Le Costituzioni Jugoslave Di Kardelj - Demetrio Serraglia

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LE COSTITUZIONI JUGOSLAVE DI KARDELJ (1946, 1963, 1974)

Indice

Introduzione

La Costituzione del 1946

La riforma dello Stato e il distacco dall’URSS

La Costituzione del 1963

La Costituzione del 1974

Le questioni nazionali

Bibliografia

p. 2

p. 2

p. 4

p. 7

p. 8

p. 11

p. 13

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Introduzione

Per riuscire a capire i meccanismi e le cause che portarono allo scioglimento della

Repubblica Socialista di Jugoslavia si sono confusi due principali motivi:

l’autodeterminazione dei popoli e le ideologie portate avanti dai vari leaders delle

Repubbliche costituenti la Jugoslavia.

Nella sua storia la Jugoslavia ha sempre avuto difficoltà a confrontarsi con le questioni

nazionali e religiose al proprio interno, difatti è composta da diversi popoli

(principalmente Sloveno, Croato, Ungherese, Serbo, Macedone, Albanese,

Montenegrino), e da diverse religioni (Cattolica, Ortodossa, Islamica). Tale varietà di

composizione ha creato problemi di convivenza ed è stata la causa delle diverse

istanze e rivendicazioni territoriali al suo interno. Nel dopoguerra, per ovviare a questi

problemi, si è cercato di trovare delle soluzioni a livello costituzionale; l’artefice

principale di questi tentativi è lo sloveno Edvard Kardelj, uno dei collaboratori più

stretti di Tito.

Tito, durante la sua pluridecennale presidenza della Jugoslavia riuscì a destreggiarsi tra

diverse posizioni: a livello internazionale, mantenendo “libertà” di giudizio tra i due

blocchi (sovietico e occidentale) e utilizzando le contraddizioni tra le due superpotenze

per fini propri; a livello nazionale, riuscendo a sopire le varie spinte nazionalistiche

dosando le cariche politiche tra gli esponenti più eminenti delle varie nazionalità che

componevano la Jugoslavia.

Le varie costituzioni successivamente emanate dovevano inevitabilmente rapportarsi

con la situazione politica contingente di questo Stato posizionato tra l’incudine e il

martello (USA e URSS), e confrontarsi con le questioni nazionali interne.

La Costituzione del 1946

Il 7 agosto 1945 fu convocato un parlamento popolare provvisorio, esso votò una legge

elettorale per la costituente che dava il voto a tutti i cittadini maggiori dei 18 anni e ad

anche coloro che minori di 18 anni, avessero partecipato alla lotta di liberazione.1 Le

elezioni per la costituente si svolsero in modo che gli elettori potessero scegliere tra

due forze: il Fronte Popolare, e gli altri, “i senza lista”. Ovviamente fu un plebiscito in

favore del Fronte Popolare, il tutto salutato in modo positivo dalla stampa

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internazionale (principalmente quella inglese): era necessario difatti che questa

repubblica balcanica non si avvicinasse al blocco sovietico. La costituzione, compilata

sotto la guida di Kardelj, doveva rispondere alle esigenze di leadership del Partito

Comunista. Il testo costituzionale non prevedeva alcun controllo del potere legislativo

su quello esecutivo, e alcuna autonomia dell’amministrazione civile o della

magistratura. La politica Jugoslava nel 1945 era ancora soggetta alle influenze

sovietiche e del sciolto COMINTERN, ciò si ripercuote, in modo evidente, oltre che

nella vita politica, nella costituzione (proclamata il 31 gennaio 1946): essa fu

compilata sotto la supervisione dell’ambasciatore sovietico, praticamente una copia di

quella staliniana del 1936. Al pari della costituzione sovietica, organizzava lo Stato in

senso federale con cinque Repubbliche: Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia,

