L’AVANGUARDIA DEL MANIFATTURIERO

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nasconde dietro un dito: «Il mercato interno è fermo.Questo è il reale problema della crisi economica attuale.Perché ci sia una svolta, è indispensabile che cittadini econsumatori abbiano più denaro da spendere, e il denaroarriva da una sola fonte: il lavoro. Ci vuole lavoro, ci vuolefabbrica.» Ed è qui che Melegari lancia la sua provocatoriaricetta. «A mio avviso c’è bisogno di una grande innovazio-ne: il cuneo fiscale al cento per cento. Quest’ultimo toglie-rebbe completamente la tassazione sulla busta paga deilavoratori, alle imprese non costa nulla e il lavoratore perce-pirebbe quella tassazione, se la porterebbe a casa e la spen-derebbe.»

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LA RISCOSSA

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ITALIANO: LA CHIMICA 2.0

Questo settore, l’unico che coincide con una scienza,anticipa le caratteristiche dell’industria di qualità, quella

da difendere in Italia. E rappresenta un esempio di relazioniindustriali. Insieme al Quarto Capitalismo, con cui talvolta

coincide, offre un modello di grande interesse.

L’eroe di questa grandiosa rivoluzione economica non è il “fedele servi-tore dello stato” mosso dal senso del dovere. È l’imprenditore, che nonha lo stipendio sicuro alla fine del mese, comunque vadano le cose; […]è l’imprenditore, che costruisce la sua baracca sempre più avanti, sescopre la possibilità di un nuovo guadagno, dove neppure arriva la tute-la della legge.

[ERNESTO ROSSI]

Una Ferrari Enzo. Un salame felino. Un’aspirina. Una vernicesintetica marca C.P. Italia. Una cucina Scavolini. Un cosmeticoL’Oréal. Una boccetta di Valium. Una scarpa Tod’s. Un chilo dicarne chianina dop in vendita nei negozi Eataly di OscarFarinetti. Un tavolo Ikea. Che cosa hanno in comune questimanufatti? In ciascuno di essi, la chimica, bene intermedio pereccellenza, svolge un ruolo da protagonista.

È fatto di chimica il 14% del valore di un’automobile o diuna cucina, il 25% di un divano o di una scarpa, il 30% di un elet-trodomestico o di un attrezzo sportivo, quasi la metà di un paiodi occhiali, il 100% di una vernice, un cosmetico o un farmaco. Ingenerale, il 26% del made in Italy è fatto di chimica. L’industriachimica è dappertutto e rappresenta il cuore tecnologico allabase del successo del made in Italy nel mondo, contribuendo amantenere in Italia una base produttiva ampia.

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scene e portati via gli addobbi. La morte della chimica italiana,perché di questo si sta parlando, è anche il suo maggiore e piùclamoroso insuccesso professionale.» Amen.

Grande necrologio, insomma. Peccato che sia stato scrittosenza il morto.

Dopo quindici anni, infatti, il giudizio di Turani – che facevacoincidere la morte della grande industria chimica con la scom-parsa della chimica tout court – si è rivelato errato. Il settore chi-mico in Italia non è scomparso con la fine della Montedison, cosìcome non è defunto quello inglese con la dipartita dell’Ici, néquello francese con la Rhône-Poulenc, e neppure quello tedescocon la Hoechst. È solo cambiato il modello di impresa.

Se prima c’erano grandi aziende onnivore come la Montedi-son, la quale dominava quasi dappertutto anche perché avevafatto molte acquisizioni, la chimica italiana 2.0 (così la chiamere-mo da ora in poi) è fatta di imprese molto specializzate, con sta-bilimenti in giro per il mondo e importanti investimenti in ricer-ca e sviluppo. La specializzazione fa nascere delle eccellenze dilivello internazionale, con elevati tassi di crescita e di redditività.

Il “saper fare” della chimica italiana, soprattutto in alcunidistretti, ha attirato l’attenzione anche di molte multinazionalistraniere che – in controtendenza con ciò che avviene in altrisettori – hanno deciso di continuare a produrre in Italia, o addi-rittura di portarvi i propri centri di eccellenza in alcuni settori. Èquesto il caso della Solvay che ha deciso di mantenere e raffor-zare a Bollate il proprio centro di eccellenza mondiale nella chi-mica del fluoro, con duecentocinquanta ricercatori che studianosoluzioni all’avanguardia in vari settori applicativi, per esempio ipannelli solari.

Manifatturiero fatto di specializzazioni ed eccellenze. Nel mon-do della chimica italiana ci sono imprese come la Endura di Bolo-gna, che ha sviluppato una molecola (di cui è leader nel mondo)divenuta indispensabile per le tende che in Africa proteggonodalle zanzare e quindi dalla malaria. O la Sabo di Bergamo, che hafatto fortuna con gli additivi per la cosmesi e le materie plastiche,

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Ma non è solo per questo motivo che abbiamo deciso diriservare alla chimica un intero capitolo di un libro dedicato almanifatturiero italiano. È soprattutto perché, come si vedrà,negli ultimi vent’anni la manifattura chimica si è data un assettoindustriale e un’organizzazione innovativi, anticipando le carat-teristiche del meglio della media industria di qualità. Quellostesso tipo di industria che deve rimanere ed essere rafforzato inItalia. Il manifatturiero italiano, in altre parole, dovrebbe seguirele orme della chimica 2.0 (come abbiamo deciso di chiamarla inquesto capitolo).

Il Quarto Capitalismo e la chimica (che talvolta coincidono)rappresentano oggi i modelli di maggiore interesse per il mani-fatturiero italiano.

Eppure, c’era chi la dava per morta. Il settore chimico vedeoggi il protagonismo di aziende italiane medie e medio-grandi diqualità, con specializzazioni produttive distintive. Ma per buonaparte della sua storia, la chimica italiana ha ruotato attorno alcolosso Montedison, una fucina di talenti e innovazioni. Finitaquell’era, molti l’hanno data per morta. Fra questi, un maestrodel giornalismo come Giuseppe Turani, insuperabile in tutto.Anche nei necrologi. «Lo smantellamento della chimica italianaprosegue, lento, ma implacabile», scriveva su Turani su laRepubblica nel 1997. «È come assistere alla fine di un film, quan-do gli operai smontano finti castelli medioevali, finti ponti leva-toi e tirano via le pareti di cartone. La Montedison, nata giustoall’incirca trent’anni fa e che avrebbe dovuto dotare l’Italia diuna grande industria chimica, ha appena ceduto alla Shell il suo50% di Montell, che quindi oggi è tutta della Shell.» Per Turani,la colpa di questa morte dolorosa era in gran parte ascrivibile aEnrico Cuccia. «La chimica italiana», si legge ancora nell’an-nuncio mortuario, «è stata anche, in un certo senso, la fossa diEnrico Cuccia, il patron di Mediobanca. E questo perché certa-mente nessuno, più di lui, ha trafficato con gli alambicchi e glisteam cracker. Per circa trent’anni ha cercato di essere il registadella chimica italiana. Il regista di un teatro in cui nessuno avevail copione e in cui, giorno dopo giorno, venivano smontate le

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ga settecentocinquanta dipendenti e si affida a una rete di ven-dita formata da oltre cento fra commerciali e agenti, in grado diseguire più di milleseicento clienti in quaranta Paesi.

CHIMICA:LA CONOSCENZA APPLICATA AL FARE

Il maggior vantaggio competitivo che le imprese di questo setto-re possono avere consiste nella conoscenza applicata al fare.Nella chimica, meglio sai le cose e più probabilità hai di esserecompetitivo e di guadagnare. La chimica è infatti l’unica indu-stria che coincide con una scienza.

E per questo motivo, in generale, la chimica 2.0 offre posti dilavoro di elevata qualità. Lavorare in queste imprese richiedeinfatti solide competenze: la quota di laureati fra i suoi 108 miladipendenti è pari al 19%, il doppio della media dell’industria ita-liana, e nelle nuove assunzioni raggiunge il 26%. È inoltre unsettore in cui, a causa dei forti investimenti in beni materiali eimmateriali, la produttività del lavoro, espressa come valoreaggiunto per addetto, è particolarmente alta: il 50% in più rispet-to al resto dell’industria manifatturiera. Viene in mente AdamSmith, quando ne La ricchezza delle Nazioni descriveva il lavoroin fabbrica come un’attività disumanizzante per i sentimenti el’intelligenza. E, in effetti, a quei tempi era perlopiù così. Oggiinvece negli stabilimenti produttivi (questo è il nome più corret-to, forse, visto che “fabbriche” richiama troppo il mondo diSmith) della chimica 2.0 avviene il contrario. La chimica 2.0 èuno dei pochi settori industriali italiani che internazionalizzainvece di delocalizzare: le aziende italiane non portano la produ-zione all’estero per risparmiare sul costo del lavoro e magaririvendere in Italia i prodotti fabbricati fuori. La tendenza è inve-ce di costruire stabilimenti in altri Paesi per saturare le esigenzedei mercati locali, mantenendo in Italia ricerca, sviluppo, marke-ting, funzioni direzionali e alcuni stabilimenti. Insomma i pro-dotti sono frutto della ricerca e sviluppo fatta in Italia, sono fab-bricati qui e venduti qui, e poi vengono replicati dagli stabili-

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riuscendo nel giro di pochi anni a raddoppiare il proprio fatturato,passato dai 60 milioni di euro del 2006 ai 125 milioni previsti per il2013, con circa 40 milioni di euro che nell’ultimo decennio sonostati investiti per la ricerca e sviluppo.

