

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 22.6.1993, accoglieva la domanda e condannava il sen. Cossiga al risarcimento dei danni morali, quantificati in L. 90 milioni, oltre alla pubblicazione della sentenza ex art. 120 c.p.c ed alle spese del giudizio. Il Tribunale, infatti, riteneva che, per gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica fuori dall'esercizio delle sue funzioni il Presidente della Repubblica fosse responsabile come ogni cittadino. Il sen. Cossiga proponeva appello alla Corte di appello di Roma, la quale con sentenza depositata il 21.4.1997 dichiarava l'improponibilità della domanda del sen. Onorato, poiché le espressioni usate dal sen. Cossiga avevano senza dubbio una portata offensiva dell'onore e del decoro dell'appellato, ma che tuttavia le stesse erano riconducibili alla carica di Presidente della Repubblica e che quindi si versasse nell'ipotesi dell'immunità, prevista dall'art. 90 Cost.. La Corte riteneva, dunque, che il carattere politico della funzione esercitata dal Presidente della Repubblica non consentisse di distinguere il munus e la persona fisica.

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A parere del giudice di appello, anche per evitare l'incongruenza di una garanzia immunitaria per il Presidente della Repubblica inferiore a quella dei parlamentari e per l'inammissibilità di un sindacato della condotta del Presidente, si doveva ritenere un'evoluzione in senso garantistico dell'immunità presidenziale relativa alle esternazioni, la quale immunità copre anche funzioni non tipizzate, ma in qualche modo riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa, relative alla realizzazione dell'indirizzo politico costituzionale, ai poteri di stimolo o di persuasione, ai poteri di autotutela delle prerogative dell'istituzione presidenziale. Contro le decisioni della Corte d'appello di Roma, tanto l'on. Flamigni quanto il sen. Onorato, proponevano ciascuno ricorso per cassazione denunciando l’erronea applicazione dell’art. 90 della Costituzione. La Suprema Corte con le sentenze n. 8733 e n. 8734 accoglieva entrambi i ricorsi. In particolare la Corte osservava che la cosiddetta attività di “esternazione” costituisce solo uno strumento per l’esercizio della carica di Presidente della Repubblica, ma non configura essa stessa una funzione presidenziale insindacabile. In definitiva la Suprema Corte, rinviando le cause ad altre Sezioni della Corte d’Appello di Roma, stabiliva per il giudice di rinvio i seguenti principi di diritto da applicare nelle decisioni:

a)“Ai sensi dell’art. 90, primo comma, Cost., l’immunità del Presidente della Repubblica (che attiene sia alla responsabilità penale che civile o amministrativa), copre solo gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (nelle quali rientrano, oltre quelle previste dall’art.89 Cost., anche quelle di cui all’art. 87 Cost., tra le quali la stessa rappresentanza dell’unità nazionale) e non quelli “extrafunzionali”; né la continuità del munus comporta che l’immunità riguardi ogni atto compiuto dalla persona che ha la titolarità dell’Organo, per quanto monocratico;

b) tra le funzioni del Presidente della Repubblica, coperte dall’immunità, può annoverarsi anche l’”autodifesa” dell’Organo Costituzionale, ma solo allorché l’ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri Organi ovvero nei casi in cui oggettive circostanze concrete impongano l’immediatezza dell’autodifesa;

c) l’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione;

d) pur non essendo il Presidente della Repubblica vincolato ad esprimersi solo con messaggi formali (controfirmati a norma dell’art. 89 Cost.), il suo c.d. “potere di esternazione”, che non è equiparabile alla libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., non integra di per sé una funzione, per cui è necessario che l’esternazione sia strumentale o accessoria ad una funzione presidenziale, perché possa beneficiare dell’immunità;

e) le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di un’esternazione beneficiano dell’immunità solo se commesse “a causa” della funzione, e cioè come estrinsecazione modale della stessa, non essendo sufficiente la mera contestualità cronologica, che dà luogo solo ad atto arbitrario concomitante;

f) il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale e nella pura contumelia, con lesione del diritto di altri all’integrità morale”.

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Contro tali sentenze il senatore Cossiga, nella qualità di ex Presidente della Repubblica, promuoveva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo l'annullamento delle decisioni impugnate.