Montenegro e Bosnia-Erzegovina. La ristrutturazione dello Stato andava a svantaggio

dei Serbi che vedevano una grossa parte del loro popolo diviso tra varie Repubbliche,

inoltre all’interno della stessa Serbia furono stabilite due zone autonome: la Vojvodina

come provincia autonoma, e il Kosovo come circoscrizione autonoma. A sottolineare

questo spirito paritetico e di salvaguardia tra le diverse nazionalità venne introdotto il

diritto all’autodeterminazione e alla secessione, anche per salvaguardare le

Repubbliche più deboli dallo strapotere che i serbi andavano assumendo a livello

centrale.2

Il testo costituzionale ometteva ogni riferimento ai termini “socialista” o “comunista”,

limitava comunque la proprietà privata. Il principale organo esecutivo fu il governo

federale, accanto al quale venne costituita anche una presidenza, che aveva il diritto

d’interpretare e sanzionare le leggi, come pure di emanare decreti. Il parlamento,

diviso in due camere, quella federale e quella delle nazionalità, si sarebbe riunito due

volte all’anno. Esso fu praticamente privo di poteri, e incaricato solo di ratificare le

leggi presentate dal governo e i decreti emanati dalla presidenza. Allo stesso modo,

vennero formati anche gli organi istituzionali delle Repubbliche, dotate a loro volta di

parlamento, governo e presidenza.3

1 Il Giorno di San Vito- Jugoslavia 1918 1992 storia di una tragedia, Joze Pirjevec, Nuova ERI, Torino 1993,

pp. 208- 209 2 Ivi, pp. 213- 214

3 Ivi, p. 215

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Queste decisioni a livello di costituzione evidenziano le problematiche che già si

facevano sentire in seno alla Jugoslavia, ovvero le turbolenze dei vari popoli che mal

digerivano l’unione sotto un unico Stato. Nonostante il partito comunista jugoslavo

considerasse le questioni etniche un problema borghese di secondaria importanza,

superabile grazie alla forza unificatrice dell’internazionalismo socialista4,

sostanzialmente una sovrastruttura, dovette tenerne conto perché è con la realtà dei

fatti che doveva confrontarsi e non con delle enunciazioni teoriche.

La riforma dello Stato e il distacco dall’URSS

Dalle costanti tensioni che caratterizzavano il rapporto URSS- Jugoslavia emerse la

volontà dei Sovietici di influire sulla politica balcanica, e di non accettare un ruolo

paritetico del PCUS rispetto al PCJ. Questo ruolo di subordinazione rispetto a Stalin

non fu accettato da Tito, che per dimostrare la propria indipendenza rispetto

all’Unione Sovietica decise di attuare una riforma dello Stato. Tale riforma non fu una

negazione del comunismo, ma una rilettura di ciò che affermavano Marx ed Engels.

L’atto che segnò il primo significativo distacco dal modello sovietico fu la legge sui

consigli operai, votata il 27 giugno 1950: Tito stesso, appellandosi alla dottrina di

Marx ed Engels, sottolineava la necessità d’una progressiva scomparsa dello Stato,

attraverso il decentramento e la consegna delle fabbriche agli operai; la proprietà

statale dei mezzi di produzione doveva essere gradualmente sostituita da quella degli

stessi produttori. L’idea base da cui germogliava la legge era quella di Marx sulla

consegna delle fabbriche agli operai, arricchita dal ricordo della Comune di Parigi, dei

soviet sorti in Russia durante la rivoluzioni del 1917, di quelli formatesi in Baviera,

Austria e Ungheria dopo la prima guerra mondiale, e dei comitati di liberazione

nazionale durante la resistenza. Le coordinate fondamentali della società vennero

tracciate in modo più organico da Kardelj nel 1952 davanti alla skupstina

(parlamento). Nell’affermare che la nuova legge sui comitati popolari ne avrebbe

potenziato le capacità d’intervento nella vita sociale, culturale ed economica, Kardelj

ribadì la condanna del dispotismo burocratico sovietico, intendendolo come una casta

più potente di ogni governo borghese. Il sistema jugoslavo si sarebbe mosso lungo tre

linee parallele: avrebbe rafforzato il ruolo direttivo della classe operaia, sviluppato la

