LE CAUSE IN TRIBUNALE - La Legge per Tutti · cenni sulla Legge Pinto, che risarcisce il cittadino...
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LE CAUSE IN TRIBUNALE
Curatore: Rossella Blaiotta venerdì 4 marzo 2016 versione 1.0
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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SOMMARIO
Prefazione ........................................................................................................................................ 3
CAPITOLO I – QUALI SONO GLI ATTI GIUDIZIARI E COME SI SVOLGE IL PROCESSO CIVILE
......................................................................................................................................................... 4
1.1 Atti giudiziari e processo civile: cosa e quali sono .................................................................. 4
1.2 Che succede se ti notificano una citazione ........................................................................... 10
1.3 Che succede se sono contumace e non mi costituisco in causa? ........................................ 14
1.4 Quanti sono i gradi di giudizio? ............................................................................................. 20
1.5 Come si fa una testimonianza .............................................................................................. 24
1.6 Quanto costa una causa ....................................................................................................... 28
1.7 Quanto costa fare una causa di lavoro ................................................................................. 36
CAPITOLO II – LA SENTENZA E GLI ADEMPIMENTI SUCCESSIVI ........................................... 40
2.1 Che succede dopo la sentenza? Notifica, pignoramento e recupero crediti ......................... 40
2.2 La registrazione della sentenza ............................................................................................ 43
2.3 Se vinco una causa che succede? ....................................................................................... 49
2.4 Causa vinta: al cliente cosa viene rimborsato? ..................................................................... 52
2.5 Se il giudice ti condanna in primo grado: quale difesa? ........................................................ 56
2.6 Se perdo una causa cosa succede? ..................................................................................... 60
2.7 Se perdi una causa dal 2014 ................................................................................................ 62
2.8 Se vinco la causa ma il debitore non paga: quale tutela? ..................................................... 64
2.9 Se la causa termina con un pareggio: la parziale soccombenza o vittoria ............................ 69
2.10 Quando si prescrive una sentenza? ................................................................................... 71
2.11 Cos’è un titolo esecutivo. L’esecuzione forzata .................................................................. 73
2.12 Cos’è un atto di precetto ..................................................................................................... 82
CAPITOLO III – INFORMAZIONI UTILI IN COSTANZA E AL TERMINE DEL GIUDIZIO ............. 85
3.1 Diritti di copia atti giudiziari: tutti gli importi del 2016............................................................. 85
3.2 Parcella avvocato: come calcolare tariffe forensi e contributo unificato ................................ 91
3.3 Come revocare l’avvocato .................................................................................................. 121
3.4 Legge Pinto: danno da eccessiva durata del processo ....................................................... 124
3.5 Causa infondata: a quanto può ammontare il risarcimento? ............................................... 125
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PREFAZIONE
La giustizia civile, in particolare per i non addetti ai lavori, rappresenta un labirinto senza uscita,
nel quale termini altisonanti vengono spesso utilizzati per indicare situazioni difficili da comprende-
re.
Tale raccolta degli articoli relativi a questo argomento, pubblicati da La Legge per Tutti, vuole es-
sere uno strumento per esplicare, in maniera semplice, il percorso seguito dal processo civile,
dall’inizio sino alla sua conclusione, con piccoli consigli e suggerimenti per i cittadini che si imbat-
tono, a volte loro malgrado, in queste circostanze.
Nel primo capitolo viene affrontato il tema del procedimento civile, con un’elencazione delle varie
tipologie di atto giudiziario, modalità di comportamento in seguito al ricevimento di un atto di cita-
zione, la spiegazione del concetto di contumacia, delucidazioni sulla testimonianza in sede pro-
cessuale, un breve elencazione dei costi di una causa civile e di lavoro.
Il secondo capitolo è incentrato sulla sentenza e sugli adempimenti richiesti al termine del proces-
so, viene pertanto analizzato cosa accade in seguito al deposito, la registrazione, cosa avviene in
caso di vittoria, di condanna o di parziale pareggio, i termini di prescrizione ed una visione
d’insieme sull’esecuzione forzata.
Il terzo capitolo, infine, affronta delle tematiche più tecniche che si riferiscono alla fase processua-
le o immediatamente successiva, con informazioni relative ai diritti di copia degli atti giudiziari, il
calcolo della parcella dell’avvocato, la revoca del mandato, con apposito fac-simile, infine, brevi
cenni sulla Legge Pinto, che risarcisce il cittadino dalle lungaggini processuali, e sui casi di infon-
datezza della causa con possibilità di richiedere ristoro per le spese sostenute.
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CAPITOLO I – QUALI SONO GLI ATTI GIUDIZIARI E COME SI SVOLGE
IL PROCESSO CIVILE
1.1 Atti giudiziari e processo civile: cosa e quali sono
Notifiche di atti giudiziari: raccomandata ricevuta a casa e immessa nella cassetta delle let-
tere con codici 76-77-78, possibile contenuto della lettera.
Ci sono determinate lettere raccomandate che a nessuno farebbe mai piacere ricevere: oltre alle
richieste di pagamento da parte del fisco e alle bollette, nella classifica delle più odiate notifiche ci
sono gli atti giudiziari. Un atto giudiziario, difatti, è quasi sempre portatore di brutte notizie: qual-
cuno ci chiede dei soldi, ci cita in giudizio, ci hanno pignorato un conto corrente o lo stipendio, o
peggio un giudice sta indagando su di noi.
È vero che la legge dispone la notifica di tali atti proprio per dare al cittadino la possibilità
di difendersi, tuttavia a nessuno piace varcare la soglia del tribunale, sia anche per rendere una
testimonianza nell’ambito di una causa tra altri soggetti.
Per sapere se l’atto che il postino o l’ufficiale giudiziario ha in mano e vuole consegnarci è un atto
giudiziario o meno basta verificare il colore della busta: verde appunto per gli atti giudiziari, bian-
co per tutti gli altri. Ma se, in quel momento, non siamo in casa, il postino o l’ufficiale giudiziario
immettono nella nostra cassetta delle lettere un avviso di giacenza e, successivamente, ci spedi-
scono una seconda raccomandata in cui ci informano del tentativo di consegna del plico andato a
vuoto [1].
Ebbene, già da ciò è possibile comprendere se si tratta di atto giudiziario o meno: infatti sul car-
toncino relativo all’avviso di giacenza vengono riportati dei codici: in particolare, i codici numeri-
ci 76-77-78 indicano proprio una probabile multa o un atto giudiziario.
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È consigliabile, in questi casi, curare il ritiro dell’atto prima del termine massimo (che, per gli atti
giudiziari, è 180 giorni, in luogo dei 30 giorni previsti invece per le normali raccomandate). Oltre
detto termine si ha la compiuta giacenza e l’atto non può essere più ritirato in quanto restituito al
mittente.
In ogni caso, la legge considera l’atto come correttamente notificato e venuto ugualmente a cono-
scenza del destinatario – anche se questi non ne cura il ritiro – entro 10 giorni dall’invio della rac-
comandata con cui il postino – dopo aver tentato di consegnargli il plico – lo informa della giacen-
za dell’atto stesso presso l’ufficio postale [2].
Cosa sono gli atti giudiziari
Gli atti giudiziari, come dice il nome stesso, sono atti di norma provenienti da un’autorità giudizia-
ria oppure notificati attraverso lo stesso meccanismo degli atti giudiziari, ossia con l’ufficiale giu-
diziario [3]. Questo significa che il mittente non è necessariamente un giudice, ma potrebbe esse-
re un avvocato che si vale del servizio di notifica del tribunale.
In verità non sempre la notifica viene curata dall’ufficiale giudiziario con consegna “a mani” del
destinatario, ben potendo essere delegata al servizio postale: in tal caso si ha la cosiddetta notifi-
ca “a mezzo posta” e il destinatario si troverà davanti non più l’ufficiale giudiziario bensì il normale
postino. L’atto, in entrambi i casi, è contenuto sempre in una busta di colore verde.
L’atto giudiziario può riguardare tanto un procedimento di carattere civile quanto penale. Non de-
ve necessariamente essere un procedimento che riguarda il destinatario dell’atto, come nel caso
in cui venga chiesta solo una testimonianza.
Come detto, l’autore dell’atto potrebbe essere tanto il tribunale quanto un avvocato a cui è data la
possibilità di notificare determinati atti con l’ufficiale giudiziario. Con una importante precisazione:
poiché nell’ambito del processo civile – a differenza di quello penale – l’impulso del procedimento
è sempre a carico della parte (e non del giudice, come invece avviene nel processo penale, fina-
lizzato alla punizione del colpevole), anche per gli atti il cui autore è il giudice (si pensi a un decre-
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to ingiuntivo) la notifica è quasi sempre richiesta e curata dalla controparte. In buona sostanza,
dall’ufficiale giudiziario non è andato un cancelliere ma l’avvocato della parte avversaria.
Quali sono gli atti giudiziari nel processo civile
Estremamente vario è l’elenco degli atti giudiziari relativi al procedimento civile. Ecco quindi una
serie di atti che possono essere notificati con il sistema degli atti giudiziari:
ATTI DEL TRIBUNALE
– notifica di sentenza: si tratta del provvedimento che chiude un giudizio. Di norma, viene notifi-
cato allo scopo di ottenere l’adempimento di quanto comandato dal giudice. Quindi il destinatario
di tale atto è quasi sempre la parte soccombente, che cioè ha perso la causa;
– notifica di decreto ingiuntivo: si tratta di un atto con il quale il giudice ordina a un soggetto di
adempiere a una determinata prestazione. A questi è data la possibilità di opporsi entro 40 giorni
dalla notifica;
– notifica di pignoramento: si tratta di un atto spedito dall’ufficiale giudiziario (benché redatto
dall’avvocato) con cui viene comunicato il pignoramento presso terzi del conto, della pensione o
dello stipendio, oppure il pignoramento di un immobile;
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ATTI DELL’AVVOCATO
– atto di citazione o di ricorso: è l’atto che dà inizio a un giudizio vero e proprio. A seconda del
tipo di procedimento, il convenuto ha un determinato termine per costituirsi in causa. È necessario
consultare al più presto un avvocato;
– atto di appello o di ricorso per Cassazione: consegue a una sentenza di primo o secondo
grado. In tal caso, viene avviato il giudizio di impugnazione;
– atto di precetto: è l’atto con cui viene intimato il pagamento di una somma o l’esecuzione di
una determinata prestazione; il debitore ha 10 giorni di tempo per adempiere;
– intimazione di sfratto per finita locazione o per morosità: dà avvio a un procedimento abbrevia-
to da parte del locatore volto al recupero dell’immobile dato in affitto;
– intimazione a testimone: è la richiesta di rendere testimonianza in una causa in corso tra altri
soggetti. Il testimone ha l’obbligo di presentarsi, a pena di applicazione di una multa e accompa-
gnamento coattivo da parte delle forse dell’ordine.
– notifiche al contumace: il soggetto che, pur avendo ricevuto una citazione o un ricorso, ha de-
ciso di non costituirsi viene dichiarato contumace. A sua garanzia, gli vengono notificati gli atti più
importanti del processo come per esempio la richiesta di interrogatorio formale o di giuramen-
to [4].
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[1] Occorre anche ricordare che la fattispecie della notificazione di atti giudiziari a persona di resi-
denza, dimora e domicilio sconosciuti (art. 143 cod. proc. civ.) richiede che l’ufficiale giudiziario
esegua la notificazione mediante deposito di copia dell’atto nella casa comunale dell’ultima resi-
denza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario o, se sono ignoti i luoghi
di residenza e di nascita, mediante consegna di copia al pubblico ministero, ma occorre che
l’indagine non sia limitata al mero rilascio dell’ufficiale di anagrafe, dal quale risulti che il destinata-
rio è sloggiato per ignota dimora dalla sua ultima residenza conosciuta, ma si estenda a ogni op-
portuna ricerca e indagine (Cass. sent. n. 2909/2008). In tal caso, si ritiene che l’agente postale
non sia tenuto a effettuare alcuna comunicazione per non aver consegnato personalmente l’atto al
destinatario, proprio perché la fattispecie non lo consente.
[2] In pratica trascorsi dieci giorni… senza che il destinatario… abbia curato il ritiro, l’avviso di ri-
cevimento è immediatamente restituito al mittente mentre l’atto giudiziario o amministrativo rimane
in giacenza presso la posta. Quello che viene inviato al mittente è l’avviso di ricevimento (in altre
parole, la “ricevuta di ritorno”), con cui si attesta che l’atto non è stato ritirato dal destinatario.
Questo primo termine di dieci giorni conclude l’iter notificatorio, perché il mittente viene informato
che l’agente postale ha fatto tutto quanto era in suo dovere per il perfezionamento della notifica-
zione. Dopo di che, il “piego” (l’atto giudiziario o amministrativo, compreso l’avviso d’accertamento
di un tributo) rimane presso l’ufficio postale ancora per sei mesi, durante i quali il destinatario può
sempre ritirarlo. Ma fermo restando che la sua notifica – dalla quale si calcolano i termini di deca-
denza per ricorrere – si è perfezionata allo scoccare del decimo giorno. Infatti, il quarto comma
aggiunge che «la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della
lettera raccomandata…».La legge, pertanto, è chiarissima. I dieci giorni riguardano la restituzione
al mittente della sola ricevuta di ritorno. I sei mesi riguardano la restituzione al mittente dell’atto
giudiziario o amministrativo non ritirato dall’interessato.
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[3] Gli ufficiali giudiziari per la notificazione degli atti a mezzo del servizio postale e per le comuni-
cazioni a mezzo lettera raccomandata connesse con la notificazione di atti giudiziari, fanno uso di
speciali buste e moduli, per avvisi di ricevimento, entrambi di colore verde, di cui debbono fornirsi
a propria cura e spese, conformi al modello prestabilito dall’Amministrazione postale. Sulle buste
non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto (art. 2, Legge
n. 890/1982). All’ufficiale giudiziario spetta la fase preliminare della consegna materiale dell’atto
all’ufficio postale dopo aver scritto la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto,
facendo menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in pie-
go raccomandato con avviso di ricevimento (art. 3, comma 1, Legge n. 890/1982).
L’atto da notificare è consegnato in busta chiusa con l’indicazione dei dati anagrafici del destinata-
rio e di qualunque altro elemento idoneo ad agevolarne la ricerca. L’ufficiale giudiziario vi appone
altresì il numero di registro cronologico, la propria sottoscrizione e il sigillo dell’ufficio e contempo-
raneamente presenta l’avviso di ricevimento compilato in ogni sua parte (art. 3, comma 2, Legge
n. 890/1982).
[4] Art. 293 cod. proc. civ.
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1.2 Che succede se ti notificano una citazione
Le fasi del processo davanti al tribunale: le conseguenze per l’attore e il convenuto, le pro-
ve, gli atti.
Se arriva l’ufficiale giudiziario o il postino con una busta verde del Tribunale o una PEC (posta
elettronica certificata) da parte di un avvocato, al cui interno trovi un atto di citazione, significa
che un altro soggetto ha intenzione di farti causa. Possiamo parlare di “intenzione” perché, anco-
ra, la causa vera e propria non è iniziata (e non è detto che inizi), ma comincia solo nel momento
(successivo) in cui l’attore – colui, cioè, che ti ha inviato l’atto – deposita il proprio fascicolo (con la
copia della citazione notificata a te) presso la cancelleria del Tribunale o dal Giudice di Pace (a
seconda del tipo di lite): obbligo che va eseguito entro 10 giorni dal momento in cui tu hai firmato
la raccomandata con il plico. Se l’attore, dunque, non si costituisce in questo termine, la causa
non si terrà più, salvo che non sia tu stesso a voler proseguire (da solo) il giudizio.
Esistono diversi casi in cui l’attore, dopo aver notificato la citazione, non intende poi dar seguito al-
la causa. Capita spesso con quei creditori che utilizzano la notifica dell’atto solo come “stimolo”
per spingere il debitore al pagamento immediato. La rinuncia all’azione è poi la conseguenza dei
costi e dei tempi che spesso rendono antieconomico agire in giudizio.
Dunque, la notifica della citazione ha solo l’effetto di costituire già il “primo rapporto” tra le future
parti in causa: l’attore e il convenuto.
Quando si terrà l’udienza?
L’attore indica, nella citazione, una data per presentarsi davanti al giudice, in modo che
quest’ultimo, alla cosiddetta prima udienza, verifichi il rispetto di tutte le formalità e avvii il proce-
dimento vero e proprio.
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Attento: dalla data in cui ti viene consegnata la citazione a quella dell’udienza indicata nell’atto (di
norma, si trova nelle ultime pagine) devono intercorrere almeno 90 giorni. Se, per qualsiasi ragio-
ne (si pensi a un disguido postale nella consegna della raccomandata), tale termine è inferiore,
potrai chiedere, al primo incontro col giudice, che la prima udienza venga fatta slittare a non meno
di altri 90 giorni. In tal modo avrai maggior tempo per difenderti ed, eventualmente, improntare una
strategia anche ai fini di un accordo con l’avversario.
Il convenuto può ovviamente “dire la sua”, per contestare tutto quanto è scritto e riportato nella
citazione, prendendo posizione sia sui fatti che (ma a questo penserà il suo avvocato) sulle que-
stioni più squisitamente tecniche e giuridiche. Lo farà con la cosiddetta comparsa di risposta,
che va depositata almeno 20 giorni prima dell’udienza. In teoria, essa potrebbe essere presen-
tata anche successivamente, e in qualsiasi altra fase e grado del giudizio, ma più si prende tempo
e più si decade da una serie di facoltà consentite dalla legge (in ordine cronologico: la possibilità
di contestare la competenza del giudice; di chiamare in causa terzi corresponsabili o garanti; di
eccepire la prescrizione; di contestare, nei confronti dell’attore, ulteriori questioni estranee
all’oggetto della lite per come definito da quest’ultimo; richiedere mezzi di prova come i testimoni;
depositare documenti decisivi; contestare i mezzi di prova della controparte; chiedere una consu-
lenza tecnica, ecc.). Insomma, più va avanti il giudizio e meno difese ha il convenuto che ha scelto
di non costituirsi.
Per difenderti avrai bisogno di un avvocato (salvo che si tratti di liti fino a 1.100 euro di valore in-
nanzi al giudice di pace). Ma, in teoria, potresti prendere delle “contromisure” ancor prima di dele-
gare un professionista. Infatti nulla ti vieta di trovare un accordo con la controparte per evitare la
causa.
Nel caso, invece, in cui decidi di agire con l’assistenza di un avvocato, e quindi di calcare la via
della “guerra in tribunale” (fermo restando che il difensore potrebbe, in qualsiasi momento, e su
tua delega, attivarsi per trovare un accordo con l’avversario) la prima cosa da fare è individuare il
giudice di primo grado competente che può essere il giudice di pace o il tribunale. Nella maggior
parte dei casi – ma non è una regola – il processo davanti al giudice di pace è più breve. Invece i
passaggi che compongono il cosiddetto “rito ordinario” davanti al tribunale sono più complessi.
Li riassumiamo qui di seguito:
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LE VARIE FASI DEL PROCESSO ORDINARIO
1 | FASE INTRODUTTIVA
L’attore notifica l’atto di citazione e indica la data della prima udienza.
Deposita l’atto di citazione in cancelleria entro 10 giorni dalla notifica al convenuto.
Il convenuto riceve l’atto di citazione e scrive la comparsa di risposta.
Deposita la comparsa in cancelleria almeno 20 giorni prima della prima udienza.
2 | FASE ISTRUTTORIA
Il giudice autorizza, su richiesta delle parti, il deposito delle memorie “intermedie”.
Nella prima memoria, da depositare entro i successivi 30 giorni dalla prima udienza, le parti pos-
sono precisare e meglio argomentare le proprie difese, senza però allargare il tema della contro-
versia.
Nella seconda memoria, da depositare entro i successivi 60giorni dalla prima udienza, le parti
(oltre a poter contestare quanto scritto dall’avversario nella prima memoria) depositano i docu-
menti e presentano richieste di prove.
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Le prove possono essere: documenti, dichiarazioni di testimoni, dichiarazioni della controparte
(cosiddetto interrogatorio formale), consulenza tecnica di un perito nominato dal giudice.
Nella terza memoria, che va depositata 80 giorni dopo la prima udienza, le parti (oltre a poter
contestare quanto scritto dall’avversario nella seconda memoria) chiedono le prove contrarie a
quelle presentate dalla controparte.
Al termine del deposito delle tre memorie, il giudice deciderà se e quali prove accogliere.
A questo punto si passa all’esame di tutte le prove, che potrebbe richiedere diverse udienze. Si
escuteranno i testimoni, si affiderà l’incarico al consulente, si sentiranno le parti processuali con
l’interrogatorio, ecc. Questa fase potrebbe allungare notevolmente il processo.
3 | FASE DECISORIA
Terminata la fase istruttoria, il giudice sente le parti e le invita a precisare le loro conclusioni (una
sorta di riassunto delle richieste e riproposizione di quanto avevano già illustrato con la citazione e
la comparsa di risposta).
Fatto ciò, il giudice trattiene il fascicolo nel suo studio per decidere la sentenza, ma lascia alle parti
un termine di 60 giorni per il deposito di memorie conclusionali (una sorta di “arringa finale”) e di
ulteriori 20 per le relative repliche.
Alla fine di tutto questo, arriva la sentenza. Il codice indica 30 giorni, ma i giudici hanno interpreta-
to in modo estensivo questa norma, ritenendo che non si tratti di un termine perentorio. Ecco per-
ché alcune sentenze ci mettono anche diversi mesi per vedere la luce.
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1.3 Che succede se sono contumace e non mi costituisco in causa?
La contumacia in primo grado e in appello, l’onere della prova e la non contestazione, la
costituzione in processo, gli effetti.
Se hai ricevuto la notifica di un atto di citazione, sebbene la prudenza vorrebbe che ti costituisca in
causa (con un avvocato) per far valere le tue ragioni e difendersi, tuttavia, ciò non costituisce un
obbligo e puoi sempre decidere di rimanere assente: è proprio questa la contumacia del conve-
nuto, ossia la deliberata scelta di quest’ultimo di non presenziare al processo e di non farsi difen-
dere da un proprio procuratore.