Molto significativo il settore delle fibre sintetiche, che sonopresenti in svariati ambiti della vita quotidiana (abbigliamento,auto, costruzioni, arredamento, sanità). In questo campo, la Cinaha un’egemonia mondiale, ma ci sono aziende famigliari italianeche, grazie alla specializzazione, sono diventate leader internazio-nali. La più nota è il Gruppo Radici, ad esempio, che con più diun miliardo di vendite a livello mondiale è al quarto posto tra leimprese chimiche italiane. Meno nota, ma assai interessante, è laAquafil di Trento, fondata nel 1969 da Carlo Bonazzi (presidenteonorario) e diretta dal figlio Giulio Bonazzi (presidente e ammi-nistratore delegato). Nel 2005 questa azienda ha avuto ricavi per326 milioni di euro e un ebitda di 37 milioni (oltre il 10%, nonpoco). Nel 2012, i ricavi (che per l’80% vengono generati all’este-ro) si sono attestati a quota 499 milioni e l’ebitda a 52 milioni. Dal2000 l’azienda ha avviato un importante processo di internaziona-lizzazione, costituendo unità produttive in Gran Bretagna, Tur-chia, Brasile e Cina. Oggi il gruppo Aquafil ha duemilacinquecen-to fra dipendenti e collaboratori, dodici stabilimenti ed è attivo intre continenti e sette Paesi: Italia, Slovenia, Croazia, Germania,USA, Thailandia e Cina. Opera attraverso due business unit diprodotto: BCF (fili sintetici per pavimentazione tessile usati neisettori contract, automotive e residenziale) e NTF (fili sinteticiper i settori dell’abbigliamento e dello sport). Ogni anno almenoil 3% del fatturato viene reinvestito in ricerca e sviluppo. Di di-mensioni più contenute (circa 140 milioni di euro di giro d’affari)la Sinterama di Biella, nata nel 1969 in un distretto storico per ilmondo del tessile. Sinterama produce fili di poliestere coloratiper automotive, arredamento, abbigliamento e per gli impieghitecnici. Dal 2000 l’azienda si è fortemente internazionalizzata,costituendo unità produttive in Gran Bretagna, Turchia, Brasile,Cina e Messico. La società biellese, che ogni anno fabbrica oltre35 mila tonnellate di filo in quattrocento diverse tipologie, impie-

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rata ripresa della produzione (circa il 2%), dovuta in larga mag-gioranza al rafforzamento dell’export, che è previsto crescere piùdel 2,5%. I fattori che lasciano presagire questo incremento delleesportazioni sono la vivacità della domanda mondiale e il ritornoalla crescita dell’Europa. Inoltre, anche in Italia si parla di un au-mento del pil nel 2014 pari a una percentuale fra lo 0,5% e l’1%.

Considerazioni congiunturali a parte, la chimica 2.0 è al terzoposto in Europa e all’undicesimo nel mondo. Tra il 2007 e il 2012le vendite mondiali di prodotti chimici dei medio-grandi gruppi acapitale italiano sono aumentate dell’11%. Nello stesso periodo,la produzione estera è salita dal 32% al 42% del totale. Mentrel’Italia nel suo complesso ha perso terreno nel confronto europeo,la performance dell’export della chimica è in linea con la mediaeuropea, e perfino migliore di quella di importanti Paesi produt-tori come la Francia e il Regno Unito.

Il piccolo chimico diventa imprenditore. Delle circa 3.000 impre-se chimiche italiane, il 38% del valore della produzione vienegenerato da PMI, il 36% da imprese a capitale estero e il 26% dauna cinquantina di medio-grandi gruppi a capitale italiano.

L’importanza delle pmi emerge anche da altri numeri. Daaziende piccole e medie viene generato più del 50% del valoreaggiunto, del margine operativo lordo e degli investimenti. Euna quota anche più elevata di quelli in mezzi di trasporto, chetestimonia l’importanza per le pmi della parte commerciale edella vicinanza al mercato; una quota ancora maggiore dell’occu-pazione femminile (72,5%), una caratteristica che deriva dai set-tori in cui operano le pmi. Queste quote, già rilevanti, aumenta-no ulteriormente nei settori della chimica fine, delle specialità enella chimica per il consumo. Le ragioni della forte presenzadelle piccole e medie imprese nel settore chimico sono diverse.Alcune di tipo generale connesse alle caratteristiche del nostrosistema Paese (forte imprenditorialità, creatività delle risorseumane, caratteristiche del sistema industriale). Altre sono piùspecifiche, perché connesse alle caratteristiche del mercato diriferimento (elevata numerosità degli utilizzatori di piccoledimensioni e conseguente necessità di adattamento alle singole

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menti in giro per il mondo che li vendono nei Paesi dove insistela produzione. Ciò avviene anche per le caratteristiche peculiaridei prodotti chimici stessi, che sono al servizio di altre industrieo fanno parte di altre manifatture (costruzioni, automotive, benidurevoli, eccetera). Dunque è meglio se le fabbriche di prodottichimici sono contigue agli stabilimenti o agli impianti industrialiche li utilizzano.

Dopo quindici anni dal necrologio senza il morto: il paradisodelle medie imprese vitali. Tre lustri dopo il necrologio diTurani, la chimica 2.0 vale il 5,6% della produzione manifatturie-ra italiana. Il 4,1% del personale è impiegato in attività di ricercae sviluppo, rispetto a una media del manifatturiero pari al 2,4%.Il 26% dei neoassunti è laureato (contro una media del 14% nel-l’industria italiana). La chimica è anche tra i settori industrialicon il maggior valore aggiunto per addetto: 85 mila euro. Lespese per addetto sono del 32% superiori alla media manifattu-riera e gli investimenti sono stimabili attorno a 14 mila euro perdipendente. Ogni anno, il 39% dei dipendenti chimici è coinvol-to in corsi di formazione. Infine, tra le regioni d’Europa, laLombardia spicca per la sua vitalità chimica. È la prima in Italianel settore e tra le prime tre in Europa per numero di addetti eimprese. Ma a dare conto della vitalità “del morto”, soprattuttoin tempi di crisi economica e occupazionale, ci sono soprattutto iricavi e gli addetti. In valore assoluto, l’industria chimica italiananel 2013 ha fatturato 52 miliardi di euro e dato lavoro (nel 98%dei casi con contratti a tempo indeterminato) a 108 mila persone,che diventano 169 mila se si considera anche la farmaceutica.Per ogni addetto chimico diretto, altri due sono generati indiret-tamente nel sistema produttivo. Purtroppo, secondo stime diFederchimica, nel 2013 c’è stato un piccolo arretramento dellaproduzione chimica (-1,8%) in volume, a parità di prezzi. Lacausa risiede soprattutto nella crisi delle condizioni di mercatodelle industrie clienti, che, come si è detto, vanno dall’automoti-ve all’arredamento e alle costruzioni.

Il segno positivo dovrebbe tornare a partire dal 2014 quando,al netto di stravolgimenti del quadro attuale, è attesa una mode-

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zati. Nella chimica la propensione ad attivare o intensificare lepartnership con altri soggetti – siano essi istituti pubblici diricerca o altre imprese – è lievemente maggiore rispetto allamedia industriale (16% contro 15%). La differenza più marcatarisiede, però, nella natura di tali partnership, che si mostrano piùarticolate in termini di finalità e funzioni aziendali coinvolte. Perquanto concerne le finalità, oltre naturalmente alla riduzione deicosti che è imprescindibile nel contesto attuale, le imprese chi-miche si mostrano maggiormente orientate a rispondere allesfide dell’innovazione e del mercato globale. Nel 48% dei casi lepartnership sono volte allo sviluppo di nuovi prodotti o processie nel 24% all’acquisizione di nuove competenze o tecnologie (afronte di quote rispettivamente del 34% e del 18% nell’industriamanifatturiera). E nel 41% dei casi rilevati dall’Istat, le partner-ship hanno come finalità l’accesso a nuovi mercati e nel 17% l’in-ternazionalizzazione (a fronte del 34% e dell’11% nel manifattu-riero). La presenza di finalità più articolate comporta un maggio-re coinvolgimento delle funzioni aziendali diverse dall’attivitàprincipale (tipicamente connessa alla compravendita di prodot-ti), in particolare nelle aree di progettazione-R&S-innovazione,marketing e servizi finanziari.

PERCHÉ LA CHIMICA ANTICICIPAIL MEGLIO DELLA MANIFATTURA

«Ciò che la chimica ha vissuto ieri, o sta vivendo oggi, diventeràpane quotidiano degli altri settori domani, o forse lo è già oggi, masi stenta a riconoscerlo», afferma il presidente di Federchimica,Cesare Puccioni. «Proprio perché la chimica anticipa una politi-ca per l’industria di un settore vivo e vitale, è un buon modelloal fine di una politica per l’industria manifatturiera più in gene-rale.» Per Puccioni, i trend chiave anticipati dall’industria chimi-ca sarebbero almeno tre. Il primo consiste nel fatto che «da sem-pre la sua competitività non dipende soltanto da fattori internialle imprese, ma è strettamente legata alla competitività delsistema Paese. Normative, energia, logistica, scuola, burocrazia

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esigenze). In alcuni comparti, poi, le pmi chimiche raggiungonola maggioranza degli addetti e della produzione. Questi sono isettori dove le economie di scala e di dimensione sono menoforti e anzi dove i mercati a valle giustificano lo sviluppo di cen-tinaia di nicchie in cui operano imprese specializzate. Questenicchie sono presenti soprattutto nei comparti a valle della chi-mica di base: chimica fine, chimica delle specialità, chimica peril consumo.