La consulta, dopo avere ritenuto ammissibile il conflitto con ordinanza n. 455 del 2002, con la sentenza n. 154 del 2004, affermava che nel giudizio per conflitto tra poteri dello Stato relativo a pronunce dell'autorità giudiziaria assunte come lesive della prerogativa di irresponsabilità del Presidente della Repubblica garantita dall'art. 90 della Costituzione, la legittimazione attiva – che di norma spetta soltanto a chi, nel momento in cui il ricorso è proposto, impersona il potere delle cui attribuzioni si discute – può eccezionalmente estendersi a chi ha cessato di ricoprire la carica56. La Corte peraltro dichiarva inammissibile il conflitto di attribuzioni, in quanto spettava all'autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, di accertare se esse costituissero esercizio di una funzione presidenziale o fossero ad essa strumentali ed accessorie, e in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dall'immunità di cui all'art. 90 della Costituzione. Successivamente la Corte di appello di Roma, con sentenza 23 settembre 2004, emessa in sede di rinvio, riconosceva la responsabilità del senatore Cossiga, sul presupposto che egli non avesse agito nell'esercizio delle funzioni presidenziali, sia tipiche (ai sensi dell'art. 89 della Costituzione) che atipiche (in sede di esercizio del c.d. potere di esternazione)57.

Contro tale decisione il senatore Cossiga, proponeva un nuovo conflitto di attribuzione, chiedendo l'annullamento della sentenza stessa, per il quale la Corte decideva simmetricamente alla stregua di quanto già disposto precedentemente.

A leggere, dunque, la pronuncia della Cassazione, nessuna differenza sussisterebbe - quanto all’ambito di applicazione delle rispettive immunità - tra le esternazioni del Capo dello Stato e quelle dei membri delle Camere: anche quest’ultime, come è noto, “coperte” dall’insindacabilità prevista ex art. 68 Cost. Come è stato giustamente sottolineato58, infatti, sono molti, infatti, i dati che portano a ritenere difficile una utilizzazione dei risultati della giurisprudenza costituzionale sull'art. 68, primo comma, Cost., in materia di immunità presidenziale. L'insindacabilità parlamentare, infatti, mira a sentire la libera espressione della volontà politica di un collegio rappresentativo, poiché si garantisce al singolo parlamentare la libera manifestazione delle volontà delle camere, al riparo da possibili interferenze esterne sia

56 Sull'ammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzioni presentato dal sen. Cossiga, si veda ampiamente AA.VV., Il "Caso Cossiga". Capo dello Stato che esterna o privato cittadino che offende?, Torino, 2003. 57 Contro tale decisione il senatore Cossiga, proponeva un nuovo conflitto di attribuzione, chiedendo l'annullamento della sentenza stessa. Sulla ammissibilità del conflitto la Corte costituzionale ha emesso l'ordinanza n. 357/2005, in www.cortecostituzionale.it, la cui massima è la seguente: " E’ ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato proposto dal senatore a vita Francesco Cossiga, nella qualità di 'ex' Presidente della Repubblica, nei confronti della Corte di appello di Roma, in relazione alla sentenza n. 4024 del 23 settembre 2004, pronunciata dalla suddetta Corte di appello, in sede di rinvio, nel giudizio civile contro di lui promosso dal senatore Pierluigi Onorato per il risarcimento del danno derivante da dichiarazioni (ritenute diffamatorie) pronunciate dal Presidente Cossiga nel corso del mandato presidenziale. Infatti, sotto il profilo soggettivo, la Corte ha già ritenuto la legittimazione del senatore Cossiga, come 'ex' Presidente della Repubblica, a proporre conflitto fra poteri dello Stato nei confronti di atti del potere giudiziario. Sotto il profilo oggettivo, il ricorso deduce la lesione da parte dell'autorità giudiziaria, per il tramite dell'impugnata decisione, delle prerogative costituzionali di un 'ex' Presidente della Republlica". 58 AAVV. "Il caso Cossiga", cit., p. 286.