Prima di dichiarare la contumacia (il che avviene di norma alla prima udienza), il giudice deve ve-
rificare la regolarità della citazione in giudizio del convenuto e quindi la regolarità della notifica: di-
fatti, se quest’ultima non è avvenuta nelle forme corrette o all’indirizzo giusto, non si può ave-
re contumacia. All’attore viene allora ordinata la rinnovazione della notifica e, se non vi adem-
pie correttamente, il giudice dichiara estinto il processo.
Ecco perché la contumacia è quasi sempre frutto di una scelta (obbligata o spontanea): la parte
contumace decide di essere assente dal processo, non partecipa al suo sviluppo e alle sue attivi-
tà.
La contumacia può durare per tutto il processo o soltanto per parte di esso. La parte dichiarata
contumace può infatti costituirsi in giudizio in ogni momento fino all’ultima udienza (la cosiddet-
ta udienza di precisazione delle conclusioni). Ovviamente, in tal caso la parte non può chiede-
re che il processo ricominci da capo, ma dovrà accettare la causa nello stato in cui si trova, es-
sendole precluse tutte le attività difensive relative alle fasi processuali già conclusesi.
Attenzione: la contumacia non deve essere confusa con la mancata comparizione in udienza del-
la parte costituita (cosiddetta assenza). Per esempio: se Tizio si costituisce in causa, ma il suo
avvocato, per una ragione o per un’altra, non è presente a un’udienza (per esempio, perché si è
dimenticato o è ammalato) non si ha contumacia, ma semplice assenza. La parte resta, quindi,
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completamente assistita dal proprio difensore che, tuttavia, per quella singola udienza non ha po-
tuto “dire la sua” a verbale.
Se il convenuto dichiarato contumace si costituisce nel corso del giudizio dimostrando che la
mancata costituzione deriva da una causa a lui non imputabile, può chiedere al giudice di essere
ammesso a compiere anche le attività che gli sarebbero precluse.
Se invece il giudice, per errore, dichiara la contumacia pur in presenza di una notifica viziata o nul-
la, tutto il processo è nullo.
La contumacia non è ammissione dei fatti
Contrariamente a quanto potrebbe comunemente pensarsi, chi sceglie di restare contumace non
ammette, tacitamente, le affermazioni e contestazioni della controparte, la quale, pertanto, resta
obbligata a dimostrare che ciò che sostiene nel proprio atto è fondato.
Questo tecnicamente significa che la contumacia non introduce deroghe al principio dell’onere
della prova, non solleva cioè l’attore dal dovere di dimostrare i fatti che asserisce.
Dal fatto della contumacia il giudice non può neppure trarre argomento di prova: essa non è infat-
ti una sanzione per il contumace. Tuttavia, se valutata insieme ad altri elementi,
la contumacia può contribuire a formare il convincimento del giudice.
Anche dopo la riforma del 2009 non si può attribuire alla contumacia in sede civile un valore
di ammissione delle ragioni della controparte. Lo ha chiarito la stessa Cassazione con una
sentenza depositata ieri [1]. La contumacia rappresenta un comportamento neutrale al quale non
può essere attribuito il valore di una confessione e comunque di mancata contestazione dei fatti
addotti dalla controparte. Quest’ultima resta infatti sottoposta all’onere di provare la propria tesi.
Il giudice allora non deve prendere la scorciatoia di utilizzare la contumacia per arrivare a una de-
cisione obbligata; egli deve invece verificare se la parte non contumace ha dimostrato a sufficien-
za, con adeguati elementi di prova, le proprie pretese in giudizio.
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La contumacia in appello
L’onere di contestazione specifica dei fatti posti dall’attore esiste solo per il convenuto costituito
e nell’ambito del solo giudizio di primo grado nel quale si definiscono i fatti pacifici e quelli contro-
versi [2]. Dunque, la parte risultata vittoriosa in primo grado non può vedersi condannata in appel-
lo solo perché contumace.
La tutela del contumace
La legge predispone una tutela del contumace per evitare che egli ignori l’eventuale allargamento
dell’oggetto del processo, attraverso la proposizione di domande nuove o riconvenzionali o di atti
istruttori che richiedono una sua personale attività.
L’attore deve quindi notificare personalmente al contumace alcuni atti entro il termine fissato dal
giudice, in deroga alla regola generale per cui gli atti del processo contumaciale si considerano
comunicati in cancelleria.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione,. sez. VI Civile – 2, ordinanza 24 settembre – 4 novembre 2015, n. 22461
Presidente Petitti – Relatore Manna
Svolgimento del processo e motivi della decisione
I. – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la se-
guente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c.:
“1. – B.A. conveniva in giudizio innanzi al giudice di pace di Piacenza l’Autosport Ruggi s.r.l., per
sentirla condannare al pagamento della somma di Euro 2.491,52, quale corrispettivo di prestazioni
professionali.
La soc. convenuta resisteva in giudizio assumendo che era impossibile verificare la congruità della
pretesa azionata, e in via riconvenzionale proponeva domanda di condanna dell’attore al paga-
mento di un controcredito di Euro 1.447,39.
Il giudice di pace rigettava la domanda principale e accoglieva parzialmente quella riconvenziona-
le, condannando l’attore al pagamento in favore della società convenuta della somma di Euro
1.498,75 (inclusi interessi commerciali).
1.1. – Sull’appello proposto da B.A. , e nella contumacia dell’Autosport Ruggi s.r.l., il Tribunale di
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Piacenza riformava integralmente la sentenza del primo giudice e condannava detta società al
pagamento in favore dell’appellante della somma di Euro 2.491,52.
Osservava il giudice del gravame che per effetto della non contestazione di cui al novellato art.
115 c.p.c., atteso che la società appellata era rimasta contumace nel giudizio d’appello, dovevano
ritenersi provati i fatti e le circostanze articolati e dedotti dall’appellante e su cui l’appellata, sce-
gliendo di rimanere contumace, non aveva svolto alcuna difesa. Proseguiva affermando che, paci-
fica l’esistenza del credito vantato dall’appellante, che il giudice di pace aveva ritenuto provato so-
lo nell’an e non anche nel quantum, in virtù dell’effetto devolutivo dell’appello, che investe del rie-
same del merito il giudice del gravame, doveva ritenersi conseguita la prova anche del quantum
per effetto proprio della mancata specifica contestazione sul punto.
Aggiungeva, quindi, che doveva ritenersi pacifica, per le medesime ragioni, l’inopponibilità delle
fatture recate in primo grado dall’appellata a fondamento del credito opposto in compensazione,
essendo documentata la circostanza che le prestazioni di cui alle suddette fatture non fossero sta-
te effettuate neanche indirettamente nell’interesse dell’appellante.
2. – Per la cassazione di detta sentenza l’Autosport Ruggi, di Ruggi Loris e Massimiliano s.n.c.,
così trasformata l’Autosport Ruggi s.r.l., propone ricorso, affidato ad un solo motivo.
2.1. – B.A. è rimasto intimato.
3. – L’unico motivo di ricorso espone la violazione o falsa applicazione degli artt. 113, 115 e 116
c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., in quanto nel vigente ordinamento pro-
cessuale dalla contumacia non possono desumersi a carico del contumace conseguenze di sorta.
4. – Il motivo è manifestamente fondato, essendo il Tribunale incorso in un doppio errore di diritto.
4.1. – Il primo risiede nell’aver applicato l’art. 115, 1 comma c.p.c. al giudizio d’appello, nonostante
il thema decidendum e il thema probandum siano irretrattabilmente definiti in primo grado già
all’esito del deposito delle memorie previste dall’art. 183, 6 comma, nn. 1) e 2), c.p.c..
In tal modo il Tribunale ha vanificato la contestazione espressa dalla soc. convenuta nel giudizio
svoltosi davanti al giudice di pace, equivocando sul significato dell’effetto devolutivo dell’appello.
Tale effetto non significa che il processo di secondo grado consista nella perfetta mimesi del primo
giudizio, sicché il giudice del gravame debba rideterminare i fatti pacifici e quelli controversi in ma-
niera avulsa e indipendente dalla trattazione di primo grado. Vuoi dire, invece, che nell’ambito e
nei limiti delle parti impugnate della sentenza, e – secondo l’ormai più che consolidata giurispru-
denza di questa Corte (a partire dal noto arresto delle S.U. n. 4991/87) – delle questioni poste ne-
gli specifici motivi d’impugnazione ex art. 342 c.p.c., il giudice d’appello conosce del rapporto so-
stanziale controverso esercitando i medesimi poteri decisori del giudice di primo grado.
4.2. – Il secondo errore consiste nell’aver ritenuto che in base all’art. 115, 1 comma c.p.c., nel te-
sto modificato dall’art. 45, comma 14, legge n. 69/09, la contumacia importi ammissione della fon-
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datezza della pretesa avversa. Il che, invece, è da escludere tanto nella precedente quanto
nell’attuale formulazione di detta norma.
Infatti, la contumacia integra un comportamento neutrale cui non può essere attribuita valenza
confessoria, e comunque non contestativa dei fatti allegati dalla controparte, che resta onerata
della relativa prova, sicché rientra nelle facoltà difensive del convenuto, dichiarato contumace nel
giudizio di primo grado contestare le circostanze poste a fondamento del ricorso, anche perché la
previsione dell’obbligo a suo carico di formulare nella memoria difensiva, a pena di decadenza, le
eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e
di indicare le prove di cui intende avvalersi, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare
se la parte attrice abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della prete-
sa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano o meno state proposte,
dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato
(Cass. n. 24885/14; tant’è che, specularmente, al convenuto contumace in primo grado e costitui-
toci in appello, non è precluso contestare i fatti costitutivi e giustificativi allegati dall’attore a soste-
gno della domanda: Cass. nn. 14623/09 e 4161/14).
5. – Per le considerazioni svolte, si propone la decisione del ricorso con le forme camerali, nei
sensi di cui sopra, in base all’art. 375, n. 5 c.p.c.”.
II. – La Corte condivide la relazione, rispetto alla quale nessuna delle parti ha depositato memoria.
III. – Pertanto, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al Tribu-
nale di Piacenza, il quale, in persona di diverso magistrato, nel decidere il merito si atterrà al se-
guente principio di diritto: “ai sensi del combinato disposto degli artt. 167, 1 comma e 115, 1 com-
ma c.p.c., l’onere di contestazione specifica dei fatti posti dall’attore a fondamento della domanda,
si pone unicamente per il convenuto costituito e nell’ambito del solo giudizio di primo grado, nel
quale soltanto si definisce – irretrattabilmente – il thema decidendum (cioè i fatti pacifici) e il thema
probandum (vale a dire i fatti controversi). Pertanto, il giudice d’appello nel decidere la causa deve
aver riguardo ai suddetti temi così come si sono formati nel giudizio di primo grado, non rilevando
a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti nel giudizio svoltosi innanzi a lui”.
IV. – Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese di cassazione, il cui regolamento gli è ri-
messo ai sensi dell’art. 385, 3 comma c.p.c..
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P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Piacenza, il
quale, in persona di diverso magistrato, provvederà anche sulle spese di cassazione.
[1] Cass. sent. n. 22461/15 del 4.11.2015.
[2] Nel giudizio di appello allora il giudice deve fare riferimento solo a questo perimetro di giudizio
non avendo rilevanza la condotta processuale delle parti comunque tenuta davanti a lui.
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1.4 Quanti sono i gradi di giudizio?
Tribunale, Corte d’Appello, Corte d’Assise e Cassazione: i giudici e le istanze che si pos-
sono proporre per impugnare la sentenza di primo grado.
Impugnazioni: appello e ricorso per cassazione, quante volte si può rimettere in ballo la sen-
tenza di primo grado? Il giudice è umano e può sbagliare: per rendere meno frequenti i suoi er-
rori, o meglio per consentirne la correzione (anche al fine di evitare abusi), l’ordinamento garanti-
sce alla persona condannata in una causa civile o penale di appellarsi a un altro giudice. Alcuni
parlano, comunemente, di giudice di seconda o terza istanza, anche se la dizione (volgare) non
è corretta. Ora si vedrà perché.
Sono giudici di primo grado:
– il giudice di pace, che è competente a giudicare le cause di modico valore e i reati di minore
gravità come le lesioni personali, l’ingiuria, la diffamazione;
– il Tribunale, invece competente a giudicare tutte le altre questioni, quelle cioè, in via residuale,
che non sono attribuite al giudice di Pace o alla Corte di Assise;
– la Corte d’Assise che ha competenza solo in materia penale e si occupa dei delitti più gravi per
i quali è prevista una pena detentiva a 24 anni di reclusione. È composta da due magistrati e da
sei giudici popolari detti giurati.
Contro le decisioni dei giudici di primo grado si può sempre fare appello (salvo alcune specifiche
e minime ipotesi) al giudice di secondo grado, che è:
– contro le sentenze emesse dal giudice di Pace, il Tribunale (che, quindi, svolge sia funzioni di
giudice di primo grado, che di secondo);
– contro le sentenze emesse dal tribunale in funzione di giudice di primo grado, la Corte di Appel-
lo;
– la Corte d’Assise d’appello, per le sentenze emesse dalla Corte d’Assise.
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Tali giudici esaminano nuovamente la controversia nel “merito”, ossia tornano ad accertare la va-
lutazione dei fatti al fine di emettere una nuova sentenza che si sostituisca alla precedente. Impor-
tante è precisare che i giudici di appello non tornano a visionare le prove e ad escutere i testimoni
una seconda volta o, ancora, a nominare un nuovo perito (salvo che ciò non venga ritenuto ne-
cessario per la decisione): sotto almeno il profilo istruttorio, “quel che è fatto, è fatto”, e non si
può più rimettere in gioco. I giudici di secondo grado possono solo valutare se il giudice di primo
grado abbia valutato correttamente quelle prove.
Allo stesso modo le parti non possono, in secondo grado, presentare nuove prove o nuove ec-
cezioni, che restano solo quelle già presentate in primo grado: diversamente si avrebbe che, sulle
stesse, ci sarebbe un solo grado, quello del giudice di appello, senza possibilità di revisione della
sua decisione.
Infine c’è la Corte di Cassazione, anche detta Suprema Corte. Attenzione: non si tratta, pro-
priamente, di un terzo grado di giudizio, perché non va a riesaminare la vicenda e i fatti, ma con-
trolla solo che la legge sia stata correttamente applicata e interpretata dai giudici dei primi due
gradi. Per tale ragione si dice che la Cassazione esprime un giudizio di legittimità e non di meri-
to. In buona sostanza la Cassazione è giudice non del fatto, ma del giudice dei gradi precedenti
e di come questi hanno inteso applicare la legge (sia quella sostanziale che della procedura).
Se la Corte non riscontra alcuna irregolarità, conferma la sentenza. Viceversa la “cassa”, cioè la
cancella, e il processo deve ricominciare davanti al giudice che ha commesso l’errore rilevato dal-
la Cassazione. In alcuni casi, quando non vi sia necessità di procedere ad ulteriori attività, la Su-
prema Corte potrebbe anche evitare di rinviare di nuovo la causa al giudice del merito, ma decide
e chiude definitivamente il processo.
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Per questa ragione la Cassazione non è propriamente un giudice dell’impugnazione, ma solo un
organo che ha la funzione di stabilire la corretta interpretazione della legge.
Ciò, però, sollecita un’importante domanda: è possibile che una stessa norma venga interpretata
in modo diverso da giudici diversi? È possibile che per un identico fatto un giudice possa emettere
una sentenza di condanna e un altro una sentenza di assoluzione? O che lo stesso giudice prima,
convinto di un’opinione, emetta una condanna e poi, per un fatto identico e successivo,
un’assoluzione o viceversa?
La risposta è affermativa: nel nostro ordinamento, i precedenti (ossia le sentenze dei giudici) non
fanno legge (sono obbligatorie solo per le parti in causa e non per la collettività, né per gli altri
giudici). Quindi nessun giudice è vincolato all’interpretazione data dai propri colleghi o da egli
stesso in passato.
Tuttavia, per evitare che questa libertà, indipendente e autonomia dei giudici si tramuti in abuso,
sono previsti due limiti:
– il primo è che ogni sentenza deve contenere, oltre alla decisione (cosiddetto “dispositivo”), an-
che la motivazione, cioè la spiegazione delle ragioni di fatto e di diritto che hanno indotto il giudi-
ce a prendere quella determinata decisione. Ne consegue che se questi vuole distaccarsi
dall’interpretazione corrente, data a una certa norma, dovrà essere in grado di esporre, nella moti-
vazione della sentenza, il ragionamento logico-giuridico che lo ha condotto alla diversa conclusio-
ne;
– il secondo limite è costituito proprio dal giudizio della Corte di Cassazione: se questa ritiene
che la sentenza contro cui è stato presentato ricorso sia frutto di un’interpretazione errata dal giu-
dice di merito, la cassa, cioè l’annulla e impone al giudice di merito quale sia il modo corretto con
cui dovrà interpretare la norma.
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In tutto questo, le Sezioni Unite della Cassazione intervengono tutte le volte in cui, in merito a
una determinata vicenda, le diverse sezioni della Cassazione si sono pronunciate, nel tempo, in
modo diverso. Esse vengono “riunite” tutte le volte in cui si deve decidere, quindi, una questione
particolarmente delicata o controversa.
Il filtro in Cassazione
Una legge del 2009 ha importo un filtro ai ricorsi in Cassazione, in modo da evitare che le parti si
rivolgano alla Suprema Corte al solo fine di ritardare la conclusione del giudizio. In particolare si è
stabilito che il ricorso è inammissibile quando il giudice di merito ha deciso la questione in modo
conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o
mutare l’orientamento della stessa.
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1.5 Come si fa una testimonianza
Testimoni: consigli pratici per come rendere la testimonianza e far sì che le dichiarazioni
fornite al giudice davanti agli avvocati possano essere convincenti motivi di prova.
La testimonianza resa in un processo civile è una procedura che si svolge in tribunale (o dal giu-
dice di pace, a seconda di dove pensa la causa), davanti al giudice e agli avvocati: di norma, è il
primo che fa le domande, mentre i legali delle parti contrapposte possono chiedere integrazioni e
precisazioni, il tutto però nei limiti dell’argomento autorizzato a monte dal giudice nell’ordinanza in
cui ha ammesso i capitoli di prova. Al testimone non è dato sapere, prima della testimonianza,
quali domande gli farà il giudice perché gli viene notificata sola l’intimazione a comparire in giudi-
zio (in data e orario prestabiliti) per rendere le dichiarazioni (a mezzo di raccomandata speditagli
dall’avvocato che ne ha chiesto l’escussione o mediante ufficiale giudiziario). Tali dichiarazioni
fornite dal testimone vengono poi trascritte su un verbale a cura del cancelliere.
Nella prassi, però, molti tribunali consentono agli avvocati stessi di sentire il testimone in disparte,
in assenza del giudice e redigendo essi stessi il verbale, senza neanche l’ausilio del cancelliere.
Ciò avviene quando le aule sono particolarmente affollate e tra le parti non vi sono forti contesta-
zioni e animosità. Ciò non toglie, comunque, che il teste debba sempre giurare davanti al giudice,
prima di rendere la testimonianza, di dire solo la verità.
Come si fa una testimonianza?
Esistono degli avvertimenti che, di norma, gli avvocati forniscono preliminarmente al proprio testi-
mone: si tratta di regole da rispettare alla lettera se si vuole che le dichiarazioni del teste abbiano
valore di prova e possano essere utilizzate dal giudice a fondamento della propria decisione. Di-
fatti il codice di procedura stabilisce che il giudice valuti l’attendibilità del testimone e i fatti da que-
sti dichiarati secondo il “suo prudente apprezzamento”, ossia giudicando in base a quanto questi
sia risultato convincente. Ecco quindi alcuni consigli pratici.
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Mai dire “Lo so perché me lo ha detto…”
Il testimone (o anche teste) deve dichiarare solo ciò che conosce in prima persona perché lo ha
visto o sperimentato direttamente. Pertanto, non potrà riferire di conoscere un fatto solo perché gli
è stato riferito da altri. Una tale dichiarazione non avrebbe valore di prova. Attenzione: ciò non si-
gnifica che il testimone debba mentire pur di dare validità alle proprie dichiarazioni, asserendo di
essere stato testimone oculare. Se non è a conoscenza diretta di un fatto è suo diritto dire “Non lo
so”; in ogni caso, è necessario che non cada in facili errori che potrebbero costare alla parte la
perdita della causa.
Mai fare valutazioni personali
Il teste deve limitarsi a dire ciò che ha visto senza dare giudizi personali. Per esempio, avrebbe
poco valore una dichiarazione con cui il teste asserisca di aver visto un’automobile procedere in
eccesso di velocità. Facile sarebbe la richiesta di chiarimenti da parte dell’avvocato avversario
(“Come fa ad essere così sicuro che l’auto fosse in eccesso di velocità”) a cui il teste non potrebbe
replicare. Il teste può fare apprezzamenti di assoluta immediatezza, inscindibili dalla percezio-
ne del fatto. Ad esempio, è stata ammessa la dichiarazione con cui il teste ha definito “semplici e
ripetitive” le mansioni svolte da una lavoratrice del cui rapporto di lavoro era controversa la natura
subordinata o autonoma.
Mai dichiarare fatti di cui non si è convinti al 100%
Nel caso di incertezza, è meglio astenersi dal rispondere. È diritto del teste dire di non ricordare
determinati avvenimenti. Infatti, se il giudice dovesse rilevare un contrasto tra le dichiarazioni di un
testimone e quelle di un altro potrebbe metterli a confronto ed, eventualmente, inviare gli atti alla
Procura della Repubblica nei confronti di chi dei due possa aver mentito.
