Le emozioni nella prospettiva...

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Le emozioni in una prospettiva psicoanalitica. A case study: “Random Harvest” e “Colonel Blimp”

di Lucilla Albano

«Sì, ammiro in maniera particolare l’ultimo film di Rossellini. Per quali motivi? Ah, ecco che la cosa diventa subito più difficile; non posso invocare davanti a voi il trasporto, l’emozione, la gioia: è un linguaggio che non ammettete affatto come prova; lo capite almeno, spero (e se no, che Dio vi metta sulla buona strada)»1. Come Jacques Rivette più di cinquanta anni fa (era il 1955 e parlava di Viaggio in Italia), si potrebbe anche oggi dire che il linguaggio delle emozioni – almeno a livello degli studi cinematografici - non è ammesso e neppure compreso? Sembra di no dato che, almeno attraverso gli studi cognitivisti ma anche i Cultural Studies, si parla molto di emozioni, accusando anzi altre metodologie e altri approcci di darne conto troppo poco o affatto.

In epoca moderna e contemporanea, oltre a quelle cognitiviste e culturaliste esistono varie teorie delle emozioni: evoluzionistica, funzionalista, gestaltica, comportamentistica, fenomenologica, sociologica; ma anche in linguistica, dove C. Sanders Peirce parla di «effetto emotivo» del segno, o in filosofia, ad esempio con Heidegger, che indica nella «situazione emotiva» uno dei modi esistenziali dell’essere al mondo. Esiste una teoria delle emozioni nella prospettiva psicoanalitica? E semmai in quale psicoanalisi dato che esistono scuole e impostazioni diverse e variegate? Per quanto riguarda la linea freudiano-lacaniana (a cui la maggior parte degli studi psicoanalitici sul cinema fanno riferimento), il termine emozione non ha alcuna teorizzazione. In tutti i dizionari di psicoanalisi non esiste il termine emozione (Gemütsbewegung), bensì quello di affetto (Affekt). Anzi il Dizionario di Psicologia di Umberto Galimberti scrive decisamente: «La teoria psicoanalitica ritiene che le emozioni siano affetti, ossia quanti di energia legati alle idee, e che la loro presenza alteri l’equilibrio psichico e interferisca nell’adattamento»2, mentre Jung, nel 1920, scriveva: «come sinonimo di affetto uso anche emozione»3 . Per Freud affetto e rappresentazione sono le due modalità con cui si esprimono le pulsioni e la parola emozione si trova abbastanza di rado nei suoi scritti, anche se con il termine affetto non si fa che designare, in senso descrittivo,

1 J. Rivette, Lettre sur Rossellini, in «Cahiers du Cinéma» n. 46, 1955; ora anche in G. Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, La Casa Usher, Firenze 1984, p. 109-110.2 Voce Emozione in U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 2006, p. 329.3 C. G. Jung, Tipi psicologici (1920), in Opere, Boringhieri, Torino 1969 , Vol. 6, p. 415.

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«la risonanza emozionale di un’esperienza generalmente forte»4. Se e quanto, nell’uso psicoanalitico classico, esista una sostanziale differenza tra il termine emozione e quello di affetto, è questione ambigua e non totalmente chiarita. Semplificando al massimo, sia per Freud che per Lacan affetto implica maggiormente il rimosso e i conflitti inconsci, mentre emozione ha a che fare con uno stato d’animo e un movimento del corpo spontaneo e contingente, più cosciente e di superficie (per quanto le ragioni di un’emozione possano non essere sempre presenti nel soggetto che la sperimenta). La differenza tra emozione e affetto potrebbe essere esemplificata in questo modo: un uomo che piange esprime un’emozione, un uomo depresso soggiace a un affetto, una donna turbata è in preda a un’emozione, una donna angosciata a un affetto; ciò non toglie però che la depressione possa esprimersi con il pianto e l’angoscia con il turbamento. Allora, così come in psicoanalisi al termine emozione si sostituisce quello di affetto, con significati non perfettamente concordi, anche negando all’emozione in sé uno statuto metapsicologico su cui valga la pena di riflettere; nello stesso modo il termine emozione può essere declinato o sostituito anche con passione (come lo chiamerebbero Aristotele, Cartesio e la semiotica strutturale di Greimas), con sensazione (Deleuze), maggiormente riferito alle esperienze e alle percezioni coscienti, con feeling e con sentimento. Campi limitrofi, in parte coincidenti, in qualche modo ineffabili, e sulle cui eventuali differenze e distinguo nei vari campi del sapere è arduo e complesso dare conto, tanto più in un breve scritto come questo.

Uno dei pochi psicoanalisti ad avere sviluppato una vera e propria “teoria delle emozioni” è il cileno Ignacio Matte Blanco che ritiene l’emozione, definito un fenomeno psicofisico, una nozione centrale in psicologia, ma molto meno in psicoanalisi, dove il problema della relazione tra emozione e inconscio è sempre stato «molto vago»5, ma dove tuttavia si sono giocate alcune questioni fondamentali. «La psicoanalisi ha […] rivelato come mai prima l’importanza dell’emozione nella vita psichica e specialmente nello “strutturarsi” del pensiero […]. Per fare un esempio: siamo ora più pienamente consapevoli dell’influenza dell’emozione sul pensiero. Sappiamo che le persone vedono il mondo secondo le emozioni che sperimentano; se sono sotto l’influenza di paure paranoidi tenderanno

4 Voce Affetto in J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 7.5 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica,. Einaudi, Torino 1981, p. 204. Molto utile per comprendere meglio la teoria delle emozioni di Matte Blanco è il volume a cura di A. Ginzburg e R. Lombardi, L’emozione come esperienza infinita. Matte Blanco e la psicoanalisi contemporanea, FrancoAngeli, Milano 2007.

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a vedere le altre persone come persecutori; se hanno desideri sessuali rimossi troveranno sessualità dove altri non la scoprono; e così via»6.

Nel suo libro L’inconscio come insiemi infiniti, Matte Blanco ha riformulato i concetti freudiani di inconscio (processo primario) e di coscienza (processo secondario) in quelli di logica simmetrica e di logica bivalente o aristotelica, e quindi asimmetrica. Le caratteristiche del processo primario descritte da Freud, cioè condensazione, spostamento, raffigurabilità, sovradeterminazione, sostituzione della realtà esterna con quella psichica, assenza di successione temporale e di contiguità spaziale, assenza del principio di non contraddizione e quindi coincidenza degli opposti «rivelano – scrive Matte Blanco - l’operazione di una logica peculiare a questo sistema, il cui fondamentale tratto distintivo è quello di trattare come simmetriche relazioni che, nella logica scientifica, non sono considerate tali»7.