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nei Confronti del potere esecutivo sia nei confronti del potere giurisdizionale. Diversa è, invece, la natura dell'immunità presidenziale stabilita dall'art. 90 Cost. laddove essa è diretta a garantire quel ruolo super partes che caratterizza attualmente la figura dei presidenti di repubbliche parlamentari59. Tale diversità, d'altronde, ha una sua manifestazione esteriore anche di tipo testuale, che deriva dal differente tenore disposizioni in esame. Mentre, infatti, l'art. 68, primo comma, prevede che «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni», l'art. 90, primo comma, Cost. stabilisce che« il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione», Ora non vi è dubbio come il concetto di atti compiuti sia, sicuramente più ampio rispetto a quello di «opinioni espresse e di «voli dati». Ciò sottolinea ancor di più la diversità delle funzioni costituzionalmente attribuite ai due organi costituzionali. Non sembra, quindi, che la Corte costituzionale possa applicare automaticamente i risultati della sua giurisprudenza in tema di insindacabilità parlamentare nell'ambito nell'ambito dell'immunità presidenziale, se non altro per la diversità della funzione esercitata60 ed è quindi indubitabile che, nonostante i tentativi fatti per dare una rigorosa interpretazione del “nesso funzionale”, risulti comunque vana ogni pretesa di cristallizzare una regola omogenea di composizione del conflitto applicabile tanto alle manifestazioni del pensiero sindacabili o insindacabili dei membri delle Camere quanto a quelle del Presidente della Repubblica. Nonostante il possibile ricorso a criteri di valutazione oggettivi, come già previsti per l'insindacabilità parlamentare, resterebbe indubbio l’ampio margine di discrezionalità che contrassegnerebbe operazioni interpretative volte a definire la funzionalità o l’extrafunzionalità delle esternazioni presidenziali. Nei casi in esame le affermazioni dell' ex Presidente Cossiga, lungi dall'essere connesse ad alcuna delle funzioni presidenziali, rappresentano solo un atto di reazione a quelli che lo stesso Cossiga riteneva essere attacchi alla propria persona e alla propria storia personale. A prescindere dalla natura più o meno ingiuriosa delle sue affermazioni, esse non possono in alcun modo essere ricondotte all'esercizio delle attribuzioni presidenziali, nemmeno da un (non ben definito) potere di autotutela del Presidente della Repubblica e come tali, non possono essere coperte dall'immunità presidenziale costituzionalmente prevista.

59 Contro tale impostazione si veda M. C. GRISOLIA, Il “caso Cossiga” di nuovo di fronte alla Corte costituzionale, in www.costituzionalismo.it, dove si auspicaun rafforzamento “del dialogo giurisprudenziale” tra insindacabilità parlamentare e immunità presidenziale , volto a consolidare “un minimo comune denominatore” fra le diverse discipline, a tutto vantaggio di un più neutro ed obiettivo funzionamento degli istituti di garanzia. 60 AAVV., "Il caso Cossiga", cit., p. 188.

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1.9. Appendice normativa. Art. 37 della legge 11 marzo 1953 n. 87 Il conflitto tra poteri dello Stato è risoluto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione. La Corte decide con ordinanza in camera di consiglio sulla ammissibilità del ricorso. Se la Corte ritiene che esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza dichiara ammissibile il ricorso e ne dispone la notifica agli organi interessati. Si osservano in quanto applicabili le disposizioni degli artt. 23, 25 e 26. Salvo il caso previsto nell'ultimo comma dell'art. 20, gli organi interessati, quando non compaiano personalmente, possono essere difesi e rappresentati da liberi professionisti abilitati al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. Art. 1. della legge Costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3 - Modifica dell'articolo 68 della Costituzione. 1. L'articolo 68 della Costituzione e' sostituito dal seguente: "Art. 68. - I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, nè può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale e' previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione e' richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza". La presente legge costituzionale, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 555 - Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione.

Preambolo Il Presidente della Repubblica:

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione; Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di

emanare disposizioni attuative dell'art. 68 della Costituzione; Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 22 ottobre 1996; Sulla proposta del Presidente del Consiglio

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dei Ministri e del Ministro di grazia e giustizia; Emana il seguente decreto-legge:

Articolo 1. 1. Nel comma 3 dell'art. 343 del codice di procedura penale il secondo periodo è sostituito dal

seguente: "Tuttavia quando l'autorizzazione a procedere o l'autorizzazione al compimento di determinati atti sono prescritte da disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali, si applicano tali disposizioni, nonchè, in quanto compatibili con esse, quelle di cui agli articoli 344, 345 e 346.".

