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Le chiese riformate e il Vaticano II: Karl Barth

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Le chiese riformate

e il Vaticano II:

Karl Barth

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Gli osservatori inviati

e gli ospiti

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Tra i compiti del Segretariato per l’unità dei cristiani, creato ex novo da Giovanni

XXIII nel marzo 1960, c’è anche l’incarico di prendere contatti con le altre

confessioni cristiane affinché inviino propri rappresentanti al Concilio.

L’invito riscontra larghi e crescenti consensi: il numero degli osservatori al Vaticano

II cresce periodo dopo periodo:

Iª sessione: 54 delegati, di cui 8 ospiti

IIª sessione: 68 delegati di cui 9 ospiti

IIIª sessione: 82 delegati di cui 13 ospiti

IVª sessione: 106 delegati di cui 16 ospiti

La denominazione di “osservatori delegati” viene scelta per sottolineare come gli

inviati siano rappresentati della propria chiesa, distinguendoli dagli “ospiti” invitati

dal Segretariato che partecipano a titolo personale. Tra questi ultimi ci sono, per

esempio, Roger Schutz e Max Thurian, della comunità monastica di Taizé e Oscar

Cullmann.

La risposta negativa all’invito da parte di Costantinopoli e di altre chiese ortodosse

fa sì che siano relativamente meglio rappresentati i protestanti, tra i quali mancano

soltanto i battisti.

L’attenzione degli osservatori si concentra soprattutto sui documenti che affrontano

questioni teologiche che hanno caratterizzato le polemiche confessionali nei secoli

scorsi: per esempio quello sulla Rivelazione, sulla Chiesa e sull’Ecumenismo.

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Critiche di Barth sugli

“osservatori

protestanti” al Concilio

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«Caro amico! […]. L’invio dei dilectissimi observatores non avrebbe dovuto essere

preparato un poco più seriamente e attentamente di quanto non sembra, almeno in

parte, essere avvenuto? Infatti non sembra essere soltanto una leggenda, che uno dei

nostri “osservatori” ha partecipato al Concilio nella forma di una apparizione lampo

di due giorni; che un altro ha preferito seguire i lavori sonnecchiando; e che altri

ancora – senza voler dubitare del movimento della loro certo profonda e ricca vita

interiore! – hanno partecipato soltanto tacendo sia ai colloqui degli osservatori tra

loro, sia, perfino, a quelli con i padri conciliari veri e propri.

Questi, in ogni caso, non dovrebbero essere stati i nostri delegati più competenti e

rappresentativi nella Basilica di san Pietro. Inoltre: perché, da parte nostra, sono

stati inviati laggiù relativamente così pochi teologi scientificamente attivi e aperti a

ciò che è essenziale? Perché si è lasciato al card. Bea di affiancare loro Oscar

Cullmann, come invitato del Vaticano? Perché nessuno dei dirigenti ecclesiastici da

noi delegati è stato almeno tanto saggio quanto i veri e propri padri conciliari,

portando con sé un “perito”?

E, formulando una domanda drastica: perché il segretario generale del Consiglio

ecumenico, il quale è ugualmente competente e impegnato dal punto di vista sia

ecclesiastico, sia teologico, e al tempo stesso è ecumenicamente esperto, non è

andato a Roma?» (Lettera del 05.05.1963 a Visser ’T Hooft)

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Karl Barth

(1886-1968)

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Karl Barth nasce in una famiglia borghese di Basilea. Suo padre è professore di

teologia e specialista del Nuovo Testamento.

Compie gli studi a Berna, Berlino e Marburgo, subendo l’influsso di von Harnack

e della teologia liberale.

Pastore dal 1911 al 1921 a Safenwil, un piccolo paese svizzero, fa parte della

corrente del “socialismo religioso”.

Nel 1921 viene nominato professore di teologia riformata alla facoltà di Göttingen

per il successo ottenuto con la sua Römerbrief.

Poi è professore a Münster e a Bonn fino al 1935, quando viene espulso dalla

Germania da parte del governo di Hitler.

Da allora fino al 1964 insegna a Basilea.

I suoi maestri sono i teologi liberali Hermann e Harnack; sue letture preferite

Schleiermacher e Kant. Barth si interessa all’indagine storico-critica: interpreta la

fede come “sentimento interiore”; riduce il cristianesimo a messaggio morale di

cui Cristo sarebbe stato il più esemplare portatore.