4 Ivi, p. 214

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democrazia nella vita sociale ed economica attraverso l’autogestione e il più possibile

decentralizzato i poteri statali. Il fine dei comunisti jugoslavi, a detta di Kardelj, era un

nuovo sistema apartitico, in cui ogni cittadino avrebbe partecipato direttamente e

consapevolmente, senza intermediari di sorta, al governo.5

Il VI congresso del PCJ fu chiamato a sancire la rottura con lo stalinismo e a definire

la funzione del PCJ all’interno della società. Al pari delle macchine del governo e

dell’economia, si decentralizzò, in nome della democrazia socialista, anche quella del

partito, e, a sottolineare la volontà di cambiamento, si adottò un nuovo statuto e un

nuovo nome: Lega dei Comunisti della Jugoslavia (LCJ).6

Nei primi mesi del 1953 fu approvata una legge costituzionale, elaborata sempre da

Kardelj, col preciso intento di distruggere il burocratismo. Essa sostituì in parte la

costituzione del 1946, completando il processo di demolizione delle strutture

sovietiche, per sostituirle con altre originali. Allo scopo di unire più radicalmente i

cittadini autogestiti ai processi decisionali vennero rafforzate la skupstina federale e le

altre assemblee popolari, creando nel loro ambito, camere dei produttori, composte dai

rappresentanti di tutti coloro che contribuivano, col loro lavoro, alla crescita

economica e sociale del paese. La camera delle nazionalità perse la propria autonomia

nel parlamento essendo inglobata nella camera federale, con la possibilità di

funzionare autonomamente solo nel caso venissero discussi problemi riguardanti le

relazioni tra federazione e repubbliche. Queste ultime ottennero il diritto di elaborare

proprie leggi costituzionali, tra le quali scomparve peraltro la clausola del diritto

all’autodeterminazione e alla secessione, essendo prevalsa l’idea che il sistema

autogestito costituiva una tale forza integrante, da superare le diversità etniche del

paese. Il Fronte popolare divenne l’Alleanza socialista del popolo lavoratore della

Jugoslavia; Kardelj vedeva, nell’Alleanza socialista, lo strumento mediante il quale

introdurre il concetto di democrazia nella società jugoslava.7 In questa riforma

costituzionale venne approntato un passo conseguente a quelle che sono le basi di una

repubblica federale, ovvero l’unione più stretta tra popolo e Stato, attraverso

l’autogestione dei mezzi di produzione e della società tutta. Probabilmente questa

5 Ivi, pp. 272- 275

6 Ivi, p. 277

7 Ivi, pp. 278- 279

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riforma favorì la consapevolezza delle repubbliche nei propri mezzi. L’unico neo fu

quello di ritenere superate le problematiche tra le varie nazionalità componenti la

Jugoslavia, accentuando la matrice comunalistica della società, ciò strideva col fatto

che si assegnarono nuovi forti poteri alle repubbliche, tra cui quello di emanare

costituzioni proprie. Questa riforma fu caratterizzata da due peculiarità: il ritenere

superati i contrasti etnici, attuando una politica dell’autogestione che incentivava le

piccole comunità locali e allo stesso tempo favorire le repubbliche dando loro la

possibilità di redigere costituzioni proprie.

Kardelj nei suoi elaborati continuava ad affermare una via nuova al socialismo rispetto

a quello propugnato dall’Unione Sovietica; l’interpretazione socialista jugoslava

poggiava sull’esaltazione della società autogestita, sulla necessità della scomparsa

dello Stato, e sull’affermazione che il concetto stesso di “dittatura del proletariato”

aveva carattere transitorio, in politica estera, rifiutava la logica dei blocchi, considerati

principale ostacolo alla pace, e poneva la lotta d’indipendenza nazionale dei popoli

soggetti al dominio straniero sullo stesso piano della lotta di classe. Queste

affermazioni di Kardelj mettevano in evidenza l’attenzione per i diritti dei popoli che

cercavano di non essere schiacciati dalla politica imperialistica, propugnata dalle due

superpotenze. L’attenzione di Kardelj verso i diritti dei popoli va ricercata nel suo

essere sloveno, quindi facente parte di un popolo che solo allora era diventato

repubblica, dopo un’esistenza da sempre passata sotto la dominazione straniera: un

popolo che non era mai stato nazione, e che conobbe solo sotto il governo della

Jugoslavia lo status di Repubblica. La paura che animava gli sloveni era quella di

vedere sfumare questa conquista a favore di uno stato centralista.