Articolo 2

1. L'art. 68, primo comma, della Costituzione si applica in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata e per ogni altro atto parlamentare. 2. Quando in un procedimento giurisdizionale è rilevata o eccepita l'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, il giudice dispone, anche d'ufficio, se del caso, l'immediata separazione del procedimento stesso da quelli eventualmente riuniti. 3. Nei casi di cui al comma 1, e in ogni altro caso in cui ritenga applicabile l'art. 68, primo comma, della Costituzione ad attività divulgative connesse, pur se svolte fuori del Parlamento, il giudice lo dichiara con sentenza in ogni stato e grado del processo penale, a norma dell'art. 129 del codice di procedura penale; nel corso delle indagini preliminari pronuncia decreto di archiviazione ai sensi dell'art. 409 del codice di procedura penale. Se l'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione è ritenuta nel processo civile, il giudice pronuncia sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione; le parti sono invitate a precisare immediatamente le conclusioni ed i termini, previsti dall'art. 190 del codice di procedura civile per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, sono ridotti, rispettivamente, a dieci e cinque giorni. Analogamente il giudice provvede in ogni altro procedimento giurisdizionale, anche d'ufficio, in ogni stato e grado. 4. Se non ritiene di accogliere l'eccezione concernente l'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, proposta da una delle parti, il giudice provvede senza ritardo con ordinanza non impugnabile trasmettendo direttamente copia degli atti alla Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto. Se l'eccezione è sollevata in un processo civile dinanzi al giudice istruttore, questi pronuncia detta ordinanza nell'udienza o entro cinque giorni. 5. Se il giudice ha disposto la trasmissione di copia degli atti, a norma del comma 4, il procedimento è sospeso fino alla deliberazione della Camera e comunque non oltre il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della Camera predetta. La Camera interessata può disporre una proroga del termine non superiore a trenta giorni. La sospensione non impedisce il compimento degli atti urgenti. 6. Se la questione è rilevata o eccepita nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero trasmette, entro dieci giorni, gli atti al giudice, perchè provveda ai sensi dei commi 3 e 4. 7. La questione dell'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione può essere sottoposta alla Camera di appartenenza anche direttamente da chi assume che il fatto per il quale è in corso un procedimento giurisdizionale di responsabilità nei suoi confronti concerne opinioni espresse o voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari. La Camera può chiedere che il giudice sospenda il procedimento, ai sensi del comma 5. 8. Nei casi di cui ai commi 4, 6 e 7 e in ogni altro caso in cui sia altrimenti investita della questione, la Camera trasmette all'autorità giudiziaria la propria deliberazione; se questa è favorevole

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all'applicazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, il giudice adotta senza ritardo i provvedimenti indicati nel comma 3 e il pubblico ministero formula la richiesta di archiviazione, salvo che ritengano di sollevare conflitto di attribuzione. In tale ultimo caso il procedimento è sospeso, anche se il termine di cui al comma 5 è scaduto, sino alla decisione sul conflitto. 9. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano, in quanto compatibili, ai procedimenti disciplinari, sostituita al giudice l'autorità investita del procedimento.

Articolo 3 1. Quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento perquisizioni personali o domiciliari, ispezioni personali, intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, sequestri di corrispondenza, ovvero, quando occorre procedere al fermo, all'esecuzione di una misura cautelare personale o all'esecuzione dell'accompagnamento coattivo, nonchè di misure di sicurezza o di prevenzione aventi natura personale e di ogni altro provvedimento privativo della libertà personale, l'autorità competente richiede direttamente l'autorizzazione della Camera alla quale il soggetto appartiene. 2. L'autorizzazione non è richiesta se il membro del Parlamento è colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza ovvero si tratta di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna. 3. L'autorizzazione è richiesta dall'autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire; in attesa della autorizzazione l'esecuzione del provvedimento rimane sospesa.