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Il testimone non può ricordare dettagli avvenuti tanti anni prima
L’attività istruttoria di una causa avviene, di norma, dopo non prima di due o a volte più anni dai
fatti per cui si è innescata la controversia. Per cui è verosimile che dopo tanto tempo i ricordi si
appannino. Il teste, pertanto, che voglia “fare un favore” a una delle due parti, eccedendo nella
precisione dei dettagli, potrebbe addirittura risultare poco convincente. Si pensi al teste che dica
“Ricordo che il 1 febbraio 2010, alle ore 14:20, Tizio scese dalla propria automobile e disse le se-
guenti parole….”.
Il “credo” lasciamolo in chiesa
Iniziare una testimonianza con intercalari come “Credo…”, “Mi sembra che…”, “Se ben ricordo…”
potrebbe prestare il “la” a facili contestazioni degli avvocati, abili – come pochi nella retorica – a
porre nel dubbio anche le affermazioni più cristalline. Meglio rispondere in modo secco e deciso.
Di notte i dettagli sfuggono
Se i fatti sono avvenuti di notte, anche in questo caso un eccesso di dettagli potrebbe portare a in-
ficiare la credibilità del testimone, specie se distante dallo svolgersi dei fatti. Bisogna essere con-
vincenti anche se si dice la verità.
Se conosci i fatti devi ricordarti anche il perché
Una delle prime domande che fa il giudice al testimone è “Come sei a conoscenza dei fatti di cau-
sa?”. È chiaro che se si tratta di un testimone oculare sarà sufficiente affermare di essere stato di
passaggio. Negli altri casi, bisognerà fornire delle argomentazioni per cui Tizio si trovava in un de-
terminato luogo, in una determinata occasione. Così, per esempio, un dipendente che dica che un
cliente non ha pagato la prestazione, dovrà anche chiarire come possa essere a conoscenza di
ciò: per esempio, perché addetto al servizio cassa, oppure purché fisicamente presente quando
l’imprenditore ha sollecitato il pagamento del prezzo.
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I familiari possono testimoniare
Un’ultima precisazione (ma per maggiori dettagli leggi “Il testimone: come funziona la testimo-
nianza”): se sei un familiare, anche se coniuge in regime di comunione dei beni, puoi essere
ascoltato dal giudice, poiché non vi sono preclusioni dettate dalla vicinanza “di sangue”.
Aiutati con scritti
Il teste interrogato deve rispondere personalmente. Egli non può servirsi di scritti preparati, ma il
giudice istruttore può consentirgli di valersi di note o appunti, quando deve fare riferimento a nomi
o a cifre o quando particolari circostanze lo consigliano.
Falsità, reticenze o rifiuto di deporre
Se il testimone, presentandosi, rifiuta di giurare o di deporre senza giustificato motivo, o se vi è
fondato sospetto che non abbia detto la verità o sia stato reticente senza giustificato motivo, il giu-
dice istruttore lo denuncia al P.M., al quale trasmette copia del processo verbale. È prevista la
sanzione penale della reclusione da due a sei anni per chiunque, deponendo come testimone in-
nanzi all’autorità giudiziaria afferma il falso o nega il vero, o tace, in tutto o in parte, ciò che sa in-
torno ai fatti sui quali è interrogato.
Confronto tra testimoni
Se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni (deposizioni discordanti), il giudice
istruttore, su istanza di parte o d’ufficio, può disporre che essi siano messi a confronto. La legge
attribuisce al giudice di merito una facoltà discrezionale, conferendogli, perciò, anche il potere di
recedere dal disposto confronto per motivi sopravvenuti di qualsiasi genere (compresa
l’opportunità di non ritardare ulteriormente la decisione della causa), senza che l’esercizio di tale
potere possa formare oggetto di censura in cassazione.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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1.6 Quanto costa una causa
Parcella dell’avvocato, contributo unificato, marche da bollo e notifiche, condanna alle
spese, tassa di registro e consulenza tecnica.
Quanto il cittadino si avvia a un contenzioso in tribunale, il suo principale problema è l’analisi “co-
sti-benefici”, ossia le possibilità di poter risultare vincitore e quanto ciò gli costerà. Salvo, infatti,
rientrare nelle condizioni per ottenere il gratuito patrocinio, ogni causa comporta una spesa ele-
vata, fatta di tasse, consulenti, diritti e onorari all’avvocato. Nel nostro Paese, poi, si inserisce una
terza variabile: i tempi della giustizia che, nella maggior parte dei casi, costituisce il principale
deterrente a rivolgersi al giudice.
Ecco, quindi, una sintesi schematica di tutti i presumibili oneri che dovrà sostenere il cittadino.
1 | SOLUZIONI STRAGIUDIZIALI
Per determinate materie, la legge impone l’obbligo di rivolgersi prima a un organismo di media-
zione affinché quest’ultimo possa tentare di comporre bonariamente la lite: una funzione di pacie-
re che, tuttavia, al primo incontro, non è gratuita. Sono dovuti dalle 40 agli 80 euro ol-
tre alle spese vive. Se, dopo il primo incontro, le parti vorranno proseguire nel percorso conciliati-
vo perché hanno subodorato la possibilità di trovare una soluzione amichevole, allora dovranno
corrispondere anche il compenso al mediatore per l’attività successivamente svolta (leggi
“Mediazione non più gratis“)
La presenza dell’avvocato, in questa fase, è obbligatoria per legge se si vuole, dopo, proseguire
la controversia in tribunale. Per cui quest’ultimo andrà pagato secondo la propria parcella che è
sempre bene chiedere in anticipo, facendosi rilasciare per iscritto un preventivo.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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2 | LA PARCELLA DELL’AVVOCATO
Anche quando la fase preventiva di mediazione non è obbligatoria, prima del giudizio si svolge, di
norma, un’attività preparatoria dell’avvocato che tenta di contattare le controparte, diffidandola e
ammonendola delle conseguenze che potrebbero derivare dalla sua condotta illecita. Il che, ov-
viamente, è volto a trovare una soluzione in tempi brevi e fuori dalle aule del tribunale. Ciò si so-
stanzia spesso in unalettera di diffida (che ora, in determinate materie, è diventata obbligatoria:
si chiama “negoziazione assistita”).
Anche questa fase è a pagamento, ma, nella prassi, viene fatta ricomprendere
nel preventivo fatto dal legale all’atto del conferimento dell’incarico.
La parcella
Ecco, dunque, che si arriva alla parcella vera e propria dell’avvocato, costituita dal
suo onorario a cui, poi, andranno aggiunte le spese vive e le tasse che questi andrà a sostenere
in favore del cliente (vedi dopo). Chiedete, quindi, sempre se nel preventivo fornitovi sono com-
presi anche i costi del contributo unificato, bolli, diritti di cancelleria, ecc. (vedi dopo).
Da qualche anno le tariffe minime degli avvocati sono state abolite. Ciò vuol dire che ogni avvo-
cato è libero di determinare il proprio compenso in totale autonomia, senza dover giustificare de-
terminati importi elevati perché imposti dalla legge. Dunque, si può trovare anche uno studio lega-
le disposto a fare “sconti” e prezzi stracciati o, comunque, da concordare in base alle possibilità
concrete del cliente. Per tale motivo è di fondamentale importanza chiedere al legale fin dal primo
incontro un preventivo scritto in merito alle spese da affrontare e agli onorari della causa.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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Occorrerà tenere presente che sugli onorari quantificati graveranno delle voci accessorie aggiunti-
ve per le seguenti causali:
– rimborso spese forfettario nella misura del 15% (a cui l’avvocato potrebbe rinunciare);
– contributo previdenziale (la cosiddetta Cassa di Previdenza) che è pari al 4%;
– IVA (attualmente al 22%).
Chiedete, dunque, se la parcella è al netto o al lordo ti tali oneri accessori che ammontano com-
plessivamente a oltre il 40% dell’onorario eventualmente indicato dall’avvocato (che fanno salire
le spese non di poco).
Il preventivo
Se lo chiede il cliente, l’avvocato è obbligato al rilascio del preventivo scritto. Esso è vincolante
“in linea di massima”, ossia solo se la causa segue un iter regolare. Ma siccome spesso questo
non succede e possono scattare oneri improvvisi, legati a fattori che l’avvocato non poteva ipotiz-
zare in anticipo (si pensi alla chiamata in causa di un terzo o di una notifica da fare all’estero, una
perizia da espletare e contrastare, ecc.), il legale è libero di apportare, in corso di lavori, gli oppor-
tuni correttivi.
Oggi pende un disegno di legge, in Parlamento, per rendere il preventivo sempre obbligatorio, an-
che se non richiesto dal cliente.
Se non è stato chiesto un preventivo
Qualora non hai chiesto un preventivo, e sorga una contestazione tra voi e l’avvocato per la par-
cella da questi presentata al termine della causa, bisognerà applicare le tabelle ministeria-
li adottate dal Ministero della Giustizia [1], che prevedono scaglioni di onorario sulla base del valo-
re della causa.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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Le tabelle ministeriali sono piuttosto articolate e prendono in considerazione molte delle attività
processuali che l’avvocato può svolgere avanti le diverse autorità giudiziarie. Nello specifico sono
previsti 26 gruppi di azioni giudiziarie (ne elenchiamo alcuni: causa davanti al Giudice di Pace,
causa davanti al Tribunale, causa davanti La corte di Appello, causa di sfratto, causa di lavoro
ecc.).
Per ciascuna azione sono previsti dei compensi che variano in funzione del valore economico del-
la controversia e delle concrete attività svolte per quell’azione. Nello specifico le attività di riferi-
mento sono di solito quattro:
– lo studio della controversia;
– la fase introduttiva del giudizio (ovvero la redazione del primo atto difensivo);
– la fase istruttoria e di trattazione (ovvero l’assunzione delle prove davanti al giudice);
– la fase decisionale (ovvero la discussione finale e la redazione delle ultime memorie difensive).
Se vinci la causa
Qualora tu vinca il giudizio ci sono buone possibilità che il giudice condanni la controparte a rim-
borsarti le spese che hai sostenuto, sia quelle dovute per tasse e diritti allo Stato, sia per la parcel-
la pagata al tuo avvocato. Salvo infatti gli sporadici casi in cui decida per la compensazione delle
spese, la sentenza definitiva stabilisce la cosiddetta “condanna alle spese” che andrà notificata
alla parte soccombente affinché questa paghi.
Se perdi la causa
In questa ipotesi le cose si complicano perché, oltre a non vederti rimborsate le spese sino ad al-
lora sostenute, dovrai anche (per le stesse ragioni appena esposte) pagare l’avvocato di contro-
parte, circostanza che l’ultima riforma ha rafforzato.
Ecco perché non conviene mai fare una causa “tanto per provarci”.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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2 | IL CONTRIBUTO UNIFICATO
Prima di avviare un giudizio occorre versare un importo a favore dello Stato. Tale onere ha il nome
di contributo unificato, poiché ha racchiuso in sé le diverse precedenti voci di versamento che in
passato dovevano essere sostenute (in pratica in precedenza ogni atto difensivo doveva riporta-
re una marca da bollo ogni quattro pagine). L’ammontare di tale contributo varia in relazione
al valore della controversia e al tipo di materia oggetto della stessa. La legge prevede de-
gli scaglioni al raggiungimento dei quali scatta un importo più elevato.
I processi esenti dal versamento del contributo unificato sono pochi: si tratta per esempio di quel-
li relativi all’interdizione o inabilitazione degli incapaci di intendere o volere o di quelli di lavoro
qualora il lavoratore abbia un reddito familiare non superiore al triplo dell’importo massimo per
l’ammissione al gratuito patrocinio (attualmente tale importo, già triplicato, è pari a circa 34.000
euro lordi).
In caso di appello o impugnazione in Cassazione della sentenza gli importi del contributo unifi-
cato salgono rispettivamente del 50% e del 100%.
Qualche esempio
Su internet esistono tanti siti che indicano gli scaglioni del contributo unificato che, comunque,
vengono ormai aggiornati quasi una volta ogni due anni. Attualmente l’importo minimo di versa-
mento per un processo di primo grado di valore inferiore a 1.100 euro è di 43 euro (per esempio
per impugnare una multa). L’importo cresce in base al valore della controversia: così per le cause
di valore da 1.100 a 5.200 euro l’ammontare sale a 98 euro e raggiunge i 237 euro per quelle fino
a 26.000 euro. Il massimo è 1.686 euro per i processi che riguardano controversie superiori a
520.000 euro.
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Esistono poi regole particolari per cui alcuni processi godono di uno sconto del 50% del contributo
unificato: per esempio per i processi di lavoro, per i decreti ingiuntivi e per gli sfratti. Per le separa-
zioni e i divorzi giudiziali l’importo sale a 98 euro.
3 | LA MARCA DA BOLLO UNA TANTUM
Oltre al contributo unificato occorre procedere anche al pagamento di un’ulteriore marca di 27 eu-
ro per spese forfettarie di funzionamento della Giustizia. In pochi casi tale importo non dovrà es-
sere versato (processi di valore inferiore a 1.100 euro, cause di lavoro e altre eccezioni).
4 | ONERI PER NOTIFICHE E COPIE DI ATTI
Quando si avvia una causa, la prima cosa da fare è notificare l’atto all’avversario. Per tale attività
è necessario pagare l’ufficiale giudiziario (11 euro circa per ogni soggetto, quando la notifica è
effettuata a mezzo posta). Tuttavia l’avvento del processo telematico consente oggi all’avvocato
di notificare l’atto dal proprio computer, senza alcun costo per il cliente.
In alcuni casi il processo prevede che si debbano notificare delle copie autentiche di atti presenti
nel fascicolo. Dovrà essere versato un contributo che varia in base al numero delle pagine: si va
da un importo minimo di 10,62 per una copia fino a 4 pagine a 26,56 euro per una copia fino a 100
pagine.
Le copie autentiche sono rilasciate dopo qualche giorno. Nel caso si abbia la necessità di avere
una copia urgente tali importi sono triplicati.
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5 | IL CONSULENTE TECNICO D’UFFICIO E DI PARTE
Quando la decisione di una causa dipende dalla soluzione di un problema tecnico, il giudice nomi-
na un proprio ausiliare esperto in quella determinata materia (per es. per stimare il danno subìto
da un paziente per errore medico; per determinare gli importi necessari a riparare un’automobile;
per definire da quale conduttura proviene la perdita d’acqua in condominio, ecc.). Viene così no-
minato il consulente tecnico d’ufficio (o, più brevemente, come amano chiamarlo gli avvoca-
ti, C.T.U.).
Di norma il giudice liquida al C.T.U. un anticipo prima dell’espletamento dell’incarico che viene
addossato alla parte che ha suggerito al magistrato la necessità di disporre la suddetta perizia.
All’esito della causa, poi, l’importo viene fatto gravare su chi perde (se l’anticipo è stato versato
dall’altra parte, le sarà dovuta la restituzione dell’importo).
Nel momento in cui viene nominato un consulente d’ufficio, è opportuno che la parte nomini un
proprio consulente di parte, che partecipi alle operazioni peritali e sostenga le sue ragioni. La re-
lativa parcella grava integralmente sul soggetto che lo nomina, almeno in prima battuta. Occorrerà
ricordare al proprio avvocato di chiedere espressamente e fin da subito la condanna della contro-
parte a rimborsare tutte le predette spese di consulenza (sia d’ufficio sia di parte) allegando i rela-
tivi giustificativi dei pagamenti (nello specifico le fatture). Tali oneri rientrano nella voce delle co-
siddette spese di lite.
6 | LA TASSA DI REGISTRO SULLA SENTENZA
Con l’emissione, da parte del giudice, del provvedimento che chiude il giudizio (un decreto, una
sentenza, ecc.), tale atto sconta l’imposta di registro che va pagata direttamente allo Stato con
versamento all’Agenzia delle Entrate. L’importo non è sempre uguale. La casistica è piuttosto va-
sta: possono esservi provvedimenti tassati in forma fissa (per esempio 200 euro) oppure in forma
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variabile (per esempio, per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, il 3%
dell’importo).
Attenzione: si tratta di una tassa solidale. In buona sostanza, lo Stato può richiedere il pagamen-
to tanto alla parte vincitrice quanto alla soccombente, indipendentemente dall’esito.
Nel caso in cui il giudice abbia condannato un soggetto al pagamento delle spese legali, tale con-
danna sarà estesa automaticamente anche alla tassa di registro. In altre parole chi ha vinto la
causa potrà chiedere all’altra parte di procedere al pagamento dell’intera tassa oppure, nel caso
questa si rifiuti, avrà il titolo per recuperare tutte le somme eventualmente anticipate a tale titolo.
L’importo della tassa di registro può essere calcolato online dopo il deposito del provvedimento (a
volte possono trascorrere anche diversi mesi prima che l’atto sia caricato sul sistema dell’Agenzia
delle Entrate). È sufficiente collegarsi col sito dell’Agenzia delle Entrate
(www.agenziaentrate.gov.it) e fornire gli estremi dell’atto da registrare (tipo di provvedimento, nu-
mero, autorità che l’ha emesso, ecc.).
[1] D.M. n. 55/2014.
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1.7 Quanto costa fare una causa di lavoro
Dovrei fare causa all’azienda dove lavoro per differenze retributive e stipendi non versati:
quanto mi costa tra tasse, contributo unificato e avvocato?
I costi per iniziare una causa di lavoro variano dalle spese vive dovute per le tasse a quelle per
l’assistenza tecnica di un avvocato, salvo il caso in cui vi sia la possibilità di accedere al gratuito
patrocinio. Gli importi dovuti, poi, per il contributo unificato (l’obolo di avvio del giudizio) sono
diversi a seconda del tipo di procedimento instaurato: nel caso, infatti, di decreto ingiunti-
vo il contributo unificato si dimezza rispetto agli importi ordinari. Ma procediamo con ordine,
analizzando tutte le spese vive e quelle per l’avvocato che il lavoratore può essere costretto ad af-
frontare.
Contributo unificato
Per le cause ordinarie, il contributo unificato varia a seconda del valore della pretesa fatta valere
dal lavoratore nei confronti dell’azienda. Importi, peraltro, che variano anche a seconda del grado
di giudizio. Ecco la tabella aggiornata al 2016.
Valore della causa
Primo grado
(1)
Appello (1)
(2)
Cassazione
(indipendentemente
dal reddito)
Fino a € 1.100,00 € 21,50 € 32,25 € 86,00
Superiore a € 1.100,00 fino a € 5.200,00 € 49,00 € 73,50 € 196,00
Superiore a € 5.200,00 fino a € 26.000,00 € 118,50 € 177,75 € 474,00
Superiore a € 26.000,00 fino a €
52.000,00 € 259,00 € 388,50 € 1.036,00
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Valore della causa
Primo grado
(1)
Appello (1)
(2)
Cassazione
(indipendentemente
dal reddito)
Superiore a € 52.000,00 fino a €
260.000,00 € 379,50 € 569,25 € 1.518,00
Superiore a € 260.000,00 fino a €
520.000,00 € 607,00 € 910,50 € 2.428,00
Superiore a € 520.000,00 € 843,00 € 1.264,50 € 3.372,00
Valore indeterminabile € 259,00 € 388,50 € 1.036,00
(1) Solo per le persone fisiche che sono titolari di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante
dall’ultima dichiarazione, superiore a € 34.107,72. A tal fine si computa anche il reddito dei familia-
ri conviventi (compreso il coniuge). Il dato reddituale può essere autocertificato.
(2) Per i processi iniziati dal 31 gennaio 2013 quando l’impugnazione, anche incidentale, è respin-
ta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a
versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa im-
pugnazione.
Come anticipato, tali importi sono tuttavia dimezzati nel caso in cui, piuttosto della causa ordinaria,
venga prescelta la procedura del decreto ingiuntivo. Quest’ultima è possibile solo nei casi in cui
vi sia una prova scritta del credito. Per esempio:
– retribuzioni non pagate: è possibile il decreto ingiuntivo, essendo sufficiente la prova della bu-
sta paga o del contratto di lavoro;
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– differenze retributive per lavoro straordinario: è necessario una causa ordinaria, perché in tal
caso non la prova dello straordinario, di norma, è data dalle testimonianze, salvo che vi siano do-
cumenti che comprovino tali prestazioni;
– mancato pagamento del TFR: anche in questo caso è sufficiente il decreto ingiuntivo, ma po-
trebbe essere necessario allegare un calcolo effettuato da un consulente del lavoro;
– lavoro in nero non pagato: è necessaria una causa ordinaria non essendovi documentazione
che attesti l’orario di lavoro e la prestazione eseguita dal dipendente. L’assenza di un contratto di
lavoro, tuttavia, non è d’ostacolo alla rivendicazione delle retribuzioni e, quindi, all’esercizio
dell’azione giudiziaria.
Copie e notifiche
Nel processo penale, tutte le richieste di copie e le notifiche sono esenti. Pertanto la parte non
deve, a tal fine, sostenere alcuna spesa.
Relazione del consulente del lavoro
In determinati casi, quando il calcolo degli arretrati, permessi e indennità diventa più complesso, il
lavoratore potrebbe essere tenuto a munirsi della relazione di un consulente del lavoro, che ov-
viamente andrà retribuito a cura e spese dell’istante che intraprende il giudizio.
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Avvocato
Se il dipendente dispone delle condizioni di reddito per accedere al beneficio del gratuito patro-
cinio non sarà tenuto a corrispondere alcunché all’avvocato che lo assiste (per i requisiti e le mo-
dalità per accedere all’agevolazione leggi “Gratuito patrocinio: quando l’avvocato te lo paga lo
Stato”). Diversamente, egli deve anticipare l’onorario secondo la parcella presentata preventiva-
mente dal legale, eventualmente – su richiesta del cliente – per iscritto.
Se la sentenza si risolve con una condanna nei confronti del datore di lavoro, alla parte vittoriosa
sono, di norma, dovute le cosiddette spese processuali ossia la refusione di quanto anticipato per
avviare la causa, ivi compreso l’onorario del professionista. L’ipotesi opposta – ossia quella della
compensazione delle spese – è ormai residuale e ricorre solo in ipotesi straordinarie, ossia quan-
do:
– vi è soccombenza reciproca: è il caso in cui il giudice rigetta una parte delle domande di en-
trambe le parti o accoglie solo parzialmente quella della parte risultata vincitrice;
– se la questione tratta è di assoluta novità, ossia quando sull’interpretazione della norma ogget-
to di controversia la Cassazione non si è ancora pronunciata;
– se muta la giurisprudenza rispetto a uno dei punti nodali della causa.