La leadership comunista aveva affermato al congresso del 1952 la soluzione del

problema nazionale in Jugoslavia, e la convinzione, dei massimi dirigenti comunisti,

che senza un regime forte a partito unico la Jugoslavia sarebbe precipitata nel baratro

della guerra civile. Tale opinione era condivisa anche in Occidente. Tutto ciò in

contrasto con la realtà dei fatti, dato che man mano passava il tempo le istanze di

Slovenia e Croazia continuavano ad aumentare rispetto alle pratiche di governo

centralistico portate avanti da Belgrado; oltre alle istanze di tipo politico aumentavano

le recriminazioni di tipo economico rispetto alle aree meno progredite del paese, che

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chiedevano enormi quantità di denaro.8 Il primo sintomo di questa insoddisfazione

venne alla luce durante sciopero generale del 1958, scoppiato in Slovenia a Trbovlje,

in un importante centro carbonifero. Per contrastare il crescente centralismo jugoslavo,

propugnato dall’ala conservatrice del partito (filo sovietica), Kardelj nello ristampare il

suo libro Lo sviluppo della questione nazionale slovena sentì la necessità di chiarire

alcuni punti. Fece un’introduzione in cui denunciava lo jugoslavismo integrale,

affermando che la formazione di una coscienza comune avrebbe potuto realizzarsi col

rafforzamento dei comuni interessi socialisti, ma nel rispetto dello sviluppo autonomo

e dell’eguaglianza di tutti i popoli jugoslavi. A detta di Kardelj “tale jugoslavismo non

solo non ostacolava il libero sviluppo delle lingue e culture nazionali, ma anzi lo

presuppone”.9 Contro questo punto di vista fu introdotto nei formulari del censimento

del 1961 la categoria “jugoslavo” nel senso di appartenenza etnica.

La Costituzione del 1963

Lo scontro sulle questioni nazionali vide contrapposti il serbo Rankovic e Kardelj (i

due esponenti più in vista della LCJ dopo Tito), quest’ultimo nello redigere la nuova

costituzione, in cantiere già dal novembre 1960, dovette accondiscendere a delle

concessioni in favore delle forze conservatrici. Esse riguardavano soprattutto i fondi di

investimento, che rimanevano fortemente centralizzati, la statalità delle repubbliche e i

diritti nazionali (non era menzionato il diritto all’autodeterminazione e alla

secessione), sacrificati a un più accentrato sistema federale. Nel settembre del 1962

venne pubblicata la prima bozza della costituzione, che ribadiva solennemente il

carattere di autogestione della società Jugoslava, nata con la lotta di liberazione.

Kardelj, nel rendere pubblica la bozza affermò, che essa prefigurava un modello ideale

della società, da costruire sotto la guida della Lega dei Comunisti e dell’Alleanza

Socialista: organismi espressamente menzionati come colonne fondamentali

dell’intero sistema politico. La skupstina fu ristrutturata e oltre alla già esistente

camera della federazione furono istituite altre quattro camere, in rappresentanza dei

seguenti settori della società: economia, istruzione e cultura, strutture sociali e

sanitarie, amministrazione statale. Ogni elettore aveva diritto di eleggere deputati alla

skupstina non solo in quanto cittadino, ma in quanto membro di un gruppo etnico,

8 Ivi, pp. 314- 315

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partecipe di un settore della produzione o dell’amministrazione. A parte la carica di

presidente della repubblica rivestita da Tito, tutte le altre cariche elettive erano

soggette a un sistema di rotazione ogni quattro anni.