Articolo 4 1. Con l'ordinanza prevista dall'art. 2, comma 4, e con la richiesta di autorizzazione prevista dall'art. 3, l'autorità competente enuncia il fatto per il quale è in corso il procedimento indicando le norme di legge che si assumono violate e fornisce alla Camera gli elementi su cui fonda il provvedimento.

Articolo 5 1. Fuori dalle ipotesi previste dall'art. 3, i verbali e le registrazioni delle conversazioni o comunicazioni alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi e che l'autorità giudiziaria ritenga irrilevanti, non possono essere depositati a norma dell'art. 268, commi 4 e 5, del codice di procedura penale e sono immediatamente distrutti. 2. Qualora ritenga necessario utilizzare le intercettazioni di cui al comma 1, l'autorità giudiziaria richiede, entro dieci giorni dalla ricezione dei verbali e delle registrazioni, e in ogni caso prima che i medesimi siano depositati a norma dell'art. 268, commi 4 e 5, del codice di procedura penale, l'autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate. 3. La richiesta di autorizzazione è trasmessa direttamente alla Camera competente. In essa l'autorità giudiziaria enuncia il fatto per il quale è in corso il procedimento, indica le norme di legge che si assumono violate e gli elementi sui quali la richiesta si fonda allegando altresì copia dei verbali e delle registrazioni. 4. Decorsi sessanta giorni dalla richiesta senza che la Camera abbia provveduto, l'autorità giudiziaria può reiterarla. L'autorizzazione si intende concessa se il diniego non interviene nei successivi sessanta giorni. 5. Se l'autorizzazione viene negata, o l'autorità giudiziaria non ritiene di reiterare la richiesta ai sensi del comma 4, la documentazione delle intercettazioni è distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego o dalla scadenza del termine di cui al primo periodo del medesimo comma 4.

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Articolo 6 1. Nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto le disposizioni dell'art. 5 si osservano solo se le intercettazioni non sono già state utilizzate in giudizio; l'autorizzazione è richiesta anche se, a tale data, le attività indicate nel comma 2 del medesimo art. 5 risultano già compiute.

Articolo 7 1. Sono abrogate le disposizioni del decreto-legge 6 settembre 1996, n. 466.

Articolo 8 1. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge. Legge 20 giugno 2003 n. 140 - Disposizioni per l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato.

Preambolo La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Promulga

la seguente legge:

Art. 1 1. Non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall'articolo 90 della Costituzione, il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto previsto dall'articolo 96 della Costituzione, il Presidente della Corte costituzionale61. 2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime62. 3. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell'articolo 159 del codice penale.

Art. 2

1. Al comma 3 dell'articolo 343 del codice di procedura penale, il secondo periodo è sostituito dal seguente: "Tuttavia, quando l'autorizzazione a procedere o l'autorizzazione al compimento di determinati atti sono prescritte da disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali, si applicano tali disposizioni, nonché, in quanto compatibili con esse, quelle di cui agli articoli 344, 345 e 346".

61 La Corte costituzionale con sentenza 20 gennaio 2004, n. 49 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 62 La Corte costituzionale con sentenza 20 gennaio 2004, n. 49 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma.