Nella chimica, il rapporto grande-piccolo assume una formaparticolare: solo in alcuni casi (contract e custom manufacturing)c’è una forma subordinata o di subfornitura, più spesso il piccoloacquista sostanze chimiche dalla grande impresa. Questo rappor-to è spesso di partnership: non si riassume soltanto in un acqui-sto, ma nello sviluppo applicativo di sostanze chimiche (prodot-te dai grandi gruppi) in formulati e prodotti chimici utilizzati daiprincipali settori manifatturieri e nell’edilizia.

GESTIRE LA COMPLESSITÀATTRAVERSO LE ALLEANZE

Il censimento Istat sull’industria e i servizi pubblicato a fine 2013offre interessanti spunti di analisi proprio sul tema della capacitàdella chimica 2.0 di gestire la complessità che è necessaria al ma-nifatturiero per competere sui mercati internazionali. Le strategieaziendali delle aziende chimiche sono più articolate e proattive.In particolare, l’Istat ha rilevato che il 68% delle imprese puntaall’aumento della gamma di prodotti e servizi offerti, contro il48% medio della manifattura italiana. E il 62% delle imprese chi-miche si adopera per l’accesso a nuovi mercati internazionali disbocco, rispetto al 42% medio nella manifattura italiana nel suocomplesso.

L’Istat ha anche rilevato come la chimica 2.0 sia propensa asuperare il problema delle piccole dimensioni delle sue imprese,utilizzando alleanze e partnership con altre imprese. Anche que-sta direzione strategica anticipa le mosse che il manifatturieroitaliano deve fare per rimanere competitivo sui mercati globaliz-

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costasse milioni di euro alle imprese e centinaia di posti di lavoro,senza un significativo risultato per ambiente e cittadini (la tuteladi questi è garantita dalla normativa europea e il momento di re-cepimento nazionale deve essere attento solo alla competitivitàdell’industria).» Per il capo dei chimici italiani, non è così nep-pure nel rapporto tra le Regioni e tra queste e lo Stato. «Non cipossono essere momenti così stratificati e differenziati perché ciòcrea incertezza e costi per le imprese. Perché in Italia legiferanotutti, Regioni, Province, Comuni.» È poi fondamentale la colla-borazione tra ricerca pubblica e privata, che consente di «supe-rare il vincolo dimensionale della tipica impresa chimica italiana,affrontare un’innovazione sostanziale che permetta alle impresedi crescere nel mercato globale, difendere e sviluppare le produ-zioni nazionali e quindi anche l’occupazione.»

Sono assolutamente indispensabili le semplificazioni burocrati-che, legislative e amministrative. Soprattutto, per mettere alcentro l’industria è indispensabile che finalmente ci sia una poli-tica industriale. «E non pensare che con la sola politica economi-ca si possa ridare competitività al Paese. Come ha scritto CarloAzeglio Ciampi: la competitività industriale ha valore socialeperché significa crescita e occupazione. Ad esempio, vuol direessere consapevoli che con un costo dell’energia del 30% supe-riore agli altri Paesi (non lontani ma vicinissimi) si distrugge labase produttiva in settori chiave, come la chimica. Ma non si stafacendo praticamente nulla perché le priorità sono sempre altre,proprio perché la politica italiana non ha il coraggio di mettere alcentro l’industria e di conseguenza, nei fatti, si trovano semprele risorse per interventi di altro tipo, ma mai quelli sull’indu-stria.» Puccioni ripete concetti cari a Squinzi. «Mettere al centrol’industria si può, non costa soldi, perché semplificare le norma-tive non costa, costa solo tanto coraggio politico. Ma di frontealla crisi epocale e al rischio di perdere i vantaggi guadagnati conil lavoro e il sudore di più generazioni di italiani, ci vuole corag-gio politico.» E allora? «È necessaria una decisa e decisiva politi-ca di semplificazioni che parta dal basso, norma per norma, mache parta anche dall’alto, perché non è solo la norma che deve

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sono fattori di competitività fondamentali per un’industria com-plessa come la chimica, ma lo saranno sempre più anche per glialtri settori che continuano a produrre in Italia. Perché in Italia,infatti, non possono che restare industrie complesse, difficili,impegnative, innovative. Una tipologia che dipende molto dalcontesto istituzionale. Invece, le attività produttive semplicidevono andare all’estero, prima che indeboliscano troppo l’im-presa italiana.» Il secondo è il rapporto privilegiato con la scien-za. «C’è una scienza chimica e c’è un’industria con lo stessonome, per questo il nostro settore sta soffrendo meno la crisi,perché riesce a sfruttare i mercati emergenti senza essere aggre-dito da questi (sia ben chiaro che la concorrenza si sente tantissi-mo, soprattutto grazie alle legislazioni ambientali meno esigen-ti). Ma l’unico modo di creare vantaggio competitivo di lungoperiodo in un mercato globale basato sulla conoscenza, dove letecnologie volano alla velocità della luce (e sono disponibilisubito anche per l’impresa cinese o vietnamita), è quello di faretanta innovazione di prodotto, cioè tanta ricerca. Nella chimicaquesto è vero per definizione, ma deve diventare vero per tuttele imprese», prosegue Puccioni. Terzo, ma non meno importan-te, la necessità di aumentare la massa critica. «Per stare bene nelmercato globale, per fare tanta ricerca è meglio essere grandi: laspecializzazione è condizione necessaria, ma non sufficiente. Perquesto le imprese chimiche sono normalmente anche in Italiapiù dimensionate. Perché devono gestire impianti complessi,fare ricerca, investire all’estero. Una necessità che diventeràsempre più quella di tutto il made in Italy.»

Occorre una politica che metta l’industria al centro. Ma ripren-diamo il nostro colloquio con Cesare Puccioni. «Ci vuole una poli-tica che metta al centro l’industria. Sia ben chiaro: non è una cosabanale e soprattutto da tanto tempo non è così. In Italia, lo sportpreferito è “migliorare” le direttive europee rendendole più pena-lizzanti, come se Olanda e Germania – ad esempio – non avesse-ro sensibilità ambientale. Negli atti parlamentari si trova proprioscritto spesso così: “abbiamo migliorato la norma europea”, adesempio abbassando i limiti di dieci volte, come se questo non

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UN MODO DIVERSO DI DEDICARSI AL LOBBISMOE ALLE RELAZIONI INDUSTRIALI

Le imprese chimiche italiane sono attive in molteplici settori,anche molto eterogenei fra loro. Dagli agrofarmaci ai cosmetici,dalle vernici alle fibre sintetiche, dalle plastiche ai gas tecnici.Settori e aziende che – caso raro in Italia – a livello politico eistituzionale si muovono in modo unitario ed efficiente. Fannosquadra, anche perché glielo impone la necessità di incidere sulcontesto normativo e istituzionale italiano ed europeo. Nelmondo manifatturiero italiano, la chimica è un caso di scuolaanche per questa capacità. Se anche altri settori la imitassero, neavrebbero sicuramente dei vantaggi. Prima era Montedison –proprio perché presente praticamente dappertutto – a garantirel’unitarietà. Ora è la consapevolezza comune che nessuna impre-sa, da sola, può influire sugli aspetti determinanti della competi-tività nel settore chimico: normative, energia, logistica, sistemaformativo. Aspetti che sono strettamente legati alle condizionigenerali del sistema Paese. A organizzare la squadra èFederchimica, l’associazione settoriale di Confindustria dallaquale proviene il presidente nazionale di viale dell’AstronomiaGiorgio Squinzi, anche patron della Mapei. Squinzi dall’espe-rienza in Federchimica ha tratto i punti essenziali della sua piat-taforma politico-sindacale nazionale.

Il caso Federchimica. A questo punto occorre spendere qualcheriga per parlare di Federchimica, una federazione di settore notanel mondo delle imprese (gli associati sono 1.400) per essere benorganizzata e gestita in modo efficiente, con punte di eccellenzanel campo delle attività attinenti la salute, la sanità, l’ambiente,l’energia, la logistica, le relazioni industriali e l’attività di lobby-ing. Federchimica, che a Bruxelles ha i propri uffici, è da sempretra le associazioni più attive a livello europeo.

Federchimica rappresenta una case history significativaall’interno del sistema confindustriale italiano, che nel suo insie-me – l’autore di questo libro ha scritto nel suo saggio Il partito

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essere cambiata, ma anche la cultura della pubblica amministra-zione, che deve smetterla di pensare di esercitare un potere edeve essere invece convinta di essere al servizio di cittadini eimprese.»

I fertilizzanti e il caso della Puccioni. La teoria della chimica cheanticipa i cambiamenti ed evolve in virtù della specializzazione sipuò verificare sul campo se si va a vedere che cosa significa peril settore dei fertilizzanti, nel quale è attiva la Puccioni, l’aziendadel presidente di Federchimica, che ha ricavi per circa 40 milio-ni ed è nata centoventicinque anni fa, conservando sempre unastruttura proprietaria famigliare e indipendente. Puccioni stessolo ha spiegato durante la lezione che ha tenuto al Politecnico diMilano il 30 ottobre 2013, quando gli è stata conferita la laureahonoris causa in ingegneria chimica. «Considero un grande risul-tato l’aver attraversato profonde ristrutturazioni del mercato, men-tre scomparivano aziende come EniChem Agricoltura, Fertimont,Federconsorzi, solo per fare alcuni esempi, e aver mantenuto l’a-zienda indipendente, facendola crescere fino a coprire il 13% delfabbisogno nazionale dei fertilizzanti tradizionali e circa il 30% peralcuni settori specifici quali gli organo-minerali, raggiungendo,così, una posizione di leadership nei suoi segmenti e tra le impre-se italiane.» Le sfide di oggi per la Puccioni sono almeno tre. «Laprima è di affrontare nuovi mercati (i più recenti sono stati l’Alge-ria e l’Ungheria) e consolidare la presenza di successo negli StatiUniti. Poi bisogna rafforzare la nostra posizione in prodotti inno-vativi come i fertilizzanti in formulazione gel e la capacità di inte-ragire con la ricerca universitaria. Terzo, ma non meno importan-te, fare la nostra parte sulla sostenibilità, con la certificazione ISO18001 sui sistemi di gestione ambientale e affrontando il percorsoverso quella EMAS europea, partecipando a un progetto pilota perla riduzione della Carbon footprint e sviluppando un progetto chenei prossimi due anni ci porterà a risparmiare il 50% dei costi ener-getici, per noi molto alti. Abbiamo, infine, avviato un sistema direcupero e rigenerazione dell’acido cloridrico, grazie al quale sia-mo in grado di produrre solfati di ferro e di zinco.»