La costituzione fu votata il 7 aprile 1963, la skupstina sotto la presidenza di Kardelj

divenne il luogo di aggregazione di tutti i liberali, che in essa continuarono a battersi

per le riforme.10

La nuova costituzione portò alla luce le difficoltà nel fare avanzare una politica di

riforme, e contrappose chi voleva uno stato centralista serbo centrico a chi voleva

salvaguardare le particolarità che componevano la Jugoslavia. A difesa di una o

dell’altra tesi vennero portate le varie interpretazioni del comunismo; come giudice

della diatriba, scoppiata in seno alla LCJ, si pose Tito che condannò il centralismo

statale e il monolitismo del partito. Kardelj rincarò la dose, ribadendo il diritto di ogni

popolo di vivere e svilupparsi in armonia con i risultati del proprio lavoro.11

Tutto

questo portò ad una riforma (1965) in senso democratico dello Stato, sia a livello

politico che economico.

Questo sviluppo di forze democratiche in seno alla repubblica e il continuo subbuglio

a livello internazionale diedero vita a molte insoddisfazioni all’interno della

Jugoslavia, contrapponendo i centralisti a chi rivendicava la specificità delle

repubbliche; coloro che parteggiavano per una politica filo sovietica a chi propugnava

un comunismo di matrice jugoslava. Queste istanze a volte si confondevano, infatti

l’URSS, per fare pressione verso la Jugoslavia, incentivava il nazionalismo

Macedone; l’Albania a sua volta appoggiava le rivendicazioni delle popolazioni

Kossovare, Croazia e Slovenia richiedevano maggiore autonomia, economica e

politica.

La Costituzione del 1974

Man mano che gli anni passavano divenne sempre più evidente che la stabilità della

Jugoslavia risiedeva nella persona di Tito, e che tutti i problemi sarebbero emersi con

la suo morte; era necessario ricercare un modello di Stato che riuscisse a mantenere gli

equilibri venutesi a creare con mille difficoltà nel dopoguerra. In quella atmosfera si

9 Ivi, p. 319

10 Ivi, p. 327- 328

11 Ivi, p. 330

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svilupparono continui complotti per ottenere il potere dopo la morte di Tito, ogni

avvisaglia di questo tipo veniva duramente contrastata dalle varie repubbliche gelose

delle proprie specificità. C’era il timore di perdere la propria autonomia a vantaggio

delle altre etnie. In questa situazione Kardelj continuava nei suoi sforzi per elaborare

quanto prima la nuova costituzione, di cui s’era cominciato a parlare già nel 1971. Lo

statista sloveno era convinto che una nuova costituzione avrebbe offerto alla

Jugoslavia una via d’uscita dalla crisi, sia economica che politica, in cui era caduta. Il

rifare la costituzione fu un lavoro che coinvolse tutta la nazione, dato che bisognava

riscrivere non solo la costituzione federale, ma anche quelle repubblicane e

provinciali, adeguando gli stessi statuti comunali. Nella sua opera Kardelj vedeva

come unico ostacolo l’ostilità delle forze centraliste serbe. Grazie all’appoggio di Tito

la nuova costituzione riuscì a superare le forze ostili; venne approvata il 21 febbraio

1974, comprendendo 378 articoli e sostanzialmente trasformò la federazione jugoslava

in una confederazione: per questo motivo fu così voluminoso il suo testo, dato che

doveva delimitare i poteri e le competenze dello Stato centrale e delle Repubbliche

(anche la costituzione svizzera è molto voluminosa perché in uno stato confederale è

necessario sottolineare cosa sia di competenza del centro e cosa riguardi la periferia).

La legge costituzionale si fondava sul lavoro associato e sui diritti di tutti coloro che

partecipavano al processo produttivo, per cui era fondamentale il diritto di ogni

soggetto a poter disporre liberamente dei risultati del proprio lavoro. Scopo della

costituzione era quello d’impedire qualsiasi gerarchia e sfruttamento, realizzando una

società di uguali, fondata sul principio del consenso. L’embrione base di cui ogni

individuo, in quanto produttore diretto, avrebbe fatto parte era l’organizzazione di base

del lavoro associato, che, con le altre organizzazioni dello stesso tipo, avrebbe

costituito il corpo di ogni impresa e organizzazione lavorativa. Il frazionamento delle

imprese in componenti più piccole avrebbe dovuto consentire ai singoli d’esercitare un

controllo immediato sulle aziende, partecipando così alla loro gestione. Kardelj, per

realizzare una democrazia che veniva dal basso (sul modello della Comune di Parigi),

progettò l’elezione, nell’ambito delle Organizzazioni di base del lavoro associato,

quelle socio politiche e dei comuni, di delegazioni incaricate di scegliere al proprio

interno delegati da inviare nelle assemblee comunali. I loro componenti avrebbero