La formazione, fonti e influenze

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Nel 1909 inizia l’attività pastorale: entra in contatto con la questione operaia, vede

la povertà materiale e culturale dei suoi parrocchiani. Si convince che la teologia

liberale imparata all’Università è distante dalla condizione esistenziale concreta

della chiesa.

Lo scoppio della Prima guerra mondiale, porta Barth a prendere le distanze dai

suoi maestri tedeschi che avevano dichiarato il loro sostegno alla guerra.

Il messaggio cristiano e Gesù Cristo si possono comprendere solo al di fuori degli

schemi storici, come fatti della Urgeschichte (protostoria o storia originaria).

La fede è dono di grazia, incontro indeducibile tra uomo e Dio, salto abissale che

non si può spiegare con le categorie filosofiche; essa si situa al di fuori del tempo

e della storia.

Gli influssi di Dostoevskij e Kierkegaard avvicinano Barth ai temi e alla

sensibilità dell’esistenzialismo, con il quale però non si identifica: per Barth la

centralità sta in Dio e non nell’uomo e nella sua esistenza.

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Römerbrief

Risultato maturo del travaglio e

dell’evoluzione di Barth è il

Römerbrief (L’epistola ai Romani)

del 1922 (una 1ª edizione, poi

rifatta, è uscita nel 1919).

È il manifesto della cosiddetta

“teologia dialettica”.

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La teologia dialettica

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Per Barth compito della teologia è evidenziare la relazione “dialettica”, di “rottura”

tra Dio e il mondo (l’uomo, la cultura, la storia), al contrario dei teologi liberali (von

Harnack, Troeltsch) che sostengono una continuità tra Dio e l’uomo, considerando

la fede come un elemento dell’interiorità psicologica dell’uomo e la teologia come

l’analisi storico-critica della Scrittura.

Secondo Barth la Rivelazione di Dio è “crisi” del mondo, mette in crisi i suoi valori.

La teologia della crisi ha perso la fiducia in tutto ciò che proviene dall’uomo,

comprese le sue idee religiose più profonde e le sue esperienze spirituali più intense

o le attività sociali più giuste

Barth insiste sul carattere trascendente della Rivelazione cristiana: Dio è il

“totalmente altro”. La sua distanza rispetto al “mondo” è “infinita”. Egli non è

toccato da nessun crollo. Anche rivelandosi in Gesù Cristo, Dio resta nascosto: con

l’incarnazione Dio tocca il mondo come la tangente tocca un cerchio, cioè “senza

toccarlo”.

La Croce di Cristo rende visibile la lontananza infinita che esiste tra Dio e uomo.

Mentre il Dio della teologia tradizionale è il vertice di ciò che è buono, bello, vero

nel mondo, il Dio di Barth è quella della rottura e della contraddizione.

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Karl Barth e la

moglie Nelly

con il figlio

Markus e la

figlia Franziska

(1916)

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L’umanità di Dio e la “fase dogmatica”

A partire dagli anni Trenta Barth ammorbidisce le posizioni già presenti nello studio

su Anselmo d’Aosta. Testo cruciale di questa fase è la Dogmatica Ecclesiale

(Kirchliche Dogmatik) in 13 volumi che impegna l’Autore per oltre 30 anni. Tratti

salienti di questa fase sono fondamentalmente tre:

1) L’incontro Dio-uomo. Per Barth il cuore del messaggio cristiano è la resurrezione,

la salvezza, l’elezione, la grazia e non la condanna, la trascendenza, l’ira di Dio che

rifiuta l’uomo e il mondo… Il rapporto tra trascendenza di Dio e incontro con l’uomo

(la kenosis) che nelle prime opere era più sbilanciato a favore del primo elemento, si

capovolge a favore del secondo elemento, senza perdere nulla (Dio rimane sempre

una realtà trascendente all’uomo e mai possedibile).

2) La concentrazione cristologica. Il centro intorno a cui ruota la teologia è sempre

più il Cristo, l’umanità di Dio, il luogo in cui Dio si fa uomo e restituisce una dignità

al piano umano e storico.