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Art. 3

1. L'articolo 68, primo comma, della Costituzione si applica in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento. 2. Quando in un procedimento giurisdizionale è rilevata o eccepita l'applicabilità dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, il giudice dispone, anche d'ufficio, se del caso, l'immediata separazione del procedimento stesso da quelli eventualmente riuniti. 3. Nei casi di cui al comma 1 del presente articolo e in ogni altro caso in cui ritenga applicabile l'articolo 68, primo comma, della Costituzione il giudice provvede con sentenza in ogni stato e grado del processo penale, a norma dell'articolo 129 del codice di procedura penale; nel corso delle indagini preliminari pronuncia decreto di archiviazione ai sensi dell'articolo 409 del codice di procedura penale. Nel processo civile, il giudice pronuncia sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione; le parti sono invitate a precisare immediatamente le conclusioni ed i termini, previsti dall'articolo 190 del codice di procedura civile per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, sono ridotti, rispettivamente, a quindici e cinque giorni. Analogamente il giudice provvede in ogni altro procedimento giurisdizionale, anche d'ufficio, in ogni stato e grado. 4. Se non ritiene di accogliere l'eccezione concernente l'applicabilità dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, proposta da una delle parti, il giudice provvede senza ritardo con ordinanza non impugnabile, trasmettendo direttamente copia degli atti alla Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto. Se l'eccezione è sollevata in un processo civile dinanzi al giudice istruttore, questi pronuncia detta ordinanza nell'udienza o entro cinque giorni. 5. Se il giudice ha disposto la trasmissione di copia degli atti, a norma del comma 4, il procedimento è sospeso fino alla deliberazione della Camera e comunque non oltre il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della Camera predetta. La Camera interessata può disporre una proroga del termine non superiore a trenta giorni. La sospensione non impedisce, nel procedimento penale, il compimento degli atti non ripetibili e, negli altri procedimenti, degli atti urgenti. 6. Se la questione è rilevata o eccepita nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero trasmette, entro dieci giorni, gli atti al giudice, perché provveda ai sensi dei commi 3 o 4. 7. La questione dell'applicabilità dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione può essere sottoposta alla Camera di appartenenza anche direttamente da chi assume che il fatto per il quale è in corso un procedimento giurisdizionale di responsabilità nei suoi confronti concerne i casi di cui al comma 1. La Camera può chiedere che il giudice sospenda il procedimento, ai sensi del comma 5. 8. Nei casi di cui ai commi 4, 6 e 7 e in ogni altro caso in cui sia altrimenti investita della questione, la Camera trasmette all'autorità giudiziaria la propria deliberazione; se questa è favorevole all'applicazione dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, il giudice

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adotta senza ritardo i provvedimenti indicati al comma 3 e il pubblico ministero formula la richiesta di archiviazione. 9. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano, in quanto compatibili, ai procedimenti disciplinari, sostituita al giudice l'autorità investita del procedimento. La sospensione del procedimento disciplinare, ove disposta, comporta la sospensione dei termini di decadenza e di prescrizione, nonché di ogni altro termine dal cui decorso possa derivare pregiudizio ad una parte.

Art. 4 1. Quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento perquisizioni personali o domiciliari, ispezioni personali, intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, sequestri di corrispondenza, o acquisire tabulati di comunicazioni, ovvero, quando occorre procedere al fermo, all'esecuzione di una misura cautelare personale coercitiva o interdittiva ovvero all'esecuzione dell'accompagnamento coattivo, nonché di misure di sicurezza o di prevenzione aventi natura personale e di ogni altro provvedimento privativo della libertà personale, l'autorità competente richiede direttamente l'autorizzazione della Camera alla quale il soggetto appartiene. 2. L'autorizzazione è richiesta dall'autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire; in attesa dell'autorizzazione l'esecuzione del provvedimento rimane sospesa. 3. L'autorizzazione non è richiesta se il membro del Parlamento è colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza ovvero si tratta di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna. 4. In caso di scioglimento della Camera alla quale il parlamentare appartiene, la richiesta di autorizzazione perde efficacia a decorrere dall'inizio della successiva legislatura e può essere rinnovata e presentata alla Camera competente all'inizio della legislatura stessa.

Art. 5 1. Con l'ordinanza prevista dall'articolo 3, comma 4, e con la richiesta di autorizzazione prevista dall'articolo 4, l'autorità competente enuncia il fatto per il quale è in corso il procedimento indicando le norme di legge che si assumono violate e fornisce alla Camera gli elementi su cui fonda il provvedimento.

Art. 6 1. Fuori dalle ipotesi previste dall'articolo 4, il giudice per le indagini preliminari, anche su istanza delle parti ovvero del parlamentare interessato, qualora ritenga irrilevanti, in tutto o in parte, ai fini del procedimento i verbali e le registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, ovvero i tabulati di comunicazioni acquisiti nel corso dei medesimi procedimenti, sentite le parti, a tutela della riservatezza, ne decide, in camera di consiglio, la distruzione integrale ovvero delle parti ritenute irrilevanti, a norma dell'articolo 269, commi 2 e 3, del codice di procedura penale. 2. Qualora, su istanza di una parte processuale, sentite le altre parti nei termini e nei modi di cui all'articolo 268, comma 6, del codice di procedura penale, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni o i tabulati di cui al comma 1, il giudice per le indagini preliminari decide con ordinanza e richiede, entro i dieci giorni successivi, l'autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate.

