Le ali sulla pelle

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Franco Filiberto, Giallo. Questa è la storia di un segreto inquietante e minaccioso, che dall’URSS degli anni sessanta alla Repubblica Ceca, dai Balcani alla Svizzera, attraversa lo spazio e il tempo per giungere fino a noi. Sarà Aaron, uno psichiatra russo, a venire a conoscenza di questo segreto dai “racconti” di un suo paziente durante una tormentata serie di sedute terapeutiche, segreto che riuscirà a custodire fino alla morte. Il corpo dello psichiatra verrà trovato in un parco del Nord Italia e il caso sarà affidato al commissario Pandolfi che, con la sua squadra, sarà costretto a muoversi in un mondo sfuggente, pieno di insidie e di sospetti. Ivan, un delinquente italo russo, emergerà dalle pieghe del tempo per accompagnarci, fra passato e presente, in un intrigo dai contorni sfumati. Quando le indagini giungeranno al loro epilogo, la giustizia si scontrerà con reticenze e omissioni fino a quando un ultimo, imprevisto bagliore illuminerà, per un attimo ancora, i protagonisti di

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FRANCO FILIBERTO

LE ALI SULLA PELLE

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LE ALI SULLA PELLE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-695-0 Copertina: Immagine di Massimiliano Ferrini

Prima edizione Marzo 2014 Stampato da

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Fatti, personaggi, luoghi e circostanze raccontati in questo romanzo sono frutto della fantasia o di rielaborazioni fantastiche di accadimenti reali. Anche i per-sonaggi che animano questa storia sono inventati, sebbene molti di loro siano nati mettendo insieme e dosando con cura pregi, difetti, spigolosità, paure e altri aspetti del carattere di persone veramente esistenti e a me molto vicine. A tutti coloro che si riconosceranno, anche solo in parte, in queste pagine va il mio ringraziamento.

A mia moglie Patrizia

Azzurri, come il cielo, come il mare, o monti! o fiumi! era miglior pensiero ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno è l'infinita ombra del Vero

Alexandros, Giovanni Pascoli

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PREMESSA Quella storia della farfalla gli era venuta all’orecchio più di una volta anche se non ricordava bene le circostanze. Si era incuriosito e aveva anche letto qualcosa sulle teorie collegate, si era persino spinto a dare una scorsa alle prime pagine del racconto “Rumore di tuono” di Bradbury, una cosa fantascientifica su improba-bili safari temporali per turisti del futuro e aveva dato un’occhiata, su internet, ai grafici a forma di farfalla generati dagli attrattori di Lorenz, ma per il commissario Pandolfi il fatto che il battito d’ali di una farfalla a Pechino potesse far piovere o addirittura scatenare una tempesta a New York, rimaneva un fatto piuttosto criptico, poco probabile, una questione squisitamente filosofica, una teoria un po’ cervellotica, una dotta e inconcludente disquisizione sul sesso degli angeli. Non che non comprendesse le interazioni possibili fra avvenimenti che accadono in luoghi diversi, anche lontani fra loro, né ignorava che, in un’epoca caratterizzata da una incipiente globalizzazione e dalla più sfrenata smania di comunicazione, fatti diversi e lontani fra loro potes-sero essere connessi, ma per lui che, per carattere, non era affatto incli-ne a superflui voli di fantasia e che del pragmatismo aveva fatto la sua arma vincente, rimaneva una gigantesca cazzata. Certo non avrebbe mai immaginato di poter essere catapultato in una tempesta che non solo era stata generata da eventi che, per rimanere in tema, potevano essere paragonati al battito d’ali della farfalla pechine-se, ma che, oltre a essere molto distanti nello spazio, erano avvenuti in un tempo altrettanto lontano.

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CAPITOLO I Il telefono squillò con insistenza aprendo con qualche anticipo la gior-nata di lavoro del commissario Pandolfi. «Pronto. Chi parla?» «Sono Giorgio, buongiorno.» «Buongiorno, tua moglie ti ha buttato giù dal letto?» «Non è stato necessario. Ho avuto una nottataccia e la mattinata si an-nuncia peggiore.» «Giorgio, sembri intenzionato a peggiorare anche la mia, che c’è?» «C’è che ho qui un cadavere che dovresti vedere.» «Giorgio, se fai il medico legale può capitare di avere a che fare con qualche cadavere ogni tanto. Questo cos’ha che non possa essere ri-mandato a più tardi, ha tentato di scappare?» «C’è poco da scherzare.» Il dottore cominciò a snocciolare la sua tiritera. «È un maschio, bianco, di sessanta sessantacinque anni o giù di lì, ca-pelli e occhi chiari, un metro e settantacinque, settanta chili circa, ha il corpo coperto di cicatrici, troppe e piuttosto anomale per essere esiti di operazioni e del resto la tecnica di sutura non è certo quella di un chi-rurgo. Porta una barba ben curata e la dentatura presenta alcune protesi fisse, ma la cosa che mi lascia maggiormente perplesso è la ferita al petto… «Arma da fuoco?» «No, sicuramente no.» «Coltello?» «In un certo senso… ma credo sarebbe meglio che tu la vedessi…» «Ma insomma Giorgio, gli indovinelli rimandiamoli a più tardi! Vuoi dirmi come cazzo è morto?» «Beh, la causa potrebbe anche essere naturale anzi, quasi certamente lo è…» «Con una ferita sul petto? Vuoi dire un incidente?» «A meno che non si sia scontrato con un’affettatrice, non credo proprio. Per ora posso dirti che la ferita al petto è stata sicuramente inferta post mortem, ma credo sarebbe meglio che tu venissi a dare un’occhiata…» «Arrivo.»

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Dopo un caffè frettoloso e qualche sosta forzata nel traffico, il commis-sario Pandolfi entrò nell’obitorio fumando la prima sigaretta della gior-nata. «Allora, cosa sono tutti questi misteri?» «Qui non si può fumare…» «Lo so» disse Pandolfi aspirando una lunga boccata, «i tuoi pazienti sono molto attenti al fumo passivo!» «Paolo, lo sai, le regole sono regole…» «Insomma, mi hai chiamato all’alba per farmi la predica o c’è qualche motivo più valido?» «Vieni.» Il dottor Avenzi si avvicinò a uno dei tavoli seguito dal commissario, poi, con un gesto vagamente teatrale, scoprì il cadavere e attese la rea-zione. «Cazzo, gli hanno portato via la pelle del petto! Scuoiato… e non sap-piamo la causa…» «Per ora ho solo fatto un esame esterno e come vedi c’è molto da dire. La morte risale a circa due o tre ore fa, o forse meno, ma sarò più preci-so nel mio rapporto.» «Hai qualche idea sulla causa di tutte quelle cicatrici?» «Come ti ho detto, non ancora. So solo che le suture sono opera di un medico scarsamente preparato o, addirittura, di un dilettante. Non vor-rei sbilanciarmi troppo, ma credo che quest’uomo abbia subito delle torture. Vedi queste lesioni circolari? Sono bruciature di sigaretta e an-che queste altre sul dorso…» aggiunse girando su un lato il cadavere, «hanno un aspetto piuttosto sospetto. In ogni caso dopo l’autopsia po-trò…» «… essere più preciso» lo interruppe il commissario. «Fammi sapere» aggiunse, avviandosi verso l’uscita. Sulla porta si girò. «A proposito, chi lo ha trovato?» «Uno addetto alle pulizie dietro la cappella del parco. Per quanto ne so, sono andati Antonelli e Dilani.» «Documenti?» Il dottore scosse la testa. «Ho inviato le impronte con una nota a Fabozzi e stavo giusto prenden-do il calco dei denti. Vediamo cosa ne viene fuori.» «Fammi sapere» ripeté Pandolfi prima di scomparire.

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Quattro ore prima Ivan Rasko non ha mai suonato alcuno strumento e la musica non è fra i suoi principali interessi. Nonostante questo, nell’ambiente è conosciuto come “il violinista” per l’uso creativo e poco convenzionale che fa di una corda di violino. A giudicare dall’aspetto e dall’atteggiamento potrebbe essere un milita-re. Capelli biondo chiaro tagliati molto corti, occhi azzurri, mascella qua-drata, struttura muscolare non vistosa ma decisamente tonica. Ivan vende armi, e non solo quelle, al miglior offerente. Per lui, ribelli, terroristi, bande giovanili, delinquenza organizzata, mafie non sono al-tro che clienti: fine della storia. Dai Balcani alla Somalia, dall’Iraq all’Afghanistan cerca e trova sem-pre qualcuno disposto a pagare per le sue armi e, non di rado, per i suoi “servigi”. Di padre russo e madre italiana, ha imparato dal primo a muoversi nell’intricato ambiente che ruota intorno a quel mondo oscuro e sfug-gente dei fuorusciti dell’ex Grande Armata Rossa, dei Servizi Segreti, di faccendieri e mafiosi, dalla seconda ha ereditato quella fantasia e quell’arte di arrangiarsi tipica del Bel Paese che era venuta spesso in suo aiuto nei momenti più difficili. La vita di Ivan si basa su poche regole e quelle poche hanno un unico denominatore comune: il profitto; il suo codice morale ha un punto fermo: “Mai tradire un amico”, codice che osserva senza troppi sforzi perchè Ivan non ha amici. Il cellulare di Ivan squillò proprio mentre stava per rilanciare. Con la mano destra prese il telefono e lo portò all’orecchio senza dire niente mentre, con la sinistra, spingeva una pila di fiches al centro del tavolo. «È arrivato» disse la voce al telefono. «È sceso al Royal. Ora è in ca-mera. La 369.» «Bene» rispose Ivan con un sibilo e chiuse il telefono. «Doppia al cappa…» «Doppia all’asso…» Ivan posò sul tavolo il suo colore e attese. «Buono per me» dichiarò il quarto giocatore. Ivan raccolse il piatto alzandosi. «È stato un piacere» disse, lasciando il tavolo dopo aver finito il suo drink e dopo aver, con uno sguardo, sconsigliato ogni tipo di rimostran-za.

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Si fermò al bar, cambiò le fiches e lasciò sul bancone, davanti alla bari-sta, due banconote. Giunto sulla porta, fece un cenno al ceffo che stava di guardia, poi alzò il bavero della giacca e s’incamminò verso la sua auto. Dopo la sua, un’auto scura si staccò dal marciapiede e iniziò a seguirlo a distanza; Ivan controllava ogni tanto nello specchietto retrovisore, guidando lentamente verso casa nel traffico scorrevole della notte. Giunto a casa, accese la luce del salotto e si sedette sul divano. Attese alcuni minuti e accese la luce del bagno, poi tornò in salotto. Dopo dieci minuti accese la luce in camera da letto, spense quella del bagno e del salotto, poi si sedette al buio sul divano e accese una siga-retta. Sapeva di essere osservato e quel gioco di luci avrebbe suggerito ai suoi controllori che potevano rilassarsi e attendere con calma. Per Ivan il tempo dell’attesa si stava concludendo. Sembrava proprio che fosse arrivato il suo momento, quel momento che aveva preparato a lungo, che gli era costato molto e per il quale aveva messo in gioco la sua stessa vita. Ora doveva stare attento a non sbagliare, una sola sbavatura poteva compromettere tutto. Ivan spense con cura la cicca nel portacenere, tolse dalla tasca il cellu-lare e lo appoggiò sul tavolinetto di fronte a lui, ne prese uno del tipo “usa e getta” e lo mise in tasca, poi con calma si diresse all’armadio della camera e fece scorrere i vestiti comprimendoli da un lato per libe-rare il più possibile il pannello di fondo, poi, facendo leva su due picco-le molle, sbloccò il pannello e lo fece scorrere di lato fino a scoprire un’apertura che in passato era stata il vano di una porta e che ora era chiuso da una libreria. Ripeté l’operazione sulla libreria liberando un passaggio. Rimise a posto i vestiti, fece scivolare lentamente il pannello dell’armadio al suo posto, poi entrò nell’appartamento attiguo e rimise a posto la libreria. Attraversò la stanza, imboccò il lungo corridoio fino alla porta d’ingresso e uscì sul pianerottolo esterno. Chiuse a chiave la porta fa-cendo attenzione a non fare rumore, poi, con passo felpato, scese a pie-di le scale e uscì in un cortile interno. Si fermò, protetto dall’ombra, a controllare che nessuno fosse affacciato alle finestre, poi attraversò il cortile e uscì in una strada laterale.