3) Primato della Rivelazione e della Parola. Quando si parla di Dio in un discorso

teologico occorre in primo luogo ascoltare la Rivelazione che Dio stesso ha dato di

sé, la sua Parola. Si deve essere sempre consapevoli dei limiti del pensiero umano

mettendo ogni filosofia al servizio di una maggiore comprensione della fede

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I primi interessi per

il cattolicesimo

«Il cattolicesimo è il grande e

forte ricordo del fatto che nella

Riforma del XVI secolo, da cui è

sorta la Chiesa protestante, si è

trattato, come dice il nome, della

Riforma, cioè del ristabilimento

della Chiesa e dunque non della

sua distruzione né della sua

trasformazione in una struttura

completamente diversa, non

della proclamazione di una

nuova seconda origine della

Chiesa, ma della riscoperta

dell’unica antica origine della

Chiesa. Il protestantesimo non

protesta contro la Chiesa, ma per

la Chiesa».

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«Il cattolicesimo in questi quattro

secoli è rimasto sorprendentemente

fedele, anzi sempre più fedele a se

stesso. Più consolidato e

caratterizzato, ma anche più raffinato

e invitante, ci sta oggi di fronte non

come lo era nel XVI secolo. È

diventato gesuitico e in questa forma

ci dice molto più chiaramente quello

che esso vuole e non vuole in

opposizione alla Riforma.

Ha rinnovato il tomismo ed è perciò

in condizione di dirci in modo molto

più sicuro e inattaccabile ciò su cui

divergiamo. Esso parla in maniera

più audace e parla meglio. Esso ci

chiede con maggiore insistenza e al

tempo stesso con maggiore

comprensione che cosa alla fine

abbiamo da obiettare nei suoi

confronti».

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Già nel 1963, su richiesta di Visser ’T Hooft, primo

segretario generale del Consiglio Ecumenico delle

Chiese, Barth aveva pubblicato alcune riflessioni sul

Concilio Vaticano II.

Barth non condivide del tutto la valutazione che i

dirigenti del Consiglio Ecumenico delle Chiese

danno del Vaticano II. Essi si preoccupano soprattutto

di vedere se il Concilio dia più spazio al dialogo con i

protestanti.

Barth invece è più interessato a mostrare il significato

che l’evento conciliare riveste per la Chiesa cattolica.

Egli ritiene che il fine primario del Concilio sia il

rinnovamento interno, la ricerca di una migliore

comprensione di ciò che la Chiesa cattolica vuole

essere e del messaggio che intende proclamare.

Per Barth considerare il Concilio Vaticano II solo

nella prospettiva del dialogo è riduttivo perché non

permette di cogliere il movimento spirituale in atto

nella Chiesa cattolica, movimento che nessuno

avrebbe ritenuto possibile 50 anni prima.

Visser ’T Hooft

(1900-1985)

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La visita Roma

su invito del card. Bea

«Stimatissimo sig. Cardinale!

Forse si ricorda, di essere stato una volta così

gentile da farmi chiedere dal professor dr.

Hans Küng di Tubinga, se eventualmente

sarei stato disponibile ad accettare un invito

personale a partecipare al Concilio come

osservatore.

Allora, non potei rispendere positivamente,

per quanto mi sia molto dispiaciuto, poiché

mi trovavo nel mezzo di un difficile periodo

di malattia.

Ciò non mi ha impedito di seguire da lontano

i lavori del Concilio con grande

partecipazione, e di riflettere sui suoi risultati,

nella misura in cui mi divennero accessibili.

Da allora il mio stato di salute è migliorato in

misura decisiva, e con esso la mia mobilità

esteriore, benché sia sempre sottoposto a

controllo medico e abbia bisogno di ogni

sorta di cure»

(Lettera del 02.06.1966 al card. Bea).

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«Ora ho il vivo desiderio di poter venire a Roma almeno post festum: con l’intenzione di

informarmi sui termini nei quali, là, particolarmente in Vaticano e nelle sue dirette

vicinanze, e dunque nei luoghi centrali della chiesa e della teologia cattolico-romane, si

guardi retrospettivamente al Concilio concluso e, a partire da esso, al futuro. Su questo,

le osservazioni seguenti:

1) Sarebbe per me importante entrare personalmente in contatto anzitutto con Lei,

stimatissimo sig. Cardinale, ma anche individualmente con le altre importanti

personalità, appartenenti a tutti gli orientamenti, dei circoli ecclesiali e teologici che a

Roma sono influenti.