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La scuola di Giorgio Squinzi. Dialogare con la Cgil, insomma,non per tenerla buona, ma per risolvere i problemi. Questometodo, Giorgio Squinzi lo ha ampiamente rodato nei dodicianni in cui ha guidato Federchimica, poi l’ha portato nellaConfindustria nazionale. Da quando è presidente lui, non cisono mai stati grandi scioperi o tensioni con il sindacato, masempre dialogo. Proprio come ha fatto quando ha guidatoFederchimica, chiudendo sei contratti nazionali senza mai ungiorno di sciopero, in tempi record e con la convinta adesione ditutte le organizzazioni sindacali. Squinzi, inoltre, ha firmato unaccordo sulla rappresentanza che dovrebbe garantire in futurol’esigibilità degli accordi collettivi sottoscritti dalla maggioranzaed evitare intese separate con i due sindacati minoritari (Cisl eUil), come invece successo durante la gestione di EmmaMarcegaglia e Antonio D’Amato. Squinzi ha considerato il sin-dacato non come un nemico, ma come un importante alleato neiconfronti della controparte politica. Così ha lanciato il patto deiproduttori: Confindustria, altre associazioni datoriali(Confcommercio, Abi-Ania, Confartigianato, eccetera) e sindaca-ti uniti per pretendere dalla politica ciò che serve per far riparti-re l’industria, cioè meno tasse e burocrazia, costo del lavoro piùcontenuto, prezzi dell’energia in linea con la media europea efinalmente una politica industriale seria.

Il modello innovativo di relazioni industriali della chimica hatrovato applicazione pratica anche nell’ultimo contratto dei chi-mici, firmato nell’autunno 2012 sotto la presidenza Puccioni.

La condivisione delle criticità relative allo scenario economicoe alla situazione politica internazionale ha portato le parti socialichimiche a un impegno straordinario non solo nei contenuti del-l’ipotesi di accordo, ma anche nei tempi e nei modi in cui questaè stata raggiunta. È, però, da evidenziare che fin dal 27 giugno2011 con il Patto per la competitività e l’occupazione, in vista diquesto negoziato, erano già stati messi al centro del dibattito i duetemi centrali dell’accordo: la produttività e l’occupabilità, e suquesti ci si era confrontati nell’ambito dell’Osservatorio Nazio-nale ed erano state trovate, prima di avviare il negoziato, ampieconvergenze. Quindi, un negoziato formale in tempi che posso-

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dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandanoin Italia (Longanesi, 2010) – è pletorico e inefficiente, e permolti aspetti peggiore di tanti ministeri. La necessità di renderepiù efficace e snello il sistema confindustriale è ben nota anchea molti dei suoi dirigenti, che a tale fine hanno voluto una rifor-ma studiata da una commissione presieduta da GiampieroPesenti. Nell’ambito della riforma, proprio Federchimica è stataconsiderata un modello. Federchimica spesso fa lobby, in modoproattivo, avanzando proposte innovative.

Tra le innovazioni con cui la chimica 2.0 anticipa ciò che acca-de nelle altre aree imprenditoriali, c’è il modello di relazioni in-dustriali. In questo settore, il metodo di Federchimica è semprestato quello di un dialogo continuo e pragmatico con i sindacati,finalizzato a risolvere i problemi pratici, anche con soluzioni in-novative. Il sindacato è visto come un partner e non come unavversario. E questo non dipende soltanto – o prevalentemente –della natura forse più illuminata di alcuni esponenti dell’attualegenerazione di padroni. È una questione di metodo. Le contrap-posizioni, anche con l’ala più dura della Cgil, sono state episodi-che e comunque sempre risolte in modo pragmatico. Gli scioperiun evento molto raro nell’ultimo decennio. Non è un’innovazio-ne di poco conto. Alberto Bombassei, il “falco” di Confindustriarivale di Squinzi nel 2012 (ai tempi della elezione del presidentenazionale), era più portato a contrapposizioni muscolari, nellostile dell’epico scontro (2000-2004) fra la Confindustria di AntonioD’Amato e la Cgil di Sergio Cofferati sull’abolizione dell’articolo18. Scontro, va detto, vinto dalla Cgil. Peraltro, la tendenza dipersonaggi come D’Amato o Bombassei allo scontro, a eliminareo schiacciare i sindacati, non nasce dal nulla. C’è una forte com-ponente del padronato italiano (ma nel settore chimico è quasiinesistente) che vorrebbe lo scontro e preme per la “moderazio-ne salariale” (stipendi bassi, in parole povere), amando immagi-narsi come “signori padroni dalle Braghe Bianche”. Dialogarecon questo tipo di imprenditori, mediare, ricondurli alla ragioneè un esercizio difficilissimo.

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norme del ccnl, la certezza delle regole e coerenza ed eticità deicomportamenti a tutti i livelli.

È stata posta massima rilevanza alla necessità di garantire lanecessaria flessibilità organizzativa attraverso la valorizzazione delruolo della contrattazione aziendale. A tal fine sono state sempli-ficate e quindi rese più facilmente attuabili le normative relati-ve alla possibilità di modificare le norme del ccnl (possibilità giàdisponibile per il settore dal rinnovo contrattuale del 2006) percogliere condivise, specifiche opportunità ed esigenze, utili a so-stenere e/o a migliorare la competitività dell’impresa e la sua oc-cupazione in situazioni difficili o per favorire nuovi investimenti.In questo ambito, inoltre, al fine di agevolare l’assunzione a tem-po indeterminato dei giovani che si affacciano sul mercato dellavoro, è stato condiviso che le intese modificative della normati-va contrattuale potranno riguardare anche i minimi contrattuali.

Sul tema della occupabilità è stato anche lanciato il ProgettoPonte, successivamente ripreso dal Ministero del Lavoro in unospecifico decreto che ha reso disponibili risorse per iniziative alivello territoriale. Si tratta in sostanza di un patto di solidarietàgenerazionale che si fonda sulla disponibilità dell’azienda ainvestire su nuove assunzioni di giovani in cambio della disponi-bilità di lavoratori anziani in forza a trasformare, in vista dellapensione, il proprio contratto da full-time a part-time. Gli obiet-tivi di tale progetto sono: aumentare e favorire l’occupazionegiovanile, creare un “ponte” tra la popolazione giovanile e lapopolazione più anziana, massimizzando il passaggio di cono-scenze tra i due gruppi, ridurre il carico di lavoro e realizzare un“maggior coinvolgimento” delle persone più anziane, chepotranno anche svolgere attività di tutoraggio nei confronti deineoassunti. Questo progetto potrà decollare nei numeri solo coni necessari interventi legislativi che possano attenuare l’impattosulle retribuzioni e sul trattamento pensionistico dei lavoratoriche potrebbero dare la loro disponibilità a un’uscita anticipata egraduale grazie al part-time, ma soprattutto assicurando certezzae stabilità delle regole per l’accesso alla pensione.

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no sembrare incredibili se non si tiene conto di un metodo tipicodelle relazioni industriali chimiche: un dialogo continuo, prag-matico, finalizzato a risolvere i problemi anche percorrendo stra-de innovative. Non c’era tempo da perdere, è stata lanciata unasfida al sindacato che è stata prontamente e senza esitazioniaccettata: tentare di consegnare da subito alle imprese strumentinecessari sul fronte della produttività e occupabilità, individuan-do alcune priorità strategiche in questa fase, e su queste fare ilmassimo sforzo per raggiungere il migliore accordo possibile.

Evidentemente l’incremento della produttività del lavoro eil sostegno dell’occupazione non dipendono solo dai contratti, çava sans dire.

Pertanto, noi ora esporremo le idee dei chimici per aumenta-re la produttività del lavoro attraverso la contrattazione colletti-va: idee condivisibili e innovative.

Ma ci teniamo a precisare che il tema della produttività dellavoro tout court non si può affrontare e risolvere solo con questostrumento, per quanto certamente normative contrattuali inno-vative e flessibili siano indispensabili e possano, se ben recepitee applicate dalle imprese, diventare determinanti.

La produttività del lavoro nella chimica 2.0. In particolare, laproduttività del lavoro è qualcosa che viene da lontano, e che di-pende da una pluralità di fattori, a cominciare dagli investimentiin tecnologia e organizzazione da parte della singola azienda.