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Percorse a piedi qualche centinaio di metri fino a un cancello, lo aprì ed entrò in un cortile ingombro di cataste di pancali di legno, vecchi pneumatici ed elettrodomestici arrugginiti. La luce era scarsa, ma Ivan sapeva come muoversi. Tolse il telo da sopra la sua macchina “da lavoro”, aprì il bagagliaio e controllò che fosse tutto in ordine, poi si sedette alla guida e partì. Percorse ad andatura moderata alcune strade secondarie fino a immet-tersi sul lungofiume, attraversò un ponte e continuò sul lungofiume op-posto fino al parco. Fermò l’auto in un parcheggio a pagamento lungo la strada e inserì nel parchimetro tutte le monete che aveva nel portaoggetti. Aprì il bagagliaio, prese la sua borsa, la mise a tracolla e, con calma, entrò nel parco. Percorse senza fretta il vialetto che portava alla fontana. Su una panchi-na, una vecchia dava da mangiare a dei piccioni che si affollavano ai suoi piedi. Poco distante, un uomo raccoglieva con una ramazza piccoli cumuli di immondizia riversandoli in un bidone montato su un triciclo a pedali. La scarsa presenza di persone nel parco, a quell’ora del mattino, faceva sentire Ivan un po’ allo scoperto; non rispose neppure al cenno di saluto dello spazzino, fingendo di essere attratto da due tortore che giocavano a nascondino nelle aiole vicine. Raggiunse la fontana e prese a destra un sentiero di ghiaia fino a un ponticello che superò, costeggiò per un breve tratto il laghetto e giunse in vista di una piccola costruzione fra gli alberi che tutti chiamavano “la cappella”. In realtà si trattava di una vecchia cisterna per l’acqua che aveva assunto quel nome per un piccolo tabernacolo esterno dedicato alla Madonna, raffigurata in un mosaico di tessere dalle varie tonalità di azzurro. Si fermò a circa cento metri dietro una siepe di alloro, consultò l’orologio e si mise in attesa avendo cura di tenere d’occhio le due pos-sibili vie di accesso alla cappella. Alcuni scoiattoli correvano veloci sull’erba ancora umida della rugiada della notte, in cerca di cibo, altri rovistavano con mosse furtive nei ce-stini dei rifiuti. Gli seccava ammetterlo ma non si sentiva tranquillo. Il luogo scelto per l’appuntamento non lo convinceva ma non aveva a-vuto scelta e questo non faceva che aumentare la sensazione di aver commesso un errore di cui avrebbe potuto pentirsi. Il cielo si stava rapidamente schiarendo e Ivan consultò di nuovo l’orologio.

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Non riusciva ad allontanare il senso d’inquietudine che lo assaliva sem-pre di più. Non c’era, al momento, nessun segnale che potesse giustifi-care la sua agitazione ma lui, che aveva spesso dovuto ringraziare il suo istinto per essere ancora vivo, era portato a dare ascolto a questi muti avvertimenti. Dal vialetto alla sua sinistra stava arrivando, con passo lento e molte soste, l’uomo con il triciclo. L’ora fissata era trascorsa da meno di tre minuti, ma Ivan sentiva che nessuno sarebbe arrivato. Cercò di contenere la rabbia e la delusione imponendosi di ragionare con calma. In fondo sapeva dove trovarlo. Costeggiando la siepe cominciò ad allontanarsi dalla cappella. Avrebbe allungato un po’, ma avrebbe evitato di farsi vedere dall’uomo che pu-liva i vialetti. La prudenza in questi casi… Si fermò un attimo in un punto dove la siepe era più rada per controlla-re la situazione. Il carretto era fermo davanti alla cappella ma non riuscì a vedere l’uomo. Rimase in attesa. Poco più tardi l’uomo sbucò da dietro la cappella: a giudicare da lonta-no la sua conversazione al telefono era piuttosto agitata. Ivan non riu-sciva a distinguere le parole, ma si rese subito conto che qualche cosa doveva essere successa. Due agenti della vigilanza stavano avvicinandosi quasi correndo. Uno dei due parlava al cellulare. Ivan rimase fermo, protetto dalla siepe, a valutare il da farsi. Decise di tornare verso l’ingresso. Il parco andava poco a poco prendendo vita: qualche patito dello jog-ging del mattino, qualche anziano in bicicletta, una coppia con il cane. Era uscito dal cancello principale da pochi secondi quando una macchi-na della polizia arrivò all’ingresso, un agente scambiò qualche parola con il guardiano che aveva preso servizio da poco, poi entrò a passo d’uomo con i lampeggianti ancora accesi. Ivan dette ancora ascolto al suo istinto. Attraversò la strada e comprò un quotidiano all’edicola, poi tornò sui suoi passi, rientrò nel parco e si diresse senza esitazione verso la cap-pella. La macchina della polizia era ferma davanti alla cappella dove si era radunato un capannello di curiosi. Si avvicinò con fare distratto scorrendo le pagine del giornale. Da una macchina scese un medico con la sua borsa. Ivan si avvicinò e vide il corpo riverso dietro la cappella. I presenti mormoravano a bassa voce facendo ipotesi sull’accaduto.

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Il medico scambiò alcune battute con i due poliziotti, poi con cautela girò il corpo. L’uomo aveva gli occhi sbarrati e le mani contratte sul petto. Il tempo e le sofferenze avevano segnato profondamente il suo volto incorniciato da una barba folta e curata, ma Ivan lo riconobbe subito. Ora sapeva perché l’appuntamento era saltato. Tornò senza affrettarsi verso l’ingresso, raggiunse la sua auto, rimise la borsa nel bagagliaio e attese l’uscita dell’ambulanza dal Parco. Ivan ripensò con rabbia a ciò che aveva dovuto sopportare per poter giocare al meglio la partita e ora tutto sembrava dissolversi davanti ai suoi occhi. Rivide i corridoi a mala pena rischiarati dalle tremule luci delle lam-pade a soffitto, la cella gelida dai muri scrostati e ricoperti di muffa, gli odori, soprattutto quelli, il tanfo dei buglioli, il rancido dei pasti e la paura, l’odore acido e inconfondibile dei corpi che trasudavano paura. La neve. La sterminata distesa di neve che aveva visto da una fessura del telone del camion che lo aveva portato in quell’inferno. La neve e il vento che nelle interminabili giornate di lavoro alla linea ferroviaria avevano arrossato le sue mani e lacerato la pelle del suo volto. Due lunghissimi anni nei quali aveva dovuto sopravvivere per riuscire ad avvicinare un uomo che conservava gelosamente un segreto che nessuno era riuscito a carpirgli. Le notti gelide, il rumore degli stivali delle guardie nel corridoio, le grida di terrore che arrivavano dal “purgatorio”, la stanza degli inter-rogatori, dai muri schizzati di sangue e di vomito. Era stato un avvicinamento cauto e molto lento. Aveva sempre cercato di creare le occasioni per stabilire un contatto senza mai dare l‘impressione di fare il primo passo; con il tempo si era rivelata una strategia vincente ed era riuscito ad aprire una piccola fessura nella corazza che l’uomo aveva costruito intorno a sé. Non era il solo che voleva a tutti i costi scoprire quel segreto e Ivan lo sapeva bene. Aaron non aveva parlato neanche quando, per molte notti, lo avevano svegliato e portato nel purgatorio per gli interrogatori; con lui avevano usato ogni genere di tortura sia psicologica che fisica, trattamenti fra i più disumani che la mente di un uomo possa concepire. Lui non aveva parlato. Ivan temeva che i continui maltrattamenti e le torture lo avrebbero uc-ciso prima di essere riuscito a conoscere il segreto che nascondeva. Dopo alcuni mesi, Aaron fu spostato nella cella vicino alla sua.

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Questo favorì alcuni brevi colloqui e qualche scambio di oggetti, cose insignificanti che lì dentro assumevano una straordinaria importanza. Più i giorni passavano, più Aaron sembrava allentare le sue difese e la sua diffidenza verso Ivan. Una notte Aaron tornò dal purgatorio privo di sensi, trascinato da due guardie e da una terza che parlava in modo concitato. Dai loro discorsi capì che quella notte avevano esagerato. «Il medico non verrà prima di due settimane, sempre che venga…» «Se non facciamo qualche cosa subito, non credo che arriverà a doma-ni.» «Cerchiamo di fasciargli la ferita, sta perdendo troppo sangue!» «Peggio per lui. Poteva parlare, ma è ostinato come un mulo!» «Te l’ho detto cento volte di fare attenzione.» «Sono stato attento, ma improvvisamente ha avuto uno scatto. Non so dove abbia trovato le forze…» Ivan decise di tentare il tutto per tutto e, rivolto alle guardie, disse: «Sono un infermiere, forse posso aiutarlo.» Le guardie si scambiarono un’occhiata, poi una di loro aprì la cella e con il bastone gli fece cenno di uscire: «Non me ne importa niente se crepa» disse in tono spavaldo, «ma se proprio ci tieni…» Ivan entrò nella cella e lo vide riverso sul pavimento. Perdeva molto sangue da una ferita all’altezza dello stomaco. «Mi serve ago, filo e del disinfettante. Se c’è una dotazione di pronto soccorso, portatela qui. Mi serve anche molta acqua e dei teli puliti» Il tono deciso lasciò un po’ sconcertate le tre guardie che non sapeva-no se rintuzzare quell’inaspettato eccesso di arroganza con una buona dose di bastonate o fornire le cose richieste. «Vado io» annunciò una di loro allontanandosi nel corridoio. Nell’attesa Ivan cercò con cautela di aprire la casacca di Aaron che si stava attaccando alla ferita. Man mano che scopriva il torso poteva os-servare le ferite e le cicatrici che disegnavano, sul corpo dell’uomo, un macabro arabesco punteggiato da bruciature di sigarette. Non batté ciglio e, quando giunse in prossimità della ferita dove il san-gue si stava rapprendendo, si fermò in attesa dell’acqua. Una delle guardie si avvicinò al corpo dell’uomo e gli dette alcuni col-petti sul fianco con il piede per capire se fosse ancora vivo. Ivan, che fino a quel momento era stato inginocchiato vicino ad Aaron, si alzò e fece cenno alle guardie di allontanarsi assieme a lui di qual-che passo dal ferito. Con voce calma ma decisa mormorò loro qualcosa che si concluse con: «… non vi rimane che sperare che sopravviva.»