Matte Blanco, con la sua teorizzazione dell’inconscio come “insiemi infiniti”, ha ipotizzato che anche l’emozione rimanda all’infinito perché ci fa sentire vicini al modo di essere simmetrico, le cui caratteristiche - specifiche dell’esperienza emozionale - sono la generalizzazione (l’individuo viene identificato con la classe), la massimizzazione (le variabili della classe hanno valori infiniti) e l’irradiazione (l’individuo contiene tutti i membri della classe). Insomma emozione e inconscio sono «quasi» la stessa cosa, nel senso che nell’emozione vi è un’ «irruzione» del modo di essere simmetrico, dove la realtà è vissuta come omogenea e indivisibile e dove i desideri e i piaceri, oppure al contrario, i pericoli e le paure vengono ingranditi, massimizzati appunto, «in un modo completamente fantastico»8, prevalendo sul modo di essere asimmetrico, vale a dire sul regno del discreto, dove esiste la negazione, il principio di non contraddizione, la distinzione, la separazione, la distanza e la successione.

6 Ivi, pp. 241-242.7 Dall’applicazione del principio di simmetria (quando l’inverso di una relazione è identico alla relazione, allora la relazione è detta simmetrica) deriva una descrizione in chiave logica delle leggi che caratterizzano il sistema inconscio. «L’osservazione clinica mostra che quell’aspetto dell’uomo che può essere descritto nei termini del principio di simmetria – e che approssimativamente[…] può essere riferito all’inconscio – sta continuamente “esercitando una pressione” per esprimere se stesso, e in questo modo è sempre presente. A questa pressione, però, sempre oppone resistenza, per così dire, l’altra parte dell’uomo che sottostà alle regole della logica bivalente. […] Bisogna riconoscere che vi è una difficoltà emozionale nell’accettare che il pensiero umano è come un gioco che si conforma allo stesso tempo a due differenti regole; e il peggio è che una delle regole diventa visibile soltanto nei termini della violazione dell’altra: se non fosse per questo, la seconda regola sarebbe “muta” e “invisibile”». Ivi, p. 63. 8 Ivi, p. 353.

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Diversi anni fa ho pubblicato una lettura di The Lady from Shanghai (La signora di Shangai, 1947) di Orson Welles9 utilizzando l’epistemologia matteblanchiana e il suo discorso sulle strutture bi-logiche, in cui coesistono la logica simmetrica, quella dell’inconscio e la logica asimmetrica, quella della coscienza e della ragione. Quel film di Welles mi era sembrato perfetto, intuitivamente, come esemplificazione di una struttura bi-logica: in questo film infatti un sistema di opposizioni, tipico del racconto di genere (e della logica asimmetrica), coabita e coesiste, a livello più profondo, con un sistema di identità (cioè con la logica simmetrica, tipica dell’inconscio). Ed è per questo che The Lady from Shanghai travalica la dimensione del genere e sviluppa un’intensità drammatica e una complessità e profondità inedite. Opposizione e identità, come sappiamo, possono convivere solo in una struttura bi-logica, mentre sono incompatibili nella logica cosciente, asimmetrica. Per Freud, e così per Matte Blanco, ogni creazione poetica, ogni oggetto estetico travalica la logica comune e riesce ad immergersi, per vie segrete, misteriose o ignorate, nella «magica fonte» - l’espressione è di Ernst Gombrich - del processo primario, adeguando i contenuti inconsci alle strutture formali del linguaggio attraverso cui un autore si esprime. L’essere simmetrico è omogeneo e indivisibile e quindi inconoscibile e impensabile, eppure, in qualche modo, è descrivibile, anche se in termini che non possono che essere asimmetrici: «Il compito è simile a quello di esprimere un sentimento per mezzo di parole, come nella poesia. Quel che la poesia fa, contrariamente alla scienza, è molto più che una semplice descrizione: impiega parole per riprodurre nell’ascoltatore o nel lettore qualcosa che in sé è ineffabile»10. E lo stesso discorso vale per le immagini e per il cinema.

Per The Lady from Shanghai si trattava di capire come un film di genere proveniente da un racconto noir, dove la trama corrisponde ai canoni di un dark melodrama, fosse in realtà un film d’autore e un’opera poetica, spiazzante, inaccessibile ed esposta ad un’emozione imprevista e imprevedibile. Insomma nel film di Welles è presente, nei termini di una rappresentazione narrativa di immagini in movimento e, ovviamente, in un modo completamente diverso (ma insieme simile), quello stesso meccanismo che Jean-François Lyotard descrive a proposito di un disegno di donna di Picasso. Il filosofo francese spiega che la scena in cui la donna dorme non appartiene allo spazio “reale”: essa tollera che in uno stesso spazio e in uno stesso

9 L. Albano, L’accessibilità del testo: The Lady from Shanghai, in «Filmcritica» n. 352, febbraio 1985. Ho riproposto questo lavoro, in forma abbreviata, in Id., La caverna dei giganti. Studi sul dispositivo cinematografico, Pratiche, Parma 1992.10 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, cit. p. 384.

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tempo uno stesso corpo offra la coesistenza di più posizioni e di più contorni e induca quindi la simultaneità di più punti di vista11. Lyotard – qualche anno prima (1971) rispetto al momento in cui Matte Blanco completa la sua opera capitale (1975) - sta proprio spiegando come quell’opera d’arte si esprima attraverso una logica (da parte di Matte Blanco si sarebbe definita «simmetrica») che supera i limiti spazio-temporali e quelli del principio di non contraddizione. Se Lyotard mette in luce la poeticità, l’originalità e l’invenzione del disegno di Picasso basandosi sulle caratteristiche dell’inconscio scoperte e descritte da Freud, si parva licet, io ho cercato di fare altrettanto con il film di Welles, sostenuta e arricchita dal lavoro di Matte Blanco che, come dice lui stesso, non ha fatto altro che chiarire in termini logici le scoperte freudiane, mettendo in risalto la questione, per lui fondamentale, dell’emozione.

Nel cinema però, a differenza delle altre arti, ad essere emozionanti non sono solo le singole opere, ma è il dispositivo stesso, al di là dei film che si stanno vedendo. E non solo per tutto ciò che di metapsicologico si scopre nel rapporto tra schermo e spettatore (la riattivazione delle scene formatrici e dello stadio dello specchio, l’analogia con il sogno, con l’allucinazione e con l’ipnosi, il rapporto con il fantasma ecc…), e che può avvenire – questa è l’ipotesi – solo all’interno del dispositivo cinematografico classico, uno dei fenomeni di maggiore potenza della nostra epoca e in particolare del XX secolo; non solo per il fatto che, grazie al dispositivo, il cinema mostra sempre, in un certo senso, l’altra scena, una scena eterogenea a quella della realtà e a quella della coscienza; ma soprattutto perché il cinema è Unheimlich, è perturbante, nel senso che ha a che fare con l’animismo, la magia e l’incantesimo, con il doppio, con l’identificazione, con l’onnipotenza dei pensieri e con il superamento della morte12, come metteva in luce un commentatore già nel 1895, scrivendo che con il cinema «la morte cessa di essere assoluta»13, così come, sempre il cinema, tende a cancellare la distinzione tra realtà e finzione, tra immaginario e reale, altra caratteristica del perturbante. In analogia con la psicoanalisi la quale, secondo Freud, mirando «a mettere in luce queste forze occulte, è diventata a