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CAPITOLO II – LA SENTENZA E GLI ADEMPIMENTI SUCCESSIVI
2.1 Che succede dopo la sentenza? Notifica, pignoramento e recupero crediti
Cause: la notifica della sentenza del tribunale, la registrazione, come recuperare i soldi do-
po la vittoria dalla parte soccombente.
Quando il giudice emette la sentenza, questa viene notificata con Posta elettronica certificata
agli avvocati delle parti, affinché ne prendano conoscenza: il che significa che il cliente può sape-
re, in tempo reale, l’esito della causa, se ha vinto o se ha perso e, in ultimo ma non meno impor-
tante, se vi è stata “condanna alle spese processuali”. La condanna alle spese consiste nel
provvedimento che, contenuto nella sentenza, stabilisce chi delle parti debba pagare tutte le spe-
se processuali (avvocati, consulenti tecnici, contributo unificato, imposta di registro, notifiche,
ecc.). La regola è che le spese gravino su chi perde; tuttavia il giudice può adottare una soluzione
intermedia (cosiddetta “compensazione delle spese”: ognuno paga il proprio avvocato) quando
ricorrono situazioni particolari (per es.: entrambe le domande vengono parzialmente accolte o par-
zialmente rigettate o sulla questione di diritto vi era incertezza).
A questo punto, la sentenza va notificata materialmente alla controparte e al suo difensore. Poiché
quest’onere è condizione perché decorra il termine di 30 giorni per fare appello e per procedere
all’esecuzione forzata, è chiaro che tale notifica venga effettuata dalla parte vincitrice. In particola-
re, è necessario notificare la sentenza:
– all’avvocato di controparte: dalla data di ricevimento, iniziano a decorrere 30 giorni per impugna-
re il provvedimento davanti alla Corte d’Appello (per le sentenze emesse dal Tribunale) o davanti
al Tribunale (per le sentenze emesse dal giudice di pace). Se tale notifica non viene effettuata, la
controparte ha più tempo per decidere se appellare o meno: 6 mesi dal deposito della sentenza in
cancelleria (se vi ricade agosto – poiché in tale periodo si applica la sospensione dei termini – i
mesi saranno in tutto 7). Ecco perché è di tutto interesse della parte vincitrice notificare immedia-
tamente la sentenza: in modo da dare all’avversario meno tempo per preparare l’appello;
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– al cliente dell’avvocato (ossia alla parte personalmente) se si vuole procedere ad esecuzio-
ne forzata e pignoramento: a tal fine la notifica fatta all’avvocato non è sufficiente. In tal ca-
so, insieme alla sentenza o successivamente deve essere notificato anche l’atto di precet-
to, ossia un ultimo avvertimento che si dà alla controparte con cui la si invita ad adempiere
al comando del giudice. Entro 90 giorni – e non oltre – dalla notifica del precetto, la parte
che ha vinto la causa può procedere ad esecuzione forzata. Se il termine scade senza av-
viare alcun atto di pignoramento, è necessario notificare un ulteriore precetto. E così via.
La sentenza va registrata a cura della parte soccombente anche se l’Agenzia delle entrate può
chiedere il pagamento di tale imposta a entrambe le parti indistintamente. Leggi sul punto “La re-
gistrazione della sentenza”.
Come recuperare i soldi dopo la vittoria della causa?
Questo è il vero punto dolente. Spesso infatti le condizioni economiche delle parti mutano durante
il processo e chi è in odor di sconfitta ha tutto il tempo per porre in essere atti di tutela del proprio
patrimonio, atti però che sono considerati fraudolenti e quindi revocabili entro cinque anni dal loro
compimento. Pertanto, se anche un soggetto, a metà della causa, dona tutti i suoi beni ai figli, nel-
la convinzione di perdere il giudizio, la controparte potrà immediatamente agire con l’azione re-
vocatoria, o comunque farlo entro cinque anni, in modo da salvaguardare le proprie garanzie. Ec-
co perché, durante la causa, è bene monitorare le azioni dell’avversario con visure immobiliari da
cui si possano evincere atti dispositivi.
In ogni caso, dopo la notifica del precetto, il creditore può procedere al pignoramento dei beni. Pi-
gnoramento che può toccare i beni mobili, gli immobili, i conti depositati in banca o alle poste, lo
stipendio, la pensione, eventuali crediti maturati nei confronti di terzi (si pensi alle provvigioni
dell’agente di commercio). Per tale attività è sempre necessaria l’assistenza di un avvocato e i co-
sti variano a seconda del tipo di esecuzione prescelta (la più cara è quella immobiliare, quella me-
no cara quella mobiliare).
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Se il debitore risulta nullatenente: il pignoramento
Il problema può aggravarsi se non risultano beni intestati al debitore e questi per di più è disoccu-
pato. A ciò si aggiungono una serie di espedienti, di ormai rodato utilizzo, che aiutano il debitore
a non pagare.
Il creditore ha, comunque, una serie di soluzioni. La prima è quella di tentare un pignoramento
mobiliare, seppur con la consapevolezza che esso non andrà a buon fine o che le somme vanta-
te dal creditore sono di gran lunga superiori al valore di un divano o di una tv usata. La legge, in-
fatti, prescrive che, qualora l’ufficiale giudiziario non riesca a trovare beni idonei a soddisfare il
credito attraverso la vendita forzata, deve rivolgere un’esplicita domanda al debitore, chiedendoli
se e dove ha altri beni utilmente pignorabili. L’eventuale mendacio costituisce un comportamento
penalmente rilevante. Così il soggetto esecutato sarà costretto a rivelare, per esempio, se svolge
attività di lavoro autonomo, se ha mezzi di proprietà, se possiede conti o altri crediti, ecc., in tal
modo semplificando di molto la caccia al tesoro dell’esecuzione forzata.
Non dimentichiamo, inoltre, il valido strumento della ricerca telematica dei beni del debitore:
con una riforma del 2014, il creditore può interrogare l’anagrafe tributaria, quella dei conti cor-
renti e le banche dati dell’Inps per ricercare beni e patrimoni del debitore. Oltre a ciò, ovviamente,
può fare una visura immobiliare presso l’ufficio del territorio per verificare se risultano case, terreni
o appartamenti intestati al debitore.
Una riforma della scorsa estate consiglia al creditore di iscrivere immediatamente l’atto di pi-
gnoramento nei pubblici registri immobiliari: se, infatti, procede in tal senso, egli può agire in
via esecutiva anche sui beni che, nell’ultimo anno, il debitore ha donato a terzi, o che ha immesso
in un trust o in un fondo patrimoniale: può farlo, cioè, senza bisogno di intraprendere l’azione re-
vocatoria. Si tratta di uno strumento di esecuzione molto forte, che consente di agire anche nei
confronti di terzi compiacenti che hanno accettato l’intestazione fittizia del bene al solo fine di evi-
tare il pignoramento.
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2.2 La registrazione della sentenza
(Vincenzo Rizza)
Imposta di registro per sentenze, decreti e altri provvedimenti del giudice: chi deve pagarli,
il rimborso della spesa, l’Agenzia delle entrate, la parte soccombente del giudizio.
Qualunque provvedimento di un giudice (una sentenza, un decreto, ecc.), anche non definitivo, è
soggetto al pagamento dell’imposta di registro. Tale obbligo nei confronti dell’Agenzia delle En-
trate grava su tutte le parti del giudizio (non anche su quelle che abbiano spiegato un “interven-
to”), a prescindere dalla soccombenza e dagli effetti sostanziali quale, per esempio, il trasferimen-
to di proprietà di un immobile.
1) La registrazione dei provvedimenti giudiziali
Tutte le parti in causa sono solidalmente obbligate al pagamento dell’imposta di registro: sia chi
ha perso, che chi ha vinto [1]. In pratica, lo Stato (l’Agenzia delle Entrate) può chiedere il versa-
mento indifferentemente all’una o all’altra per intero.
Quando più persone sono tutte obbligate ad un pagamento, si dice che esse sono unite dal vinco-
lo della “solidarietà”. Nel caso in esame la conseguenza di questa solidarietà è che il creditore –
nel caso l’Agenzia delle Entrate – ha discrezionalità nella scelta di colui nei confronti del quale
chiedere l’adempimento, a prescindere dalla sua soccombenza nel giudizio. Rimane salva, per
costui che è stato costretto a pagare per evitare una azione esecutiva, la facoltà di esercitare nei
confronti della parte soccombente o degli altri coobbligati nel caso siano più di uno, l’azione cosid-
detta di regresso per recuperare quanto anticipato.
Si tratta di un principio derivante dall’insiema delle norme fiscali sull’imposta di registro e di quelle
civilistiche in materia di obbligazioni solidali.
L’iniquità che spesso succede, nella realtà, all’applicazione di questi principi, è un fatto noto a tutti
gli operatori del diritto. Il creditore che ottiene un provvedimento giudiziario esecutivo è spesso co-
stretto, nel caso di impossidenza del debitore, a sobbarcarsi anche le spese di registrazione di
provvedimenti che non potranno trovare alcuna utilità ad essere eseguiti. Il Fisco, infatti, non su-
bordina la sua pretesa al fatto che il creditore abbia soddisfatto il suo diritto.
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2) L’obbligo solidale di registrazione tra tutte le parti del giudizio
Come abbiamo detto, l’Agenzia non distingue tra parte vincitrice e parte soccombente: le imposte
sono dovute da tutti i soggetti coinvolti nel giudizio.
Un’ipotesi particolarmente eclatante è quella, per esempio, di una sentenza che prevede il trasfe-
rimento di proprietà di un immobile. In questo caso vengono, infatti, applicate imposte peculiari
quale quella catastale o quella ipotecaria, oltre all’imposta di registro.
Orbene, mentre nelle normali compravendite è l’acquirente che paga tali oneri fiscali, nel caso di
trasferimento mediante sentenza, l’Agenzia delle Entrate iscrive a ruolo le imposte nei confronti di
tutte le parti della causa; lo fa, spesso, seguendo un ordine di tipo burocratico: quello con il quale il
giudizio era pendente in Tribunale. Un ordine che, ovviamente, non sempre è consono alle posi-
zioni di chi ha beneficiato degli effetti del trasferimento di proprietà dell’immobile.
La questione, pertanto, è questa: è legittimo che l’imposta sia chiesta a chi, seppure vittorioso nel
giudizio o comunque estraneo agli effetti traslativi della proprietà dell’immobile conteso, abbia avu-
to la mala sorte di essere iscritto come primo intestatario del provvedimento di liquidazione delle
imposte?
La risposta della giurisprudenza, peraltro rinvenibile anche mediante applicazione dei principi ge-
nerali in materia di solidarietà passiva nell’obbligazione, è univoca: l’Agenzia delle Entrate ha una
discrezionalità piena nella scelta del debitore a cui chiedere l’adempimento. Un principio che non
appare, spesso, conforme alla logica ed ai principi di equità e di imparzialità. L’Amministrazione
finanziaria, infatti, non ha un obbligo di motivazione o di discernimento nella valutazione delle sin-
gole posizioni degli interessati.
Il principio, in definitiva, è che il pagamento può essere chiesto senza obbligo di motivare perché
all’uno, piuttosto che all’altro condebitore solidale.
Rimangono invece esclusi dall’obbligo di pagamento coloro che siano “intervenuti” nel giudizio per
sostenere le ragioni dell’uno, piuttosto che dell’altro. In sostanza, pagano soltanto l’attore ed il
convenuto [2].
3) La solidarietà tra le parti del giudizio. Sulla base di quale principio? La giurisprudenza
della Suprema Corte
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Come visto, anche la parte vincitrice può trovarsi a dover pagare l’imposta di registro salva la pos-
sibilità di recuperarne successivamente l’importo dalla parte soccombente.
L’apparente illogicità dei principi in materia di registrazione degli atti giudiziari trova risposta in una
recente sentenza della Corte di Cassazione [3].
Pronunciandosi su una situazione perfettamente attinente al caso nel quale si era verificato un
trasferimento di proprietà immobiliare, la Cassazione ha stabilito che non vi è l’onere, per
l’Agenzia delle Entrate, di verificare gli effetti sostanziali della sentenza e dei soggetti che sono di-
venuti proprietari dell’immobile.
Secondo la Corte, infatti, “assume carattere scriminante nell’applicazione del regresso a chi ha
versato l’intero importo della imposta di registro, la circostanza che il trasferimento cui la stessa si
riferisce sia determinato da un negozio – sia esso in funzione di uno scioglimento di comunione o
sia espressione di una volontà traslativa – oppure da una sentenza: in questo secondo caso la re-
gistrazione costituisce il costo per la fruizione del servizio pubblico dell’amministrazione della Giu-
stizia e va posta a carico delle parti che da tale servizio abbiano tratto vantaggio” [4].
La risposta a tutti i dubbi deriva, in definitiva, da questo principio: ciò che si paga non è l’imposta
dovuta per gli effetti della sentenza (un trasferimento immobiliare, il riconoscimento di un diritto di
credito, la costituzione di una servitù, etc.) ma il costo che la gestione della causa ha avuto per lo
Stato; il costo del servizio “giustizia”.
4) Quali le possibili azioni per la salvaguardia di chi si trova costretto ad anticipare le spese
di registrazione?
La risposta a questo quesito va ricondotta ai principi sulla solidarietà di cui abbiamo detto all’inizio:
chi paga deve, successivamente, chiedere il rimborso di quanto pagato agli altri condebitori. An-
che in questo caso, peraltro, vale il principio per cui il regresso potrà essere esercitato sia sulla
parte soccombente nel giudizio, che nei confronti delle altre parti aventi posizione processuale
coincidente con la parte vittoriosa: tutti, infatti, sono condebitori ed il creditore (cioè colui che ha
pagato) ha la facoltà di scegliere su chi agire.
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L’azione di recupero, in mancanza di altri cespiti, potrà esercitarsi sull’immobile oggetto del giudi-
zio, anche attraverso l’attivazione di procedimenti cautelari nel caso in cui vi sia timore di perdere
la garanzia del credito (ipoteca giudiziale). La ricevuta di pagamento potrà essere utilizzata quale
prova scritta per la richiesta di decreto ingiuntivo che, in alcuni casi, può essere anche provviso-
riamente esecutivo.
5) Con quale azione procedere al recupero di quanto pagato? Si possono “precettare” le
somme pagate?
Secondo la Cassazione, la sentenza non costituisce titolo esecutivo, quanto alle spese di registra-
zione che la parte abbia sostenuto successivamente alla pronuncia [5].
Tali spese, inoltre, non sono incluse nell’eventuale provvedimento di compensazione contenuto
nella sentenza, ma vanno ripartite tra le parti in base ai principi di diritto civile e tributario circa la
responsabilità solidale delle parti contendenti nei confronti del fisco.
La parte che ha sostenuto le spese di registrazione, quindi, ha il diritto di ripeterne l’importo dalla
controparte – sia pure nella misura risultante dalla ripartizione delle spese contenuta nella senten-
za impugnata – solo in presenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione di regresso fra i conde-
bitori solidali: primo fra tutti la prova dell’avvenuto pagamento dell’imposta di cui si chiede il rim-
borso)[6].
Anche le imposte di registro, nel caso di condanna solo parziale alle spese del giudizio, vanno ri-
partite secondo le disposizioni contenute nella sentenza [7].
6) La mancata registrazione impedisce di eseguire la sentenza?
La risposta è negativa [8]. La Suprema Corte ha stabilito il principio per cui anche in mancanza di
registrazione della sentenza, essa può essere eseguita.
In questo caso il Cancelliere rilascia una copia esecutiva della sentenza “in corso di registrazione”.
Se richiesto, il Cancelliere deve rilasciare le copie necessarie anche per altri effetti processuali,
quale la notifica a controparte per far decorrere il termine per impugnare.
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7) Cosa succede se la sentenza di primo grado viene riformata?
Secondo la Cassazione, la sentenza che definisce il giudizio – anche solo parzialmente e pur non
passata in giudicato – è soggetta a tassazione, sicchè l’Ufficio del registro provvede legittimamen-
te alla liquidazione, emettendo il corrispondente avviso [9].
Nel caso di eventuale riforma, totale o parziale, della decisione nei successivi gradi di giudizio, pe-
rò, seppure l’avviso di liquidazione rimanga valido, l’interessato potrà chiedere all’Agenzia delle
Entrate o il rimborso dell’imposta, o di compensare l’importo liquidato per la prima sentenza con
quanto risulta dovuto per la registrazione del provvedimento di secondo grado o della Cassazione.
Occorrerà, allo scopo, una autonoma istanza [10].
[1] Testo unico sull’imposta di Registro. Decreto del Presidente della Repubblica – 26/04/1986,
n.131 – ART. N. 57: “Soggetti obbligati al pagamento. 1. Oltre ai pubblici ufficiali, che hanno redat-
to, ricevuto o autenticato l’atto, e ai soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione, sono so-
lidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti, le parti in causa, coloro che
hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere le denunce di cui agli articoli 12 e 19 e coloro
che hanno richiesto i provvedimenti di cui agli articoli 633, 796, 800 e 825 del codice di procedura
civile.”
[2] Si veda su questo portale: http://www.laleggepertutti.it/42729_imposta-di-registro-la-causa-la-
pagano-solo-attore-e-convenuto
[3] Cass. sent. n. 15005 /2014: “In tema di imposta di registro, è legittima la notificazione
dell’avviso di liquidazione dell’imposta effettuata dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del
notaio che ha registrato l’atto, poiché lo stesso, ai sensi dell’art. 57 del d.P.R. 26 aprile 1986, n.
131, è obbligato al relativo pagamento in solido con i soggetti nel cui interesse è stata richiesta la
registrazione, mentre l’Amministrazione ha la facoltà di scegliere l’obbligato al quale rivolgersi,
senza essere tenuta a notificare l’avviso anche agli altri”.
[4] Cass. sent. n. 3532/2014.
[5] Cass. sent. n. 1198/2012.
[6] Cass. sent. n. 1198/2012
[7] Cass. sent. n. 11125/1999; Cass. sent. n. 8481/2000.
[8] Cass. sent. n. 2950/2015.
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[9] Cass. sent. n. 12736/2014.
[10] Cass. sent. n. 12736/2014 “In tema di imposta di registro, ai sensi dell’art. 37, comma 1, del
d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, la sentenza che definisce il giudizio – anche solo parzialmente e pur
non passata in giudicato – è soggetta a tassazione, sicchè l’Ufficio del registro provvede legitti-
mamente alla liquidazione, emettendo il corrispondente avviso, il quale è impugnabile per vizi,
formali o sostanziali, inerenti all’atto in sé, al procedimento che lo ha preceduto, oppure ai presup-
posti dell’imposizione. Né l’eventuale riforma, totale o parziale, della decisione nei successivi gradi
di giudizio, e fino alla formazione del giudicato, incide sull’avviso di liquidazione, integrando, piut-
tosto, un autonomo titolo per l’esercizio dei diritti al conguaglio o al rimborso dell’imposta da far
valere separatamente e non nel medesimo procedimento. Cassa e decide nel merito, Comm. Trib.
Reg. Napoli, 25/06/2012”. Conforme: Cass. sent. n. 12757/2006.
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2.3 Se vinco una causa che succede?
(Angelo Greco)
Fine della causa per vittoria: condanna alle spese, compensazione e recupero delle somme
dalla parte soccombente.
Esistono quattro modi in cui può finire una causa:
– per abbandono di entrambe le parti;
– con un accordo (gli avvocati dicono “transazione”);
– con una vittoria; – con una sconfitta;
– con una vittoria/sconfitta parziale;
Vediamoli nel dettaglio iniziando dal caso di una fine con una vittoria.
Se avete vinto la causa, la sentenza conterrà quella che viene detta “condanna alle spese”, ossia
la condanna del vostro avversario al rimborso delle spese e competenze che avete sostenuto
per affrontare il giudizio.
Di quali spese si tratta? Innanzitutto dei costi vivi dovuti alle tasse (contributo unificato, marche
da bollo varie); quindi dei diritti dovuti agli ufficiali giudiziari (costo delle notifiche); dulcis in fundo,
degli onorari che avete anticipato al vostro avvocato.
La misura complessiva di tale importo liquidato in sentenza è generalmente determinata dal giu-
dice in base a dei criteri fissati dalla legge o sulla base di una notula specifica che il vostro avvo-
cato gli sottoporrà (notula che, tuttavia, non è vincolante per il magistrato il quale, se la ritiene ec-
cessiva, potrà discostarsene).
Questo non vuol dire che dovrete pagare al vostro avvocato solo quanto indicato dal giudice; al
contrario, avete l’obbligo di versargli quanto avevate inizialmente concordato all’atto del conferi-
mento dell’incarico. Spesso, infatti, si crede di dover pagare al proprio legale solo la somma li-
quidata dal giudice nella sentenza e, comunque, solo dopo averla recuperata dalla controparte.
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Non è affatto così. Salvo compiacenza del professionista, siete obbligati a corrispondergli imme-
diatamente quanto quest’ultimo vi chiede. Il giudice, infatti, potrebbe liquidare (ed è quello che
normalmente accade) una somma inferiore a quella che siete tenuti a corrispondere al vostro di-
fensore. Non vi convince? È proprio così. Con il vostro avvocato avete stipulato (anche se oral-
mente) un contratto d’opera autonomo che nulla ha a che vedere con la condanna della contro-
parte al rimborso delle spese. Sono due cose distinte e separate.
Così, mentre potrete pretendere dal vostro avversario solo il rimborso dell’importo che vi ha liqui-
dato il giudice nella sentenza, sarete nello stesso tempo costretti a pagare al vostro difensore
l’intera somma della nota specifica da lui redatta secondo accordi. Peraltro dovete pagarlo a pre-
scindere dal fatto che recuperiate o meno il denaro dalla controparte.