Nel settore chimico italiano, le parti sociali chimiche sonoconcordi sul fatto che il miglioramento della produttività dellavoro si possa realizzare intervenendo sulla qualità delle risorseumane, sulla qualità delle relazioni industriali e sulla flessibilitàorganizzativa. In questi ambiti è stato sottolineato il ruolo dellaformazione, funzionale sia alla produttività sia all’occupabilità.La formazione deve, infatti, essere considerata uno strumentoessenziale: per la qualità delle risorse umane, per la flessibilitàdella prestazione (attraverso la polivalenza, la capacità cioè dellavoratore di svolgere diverse attività), per la qualità delle rela-zioni industriali, per sviluppare e incentivare una cultura di rela-zioni partecipative utile anche a garantire l’esigibilità delle

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deve poter reagire con la massima velocità possibile alle esigen-ze e alle occasioni di creare valore. Solo la contrattazione azien-dale permette di prevedere le possibili circostanze, reagendocon la prontezza necessaria.» In generale, la flessibilità aziendaleè sempre importante. «Ma lo è ancor di più in periodi di crisicome l’attuale, in cui è fondamentale massimizzare le opportu-nità che il mercato può offrire. Non ci sono solo aziende chehanno difficoltà, ce ne sono anche alcune che non riescono asoddisfare la domanda per scarsa flessibilità. Il nostro contrattovalorizza la flessibilità in tutte le direzioni.» Per quanto riguardai possibili abusi correlati alla flessibilità: «Le relazioni industrialie la contrattazione necessitano di buone regole, ma soprattuttodi forte e consolidata cultura; la cultura è alla base dei comporta-menti, e nel nostro settore prevalgono comportamenti virtuosi esocialmente responsabili perché investiamo su questo aspetto datantissimi anni, e francamente da noi il rischio di abusi nonposso escluderlo in assoluto, ma lo ritengo decisamente impro-babile», dice il presidente di Federchimica. Ma il costo del lavo-ro è il principale problema delle aziende italiane? «Io non credo.È tutto il contesto che va rivisto per favorire la produttività e lacreazione di valore. Se non si riforma il contesto, non si riesceneanche a toccare uno dei punti problematici. Occorre metteremano in modo significativo alla produttività di sistema, a fattoriimportanti come tassazione, burocratizzazione, costo dell’ener-gia. Quest’ultimo è particolarmente alto e, nel settore chimico,pesa parecchio. Per molte aziende manifatturiere, ad esempio,incide assai di più il costo dell’energia di quello del lavoro.»

Ma tutta questa attenzione all’integrativo aziendale preludea una richiesta di detassazione? «Bisogna finalmente decidersi adetassare, magari del tutto, la retribuzione erogata a livello inte-grativo aziendale. Sarebbe un importante aiuto sia per le azien-de in tempo di crisi, sia per i lavoratori, che hanno bisogno disalari un po’ più significativi, anche per ridare fiato ai consumi,che come è noto in Italia sono fermi.»

Per Puccioni, il nuovo contratto dei chimici ha anche unvalore politico generale: «Si è voluto lanciare un segnale politicodi responsabilità, perché lo stesso impegno nella ricerca di for-

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Per quanto riguarda gli aspetti economici del contratto, daevidenziare la possibilità di posticipare fino a sei mesi, conaccordo aziendale, la decorrenza degli aumenti dei minimi defi-niti dall’accordo di rinnovo. Una doverosa attenzione alle situa-zioni di crisi, come a quelle di startup, è anche questa una novitàassoluta nel panorama della contrattualistica del nostro Paese.

Perché i sindacati diffidano di alcuni punti del contratto deichimici. Va riconosciuto che la diffidenza dei sindacati nei con-fronti della contrattazione aziendale e dell’eccesso di flessibilitàha comunque solide fondamenta. Il timore è che, una voltaintrodotto il principio, venga usato per imporre ancora sacrifici ailavoratori italiani, soggetti a una precarietà dilagante e a salari trai più bassi in Europa. Anche perché, a livello di singola azienda,ci sono meno controlli, e introducendo delle eccezioni si aprefacilmente la strada ad abusi. L’Italia, purtroppo, si sta affollandosempre di più di working poors (letteralmente poveri non disoc-cupati), come li chiamano negli Stati Uniti. Nel settore chimico– che è una specie di isola felice – questo rischio è però moltocontenuto.

La grande flessibilità non ha portato in alcun modo preca-rietà: il 95% degli addetti del settore ha un contratto a tempoindeterminato, il restante 5% è distribuito tra contratti a termine,apprendistato, somministrazione e inserimento. Certo che i lavo-ratori, come si è detto, hanno e devono avere un elevato grado dispecializzazione e istruzione, il costo del lavoro incide sui costitotali meno che in altri comparti, le relazioni industriali a tutti ilivelli sono costruttive e non soggette ai rapporti di forza delmomento. «Siamo fortemente convinti che lo strumento dellacontrattazione aziendale debba essere potenziato e ampliato.Normalmente, in sede aziendale si ha una conoscenza piùapprofondita delle problematiche dell’impresa, e il ccnl consen-te di cogliere le specifiche esigenze aziendali», spiega Puccioni.«Ogni azienda ha bisogno della flessibilità che le è peculiare,legata a stagionalità, picchi di lavorazione, periodi di minore atti-vità, contratti, particolari clienti o condizioni. E ciascuna impresa

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Sicurezza sul lavoro e nell’ambiente. Secondo i dati Inail, lachimica è il settore manifatturiero più sicuro, insieme all’indu-stria petrolifera: 10,6 infortuni per un milione di ore lavorate nel-l’industria chimica in generale e 8,3 nelle imprese aderenti aResponsible Care. A questo si aggiunge il primato assoluto nelconteggio delle malattie professionali: solo 0,22 su un milione diore, ovvero, una malattia professionale ogni 4,5 milioni di ore dilavoro. I dati sulla riduzione delle emissioni di CO2 sono moltosignificativi, grazie agli investimenti in termini di ottimizzazionedei processi produttivi e miglioramento delle tecnologie. Così leindustrie chimiche hanno potuto ridurre le emissioni in aria del95% e in acqua del 65% negli ultimi vent’anni. Nel dettaglio:emissioni in acqua: -63% (dal 1989); emissioni in aria: -94% (dal1989); consumi idrici: -40,1% (dal 2001);consumi energetici: -38%(dal 1990). Inoltre, Federchimica stima che per una tonnellata diCO2 emessa, l’industria chimica ne fa risparmiare tre ai settori diutilizzo dei suoi prodotti. Offre per esempio soluzioni per ridur-re l’impatto della CO2 sull’ambiente nei settori dei materiali iso-lanti in edilizia, delle materie plastiche nei trasporti, dei compo-nenti per pannelli fotovoltaici.

Ma che cos’è la sostenibilità? In poche parole, si tratta di porrela tutela dell’ambiente come parte integrante della propria attivitàe del proprio processo di crescita produttiva. La sostenibilità, cosìcome la definisce il Rapporto Brundtland del 1987 (da cui nasceil concetto stesso di sostenibilità), è infatti un «equilibrio fra ilsoddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere lapossibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie.» IlRapporto Brundtland, dopo la conferenza Onu su ambiente esviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppostesso. Successivamente, il concetto di sostenibilità si è evoluto,fino ad abbracciare anche le dimensioni economiche e sociali diun intervento di sviluppo o di un settore della società, o dell’e-conomia. Nella chimica 2.0, la ricerca e l’innovazione tecnologi-ca applicate alla sostenibilità sono fondamentali non solo persostenere la competitività dell’intero sistema industriale, maanche perché è proprio grazie a esse che il settore può continua-mente offrire nuovi prodotti e soluzioni che rendono possibile

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mule e accordi di questo tipo si potesse realizzare negli stessimodi – cioè in tempi rapidi e con interventi efficaci – anche alivello aziendale.»

Il modello di relazioni industriali innovativo emerge anchedai due fondi complementari istituiti per i dipendenti del com-parto. Nel panorama industriale, la chimica è il primo settore adavere istituito due fondi settoriali, uno per la previdenza integra-tiva (Fonchim) e l’altro per l’assistenza sanitaria (Faschim). Inpratica, questi fondi danno ai dipendenti una pensione integrati-va e la possibilità di avere il rimborso di visite specialistiche,terapie dentistiche e cure mediche. La quota di dipendentivolontariamente iscritti, pari per Fonchim all’81% e per Faschimal 70%, è tra le più alte nell’ambito dei fondi settoriali dell’indu-stria. A Faschim aderiscono anche 56 mila familiari dei dipen-denti iscritti.

CHIMICA 2.0:IL VALORE ECONOMICO DELLA SOSTENIBILITÀ

Un luogo comune ancora diffuso sulla chimica vuole che siainquinante e magari anche pericolosa dal punto di vista degliincidenti sul lavoro. Invece, come si capirà fra qualche riga, èvero il contrario. Anche da questo punto di vista, la chimica 2.0made in Italy potrebbe precedere i trend del manifatturieromoderno. Anche perché, come verrà dimostrato col casoNovamont, la ricerca per aumentare la sostenibilità può generareprodotti, servizi e soluzioni di significativo valore economico. Lasostenibilità creata dalla ricerca scientifica, insomma, convieneperché fa guadagnare. In termini un po’ più brutali, si può direche non è solo una questione di principio, ma anche (e forsesoprattutto) una questione di soldi. L’immagine di grandi fabbri-che inquinanti, pericolose e alienanti, insomma, è un pregiudi-zio che appartiene al passato. E andrebbe archiviata del tutto,altrimenti sarà più difficile pensare a un rilancio forte e decisodel manifatturiero.

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che in Germania, Francia e Stati Uniti, con esportazioni in tuttoil mondo.

Come vedremo con maggiore ricchezza di particolari nel ri-quadro dedicato a Versalis, Novamont ha fortemente contribuitoal rilancio di Versalis (ex Polimeri Europa, ex EniChem), un co-losso da 5 miliardi di euro che il nuovo ceo Daniele Ferrari stariportando alla profittabilità.

Per molti, i ricercatori di Novamont sono “quelli dei sacchet-ti”, visto che il loro prodotto principale (il Mater-Bi®, un mate-riale a base di materie prime naturali, in primis amido di mais)viene utilizzato per produrre sacchetti per la spesa nei super-mercati molto simili a quelli di plastica, ma composti da materia-li naturali, e completamente biodegradabili e compostabili. Ilmercato potenziale per questi sacchetti è potenzialmente enor-me, visto che gli shopping bag in plastica sono ormai vietati inquasi tutto il mondo occidentale, perché inquinano enormemen-te, soprattutto quando dispersi in corsi d’acqua e nel mare.