2) io verrei a Roma esclusivamente sotto la mia personale responsabilità: dunque senza

incarico di alcuna istanza accademica o ecclesiale – e inoltre personalmente, non come

cristiano e teologo “protestante”, bensì semplicemente “evangelico” al quale sta a cuore,

come a Lei stesso, stimatissimo sig. Cardinale, la ricercata, ma anche già largamente

presente unità della fede e della chiesa.

3) La mia intenzione, a Roma, non sarebbe di parlare, bensì di ascoltare il più possibile,

di acquisire, di comprendere, di imparare, solo, rispondendo alle domande che

eventualmente mi verranno rivolte.

4) Nel pianificare questo viaggio, non perseguo nemmeno alcun fine giornalistico, e va

da sé che tratterei con la massima discrezione tutto quanto mi sarebbe dato di ascoltare.

5) Poiché la mia salute, come ho accennato, non è ancora perfettamente ripristinata, non

potrei rinunciare in questo viaggio a un’assistenza medica e infermieristica di fiducia»

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Invitato a prender parte come

osservatore al Concilio, Barth non

può accettare per ragioni di salute.

Solo nel 1966 si reca a Roma,

insieme alla moglie Nelly e al

medico personale, per informarsi

direttamente sul significato del

Concilio.

L’ottantenne teologo trascorse a

Roma giornate dense di impegni.

Ne lascia un vivace ricordo nel

volumetto del 1967 Ad limina

Apostolorum.

«Accompagnato, introdotto e

istruito e anche occasionalmente

intrattenuto» dal vescovo

Willebrands, dal teologo Magnus

Loehrer e da mons. Salzmann,

Barth ha colloqui con gruppi di

teologi di diversi ordini religiosi.

L’invito al Concilio e il viaggio a

Roma

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Per Barth il mondo protestante ha ignorato il

lavoro sulla Bibbia compiuto fruttuosamente

dentro la Chiesa cattolica soprattutto nei

luoghi della formazione ecclesiastica.

Questo lavoro ha aggiornato l’impostazione

controversistica della relazione tra Scrittura

e Tradizione.

Nella Chiesa cattolica si nota un

atteggiamento nuovo, centrato sull’ascolto

della Parola di Dio: esso sarà decisivo per

l’aggiornamento della vita ecclesiale.

Più che alle possibilità di sviluppo delle

relazioni con i protestanti, si deve perciò

guardare a ciò che sta accadendo nella

Chiesa cattolica, nella consapevolezza che le

comunità cristiane non sono entità statiche e

che ciò che conta è che siano in movimento

verso il Cristo.

Se le Chiese vivono nell’obbedienza al

Signore e alla sua Parola, esse

convergeranno verso l’unità.

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«Il mio amico dr. W.A. Visser’t Hooft mi ha chiesto di esprimere pubblicamente alcuni

dei pensieri che gli ho presentato in una conversazione privata […].

Se ho letto e compreso correttamente, l’interesse dell’ufficio centrale dell’ecumenismo

non cattolico di Ginevra si è finora concentrato sulla domanda se, in che misura e in

che forma l’esito del Concilio possa condurre a una maggiore attenzione e più ampia

apertura, da parte della Chiesa romana, nei confronti dei resto della cristianità e, su

questa base, a nuovi e più frequenti contatti e conversazioni, a un dialogo tra Roma e

noi altri.

Si tratta, indubbiamente, di una domanda legittima e importante, che papa Giovanni

XXIII ha certamente stimolato con la sua volontà (perseguita contro alcuni circoli della

sua chiesa) di invitare “osservatori” dai ranghi del Consiglio ecumenico e di alcune

delle più grandi chiese non romane. In un ricevimento speciale in Vaticano, egli si è

ostentatamente collocato tra gli osservatori.

Essi sono stati forniti di materiale documentario confidenziale, che per il resto era

disponibile solo ai veri e propri partecipanti al Concilio. Essi sono stati cortesemente

presentati, nella Basilica di san Pietro, come dilectissimi observatores.