Proprio il pagamento della somma dalla parte soccombente è il capitolo più scottante. Quasi mai
succede che chi perde una causa versi spontaneamente la somma cui è stato condannato o
adempia all’obbligazione imposta dal giudice. Quasi sempre è necessario un intervento da parte
del proprio avvocato. Il recupero delle somme dalla controparte, in genere, viene curato dal vostro
stesso avvocato. Lo potrà fare (mancando uno spontaneo adempimento) con un fax di sollecito,
con una raccomandata (oggi anche con la PEC) oppure con un atto detto “precetto”.
Quest’ultima ipotesi, però, per quanto si tratti di uno strumento particolarmente “convincente” (in-
fatti, il precetto, oltre a essere notificato da un ufficiale giudiziale, anticipa l’inizio dell’esecuzione
forzata), è per voi più costosa poiché, per potere notificare il precetto, dovete prima registrare la
sentenza (pagando l’imposta di registro) e concordare con l’avvocato un secondo onorario per
questa ulteriore attività (anche se, spesso, viene compresa nel prezzo per la prestazione com-
plessiva).
Una volta recuperate le somme dalla controparte (se ciò avviene “con le buone” siete stati, di que-
sti tempi, assai fortunati), il vostro avvocato ha diritto di trattenere le somme che gli siano perve-
nute dalla controparte a rimborso delle spese vive anticipate, dandone comunicazione al cliente.
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Egli può anche trattenere le somme ricevute, a titolo di pagamento dei propri onorari, se ricorre
una di queste ipotesi:
a) quando vi sia il vostro preventivo consenso;
b) quando voi non lo abbiate ancora pagato per quanto avevate concordato;
c) quando abbia chiesto la cosiddetta “distrazione di spese”: in tale ipotesi, la controparte è tenu-
ta a dare le somme solo e soltanto all’avvocato, a cui spettano di diritto senza nulla dovere al pro-
prio cliente.
In tutti gli altri casi, l’avvocato è tenuto a mettere immediatamente a disposizione del proprio
cliente le somme riscosse per conto di questi. “Mettere a disposizione” significa anche semplice-
mente invitarlo a presentarsi allo studio per ricevere il denaro. Di quest’ultimo aspetto abbiamo già
parlato dettagliatamente nell’articolo “L’avvocato deve mettere a disposizione del cliente le somme
incassate”, cui vi rinviamo.
Attenzione: un’ultima nota. La condanna alle spese nei confronti della parte che ha perso la cau-
sa è la regola. Ma non è detto che sia sempre così. Vi sono molte ipotesi in cui il giudice ritiene di
dover compensare le spese tra le parti: il che vuol dire che ognuno si paga il proprio avvocato e
sostiene le spese che ha dovuto anticipare. Se il magistrato opta per tale scelta ha l’obbligo di mo-
tivarla in sentenza
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2.4 Causa vinta: al cliente cosa viene rimborsato?
Condanna alle spese processuali, contributo unificato, parcella dell’avvocato, restituzione
delle somme anticipate e anticipi versati al difensore e al CTU.
Di regola il giudice condanna la parte a cui dà torto (la parte soccombente) a pagare tutte
le spese del processo, comprese quelle anticipate dalla controparte, che ha quindi diritto
al rimborso.
In caso di soccombenza reciproca (ossia, quando il giudice rigetta in tutto o in parte le pretese di
entrambe le parti) o se ricorrono circostanze particolari, la sentenza può compensare le spese (in
pratica, ciascuna delle parti non potrà ottenere, dall’altra, il rimborso di quanto speso per il proces-
so).
Il giudice che emette un provvedimento (sentenza, decreto o ordinanza) pronuncia d’ufficio la
condanna al pagamento delle spese processuali, anche senza che nessuna delle parti ne abbia
fatto esplicita richiesta: tale statuizione è, infatti, necessaria e inscindibile dal provvedimento alla
pronuncia sul merito. Se il giudice dimentica di pronunciarsi sulle spese, la sentenza è viziata e
può essere impugnata.
Rimborso delle spese e del compenso dell’avvocato
Chi perde viene condannato al rimborso delle spese a favore dell’altra parte. Egli deve, quindi:
– sopportare le spese da lui anticipate, che sono definitivamente poste a suo carico. Per esem-
pio, se ha introdotto la causa, il contributo unificato che ha corrisposto e le notifiche della citazione
gravano su di lui; così il compenso del consulente tecnico d’ufficio (CTU), l’imposta per la registra-
zione della sentenza, ecc.
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– rimborsare alla parte vittoriosa le spese che ha sostenuto dall’inizio del giudizio. Quindi, se a
introdurre il giudizio è stata la parte vittoriosa, a questa è dovuta la restituzione del contributo
unificato e delle spese di notifica dell’atto introduttivo; altrettanto è dovuto il rimborso per
gli anticipi eventualmente versati al CTU e ai vari consulenti del giudice (non sono dovuti quelli ai
consulenti di parte), tutte le richieste di copie e certificati fatti in cancelleria, ecc;
– pagare il compenso spettante all’avvocato della parte vittoriosa, nei limiti dell’importo liqui-
dato dal giudice nella decisione: se la parte vittoriosa e l’avvocato si sono accordati per un com-
penso superiore, tale accordo non rileva né riguarda il soccombente. Questo vuol dire che il giudi-
ce definisce l’importo da corrispondere al difensore della parte vincitrice secondo apposite e pre-
definite tabelle ministeriali, a prescindere da quale sia l’ammontare della parcella concordata tra
cliente e professionista. Quindi, per esempio, se l’avvocato ha convenuto con il proprio cliente un
corrispettivo superiore a quanto liquidato dal giudice, quest’ultimo dovrà ugualmente a versarlo al
primo, anche se, per tale parte, non verrà mai rimborsato dalla parte soccombente.
Di norma avviene che il compenso dovuto all’avvocato – o, quanto meno, la parte necessaria a
coprire le spese vive – venga anticipata dal cliente al momento del conferimento del mandato.
Questo significa che, intervenuta la sentenza di condanna che decide sulle spese processuali,
tali importi verranno restituiti dalla parte soccombente. Ma se la parte soccombente non paga la
condanna alle spese, redendosi inadempiente e costringendo il vincitore all’esecuzione forzata,
quest’ultimo è ugualmente tenuto a pagare la parcella al proprio difensore.
A chi paga la parte soccombente?
Nella maggior parte dei casi, la sentenza ordina la parte soccombente al pagamento dell’intera
condanna direttamente nei confronti del vincitore. Per cui, se quest’ultimo ha già corrisposto
l’onorario al proprio avvocato, avrà diritto a trattenere tutto l’importo riscosso. Viceversa, se ancora
deve una parte dell’onorario al difensore, dovrà girargli il residuo.
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Quali sono i costi non rimborsabili?
Non tutti i costi che la parte vittoriosa ha affrontato nel processo sono rimborsabili. Ad esempio
non sono rimborsabili le spese che relative ai rapporti tra parte e avvocato estranei alla lite in sen-
so proprio come quelle sostenute per effettuare le indagini sulla consistenza patrimoniale della
controparte o il compenso dovuto ai consulenti e periti di parte.
In caso di liquidazione giudiziale del compenso, se la parte vittoriosa è stata assistita da più avvo-
cati, a carico del soccombente possono essere computati i compensi di un solo avvocato.
Nei procedimenti avanti al giudice di pace se il valore della domanda non supera 1.100 euro, il
giudice può condannare la parte soccombente al rimborso delle spese e del compenso solo entro i
limiti del valore della domanda, ma solo se la controversia deve essere decisa secondo equità
(per cui la parte di spese e compenso superiore al valore della domanda rimane a carico della par-
te vittoriosa). Quando invece la controversia deve essere decisa secondo diritto il giudice di pace,
a prescindere dal valore della causa, deve applicare il principio generale della soccombenza [1].
La distrazione delle spese all’avvocato
L’avvocato può chiedere al giudice che, in caso di vittoria del suo assistito, le spese processuali a
carico del soccombente vengano liquidate direttamente a suo favore. In pratica, chi perde dovrà
versare la condanna delle (sole) spese legali all’avvocato di controparte anziché al suo cliente. È
questa la cosiddetta distrazione delle spese. Ciò al fine di consentire al legale di ottenere più fa-
cilmente e con maggiore sicurezza il pagamento del proprio compenso e il rimborso delle spese
anticipate, potendole richiedere direttamente al soccombente in forza del provvedimento del giudi-
ce.
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Per sapere se la sentenza dispone la distrazione alle spese è sufficiente leggere la parte finale
della sentenza stessa (di norma è indicato nelle ultime righe).
Anche in caso di distrazione il difensore può ugualmente rivolgersi al proprio cliente per il paga-
mento del compenso e delle spese, ove lo ritenga più conveniente (salva la possibilità poi per il
cliente di farsi rimborsare dal soccombente).
Inoltre, anche se c’è distrazione di spese, se l’avvocato e il cliente si erano accordati per un com-
penso superiore la differenza dovrà essere corrisposta da quest’ultimo.
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2.5 Se il giudice ti condanna in primo grado: quale difesa?
Come sospendere l’esecutività della sentenza di condanna di primo grado: l’istanza di so-
spensione della provvisoria esecuzione.
Mettiamo un caso piuttosto tipico: Tizio perde la causa in primo grado e viene condannato al
pagamento di una somma che, per il momento, non ha; nello stesso tempo, però, non vuole ri-
schiare che la controparte, agguerritissima, gli pignori il conto corrente in banca perché per lui
sarebbe un grave danno. Cosa fare in questi casi?
L’errore comune è quello di ritenere che fare appello possa risolvere il problema.
Innanzitutto perché l’impugnazione della sentenza di primo grado è una soluzione condivisibile
solo nella misura in cui vi siano margini di successo per via di evidenti errori (di forma o di sostan-
za) nel provvedimento del giudice. Diversamente, l’appello potrebbe peggiorare la situazione, im-
plicando ulteriori spese per il debitore.
In secondo luogo perché l’appello non sospende l’efficacia della sentenza di primo grado che è
“provvisoriamente esecutiva”: in pratica, appena emessa, la condanna del giudice legittima la
parte vincitrice – anche se pende l’appello o solo i termini per appellare – a procedere
all’esecuzione forzata e al pignoramento. Questo concetto viene riassunto, dai giuristi, in
un’unica frase: la sentenza di primo grado è già titolo esecutivo.
L’unica soluzione, a tal riguardo, se non si riesce a trovare un accordo con la controparte, è quel-
la di sperare che il giudice di appello conceda un provvedimento con cui sospenda l’efficacia
esecutiva della sentenza di primo grado o, se già iniziato, del pignoramento in atto. È quanto vol-
garmente viene detto “sospensiva“.
A questo argomento è dedicata la seguente scheda.
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Sospensione della provvisoria esecuzione
Nel proporre appello, l’appellante deve formulare una espressa richiesta (o istanza), a pena di de-
cadenza, nell’atto di citazione.
Oggetto della richiesta può essere, in alternativa:
– la sospensione (in tutto o in parte) dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, volta a
impedire che, in forza di essa, la parte vittoriosa inizi l’esecuzione forzata;
– la sospensione dell’esecuzione che, in forza della sentenza impugnata, è stata nel frattempo
intrapresa.
Se il richiedente teme che l’esecuzione possa iniziare in pendenza del procedimento può proporre
contemporaneamente le due richieste.
A sostegno dell’istanza, la parte deve addurre gravi e fondati motivi, eventualmente mostrando
al giudice la possibilità di una propria insolvenza qualora dovesse essere portata ad esecuzione
la sentenza.
Ad esempio, per quanto riguarda i motivi della sospensione, la parte può addurre una presumibile
fondatezza dell’impugnazione che renda probabile la riforma della sentenza. Può anche sostenere
che dall’esecuzione della sentenza deriva un pregiudizio per l’appellante molto più grave di quello
che la parte vittoriosa potrebbe risentire dal ritardo nell’esecuzione.
Se il giudice rigetta l’istanza di sospensione della provvisoria esecuzione dichiarandola inammis-
sibile o manifestamente infondata può condannare la parte al pagamento di una pena pecunia-
ria da un minimo di 250 euro a un massimo di 10.000 euro.
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L’istanza va presentata solo con l’atto di appello e non successivamente a pena di inammissi-
bilità.
Casi urgenti
Se la parte ha interesse a ottenere con particolare urgenza la sospensione dell’esecutorietà, può
fare istanza affinché la pronuncia intervenga prima dell’udienza, presentando un apposito ricor-
so (distinto dall’atto di appello) al presidente della corte d’appello o al tribunale e motivando
l’urgenza. In tal caso il giudice fissa l’udienza per la sospensione e un’ulteriore udienza per la de-
cisione della causa nel rispetto dei termini a comparire.
Se sussistono i particolari motivi di urgenza, il giudice ordina con decreto l’immediata sospen-
sione provvisoria e dispone la comparizione delle parti in camera di consiglio. In tale udienza, al-
la presenza delle parti, può confermare, modificare o revocare il precedente decreto con ordinan-
za non impugnabile.
Il giudice può anche disporre che la sospensione dell’esecutorietà sia parziale.
Le ragioni di urgenza e i gravi motivi non possono consistere nel semplice fatto che la parte
soccombente rischia il pignoramento.
Eventuale cauzione
Il giudice può concedere la sospensione imponendo al richiedente una cauzione per garantire
l’eventuale risarcimento dei danni subiti dal creditore procedente a seguito dell’interruzione
dell’esecuzione.
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La cauzione in questo caso può essere utilizzata solo per soddisfare le spese processuali liquidate
dalla sentenza.
Se la parte non versa la cauzione, il provvedimento di sospensione perde efficacia e la contropar-
te vittoriosa in primo grado può iniziare l’esecuzione forzata.
Decisione sulla sospensione
Il collegio, nella prima udienza, decide sulla richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione
con ordinanza non impugnabile.
Se l’appello è dichiarato inammissibile, gli effetti dell’ordinanza di sospensione dell’esecuzione
perdono efficacia.
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2.6 Se perdo una causa cosa succede?
(Angelo Greco)
In caso di soccombenza nel processo, è necessario pagare le spese di controparte ed
eventualmente la condanna per lite temeraria.
Tra i vari modi con cui si può chiudere una causa (clicca qui per l’elenco completo), vi è quello di
una amara sconfitta. “Amara” per diverse ragioni: per il tempo che avete perso, per i costi affron-
tati e per tutti quelli ancora che si andranno ad affrontare. Preparatevi, quindi, a mettere mano al
portafoglio.
Chi perde la causa (gli avvocati dicono “la parte soccombente”) deve pagare innanzitutto
il proprio avvocato secondo quanto concordato con questi.
Oltre a ciò deve versare anche alla controparte le spese di causa da questa anticipate. È la rego-
la della cosiddetta “soccombenza”: in pratica, chi perde paga per tutti. Una regola che, comun-
que, conosce anche delle eccezioni. Il giudice, infatti, potrebbe ritenere comunque apprezzabili le
vostre ragioni e disporre la “compensazione” delle spese: in pratica, ciascuno paga per sé (sul
punto, leggi l’approfondimento: “Spese processuali: chi paga la causa? La compensazione va
sempre motivata in sentenza”).
Il rimborso alla controparte deve avvenire in base all’importo liquidato dal giudice nella senten-
za; ma l’avvocato di controparte potrebbe – legittimamente – chiedervi anche il pagamento di ulte-
riori somme per spese successive alla pubblicazione della sentenza. Così, per esempio, la tassa
di registrazione della sentenza, ulteriori diritti e onorari maturati dopo la sentenza, diritti e onorari
dell’atto di precettoeventualmente notificatovi, ecc.
In particolare, per quanto riguarda le spese di registrazione della sentenza, sebbene l’agenzia
delle entrate invii la richiesta di pagamento a entrambe le parti di causa, l’onere deve essere so-
stenuto da chi ha perso. Per un approfondimento sul tema leggi l’articolo: “Chi paga le spese di
registrazione della sentenza”.
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Non è tutto. Se, a detta del giudice, avete agito in causa o resistito alla citazione di controparte
con mala fede o colpa grave, la sentenza potrebbe condannarvi (su richiesta del vostro avversa-
rio) non solo al rimborso delle spese del giudizio (in base al principio della soccombenza), ma an-
che al risarcimento dei danni nei confronti del vostro avversario.
E ancora, secondo una recente riforma in vigore dal 2009, il giudice, anche se non lo richiede il
vostro avversario, può condannarvi al pagamento di un’ulteriore somma che determina secondo
equità [1].
Credete di aver finito? Per niente. Se durante la causa il giudice ha nominato un C.T.U. (ossia
un consulente tecnico d’ufficio) siete voi a doverlo pagare per intero, rimborsando alla contro-
parte l’eventuale anticipo da quest’ultima eventualmente versato nel corso del giudizio. Si tratta di
importi che, spesso, raggiungono diversi “zeri”.
È bene quindi che vi facciate ben consigliare prima di intraprendere una causa, poiché le conse-
guenze di tipo economico, in caso di sconfitta, non sono di poco conto.
[1] Art. 96 cod. proc. civ.
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2.7 Se perdi una causa dal 2014
Non solo la “soccombenza qualificata” con aumento del 30% del compenso all’avvocato di
controparte, ma anche la responsabilità processuale aggravata.
Ci sono prove schiaccianti contro di te? Hai iniziato una causa solo per “allungare i tem-
pi”? Attento: non è più come prima. Infatti, a partire dal 2014, le conseguenze per chi aziona la
giustizia, pur non essendovene fondati presupposti, possono essere catastrofiche.
È questa la conseguenza dell’applicazione congiunta di due diversi (ma concorrenti) istituti pro-
cessuali: quello della “soccombenza qualificata” (introdotta nel 2014, con le nuove tariffe profes-
sionali degli avvocati) e quello della responsabilità processuale aggravata. La combinazione di
questi due fattori può comportare, per chi perde un giudizio civile, degli effetti economici gravosi.
A farlo notare, per primo, è il Tribunale di Verona, con una recente sentenza [1].
Ma vediamo più da vicino di cosa si tratta.
Con i nuovi parametri forensi, istituiti di recente con un decreto ministeriale [2], se l’avvocato della
parte vincitrice risulta tanto bravo da fornire prove evidenti che dimostrino quanto sia fondata la
sua difesa, può ottenere l’aumento del 30% sul proprio compenso per aver fatto risparmiare
tempo ai giudici ed accelerato la soluzione della causa.
È ciò che è stato definito “soccombenza qualificata” e che ha iniziato a operare con il nuovo an-
no: un meccanismo a cui gli italiani non erano mai stati abituati e che dovrebbe incentivare il lega-
le a risolvere, nel più breve tempo possibile e con minor sforzo per il magistrato, la causa. Se ciò,
infatti, dovesse avvenire, chi perde il giudizio verrà condannato a pagare, al difensore della con-
troparte, non le solite “spese processuali”, ma importi maggioranti di quasi un terzo!
Non è tutto. A ciò si può aggiungere un secondo aspetto (per cui l’uno non esclude l’altro): quello
della cosiddetta responsabilità processuale aggravata. A riguardo, la legge [3] stabilisce che,
se la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su
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istanza dell’altra parte, la condanna oltre che alle spese processuali (e quindi, eventualmente, an-
che alla “soccombenza qualificata”), anche al risarcimento dei danni nei confronti
dell’avversario.
Dunque, il merito della sentenza del Tribunale di Verona sta nell’aver precisato che tanto
la responsabilità processuale aggravata quanto la soccombenza qualificata possono coesi-
stere nella stessa sentenza, facendo così lievitare enormemente la condanna nei confronti di chi
perde il giudizio.
Insomma, la soccombenza qualificata introdotta dai nuovi parametri forensi non esclude la re-
sponsabilità processuale aggravata a carico della stessa parte.
In questo modo la legge tenta non solo di scoraggiare le iniziative giudiziarie o le resistenze pre-
testuose, ma anche di premiare l’abilità tecnica dell’avvocato che riesce a fare emergere la piena
fondatezza delle tesi sostenute dal suo assistito.
[1] Trib. Verona, sent. del 19.06.2014.
[2] Dm 55/2014.
[3] Art. 96 cod. proc. civ.
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2.8 Se vinco la causa ma il debitore non paga: quale tutela?
Pignoramenti, esecuzioni forzate, ipoteche, dichiarazioni di fallimento: ecco tutte le carte
che ha il creditore per ottenere il pagamento di quanto gli è dovuto.
Quando si intraprende una causa, la vera incognita non è tanto la vittoria, quanto piuttosto la pos-
sibilità di ottenere, nei fatti, quello che il giudice ci ha riconosciuto. Il che, se si tratta di denaro,
rende tale impresa ancora più aleatoria.
Come dico sempre, il problema è trasformare la “carta bollata” della sentenza in “carta filigranata”.
E, a dire il vero, le nostre leggi non ci aiutano affatto. Sicché quel comune adagio, secondo cui è
più facile scappare che inseguire, è pienamente calzante.
Lo Stato tutela chi non vuole pagare? Non di certo; anche se la pratica sembra avvalorare questo
sospetto.
E allora, è bene sin dall’inizio sapere quali strumenti ha il creditore, con in mano una sentenza di
condanna, per ottenere il dovuto.
Innanzitutto fughiamo il primo dubbio. Se la parte soccombente (chi, cioè, ha perso la causa)
fa appello, ciò non sospende l’esecutività della sentenza di primo grado. Infatti, anche in penden-
za di una impugnazione, la condanna continua ad essere vincolante e obbliga il debitore a pagare.
L’unica eccezione è nel caso in cui il giudice di appello (sia esso il Tribunale per i provvedimenti
del giudice di pace, o la corte d’appello quelli invece del tribunale), alla prima udienza, “sospenda
l’esecutività” della sentenza impugnata. Ma per ottenere ciò, oltre ad una esplicita pronuncia, de-
vono ricorrere una serie di presupposti non sempre presenti.
Non è, dunque, l’appello che deve far temere, quando piuttosto la solvibilità del debitore, ossia la
possibilità economica di quest’ultimo, almeno sotto l’aspetto formale, di pagare.