11 J.-F. Lyotard, Discours, figure, Klincksieck, 1971, p. 277 (tr. It. Discorso, figura, Unicopli, Milano 1988).12 Sono queste le caratteristiche, nella parte in cui parla delle credenze superate, che Freud mette in rilievo rispetto al concetto espresso nel suo saggio Das Unheimliche (1919). Cfr. S. Freud, Il perturbante, in Opere, Boringhieri, Torino 1977, Vol. 9. 13 Citato in N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Pratiche, Parma 1994, p. 31. Si tratta di un articolo apparso sulla «Poste» il 30 dicembre 1895, mentre in un altro articolo apparso su «Le Radical», sempre a proposito della prima proiezione del Cinématographe dei fratelli Lumière, si poteva leggere: «Si potrà, ad esempio, rivedere vivere i propri cari, molto tempo dopo averli perduti»:

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cagione di ciò essa stessa perturbante per molte persone»14, così il cinema (per tanti versi avvicinato alla psicoanalisi) rende concrete, palpabili, nel suo stesso dispositivo, tali credenze primitive e inquietanti, legate a un “ritorno del superato”.

Tutto questo, l’emozione offerta dal dispositivo cinematografico in sé, ce lo conferma Jacques Derrida in un’intervista rilasciata ai «Cahiers du Cinéma» nel 2001:

Se non sono i nomi dei film e neppure gli attori che hanno lasciato un segno in me, è certamente un’altra forma di emozione, che scaturisce dalla proiezione, dall’energia stessa della proiezione. E’ un’emozione completamente diversa da quella della lettura, che lascia in me un ricordo più presente e più attivo. Diciamo che nel ruolo di voyeur, al buio, provo una liberazione ineguagliabile, una sfida alle proibizioni di ogni tipo. Me ne sto là, davanti allo schermo, voyeur invisibile, autorizzato a tutte le proiezioni possibili, a ogni identificazione, senza la minima punizione e senza il minimo lavoro. Ecco, forse è questo che mi dà il cinema: un modo per liberarmi dalle proibizioni e, soprattutto, per dimenticare il lavoro. E’ anche per questo, senza dubbio, che questa emozione cinematografica non può assumere, per me, la forma di un sapere, né di una memoria effettiva. Dal momento che questa emozione appartiene a un registro completamente diverso, essa non può essere né lavoro, né sapere e nemmeno memoria.

Vorrei a questo punto dedicarmi a un case study per dimostrare in vitro, una possibile interpretazione delle emozioni, in chiave psicoanalitica matte blanchiana, e non solo – anche nella prospettiva di Freud e di Lacan - rispetto a due film: Random Harvest (Prigionieri del passato, USA 1942) di Mervin LeRoy e The Life and Death of Colonel Blimp (Duello a Berlino, Gran Bretagna 1943), di Michael Powell e Emeric Pressburger, legati da un filo tenue e sottile, ma anche certo e visibile, rispetto alla loro profonda analogia. Vorrei dimostrare che questi due film, con le loro storie romantiche e in parte melodrammatiche, commuovono ed emozionano perché mettono in scena meccanismi profondi che la psicoanalisi ha scoperto e messo in luce e che solo attraverso l’interpretazione psicoanalitica possono a loro volta essere compresi da uno spettatore e da una spettatrice “emozionati”, anche se non sanno bene perché.

Entrambi i film sono delle storie d’amore ostacolate (in questo senso possono essere definite “melodrammatiche”), il cui centro emotivo sta nel far vivere (o meglio rivivere) nello spettatore il senso della perdita e della nostalgia. Il desiderio dei personaggi non riguarda qualcosa di nuovo e il loro piacere non deriva da una rottura con il passato, ma al contrario, desiderio e piacere, amore e passione sono

14 S. Freud, Il perturbante, cit., p. 104.6

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tutti rivolti verso la riconquista di qualcosa che riguarda un tempo anteriore, un passato che ad esempio per il protagonista di Random Harvest non sa neppure quale sia, avendone persa la memoria.

Non posso esimermi – non essendo i due film molto conosciuti – dal darne una traccia a livello della storia.

Random Harvest : Inghilterra, Melbridge County Asylum, 1918, un giovane ufficiale (Ronald Colman), che ha completamente perso la memoria in guerra, fugge dall’ospedale – proprio nel giorno in cui è dichiarato l’armistizio - e viene soccorso da un’attrice, Paula (Greer Garson). La coppia si rifugia in campagna, presto si sposano e andranno a vivere in un cottage dove nascerà il loro bambino, ma un nuovo incidente fa ritornare a Smithy, così era stato ribattezzato da Paula, la memoria precedente e dimenticare quella recente. Ritornato nella casa avita (Random Hall appunto), ripreso il suo posto nella società, si occuperà dell’industria di famiglia e non riconoscerà nella sua segretaria e poi moglie (ma solo formalmente), la sposa del passato, finché, ritornato a Melbridge, riacquisterà la memoria e riconoscerà la donna amata.

The Life and Death of Colonel Blimp: Berlino, 1902, dopo un duello che li vede contrapposti, a difendere l’onore dei loro rispettivi paesi, Clive Candy (Roger Livesey), ufficiale inglese e Theo Kretschmar- Schuldorff (Anton Walbrook), ufficiale tedesco, diventano amici per la vita e si innamoreranno della stessa donna, Edith (Deborah Kerr), chiesta in moglie da Theo. La giovane donna, sempre uguale a se stessa, riapparirà nella vita di Candy, sotto le vesti di Barbara, che diventerà sua moglie, alla fine delle Prima guerra mondiale e poi, rimasto vedovo, in quelle di Angela, sua autista durante la Seconda.

Cercando di interpretare l’emozione profonda e ineludibile che mi ha procurato la visione di questi due film, avvenuta più volte, in tappe e modalità diverse, mi sembra di aver capito che essa proviene, oltre che dalla bellezza dei due film e dal fascino della storia e della regia, proprio dal suo punto doloroso, “nostalgico”, quello che in psicoanalisi viene definito l’ “oggetto perduto”. Sia Freud che Lacan parlano di «una nostalgia che lega il soggetto all’oggetto perduto»15, nostalgia che ha sempre a che vedere con il corpo materno, con il seno e con l’allattamento; e che Lacan ha rielaborato e ridefinito, al suo modo un po’ ermetico, con un neologismo che rispecchia l’originalità teorica dell’assunto: oggetto piccolo a.15 I. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-1957, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1996, p. 9.

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In Freud l’oggetto perduto è, sostanzialmente, il rapporto del lattante con il seno materno in quanto oggetto primario di soddisfacimento sessuale, soddisfacimento che passa attraverso l’assunzione del cibo (del latte) ed è quindi legato al seno. Scrive Freud in Al di là del principio di piacere:

La pulsione rimossa non rinuncia mai a cercare il suo pieno soddisfacimento che consisterebbe nella ripetizione di un’esperienza primaria di soddisfacimento; tutte le formazioni sostitutive e reattive, tutte le sublimazioni non potranno mai riuscire a sopprimere la sua persistente tensione, e la differenza tra il piacere del soddisfacimento agognato e quello effettivamente ottenuto determina nell’uomo quell’impulso che non gli permette di fermarsi in nessuna posizione raggiunta ma, secondo le parole del poeta, ‘sempre la spinge più avanti’ [dal Faust di Goethe].