Dietro le quinte e privatamente, individualmente e in gruppo, essi sono stati, in modo

evidente, accolti, consultati e richiesti di esprimere le loro vedute sui temi trattati. Che

innovazioni! Certamente si è qui verificato un significativo inizio di contatti tra il

magistero della Chiesa romana e rappresentanti di altre confessioni»

Giovanni XXIII e gli “osservatori” non cattolici

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«Tuttavia, non mi sembra del tutto corretto osservare e valutare l’evento del

Concilio in primo luogo (per non dire esaustivamente) da questa unica prospettiva,

e ciò per due ragioni. Non vi è, in questo, una sottovalutazione che questa

domanda, certamente importante, riveste per la stessa Chiesa romana? La nostra

parte ha compreso e spesso sottolineato che il Concilio è una faccenda di questa

Chiesa. Forse, però, questo fatto non è stato accettato con la sufficiente

determinazione.

Il compito del Concilio è il rinnovamento interno della Chiesa, da perseguirsi nella

prospettiva dell’attuale contesto cristiano e non cristiano. Il suo obiettivo ultimo

(sottolineato con molta nettezza nel primo annuncio del Papa) è lo sviluppo del

suo stesso splendore, uno sviluppo in un certo senso “kerigmatico”, tale da

invitare il contesto cristiano e non cristiano alla pace, e persino all’unione con la

chiesa stessa […].

Per quanto riguarda noi altri, il Concilio non è stato convocato per negoziare con

noi, ma per conoscerci meglio e spiegarci la vera essenza della Chiesa romana e,

in tal modo, per impressionarci (nel senso migliore della parola) […].

La Roma papale e conciliare è oggi interessata essenzialmente al rinnovamento di

casa propria, e solo per tale ragione, in modo periferico e contingente, essa è

interessata a noi come suoi partner di discussione».

Il vero compito del Concilio

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«Che cosa è in gioco qui? L’antico libro dei vangeli, che durante la sessione inaugurale è

stato posto direttamente in vista dei vescovi (e degli osservatori!) nella Basilica di San

Pietro, non potrebbe costituire qualcosa di più che soltanto un necessario frammento di

uno scenario liturgico e ornamentale? Ciò che ha intrapreso in questo ambito, e nel riunire

i vescovi, quell’uomo notevole che è Angelo Roncalli, come papa Giovanni XXIII – ciò

che ha mostrato il tenore dell’intervento inaugurale del papa – ciò che ha in modo

caratteristico motivato la maggioranza del Concilio nei suoi lavori fin qui svoltisi: tutto ciò

non ha costituito forse la dinamica di un inizio di riorganizzazione, precisamente intorno al

Vangelo? Evidentemente la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, è stata a lungo, nel

passato, letta in circoli clericali (e non solo clericali) della Chiesa romana più

operosamente e fruttuosamente di quanto noi avevamo osservato o propriamente valutato

[…].

Il nostro sguardo era forse eccessivamente fissato sulle formule problematiche di Trento, o

sulle vistose tristezze di quei teologi cattolici che stavano lavorando nell’esegesi

scientifica? Abbiamo forse mancato di porre sufficiente fiducia nella forza di lievito della

parola di Dio, che dopotutto è fortemente rappresentata nel messale romano e nel

breviario? Eravamo forse confusi da tutti gli strani elementi che, in essi, ci sono stati

presentati? E, mediante la presenza della Scrittura profetica e apostolica, Gesù Cristo non

ha forse preso nuovamente posto al centro della fede dei cristiani romani e nel pensiero dei

teologi romani – proprio là dove egli sembrava sempre più messo in dubbio dallo sviluppo

scoraggiante dei dogmi su Maria?».

Il Concilio, uno stimolo anche per le chiese non-romane

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«Può forse essere trascurato che la predicazione, nelle comunità cattoliche, non

solo è più diligente, ma anche più seria di quanto le nostre opinioni precedenti

avrebbero concesso, e che in questa materia si possono spesso fare esperienze

considerevoli, per esempio alla radio, in paragone a diverse esposizioni

protestanti?

Di più: non è forse iniziato un movimento (che si estende perfino all’architettura

delle chiese) nella direzione di una più attiva partecipazione della comunità nella

celebrazione, la quale si svolge non più lungo una parete distante, ma nel centro, il

che le conferisce il suo carattere di culto? […].

Sicuramente non si tratta di un’occasione per sopravvalutare in qualsiasi misura

l’evento spirituale che, come tentativo, è annunciato da tutto ciò; e vi è ragione di

essere preparati a ogni possibile tipo di blocco o inversione di marcia.