Materiali facilmente compostabili e biodegradabili, per tutti gliusi. La missione che Novamont si è data viene riassunta dal pay-off ideato dalla sua fondatrice, Catia Bastioli: “Chimica vivente,energia per la vita”. In altre parole, si tratta dello sviluppo dimateriali e biochemicals attraverso l’integrazione di chimica eagricoltura, attivando bioraffinerie di terza generazione nel terri-torio. E fornendo soluzioni applicative che garantiscano – lungotutto il ciclo di vita dei materiali – un uso efficiente delle risorse,producendo vantaggi sociali, economici, ambientali e di sistema.Novamont reinveste integralmente i suoi utili in attività di ricer-ca, sviluppo e innovazione e nella costruzione di nuovi impiantie dimostratori di tecnologie innovative, localizzati in siti indu-striali dismessi. Oltre il 25% del personale Novamont è impiega-to in R&S, e negli ultimi tre anni la società ha incrementato ipropri investimenti in R&S del 62%. In particolare, le spese per ilpersonale dedicato ad attività di R&S sono aumentate del 46%negli ultimi tre anni e più che raddoppiate negli ultimi cinque.

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un miglioramento delle proprie performance. La sostenibilità,insomma, fa crescere i profitti delle aziende chimiche.

Responsible care. Da questo punto di vista, va segnalato Respon-sible Care, il programma volontario dell’industria chimica mon-diale, avviato in Canada nel 1984 dalla Ccpa (Canadian ChemicalProducers Association) e poi adottata nel 1988 dalla Acc (AmericanChemistry Council). L’anno successivo il programma è stato av-viato in Europa dal Cefic (European Chemical Industry Council),che fino al 2012 era presieduto proprio da Giorgio Squinzi. In Ita-lia il programma Responsible Care, partito nel 1992 e gestito daFederchimica, è attualmente adottato da centosettanta impresecon quattrocentoottantuno unità produttive e circa 50 mila addet-ti. Le aziende coinvolte, nel solo 2012, hanno investito 712 milionidi euro in sicurezza, salute e ambiente, pari al 2,3% del fatturato.Tutte queste aziende sottoscrivono la Product Stewardship, cioèl’impegno a gestire responsabilmente l’intero ciclo di vita del pro-dotto: dalla produzione delle materie prime al trasporto, dall’im-piego da parte degli utilizzatori finali, al recupero e allo smalti-mento a fine vita.

NOVAMONT,LA SOSTENIBILITÀ FA GUADAGNARE

Integrare chimica, ambiente e agricoltura. La storia di Nova-mont dimostra come la sostenibilità, se declinata nel modo giusto,possa creare significativamente valore economico. Soprattutto nelsettore chimico. Novamont è una realtà industriale che affonda leproprie radici nella scuola di scienza dei materiali Montedison, eche nasce nel 1989 per realizzare il disegno ambizioso di alcuniricercatori capitanati da Catia Bastioli (ancora oggi numero unodella società) e provenienti dal grande gruppo chimico. Il loro pro-getto era di integrare chimica, ambiente e agricoltura. A distanzadi un quarto di secolo, Novamont genera ricavi per circa 150 mi-lioni di euro, ha azionisti importanti (i principali sono Versalis delgruppo Eni, Intesa-Sanpaolo e il Berger Trust), ed è presente an-

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degradabili ottenuti sia da materie prime di origine rinnovabileche da materie prime di origine fossile. Le sostanze prodotte darisorse fossili vengono impiegate ogniqualvolta i loro equivalentirinnovabili non sono disponibili a livello industriale.

IN CONCLUSIONE:LA CHIMICA INSIEME

Se si dovesse riassumere la peculiarità della manifattura chimicaitaliana, viene in mente una parola ancora rara nel nostro lessicoimprenditoriale: “insieme”. L’idea – riproponibile anche in altrisettori – è che solo con la cultura del pensare e poi del fare insie-me si possa crescere. Le imprese chimiche devono lavorareinsieme fra loro e insieme con altri per gestire la complessità. Lachimica, unica industria che coincide con una scienza, vive diricerca, e la ricerca viene fatta da uomini e donne che lavoranoinsieme. Il ricercatore isolato non esiste più, forse, dai tempi diLavoisier. Il bello del lavoro insieme dei chimici è che – comenelle botteghe scientifiche artigiane del Rinascimento – l’inno-vazione modifica il significato della collaborazione al suo inter-no. La collaborazione deve integrare gli imprevisti del lavoro, lascoperta accidentale di processi o di oggetti nuovi o perfezionati.Diventa fondamentale quel tipo di collaborazione in cui un tec-nico dice al collega al suo fianco: «Vieni un attimo a vedere cosasuccede qui. Non è strano? Come lo interpretiamo? Che cosa nefacciamo?» Succede insomma che il pensiero laterale viene pen-sato (ci si perdonerà il gioco di parole) insieme e crea un vantag-gio reciproco.

Non solo: nel settore chimico, ricerca, tecnologia e businessviaggiano insieme, mai paralleli, ma intersecandosi di continuo.Tanto che è assai diffuso, tra i ricercatori chimici, il sapere eco-nomico, anche a livelli avanzati. Ciò non accade, o accade assaidi meno, in altri campi, come la fisica, la biologia, l’astronomia.Le imprese chimiche devono operare insieme per trattare conRoma e Bruxelles le normative e le condizioni istituzionali incui operare. Da questo punto di vista, l’impegno associativo di

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Non solo sacchetti. Mater-Bi® non significa solo sacchetti. Iprincipali settori applicativi sono agricoltura, grande distribuzio-ne, stoviglie monouso, raccolte differenziate, industria (igiene ecura della persona, automotive, imballaggio, accessori per ani-mali, oggettistica). Le stoviglie in Mater-Bi®, per esempio, pos-sono essere buttate via insieme agli avanzi di cibo, senza neces-sità di separarle. Infatti, sia le stoviglie, sia gli avanzi sono ricicla-bili. Tutti e due diventano compost, e possono servire come con-cime o altri impieghi utili senza danneggiare l’ambiente. Nelsettore automotive, il Mater-Bi® si può usare come biofiller(materiale per la parte consumabile) per gli pneumatici, in par-ziale sostituzione del nerofumo e della silice. In questo caso, l’a-spetto fondamentale consiste nelle proprietà che il Mater-Bi® èin grado di conferire per minimizzare consumi di carburante e leemissioni di CO2 nel campo dei trasporti.

Il Mater-Bi®. Vale la pena di spendere ancora qualche riga perparlare del Mater-Bi®, un’innovazione di enorme portata. Con ilmarchio Mater-Bi®, Novamont produce e commercializzaun’ampia famiglia di bioplastiche innovative, ottenute grazie atecnologie proprietarie nel campo degli amidi, delle cellulose,degli oli vegetali e delle loro combinazioni. Le bioplastiche sonomateriali con caratteristiche e proprietà d’uso del tutto simili alleplastiche tradizionali, ma, al tempo stesso, biodegradabili e com-postabili. I biopolimeri di Mater-Bi® si dividono in differentitipologie o “gradi”. Le componenti vegetali sono di varia natura(cellulosa, glicerina, filler naturali e amidi non geneticamentemodificati ottenuti da varie colture) e tutte estratte da piantagio-ni per cui non vengono sfruttati terreni vergini o deforestati. Adesempio, l’amido di mais, storicamente una delle prime compo-nenti vegetali usate nel Mater-Bi®. Il mais è geneticamente nonmodificato e coltivato in Europa secondo le normali praticheagronomiche applicate dalle aziende agricole europee. Vieneestratto direttamente dalla granella, subendo modifiche fisicheche ne mantengono le caratteristiche naturali: ciò rende il pro-cesso efficiente, minimizzando l’uso delle risorse. Altri gradi diMater-Bi® non contengono amido, ma unicamente polimeri bio-

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appunto Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione. Incopertina, l’esempio che a Sennett più piace: un gruppo di voga-tori impegnati in una gara. «È un’immagine che spiega benecome la collaborazione non sia l’opposto dell’altra grande forza,la competizione: quei rematori collaborano per competere. E indefinitiva sono entrambi processi dinamici.» Nel suo libro mettesotto esame tutti gli aspetti del modo in cui le persone arrivano afare le cose insieme. Sennett è convinto che la collaborazione siainnata nell’uomo, che sia un tratto genetico della nostra specie,ma pensa anche che a collaborare si possa e si debba imparare,esercitando vere e proprie tecniche. «La collaborazione», scriveSennett, «può essere definita, grossolanamente, come uno scam-bio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme.»Per Sennett, «il dato più importante è che la collaborazionerichiede perizia. Aristotele la chiama téchne, la capacità tecnica difar essere una cosa facendola bene; il filosofo arabo Ibn Khaldundiceva che questa è la qualità specifica degli artigiani.»

Nel mondo della chimica 2.0, questa capacità, forse, è cre-sciuta e si è consolidata perché sono aziende familiari, gestiteper lunghissimo tempo dalle medesime persone, che percepi-scono l’azienda come una prosecuzione di se stesse. E nellequali operano gruppi di lavoro consolidati da anni, con relazionianche personali.

La collaborazione, si sa, richiede un tempo lungo: per intera-gire, conoscersi, sviluppare progetti ambiziosi, sapere a chi chie-dere che cosa e come chiederlo. Un tempo lungo fondamentale,anche, per lo sviluppo di sanzioni sociali. Qui, nella chimica, iltempo è lungo sia all’interno, sia all’esterno delle medie aziendefamigliari italiane.