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eletto i delegati per le assemblee repubblicane o provinciali, che a loro volta, insieme

con quelle comunali, avrebbero inviato i propri delegati nella skupstina federale. Così

si sarebbe realizzato il governo del popolo a tutti i livelli della vita politica,

radicandosi nella società.12

Le comunità locali divennero con la Costituzione del 1974

fondamento del sistema politico- istituzionale jugoslavo. Nel territorio di loro

competenza la popolazione eleggeva ogni quattro anni, in base ad una lista bloccata,

una folta delegazione che a sua volta sceglieva, al proprio interno, i delegati alle

assemblee comunali, repubblicane e regionali (tutte tricamerali) e della federazione (a

carattere bicamerale). I Comuni erano così dotati di un consiglio delle comunità locali

che, nelle istanze repubblicane e regionali, assumeva il volto di Consiglio dei comuni.

Le altre due camere erano costituite dal Consiglio del lavoro associato e da quello

politico- sociale, in cui sedevano gli esponenti delle organizzazioni politiche (Lega dei

comunisti, sindacati, associazioni giovanili, di partigiani, di donne, l’Alleanza

socialista). Il parlamento federale era composto da un Consiglio federale di 220

delegati in rappresentanza del mondo del lavoro e di quello politico, e dal Consiglio

delle repubbliche e delle regioni, di cui facevano parte 88 delegati nominati dalle

stesse repubbliche e regioni. Al momento del voto, le delegazioni si esprimevano a

maggioranza al proprio interno e, quindi, riassumevano in aula la propria posizione

con un unico voto. Per lo più valevano le decisioni approvate all’unanimità. I comuni

divennero il fulcro del sistema fiscale: a essi spettava operare le trattenute direttamente

alla fonte della produzione di ricchezza, ossia alle imprese. In tal modo essi

trattenevano la maggior parte della quota per il settore sociale e sanitario e cedevano il

rimanente a repubbliche e regioni, che a loro volta destinavano una parte minimale al

finanziamento della federazione e al fondo di solidarietà per aree meno sviluppate.13

Di grande importanza è il fatto che la costituzione ribadiva il diritto di ogni nazione e

nazionalità al proprio sviluppo culturale, economico e politico, e ne sanciva il diritto

all’autodeterminazione.

Le questioni nazionali

Questo susseguirsi di costituzioni dal 1946 al 1974 era dovuto al fatto che gli equilibri

interni alla Jugoslavia erano estremamente labili, e che essa rimaneva unita

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Ivi, pp. 437- 440

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esclusivamente grazie alla figura di Tito, l’unico in grado di riuscire a controllare le

varie rivendicazioni provenienti dalle repubbliche e dalle provincie. La politica di Tito,

soprattutto, era basata sul pugno di ferro e nell’appoggiare una volta le spinte

provenienti dalle repubbliche ed una volta quelle centraliste dei burocrati belgradesi.

Tutto questo però non poteva continuare in eterno, difatti già nell’ultimo decennio

della sua vita le necessità delle comunità locali aumentarono sia per esigenze reali sia

per pressioni esterne (Macedonia, Kosovo).

Dopo la morte di Tito le istanze delle Repubbliche e delle province autonome non

ebbero più nessuna inibizione, i governi delle repubbliche assumevano sempre più

peso ed ebbero, grazie alla costituzione del 1974, la possibilità di appellarsi al diritto di

autodeterminazione per contrastare le spinte centripete del governo federale. In queste

istanze, basate su un diritto base di tutti i popoli, si inserirono rivendicazioni

ideologiche nazionalistiche propugnate dai vari leaders delle repubbliche.