Tutto è ancora molto imperfetto e molto poco chiaro per noi, sia nei dettagli, sia

nell’insieme, e le cose possono rimanere tali per molto tempo, forse fino alla

seconda venuta di Cristo.

Non vi è ragione per alcuno di sognare che i cattolici romani possano diventare

“evangelici” nel nostro senso, domani, dopodomani o in qualunque altro tempo».

Riconoscimenti di molti elementi positivi della Chiesa conciliare

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«La mia tesi è che noi dovremmo indirizzare

la nostra attenzione molto più verso ciò che

sta cominciando ad apparire come un

movimento di rinnovamento all’interno della

Chiesa romana, a quanto nei fatti è già stato

parzialmente messo in moto, piuttosto che

alle possibilità di una leale relazione tra noi e

i suoi rappresentanti.

In ultima analisi, Roma e le chiese non

romane […] vivono nella misura in cui sono

comunità viventi del Gesù Cristo vivente. La

domanda, prima e ultima, che si pone loro, a

ciascuna a modo proprio e a entrambe nella

loro coesistenza, non riguarda la

cooperazione tra le loro dottrine e istituzioni,

bensì questo movimento dinamico […] .

Noi cristiani non romani siamo messi in

questione, in vista di un cambiamento. Certo,

non ci viene chiesto se potremmo,

dovremmo o vorremmo diventare “cattolici”,

ma ci viene chiesto se, alla luce del

movimento spirituale là in atto, qualcosa è

stato messo in movimento – o meno! – sul

nostro versante, nelle stanze della nostra

chiesa».

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«Non manchiamo troppo, noi teologi non romani, di quella interessante e

progressista flessibilità che caratterizza molti dei nostri colleghi romani […]? Non

sussiste forse tra noi un’esplicita inimicizia nei confronti di tutti i fattori di disturbo?

E non è una misura largamente eccessiva di conformismo rispetto ai poteri che

regnano nel popolo, nello stato e nella società? […]. Non esistono forse degli

Ottaviani non romani, persino “protestanti”?

Come apparirebbero le cose se Roma (senza cessare di essere Roma), un giorno,

semplicemente ci sorpassasse e ci mettesse in ombra, per quanto riguarda il

rinnovamento della chiesa mediante la parola e lo Spirito dell’evangelo? Che cosa

accadrebbe se dovessimo scoprire che gli ultimi sono i primi, e i primi gli ultimi,

che la voce del Buon Pastore trova là una eco più chiara che presso di noi? […].

Possiamo trovare da imparare dalla Chiesa romana più di quanto quest’ultima abbia

da imparare da noi, come ancora riteniamo con indebito autocompiacimento (certo,

dovremmo imparare non dalle sue dottrine particolari, dalla liturgia o da altre

istituzioni, bensì da un nuovo spirito che rivitalizza e mette in movimento queste

ossa secche) […].

Ma perché accade che la voce di Roma ha fatto sul mondo un’impressione tanto

maggiore della voce di Ginevra? […] Ho paura che rispetto al mondo esterno,

precisamente in questo nostro decisivo presente, noi possiamo essere lasciati molto

indietro da una chiesa papale che sta recuperando dinamicamente […].

Autocritica delle chiese non-romane

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«Non dovrebbe il Concilio darci l’occasione di spazzar via la polvere davanti alla

nostra porta, mediante uno scopa che operi attentamente, ma anche per forza? Posso

riformulare la questione anche altrimenti: la nostra preghiera per la crescita della

visibilità dell’unità della Chiesa di Gesù Cristo non dovrebbe essere, da parte nostra,

in definitiva liberata dal pensiero che i fratelli separati possono diventare

“evangelici” nel nostro senso e nel nostro stile? Che ad essi possa essere, prima o

poi (proseguendo nella strada evidentemente buona che hanno intrapreso), donata

una percezione della maggiore accuratezza e importanza della nostra forma di fede

cristiana, la fede comune a loro e a noi? […].

E che aiuto ci offrirebbe questa supplica, se noi pregassimo guardando con la coda

dell’occhio gli altri, anziché fissare con fermezza il nostro sguardo sulle nostre

chiese, sulla nostra vita nell’ambito dei nostri ordinamenti ecclesiali, sul nostro

insegnamento, sulla nostra teologia, sulla nostra predicazione e la nostra catechesi

nell’ambito della nostra conoscenza e delle nostre confessioni di fede, sull’amara

miseria della nostra intera esistenza come chiesa? […].