Per Lacan «l’oggetto a è, allo stesso tempo, l’effetto di questa perdita (è l’oggetto perduto), ma anche ciò che la tampona, ciò che la compensa»16. L’oggetto a è più propriamente ciò che emerge in quanto differenza, margine, resto, tra l’esperienza primaria di soddisfacimento, che diventa quindi il modello del «soddisfacimento agognato » e l’insoddisfatta domanda d’amore (insoddisfatta strutturalmente), cioè il piacere effettivamente ottenuto. L’oggetto a quindi non è propriamente un oggetto, non ha alcun contenuto, né significato (se non quelli che trova di volta in volta), è puramente psichico e inconscio e la sua essenza consiste nella dimensione della perdita o della mancanza. E’ insomma l’investimento nostalgico verso ciò che “resta” della perdita originaria dell’oggetto e che si ritrova sempre in autre chose.

Con il concetto di objet petit a Lacan definisce quindi la mancanza costitutiva del soggetto, esprime quell’oggetto - che in realtà non è neppure tale – che non è l’oggetto del desiderio, ma la causa e il motore del desiderio. Portando alle estreme conseguenze le riflessioni freudiane Lacan sostiene che «il desiderio non può avere alcun oggetto»; il soggetto desiderante non può avere alcuna “relazione d’oggetto” perché l’oggetto, lungi dall’essere ciò con cui entra in un rapporto di complementarità o di armonia, non è che la nostalgia per un oggetto mancante, perduto. E’ «il ritrovamento… di una ripetizione impossibile, visto che per l’appunto non è lo stesso oggetto, non potrebbe esserlo»17, e ciò che si cerca non coincide mai con ciò che si trova, nel senso «che è una ripetizione sempre cercata ma mai soddisfatta»18.

16 A. Di Ciaccia, M. Recalcati, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 196.17 J. Lacan, La relazione d’oggetto, cit., p. 9. Come scrive Massimo Recalcati: «… il desiderio, più che a una soddisfazione, è legato a una mancanza, giustamente precisata da Lacan non come mancanza contingente di qualcosa ma come mancanza strutturale, come ‘mancanza a essere’», in Introduzione alla psicoanalisi contemporanea, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 21.18 Ivi, p. 10.

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Ne consegue, soprattutto in Lacan, che il pieno appagamento non esiste, l’incontro amoroso è sempre un incontro mancato. «Rinuncia e sofferenza»19 non possono venire evitati dal soggetto perché fanno parte della sua stessa natura e del suo sviluppo, e la creazione, nel corso della storia umana, di leggi, di costrizioni e di impedimenti non fa altro che assecondare la natura della libido «che non è favorevole all’attuazione integrale del soddisfacimento»20. Come scrive Freud: «occorre un ostacolo per spingere in alto la libido», movimento che il melodramma fa coincidere perfettamente con le trame amorose che mette in scena, dispositivi atti a creare quella «resistenza convenzionale» che rappresenta l’ostacolo per «poter godere dell’amore». Come scrive Kaja Silverman: «l’oggetto acquisisce così fin dall’inizio il valore di ciò senza di cui il soggetto non potrà mai essere intero o completo, e che di conseguenza anela»21.

L’oggetto a, oggetto pulsionale e inconscio, la cui essenza consiste nella mancanza, può essere incarnato di volta in volta e a seconda del soggetto da “oggetti veri e propri” (persone, cose, ideali ecc…) che “tappano”, anche se in modo effimero e illusorio, il buco della mancanza: in primis l’oggetto della scelta d’amore.

Il melodramma, anche i due melodrammi di cui stiamo parlando, ha il vantaggio di rappresentare questa condizione strutturante del desiderio umano secondo modalità estremamente popolari e accessibili, lavorando, meglio e di più, sugli effetti emotivi ed erotici piuttosto che sul piacere estetico. D’altronde tutti i racconti, tutte le forme della narrazione partono da un manque, come chiarisce un importante teorico della letteratura, Terry Eagleton, partendo proprio da una fondamentale scoperta freudiana, quella del gioco del Fort/Da, raccontato da Freud in Al di là del principio di piacere, e che permette al bambino, durante le insopportabili assenze della madre, di simbolizzare e quindi di padroneggiare i suoi allontanamenti22.

Il gioco del Fort/Da – scrive Eagleton – può anche essere letto come il primo baluginare della narrazione. Fort/Da è probabilmente la storia più breve che si possa immaginare: un oggetto è perduto, e poi recuperato. Ma persino le narrazioni più complesse possono essere lette quali

19 S. Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa, 1910-1917, in Opere, Boringhieri, Torino 1974, Vol. 6, p. 431.20 Ivi, p. 430.21 K. Silverman, Oggetti perduti e soggetti sbagliati, in G. Fanara e F. Giovannelli, Eretiche ed erotiche, Liguori, Napoli 2004, p. 100.22 Il bambino (un suo nipotino), di cui Freud ha osservato questo gioco, lanciava lontano da sé un rocchetto al grido di Fort (via) e poi lo riavvolgeva tirandolo a sé al grido di Da (eccolo). Il rocchetto veniva allontanato e riappariva secondo il comando del bambino, compensando così l’assenza della madre. In S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, Boringhieri, Torino 1977, Vol. 9.

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varianti di tale modello: il paradigma della narrazione classica consiste proprio nel dissolvimento e infine nel recupero di una certa situazione iniziale. In tal senso, la narrazione è una fonte di consolazione. Essendo cioè lo smarrimento degli oggetti causa di ansia per noi col suo richiamo simbolico di più profonde perdite inconsce (la nascita, le feci, il seno, la madre), è cosa piacevole riaverle restituite sane e salve, al loro posto. Secondo la teoria lacaniana, è proprio un originario oggetto perduto – il corpo della madre – che mette in moto la narrazione delle nostre vite, spingendoci a inseguire i sostituti di quel paradiso perduto nell’infinito movimento metonimico del desiderio.

Eagleton conclude questa sua riflessione dicendo che qualcosa deve sempre essere portata via, diventare assente o essere smarrita, perché qualunque narrazione si svolga e che tale perdita è sempre angosciosa sebbene avvincente, in quanto genera la possibilità stessa di raccontare e quindi la soddisfazione narrativa. Tale soddisfazione esiste però solo in quanto sappiamo che l’oggetto alla fine, attraverso mille peripezie, ci verrà restituito. «Abbiamo potuto sopportare la scomparsa dell’oggetto solo perché l’ansia e la dilazione erano incessantemente attraversate dalla sotterranea consapevolezza che esso alla fine sarebbe stato restituito al suo posto. Fort ha un significato solo se in relazione con Da»23.