Il problema della costituzione del 1974 non risiede nell’avere dato la possibilità ai

popoli componenti la Jugoslavia di decidere del proprio destino, ma di non essere nata

dalla volontà di aggregazione delle varie repubbliche. Teoricamente il suo

funzionamento era scontato ma la politica dell’autogestione non era stata

metabolizzata dalla gente. Nonostante ciò il meccanismo contrattuale sui cui voleva

fondarsi la federazione funzionò, dato che il principio dell’autodeterminazione fu

usato dalle repubbliche per rendersi indipendenti. L’unica via d’uscita, da parte delle

repubbliche, fu quella della secessione. Questa strada fu percorribile dopo lo

scioglimento dell’URSS, quando la posizione strategica nella scacchiera internazionale

della Jugoslavia venne meno, e i rubinetti che portarono decine di miliardi di dollari si

chiusero sempre di più. In questo quadro internazionale le repubbliche autosufficienti

ebbero il timore di essere risucchiate nel vortice jugoslavo, e decisero di tagliare i

fondi alle aree meno sviluppate del paese, per rivolgere la loro economia alla comunità

economica europea. Questo non fu accettato dai serbi che cercarono di accentrare

ulteriormente i poteri nel governo federale; come reazione a questa politica la

Slovenia, la Croazia e la Bosnia decisero di proclamare, oltre all’indipendenza

13

La questione jugoslava, Stefano Bianchini, Giunti, Firenze 1999, p. 128

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economica anche quella politica, indicendo referendum per avere l’avallo delle

popolazioni.

L’opposizione e la repressione alle rivendicazioni nazionali durante la storia jugoslava

ebbe un effetto contrario nelle popolazioni; che optarono per le idee che vedevano

l’autodeterminazione dei popoli in senso nazionalistico. Questo si realizzò in Croazia,

in Serbia e in Bosnia Erzegovina dove non erano presenti delle realtà etnicamente

omogenee. In queste repubbliche negli ultimi anni di vita della federazione vennero

alla luce i tre leaders che segnarono con i loro nomi i successivi conflitti dell’area

balcanica jugoslava: Tudjman per la Croazia, Milosevic per la Serbia, Izetbegovic per

la Bosnia Erzegovina. Questi, come già detto, fecero pressione sulla storia e sui confini

storici delle rispettive repubbliche, che da sempre avevano caratterizzato l’area

balcanica: evidentemente le loro istanze fecero breccia tra la popolazione, che li

appoggiò eleggendoli presidenti delle rispettive repubbliche.

Nell’analizzare la storia jugoslava e le innegabili contraddizioni di quell’area molti

esperti fanno coincidere e confondono le rivendicazioni di autodeterminazione, sancite

da vari trattati internazionali, con le idee personali dei vari leaders nazionalisti:

bisogna distinguere le affermazioni di principio con la loro applicazione pratica e

quindi con la loro interpretazione. Fabio Martelli, nel suo libro La guerra di Bosnia,

prende in esame il valore dei miti nell’area balcanica e la loro risonanza negli eventi

dei conflitti nella ex- Jugoslavia; da questo uso dei miti per motivi politici viene

esclusa la Slovenia, dato che al suo interno c’è una sostanziale omogeneità culturale ed

etnica. Nell’analizzare la storia delle varie repubbliche, Martelli, a mio avviso dà un

giudizio di merito sulla liceità delle rivendicazioni territoriali delle varie Repubbliche.

Per fare questo si basa sulla durata temporale e sulla vastità territoriale dei passati Stati

balcanici, per me questo non è un modo corretto di procedere: giusto è il principio

dell’autodeterminazione, sbagliata e la sua interpretazione a fini nazionalistici. Non sta

a noi valutare se uno Stato abbia avuto interessi a proclamarsi indipendente, ma è

giusto che nell’applicare il proprio diritto all’autodeterminazione sia mantenuto il

medesimo diritto anche per le eventuali minoranze al proprio interno.

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Bibliografia

- Il Giorno di San Vito- Jugoslavia 1918 1992 storia di una tragedia, Joze Pirjevec,

Nuova ERI, Torino 1993

- La questione jugoslava, Stefano Bianchini, Giunti, Firenze 1999

- La guerra di Bosnia- Violenza dei miti, Fabio Martelli, Il Mulino, Bologna 1997