Ancora una volta: quale umiliazione potrebbe essere per noi, in tali dialoghi, se si

dovesse dimostrare l’eventualità che i partecipanti dell’altra parte fossero più

seriamente impegnati in questo ambito; che il Veni creator Spiritus fosse presente tra

loro in modo più concretamente diretto, e che essi stessero pregando non rivolti alla

nostra miseria, ma con lo sguardo ai propri problemi cattolico-romani».

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«Dall’uno e dall’altro punto di vista, la

via dell’unità della chiesa può solo

essere quella del suo rinnovamento. Ma

rinnovamento significa pentimento. E

pentimento significa svolta. Non la

svolta degli altri, ma la nostra. Non è

forse il problema del pentimento quello

posto al Consiglio ecumenico delle

chiese dal Concilio romano? E, in tal

modo, un problema di rinnovamento

delle nostre chiese, di tutte le chiese non

romane raccolte nel Consiglio

ecumenico?

E la continuazione dei nostri dialoghi

con gli altri non è forse un problema

secondario, dominato dal primo? Tale è

la questione che mi sembra quella

scottante rispetto alla conclusione del

Concilio e, di fatto, molto al di là di

essa».

La via per l’unità è il

rinnovamento-pentimento

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Pone domande sulla base di due schemi («uno critico e l’altro esplorativo») che

riguardano 9 documenti del Vaticano II. Il più gradevole di questi incontri – nota

Barth – è quello con i gesuiti sulla terrazza della Gregoriana, «dove, dal mio posto

ai raggi del sole autunnale, avevo direttamente davanti agli occhi la cupola di San

Pietro, per cui nel fiume dei discorsi che si scambiavano non ho potuto

dimenticare un istante dove mi trovavo».

Tra gli ultimi impegni della permanenza romana, la partecipazione a una sessione

di un Congresso internazionale di teologia dove ha modo di conversare con i

colleghi Karl Rahner e Joseph Ratzinger, ai quali Barth chiede di esporre le

proprie opinioni in materia di mariologia. E non a caso perché nella sua

Dogmatica ha più volte sottolineato che su questo punto le divergenze sono molto

profonde: nella dottrina e nel culto di Maria risiede per lui l’errore per eccellenza

della Chiesa cattolica romana, a partire dal quale tutte gli altri si spiegano

perfettamente.

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«Nel corso di una visita alla residenza –

posta sulla Aurelia, una delle radiali che

partono dalla Roma antica – del card.

Bea, ben noto e giustamente onorato

nell’ambito del movimento ecumenico

non romano, ho trovato un uomo

indubbiamente retto, al servizio di una

causa indubbiamente buona, anche se la

persegue valendosi di una teologia un

po’ convenzionale; meglio così,

comunque, di quando altri, valendosi di

una teologia più moderna, sostengono

cause meno valide! Augustin Bea è

nativo della Salva Nera e il borbottio di

una pendola, che non lasciava dubbi su

tale origine, interrotto a tratti dal cucù,

accompagnava serenamente la nostra

conversazione».

Incontro con il cardinal A. Bea

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«Il più sereno di questi

incontri, impresso nella

mia memoria (ma non per

questo intendo mettere in

sottordine i molti

domenicani, benedettini,

francescani e gli altri

studiosi con i quali ho

avuto a che fare), è stato

quello con i gesuiti, in

cima alla loro Gregoriana,

dove dal mio posto

scorgevo continuamente

stagliata nella luminosa

aura autunnale la cupola di

San Pietro, sì che nel fluire

della conversazione non

potevo mai dimenticare

dove mi trovavo».

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«Abbiamo ascoltato una conferenza di

Karl Rahner sulla presenza di Cristo

nell’Eucaristia (nel corso della quale mi

ha disturbato soltanto l’uso frequente

del termine latino moderno

“existentialis”) e una relazione del prof.

Semmelroth. Come ho invidiato i

teologi cattolici per la loro capacità,

esercitata fin dalla giovinezza, di valersi

del latino in conferenze e dibattiti come

della loro lingua materna! Se il famoso

“dialogo” fra le chiese deve utilmente

procedere, i nostri successori

dovrebbero impararlo anch’essi.