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Le guardie sbiancarono in volto e rimasero in silenzio fino all’arrivo della terza guardia, quando lo videro in fondo al corridoio gli fecero cenno di affrettarsi. Ivan rientrò nella cella e attese alcuni istanti per permettere alle due guardie di aggiornare l’ultimo arrivato. Il materiale fu appoggiato in terra e sulla piccola panca che costituiva l’arredo della cella. Ivan chiese a uno di loro di bollire dell’acqua, poi frugò nello zaino del pronto soccorso e diede il via a un tentativo che appariva disperato. Lavando il corpo di Aaron dal sangue che si era raggrumato, semina-scosto dalla folta peluria, Ivan vide il grande tatuaggio che ne adorna-va il petto. Ne rimase sorpreso sia perché gli parve piuttosto strano come foggia, sia perché non gli sembrava che Aaron fosse un tipo da tatuaggi. Per la verità Aaron era il prototipo di quello che comunemente viene definito un uomo qualunque; non c’era niente nel suo aspetto, nella sua voce, nel suo sguardo che potesse attirare l’attenzione o l’interesse di qualcuno. Pensò che chiunque avesse avuto modo di osservarlo anche per poco tempo, sarebbe morto di noia. Aaron aveva trascorso la sua vita senza lasciare traccia come una barca, la cui scia è destinata a scomparire in un attimo. Un tipo insignificante che non faceva niente per apparire diverso. Mai un eccesso, una virgola fuori posto, mai una piccola eccezione alla norma. A parte il tatuaggio, naturalmente, che era lì a dimostrare che anche lui, perlomeno una volta, era andato al di là dei suoi schemi. Finita la sutura, aiutato da una delle guardie, applicò alla ferita un bendaggio piuttosto grossolano e controllò le pulsazioni del ferito, poi con calma annunciò: «Dormirò qui questa notte. Se succede qualcosa vi avvertirò.» Quando Ivan vide nello specchietto retrovisore le luci blu, accese il mo-tore, attese che l’ambulanza uscisse dal cancello del parco e lo sorpas-sasse, poi iniziò a seguirla a distanza. Il traffico stava iniziando a intensificarsi e Ivan sorpassò alcune auto e si avvicinò all’ambulanza mantenendo comunque una distanza di sicu-rezza. C’era qualche cosa che lo preoccupava e questo gli sembrò nor-male data la situazione, ma avvertiva, in qualche angolo del suo cervel-lo, un sottile malessere che non riusciva bene a definire, un qualcosa

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che non riconosceva, che poteva essere paragonato al dispiacere, di-spiacere per un uomo che aveva condiviso con lui un pezzo del suo cammino e che ora era morto. Scacciò subito l’idea dalla sua mente, provando quasi un senso di ver-gogna e si concentrò sulla guida. L’ambulanza proseguiva a velocità moderata lungo il viale alberato. Non aveva fretta, e Ivan ripiombò nei ricordi. Si era risvegliato quando la flebile luce del giorno aveva cominciato a trapelare a fatica dalla finestrella della cella. Aveva dormito per terra avvolto in una coperta militare che puzzava di muffa e sudore stantio, la schiena gli faceva male e la giornata che stava iniziando poteva es-sere decisiva per i suoi progetti. La fronte di Aaron era imperlata di sudore, il volto pallido e scavato, il battito cardiaco debole. Ivan immerse nell’acqua un pezzo di stoffa e glielo mise sulla fronte per cercare di abbassare la temperatura, poi sedette sulla panca facen-dosi posto fra le varie cose sparpagliate fuori dello zainetto di pronto soccorso e cercò di riflettere sulla situazione. Ormai le guardie sapevano e non avrebbero avuto più con lui lo stesso comportamento. Aaron non era uno sciocco e lo avrebbe senz’altro ri-levato. Doveva fare in fretta a uscire di lì e doveva fare in modo che anche Aaron fosse liberato, problema questo di non facile soluzione. Sempre che fosse sopravvissuto e, al momento, non ne era per niente sicuro. Per avere qualche chance, aveva bisogno di cure mediche ben più qua-lificate di quelle che poteva offrirgli il medico del carcere, ma doveva trovare una buona giustificazione per motivare il suo interesse per la salvezza di Aaron senza destare sospetti. Sapeva di scherzare con il fuoco ma aveva deciso di giocare la partita da solo, ne aveva il diritto visto che era stato lui a capire l’importanza del segreto di Aaron, era stato lui a vivere per quasi due anni come una bestia per stabilire il contatto e, in fondo, era stato lui a salvargli la vi-ta e non quei tronfi burocrati di Mosca che non riuscivano a vedere al di là del loro naso. Ma non era l’unico problema: anche Aaron non doveva sospettare niente e un intervento esterno avrebbe svelato anche a lui il suo vero ruolo e vanificato tutto il suo lavoro degli ultimi anni. Doveva escogitare qualche cosa e doveva essere qualche cosa di molto credibile se voleva avere qualche possibilità di successo. Si avvicinò di nuovo al suo compagno di cella per cambiare il panno sulla fronte. Sollevò la fasciatura quel tanto che bastava per vedere la

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ferita: l’emorragia si era quasi fermata e questo poteva essere un buon segno. Aaron socchiuse gli occhi e mosse leggermente le labbra come per dire qualche cosa, ma subito dopo ripiombò nel buio dell’incoscienza. Un’evasione non era impossibile anche se non facile, ma la distesa di neve e ghiaccio che si estendeva a perdita d’occhio intorno al campo e la temperatura di molti gradi sotto lo zero, avrebbero reso inutile ogni eventuale (e assolutamente non scontato) successo. A fatica nella sua mente si andarono delineando i contorni di un piano che poteva essere la soluzione, un modo di salvare capra e cavoli, co-me diceva sua madre. Rimase quasi un’ora a tracciare nella sua mente la linea di condotta che avrebbe tenuto, cercando di immaginare le obiezioni che gli avreb-bero fatto. Per tutte cercò di elaborare risposte e spiegazioni convin-centi. Infine decise: mise la mano sotto la camicia e con l’indice premette for-te la pelle in un punto preciso sotto l’ascella sinistra. Quando avvertì una lieve scossa allentò la pressione: la “richiesta di aiuto” era partita e il localizzatore che lo identificava era entrato in funzione. L’ambulanza rallentò fino quasi a fermarsi, poi girò a destra e attese che la sbarra d’ingresso si sollevasse. Ivan andò avanti per circa due-cento metri, poi girò a destra procedendo lentamente per cercare un parcheggio. Fermò l’auto e prese dal portaoggetti un cappello che si calcò in testa, prese dal bagagliaio la sua borsa e fece a ritroso e senza affrettarsi la strada appena percorsa. Da sotto la tesa del cappello cercava di individuare se ci fossero tele-camere di sorveglianza lungo il percorso. Entrò nel cancello nel quale era entrata l’ambulanza e si avviò verso l’ingresso dell’edificio riservato alle lettighe. Alcune persone in camice erano radunate intorno ai distributori di caffè e ridevano alle battute di una di loro. Ivan passò loro accanto senza che nessuno lo notasse, percorse il corri-doio e si fermò di fronte alla porta che era contrassegnata con la targa “Sala 1”. Rimase alcuni secondi in ascolto per sentire se dall’interno provenisse qualche rumore. Silenzio. Ivan girò lentamente la maniglia ed entrò. Silenzio e freddo. Odore di sangue e disinfettante. Dei sei tavoli della sala, solo due erano occupati da corpi coperti da teli bianchi. Ivan li scoprì uno a uno. Aaron non era lì.

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Si avviò verso l’uscita e si trovò di nuovo nel corridoio. “Sala 2”. Si fermò ancora ad ascoltare. Da una porta più avanti una signora in cami-ce dal corpo massiccio uscì, salutando qualcuno all’interno. Ivan passò avanti con il passo deciso di chi sa dove andare, attese di sentire sfuma-re il passo pesante della signora e tornò indietro. Girò con cautela la maniglia pronto a recitare la scusa che si era prepa-rato. Un solo tavolo occupato. Ivan si avvicinò e sollevò il telo. Aaron era lì, bianco e immobile. Doveva agire in fretta, se lo avessero scoperto lì dentro nessuno avrebbe creduto alla sua storiella. Il primo contatto fu sgradevole. Non che la morte fosse un argomento con cui avesse poca dimestichezza, anzi, ma per qualche strana ragione questa morte era diversa, il contatto con quel corpo gli dava una sensa-zione di ansia che gli faceva trattenere il respiro come quando era stato al suo capezzale. Si alzò di nuovo per controllare le pulsazioni. La gola di Aaron era u-mida e fredda e lui ebbe paura che fosse morto ma il battito, anche se debole, era regolare. Ivan cercò nello zainetto del pronto soccorso qualche cosa che potesse essere utile, ma non trovò niente. La cosa che al momento gli sembrò in qualche modo utilizzabile fu una scatola contenente alcune bustine di plastica trasparente piene di un liquido che somigliava vagamente alla vodka. Lui le conosceva perché erano le stesse che i cecchini usavano durante le lunghe attese dei “bersagli” nelle gelide e buie notti di Sarajevo. Quel distillato di pessima qualità che i cecchini bevevano a piccoli sor-si succhiando direttamente dalle bustine incise con i denti, riusciva a malapena a scaldare i loro corpi immobili e tesi, ma non aveva mai scaldato il loro cuore. Scacciò i ricordi e prese le bustine. In fondo si tratta di un nutriente e di un disinfettante - pensò - e in un modo o nell’altro avrebbe potuto essere utile. Il tempo passava e lui alternava il controllo dello stato di Aaron a lun-ghe pause durante le quali cercava di ragionare e preparare in modo convincente il piano che avrebbe esposto, ma allo stesso tempo doveva anche affinare nel dettaglio la sua strategia, il piano che avrebbe mes-so in atto e questa ultima parte era forse la più difficile. Cercò di vedere, con gli occhi della mente, la cartina del territorio do-ve si trovava segnando con immaginarie puntine colorate i luoghi che conosceva e dove poteva trovare qualche suo contatto. Pian piano la fatica e la tensione ebbero la meglio e sprofondò in un sonno agitato da mille fantasmi.

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Il rumore della porta della cella che si apriva svegliò Ivan. «Dal direttore» fu il laconico invito della guardia. Lui si alzò, dette uno sguardo ad Aaron e uscì nel corridoio dove un’altra guardia li aspetta-va. Percorsero il lungo corridoio, le scale che portavano al primo set-tore, altro corridoio, altre scale e si fermarono di fronte alla porta del direttore. «Aspetta qui» disse una guardia indicando una striscia gialla dipinta sul pavimento, poi bussò ed entrò nell’ufficio chiudendosi la porta alle spalle. Poco dopo la guardia si affacciò alla porta e fece cenno all’altra di en-trare col prigioniero. Le due guardie ai lati di Ivan stavano rigide da-vanti al direttore e attendevano ordini. Uno dei due uomini seduti sulle due poltroncine riservate ai visitatori si alzò e fece cenno alle guardie di uscire. Le guardie guardarono il diret-tore che annuì. Uscite le guardie uno dei due disse: «Direttore, le dispiace concederci per qualche minuto il suo ufficio?» Il tono era gentile, lo sguardo non ammetteva repliche. Uscito il direttore, il secondo uomo si alzò e andò ad appoggiarsi alla scrivania di fronte a Ivan. «Suppongo che tu debba comunicarci qualche cosa di importante, di veramente importante.» «Quell’uomo si farà uccidere ma non parlerà mai» esordì Ivan. «Ab-biamo fatto valutazioni sbagliate, abbiamo creduto di piegarlo con i soliti mezzi, ma ora so che non avremo successo, non con questi meto-di.» «Quali metodi vorresti usare, Ivan. Tu lo sai, il generale non ama i problemi, preferisce le soluzioni. Tu hai una soluzione?» aggiunse do-po una breve pausa. «Ho un’occasione, un’occasione che potrebbe portarci alla soluzione, ma bisogna agire in fretta.» «Vai avanti.» Ivan raccontò i molti tentativi fatti per avvicinarsi ad Aaron, i fallimen-ti, le torture senza risultato che l’uomo aveva subito, l’incidente, se co-sì si poteva chiamare, il suo intervento per salvarlo e aggiunse: «Sono sicuro di avere stabilito un contatto con lui. Sono quasi riuscito a sal-vargli la vita. Un’occasione così non capiterà più. Devo evadere, devo portarlo via da qui. Là fuori, nello stato in cui si trova, la sua vita di-penderà solo da me e sono certo che qualche cosa riuscirò a strappar-gliela.»