La specificità dei melodrammi in generale e dei due film di cui stiamo parlando in particolare, e della loro necessità psichica, è che questa mancanza che dà l’avvio e il senso al racconto, è sempre amorosa, sentimentala: l’amore viene reso impossibile, impedito, sottratto o tradito, di volta in volta, o da circostanze esterne o da meccanismi psichici e coattivi interni alla coppia. L’ostacolo «per spingere in alto la libido» e quindi «poter godere dell’amore» prende le forme fiammeggianti, lacrimose e sensuali che la lunghissima storia del melodramma ha saputo inventare.

Random Harvest e Colonel Blimp non lavorano solo sull’effetto estetico e sull’originalità narrativa, ma anche, in modo più universale, sull’effetto emotivo, essendoci una così forte motivazione inconscia alla loro struttura narrativa e potendo quindi coinvolgere lo spettatore grazie al meccanismo in sé. Un dispositivo che funziona proprio come quello cinematografico: mette in scena la nostalgia, l’anelito verso qualcosa che non è stato posseduto mai, che è stato perduto da sempre. Nel cinema infatti il soggetto-spettatore si identifica in un oggetto – le immagini che passano sullo schermo e che sono sommamente desiderabili grazie al fascino dei divi e alla presa avvincente delle storie - impossibile, inafferrabile, in un oggetto che non è reale, ma che dà l’impressione di esserlo, che offre un’illusione

23 T. Eagleton, Introduzione alla teoria letteraria, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 208.10

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referenziale. E sempre più possiamo accorgerci quanto il dispositivo classico del cinema, quello della sala, sia il medium privilegiato a veicolare queste emozioni. Vedere infatti un film (dato che è della forma film che sto parlando) alla televisione, o ancora peggio al computer o al videofonino rende i film tutti uguali, simili al mezzo che li veicola. Come ci ha insegnato Walter Benjamin, se La Gioconda di Leonardo viene riprodotta su un foulard o su un calendario rende il capolavoro della pittura rinascimentale non uguale a se stesso, ma simile a un foulard o a un calendario: perché il film sia apprezzato nella sua unicità e singolarità la fruizione nella sala rimane quindi, ancora, non più il solo luogo, ma il luogo ideale.

Come c’è sempre qualcuno o qualcosa che mette in pericolo la completezza del bambino (ovvero la sua fusione con la madre), analogamente nel cinema questa “impossibile” sensazione di pienezza e di appagamento è fuggevole, apparente ed effimera, scorre via insieme allo scorrere della pellicola nel proiettore, restaurando una mancanza che rimetterà in gioco il desiderio. Siamo profondamente dentro il film (quando ci siamo) e nello stesso tempo stiamo sempre per perderlo, lo abbiamo già sempre perso. Nel film, nella sala oscura c’è qualcosa della nostra totalità perduta, quando siamo dentro il film siamo fuori dalla castrazione e dal limite. Esperienza della castrazione e del limite che rappresentano un passaggio fondamentale rispetto alla nostra possibilità di diventare soggetti autonomi, con una propria identità, ma quanto è piacevole e appagante poter fuggevolmente ritornare a quello stato primitivo e primario, in quel tentativo costante di riattivare l’esperienza inconscia e rimossa di totalità «con l’aiuto di oggetti diversi che ‘stanno al posto’ di ciò che non può essere pienamente soddisfatto»24.

Questa valenza fantasmatica degli oggetti in quanto sostituti, in quanto stanno al posto di ciò che è stato perduto “per sempre”, il cinema riesce a volte a restituircela, oltre che nel dispositivo di fruizione, in particolare in alcuni film, ad esempio nei due film qui presi in esame. Ma essa è avvertibile anche attraverso una caratteristica universale della fruizione e che non riguarda solo il cinema: parlo della ripetizione - rivedere un film, rileggere un romanzo - che, in quanto tale, è sempre insoddisfacente (il remake docet), così come sono insoddisfacenti ed effimeri gli oggetti che, nella loro qualità di surrogati dell’oggetto perduto, non possono mai essere «all’altezza delle aspettative»25. La ripetizione di una visione, di uno spettacolo, di una lettura non ridarà mai la stessa emozione, lo stesso piacere della 24 S. Flitterman-Lewis, Psicoanalisi del cinema, in R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano 1999, p. 169.25 G. Ripa di Meana, Figure della leggerezza, Astrolabio, Roma 1995, p. 40.

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prima volta. Anche Freud - contrapponendolo all’esperienza infantile - ha parlato del carattere inesorabile di perdita del piacere nella ripetizione: «La novità è sempre condizione del godimento»26 e, anche in questo caso, non si fa altro nella vita che continuare a ricercare proprio quel godimento provato la prima volta. La teoria delle emozioni, alla luce della psicoanalisi, non può non tener conto del fatto che anche nella fruizione, e nell’esperienza dello spettatore cinematografico in particolare, l’emozione “della prima volta” è quella che si continuerà a cercare, a desiderare, nel vano tentativo di provare qualcosa (quella particolare emozione) che non potrà più tornare.

Il film di LeRoy e quello di Powell e Pressburger evocano, ognuno a loro modo, l’esperienza inconscia dell’oggetto perduto freudiano (Paula e Edith in quanto scelte d’amore ideali) e dell’ objet petit a, non solo sostituto, surrogato dell’oggetto perduto (trovare la donna ideale è come ritrovare l’oggetto materno), ma anche il resto, ciò che rimane da quella «separazione primitiva» dall’oggetto primario di soddisfacimento. In Random Harvest il protagonista, Smithy, separandosi per la prima volta da Paula, perché chiamato a Liverpool dal giornale su cui scrive, investito da una macchina in un banale incidente, riacquisterà la memoria del passato, ma cade nel più totale oblio di quella recente. E allora ciò che a Charles Rainier – è questo il suo vero nome - rimane tra le mani di quell’amore perfetto che gli aveva donato Paula è solo un piccolo oggetto, una chiave, che ritrova agganciata a una catenella del gilet, l’unico resto, l’unico oggetto che gli è rimasto - e che porterà sempre con sé, toccandolo spesso nel vano tentativo di capire a «quale porta»27 appartenga – del suo profondo senso di perdita, tanto da non poter più essere capace di amare. Per Smithy/ Charles Rainier, fuggito il giorno dell’armistizio dall’ospedale psichiatrico e vagante per le strade di Melbridge in condizioni che lo apparentano a un lattante – non sa chi è, non è in grado di parlare né di badare a se stesso – l’incontro con Paula, che lo salva e lo cura, è l’incontro con la madre che nutre e con il padre che protegge, un oggetto d’amore totale. Il loro infatti, come può vedere lo spettatore nel breve lasso di tempo che, nel “discorso” del film, è dedicato a questa parte della “storia”, è un idillio completo, un simbolico paradiso, connotato dal paesaggio idilliaco della campagna inglese con il tipico cottage

26 Il passo si trova in S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 221: «Questo tratto del carattere [il piacere della ripetizione nel bambino] è destinato a scomparire in seguito. Una barzelletta udita per la seconda volta non fa quasi più effetto; assistendo per la seconda volta a una rappresentazione teatrale, l’impressione che si riceve non è mai quella della prima volta; ancora, è molto difficile indurre un adulto a cui è piaciuto molto un libro a rileggerlo subito dopo. La novità è sempre condizione del godimento”.27 B. McFarlane, Novel to Film. An Introduction to the Theory of Adaptation, Clarendon Press, Oxford 1996, p. 101.