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“Carta canta” dice un detto popolare: il che vuol dire, nel nostro caso, che se ufficialmente la con-
troparte non ha nulla di intestato, e campa con il minimo vitale, sarà praticamente impossibile re-
cuperare il dovuto.
Pertanto, una buona norma di prudenza imporrebbe di verificare, già prima di intraprendere una
causa, se il nostro avversario è un nullatenente – e come tale non aggredibile con qualsiasi tipo di
esecuzione forzata – oppure “ha qualcosa da perdere”. E, in ogni caso, anche in quest’ultima ipo-
tesi nulla ci assicura che se ne possa spogliare in corso di giudizio.
Ecco allora alcuni suggerimenti pratici da tenere a mente per poter gestire al meglio le possibilità
di un recupero del credito.
Distingueremo, a tal fine, i due più consueti casi in cui la controparte sia un privato o una società.
Se la controparte è un privato e la somma da recuperare è modesta
Paradossalmente, ci sono meno possibilità di recuperare un importo basso che uno elevato. Infat-
ti, per crediti fino a 2/5 mila euro, le uniche forme di esecuzione forzata convenienti per il creditore,
da un punto di vista economico, sono il pignoramento dei beni mobili oppure quello dei crediti
presso terzi: due procedure che, sebbene rapide e a basso costo, sono estremamente aleatorie e
incerte.
Esse, infatti, sono subordinate alla possibilità:
– nel caso di pignoramento di beni mobili: 1) che il debitore possegga, presso la propria residen-
za, oggetti di valore; 2) e che vi sia qualcuno disposto ad acquistarli ad un’asta pubblica (di cui,
normalmente, non viene mai data pubblicità);
– nel caso di pignoramento dei crediti presso terzi: 1) che il debitore sia un titolare di pensione
o di reddito di lavoro autonomo, 2) oppure abbia un conto corrente intestato e, in tal caso, che il
creditore sappia presso quale banca.
Se non vi sono tali presupposti, il pignoramento avrà esito negativo e il creditore avrà perso soldi e
tempo.
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In verità, il pignoramento dei mobili impone la “visita” dell’ufficiale giudiziario a casa del debitore.
Egli dovrà cercare e pignorare i beni la cui vendita è più facile e immediata (per esempio, gli og-
getti di valore), con alcuni limiti di beni non pignorabili come la fede, le cose sacre, i letti, il tavolo
da pranzo, il frigorifero, la stufa, ecc. (leggi l’articolo: “Il pignoramento dei beni mobili del debitore:
cosa non può prendere l’ufficiale giudiziario”).
Ebbene, al di là del fatto che a nessuno fa piacere ricevere un ufficiale giudiziario a casa, vi è però
la possibilità di avere, tramite questa procedura, maggiori informazioni dal debitore. Infatti, a se-
guito di una recente riforma, l’ufficiale che non trovi presso il debitore beni mobili pignorabili, chie-
de formalmente a quest’ultimo se sia in possesso di altri beni o redditi. La risposta viene verbaliz-
zata e di essa ne prenderà cognizione il creditore che, eventualmente, potrà decidere di spostare
il pignoramento verso mete più appetibili.
Eventualmente, si può procedere a incaricare un’agenzia investigativa per sapere dove il debitore
ha un conto corrente in attivo o dove questi lavora. Il che, però, aumenterà di certo le spese da
sostenere.
Se la controparte è un privato e la somma da recuperare è di importo elevato
In tal caso, il creditore potrebbe decidere di pignorare eventuali immobili del debitore e chiedere
al tribunale di venderli all’asta. Si tratta di una procedura assai lunga e costosa, ma che potrebbe
dare i suoi frutti, posto che, di norma, il mercato immobiliare (specie quello delle “occasioni”) ha
sempre un suo traino.
Se la controparte debitrice è sposata
Potreste verificare se il vostro debitore è in regime di comunione dei beni con l’eventuale coniu-
ge. In tal caso, se non siete riusciti a trovare alcun bene da pignorare intestato al debitore, potete
aggredire il 50% del valore dei beni del marito o della moglie.
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Se la controparte è una società
Oltre alle soluzioni appena esposte, nei confronti delle società c’è sempre la possibilità di chiedere
una dichiarazione di fallimento. In verità, bisogna sempre consultarsi prima con il proprio legale
poiché le recenti riforme hanno ridotto enormemente il numero di soggetti che possono essere
sottoposti a tali procedure concorsuali.
Certamente si tratta di una soluzione radicale ed estrema che porta alla “estinzione” della ditta e,
quindi, anche alla possibilità di fare marcia indietro o di trovare successivi accordi.
Per crediti di lavoro dipendente, la via del fallimento potrebbe essere utile se non altro per otte-
nere l’intervento del fondo di garanzia dell’Inps (almeno per quanto riguarda il TFR e le ultime
tre mensilità).
Invece, in tutti gli altri casi, il rischio dell’apertura di un fallimento è di peggiorare il problema. Infat-
ti, la procedura fallimentare è quanto di più lungo e complesso possano conoscere le procedure
dei nostri tribunali. Inoltre, se il debitore ha uno patrimonio modesto e svariati debiti, le possibilità
di ottenere un pagamento sono ancora più remote.
Certo, potrebbe essere che il semplice deposito dell’istanza di fallimento riesca a sbloccare la si-
tuazione, costringendo il debitore a pagare “con le buone”. Ma se ciò non dovesse verificarsi e
l’azienda venisse dichiarata (come si dice in gergo tecnico) “decotta”, allora si aprirebbe un vero e
proprio calvario di attese.
Per quanto tempo?
Alla fine di tutto ciò, viene spontaneo chiedersi per quanto tempo si possa utilizzare la sentenza di
condanna e se la stessa abbia un “termine di scadenza”.
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Il termine di “scadenza” (cosiddetta “prescrizione”) delle sentenze è di 10 anni. Tuttavia, se nel
corso di tale termine di pongono in essere atti interruttivi della prescrizione – lettere di diffida, sol-
leciti di pagamento e quant’altro – il termine torna a decorrere da capo. Pertanto, la sentenza po-
trebbe valere anche “all’infinito” e addirittura contro gli eredi del debitore. Ma questa è un’altra
storia…
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2.9 Se la causa termina con un pareggio: la parziale soccombenza o vittoria
(Angelo Greco)
In caso di soccombenza reciproca si può avere una compensazione delle spese totale o
parziale; in ogni caso, la compensazione deve essere sempre motivata in sentenza.
Oltre a vincere o perdere, si può anche pareggiare. Tradotto in termini processuali, le cause pos-
sono anche terminare con una parziale soccombenza (che, per l’altra parte, significa
una parziale vittoria). Ciò capita quando il giudice accoglie solo in parte la domanda oppure
quando ne accoglie una e ne rigetta un’altra. In parole semplici ciò significa che una parte della
ragione è vostra e un’altra parte del vostro avversario oppure che nessuno dei due ha ragione (e il
giudice rigetta entrambe le domande).
In questi casi, in cui si parla di soccombenza reciproca, il giudice può compensa-
re parzialmente o per intero le spese tra le parti. Che vuol dire? Che ognuno paga le proprie
spese e:
a) nel caso di compensazione totale, non sarà possibile chiedere alla controparte la restituzione
di quanto anticipato (cosa che, invece, avviene nel caso in cui la causa venga integralmente vinta.
Sul punto leggi l’articolo “Se vinco una causa cosa succede?”);
b) nel caso di compensazione parziale, si potrà chiedere alla controparte solo un rimborso par-
ziale (nella misura fissata dalla sentenza).
Nella pratica, i giudici abusano dello strumento della compensazione delle spese, utilizzandolo
anche in caso di vittoria netta di una parte sull’altra, senza peraltro fornire la benché minima moti-
vazione o fornendo una motivazione di puro stile. Ciò, invece, non è corretto e la Cassazione ha
sempre detto che la compensazione delle spese deve essere sempre motivata in sentenza (leggi
l’articolo: “La compensazione va sempre motivata in sentenza”).
Capita così spesso che una parte, pur vincendo la causa, non possa recuperare dall’avversario le
spese sostenute per il giudizio, ed è costretta a pagare la parcella all’avvocato attingendo dal pro-
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prio portafoglio. Un’ingiustizia bella e buona. Si dice, in casi come questo, che “si vince la causa
ma si perde la lite”.
Qualora la causa si chiuda con un accordo preso davanti al giudice (cosiddetta “conciliazione
giudiziale”), si presume che, salvo diverso accordo, nessuno potrà chiedere il rimborso delle spe-
se all’avversario.
Allo stesso modo, se il processo si estingue per inattività delle parti (cioè quando gli avvocati
non compaiono davanti al giudice ad almeno due udienze di seguito), le spese restano a carico di
chi le ha anticipate.
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2.10 Quando si prescrive una sentenza?
Una sentenza mi ha condannato al pagamento di una somma ma il creditore, dopo un pri-
mo tentativo di recupero forzato, ha smesso ogni azione o pignoramento: quando si verifi-
ca la prescrizione del suo diritto?
La prescrizione del diritto di credito contenuto in una sentenza di condanna è di dieci anni: in par-
ticolare, quando su un diritto è intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato (ossia
divenuta definitiva e non più impugnabile) la prescrizione si verifica sempre dopo un decennio,
anche se si tratta di un diritto per cui la legge stabilisce una prescrizione più breve [1].
Per esempio, se per il diritto al compenso del professionista la legge stabilisce una prescrizio-
ne [2], qualora quest’ultimo abbia ottenuto una sentenza nei confronti del debitore, il suo credito si
prescrive dopo 10 anni.
Allo stesso modo, se il vicino di casa ha subito delle perdite da una tubatura derivante dal nostro
appartamento il suo diritto al risarcimento si prescrive in cinque anni [3]. Tuttavia, una volta otte-
nuta la sentenza, la prescrizione del diritto di credito all’indennizzo è di 10 anni.
Il termine per calcolare la prescrizione del diritto di credito contenuto nella sentenza di condan-
na si calcola dall’emissione della sentenza (ossia dal suo deposito in cancelleria) o a partire da
ogni successivo atto interruttivo della prescrizione; sono atti interruttivi tutte le richieste di paga-
mento intimate al debitore. In buona sostanza, tutte le volte in cui il creditore abbia “sollecitato” il
debitore al pagamento, attraverso una diffida, una lettera di messa in mora o anche un atto
di precetto, il termine di 10 anni inizia a decorrere nuovamente da capo.
Secondo quanto chiarito dalla Cassazione [4] la prescrizione è interrotta da ogni atto che vale a
costituire in mora il debitore (come l’intimazione al debitore fatta per iscritto) o che comunque
esprima l’inequivocabile volontà del titolare del diritto di farlo valere nei confronti di quel soggetto.
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Ne consegue che, almeno in teoria, la prescrizione – sebbene decennale – potrebbe protrarsi per
tempo illimitato se, ad ogni scadere del termine, il creditore invia una diffida di pagamento o
un precetto. Secondo la Cassazione, infatti, l’atto di precetto deve considerarsi interruttivo della
prescrizione [5].
In verità, la prescrizione si interrompe non solo quando il titolare del diritto esercita il diritto stesso,
ma anche quando il debitore riconosce il diritto del titolare. Per cui, nel caso di specie, se il lettore
dovesse aver inviato una lettera al creditore chiedendoli, per esempio, una rateizzazione o sem-
plicemente di temporeggiare, quest’atto sarebbe suscettibile di far decorrere da capo il termine dei
dieci anni.
[1] Art. 2953 cod. civ.
[2] Cosiddetta “prescrizione presuntiva”: art. 2956 n. 2 cod. civ.
[3] Art. 2947 cod. civ.
[4] Cass. sent. n. 10594/2013, n.24656/2010.
[5] Cass. sent. n. 7737/2007.
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2.11 Cos’è un titolo esecutivo. L’esecuzione forzata
Cosa e quali sono i titoli esecutivi giudiziali e stragiudiziali, la notifica, la formula esecutiva,
l’esecuzione forzata e il pignoramento con l’ufficiale giudiziario.
Cosa significa titolo esecutivo
Si sente spesso, nella bocca di giudici e avvocati, la parola “titolo esecutivo”, ma spesso chi non
ha conoscenze in materia legale, non ne comprende appieno il significato. Si tratta di un concetto
molto usato nel linguaggio giuridico che sta a indicare quel tipo di documento che consente, a chi
ne è in possesso, di agire anche in via forzata (cosiddetta “esecuzione forzata”), attraverso
l’ufficiale giudiziario, nei confronti di chi non adempie spontaneamente al comando contenuto in
detto documento. In buona sostanza, nel titolo esecutivo viene menzionato un soggetto (che pos-
siamo definire “creditore”) e un altro (“debitore”) e si afferma il dovere del secondo a svolgere
una determinata attività in favore del primo: con la conseguenza che, in caso di mancato adempi-
mento, si potrà attivare direttamente il procedimento con l’ufficiale giudiziario. Si pensi al caso
dell’ingiunzione di pagare una somma di denaro, a un ordine del giudice di abbattere una parete,
di insonorizzare un muro, di spostare una pianta, di restituire le chiavi di una casa.
In parole ancora più povere, un titolo esecutivo è quel documento che è condizione per procedere
all’esecuzione forzata. Solo chi ne è in possesso può agire in via esecutiva e nessun altro.
Ma come ci si procura un titolo esecutivo e, soprattutto, quali documenti hanno questa caratteristi-
ca?
Non tutti i documenti che attribuiscono un diritto a un soggetto sono titolo esecutivo. Per esempio,
è indubbio che un contratto menzioni il diritto del creditore a ricevere una determinata prestazione,
ma esso non è un titolo esecutivo. Sarà, invece, titolo esecutivo la sentenza che, al termine della
causa sul predetto contratto, accerterà in modo certo e preciso, se davvero sussiste detto credito
e a quanto ammonta.
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Infatti, posta la forza che ha il titolo esecutivo e le conseguenze che esso comporta per il soggetto
obbligato, è necessario che abbia un grado di certezza e affidabilità tale da poter stare certi – al-
meno in prima battuta – che non si possa risolvere in abusi.
Allo stesso modo, una ammissione di debito, messa per iscritto da un soggetto, non è un titolo
esecutivo, ma lo è il decreto ingiuntivo che il creditore, grazie a questa dichiarazione, si è fatto ri-
lasciare dal magistrato.
Sulla base di ciò, possiamo dire che titolo esecutivo sono tutti i provvedimenti che escono dal tri-
bunale, quelli cioè firmati da un giudice e che chiudono un processo o una fase del processo.
La sentenza, appunto, è l’esempio principale di titolo esecutivo: essa acquista tale caratteristica
già dopo il primo grado, anche se ancora pendono i termini per fare appello o se, addirittura, il
giudizio di impugnazione è già avviato (salvo che il giudice di secondo grado ne sospenda tale ef-
ficacia). Infatti, per legge, tutte le sentenze sono esecutive già dalla loro emissione.
Questo, in termini pratici significa che il creditore, una volta notificata la sentenza alla controparte
e inviatogli un ultimo avviso ad adempiere entro 10 giorni (cosiddetto atto di precetto), potrà re-
carsi dall’ufficiale giudiziario e procedere a un pignoramento o ad altre forme di esecuzione for-
zata nei suoi confronti.
Come la sentenza, sono titolo esecutivo anche altri atti di emanazione del giudice come, ad
esempio, l’ordinanza di sfratto. Lo è anche il decreto ingiuntivo, ma solo dopo 40 giorni dalla
sua notifica e sempre a condizione che il debitore, entro tale termine, non abbia proposto opposi-
zione.
Quelli che abbiamo appena elencato sono i titoli esecutivi giudiziali, quelli cioè che escono fuori
dalla penna del giudice. Ma esistono anche titoli esecutivi stragiudiziali, ossia documenti che
consentono l’esecuzione forzata anche senza che prima sia stata instaurata una causa e, quindi,
senza bisogno di accertamento del magistrato.
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Sono documenti a cui la legge conferisce un alto grado di certezza del diritto in esso menzionato
e, perciò, almeno in prima battuta, non necessitano dell’accertamento da parte del giudice. Resta
ferma, però, la possibilità, per il soggetto obbligato, di proporre opposizione in un momento suc-
cessivo (cosiddetta opposizione all’esecuzione forzata).
Un esempio di titolo esecutivo stragiudiziale è l’assegno. Con un assegno in mano, e per massi-
mo 6 mesi dalla sua emissione, il creditore può direttamente effettuare un pignoramento nei con-
fronti del debitore inadempiente. Spirato il semestre, l’assegno non è più titolo esecutivo, ma resta
sempre una prova scritta. Sicché colui che ne è in possesso può sempre presentarlo al giudice e
farsi rilasciare un decreto ingiuntivo. In buona sostanza, spirato tale termine, l’assegno è uguale
a un contratto o un’altra scrittura e c’è di nuovo bisogno di procurarsi un titolo esecutivo.
Così, la cambiale: qui, però, il termine è più lungo, non essendo di sei mesi ma di tre anni.
Le caratteristiche del titolo esecutivo
Si dice, normalmente, che il titolo esecutivo, per poter consentire l’esecuzione forzata, deve ave-
re ad oggetto un diritto:
– certo: non devono sussistere dubbi o controversie sulla sua esistenza. Si tratta di una certezza
relativa o apparente e non assoluta. Infatti il diritto a procedere ad esecuzione forzata può costitui-
re oggetto di contestazione mediante opposizione all’esecuzione. In questo caso, se il giudizio do-
vesse concludersi in favore di colui che lo contesta, il diritto potrà essere escluso o negato in tutto
o in parte;
– liquido: deve essere determinato nel suo ammontare ovvero, anche se non determinato nel suo
ammontare, il titolo deve contenere in sé i dati quantomeno necessari affinché la quantificazione si
possa desumere attraverso un mero calcolo matematico, sulla base di elementi certi e positivi
contenuti nel titolo stesso e non attinti da altre fonti.
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Una decisone, ad esempio, ha accertato la liquidità del credito interpretando il titolo esecutivo, te-
nendo conto dei dati, anche se non puntualmente indicati, assunti dal giudice come certi e deter-
minati e non controversi, quindi
acquisiti al processo, anche se implicitamente;
– esigibile: non può essere sottoposto né a condizioni, né a termini, né ad altro limite, ad esempio
una controprestazione. Se in origine vi era un termine ad esigere questo deve essere scaduto; se
il debitore aveva possibilità di scegliere fra più prestazioni esecutive deve aver effettuato la sua
scelta; se il creditore è tenuto a sua volta ad una controprestazione deve averla fatta, ecc. Spetta
al creditore dimostrare la scadenza del termine, l’avveramento della condizione sospensiva, o
l’adempimento da parte del creditore della controprestazione.
Quali sono i titoli esecutivi giudiziali
Dopo la spiegazione di cos’è un titolo esecutivo – un documento, cioè, senza il quale nessun cre-
ditore può procedere ad esecuzione forzata – possiamo ora addentrarci nell’elenco di quali sono
detti titoli.
Iniziamo dai titoli esecutivi giudiziali, quelli cioè emessi dal giudice:
– la sentenza, a prescindere dal fatto che sia divenuta definitiva (ossia passata in giudicato): an-
che la sentenza di primo grado o di secondo grado è un titolo esecutivo. Pur se viene avviato
l’appello, la sentenza di primo grado è titolo esecutivo e consente, nel frattempo, l’esecuzione for-
zata. Tuttavia la parte appellante può chiedere al giudice di secondo grado di “sospendere”
l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado (cosiddetta “sospensiva”), decisione che viene
presa alla prima udienza. Si deve trattare di una sentenza di condanna;
– il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo perché non è stata proposta opposizione entro 40 gior-
ni dalla sua notifica; oppure il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo;
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– il decreto di ingiunzione di pagamento in materia di concorso dei coniugi agli obblighi
di mantenimento dei figli;
– il decreto di trasferimento del bene espropriato;
– il decreto di liquidazione del compenso degli ausiliari del giudice come il consulente tecnico
d’ufficio (CTU), purché indichi la parte obbligata al pagamento;
– il decreto di ammortamento di assegno bancario;
– il decreto che dichiara esecutivo il lodo arbitrale;
– l’ordinanza di pagamento di somme non contestate (pronunciata in corso di causa, prima del-
la sentenza) e altre ordinanze di pagamento per prestazioni ritenute già provate, anche se il giudi-
zio non è ancora terminato;
– l’ordinanza di divisione ereditaria o di scioglimento di comunione;
– l’ordinanza provvisoria di concessione dell’assegno alimentare;
– l’ordinanza in materia di incidenti stradali che assegna alla vittima di un sinistro che si trovi in
stato di necessità una somma nei limiti dei 4/5 della presumibile entità del risarcimento che sarà
liquidato con la sentenza;
– l’ordinanza di convalida di licenza o sfratto;
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– l’ordinanza di rilascio di immobile;
– l’ordinanza di liquidazione di spese e competenze di arbitri;
– l’ordinanza del presidente del tribunale nel giudizio di separazione dei coniugi.
Quali sono i titoli esecutivi stragiudiziali
I titoli stragiudiziali, come detto, sono quelli che non provengono da un giudice. L’autore può esse-
re il notaio, un pubblico ufficiale (per esempio, il dirigente dell’Agenzia delle Entrate) oppure le par-
ti stesse (per es. la firma dell’assegno). Vediamo i più importanti:
– l’atto pubblico, redatto cioè da un notaio, che sancisce l’obbligo di pagare del denaro o di con-
segna o rilascio di beni mobili o immobili;
– la scrittura privata autenticata, relativamente alle obbligazioni di denaro in essa contenute;
– il verbale di negoziazione assistita da uno o più avvocati (per esempio in caso di separazione
consensuale, divorzio congiunto o modificazione delle condizioni di separazione e divorzio, sotto-
scritti dalle parti e dagli avvocati che le assistono, la cui autografia è certificata dagli stessi avvoca-
ti)
– il verbale di causa, sottoscritto dalle parti davanti al giudice, con cui le stesse trovano un accor-
do alla controversia;
– la cambiale tratta;
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– il vaglia cambiario;
– l’assegno bancario e circolare. L’assegno deve essere regolarmente compilato in ogni sua par-
te. L’assegno bancario (o postale) postdatato o in bianco, non può essere titolo esecutivo in quan-
to contrario a norme imperative;
– la cartella esattoriale (o anche detta cartella di pagamento) di Equitalia;
– l’avviso di accertamento immediatamente esecutivo emesso dall’Agenzia delle Entrate;
– l’attestato di credito della SIAE.