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L’uomo ascoltò in silenzio per tutto il tempo poi disse: «Può essere un’idea, rischiosa ma buona. Suppongo tu abbia un piano.» «Penso che dovremo fargli credere che deve essere portato nella più vicina struttura medica attrezzata. Il direttore mi ordinerà di andare con lui, poi a un certo punto io mi libererò dell’autista e gli farò crede-re che stiamo fuggendo verso la libertà, userò i miei contatti per farlo curare e vivremo in clandestinità fino a che sarà necessario. Dovrà fi-darsi di me e io credo che lo farà, anche se è molto intelligente e so-spettoso. Avete il localizzatore per seguirci e in caso di necessità atti-verò la “richiesta d’aiuto” ma non voglio vedere nessuno.» «Dovremo parlarne con il generale ma ti assicuro che avrai una rispo-sta al più presto» disse l’uomo che si avvicinò a Ivan come per acco-miatarsi. All’improvviso gli sferrò un pugno sul volto che lo fece bar-collare. Un rivolo di sangue gli colava dal naso. Colpì velocissimo an-cora due volte. Il sangue gli velò l’occhio sinistro. «Così la tua assenza dalla cella sarà meno sospetta» disse l’uomo, sen-za che uno straccio di espressione apparisse sul suo volto. La riunione era conclusa. Ivan estrasse dalla tasca il suo coltello e aprì la lama, poi con incisioni nette isolò la pelle tatuata del petto villoso di Aaron e iniziò a staccarla facendo attenzione a non lacerare la parte tatuata. In pochi minuti aveva concluso. Mise il macabro trofeo in una busta di plastica, sigillò l’apertura e la mise nella borsa, poi uscì nel corridoio e raggiunse l’uscita. Nessuno l’aveva notato. Si incamminò a passo svelto verso la sua auto, ripose la borsa nel baga-gliaio e ripartì verso il nascondiglio. Finalmente, il successo che gli avrebbe dato ricchezza e potere erano a portata di mano. Non era finita, ma ormai niente e nessuno avrebbe po-tuto fermarlo. Scese dall’auto per aprire il cancello, prese la borsa dal bagagliaio e ri-coprì l’auto con il telo, poi si avviò verso casa. Ripercorse i vicoli, entrò nel cortile del palazzo ancora deserto, poi su per le scale fino all’appartamento gemello. Si fermò un attimo a prendere fiato, poi aprì il passaggio dietro la libre-ria e, attraverso l’armadio, rientrò in casa. Si avvicinò con cautela alla finestra e guardò giù in strada: la macchina che lo aveva seguito era an-cora lì.

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CAPITOLO II «Si dice come si scrive. Non sono un numero!» Nine diceva solitamente così, con tono vagamente stizzito, a chi la chiamava Nain. In realtà andava fiera del suo nomignolo che usava anche come nick name, proprio per il fatto che traeva in inganno. Il suo vero nome era Gina, come sua nonna materna. Lei era sempre stata un tipo mingherlino che attirava i vezzeggiativi come una calami-ta, così Gina si era trasformato in Ginetta, poi Ninetta e più tardi, con quell’amore per l’essenzialità tipica dei giovani della sua generazione, era stato scorciato in Nine. Oltre al nome e alla passione per la musica classica, dalla nonna aveva preso il carattere cocciuto e risoluto, spesso scontroso, che la portava a selezionare in modo pignolo le sue frequentazioni. Aveva pochissimi amici e anche con loro il suo rapporto era, nella maggior parte dei casi, affidato alla rete. Quella mattina camminava frettolosa verso casa mentre dalle cuffie del suo iPod si stava sparando nel cervello a tutto volume l’aria della Tu-randot “nessun dorma” e, come spesso accadeva quando era sola, giun-ta al passaggio “ma il mio pensiero è chiuso in me…” non poté fare a meno di accompagnare Pavarotti con tutta la voce che aveva in gola. Cantare a squarciagola le aveva sempre dato un gran senso di libertà e un piacere così forte che, da adolescente, andava da sola vicino all’aeroporto e, sdraiata sull’erba oltre la recinzione, aspettava l’atterraggio o il decollo degli aerei che, come grandi uccelli d’acciaio, passavano bassi sopra di lei con il loro rombo assordante; quello era il momento per sputare fuori la sua rabbia di quindicenne incompresa. Ora, a ventinove anni suonati, non si sentiva certo adolescente, non le dispiaceva poi tanto essere rimasta incompresa e continuava, quando poteva, a cantare a squarciagola. Gli aerei non erano più tutti uguali. C’erano quelli che atterravano e che per lei rappresentavano qualche cosa che stava finendo, sogni, speran-ze, avventure che si andavano a spegnere su un lungo nastro d’asfalto; quelli che invece si staccavano dal suolo puntando decisi le prue scintil-lanti verso l’azzurro, rappresentavano l’inizio di qualcosa che stava na-scendo in quel momento. Lei, occasionale testimone sdraiata sull’erba,

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dava sfogo al senso di euforia gridando al mondo così forte da compe-tere con il fragore dei motori. «… all’alba vincerò, vinceròò, vinceròòò…» Quando si sentì toccare sulla spalla ebbe un sussulto e si voltò di scatto. «Documenti» disse l’uomo aggiungendo, dopo una breve pausa e dopo averla squadrata da capo a piedi «… signorina.» Si tolse velocemente le cuffie e chiese: «Cosa c’è?» La voce le uscì di qualche tono più alta del normale. «Documenti» ripeté l’uomo, aggiungendo «Polizia, vice ispettore An-tonelli.» Nine si frugò nelle tasche e tirò fuori una carta d’identità che aveva vi-sto tempi migliori. Cercò con le mani di dare alla tessera un aspetto più decente e la conse-gnò all’uomo che, con un’espressione di disgusto, la prese con due dita e si diresse verso l’auto accostata al marciapiede. «Lei aspetti qui.» Tornò verso di lei dopo alcuni minuti. «Che lavorò fa, signorina?» L’ultima parola fu sottolineata da una car-rellata panoramica dello sguardo del poliziotto che spaziò dalla punta delle scarpe alla sommità dei capelli con soste insistenti sulle zone giu-dicate più interessanti. «C’è scritto lì…» rispose indicando il documento con un gesto del men-to. «Le ripeto la domanda… che lavoro fa?» il tono era vagamente spa-zientito. «Le ripeto la risposta, è scritto lì, non è difficile se uno sa leggere…» avrebbe voluto rispondere, ma aveva sonno e non aveva bisogno di guai. «Sono una pittrice.» «Avrei detto cantante» osservò il suo interlocutore con un pizzico di sarcasmo e aggiunse: «In ogni caso, la gente che lavora, che lavora davvero, a quest’ora dorme e non si può andare in giro gridando in quel modo… Si chiama disturbo della quiete pubblica, se non lo sapesse.» Nine, che stava esaurendo velocemente la poca pazienza di cui era do-tata, borbottò, non così piano da non essere sentita «bisogna proprio non avere un cazzo da fare…» «Che cosa ha detto? Ripeta! Cosa crede? Pensa che mi diverta a girare per strada dall’alba?» Nine, in silenzio, lo guardava dritto negli occhi cercando di contenere la rabbia che le stava montando dentro. «Sempre con qualcosa in bocca voi ragazze… e quando non è uno spi-nello…»

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L’anfibio destro di Nine colpì violentemente lo stinco del poliziotto che iniziò a saltellare su una gamba imprecando. «Tengo in bocca tutti i cazzi che voglio, ma puoi essere certo che non sarà mai il tuo!» L’altro poliziotto scese dall’auto e si avvicinò al collega che, piegato a massaggiarsi la gamba, stava dando sfoggio della conoscenza di una vasta e variegata gamma di insulti e improperi. «Ora vieni con noi in commissariato e vediamo se ti calmi» disse il vi-ceispettore Antonelli in tono minaccioso, afferrando Nine per un brac-cio e spingendola dentro la macchina di servizio. L’uomo alla guida guardò lei, poi il collega e, senza dire una parola, ingranò la marcia e partì subito con un inutile stridio di gomme. Per tutto il tragitto Nine rimase in silenzio e, giunti al commissariato, si fece guidare senza protestare fino a una scrivania in un ampio salone pieno di scrivanie ingombre di fogli e pile di incartamenti. Dalle varie postazioni si alzava un brusio indistinto nel quale spiccava a tratti il to-no più alto di qualche prostituta o di qualche ladro colto sul fatto. Nine fu spinta su una sedia e solo allora sfilò lo zainetto. «Stai ferma e zitta, se ci riesci» le urlò in faccia Antonelli, poi dette uno sguardo d’intesa alla collega della scrivania accanto che rispose con un cenno di assenso e si diresse zoppicando verso i bagni. Tornò pochi minuti dopo e si sedette pesantemente dietro la scrivania, tirò un sospiro e disse facendo posto fra i fogli che ingombravano il pi-ano della scrivania: «Vuota lo zainetto e le tasche.» Sulla scrivania si concretizzò un’accozzaglia di oggetti fra i più dispa-rati: un pacchetto di caramelle, fazzoletti di carta, spiccioli, un portafo-glio e un portamonete, un cavetto USB, un cellulare con relativo cari-cabatteria, un pacchetto aperto di biscotti, tre bombolette di vernice spray usate, due DVD, tre o quattro accendini usa e getta, una borsetta di pelle con tabacco e cartine, due banconote da cinque euro piuttosto malconce, un foulard… Antonelli prese una matita e cominciò a distanziare fra loro gli oggetti. Quando arrivò alle bombolette domandò con un tono che racchiudeva già la sua risposta: «Pittrice o graffitara imbrattamuri?» «Le ho già detto che faccio la pittrice e dipingo con molte tecniche e molti tipi di colori… è contro la legge?» «Imbrattare i muri pubblici è contro la legge e anche aggredire un poli-ziotto!» «Anche quando il poliziotto fa osservazioni sugli spinelli o i cazzi che tengo in bocca?» rispose Nine, alzando la voce sul finale.

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«Io non ho mai detto… non ho parlato di cazzi come dici tu… e co-munque stavi gridando per strada…» «Stavo semplicemente cantando e credo che…» Fu bruscamente interrotta da una voce che, per tono e intensità, sovra-stò tutte le altre. L’uomo, in maniche di camicia era sulla soglia di un ufficio in fondo alla sala: «Antonelli, Dilani, da me… subito!» L’invito era improrogabile e Dilani era già pronto ad avviarsi. Antonelli imprecò fra sé e sé, poi si rivolse a Nine: «Raccogli questa immondizia e sparisci» disse, indicando il piano della scrivania. «Per tua fortuna oggi ho altri ca…» e s’interruppe ripensando alla causa del livido sulla sua gamba. «Sparisci prima che ci ripensi» ribadì rag-giungendo l’altro poliziotto. Nine ripose le sue cose nelle tasche e nello zainetto a eccezione del ta-bacco, prese una cartina e iniziò a rollarsi una sigaretta. «Quella fumala fuori» disse la poliziotta seduta lì accanto. «Credo che, per oggi, tu lo abbia fatto incazzare abbastanza» aggiunse, nascondendo a stento un sorriso. «Vuoi?» «Non sono capace, ma grazie lo stesso.» «Tieni questa» disse Nine porgendole la sigaretta che aveva appena fi-nito di farsi. L’agente esitò per un istante, poi la prese e disse a Nine: «Vieni, uscia-mo.» La seguì nel corridoio fino all’ingresso, presero due caffè al distributore e uscirono. L’aria fuori era ancora fresca e tutte e due respirarono a pieni polmoni. Nine aveva appoggiato il caffè su un muretto e stava arrotolando la sua sigaretta quando la poliziotta le disse: «Ti è andata bene… Antonelli è un tipo un po’…» «Stronzo» concluse Nine. «Quelli che per offendere una donna devono per forza metterci dentro il sesso, mi fanno andare il sangue al cervel-lo!» «Non ti chiedo com’è andata perché posso immaginare. Oltre che stronzo, come dici tu, è anche un po’ fascista. Cerca di stargli alla larga, dire che è vendicativo non rende esattamente l’idea.» «Come fai a starci così vicina? Io non potrei mai!» «Diciamo che ho chiarito subito la mia posizione e, al momento, mi sembra che sia stato sufficiente.» «Come ti chiami?» «Ida. E tu?»