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sovrastato da un albero in fiore (il tutto ricostruito in uno studio della MGM negli Stati Uniti).

Per Smithy quindi la perdita di Paula è tanto più dolorosa, in quanto, non sapendo chi e che cosa ha perso (avendone persa la memoria)28, il suo sentimento di perdita si apparenta ancora di più all’inconscia nostalgia per l’oggetto originario. La chiave è un oggetto, in questo caso, che può anche essere paragonato a una particolare accezione di “oggetto perduto” e che Donald Winnicott ha chiamato “oggetto transizionale”. Secondo lo psicoanalista inglese tale espressione sta a designare un oggetto materiale (pensiamo al tipico orsacchiotto di peluche da cui il bambino rifiuta di separarsi) che ha appunto per il bambino un “valore elettivo” e gli permette di effettuare la transizione necessaria dalla prima relazione orale, quella con il seno materno, a una effettiva relazione oggettuale. Sebbene tale oggetto «sia ‘posseduto’ dal bambino in quanto sostituto del seno, esso non è riconosciuto come facente parte della realtà esterna»29 ed è destinato a proteggerlo dall’angoscia di separazione. In quel difficile processo di differenziazione tra ciò che è Io e ciò che non lo è, questo oggetto marca il passaggio da uno stato in cui il bambino è unito al corpo della madre a un altro, successivo, «in cui può riconoscere la madre come differente da lui e separarsene»30.

Vediamo così che nel film di LeRoy l’oggetto perduto ha un suo sostituto (un vero e proprio objet petit a), rappresentato sempre nello stesso modo: un piccolo oggetto da niente, una chiave, che assume però per il personaggio il valore metonimico e metaforico di un intero mondo, del grande amore perduto e che il film mostra, con l’evidenza del dettaglio, in diversi momenti31. E che continua a rappresentare per il personaggio maschile, la fonte attiva della sua disposizione a desiderare, anche se completamente repressa, fuorclusa, a causa del trauma subito. Tra l’altro, in un parallelismo narrativo e visivo particolarmente efficace, anche Paula (diventata ormai Lady Rainier) tiene con sé un piccolo oggetto a: quando Lord Rainier le

28 Davide Tarizzo, parlando dell’oggetto della scienza e dell’oggetto della psicoanalisi, così scrive: «Per marcare la differenza profonda, di sostanza, tra i due oggetti, potremmo definire il primo, l’oggetto della conoscenza scientifica […] e il secondo, l’oggetto dell’inconscio psicoanalitico, un oggetto patologico. E’ questo infatti l’oggetto della sofferenza che angustia il paziente in analisi. Ed è questo un oggetto di cui egli non sa e non può sapere niente [corsivo mio]. Col che ci ritroviamo alle soglie della teoria dell’oggetto a». In introduzione a Lacan, Edizioni Laterza, Roma 2003, p. 82.29 Voce Objet transitionnel, in E. Roudinesco, M. Plon, Dictionnaire de la psychanalyse, Fayard, Paris 1997, p. 741.30 Ibid.31 Mervin LeRoy aveva usato questo stesso meccanismo in un film precedente, anch’esso un melodramma, Waterloo Bridge (Il ponte di Waterloo, 1940). In questo caso si tratta di un piccolo amuleto appartenente alla donna amata e poi perduta, come ho messo in evidenza in un mio saggio, L’amore impossibile e l’oggetto perduto, in E. Dagrada (a cura di), Il Melodramma, I libri dell’Associazione Malatesta, Bulzoni, Roma 2007, di cui il presente è debitore.

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regalerà uno splendido e prezioso collier lei, ritiratasi nella sua stanza, stringerà tra le dita, disperatamente, una collana di nessun valore che Smithy, ai tempi del loro amore, le aveva regalato perché «uguale al colore dei suoi occhi».

Ciò che è nello stesso tempo avvincente e straziante in questo film è proprio il fatto che entrambi i protagonisti, in modo diverso (l’una coscientemente e l’altro a livello inconscio) vivono in una situazione di perdita e di assenza l’uno dall’altra, pur essendo in praesentia e in “unione” l’uno con l’altra. Sembra il gioco del sintagma e del paradigma descritto da de Saussure.

Mentre Smithy, ritrovato il suo posto nella società, diventerà Lord Charles Rainier, magnate dell’acciaio, Paula (lo spettatore verrà a conoscenza di questi fatti attraverso le sue parole) non saprà più nulla di lui, perderà il bambino, si ammalerà, finché in una fotografia su un giornale scoprirà il vero nome e il ruolo del marito. Dovrà però continuare a sacrificarsi, nascondendo la sua vera identità (un amico psichiatra, lo stesso che aveva conosciuto e curato Smithy al Melbridge County Asylum, le spiega che ogni sforzo di farsi riconoscere sarebbe vano, se non addirittura pericoloso)32 e offrendosi prima come segretaria e poi accettando di diventarne la moglie, ma solo formalmente, nel momento in cui Charles viene eletto in Parlamento.

In The Life and Death of Colonel Blimp, che non è solo un melodramma e che comunque lo è in modo del tutto autonomo e originale33, la rappresentazione dell’oggetto perduto - con splendida invenzione realizzata mediante puri mezzi cinematografici (in un romanzo non avrebbe potuto avere la stessa efficacia) – è l’oggetto stesso, è la persona amata e perduta. E questo avviene grazie all’idea di far interpretare tre diverse figure di donna dalla stessa attrice, Deborah Kerr (tra l’altro in quel momento molto amata dal regista Michael Powell, che, durante le riprese, le aveva chiesto di sposarlo)34.

32 Nel romanzo di James Hilton, da cui il film è tratto, l’identità di Paula viene scoperta solo nelle ultime pagine, espediente narrativo che sarebbe stato impossibile per il film (data la sua intrinseca natura mostrativa e descrittiva). In questo modo però, con un coup de thêatre a circa metà del racconto, ne acquista in impatto emotivo e in suspense.33 Tralascio completamente l’aspetto ideologico-politico-militare di Colonel Blimp, sicuramente caduco oggi, ma il cui travisamento, alla sua uscita nelle sale, nel 1943 – in un momento difficilissimo della storia dell’Inghilterra, impegnata a combattere contro il nazismo – portò molti (tra cui Churchill in prima persona) a giudicare il film “disfattista”, troppo incline a presentare positivamente un ufficiale tedesco e a ridicolizzare la casta militare inglese. All’origine “colonel Blimp” era un personaggio inventato da David Low per la striscia di fumetti che appariva sull’ «Evening Standard» e voleva simbolizzare e ridicolizzare l’ottusità e l’irascibilità di un certo tipo di Englishman Upper Class.34 Come racconta nella sua autobiografia. Cfr. M. Powell, A Life in Movies. An Autobiography, Heinemann, London 1986, p. 412.