Dopo questo incontro memorabile

abbiamo avuto ancora, al Segretariato

per l’unione, una conversazione

familiare con i colleghi Rahner,

Ratzinger e Semmelroth, nel corso del

quale li ho pregati di esprimere in mia

presenza le loro concezioni, un poco

divergenti, della mariologia».

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Il momento clou è l’incontro con il papa

in Vaticano. Karl Barth e Paolo VI

parlano di questioni teologicamente

rilevanti: di ecumenismo e

dell’appellativo “fratelli separati” usato

nei documenti conciliari per indicare i

protestanti, ma anche del ruolo di Maria

nella vita della Chiesa.

Infine lo scambio di doni: un facsimile

del Codex vaticanum da parte del

Pontefice, 4 volumi delle sue opere da

parte di Barth.

I testi portano una dedica in latino: «Nel

comune servizio dell’unico Signore, il

fratello separato Karl Barth dedica

questo libro al vescovo Paolo VI,

umilissimo servo di Dio».

L’incontro con Paolo VI

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«Se non dal punto di vista del contenuto, il culmine emotivo delle nostre giornate

romane è stato naturalmente il ricevimento nel santuario più interno della chiesa

cattolico-romana. Mentre al Laterano, più papisti del papa, come ho detto, non ne

avevano voluto sapere di me, il pontefice – i cattolici dicono “santo Padre” – ci ha

cordialmente invitati a visitarlo in Vaticano […].

L’intera ora che papa Paolo VI ha voluto dedicarmi è per me fra i ricordi più piacevoli

della nostra settimana. È andata così: attraverso tutto un susseguirsi di anticamere e il

tintinnio delle alabarde delle guardie svizzere, guidati anche qui dal vescovo

Willebrands, siamo giunti infine allo studio pontificio, sulla soglia del quale “Sa

Sainteté” (anche qui abbiamo parlato francese) mi ha accolto a braccia aperte, alla

lettera […].

Con tutta la mia timidezza, mi sono quindi azzardato a porgli questa e quella delle

domande con le quali me n’ero venuto a Roma: per esempio quella sul mio status

teologico, quale uno dei “fratelli separati”, come siamo costantemente definiti nei

documenti conciliari; egli concordava che in tale espressione andasse sottolineato il

termine “fratelli”, come altri a Roma mi avevano detto? Sì, egli sembrava concordare.

Non lasciammo da parte neppure il tasto delicato della mariologia: il papa aveva avuto

notizia del fatto che preferirei anteporre Giuseppe, il padre adottivo di Gesù, quale

prototipo dell’essenza e della funzione della chiesa, alla ancilla Domini elevata poi a

regina del Cielo; mi assicurò che avrebbe pregato per me affinché, nei miei tardi anni,

mi fosse donata, a questo riguardo, una visione anche più approfondita. Qui pure

regnò la cortesia più squisita e l’ora volò in un lampo».

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«Risultato: ho avuto modo di conoscere da vicino una chiesa e una teologia, che si

sono mosse secondo un movimento dalle conseguenze imprevedibili, lento, ma

sicuramente autentico e irreversibile; considerandolo, non si può che auspicare che

pure da parte nostra si manifesti un movimento corrispondente: e speriamo che ad

esso sia risparmiato il ripetersi dei gravi errori commessi nel nostro campo a partire

dal XVI secolo! Vedrei con piacere scomparire dal nostro vocabolario i termini

“protestante” e “protestantesimo” […].

Il papa non è l’Anticristo! Certo, tutto l’apparato degli anatemi rivolti contro di noi

dal Concilio di Trento, con molti altri vecchiumi, sussiste ancora nel Denzinger. Al

di là delle Alpi ho incontrato tanti cristiani, con i quali ho potuto parlare con

sincerità e serietà come pure ridere di cuore […].

“Conversioni” da noi alla chiesa cattolica-romana o viceversa, da questa alle nostre

chiese, non hanno in sé alcun senso. Possono avere un significato unicamente

quando costituiscono una cosciente e vera “conversione” – non a un’altra chiesa,

bensì a Gesù Cristo, il Signore della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

Guardando le cose alla radice, da una parte come dall’altra, non può trattarsi di altro

che di questo: ciascuno al suo posto, nella sua chiesa, ascolti la vocazione alla fede

nell’unico Signore e al servizio che deve essergli reso»

(Ad visita Apostoloroum, 1966)

Un bilancio…

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Riferimento

bibliografico