La formula esecutiva
In generale, per iniziare l’esecuzione forzata è necessario che il titolo esecutivo sia dotato della
c.d. formula esecutiva. La legge dice che il titolo deve essere “spedito in forma esecutiva”.
Tuttavia, alcuni titoli esecutivi particolari, indicati al paragrafo seguente, non necessitano di formu-
la esecutiva.
Tutti gli atti giudiziali sono soggetti al pagamento di imposta di registro. Nel caso cui si richieda
copia del provvedimento con formula esecutiva, “uso esecuzione” non è necessaria la previa liqui-
dazione dell’imposta di registro. Importante accorgimento tuttavia, è l’indicazione, nelle spese del
precetto, delle spese di registrazione da porsi a carico della parte esecutata.
La formula esecutiva è formata da una intestazione: “Repubblica Italiana – In nome della legge”
apposta sull’originale dell’atto dal cancelliere o dal notaio di rilascio, su richiesta di parte.
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All’intestazione segue la dicitura: “Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e
a chiunque spetti, di mettere in esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assi-
stenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richie-
sti“.
Come ottenere la formula esecutiva
Il creditore (o i suoi successori) deve richiedere la copia autentica con formula esecutiva dell’atto
da notificare:
– nel caso di sentenze o provvedimenti giudiziali emessi in suo favore: al cancelliere del tribunale
che ha emesso la sentenza o il provvedimento giudiziale. La copia autentica viene quindi rilasciata
con l’apposizione del sigillo della cancelleria. L’originale rimane presso la cancelleria.
– nel caso di atto del notaio o di altro pubblico ufficiale autorizzato: al notaio o al pubblico ufficiale
che lo ha ricevuto. L’originale rimane conservato presso il notaio o il pubblico ufficiale stesso.
Salvo che ricorrano giusti motivi (ad esempio, sottrazione, soppressione, smarrimento, distruzione
e deterioramento della prima copia, la legge vieta di rilasciare alla stessa parte più copie autenti-
che del medesimo titolo munite di formula esecutiva. La parte che ritiene di avervi diritto, deve
presentare apposito ricorso in cui enuncia i motivi di tale richiesta. Esso è presentato al capo
dell’ufficio che ha pronunciato il provvedimento oppure, negli altri casi, al presidente del tribunale
nella cui circoscrizione l’atto fu formato. Sull’istanza si provvede con decreto.
In caso di provvedimento giudiziario emesso all’estero è compito della autorità giudiziaria curare
l’apposizione della formula esecutiva dopo aver verificato l’autenticità del titolo.
La notifica del titolo esecutivo
Il creditore interessato deve notificare al debitore il titolo esecutivo a cui è stata apposta la formula
esecutiva, avvalendosi dell’ufficiale giudiziario. La notifica può anche essere contestuale a quella
dell’atto di precetto, ad esempio in caso di sentenza provvisoriamente esecutiva o di decreto in-
giuntivo sempre provvisoriamente esecutivo.
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Se il titolo è una sentenza si effettua di regola una doppia notifica: una alla parte personalmente
ai fini della esecuzione e una al procuratore costituito ai fini del decorso del termine breve per
l’impugnazione. La doppia notifica non è necessaria se la parte si è costituita personalmente o se
è rimasta contumace.
In caso di contrasto tra la copia notificata del titolo spedito in forma esecutiva e l’originale dello
stesso, nei confronti del debitore precettato, fa fede fino a querela di falso la copia notificata.
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2.12 Cos’è un atto di precetto
Prima di procedere ad esecuzione forzata e al pignoramento dei beni mobili, immobili, sti-
pendi, pensioni e crediti del debitore, il creditore deve sempre procedere alla notifica di una
intimazione di pagamento, che viene chiamata “atto di precetto”.
Il cosiddetto precetto è un atto che il creditore deve notificare al proprio debitore prima di iniziare
un’esecuzione forzata. Sia che egli intenda, dunque, procedere ad espropriare i beni mobili del
debitore (pignoramento mobiliare), sia gli immobili (pignoramento immobiliare) o a pignorare
il conto in banca o il quinto dello stipendio o della pensione (pignoramento presso terzi), il credi-
tore deve sempre provvedere prima a far pervenire, alla residenza dell’intimato, tale atto di precet-
to.
Solo nel caso di esecuzione forzata da parte dell’Esattore (uno su tutti è Equitalia) non c’è biso-
gno di notificare il precetto prima dell’esecuzione forzata.
Benché notificato attraverso il servizio degli ufficiali giudiziari del tribunale, il contenuto del pre-
cetto è una normale diffida scritta normalmente dall’avvocato del creditore e consiste in una inti-
mazione al debitore ad adempiere entro 10 giorni dal suo ricevimento.
Solo dopo che siano trascorsi 10 giorni dalla notifica del precetto, il creditore può procedere in via
esecutiva.
La scelta, che alcune volte viene fatta dal debitore, di non ritirare l’atto alla posta si rivela una
pessima strategia: per la legge, infatti, l’atto non ritirato si considera comunque notificato una volta
decorsa la “giacenza”, ossia dopo 10 giorni dall’invio, al debitore, di una seconda raccomandata,
in cui lo si avvisa del primo tentativo di notifica non andato a buon fine. Con la conseguenza che il
debitore che non ha ritirato il precetto non è neanche nella condizione di verificarne il contenuto
ed, eventualmente, contestarlo.
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Il precetto ha una validità di 90 giorni: pertanto se entro tale termine il creditore non effettua il pi-
gnoramento, ogni esecuzione forzata è invalida. Tuttavia, ben può il creditore procedere alla noti-
fica di un nuovo atto di precetto e far decorrere da capo i 90 giorni.
La notifica del precetto deve essere stata preceduta da quella del titolo, ossia del documento che
riporta le ragioni di credito del creditore. Tuttavia, spesso, il titolo e il precetto possono essere noti-
ficati con un solo atto (si troveranno cioè spillati l’uno con l’altro). È questo il caso delle sentenze:
in tale ipotesi, infatti, il creditore preferisce – e può farlo – notificare una sola volta il titolo insieme
al precetto.
Nel caso invece di decreto ingiuntivo, quest’ultimo viene notificato sempre prima del precetto (a
meno che non sia provvisoriamente esecutivo).
Nel caso invece di assegni e cambiali, il loro contenuto viene normalmente “trascritto” (ossia co-
piato) nell’atto di precetto. Per cui, in tal caso, il precetto non è mai anticipato dalla notifica del tito-
lo poiché il titolo è incluso nel precetto stesso.
Ogni volta che il precetto sia irregolare o contenga delle somme non dovute, il debitore può op-
porsi attraverso un atto di ricorso (si parla di due tipi diversi di opposizione: l’opposizione
all’esecuzione e l’opposizione agli atti dell’esecuzione). In questo modo si inizia una vera e
propria causa.
Se intende contestare la regolarità formale del precetto, il debitore deve agire entro 20 giorni dalla
notifica dello stesso; diversamente, se intende contestare l’inesistenza del proprio debito e ogni al-
tra questione attinente alla sostanza del precetto, non ha termini entro cui agire (a meno che
l’esecuzione non sia già terminata).
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IN PRATICA
Con l’atto di precetto, il debitore viene messo a conoscenza che il creditore, non prima di 10 gior-
ni, ma non oltre 90, inizierà un’esecuzione forzata (mobiliare, immobiliare o presso terzi). Il debito-
re può sempre opporsi contro il precetto. Tuttavia, è necessario che l’opposizione venga avviata
entro 20 giorni dalla notifica se essa concerne vizi formali del precetto.
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CAPITOLO III – INFORMAZIONI UTILI IN COSTANZA E AL TERMINE
DEL GIUDIZIO
3.1 Diritti di copia atti giudiziari: tutti gli importi del 2016
(Maria Monteleone)
Tutti gli importi aggiornati dei diritti di copia, urgente e non, e della certificazione di con-
formità degli atti nel processo dinanzi a tribunale, giudice di pace e commissioni tributarie.
Il rilascio di copie di atti giudiziari, con o senza attestazione di conformità all’originale, comporta il
pagamento dei cosiddetti diritti di copia (rientranti tra le tasse sugli atti giudiziari).
Di seguito sono gli importi aggiornati al 2016 [1] per il processo civile, penale e tributario.
Le schede vengono riportate a seconda delle seguenti ipotesi:
– tribunale civile e penale,
– giudice di pace
– processo tributario.
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Tribunale civile e penale
Diritti di copia senza certificazione di conformità su supporto cartaceo:
Numero pa-
gine Copie non urgenti Copie urgenti
1-4 1,44 4,32
5-10 2,88 8,64
11-20 5,76 17,28
21-50 11,54 34,62
51-100 23,07 69,21
Oltre 100
23,07+ 9,62 ogni ulteriori 100 pagine o
frazioni di 100
69,21+ 28.86 ogni ulteriori 100 pagine
o frazioni di 100
L’importo del diritto di copia, aumentato di dieci volte, è dovuto per gli atti comunicati o notificati in
cancelleria nei casi in cui la comunicazione o la notificazione al destinatario non si è resa pos-
sibile per causa a lui imputabile (art. 16 comma 14 D.L. 179/2012 – Legge 221/2012- art. 40 T.U.
spese giustizia) dal 20/10/2012.
Il diritto di copia senza certificazione di conformità non è dovuto dalle parti che si sono costituite
con modalità telematiche ed accedono con le medesime modalità al fascicolo (art. 269 comma 1
bis T.U. spese Giustizia). Il rilascio di copie con urgenza si intende entro due giorni.
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Diritti di copia con certificazione di conformità su supporto cartaceo:
Numero
pagine Diritti di copia
Certificazione di
conformità
Copie non
urgenti Copie urgenti
1-4 1,92 9,62 11,44 34,62
5-10 3,86 9,62 13,48 40,44
11-20 5,76 9,62 15,38 46,14
21-50 9,62 9,62 19,24 57,72
51-100 19,23 9,62 28,85 86,55
Oltre 100
19,23 + 11,54 ogni ulte-
riori 100 pagine o fra-
zioni di 100 9,62
28,25 +
11,54
86,55 + 34,62 ogni ulte-
riori 100 pagine o fra-
zioni di 100
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Diritti di copia su supporto elettronico:
Numero pagine Copie semplici Copie autentiche
1-4 0,96 7,69
5-10 1,92 8,98
11-20 3,84 10,25
21-50 7,69 12,82
51-100 15,38 19,23
Oltre 100 19,23 + 7,69 per ogni ulteriori 100 pagine o frazioni di 100
Giudice di pace
Diritti di copia senza certificazione di conformità su supporto cartaceo:
Numero pagine Copie non urgenti Copie urgenti
1-4 0,72 2,16
5-10 1,44 4,32
11-20 2,88 8,64
21-50 5,77 17,31
51-100 11,54 34,62
Oltre 100 11,54 + 34,62 + 14,43 ogni ulteriori 100 pagine o frazioni di 100
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Diritti di copia con certificazione di conformità su supporto cartaceo:
Numero pagine Copie non urgenti Copie urgenti
1-4 5,77 17,31
5-10 6,74 20,22
11-20 7,69 23,07
21-50 9,62 28,86
51-100 14,43 43,29
Oltre 100 14,43 + 43,29 +
Processo tributario
Diritti di copia senza certificazione di conformità su supporto cartaceo:
Numero pagine Diritti di copia
1-4 1,50
5-10 3,00
11-20 6,00
21-50 12,00
51-100 25,00
Oltre 100 25,00 + 15,00 ogni ulteriori 100 pagine o frazioni di 100
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Diritti di copia con certificazione di conformità su supporto cartaceo:
Numero
pagine Diritti di copia
Certificazione di
conformità Totale
1-4 1,50 9,00 10,50
5-10 3,00 9,00 12,00
11-20 6,00 9,00 15,00
21-50 12,00 9,00 21,00
51-100 25,00 9,00 34,00
Oltre 100
25,00 + 15,00 ogni ulteriori
100 pagine o frazioni di 100 9,00
€ 34,00 + € 15,00 ogni ulteriori
100 pagine o frazioni di 100
[1] Aggiornamento degli importi con D.M. Giustizia 7.5.15, in vigore dal 15.07.2015.
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3.2 Parcella avvocato: come calcolare tariffe forensi e contributo unificato
Spese, diritti, onorari degli avvocati, le parcelle e il decreto ministeriale, gli scaglioni, il con-
tributo unificato, le spese, le tasse, l’indennità di trasferta.
Tariffe e avvocati, un binomio spesso incerto per vari elementi: così il timore della parcella di un
avvocato fa desistere spesso, numerose persone, dall’intraprendere una causa e, di conseguen-
za, dal difendere i propri diritti. Sebbene esistono ormai diversi settori in cui la parte può accedere
a una sorta di giustizia anche senza l’assistenza di un legale (si pensi alla possibilità di mediazio-
ne, di ricorso ad organismi di composizione della lite come le conciliazioni con gli operatori telefo-
nici, le società elettriche e del gas, l’arbitro bancario per le controversie con la banca, ecc.), è an-
che vero che ciò che non si conosce spaventa di più di ciò che è noto. Ecco quindi, questa breve
guida per comprendere a quanto può ammontare la parcella di un avvocato.
La variabili
Il primo punto da tenere in considerazione è che non esistono tariffe fisse e ciò per due ragioni:
– innanzitutto ogni avvocato è libero di far pagare quanto crede, senza essere ormai vincolato
(come in passato) da tariffari prestabiliti (il decreto Bersani ha cancellato l’obbligo delle tariffe mi-
nime);
– in secondo luogo, sulla parcella pesano tre variabili: la difficoltà del lavoro da svolgere,
la durata del giudizio (vi sono alcune cause che durano di più di altre) e, soprattutto, le tasse che
bisogna pagare in anticipo. La voce più consistente di queste ultime è data dal contributo unifi-
cato.
Cerchiamo quindi di analizzare tutte le voci che compongono la parcella dell’avvocato.
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1 | IL CONTRIBUTO UNIFICATO
In verità, il contributo unificato viene pagato, per comodità, all’avvocato che poi lo versa allo Stato
(in via telematica o acquistando il contributo in un normale Tabacchi). Si tratta, tuttavia, di una
spesa che può sostenere direttamente il cliente in prima persona, senza dover necessariamente
consegnare la somma al proprio difensore.
I valori del contributo unificato sono determinati sulla base di scaglioni, a seconda del valore della
causa:
– per i processi di primo grado si parte da un minimo di 43 euro per le cause di valore fino a
1.100,00 euro per arrivare a 1.686,00 per le cause di valore superiore a 520.000,00;
– per i processi di secondo grado si parte da un minimo di 64,50 euro per le cause di valore fino
a 1.100,00 euro per arrivare a 2.529,00 per le cause di valore superiore a 520.000,00;
– per i processi in Cassazione si parte da un minimo di 86 euro per le cause di valore fino a
1.100,00 euro per arrivare a 3.372,00 per le cause di valore superiore a 520.000,00.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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Ecco la tabella del contributo unificato 2016:
Processo civile ordinario
Valore 1° grado Impugnazione Cassazione
Per i processi di valore fino a € 1.100,00 € 43,00 € 64,50 € 86,00
Per i processi di valore superiore a € 1.100,00
e fino a € 5.200,00 € 98,00 € 147,00 € 196,00
Per i processi di valore superiore a € 5.200,00
e fino a € 26.000,00 € 237,00 € 355,50 € 474,00
Per i processi di valore superiore a €
26.000,00 e fino a € 52.000,00 € 518,00 € 777,00 € 1.036,00
Per i processi di valore superiore a €
52.000,00 e fino a € 260.000,00 € 759,00 € 1.138,50 € 1.518,00
Per i processi di valore superiore a €
260.000,00 e fino a € 520.000,00 € 1.214,00 € 1.821,00 € 2.428,00
Per i processi di valore superiore a €
520.000,00 € 1.686,00 € 2.529,00 € 3.372,00
Il contributo è aumentato della metà per i giudizi di impugnazione (quindi non solo l’Appello ma
anche il Reclamo, come confermato da recente circolare ministeriale) ed è raddoppiato per i pro-
cessi dinanzi alla Corte di Cassazione.
Attenzione:
Nell’atto introduttivo del giudizio:
– Ove il difensore non indichi il proprio indirizzo di posta elettronica
certificata e il proprio numero di fax ai sensi degli artt. 125,co. 1 c.p.c.
e 16 co. 1 bis, del D.Lgs. n. 546/1992
– ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale
Il C.U. è aumentato della
metà
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2 | IL COMPENSO DELL’AVVOCATO: LA PARCELLA VERA E PROPRIA
C’è poi il compenso vero e proprio per l’avvocato. Come detto, esso è stato liberalizzato.
L’avvocato potrebbe addirittura svolgere gratuitamente la propria prestazione senza più incorrere
né in sanzioni deontologiche che in problemi fiscali.
La parcella deve essere necessariamente concordata prima del conferimento dell’incarico. Se così
non dovesse avvenire, si applicherebbero dei parametri ministeriali che vedremo a breve.
L’avvocato deve prima informare il cliente circa il livello di complessità dell’incarico, fornendo le in-
formazioni utili sugli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell’incarico.
Deve indicare al cliente anche i dati della propria polizza assicurativa per i danni provocati
nell’esercizio dell’attività professionale (compresa quella per la custodia di documenti, somme di
denaro, titoli e valori ricevuti in deposito dai clienti).
L’accordo tra avvocato e cliente può essere stipulato per iscritto o anche oralmente.
È obbligatorio il preventivo?
Il preventivo scritto è obbligatorio solo se richiesto dal cliente. Esso dovrà indicare la prevedibile
misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso
professionale.
Nella redazione del preventivo vi sono degli oneri necessari, sempre presenti nel naturale svolgi-
mento della prestazione (come la redazione dell’atto introduttivo del giudizio o delle memorie o la
partecipazione alle udienze); gli oneri eventuali sono invece per loro natura imprevedibili, in quan-
to legati all’andamento del processo (sono tali ad esempio le consulenze tecniche o la chiamata di
un terzo).
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Forme particolari di accordi
Sono ammesse le seguenti pattuizioni:
– a tempo;
– in misura forfetaria;
– secondo una convenzione prestabilita avente ad oggetto uno o più affari;
– in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione;
– per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività;
– a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a
livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.
Sono invece vietati i patti con i quali l’avvocato percepisce come compenso in tutto o in parte
una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa. Si tratta del cosiddetto
divieto del “patto di quota lite”.
Se manca l’accordo preventivo
Nel caso in cui manchi un accordo tra avvocato e cliente si applicano i nuovi parametri forensi. I
parametri si applicano nelle seguenti ipotesi:
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– quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non è stato determinato in forma
scritta;
– in ogni caso di mancata determinazione consensuale;
– in caso di liquidazione giudiziale dei compensi: si pensi al caso della condanna alle spese nei
confronti della parte soccombente;
– quando la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose pre-
viste dalla legge.