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3. La richiesta di autorizzazione è trasmessa direttamente alla Camera competente. In essa il giudice per le indagini preliminari enuncia il fatto per il quale è in corso il procedimento, indica le norme di legge che si assumono violate e gli elementi sui quali la richiesta si fonda, allegando altresì copia integrale dei verbali, delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni. 4. In caso di scioglimento della Camera alla quale il parlamentare appartiene, la richiesta perde efficacia a decorrere dall'inizio della successiva legislatura e può essere rinnovata e presentata alla Camera competente all'inizio della legislatura stessa. 5. Se l'autorizzazione viene negata, la documentazione delle intercettazioni è distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego. 6. Tutti i verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni acquisiti in violazione del disposto del presente articolo devono essere dichiarati inutilizzabili dal giudice in ogni stato e grado del procedimento.

Art. 7 1. Nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, le disposizioni dell'articolo 6 si osservano solo se le intercettazioni non sono già state utilizzate in giudizio.

Ar. 8 1. Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge 15 novembre 1993, n. 455, 14 gennaio 1994, n. 23, 17 marzo 1994, n. 176, 16 maggio 1994, n. 291, 15 luglio 1994, n. 447, 8 settembre 1994, n. 535, 9 novembre 1994, n. 627, 13 gennaio 1995, n. 7, 13 marzo 1995, n. 69, 12 maggio 1995, n. 165, 7 luglio 1995, n. 276, 7 settembre 1995, n. 374, 8 novembre 1995, n. 466, 8 gennaio 1996, n. 9, 12 marzo 1996, n. 116, 10 maggio 1996, n. 253, 10 luglio 1996, n. 357, 6 settembre 1996, n. 466, e 23 ottobre 1996, n. 555.

Art. 9 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

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1.10. Bibliografia. AA.VV., Il "Caso Cossiga". Capo dello Stato che esterna o privato cittadino che offende?, Torino, 2003. G. AZZARITI, Cronaca di una svolta: l'insindacabilità dei parlamentari dinanzi alla Corte Costituzionale, in Le Camere nei conflitti a cura di G. Azzariti, Torino, 2002. D. BRUNELLI, Immunità (voce), in Enc. giur., vol. XV, Milano, 1989. G. BUCCI, L'esercizio della funzione parlamentare tra insindacabilità e privilegio, in Politica del diritto, 1999, 71. E. CAPALOZZA, L'immunità parlamentare e l'art. 68, comma 1 della Costituzione, in Scritti giuridico-penali, Padova, 1962, p. 115 ss. L. CARLASSARE, Responsabilità giuridica e funzioni politico-costituzionali: considerazioni introduttive, in Diritti e responsabilità dei soggetti investiti di potere, Padova, 2003, p. 4 ss. A. M. CECERE, Il difficile rapporto tra insindacabilità parlamentare e inviolabilità dei beni morali. Sfumata per la Corte Costituzionale un'altra occasione di applicare una regola di principio, in Giur. it., 1998, 1774. M. CERASE, La rilevanza dell'interrogazione nell'insindacabilità parlamentare: nuovi aspetti, in Foro it., 2003, I, 1014. G. CIAURRO, Prerogative Costituzionali(voce), in Enc. giur., vol. XXXV, Milano, 1986. P. COSTANZO, La "giurisprudenza Sgarbi" alla ricerca di un punto fermo, in Danno e resp., 2000, 387. T. GIUPPONI, Insindacabilità (del) parlamentare e "ingerenza qualificatoria" della Corte costituzionale: verso la giustiziabilità dei regolamenti delle Camere?, in Giur. costit., 2003, 3882 ss. P. G. GRASSO, Appunti sulla responsabilità aquiliana del Presidente della Repubblica in caso di "esternazioni", in Dir. e società, 1999, 1 ss. M. C. GRISOLIA, Immunità parlamentari e Costituzione: la riforma del primo comma dell’art. 68 Cost., Padova, 2000. M. C. GRISOLIA, Il “caso Cossiga” di nuovo di fronte alla Corte costituzionale, in www.costituzionalismo.it.

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