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«Gli amici mi chiamano Nine» disse, infilando lo zainetto. Ida era in polizia da poco più di nove anni e aveva dovuto lavorare sodo e sgomitare molto, fra i suoi colleghi maschi, per riuscire a trovare una sua collocazione e un suo ruolo all’interno della squadra. Aveva dovuto rintuzzare ogni attacco e ogni allusione dei colleghi più aggressivi e rifiutare protezioni e favori da quelli più apprensivi. Nei due anni in cui era stata l’unico agente operativo donna del com-missariato, ogni collega aveva ritenuto quasi un dovere provarci con lei. Nella maggior parte dei casi s’iniziava con allusioni neanche troppo ve-late, seguite da avances spesso grossolane e talvolta volgari, altre volte i modi erano più aggressivi e diretti e richiedevano risposte più dirette. Antonelli faceva parte della seconda casistica. Tutto questo era stato per lei più faticoso del lavoro stesso. Col tempo molti avevano imparato ad apprezzarla e a rispettarla, altri avevano giustificato il fallimento del loro “raffinato corteggiamento” affibbiandole l’etichetta di lesbica. Nine le aveva fatto subito simpatia. Forse per quei grandi occhi neri e per quell’espressione fiera e spavalda, forse per la giovane età o per quella sua aria svagata. Di certo, aver messo al suo posto Antonelli aveva contribuito ad alzare sensibilmente il suo punteggio agli occhi di Ida. «Cerca di stargli alla larga» le ripeté e aggiunse: «Ho sentito che sei una pittrice, cosa dipingi?» «È un po’ difficile da spiegare. Si può dire che dipingo il significato delle parole.» «Ora mi incuriosisci davvero. Mi piacerebbe vedere qualcosa di tuo…» «Fra poco parteciperò a una collettiva. Se vuoi posso farti avere un in-vito, sempre che tu sia interessata davvero.» «Si, mi farebbe piacere, se non è di troppo disturbo.» «Nessun disturbo, anzi. Non sono una firma di richiamo, non ancora. Più siamo e meglio è» disse Nine spegnendo il mozzicone nel rimasu-glio di caffè. «Ora devo andare. Ci vediamo.» «Ciao… Nine.» Antonelli e Dilani entrarono nell’ufficio del commissario Pandolfi e ri-masero in piedi davanti alla scrivania in attesa. Il commissario alzò gli occhi dalla pila di documenti e, con un cenno della mano accompagnato da un ampio sorriso, li invitò ad accomodarsi per immergersi di nuovo nella lettura. Dopo alcuni interminabili minuti, Pandolfi chiuse la cartellina che stava esaminando e tirò un sospiro che non annunciava niente di buono.

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«Buongiorno, state comodi?» «Si, grazie.» «Posso offrirvi qualcosa? Un caffè…» L’inusuale ed eccessiva cordialità del commissario cominciò a spaven-tare i due che rifiutarono scuotendo il capo. Pandolfi era, come lui stesso amava definirsi, un poliziotto vecchia ma-niera. Si era formato dopo lunghi anni di gavetta vissuti sulle strade di tutta la penisola. La diplomazia non era certo il suo forte e di questo a-vevano preso atto sia i suoi superiori, che sopportavano le sue sparate perché, in fondo, apprezzavano la sua abilità e il suo fiuto che lo porta-va quasi sempre alla soluzione dei casi che gli erano affidati, sia i suoi collaboratori, che nutrivano per lui un sentimento che univa alla cano-nica stima verso il capo, un sacro terrore per i suoi scatti improvvisi. La sua carriera era stata un lungo e incessante peregrinare fra antidroga, buoncostume, squadra mobile, sezione speciale, eccetera, interrotto da due trasferte all’estero per scambi “culturali” con la polizia inglese e quella israeliana. Forse proprio queste due esperienze avevano rafforzato in lui un con-vincimento che, in qualche modo, era da sempre stato la filosofia del suo essere sbirro, una specie di compendio di regole che guidavano il suo modo di agire e che spesso tentava di trasferire, con alterni succes-si, nelle nuove leve. Chi gli lavorava accanto lo aveva spesso sentito affermare che “i casi si risolvono sul campo”, che “un informatore vale più di cento computer” o “lo schedario più utile è quello che hai in testa”, senza tralasciare che “la migliore arma di un poliziotto sono i suoi contatti”. Non mancavano regole più specifiche come “ci sono più puttane e ma-gnaccia fra le persone perbene che sui marciapiedi” e non disdegnava suggerimenti più coloriti come “se dai la caccia a uno stronzo, devi ri-mestare nella merda”. Lui si atteneva alla sua filosofia senza dedicare troppe energie all’apprendimento del “nuovo” come le tecniche informatiche per le quali, pur intuendone l’indubbia utilità, provava una sottile e mai aper-tamente confessata avversione. «Sicuri, non prendete niente?» «No, grazie.» «So che eravate di turno voi questa notte…» «Si dottore, nottata piuttosto tranquilla…» Questa ultima osservazione accese la miccia e l’esplosione fu violenta e improvvisa. «Cosa cazzo dici, Antonelli, tranquilla… un cadavere semiscuoiato per te è sinonimo di una notte tranquilla? Come cazzo ragioni, come cazzo

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ragionate tutti e due? Cosa stracazzo aspettavate a fare rapporto? Che vi venga a cercare io? Eravate troppo occupati a fermare una pericolosa criminale che si era macchiata dell’orrendo crimine di gorgheggio ag-gravato?» I due si guardarono esterrefatti, poi Antonelli accennò a ribattere: «Stava cantando a squarciagola per strada, all’alba…» «Antonelli, forse non ti è chiaro.» La voce del commissario era calata di tono per subire subito dopo un’impennata «Non me ne importa un cazzo del canto!» Dilani, che rispetto al collega aveva una marcia in più e un po’ di an-zianità in meno, decise di entrare in gioco e, con tono pacato, disse: «L’unico cadavere di questa notte è quello del parco. Morte naturale. Nessuna ferita esterna. Mi creda commissario non era “scuoiato” come dice lei.» «Il dottor Avenzi è di parere diverso e anche io che l’ho visto poco fa» disse Pandolfi che considerava Dilani “uno che col tempo si sarebbe fatto”. «Andate alla palazzina e poi tornate qui. Subito.» I due si alzarono e scomparvero velocemente dallo sguardo del com-missario che già si era rituffato nei suoi pensieri. La palazzina, sede dell’Istituto di Medicina Legale, era una costruzione bassa non molto distante dal commissariato. I due la raggiunsero a piedi in pochi minuti. Il dottor Avenzi era completamente assorto nella stesura di uno dei suoi dettagliatissimi referti e alzò lo sguardo sollecitato dai colpetti di tosse di Dilani. «Qualunque cosa dobbiate dire, ditela in fretta. Sono molto occupato.» «Noi invece siamo qui per una boccata di allegria, una botta di vita co-me si dice…» iniziò Antonelli, bloccato sul nascere dallo sguardo elo-quente del dottore. Dilani cercò di ristabilire il clima: «Le rubiamo poco tempo, dottore. Il commissario ci ha detto del cadavere scuoiato. Possiamo vederlo?» «Non lo avete visto abbastanza questa notte?» «Si, ma dobbiamo rivederlo» replicò deciso Dilani. «Contenti voi…» disse Avenzi a mezza bocca, alzandosi con un certo sforzo dalla sedia e accompagnando il gesto con un sospiro. Il cadavere era ancora sul tavolo di acciaio coperto da un telo che il dot-tore sollevò scoprendolo fino alla vita. «Come vedete, non ho ancora fatto l’esame autoptico, ho solo raccolto gli effetti personali e fatto un primo esame esterno» disse indicando una

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scatola sulla quale era appoggiato l’inventario dei reperti. «Se siete così gentili da firmare la ricevuta…» Solo allora il dottore si accorse dello sguardo sgomento dei due. «Cazzo, cazzo! Non era in questo stato stanotte, non…insomma il petto non…» «Decesso per probabili cause naturali da accertare» mormorò con un filo di voce Antonelli, ripetendo ciò che il medico del turno di notte a-veva diagnosticato nel parco. «Ora cominciate a farmi incazzare. Non penserete che sia stato io a fare questo lavoretto, spero!» «No, dottore, ma stanotte questa ferita non c’era» disse calmo Dilani «ne sono assolutamente certo.» «Certo! Nessuna ferita» ribadì Antonelli. «Questa mattina questa ferita c’era» rispose Avenzi «se permettete ne sono certo anch’io!» «Chi lo ha portato?» chiese Dilani. Il dottore consultò il foglio di ingresso e rispose scandendo i nomi: «Sergio Piano e Franco Cesi, Croce verde, ore 06,20… serve altro?» «Dobbiamo contattare subito il dottor Tronfi» suggerì Dilani che aveva in mano il cellulare. «Faccio io» disse Avenzi, componendo il numero sul telefono fisso. «Tronfi… chi parla?» «Ciao, sono Avenzi. È per il cadavere del parco. Ho bisogno di avere al più presto il tuo referto.» «È pronto; se vuoi te lo faxo subito ma, fammi capire, a cosa si deve questo interesse?» Avenzi ignorò la domanda e chiese: «Ferite esterne?» «Nessuna, Avenzi, perlomeno nessuna recente. Posso sbagliare, ma credo proprio che si tratti di infarto.» Avenzi rimase un attimo pensieroso, poi scandì cifra per cifra il numero del fax e riagganciò dopo un saluto frettoloso. Dopo meno di un minuto il fax cominciò a stampare, sfrigolando, il re-ferto che Avenzi cominciò subito a leggere, sotto gli sguardi interroga-tivi di Antonelli e Dilani. Leggeva sottovoce scorrendo velocemente le righe, poi a voce più alta e scandendo le parole: «…nessuna ferita recente rilevabile da un primo esame esterno.» «Avvertite il commissario Pandolfi che passerò da lui in mattinata. Credo sia il caso che ritiriate gli effetti personali anche se non mi sem-bra ci sia molto. Identificarlo non sarà una passeggiata!»

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«È una cosa inspiegabile, capo. Roba da non credersi, in tanti anni è la prima volta…» Antonelli fu interrotto dal dottor Avenzi che fece il suo ingresso nell’ufficio di Pandolfi. Evidentemente qualcosa gli rodeva e non aveva voluto aspettare. «È un fatto grave, molto grave» esordì il dottore rivolto a Pandolfi, «ho qui il referto del medico di turno. Non c’è alcun dubbio, quello scempio deve essere avvenuto durante il trasporto dal parco all’obitorio. Non riesco a capire il perchè di tutto questo ma, Cristo, una ragione deve pur esserci!» Dilani pareva più assorto nei suoi pensieri che attento alla conversazio-ne. Pandolfi prese il referto che Avenzi gli porgeva e lo scorse velocemen-te, poi con voce calma lo invitò a sedersi. «Ho bisogno di sapere tutto ciò che può dirmi su quel cadavere: causa della morte, ora della morte, malattie, natura delle ferite, cosa ha man-giato e quando…tutto insomma, e naturalmente al più presto. Stiamo rischiando grosso, se viene fuori una storia di questo genere…» «Anche all’obitorio» lo interruppe Dilani che pareva uscito dalle sue riflessioni «può essere successo direttamente all’obitorio. Qualcuno può aver approfittato del cambio di turno.» «Non credo. Chi rischierebbe di introdursi abusivamente…» iniziò A-venzi, in una comprensibile quanto inutile difesa del territorio che ca-deva sotto la sua responsabilità. «Chi è stato capace di quello scempio, non credo possa spaventarsi gran che per un’accusa di effrazione o di vilipendio di cadavere» commentò Dilani. «Dobbiamo fare il punto della situazione e dobbiamo al più presto tro-vare il bandolo della matassa. Il dottore credo abbia cose più urgenti da fare che stare qui ad ascoltare le nostre ipotesi. Tu Dilani cerca la Nic-colini e venite da me tra mezz’ora. Anche tu Antonelli. Ora lasciatemi col dottore.» Quando furono soli, Pandolfi si alzò dalla sua poltrona e andò a sedersi vicino al dottore. «Non potrò ritardare ancora per molto il mio rapporto. Ho bisogno di sapere quanto più possibile su quell’uomo e dobbiamo capire come e quando si sono svolti i fatti. Ho un brutto presentimento e sai che diffi-cilmente mi sbaglio.» Per un accordo mai esplicitato il commissario e il dottore si concedeva-no il “tu” solo quando erano soli. Le loro strade professionali si erano