Ecco le tabelle:
Sommario
1. Giudice di pace
2. Giudizi ordinari e sommari di cognizione innanzi al tribunale
3. Cause di lavoro
4. Cause di previdenza
5. Procedimenti per convalida locatizia
6. Atto di precetto
7. Procedimenti di volontaria giurisdizione
8. Procedimenti monitori
9. Procedimenti di istruzione preventiva
10. Procedimenti cautelari
11. Giudizi innanzi alla corte dei conti
12. Giudizi innanzi alla corte di appello
13. Giudizi innanzi alla corte di cassazione e alle giurisdizioni superiori
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14. Giudizi innanzi alla corte costituzionale, alla corte europea, alla corte di giustizia UE
15. Giudizi penali
16. Procedure esecutive mobiliari
17. Procedure esecutive presso terzi, per consegna e rilascio, in forma specifica
18. Procedure esecutive immobiliari
19. Iscrizione ipotecaria / affari tavolari
20. Procedimenti per dichiarazione di fallimento
21. Giudizi innanzi al tribunale amministrativo regionale
22. Giudizi innanzi al consiglio di stato
23. Giudizi innanzi alla commissione tributaria provinciale
24. Giudizi innanzi alla commissione tributaria regionale
25. Prestazioni di assistenza stragiudiziale
26. Arbitrato
1. GIUDICE DI PACE
Valore
da € 0,01
a € 1.100,00
da € 1.100,01
a € 5.200,00
da € 5.200,01
a € 26.000,00
1. Fase di studio della controversia 65,00 225,00 405,00
2. Fase introduttiva del giudizio 65,00 240,00 335,00
3. Fase istruttoria e/o di trattazione 65,00 335,00 540,00
4. Fase decisionale 135,00 405,00 710,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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2. GIUDIZI ORDINARI E SOMMARI DI COGNIZIONE INNANZI AL TRIBUNALE
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a €
5.200,00
da € 5.200,01
a € 26.000,00
da €
6.000,01
a €
52.000,00
da € 2.000,01
a € 60.000,00
da €
0.000,01
a €
20.000,00
1. Fase di studio
della controver-
sia 125,00 405,00 875,00 1.620,00 2.430,00 3.375,00
2. Fase introdut-
tiva del giudizio 125,00 405,00 740,00 1.147,00 1.550,00 2.227,00
3. Fase istrutto-
ria e/o di tratta-
zione 190,00 810,00 1.600,00 1.720,00 5.400,00 9.915,00
4. Fase decisio-
nale 190,00 810,00 1.620,00 2.767,00 4.050,00 5.870,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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3. CAUSE DI LAVORO
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a €
26.000,00
da €
6.000,01 a €
52.000,00
da €
2.000,01 a €
60.000,00
da €
0.000,01 a €
20.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 200,00 846,00 1.735,00 3.090,00 4.536,00 6.350,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 120,00 405,00 740,00 1.145,00 1.620,00 2.225,00
3. Fase istrutto-
ria e/o di tratta-
zione 120,00 540,00 1.116,00 1.790,00 2.550,00 3.450,00
4. Fase deci-
sionale 170,00 710,00 1.540,00 2.790,00 4.050,00 5.990,00
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4. CAUSE DI PREVIDENZA
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da€
26.000,01a €
52.000,00
da€
52.000,01 a
€ 260.000,00
€ 260.000,01
a €
520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 125,00 405,00 885,00 1.620,00 2.430,00 3.375,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 115,00 405,00 740,00 1.147,00 1.620,00 2.225,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 170,00 810,00 1.585,00 2.565,00 3.645,00 4.925,00
4. Fase deci-
sionale 235,00 875,00 1.925,00 3.500,00 3.950,00 7.490,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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5. PROCEDIMENTI PER CONVALIDA LOCATIZIA
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 170,00 505,00 875,00 1.620,00 2.360,00 3.375,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 170,00 470,00 675,00 1.010,00 1.350,00 1.485,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 40,00 135,00 200,00 335,00 470,00 675,00
4. Fase deci-
sionale 135,00 405,00 710,00 1.280,00 1.820,00 2.700,00
6. ATTO DI PRECETTO
Valore
da € 0 a €
5.200,00
da € 5.200,01 a
€ 26.000,00
da € 26.000,01
a € 52,000,00
da € 52.000,01 a
€ 260.000,00
da € 260.000,01
a € 520.000,00
compenso 135,00 225,00 315,00 405,00 540,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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7. PROCEDIMENTI DI VOLONTARIA GIURISDIZIONE
valore
da € 0 a €
5.200,00
da € 5.200,01 a
€ 26.000,00
da € 26.000,01
a € 52,000,00
da € 52.000,01 a
€ 260.000,00
da € 260.000,01
a € 520.000,00
compenso 405,00 1.350,00 2.225,00 3.170,00 4.320,00
8. PROCEDIMENTI MONITORI
valore
da € 0 a €
5.200,00
da € 5.200,01
a € 26.000,00
da €
26.000,01 a €
52,000,00
da € 52.000,01
a € 260.000,00
da € 260.000,01
a € 520.000,00
Fase di studio,
istruttoria, con-
clusiva 450,00 540,00 1.305,00 2.135,00 4.185,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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9. PROCEDIMENTI DI ISTRUZIONE PREVENTIVA
Valore
da € 0 a €
5.200,00
da € 5.200,01
a € 26.000,00
da €
26.000,01 a €
52.000,00
da € 52.000,01
a € 260.000,00
da € 260.000,01
a € 520.000,00
Fase di studio
della controver-
sia 200,00 540,00 945,00 1.080,00 2.025,00
Fase introduttiva
del giudizio 270,00 675,00 750,00 945,00 1.385,00
Fase istruttoria 335,00 1.010,00 1.215,00 1.620,00 2.225,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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10. PROCEDIMENTI CAUTELARI
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
€ 260.000,01
a €
520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 200,00 540,00 945,00 1.690,00 2.430,00 3.510,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 135,00 335,00 640,00 810,00 1.145,00 1.485,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 200,00 810,00 1.147,00 1.890,00 2.700,00 3.780,00
4. Fase deci-
sionale 100,00 370,00 605,00 1.145,00 1.687,00 2.430,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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11. GIUDIZI INNANZI ALLA CORTE DEI CONTI
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 170,00 510,00 875,00 1.690,00 2.360,00 3.510,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 100,00 305,00 470,00 675,00 1.010,00 1.350,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 100,00 335,00 540,00 875,00 1.215,00 1.690,00
4. Fase deci-
sionale 170,00 575,00 1.010,00 1.820,00 2.630,00 3.850,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
Pagina 106 di 126
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12. GIUDIZI INNANZI ALLA CORTE DI APPELLO
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 135,00 510,00 1.080,00 1.960,00 2.835,00 4.180,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 135,00 510,00 877,00 1.350,00 1.820,00 2.430,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 170,00 945,00 1.755,00 2.900,00 4.120,00 5.600,00
4. Fase deci-
sionale 200,00 810,00 1.820,00 3.305,00 4.860,00 6.950,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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13. GIUDIZI INNANZI ALLA CORTE DI CASSAZIONE E ALLE GIURISDIZIONI SUPERIORI
Valore
a € 0,01 a
€
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 240,00 675,00 1.215,00 2.225,00 3.240,00 4.725,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 270,00 740,00 1.080,00 1.875,00 2.360,00 3.105,00
3. Fase deci-
sionale 135,00 370,00 640,00 1.150,00 1.690,00 2.430,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
Pagina 108 di 126
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14. GIUDIZI INNANZI ALLA CORTE COSTITUZIONALE, ALLA CORTE EUROPEA, ALLA
CORTE DI GIUSTIZIA UE
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 240,00 875,00 1.890,00 3.510,00 5.130,00 7.425,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 200,00 740,00 1.280,00 1.960,00 2.767,00 3.700,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 135,00 675,00 1.280,00 2.090,00 2.970,00 4.050,00
4. Fase deci-
sionale 135,00 740,00 1.280,00 2.360,00 3.440,00 4.930,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
Pagina 109 di 126
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15. GIUDIZI PENALI
Fasi del giudizio
1. studio della
controversia
2.fase introduttiva
del giudizio
3.fase istruttoria e/o
dibattimentale
4. fase deci-
sionale
Giudice di Pace 360,00 450,00 720,00 630,00
Indagini preliminari 810,00 630,00 990,00 1.170,00
Indagini difensive 810,00 1.350,00
Cautelari personali 360,00 1.170,00 1.350,00
Cautelari reali 360,00 1.170,00 1.350,00
GIP e GUP 810,00 720,00 990,00 1.350,00
Tribunale monocrati-
co 450,00 540,00 1.080,00 1.350,00
Tribunale collegiale 450,00 720,00 1.350,00 1.350,00
Corte di Assise 720,00 1.350,00 2.250,00 2.700,00
Tribunale di Sorve-
glianza 450,00 900,00 1.350,00 1.350,00
Corte di Appello 450,00 900,00 1.350,00 1.350,00
Corte di Assise di
Appello 720,00 1.890,00 2.160,00 2.225,00
Corte di Cass. E
Giur. Sup. 900,00 2.520,00 2.610,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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16. PROCEDURE ESECUTIVE MOBILIARI
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 120,00 350,00 526,00 820,00 1.110,00 1.460,00
2. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 60,00 175,00 290,00 470,00 700,00 935,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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17. PROCEDURE ESECUTIVE PRESSO TERZI, PER CONSEGNA E RILASCIO, IN FORMA
SPECIFICA
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a €
26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase intro-
duttiva 105,00 315,00 526,00 820,00 1.110,00 1.460,00
2. Fase di
trattazione e
conclusiva 225,00 540,00 810,00 1.295,00 1.835,00
18. PROCEDURE ESECUTIVE IMMOBILIARI
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a €
26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase intro-
duttiva 140,00 430,00 650,00 1.000,00 1.365,00 1.800,00
2. Fase istrut-
toria e/o di
trattazione 72,00 285,00 430,00 645,00 935,00 1.220,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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19. ISCRIZIONE IPOTECARIA / AFFARI TAVOLARI
valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a €
26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
compenso 65,00 270,00 405,00 675,00 945,00 1.280,00
20. PROCEDIMENTI PER DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a €
26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
compenso 160,00 590,00 860,00 1.400,00 1.995,00 2.750,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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21. GIUDIZI INNANZI AL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 170,00 605,00 1.080,00 1.955,00 3.240,00 4.185,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 170,00 540,00 875,00 1.350,00 1.820,00 2.430,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 100,00 605,00 945,00 1.550,00 2.160,00 2.970,00
4. Fase deci-
sionale 270,00 1.010,00 1.820,00 3.305,00 4.790,00 6.950,00
5. Fase caute-
lare 200,00 540,00 1.010,00 1.820,00 2.630,00 3.780,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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22. GIUDIZI INNANZI AL CONSIGLIO DI STATO
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 170,00 605,00 1.215,00 2.160,00 3.240,00 4.725,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 170,00 605,00 1.010,00 1.550,00 2.160,00 2.900,00
3. Fase Istrut-
toria e/o di trat-
tazione 100,00 340,00 675,00 1.010,00 1.485,00 2.025,00
4. Fase deci-
sionale 135,00 340,00 675,00 1.145,00 1.690,00 2.430,00
5. Fase caute-
lare 200,00 605,00 1.010,00 1.800,00 2.295,00 3.915,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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23. GIUDIZI INNANZI ALLA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 170,00 540,00 945,00 1.685,00 2.430,00 3.510,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 100,00 340,00 540,00 810,00 1.145,00 1.485,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 85,00 270,00 470,00 945,00 1.350,00 1.955,00
4. Fase deci-
sionale 170,00 875,00 1.350,00 2.090,00 3.970,00 4.115,00
5. Fase caute-
lare 135,00 405,00 675,00 1.280,00 1.820,00 2.630,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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24. GIUDIZI INNANZI ALLA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE
Valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a
€ 26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
1. Fase di stu-
dio della con-
troversia 170,00 605,00 1.080,00 1.955,00 2.900,00 4.185,00
2. Fase intro-
duttiva del giu-
dizio 100,00 405,00 605,00 1.010,00 1.350,00 1.820,00
3. Fase istrut-
toria e/o di trat-
tazione 100,00 405,00 740,00 1.350,00 1.955,00 2.900,00
4. Fase deci-
sionale 170,00 875,00 1.350,00 2.360,00 3.105,00 4.320,00
5. Fase caute-
lare 135,00 470,00 810,00 1.485,00 2.160,00 3.170,00
25. PRESTAZIONI DI ASSISTENZA STRAGIUDIZIALE
valore
da € 0,01
a €
1.100,00
da €
1.100,01 a
€ 5.200,00
da €
5.200,01 a €
26.000,00
da €
26.000,01 a
€ 52.000,00
da €
52.000,01 a €
260.000,00
da €
260.000,01 a
€ 520.000,00
compenso 270,00 1.215,00 1.890,00 2.295,00 4.320,00 5.870,00
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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26. ARBITRATO
valore
da € 0,01 a €
26.000,00
da € 26.000,01 a €
52.000,00
da € 52.000,01 a €
260.000,00
da € 260.000,01 a €
520.000,00
compenso 1.620,00 4.050,00 7.085,00 16.200,00
3 | SPESE VIVE
L’avvocato potrebbe sostenere altre spese che ovviamente sono a carico del cliente. Si tratta in
particolare di:
– indennità di trasferta;
– richiesta di notifica degli atti (di norma 11 euro ad atto);
– notifiche di intimazione ai testimoni;
– spese di consulenza di parte, di custodia, ecc.;
– quelle dei corrispondenti fuori sede: è il cosiddetto domiciliatario, nel caso in cui l’avvocato sia
di un foro diverso da quello ove si svolge la causa;
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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– quelle anteriori al processo sostenute per un accertamento tecnico preventivo o per perizie stra-
giudiziali;
– quelle successive alla sentenza, come quelle di richiesta copie e notifica della sentenza;
– quelle per certificati, visure camerali e iscrizioni ipotecarie.
– le richieste di copie di atti e di certificati dalle cancellerie (anche qui gli importi sono bassi e non
superano qualche decina di euro).
Per essere rimborsate queste spese devono essere documentate in relazione alle singole presta-
zioni.
Sono infine dovute la spese forfetarie, nella misura del 15% del compenso totale per la prestazio-
ne.
Indennità di trasferta
Se l’avvocato per eseguire il proprio incarico si è trasferito fuori del luogo in cui svolge la profes-
sione in modo permanente ha diritto al rimborso delle spese sostenute e dell’indennità di trasferta.
Si tiene conto del soggiorno documentato dal professionista, con il limite di un albergo quattro stel-
le, unitamente, di regola, a una maggiorazione del 10% quale rimborso delle spese accessorie. In
caso di utilizzo di autoveicolo proprio, per le spese di viaggio è riconosciuta un’indennità chilome-
trica pari di regola a 1/5 del costo del carburante al litro, oltre alle spese documentate di pedaggio
autostradale e parcheggio.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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4 | LE TASSE DELL’AVVOCATO
Sono a carico del cliente le tasse sulla parcella. In particolare:
– il contributo della cassa previdenza avvocati applicato sul compenso (CPA) pari al 4%
sull’onorario
– l’IVA sul compenso pari al 22% della somma tra onorario e CPA.
Cassa previdenza avvocati (CPA)
La CPA è il contributo previdenziale dovuto dagli avvocati alla propria cassa di previdenza. Essa è
dovuta in percentuale sul compenso richiesto al cliente (4%) (art. 11 L. 576/80).
LA CPA costituisce un costo per il legale e quindi rientra tra le spese che ricadono sul cliente. Es-
so è ripetibile dal soccombente, così come gli altri costi del procedimento.
In caso di contrasto sulla parcella
In mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio
dell’ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione.
In mancanza di accordo il consiglio, su richiesta dell’iscritto, può rilasciare un parere sulla congrui-
tà della pretesa dell’avvocato in relazione all’opera prestata. Il giudice adito per ingiungere il pa-
gamento al cliente è vincolato al parere del Consiglio dell’ordine. Tuttavia, se il cliente debitore fa
opposizione al decreto ingiuntivo, tale parere non è più vincolante in quanto non prova l’effettiva
esecuzione delle prestazioni in esso indicate.
LE CAUSE IN TRIBUNALE
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Revoca o rinuncia al mandato
Se il cliente revoca il mandato, all’avvocato è dovuto il rimborso delle spese ed il compenso per
l’attività svolta.
Se invece l’avvocato rinuncia al mandato, ha diritto al rimborso delle spese e al compenso per
l’attività svolta, nei limiti del risultato utile che ne sia derivato al cliente.
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3.3 Come revocare l’avvocato
(Rossella Blaiotta)
Revoca del mandato, la formula della lettera da inviare all’avvocato, il codice deontologico,
il rapporto cliente-professionista.
Il cliente è sempre libero di rinunciare all’avvocato precedentemente nominato, revocandogli il
mandato professionale. Il rapporto che lega l’avvocato al proprio assistito è infatti basato sulla f i-
ducia personale e professionale reciproca e nel momento in cui questa viene a mancare è neces-
sario prendere provvedimenti in merito.
La revoca dell’avvocato, da parte del cliente, può avvenire per qualsiasi ragione e non deve es-
sere necessariamente motivata, né è dovuto un risarcimento per la revoca “senza preavviso”. Di
norma, la revoca avviene per la perdita di fiducia.
Il vincolo che lega le due parti scaturisce dal contratto di mandato, un contratto secondo il quale
una parte, il mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di un’altra parte, il
mandante. L’assistito, informato circa le modalità di azione, le strategie difensive approntate e su
tutto quanto riguarda lo svolgimento dell’incarico, sottoscrive la procura alle liti, in ambito civilisti-
co, e nomina l’avvocato, in ambito penalistico. In entrambi i casi, tale momento preliminare è di
estrema importanza perché determina la volontà del cliente di affidarsi all’operato del professioni-
sta.
Il codice deontologico forense, ossia il codice che indica i criteri di comportamento dell’avvocato
nello svolgimento della propria attività professionale, mette in evidenza come la fiducia reciproca
rappresenti l’elemento cardine del rapporto giuridico con l’assistito e, come tale, in mancanza, la
sua prosecuzione è veramente impossibile.
In costanza di rapporto, qualora il cliente non sia soddisfatto dell’attività svolta dal professionista,
perché, ad esempio, lamenta di non ricevere sufficienti informazioni circa l’andamento del proprio
procedimento giuridico o perché non approva il comportamento tenuto, può decidere di revocar-
lo.
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Per la revoca è sufficiente una dichiarazione con la quale si esprime la non volontà di proseguire il
percorso intrapreso. Pertanto detta revoca dell’avvocato può avvenire sia in forma scritta che in
forma orale ma, per ovvi motivi di opportunità, si preferisce generalmente utilizzare la forma scrit-
ta, mediante l’invio di lettera raccomandata a/r, in modo da avere riscontro sul ricevimento, oppu-
re email con posta elettronica certificata. Diversamente si può stilare una lettera scritta e con-
segnarla a mani del professionista, avendo cura di farsi firmare una copia per conoscenza. La
comunicazione, redatta dal cliente e trasmessa al professionista, rappresenta l’atto attraverso il
quale si mette fine al rapporto giuridico sorto tra le parti.
Occorre precisare che, una volta inoltrata la revoca, è obbligo del cliente corrispondere
all’avvocato gli onorari maturati, mentre, è obbligo dell’avvocato la restituzione della documen-
tazione relativa all’incarico e in caso di successive comunicazioni, la loro immediata trasmissione
alle parti interessate. L’avvocato non può subordinare la restituzione delle “carte” al pagamento
del proprio onorario: ciò costituirebbe un comportamento illecito, sanzionabile all’ordine degli av-
vocati di competenza territoriale. Inoltre, una volta revocato il mandato processuale, l’avvocato
precedente deve fornire al cliente una breve sintesi dello stato della causa in cui si trova (indica-
zione del giudice, del numero di ruolo, della prossima udienza e dell’attività svolta), in modo da
consentire a chi lo sostituirà una pronta difesa del cliente.
Di seguito, un esempio di revoca di avvocato.
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LETTERA DI REVOCA DEL MANDATO
(Nome e Cognome) Preg.mo avv._______
(indirizzo del cliente)
Lettera Raccomandata A/R, __/__/____
Oggetto: Revoca dell’incarico
Preg.mo Avv.______,
con riferimento all’incarico da me conferitoLe in data __/__/____ , in relazione a ________ (de-
scrivere brevemente l’incarico),
vengo a comunicarLe, ai sensi dell’art. 2237 Codice Civile, la mia intenzione di recedere dal con-
tratto con Lei stipulato e revocarLe il mandato.
Le chiedo pertanto, gentilmente, di restituirmi la documentazione relativa al mio caso, e a farmi
pervenire la nota spese riguardante il compenso a Lei dovuto per l’attività sino a ora prestata.
RingraziandoLa, porgo cordiali saluti
(Firma)
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3.4 Legge Pinto: danno da eccessiva durata del processo
(Edizioni Simone)
Quando si può chiedere il risarcimento del danno da eccessiva durata del processo?
Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per l’eccessiva durata del processo ha di-
ritto a un’equa riparazione (art. 2 L. 89/2001).
Nell’accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il
comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro sog-
getto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
Si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in
primo grado, di due anni in secondo grado e di un anno nel giudizio di legittimità. Si considera co-
munque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un
tempo non superiore a sei anni.
L’art. 2bis L. 89/2001, inserito dal D.L. 83/2012, aggiunge che il giudice liquida a titolo di equa ri-
parazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per cia-
scun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del
processo.
L’indennizzo è determinato a norma dell’art. 2056 c.c., tenendo conto:
− dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione del termine ragionevole di durata
del processo;
− del comportamento del giudice e delle parti;
− della natura degli interessi coinvolti;
− del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali
della parte.
La misura dell’indennizzo non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se infe-
riore, a quello del diritto accertato dal giudice.
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3.5 Causa infondata: a quanto può ammontare il risarcimento?
Responsabilità processuale da lite temeraria: danno punitivo pari a tre volte le spese di
giudizio per l’abuso del processo.
Vi avevamo avvisato: dal 2014, i giudici saranno (o dovrebbero essere) molto più severi nei con-
fronti di chi abuserà della giustizia per iniziare cause (o resistere a domande giudiziali) pur non
avendone diritto. Nell’articolo “Se perdi una causa dal 2014”, infatti, si era parlato di tre tipi di con-
seguenze:
1. la classica condanna al pagamento delle spese processuali in caso di soccombenza (“chi per-
de, paga”);
2. la soccombenza qualificata, di nuova introduzione, che comporta il pagamento dell’onorario
dell’avvocato di controparte, se particolarmente bravo, con una maggiorazione fino al 30%;
3. la responsabilità processuale aggravata, che può portare – anche senza la richiesta espres-
sa della parte vincitrice – alla condanna del risarcimento del danno di chi abbia agito o resistito
in giudizio con mala fede o colpa grave [1].
È proprio quest’ultimo l’aspetto su cui si è soffermato, di recente, il tribunale di Roma [2]. Secondo
il giudice capitolino, chi introduce una domanda giudiziaria del tutto infondata può essere condan-
nato, con la sentenza finale, a pagare ben tre volte le spese di giudizio. La liquidazione di tale
ulteriore somma, a titolo di risarcimento per responsabilità processuale aggravata, viene de-
terminata “in via equitativa” (cioè in base a quanto appare giusto al giudice, non potendo questi
ancorare la decisione a danni quantificabili in modo certo).
Nel liquidare “secondo equità” la somma dovuta per scoraggiare le azioni giudiziarie senza fon-
damento, il giudice da oggi dovrà tener conto di una serie di criteri. Gli elementi da considerare
sono i seguenti:
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1. lo stato soggettivo del responsabile, perché il dolo e la cosciente volontarietà della condotta
censurabile è più grave della colpa; peraltro vi sono varie gradazioni di dolo e di colpa;
2. la qualifica e le caratteristiche del responsabile, sia egli una persona fisica o giuridica;
3. la maggior o minore capacità del responsabile anche in termini organizzativi, di struttura;
4. il grado di preparazione del responsabile e la sua concreta possibilità di pervenire a decisioni
consapevoli in termini di azione o di resistenza. Si tratta insomma di capire se e quanto
sia scusabile la condotta di chi abusa del processo;
5. le conseguenze che ha avuto l’azione giudiziaria infondata;
6. lo stress e l’agitazione che ha patito la parte vittoriosa;
7. la forza economica invece di chi si è rivolto al giudice senza alcun titolo;
8. gli eventuali segnali dell’errore che sono stati trascurati e la mancanza di ravvedimento di chi
promuove la lite temeraria.
[1] Art. 96 cod. proc. civ.
[2] Trib. Roma sent. n. 13416/14, del 19.06.2014.