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Anche in Random Harvest Greer Garson “recita”, in un certo senso, tre parti, però è sempre la stessa persona: Paula (è il suo nome da attrice), che protegge e salva il soldato Smithy, privo di memoria e di parola; Miss Margaret Hanson, l’efficiente e fidata segretaria di colui che viene definito il “principe degli industriali”, Lord Charles Rainier; e infine Lady Rainier quando Charles, apparentemente per convenienza e opportunità (ma lo spettatore sa quanto il desiderio inconscio sia determinante in questa richiesta ufficiale) – dato che un influente membro del Parlamento non può non essere sposato – le chiede di diventare sua moglie, assicurandole un matrimonio solo formale. E mentre la sposa “in bianco” si strugge d’amore e di desiderio, lui continua, anche davanti a lei, a gingillarsi con la misteriosa chiave, segno di un’altra costante del melodramma, per cui il grande amore è quello che sta già davanti ai tuoi occhi, che ti sta già vicino, è colei, o colui, che abita alla porta accanto, un “familiare”, un Heimlich sempre irraggiungibile, in una delle infinite varianti della contrapposizione-coincidenza tra Heimlich e Unheimlich.

Quando poi Lord Rainier ritroverà la memoria alla fine del film, è Paula che ritrova, come lui la chiamerà, e non Margaret (che è in realtà il vero nome di lei). Questo particolare traduce narrativamente una riflessione di Lacan, già in parte citata:

Una nostalgia lega il soggetto all’oggetto perduto, nostalgia tramite cui si esercita tutto lo sforzo della ricerca. Essa caratterizza il ritrovamento del segno di una ripetizione impossibile, visto che per l’appunto non è lo stesso oggetto, non potrebbe esserlo. Il primato di questa dialettica pone al centro della relazione soggetto-oggetto una tensione fondamentale, che fa sì che ciò che è ricercato non è allo stesso titolo di ciò che sarà trovato. E’ attraverso la ricerca di un soddisfacimento passato e superato che il nuovo oggetto viene cercato e che viene trovato e colto altrove rispetto al punto in cui viene cercato35.

Si cerca Paula e si trova Margaret, anzi Lady Rainier.

In Colonel Blimp invece, con un meccanismo narrativo e drammaturgico speculare e contrario rispetto a Random Harvest, l’attrice è sempre la stessa, ma i tre personaggi che interpreta sono tre donne diverse e appartengono, cronologicamente, a periodi successivi. E non è forse un caso se Powell dichiara di aver pensato ad un certo punto di affidare la parte delle tre donne a Greer Garson, indizio non banale per ipotizzare quanto la visione di Random Harvest, film uscito un anno prima, abbia ispirato Powell e Pressburger.

35 J. Lacan, La relazione d’oggetto, cit., p. 9. 15

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Mentre i protagonisti – Clive Candy, l’ufficiale inglese la cui formidabile innocenza e ingenuità è pari solo alla sua adorabile grazia e gentilezza, e Theo Kretschmar-Schuldorff, l’ufficiale tedesco ironico e intelligente – invecchiano, lei riappare sempre giovane e bella, la sua presenza incide in quanto puro significante, il significante “Deborah Kerr”, ovvero il significante del desiderio maschile. Le sue tre incarnazioni rappresentano «il rinvio infinito da un significante all’altro», la «serie interminabile di oggetti sostitutivi», la traccia della Cosa perduta, importante quindi più come indice e icona di qualcos’altro a cui rimanda e meno per i personaggi che di volta in volta interpreta. E per i quali si può ripetere lo stesso riferimento lacaniano citato sopra, per cui l’oggetto perduto, l’oggetto della nostalgia viene sempre «trovato e colto altrove». Come in pochi altri film, Random Harvest e Colonel Blimp raffigurano la realizzazione poetica di questo trovare o ritrovare e, nello stesso tempo, cogliere «altrove»36.

In Colonel Blimp il primo personaggio (la scelta d’oggetto “originaria” si potrebbe dire) è quello di Edith Hunter, la giovane istitutrice inglese che lavora a Berlino e che è allarmata dalla campagna denigratoria contro il suo paese. Clive Candy, irruento e poco diplomatico, si precipita nella capitale tedesca a difendere l’onore dell’esercito inglese, conoscerà Edith e dovrà affrontare in duello Schuldorff, sorteggiato a caso come rappresentante della casta degli ufficiali prussiani. I due rimarranno entrambi feriti, saranno curati nella stessa clinica e accuditi da Edith. Mentre la loro amicizia si rafforza, si innamoreranno entrambi della giovane donna, ma Theo, consapevole del proprio amore, chiederà a Edith di sposarlo, mentre Candy si accorgerà di amarla proprio nel momento in cui l’avrà perduta, perfetta esemplificazione di come il desiderio sia causato da un vuoto, dalla mancanza dell’oggetto, e come Edith, nel momento in cui diventa oggetto, oggetto di scelta, sia già perduta, personificando d’ora in poi «la nostalgia, l’anelito a qualcosa che mai è stato posseduto e che sempre resterà perduto»37.

Sedici anni dopo (nel 1918, nel giorno dell’armistizio, altra analogia con Random Harvest), Candy vedrà in un convento una giovane crocerossina, Barbara, tale e quale a Edith. La cercherà dopo la guerra e la sposerà. Rimasto vedovo, allo scoppio della seconda guerra mondiale, sceglierà, tra centinaia, come sua autista, una giovane ausiliaria, anch’essa «sorprendentemente» somigliante a Edith e a Barbara.

36 Altri due film in cui è sicuramente presente questo meccanismo sono Vertigo (La donna che visse due volte, 1956) di A. Hitchcock e – anche se in termini di una narrazione appartenente al cinema moderno – L’année dernière a Marienbad (L’anno scorso a Marienbad, 1963) di A. Resnais.37 G. Ripa di Meana, Modernità dell’inconscio, Astrolabio, Roma 2001, p. 95.

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Ciò che rappresenta un’ ulteriore emozione – ad esclusivo beneficio dello spettatore - è che la giovane donna viene riconosciuta (in quanto oggetto perduto, quindi in quanto identica al primo amore) alternativamente da uno dei due personaggi maschili, ma mai da entrambi insieme, come d’altronde era accaduto all’inizio, quando solo Theo riconosce subito il proprio amore, mentre per Candy è troppo tardi. Scena questa, dell’annuncio del fidanzamento tra Edith e Theo, la cui complessità e ricchezza psicologica è giocata su una regia che mette in rilievo - basandosi solo sull’espressione e la gestualità della protagonista – quanto Edith sia divisa e straziata da ciò che sta accadendo, presa da Theo, ma consapevole però di essere attratta anche da Candy. Proprio nel momento in cui Candy, per congratularsi, abbraccia Edith - proprio nel momento in cui la dona all’altro stringendola a sé – in quel momento si accorge di amarla, palesandosi così quella sfasatura, quell’ impercettibile discrepanza del tempo dei sentimenti dove si gioca la vicenda melodrammatica dell’amore impossibile. Sottolineata - tale scena di un vero e proprio atto mancato - sul piano del dialogo nel parlare d’altro, e, sul piano iconografico, da un ridicolo cappellino femminile che Candy, per celia, indossa durante tutto questo momento chiave (in cui comicità e melodramma sono fusi insieme) e che mette in risalto la sua incapacità a riconoscere i propri sentimenti e quindi la propria identità.