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unite e disgiunte molte volte nel corso degli anni ed entrambi avevano imparato a stimarsi sia da dal punto di vista professionale sia da quello umano. «Sono molto preoccupato anch’io» disse il dottore, che aveva colto nel tono di Pandolfi un disagio e un’apprensione che non gli erano abituali. «Faremo tutto il possibile» aggiunse alzandosi. «Sarò in ufficio fino a tardi. Ti chiamo se ho novità.» Ida Niccolini, Dilani e Antonelli entrarono nell’ufficio di Pandolfi che li stava aspettando. «Siamo di fronte a un caso molto particolare. È inutile che vi dica che quello che viene detto in questo ufficio non deve assolutamente essere divulgato. A nessuno e per nessuna ragione. Farete rapporto solo a me. Da oggi lavorerete a tempo pieno a questo caso. Detto questo, vediamo di mettere in ordine i fatti e cerchiamo di capirci qualcosa. Dilani, rias-sumi per tutti ciò che sappiamo.» Dilani aprì il suo notes e iniziò: «Questa mattina ero di turno con Antonelli. Quando siamo stati avverti-ti dalla centrale che alla cappella o, per essere più precisi, dietro la cap-pella nel parco era stato trovato da un addetto alle pulizie, tale Carlo Corsi, il cadavere di un uomo, ci siamo portati sul posto. Constatata la presenza del cadavere, abbiamo avvertito il medico di tur-no che ci ha raggiunti nel giro di 15 minuti. Poco dopo, il medico ci ha comunicato che, a un primo esame, la morte sembrava essere stata cau-sata da un infarto. Nessun documento. Abbiamo atteso l’arrivo dell’ambulanza e, dopo aver controllato la zona intorno alla cappella e chiesto ai presenti se qualcuno avesse assistito al decesso o avesse visto qualcosa, abbiamo continuato il nostro giro. Dei presenti al momento del nostro arrivo, molto pochi per la verità, nessuno ha visto o sentito niente. Anche il Corsi non ha saputo aggiungere niente di interessante.» Dilani chiuse il blocco e lo infilò in tasca. Antonelli accennò a parlare, ma fu bloccato da Pandolfi: «Questa mat-tina sono stato chiamato dal dottor Avenzi. Sono andato all’obitorio e mi ha mostrato il cadavere in questione. Anche lui propende per un in-farto come il medico di notte. L’unica differenza fra i due referti è l’ampia ferita sul petto del cadavere. In sostanza» aggiunse Pandolfi vedendo lo sguardo smarrito della Niccolini, «si può dire che il petto dell’uomo sia stato scuoiato. Si tratta di un lembo di pelle molto esteso e, secondo il dottor Avenzi, questa ferita è stata inferta post mortem. Sul cadavere ci sono cicatrici di vecchie ferite suturate da qualche dilet-

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tante o da qualche medico piuttosto inesperto e altre che fanno pensare a torture.» Pandolfi attese alcuni istanti per permettere a tutti di valutare ciò che era stato detto fino a quel momento, poi proseguì: «L’unico momento, anzi gli unici due momenti» precisò guardando Di-lani «nei quali lo scuoiatore può aver agito, sono durante il trasporto in ambulanza - e mi sembra improbabile - o durante il cambio di turno in obitorio. So che sembra impossibile ma non può essere che così. Ora sono molte le domande alle quali dobbiamo dare una risposta; quelle che mi vengono in mente sono, al momento, queste: Chi è la vittima? Cosa faceva all’alba in una zona così poco frequentata del parco? Perché ha subito la ferita al petto? Chi ha inferto la ferita?» Mentre parlava, Pandolfi annotava sulla lavagna del suo ufficio le do-mande che affioravano alla sua mente. «Se qualcuno ha suggerimenti dica la sua» disse posando il pennarello sul bordo della lavagna. «Forse la ferita serve a camuffare la reale causa della morte» azzardò Antonelli. «Io credo che quella ferita possa essere stata inferta per nascondere un segno particolare, qualche cosa che potesse far identificare più veloce-mente il morto. Forse una cicatrice particolare, oppure una di quelle macchie della pelle» disse Ida. «Se fosse così non credo che ci avrebbe lasciato le impronte digitali e quella dei denti» obiettò Dilani. «Nessuno ha preso in considerazione la possibilità che si tratti di uno squilibrato, un pervertito che colleziona pezzi di cadavere» osservò An-tonelli. «Se escludiamo il Mostro di Firenze, e rimarrebbero comunque molte differenze fra i due casi, non mi risulta ci siano esempi di questo genere in Italia, ma possiamo sempre fare una ricerca» suggerì la Niccolini. La conversazione continuò per un po’ fino a che Pandolfi non ritenne opportuno intervenire: «Ogni ipotesi è al momento possibile. Ci servono più indizi, più dati su cui ragionare. Dilani, torna alla cappella e porta con te la Niccolini; non si sa mai, forse ci è sfuggito qualche dettaglio. Parlate anche con i pa-ramedici che sono intervenuti questa mattina e cercate di capire se na-scondono qualcosa. Tu, Antonelli, senti se la scientifica ha trovato qualche cosa sugli abiti e fatti stampare qualche copia della foto del cadavere. Potrà venirci utile.

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Fabozzi lo ho già avvertito io. Fai anche quella ricerca su possibili ana-logie con altri casi. Noi ci rivediamo qui alle sette, stasera.» La riunione era conclusa e tutti uscirono lasciando Pandolfi nuovamen-te immerso nei suoi pensieri. Il resto della mattinata passò senza novità e Pandolfi la dedicò a firmare qualche tonnellata di documenti, a visionare rapporti e a rimuginare su come avrebbe posto la questione al questore. Verso le tredici, decise di andare a mangiare un boccone in un’osteria poco lontana dal commissariato. Ormai era giorno fatto e la stanchezza era tenuta sotto controllo solo dall’eccitazione del momento. Ivan tirò fuori dalla borsa la busta di pla-stica e con cautela prese il lembo di pelle, andò in bagno, aprì l’acqua regolandola in modo che fosse tiepida, lo lavò delicatamente sotto il getto. Quando gli ultimi residui di sangue sparirono nello scarico, ada-giò il lembo di pelle sul fondo del lavandino, prese la schiuma da barba e insaponò la folta peluria che copriva il tatuaggio, poi, con calma, ini-ziò la rasatura. A lavoro ultimato, procedette a un secondo lavaggio e dispose poi la pelle su un asciugamani. Sulla pelle di un bianco innaturale spiccava l’inchiostro blu del tatuag-gio. Rappresentava una farfalla, una farfalla stilizzata con le ali triango-lari. Non c’erano colori, solo il blu sbiadito disegnava, con una tecnica a punti, le ali e il corpo affusolato della farfalla che sormontava un car-tiglio, anch’esso privo di sinuosità, che riportava le lettere: N E U V. Due raggiere che somigliavano a delle saette andavano verso destra e verso sinistra partendo da sotto il corpo della farfalla. Poco sopra il ca-po era disegnata una figura geometrica a nove lati che faceva pensare a un diamante. Era la prima volta che poteva osservare bene e da vicino il tatuaggio senza rischiare che il suo interesse insospettisse Aaron. L’eccitazione, che aveva fino a quel momento contribuito non poco a tenere vigili i suoi sensi, cominciò a cedere pian piano terreno. Ivan sa-peva che aveva bisogno di riposare per affrontare quell’enigma e i molti problemi che orbitavano intorno a esso. Stese sulla pelle un telo e la asciugò delicatamente, poi aprì il frigorife-ro e prese una confezione di pizza, aprì la scatola e sostituì la pizza con il lembo di pelle. Richiuse la scatola e la ripose in fondo al frigo. Il na-scondiglio gli sembrò eccellente. Con la consapevolezza che la chiave giusta era ormai nelle sue mani, decise di sdraiarsi sul letto per riflette-re. Si addormentò quasi all’istante.

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CAPITOLO III Erano circa le 14,30 e Pandolfi aveva appena aperto la porta del suo uf-ficio quando il telefono squillò. Era Avenzi che lo voleva aggiornare sulla situazione. Aveva concluso il prelievo di campioni dal cadavere, le impronte digitali e il calco delle arcate dentali erano stati inviati alla scientifica. L’uomo non aveva cenato la sera precedente alla sua morte, a eccezione di alcuni biscotti salati. Nessuna traccia di droghe o di veleni. Quando si lasciarono, Avenzi disse: «Se ho qualche novità ti richiamo, anche se per oggi temo non si possa fare altro.» Pandolfi prese la giacca che aveva appoggiato sulla scrivania e decise di affrontare il questore. Uscì nel cortile interno, salì sulla sua auto e s’immise nel traffico. Aveva ormai deciso la linea di condotta che avrebbe tenuto con il que-store: avrebbe raccontato l’essenziale, cercando di minimizzare l’aspetto della ferita post mortem, suggerendo la teoria del gesto di uno squilibrato. Il questore lo ricevette subito, un po’ perché conosceva il carattere del commissario, un po’ perché non si poteva dire che fosse affogato dal lavoro. La teoria dello squilibrato convinse subito il questore e Pandolfi si ri-servò qualche giorno, giusto il tempo degli accertamenti di routine, per chiudere il caso. «I miei saluti alla signora» disse Pandolfi stringendo la mano del que-store. Pandolfi risalì in macchina e si mise a guidare senza una meta precisa. La guida lo rilassava e lo aiutava a riflettere. Non credeva a nessuna delle ipotesi che si erano affacciate alla sua mente fino a quel momento e non riusciva a formularne un’altra più convincente. Non credeva alla tesi dello squilibrato: un’azione del ge-nere richiedeva motivazione, tempismo e determinazione, qualità non comuni in un malato di mente collezionista di pelle umana. Anche il tentativo di nascondere la ferita mortale era ormai un’ipotesi superata. Al momento non c’erano motivi per mettere in dubbio la mor-te naturale. Supporre che la ferita fosse servita a cancellare un segno particolare non lo convinceva del tutto ma, al momento, pur rimanendo incom-

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prensibile, pareva la teoria più plausibile. Gli venne in mente sua nonna che aveva sul braccio destro una grande macchia violacea a forma di cuore. «È una voglia di lampone» gli diceva sempre, prima di partire inesora-bilmente con il racconto dell’apparizione della macchia cutanea che era avvenuta in un periodo che variava, a seconda della versione che più le piaceva in quel momento, dall’arco di una nottata a meno di un paio di ore. Da bambino il racconto lo aveva impressionato anche se aveva cercato di non darlo a vedere ma, per molto tempo, al mattino aveva fatto un’ispezione di controllo alle braccia prima di alzarsi. Già, una macchia con una forma particolare poteva essere un segno di riconoscimento piuttosto valido, ma a cosa era servito asportarlo in mo-do così brutale se anche i bambini sanno che impronte digitali e dentali assolvono il compito meglio di qualsiasi “voglia”? Imboccò i viali lungo il fiume e, senza accorgersene, si ritrovò davanti al parco. Decise di fermarsi e dare anche lui un’occhiata al luogo del ritrovamento: sicuramente rinverdire il ricordo di quei luoghi che non visitava da tanto tempo avrebbe potuto, più avanti, rivelarsi di una qualche utilità e, in ogni caso, l’indagine doveva partire da lì. S’incamminò per i vialetti e, costeggiando il laghetto, giunse alla cap-pella. Percorse tutto il perimetro esterno fino a ritornare davanti alla porta di ingresso. Provò ad aprirla ma, come era facile immaginare dalle foglie e dalla sporcizia accumulata ai piedi del battente, la porta era chiusa e lo era da molto tempo. Si attardò ancora qualche minuto sul versante posteriore, alla ricerca di qualche segno sul terreno (senza avere la più pallida idea di cosa cerca-re), forse un mozzicone di sigaretta o la carta di una caramella. Il sopraggiungere di alcuni bambini che giocavano a nascondersi lo convinse ad abbandonare la cappella. Il parco era pieno di madri con carrozzina, giocatori di frisbee, coppiette e pensionati e Pandolfi cercò, con poco successo, di immaginare quei luoghi al mattino presto. Il tempo era passato troppo in fretta e decise di rientrare. Aveva molte beghe da risolvere prima della riunione con Antonelli e gli altri. Si diresse verso l’ingresso affrettando il passo e non fece caso alla vec-chia signora seduta sulla panchina davanti alla cappella.