Insomma, un universo distante anni luce da quello delle gran-di corporation finanziarizzate e quotate in Borsa, nelle quali, perregola, i gruppi di lavoro interni sono sempre di breve durata (datre a nove mesi, normalmente) e tutto cambia sempre. Manage-ment, dipendenti, azionisti, perfino luoghi di lavoro. Tutto scorree domani potrebbe non esserci più.

Ma torniamo a Richard Sennett. Secondo il filosofo-sociologo,questa capacità di agire insieme per uno scopo nel nostro sistema

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categoria (cioè in Federchimica e in altre associazioni imprendi-toriali) diventa dunque una forma di lavoro insieme (oltre che,per alcuni, una modalità di volontariato civile). Gli imprenditorichimici devono stare insieme per lo sviluppo applicativo disostanze chimiche, per acquisire o gestire nuovi prodotti o tec-nologie. Trattando prodotti intermedi per eccellenza, devonolavorare insieme al loro cliente che produce il manufatto finale. Edevono guardare ai sindacati come una controparte con la qualeoperare insieme.

Insieme anche imprese e pubblica amministrazione? Questa èla grande sfida in un mondo globalizzato dove la concorrenza(citando Michael Porter e il suo The Competitive Advantage ofNations) non è più da tempo solo tra imprese, ma sempre più traNazioni. Le conoscenze, i capitali, le tecnologie sono semprepiù diffusi e disponibili. Quello che rende un’impresa più debo-le o più forte, cioè più o meno competitiva, è il sistema Paesedove è inserita. Per questo l’efficienza della pubblica ammini-strazione è un’ossessione delle imprese chimiche e diFederchimica. Perché sanno che ne va della sopravvivenza del-l’industria nel nostro Paese. Un’ossessione non di ieri, ma cheviene da lontano. Anche Franco Bassanini, padre della riformadella pubblica amministrazione degli anni Novanta (rimasta pur-troppo sulla carta), già allora aveva riconosciuto a Federchimicala paternità di un nuovo modo di intendere la pubblica ammini-strazione. Quest’ultima, secondo il concetto di Federchimica epoi di Bassanini, dovrebbe sostenere le imprese, nell’ambito diun ruolo al servizio di cittadini e imprese. Concettualmente, èun passaggio molto importante: da ruolo di potere a ruolo di ser-vizio. Proprio in Federchimica era stato formulato il testo ripresonel sesto comma dell’articolo 1 di quella riforma: «La promozio-ne dello sviluppo economico, la valorizzazione dei sistemi pro-duttivi e la promozione della ricerca applicata sono interessipubblici primari che lo Stato, le Regioni, le Province, i Comunie gli altri enti locali assicurano nell’ambito delle rispettive com-petenze.»

Viene in mente uno degli ultimi libri del sociologo filosofoRichard Sennett, tradotto in Italia da Feltrinelli e intitolato,

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economico si è andata indebolendo, benché sia «un aspetto moltoimportante per il capitalismo moderno e fondamentale per potersuperare la sua crisi.» Magari la chimica 2.0 è all’avanguardia an-che per questo motivo?

[ FOCUS I ]

IL CASO VERSALIS: DA “BUCO NERO”A CAMPIONE EUROPEO DELLA CHIMICA VERDE

C’era una volta la chimica dell’Eni, per oltre vent’anni de-scritta in centinaia di articoli come un “buco nero”, tantoche per molto tempo si è parlato di un’uscita dell’aziendaenergetica dal business dei polimeri, e della dismissione, inparticolare, dell’impianto sardo di Porto Torres e di quelloveneziano di Porto Marghera. Ancora nel 2012, Versalis (exPolimeri Europa, ex EniChem) ha chiuso l’esercizio con 6,4miliardi di fatturato, una perdita di 573 milioni di euro e unindebitamento di 1,9 miliardi.

Intervista a Daniele Ferrari. Eppure, c’è chi ha voluto rac-cogliere la sfida e credere che sia possibile la svolta. Si chia-ma Daniele Ferrari e dal 2011 è amministratore delegato diVersalis, il primo dopo tanto tempo ad avere una esperienzaspecifica (trent’anni di carriera) nel settore chimico, con uncurriculum al vertice di gruppi internazionali come ImperialChemical Industries e Huntsman Corporation. A Ferrari, l’al-lora amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni ha affidato2 miliardi di euro da investire per la riconversione della chi-mica e la mission di arrivare all’utile netto nel 2016, cambian-do pelle al vecchio carrozzone che in molti volevano rottama-re. Lui è convinto di farcela, con una strategia basata su fortiinvestimenti nella chimica verde, ottimizzazione dei costi,importanti attività di internazionalizzazione (soprattutto inAsia, come vedremo) e una generale conversione dalla chimi-ca di commodities perseguita fino a pochi anni fa a una chi-mica di performance, basata cioè su brevetti e specializzazio-ni competitive in varie nicchie. Insomma, la società chimicadi Eni sta seguendo un percorso di riposizionamento, passan-do da una “polimeri Europa” focalizzata sul mercato europeoa una “Versalis” orientata a leadership globale e portafogliodifferenziato. «Gli indicatori in nostro possesso confermano

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che il piano di rilancio e riposizionamento marcia spedito»,dice Ferrari. «Entro il 2016 raggiungeremo il break even, epoi arriverà il profitto, con un ebitda che lascerà il terrenonegativo per collocarsi nella media dell’industria. Si posso-no ipotizzare almeno 300 milioni nel 2017. A questo puntosaremo un’azienda competitiva e al passo con i tempi, e l’a-zionista potrà valutare eventuali opzioni strategiche.» PerFerrari, la chimica dell’Eni ha sofferto per «esser stata mo-dellata storicamente da eventi e decisioni con una caraturaper lo più politica, che tante volte ha prevalso sulle ragionidel business. Inoltre, era eccessivamente focalizzata sull’Ita-lia e sull’Europa, aree con una domanda stagnante e costisignificativi, e troppo concentrata sul trading di commodi-ties. Tutto questo non c’è più. Vogliamo puntare sull’inter-nazionalizzazione, generando all’estero almeno il 60% delnostro fatturato, e sfruttare al meglio la nostra maggiore ric-chezza: ben quattrocento brevetti in vari settori.» Nella stra-tegia di Versalis la ricerca e sviluppo gioca un ruolo fonda-mentale. Il piano prevede investimenti di circa 50 milioni dieuro all’anno. Versalis ha centri di ricerca a Mantova, Raven-na, Ferrara, Novara, con lo storico Centro di Ricerca Done-gani specializzato nella green chemistry, e il centro ricerchedi Matrìca a Porto Torres. Vengono impiegati circa trecento-cinquanta ricercatori.

In particolare, la ricerca Versalis attualmente sta facendoleva su:

• il business di elastomeri, che alimenta il mercatodelle gomme per pneumatici e altre applicazioniquali il footwear, modifica plastiche, bitumi, guar-nizioni, eccetera;

• il polietilene: materiali medicali e nel settore del-l’energia da fonti rinnovabili. «Stiamo lanciandouna famiglia di polietileni per applicazioni nel set-tore medicale. Nel campo dell’energia, siamo pre-senti con un nostro copolimero EVA, un film utiliz-zato nei pannelli fotovoltaici»;

• gli stirenici: EPS-polistirolo espandibile. Utilizzatonell’isolamento nel settore dell’edilizia, potenzial-mente in forte espansione, risponde all’impegnoper la riduzione di consumo energetico, previstaanche dalla nuova direttiva sull’efficienza energeti-ca degli edifici;

• la chimica da fonti rinnovabili.

Insomma, l’Asia è un continente molto importante per lo svi-luppo futuro di Versalis…Sì, il mercato asiatico vale oggi il 2% del nostro fatturato, maa tendere dovrà rappresentare almeno il 20%. Il tasso di cre-scita annuale che ci aspettiamo è tra il 5 e l’8%, grazie a duepartnership importanti. La prima è con la multinazionale ma-lese Petronas, finalizzata alla produzione, vendita e commer-cializzazione di elastomeri nell’ambito del progetto RAPID(Refinery and Petrochemical Integrated Development) pres-so la raffineria integrata di Petronas a Pengerang, Johor, Ma-lesia. La seconda è con Lotte Chemical, una delle maggiorisocietà petrolchimiche della Corea del Sud. È stata creatauna società, con il nome di Lotte Versalis Elastomers, per losviluppo di un impianto produttivo di elastomeri nello stabi-limento Lotte Chemical a Yeosu.

Venendo all’Italia, a Porto Marghera vi siete posti sullafrontiera tecnologica. Per dirla in parole semplici, ci sonoprocessi grazie ai quali si prende una molecola di chimicatradizionale e si costruisce sopra una molecola bio. Giusto?Porto Marghera era un grosso problema, fuori dalle rotte lo-gistiche dei nostri clienti, dimensionato in modo sbagliato,sovradimensionato, che necessitava di una soluzione. È statoannunciato la settimana scorsa un progetto di trasformazioneper il rilancio del sito con un investimento complessivo dicirca 200 milioni di euro. A Marghera ci sarà questo primoimpianto al mondo che impiegherà etilene e oli vegetali. Pernoi è molto importante perché utilizza il cracking, gli impian-

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ti esistenti, aggiungendo protezione attraverso degli impiantinuovi.