Passati molti anni, perduta anche Barbara (così come Theo ha nel frattempo perduto Edith), quando Candy farà vedere a Theo il ritratto di Barbara, Theo non la riconosce come uguale a Edith (poiché Edith ormai ha i tratti della donna che è invecchiata accanto a lui e non quelli di una ancora giovane Barbara); così come solo Theo riconoscerà Edith nella giovane ausiliaria, Angela, che fa da autista a Candy. Ma questo per l’appunto non fa che riprendere il leit motiv che segna questa storia d’amore fin dall’inizio.

Il significante “Deborah Kerr” diventa così l’oggetto di una soddisfazione allucinatoria. Allucinazione appena suggerita nel film dal fatto che, oltre ad essere una persona reale la giovane donna è anche un’apparizione (Barbara addormentata nel refettorio del convento), una rappresentazione (il ritratto di Barbara) e infine una rivelazione (Angela che sta guidando nella notte e improvvisamente si gira verso Theo, illuminata dalla luce di un semaforo, permettendogli così di riconoscerla come uguale a Barbara e quindi a Edith), in immagini che assumono la natura di vere e proprie epifanie. Si compie così nel film il miracolo di far coincidere il desiderio e la visione dei due protagonisti con una realtà apparentemente impossibile, ma che ha

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trovato una sua strada nella rappresentazione: la perfetta coincidenza tra ciò che si cerca e ciò che si trova; ma, appunto, non sul piano della realtà, ma solo su quello del significante, della rappresentazione-allucinazione.

In un parallelismo col pensiero freudiano e lacaniano in Random Harvest Paula è l’oggetto perduto e la chiave l’oggetto piccolo a, che è anche un feticcio; mentre in Colonel Blimp oggetto perduto e oggetto a coincidono perfettamente, nel senso che sono i due personaggi maschili ad attribuire lo stesso identico volto della donna amata alle altre donne, sono Candy e Theo che piegano la realtà «ai bisogni dell’immaginazione e agli inganni del ricordo»38, in irripetibili «momenti di grazia»39, come scrive Bertrand Tavernier, uno dei tanti registi (insieme a Jean-Pierre Melville, a Martin Scorsese, a Neil Jordan) ad aver riscoperto la bellezza e l’importanza di questo film.

Con forza innovatrice e visionaria Colonel Blimp concretizza il sentimento della perdita e della nostalgia tramite la riproposizione allucinatoria, che permette all’ “oggetto perduto” di essere presente pur essendo in realtà assente, e riuscendo così a raccontare, poeticamente, una condizione soggiacente e perenne della soggettività. E’ proprio Lacan d’altronde a sottolineare il fatto che il soggetto, votato sempre a un «ritorno impossibile», tende a realizzare il «soddisfacimento del principio del piacere» attraverso una «forma più o meno allucinata»40 o comunque irreale, fantastica o onirica, soddisfacimento sempre «trovato e colto altrove rispetto al punto in cui viene cercato»41.

In Random Harvest l’amnesia, il trauma subito durante la guerra - che crea una vita vuota di affettività e di amore, lasciando fuori qualsiasi emozione - provoca nel protagonista l’esito perverso che la stessa donna venga vista e vissuta come diversa, mentre in Colonel Blimp l’amore vede una sola donna là dove ce ne sono tre diverse. Uno degli effetti più forti del film è che questo processo emozionale viene vissuto dallo spettatore anche più che dal protagonista (soprattutto rispetto alla terza figura di donna, l’autista Angela, che Candy, ormai vecchio, non sembra riconoscere come uguale a Edith e a Barbara, sebbene l’abbia scelta tra centinaia).

38 E. Martini, Storia del cinema inglese, Marsilio, Venezia 1991, p. 106.39 B. Tavernier, Blimp, Powell, Pressburger… et la poésie déguisée, in «Positif» n. 241, 1981; ora anche in Powell & Pressburger, a cura di E. Martini, Bergamo Film Meeting ’86, p. 49.40 J. Lacan, La relazione d’oggetto, cit. p. 11.41 Ivi, p. 9.

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L’attenzione verso questi due testi riguarda quindi non solo il modo in cui le emozioni (insieme agli affetti, i sentimenti, le passioni e i desideri) possono venire rappresentate ed espresse al cinema, ma anche come vengono trasmesse e suscitate nell’esperienza di fruizione dello spettatore.

Secondo la teoria delle emozioni di Matte Blanco, per cui «emozione e inconscio sono fondamentalmente la stessa cosa»42, in Colonel Blimp una donna rappresenta tutta la classe delle donne: grazie a una visione emozionale, cioè grazie all’amore, emozione primaria e fondamentale, cade la barriera esistente tra una donna e un’altra e una singola donna è l’intero insieme infinito. L’emozione, in particolare quella amorosa, supera il tempo, lo spazio e la distanza, annulla le differenze e quindi, secondo una visione sartriana (a cui Matte Blanco si sente molto vicino), opera «una trasformazione del mondo»43.

Sempre seguendo la teoria di Matte Blanco, questi due film - Colonel Blimp ancora più che Random Harvest - con elementi puramente logico-bivalenti costruiscono qualcosa che provoca un’emozione profonda e inspiegabile, cioè una reazione emozionale bi-logica. Matte Blanco ha proposto di chiamare questo fenomeno “struttura bi-logica molare”: al livello del dettaglio, cioè a livello molecolare, tutto è logico bivalente; nell’insieme, invece – a livello molare - si ha un’emozione forte, inafferrabile. Questa dialettica è suggerita anche dall’alternanza simmetrizzata in cui l’una alternativa è uguale all’altra (tre donne diverse ma anche tre donne uguali), si attua una copresenza (è l’oggetto perduto ma anche l’oggetto trovato), l’identità è indiscernibile e il modo è indivisibile, esattamente quell’apertura verso l’infinito che crea l’emozione. E per riprendere le caratteristiche poste all’inizio di questo saggio, l’emozione si apre all’infinito in quanto corrisponde a forme di idealizzazione (Edith è la donna ideale), di massimizzazione (Edith possiede tutte le qualità alla massima potenza), di generalizzazione (tutte le donne sono Edith), così come di irradiazione (Edith è tutte le donne): è l’emozione infatti «che ci permette di portare all’estremo ed al massimo delle potenzialità le caratteristiche di una data situazione o persona»44.

Pubblicato in Enrico Carocci e Giorgio De Vincenti (a cura di), Il cinema e le emozioni. Estetica, espressione, esperienza, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2012, pp. 119-140.

42 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 303.43 J.-P. Sartre, Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 1962, p. 137.44 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 267.

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