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Era ormai sera e Ida rientrò con Dilani in commissariato, andò diretta-mente nei bagni, si sciacquò la faccia e si riavviò i capelli con le mani, poi tornò alla sua postazione per lasciare la pistola. Fra la montagna di carte che ingombravano perennemente la sua scrivania, notò una busta appoggiata sopra la tastiera del computer. L’aprì e vide che si trattava dell’invito alla mostra di pittura alla quale partecipava anche Nine. Lo mise in tasca e andò a prendere una bottiglietta d’acqua al distribu-tore, accese una sigaretta e si fermò a fumare vicino all’ingresso. Poco dopo rientrò anche Antonelli, lei spense la sigaretta e si avviò ver-so l’ufficio di Pandolfi. Aspettò sulla porta che anche Dilani e Antonelli fossero pronti, poi entrarono insieme per la riunione serale. Il primo a parlare fu Dilani: «Abbiamo fatto un sopralluogo alla cappel-la, ma non abbiamo trovato niente di interessante. Del resto, quel posto è così frequentato da coppiette in cerca di qualche metro di intimità che, anche se ci fosse stata qualche traccia, non sarebbe più possibile rile-varla. Abbiamo parlato anche con l’uomo che spazza i vialetti per sape-re se avesse sentito qualcosa, qualche richiesta di aiuto, qualche lamen-to. Niente da segnalare. Abbiamo sentito i due paramedici che hanno portato all’obitorio il cadavere. Ci sono sembrate due persone perbene» proseguì Dilani cercando conferma nello sguardo della Niccolini. «So-no sembrati sinceramente meravigliati delle nostre domande. Insomma credo, crediamo che non nascondano niente. In parole povere, un buco nell’acqua.» Antonelli trasse da una busta le foto del volto del cadavere e le appog-giò sulla scrivania del commissario, poi iniziò il suo rapporto: «La scientifica per ora non ha fatto grandi passi avanti. L’unica traccia, se così si può dire, è negli abiti: la confezione non è italiana e stanno cer-cando di capire se è possibile stabilire dove e quando è stato acquistato. Sugli altri fronti è presto per avere risposte. Anche la ricerca su Internet non ha dato risultati apprezzabili. Ci sono stati in Italia omicidi assimi-labili a questo, ma solo per la parte riguardante lo scuoiamento: basti ricordare il sarto che evirò, uccise e scuoiò un furfantello con preceden-ti per droga e atti osceni. Ma eravamo nel ’98 e lui, l’assassino, all’epoca aveva già 69 anni. Ce ne sono anche altri, ma in ognuno di essi c’è un aspetto che qui manca. Qui, se dobbiamo credere a quello che ci dice il dottor Avenzi, e non solo lui, non c’è stato nessun omici-dio e, per quanto ne so, questo è il primo e unico caso del genere. In-somma, non voglio farla troppo lunga ma i dati che abbiamo, anzi che non abbiamo, non forniscono sufficienti parametri per una ricerca di eventuali casi correlati. Per ora credo sia solo un vicolo cieco.»

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«Non ci rimane che aspettare. Speriamo che la notte porti consiglio a noi e più che altro a quelli della scientifica. Appuntamento qui domatti-na alle otto» concluse Pandolfi. Ivan fu svegliato dal rumore delle porte dell’ascensore. Era ancora ve-stito e le scarpe che doveva essersi sfilate durante la notte, erano sul let-to. Andò in bagno, si lavò e cambiò la camicia, poi si sedette in cucina e scaldò del caffè avanzato. Accese la prima sigaretta della giornata e uscì. Scese le scale e, una volta in strada, si diresse verso l’edicola, comprò un paio di quotidiani che iniziò a sfogliare tornando verso casa. Si sedette a un tavolo del bar d’angolo sotto casa e ordinò la colazione. Da lì poteva vedere l’ingresso del palazzo. La macchina era cambiata e anche i suoi angeli custodi, o perlomeno così gli sembrò. Continuò a leggere i giornali ancora per una decina di minuti, poi bevve l’ultimo sorso di caffè e si accese una sigaretta. Sapeva di essere osservato e cercava di dare l’impressione di essere calmo e rilassato, nel tentativo di nascondere il turbinio di pensieri che agitava la sua mente e che aveva la sensazione fosse visibile anche dall’esterno. Sapeva anche, e fin troppo bene, che stava giocando con il fuoco e che il rischio di scottarsi era alto, ma il gioco valeva la candela. La sua vita sarebbe cambiata. Niente più armi né ribelli né eserciti, niente più giun-gle o deserti, addio ai bivacchi e alle tende, ai serpenti e agli scorpioni, al freddo e al caldo opprimente, alle camicie inzuppate di sudore attac-cate alla pelle, ai pasti frugali consumati in fretta, al freddo nelle ossa e alla vodka scadente. Niente più scarafaggi e zanzare, soffitti scrostati e pavimenti sconnessi, celle, inferriate e catene, odore di sangue, di pro-miscuità e di morte. Avrebbe vissuto in alberghi di lusso, avrebbe avuto macchine con auti-sta, donne diverse tutte le sere, spiagge bianche e drink serviti in grandi bicchieri da camerieri in livrea. Ma prima doveva risolvere alcuni problemi di non poco conto. Solo dopo avrebbe potuto scomparire per sempre per rinascere nel nuovo mondo. Spense la sigaretta e fece un cenno al cameriere, pagò il conto, ripiegò i giornali e si avviò verso casa. Sapeva di non poter tenere a lungo la pelle in casa, era un indizio trop-po pericoloso. Dopo aver fissato l’immagine doveva distruggerla al più presto assieme a tutto quello che avrebbe potuto collegarlo a quella fac-cenda.

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Prese una stampa appesa alla parete e tolse il vetro, adagiò la pelle sulla stampa e cercò di far in modo che le linee orizzontali del cartiglio non fossero distorte dalle inevitabili deformazioni. Quando riuscì a trovare la posizione ottimale, appoggiò il vetro sul tatuaggio e lo osservò atten-tamente: i bordi esterni delle ali erano ora perfettamente ortogonali ai margini superiori del cartiglio. Decise che poteva essere soddisfatto. Andò in camera da letto, prese una piccola fotocamera digitale e iniziò a scattare foto facendo attenzione a evitare i riflessi del vetro. Per ogni scatto ingrandiva l’immagine nel visore e decideva se tenerla o cancel-larla. Fece tre o quattro totali e alcuni dettagli, cambiando distanza ed esposi-zione. Estrasse la scheda di memoria e la inserì in un lettore collegato al porta-tile. Riesaminò una a una le immagini ingrandite senza scaricarle nel PC, avendo cura di ritagliare i margini per alleggerire al massimo i file. Finita l’operazione spense il computer e ripose la scheda in un foglio di carta che piegò più volte, fino a ottenere un piccolo involucro che fissò con del nastro adesivo dietro la spalliera del letto. Prese la pelle e andò in bagno, la distese sul fondo del bidet e la ricoprì di acido, poi aprì la finestra e andò in cucina chiudendo la porta del ba-gno alle sue spalle. Ora bastava aspettare. Ingannò il tempo ripulendo accuratamente la stampa, rimontò il vetro e la rimise al muro. Prese delle forbici e ta-gliuzzò la confezione della pizza che avrebbe successivamente fatto sparire nella tazza del bagno e, infine, si guardò intorno per controllare se era tutto a posto. Si sedette e accese una sigaretta. Agli asciugamani avrebbe pensato poi, quando i vapori dell’acido si fossero dispersi.

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CAPITOLO IV A giudicare dalle facce, la notte non aveva portato consiglio. Dilani e Niccolini entrarono nell’ufficio di Pandolfi seguiti a ruota da Antonelli che finì di bere il caffè e si guardò intorno alla ricerca di un cestino dove buttare il bicchierino di plastica. Pandolfi, che era arrivato da più di mezz’ora, mise da parte le carte che aveva davanti, andò alla lavagna e cerchiò con il pennarello la prima voce “chi è la vittima” del breve elenco. «Fino a che non troviamo una risposta a questa domanda, sarà molto difficile fare un passo avanti.» «Se l’abito che indossava la vittima è stato confezionato all’estero, for-se sarebbe bene sentire i colleghi dell’immigrazione, gli alberghi, gli aeroporti…» suggerì Dilani che aggiunse: «La seconda voce può essere cancellata. Sembra non ci siano dubbi sull’infarto.» «Dovremmo anche sentire se ci sono state denunce di persone scompar-se. Forse è ancora troppo presto, specialmente se è uno straniero, ma in ogni caso conviene tentare» aggiunse la Niccolini, che proseguì: «Cre-do anche che sarebbe bene tornare al parco e concentrarsi sui visitatori. Spesso i parchi sono meta di frequentatori abituali e forse qualcuno ha visto qualcosa, anche se, vista l’ora, non credo ce ne fossero molti. Pos-so occuparmene io.» «Forse il modo migliore è quello di far pubblicare la foto sui giornali. Anche se è straniero avrà pure incontrato qualcuno, avrà un posto dove alloggiare e, se era qui per questioni di lavoro, sicuramente qualcuno sarà stato a conoscenza del suo arrivo» disse Antonelli. «L’idea non è male, ma preferisco coinvolgere la stampa il più tardi possibile e solo se dovesse essere indispensabile» rispose Pandolfi. «Per ora dividiamoci i compiti in questo modo: tu Niccolini occupati del parco, parla anche con i custodi. Vedi se possono indicarti se ci so-no, e chi sono, i frequentatori abituali, fascia oraria in cui sono soliti andarci, descrizioni eccetera eccetera... Tu Dilani senti l’immigrazione, aeroporti e compagnie aeree, insomma voglio sapere come è arrivato in città. Tu Antonelli cerca di sapere se, in città, ci sono stati o ci saranno convegni, meeting, fiere, insomma occasioni di lavoro che hanno in programma interventi di stranieri. La

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camera di Commercio può esserti utile, vedi tu. Per quanto riguarda i giornali, aspettiamo qualche altro giorno. Alla scientifica penserò io.» In quel momento squillò il telefono. «Ci vediamo questa sera alle otto, se non ci sono novità prima. Andate» disse Pandolfi alzando la cornetta e schermando il microfono con la mano. Ascoltò per alcuni secondi. «Passamela» disse al centralinista di turno. «Buongiorno commissario, forse mi conosce, sono Tiziana Sicuro di Rete 2000. Avrei qualche domanda da farle sul suo lavoro, sulla situa-zione della lotta alla criminalità e, ovviamente, sul caso del parco. Pos-so essere da lei in meno di mezz’ora, sempre che voglia dedicarmi qualche minuto.» «Si, purtroppo la conosco e devo confidarle che lei, a mio modesto av-viso, è un mirabile prototipo di scassacazzi catodica.» Naturalmente la sua risposta fu un’altra: «Si, la conosco, ma devo, mio malgrado, deluderla: non c’è nessun caso anche se c’è il cadavere e, ovviamente, anche il parco. Si tratta di un infarto e, come certo saprà, l’infarto non fa differenze fra un parco pubblico e un letto d’ospedale.» «Allora è solo per pura curiosità che i suoi uomini fanno così tante do-mande in giro» disse la giornalista con un velo di sarcasmo che contri-buì efficacemente a innervosire Pandolfi. «Le ripeto, non c’è nessun caso, solo routine.» «Può almeno dirmi di chi si tratta?» «Al momento no, dobbiamo prima avvertire i parenti. Lei capisce, pre-feriamo che lo sappiano da noi prima di qualsiasi giornale o televisio-ne.» «La richiamerò nel pomeriggio. Non le dispiace mica?» «Faccia pure, non capisco il suo interesse, ma faccia pure.» Pandolfi fece appena in tempo a mettere giù la cornetta che il telefono squillò di nuovo. «Ciao, sono Avenzi.» «Ciao Giorgio, dimmi qualche cosa che possa somigliare a una pista!» «Non so se può essere una pista» rispose il dottore «quello che è certo è che il nostro uomo, anche senza infarto, sarebbe morto ugualmente. Forse non subito, ma presto, molto presto.» Avenzi attese qualche commento che non arrivò e quindi riprese: «La protesi dentaria ha caratteristiche che fanno pensare ai paesi dell’Est, direi Polonia o Cecoslovacchia. Non è molto, ma è quello che ho al momento.» «Sono i materiali impiegati a suggerire questa provenienza o che al-tro?» chiese Pandolfi, che aveva ascoltato in silenzio.