La nuova iniziativa di chimica verde viene avviata insie-me con la società americana Elevance Renewable Sciences(Chicago). L’innovativo progetto prevede lo sviluppo e l’in-dustrializzazione, con impianti world-scale primi nel lorogenere, di una nuova tecnologia per la produzione di bio-intermedi chimici da oli vegetali destinati a settori applica-tivi ad alto valore aggiunto come detergenti, biolubrificantie prodotti chimici per l’industria petrolifera. Tale tecnologiainnovativa si basa sul processo chimico della metatesi appli-cata agli oli vegetali, che consente, tramite l’azione di unospecifico catalizzatore, di realizzare nuovi prodotti chimicibio. I ricercatori che hanno sviluppato la tecnologia hannovinto il premio Nobel nel 2005. A livello occupazionale, ver-ranno non solo mantenuti gli attuali livelli (circa quattro-cento lavoratori), ma a regime saranno assunte ulteriorinovanta risorse che si sommeranno all’organico.

E poi c’è Porto Torres, che verrà rilanciata con la collabo-razione di Novamont, la società italiana specializzatanegli intermedi chimici bio, di cui avete acquistato il 25%.Sì, qui l’investimento per la conversione e il rilancio degliimpianti è pari a ben 500 milioni di euro. A Porto Torres hasede e impianti produttivi Matrìca, la joint venture paritariache abbiamo costruito con Novamont. Nel prossimo aprile,verranno commercializzati i primi prodotti usciti da quellafabbrica, e ne siamo particolarmente orgogliosi. Si tratta diuno dei più innovativi e grandi complessi integrati inEuropa e nel mondo di chimica verde per la produzione diintermedi chimici bio. La parte petrolchimica preesistente,e problematica, è stata completamente riconvertita. A regi-me, gli impianti di Matrìca avranno una produzione com-plessiva di circa 350 kta di intermedi da fonti rinnovabiliutilizzati ad esempio nella filiera dei biolubrificanti e dellebioplastiche. Il progetto prevede anche lo sviluppo di unafiliera agricola integrata con circa quattrocento ettari colti-

vati a cardo (pianta autoctona sarda). Per quanto riguarda lerisorse umane, a completamento degli investimenti di chi-mica verde saranno mantenuti i livelli occupazionali (circaseicento lavoratori).

Dulcis in fundo, Priolo, in Sicilia…Anche qui, una completa riconversione, con un investimen-to di circa 400 milioni di euro. Il progetto prevede la razio-nalizzazione dell’impianto di cracking e l’integrazione delportafoglio con prodotti ad alto valore aggiunto, ad esempiole resine idrocarburiche per settori specialistici come quellodegli adesivi (resine “tackifier”), di cui saremo tra i primiproduttori in Italia. Per questo abbiamo firmato una part-nership con la società americana Neville. Anche a Ravennae Ferrara sono in corso investimenti per produzioni ad altovalore aggiunto nel settore elastomeri nell’ordine di 350milioni di euro.

Ci sono altri progetti sulla filiera della chimica innovativa e“verde”?Nell’aprile 2013 è stata annunciata la joint venture con lasocietà biotech americana Genomatica (San Diego), specia-lizzata in modifica genetica di micro organismi e fermenta-zione degli zuccheri. La nuova joint venture è proprietariadella tecnologia in esclusiva per Europa, Asia e Africa per laproduzione di butadiene da fonte rinnovabile. Il butadieneè una materia prima per la produzione di pneumatici. E poic’è il grande progetto che fa leva sul guayule, un arbustooriginario del Messico e perfettamente adattabile al climasud-europeo e con caratteristiche di ipoallergenicità. Perquesto è stata avviata da gennaio 2013 una partnership conYulex, azienda americana (ha sede Phoenix) produttrice dibiomateriali a base agricola. Versalis realizzerà materiali perdiverse applicazioni ad alto valore aggiunto: da prodotti peril largo consumo, per il settore medicale e per l’industriadegli pneumatici. In relazione a quest’ultimo, è stato avvia-to un progetto di ricerca congiunto con Pirelli sull’utilizzo

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della gomma naturale da guayule nella produzione di pneu-matici.

Come vede la chimica italiana nel panorama europeo?La chimica verde è molto importante, ma non deve essereconsiderata come l’unica “via” della chimica per la sosteni-bilità (e ciò per evitare pericolose e sbagliate dicotomie trachimica “buona” e chimica “cattiva”). Di fatto, la chimicasostenibile vuol dire molto di più: prodotti e processi puliti,investimenti in impianti e in ricerca, in particolare riguardo alrisparmio energetico a favore dei suoi settori utilizzatori (unaunità di CO2 emessa dalla chimica fa ridurre di quasi tre unitàle emissioni a valle), riciclo, riduzione di rifiuti, consumo diacqua e sempre più nuove sostanze ecosostenibili.

Se si ha come riferimento lo sviluppo sostenibile (cioè lasostenibilità sociale, economica e ambientale), emerge unposizionamento eccezionale della chimica italiana: la Fonda-zione per le Qualità italiane (Legambiente e Unioncamere)ha stilato una classifica sul Prodotto Interno di Qualità: l’in-dustria chimica e farmaceutica risulta al primo posto tra isettori italiani. Questo per almeno tre ragioni. La prima èuna buona sostenibilità economica (settore industriale com-plesso, valore aggiunto per addetto del 50% superiore allamedia, industria basata sulla scienza). Poi c’è un’ottimaperformance in termini di sostenibilità sociale: qualificazio-ne della forza lavoro, il 26% dei neoassunti è laureato, sicu-rezza dei luoghi di lavoro.

Terza ma non meno importante ragione, il forte impegnoe i risultati concreti nella salvaguardia dell’ambiente. In defi-nitiva, la chimica è uno dei pochi settori che hanno le carat-teristiche migliori per la crescita in un Paese come l’Italia,caratterizzato da alto costo del lavoro. Lo dimostra proprio ilfatto che negli ultimi anni, pur soffrendo moltissimo la crisieconomica, ha mostrato una performance migliore della me-dia industriale (ad esempio con una buona crescita dell’ex-port), e ciò nonostante un costo dell’energia del 30% superio-re alla media europea, una logistica/trasporti inefficiente, un

sistema normativo e burocratico fortemente penalizzante. Amio avviso, una politica industriale che faccia diventare l’Ita-lia un “Paese normale”, come sottolineato dal presidente diConfindustria Giorgio Squinzi, permetterebbe alla chimica didare un significativo contributo alla crescita offrendo oppor-tunità di lavoro qualificato ai giovani.

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[ FOCUS II ]

LA MANIFATTURA CHE VA DIRETTAMENTEAL CONSUMATORE: LA PLASTICA

Come si è detto, la chimica 2.0 è presente soprattutto neglialtri settori, dall’edilizia all’industria. Molte attività industrialichimiche producono materie prime che vengono trasforma-te in prodotti per i consumatori finali. Tra queste, emerge lafiliera della plastica dal polimero a chi a valle della chimica lotrasforma nei prodotti di uso quotidiano, che in Europa dàlavoro a circa 1,5 milioni di addetti, di cui quasi 160.000 inItalia, dove rappresenta il 14% (circa 43 miliardi di euro) delfatturato totale del manifatturiero. L’Italia è al terzo posto inEuropa per occupati, fatturato e valore aggiunto delle fasi diproduzione e trasformazione delle materie plastiche, il secon-do mercato di consumo e il secondo produttore di macchina-ri, e può vantare eccellenze industriali nei materiali innovati-vi, anche di livello mondiale. Una ricerca di TEH Ambrosettiintitolata L’eccellenza della filiera della plastica per il rilancioindustriale dell’Italia e dell’Europa ha dato alle materie pla-stiche un ruolo di primo piano, con proiezioni che attribui-rebbero grandi potenziali di crescita non solo per tutto il ma-nifatturiero, ma anche per l’economia: per ogni 100 euro dipil prodotto nel settore della plastica verrebbero generati 58euro di pil per la manifattura e 238 euro di pil complessivoper il sistema economico nel suo insieme. Non solo, per ogniunità di lavoro in più nel comparto plastica si può prevede-re un +2,74% unità di lavoro; un miglioramento del 10% delfatturato complessivo della filiera della plastica italiana puòportare a un aumento dello 0,6% del pil nazionale (+4,6% nelcomparto manifatturiero) e alla creazione di oltre 40 milanuovi posti di lavoro. Inoltre, le applicazioni di frontiera dellaplastica si ritrovano nella generalità dei principali settori in-dustriali: automotive e aerospace, elettronica e meccanica,packaging, tessile-abbigliamento, industria biomedicale, ma-teriali per l’edilizia ed energie rinnovabili.

Lo studio di TEH Ambrosetti ha identificato anchelinee strategiche precise per indirizzare il settore verso unpercorso virtuoso, superando gli ostacoli che ne frenano losviluppo. Anzitutto le barriere culturali: quasi un italiano sudue mostra diffidenza verso la plastica; i motivi sono tanti,ma il più condiviso è la preoccupazione per l’impattoambientale lungo tutto il ciclo di vita, compresa la termova-lorizzazione.«Un timore infondato: sostituire le materie pla-stiche oggi comporterebbe un aumento del consumo dienergia del 57% e delle emissioni di CO2 del 61%», hadichiarato Daniele Ferrari, presidente di PlasticsEuropeItalia, l’associazione dei produttori di materie plastiche diFederchimica, nonché, come già sottolineato, amministra-tore delegato di Versalis. «Serve una campagna informativache comunichi ai cittadini il reale valore della plastica e lesue corrette modalità di utilizzo. La plastica ci fa risparmia-re risorse ed energia, consente migliori e più ricchi raccoltidella nostra agricoltura, contribuisce a ridurre le emissioni el’impatto ambientale, ad esempio attraverso l’isolamentodegli edifici, e ci permette di utilizzare l’energia provenien-te da fonti rinnovabili. Rende la nostra vita più sicura econfortevole: non esiste altro materiale che abbia le pro-prietà per sostituirla.»

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