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«Non solo i materiali, anche la tecnica di realizzazione. Credimi, è mol-to difficile che mi sbagli!» «Ti ringrazio. Al momento, ogni particolare può essere utile. Ci lavore-rò su. A presto.» Pandolfi abbassò la cornetta, prese il cellulare e fece il numero di Anto-nelli: «Sai dirmi niente su chi organizza quelle gite che comprendono interventi odontoiatrici? Mi interessano quelli che si occupano di Polo-nia e Cecoslovacchia.» «Non ne so molto, ma posso sempre informarmi. Non dovrebbe essere difficile.» «Fammi sapere» rispose Pandolfi e riattaccò. Pandolfi aveva il pranzo sullo stomaco, ma non era questo il disagio maggiore. Sapeva che il tempo non giocava a suo favore: senza qualche passo avanti, la sola mutilazione di un cadavere non avrebbe potuto im-pegnare la squadra ancora a lungo. In fondo si trattava di morte naturale e il questore glielo avrebbe fatto notare sicuramente, ma c’era qualcosa in tutta la faccenda che aveva da subito attivato le sue antenne, sentiva che qualcosa di importante gli stava sfuggendo. Doveva escogitare un sistema per prendere tempo nella speranza che la situazione si sbloccasse, che affiorasse qualche indizio sufficiente a motivare il protrarsi delle indagini. Dopo un bussare deciso fece capolino la Niccolini: «Posso? Forse ci siamo, capo.» «Dimmi.» «Dal Royal è scomparso un cliente. La descrizione corrisponde. Ci fac-cio subito un salto. Voglio accertarmi se lo riconoscono dalla foto pri-ma di cantare vittoria.» «Va’ subito e tienimi informato» concluse Pandolfi. Qualche cosa sembrava muoversi, forse la prima risposta stava per arri-vare e questo contribuì alla digestione di Pandolfi più del caffè che a-veva trangugiato in piedi davanti al distributore. Identificare la vittima voleva dire aprire una serie di vie investigative che, forse, avrebbero indotto il questore a concedergli un po’ di tempo. Metterlo a frutto era un altro discorso. L’agente del centralino gli comunicò che una certa signora Sicuro chie-deva di parlare con lui. «Passamela.» «No commissario, è qui di persona, la faccio passare?» «Dille che non ci sono.»

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«Non posso, le ho detto che era occupato. Avevo visto entrare la Nicco-lini…» aggiunse come a trovare una giustificazione. «Va bene, falla entrare.» Pandolfi conosceva la giornalista per averla vista in televisione alcune volte, ma non l’aveva mai incontrata di persona. Lei entrò nella stanza e senza dare tempo a Pandolfi di farle l’invito, si sedette di fronte a lui, poi sporgendosi oltre la scrivania gli tese la mano e si presentò: «Sicuro, Tiziana Sicuro.» A Pandolfi venne in mente “Bond. James Bond” e gli sfuggì un sorriso che la giornalista interpretò come un segno di benvenuto. «Non ho molto tempo» esordì Pandolfi «ma se posso esserle utile…» «Passavo da queste parti e ho deciso di venire a conoscerla personal-mente. Spero non le dispiaccia. Stiamo facendo un’inchiesta sulla nuo-va criminalità e pensavo potesse darmi il suo punto di vista. Quello del-la sicurezza è un problema molto sentito, ma questo non devo certo dir-lo a lei, e io sto raccogliendo le opinioni di esperti, amministratori pub-blici, addetti ai lavori e gente comune. Sono certa che lei, con la sua e-sperienza, potrà dare un contributo molto importante alla discussione che il mio editore vuole promuovere sulla nostra emittente, Rete 2000» specificò, cogliendo nello sguardo del commissario un’espressione va-gamente interrogativa. «Naturalmente, se volesse accettare di partecipare di persona al dibatti-to, per noi, per l’emittente, sarebbe un vero piacere. Il nostro pubblico troverebbe sicuramente molto interessante poter avere un’idea più pre-cisa di quali tecniche usate, di quali mezzi mettete in campo, insomma di come agite per combattere la delinquenza, con particolare riferimen-to alla sua recrudescenza di questi ultimi anni. Certamente i dati in suo possesso potrebbero fare luce, e ce ne sarebbe un estremo bisogno, sulle ragioni di questo aumento di fatti criminosi, siano essi imputabili alla criminalità organizzata, alla crescente immigrazione o a cani sciolti, come si dice.» La giornalista aveva parlato tutto d’un fiato, senza dare a Pandolfi il tempo di fare le obiezioni, ed erano molte, che la sua esperienza di po-liziotto gli avrebbe suggerito di fare. «Signora Sicuro, io non credo…» «Mi scusi se la interrompo, quanto le sto chiedendo non ha niente a che vedere con la mia telefonata di stamattina, o per meglio dire, sono con-vinta che il caso del parco faccia parte di quella recrudescenza che le accennavo, ma le posso assicurare che in ogni caso mi sarei messa in contatto con lei, perché è mia opinione, ampiamente condivisa dall’editore, che lei rappresenti, nell’immaginario della gente comune, il prototipo del poliziotto capace, onesto, di grande esperienza, ma que-

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sto credo di averglielo già detto. In poche parole, lei impersona ciò che la gente vorrebbe che fosse la polizia.» «Signora Sicuro, lei è veramente gentile a pensare…» Lo squillo del cellulare lo interruppe. «Pandolfi.» «Sono io, capo. Ci siamo, è lui. L’ho chiamata subito perchè ho pensa-to…» «Hai fatto benissimo. Prendi tutti i dati, io ti raggiungo subito.» «Veramente capo, ho già fatto tutto, spero… Con il suo permesso io rientrerei.» «Va bene, fai come hai detto. Io faccio più presto che posso.» «Ho capito, deve seminare qualche scocciatore.» «Perfetto.» Riagganciò la cornetta e si alzò in piedi: «Mi spiace, ma come ha senti-to devo andare. Per quanto riguarda un mio intervento nella sua tra-smissione, non credo di essere la persona giusta, ma mi lasci il tempo di pensarci. Per il caso del parco, come si ostina a chiamarlo lei, siamo certi si tratti di infarto. Ora devo proprio scappare, ma credo non man-cherà l’occasione di incontrarci ancora.» Premette il tasto dell’interfono: «Allegrini, vieni un momento.» «Mi ha chiamato, commissario?» Domande di questo genere erano come scintille sulla benzina per Pan-dolfi, ma non vedendo l’ora di liberarsi della giornalista, disse: «Ti di-spiace accompagnare la signora?» «Dovere. Dove devo accompagnarla?» «All’uscita Allegrini, è sufficiente fino all’uscita.» La giornalista strinse con calore la mano che Pandolfi le porgeva e u-scendo si voltò per aggiungere: «Arrivederci. Ci conto.» Pandolfi si rimise a sedere e stese le gambe sotto la scrivania. Aveva dovuto ascoltare troppe parole in un lasso di tempo troppo breve per poterle digerire, quindi decise di fare due passi. Uscendo disse al cen-tralinista: «Se vedi o senti la Niccolini, dille di aspettarmi, tornerò abbastanza presto.» Quando Pandolfi rientrò in commissariato, incontrò la Niccolini che lo stava aspettando all’ingresso con l’immancabile sigaretta in mano. «Sera, commissario.» «Ciao, allora abbiamo qualche novità?»

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«Direi di si, una traccia l’abbiamo. Forse non è molto ma è sempre un punto di partenza» rispose Ida che tirò un’ultima boccata dalla sigaretta prima di spegnerla e seguire il commissario verso il suo ufficio. Pandolfi si sedette alla scrivania e invitò Ida a sedersi. «Dimmi tutto.» «Il portiere ha riconosciuto il nostro uomo. Si è registrato ieri mattina con il nome di Aaron Kundra, cittadino della Repubblica Ceca, anni cinquantanove, l’indirizzo sul passaporto è via Nerudova 261, Praga, impiegato, vedovo. Ha preso una singola ed era solo. Il check in è av-venuto a un’ora piuttosto insolita, alle 4 del mattino, ma l’albergo era stato avvertito. La prenotazione è stata fatta per due notti. Il portiere dice di averlo visto scendere poco dopo, potevano essere le 4,20. Si è allontanato dall’albergo a piedi. Da quel momento non lo hanno più visto. La chiave è ancora alla reception» concluse la Niccoli-ni chiudendo il blocchetto e riponendolo nella tasca del giubbotto. «Coincide. La protesi dentaria secondo il dottor Avenzi è stata fatta nei paesi dell’Est.» Pandolfi si avvicinò alla lavagna, e la aggiornò con gli ultimi dati, po-chi in verità. Accanto al nome scrisse: Motivo del viaggio; Dove è andato all’alba? Doveva vedere qualcuno? Taxi? «Sarebbe bene avere un’idea più precisa sul suo lavoro» osservò la Niccolini, «impiegato di cosa, di che si stava occupando ecc.» Pandolfi aggiunse: «Per chi lavorava?» «Fai qualche telefonata. Aeroporto, compagnie di taxi, sia per la corsa dall’aeroporto all’albergo che per quella dall’albergo verso la destina-zione che ancora non conosciamo, anche se penso che verrà fuori che si è fatto portare al parco. Avverti anche Dilani e Antonelli che il cadave-re è identificato, così evitiamo perdite di tempo.» «Ci penso io. Per la riunione delle otto spero di avere qualche risposta» disse la Niccolini alzandosi in piedi. «Io devo andare dal questore. Questa faccenda che si tratta di un citta-dino straniero complica le cose. Se non sono di ritorno per le otto, fate senza di me, mi aggiornerete domani mattina. Per le urgenze ho il cellu-lare sempre acceso.» Pandolfi passò dal centralino, avvertì che stava andando dal questore e si avviò verso il cortile interno per prendere la sua auto. Alle otto non era ancora rientrato così la Niccolini aggiornò i due colle-ghi sugli sviluppi che già aveva raccontato al commissario. Aveva an-

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che rintracciato il tassista che lo aveva fatto salire vicino all’albergo e lo aveva accompagnato, come aveva supposto Pandolfi, nelle vicinanze del parco. Aveva convocato il tassista e il portiere dell’albergo per il giorno seguente in commissariato. Antonelli mostrò la lista dei convegni, meeting e altro in programma in quei giorni. Erano in tutto sei ma solo in tre erano previsti ospiti stra-nieri e in nessuno figurava il nome di Aaron Kundra. Avrebbe control-lato più a fondo la mattina successiva con le segreterie organizzatrici. Al momento un buco nell’acqua. Dilani controllò alcuni fogli che aveva in mano, poi disse: «Niente di interessante da segnalare. Domani riparlerò con le compagnie aeree e forse, fornendo un arco orario e un nome, sapremo se il nostro uomo è arrivato direttamente da Praga, sempre che non abbia usato altri mez-zi.» «A domani mattina alle otto, ragazzi» disse Antonelli che si assunse il compito di sciogliere la riunione. Fine anteprima.Continua... Anche in ebook da maggio 2014 a 6,99 euro