L'Autoritratto

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Opera teatrale dello scrittore milanese Roberto Morpurgo.

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LE ARTI FALSOPIANO

una collana diretta da Mario Gerosa

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a Rossella

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EDIZIONI FALSOPIANO

L’Autoritratto

Roberto Morpurgo

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© Edizioni Falsopiano - 2013

via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIA

www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentori

Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini

Stampa: Atena - Vicenza

Prima edizione - Maggio 2013

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INDICE

… alla lettrice, al lettore…

(nota dell’A.) p. 11

Vedere il buio

di Massimo Marino p. 14

L’Autoritratto p. 23

Per L’Autoritratto

di Fabio Mazzari p. 65

L’Autoritratto: un inferno caravaggesco

di Renato Giordano p. 72

Considerazioni propedeutiche a una riduzione

cinematografica de L’Autoritratto

di Diego Cassani p. 76

L’amaro gioco del potere

di Edoardo Razzini p. 86

L’Autoritratto: ricordo di una messinscena

di Massimo Galimberti p. 92

Quattro interviste

a cura di El Djablo

Salvatore Mancinelli p. 98

Francesca Giorzi p. 103

Franco Lisi p. 108

Anna Zoroberto p. 113

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Edvard Munch, L’insonne (Uomo che passeggia di notte)(particolare), Olio su tela, 1923-1924, cm 89.5 x 67.6,Munch Museet, Oslo.

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Non tutte le pur sparute persone che a suo tempo lessero L’Autoritratto potrebberorileggerlo oggi. Senza considerare il fatto che forse, e quanto legittimamente, sisaranno stancate di leggere. Bianca o azzurra (e in ogni caso impervia al tempo ealle parole) è la loro pagina odierna. Se il tempo è tiranno, lo spazio è Ragioniere.Ci sarà modo di ricordarne 5 (cinque) per esteso? Enzo Morpurgo, mio padre, isuoi vecchi amici Guglielmo “Memo” Zambrini e Fanny Colorni Zambrini, il miovecchio ma ancor giovanissimo amico Claudio Forges Davanzati - Anna Soragna,mia madre.

“Die Mutter ist es nicht”. Wir berichtigen: “Also ist es die Mutter”(Sigmund Freud, Die Verneinung)

Wir berichtigen = noi rettifichiamo, also

Lui: non è la (mia) madre.Noi: dunque è la (sua) madre.

(Erroneamente Freud inflisse il corsivo alla parola non e non invece alla parola dun-que. Legittimamente noi non lasceremo che passi inosservato il suo candore: e lo retti-fichiamo in rossore).

1. Qui: soggetto2. Quo: verbo3. Qua: predicato.

Qui pro Quo (pro Qua): io non ho abdicato -, ergo,

1,0. Qui: io2,0. Quo: sono3,0. Qua: un papero.(del resto poi: In nomine patris, et filii, et spiritus sancti, amen o che non vi siceli una ridondanza…).

“Quando Skinner si decise a liberare i suoi cani, nella gabbia rimase solo IvanPavlov. ‘Meglio una gabbia oggi che un gabbiano domani’ – si giustificò il bron-tolone”.

(Scalaux, Anomade rupestre, XXII° sec. e.v.a.d.)

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Ringraziamenti

A L’Autoritratto - alla sua edizione in volume così come al progetto di rial-lestimento scenico della pièce - hanno concesso un preziosissimo patrocinioculturale le seguenti Istituzioni:

Accademia Nazionale della Luce (Umbertide);Città della Scienza (Napoli);Associazione Leonardiani (Milano);Associazione Italiana per l’Aforisma (Torino);Istituto Statale dei Sordi (Roma);Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti (Milano);Casa della Cultura (Milano).

A loro tutte la più viva e sincera riconoscenza dell’Editore e dell’Autore.

Pochi giorni dopo la redazione di queste righe, Città dellla Scienza è statadistrutta da un incendio criminale. Tutta, a parte il suo Teatro. A Cittàdella Scienza, alle amiche e agli amici che in essa operano e per essa si ado-perano, al suo Teatro miracolosamente e forse anche simbolicamente scam-pato allo scempio, il più caro e commosso augurio di pronta guarigione.

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... alla lettrice, al lettore...

L’Autoritratto - tengo a dire - non è il mio auto-ritratto: né mai spero lo sarà. Fu scritto in un’etàche perdona molto a sé stessa, e proporzionalmen-te meno al futuro. È così che si creano i destini per-sonali. Il mio fu proprio questo, l’inverso del suo(lui, Egon-il-cieco, dipingeva!): da sempre avreivoluto dipingere - e le dita non mi concedevano,in gioventù, che qualche fuggevole arpeggio allachitarra. Intravidi dunque queste due creature -Egon, e il suo dipinto - come si “vedono” glieureka! delle scoperte improvvise (le sole che nes-suno possa mai contrabbandare per invenzioni) - e“vidi” che nessun altro all’infuori di Egon avrebbepotuto vedere la sua opera: nemmeno Walter, chepure in assoluta buona fede accetta di descriverla.

Molta acqua è passata sotto i ponti (al puntoche alcuni rovinarono sulla siccità dell’alveo). Ilcaso volle che proprio L’Autoritratto - il mio primotentativo drammaturgico - vedesse la luce perprimo: la tremula luce della semiclandestinità incui or sono cinque anni fu allestito alla bell’emeglio in un luogo che pur non essendo una can-tina ben però si prestava a incarnare l’umbratileipogeo in cui si svolge la sua vicenda. La regiastessa (la curai con l’assillo della balia alle presecon il suo primo poppante) fu l’opera di un uomo cheprocede con la ferocia del neofita, che procede ten-toni, come il suo personaggio più giovane, muo-

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vendosi fra gli attori e le battute senza altra cer-tezza che quella di dovere alla musica - all’affannodel respiro, all’accento-in-levare dell’apnea... -quel che non potè dare alla pittura.

Condussi le prove e le poche repliche con l’ac-canimento di un condannato: con lo spirito del suoultimo desiderio. Pochissimi lo videro all’epoca:fra loro, i meno assidui nelle frequentazioni tea-trali compresero tutto - tutto fuorchè le parole. Fuallora che mi sovvenne di un’altra immagine chefece la sua parte nei miei apprendistati di lettore:quella della scala di Wittgenstein, la si usa peraccedere allo scaffale desiderato, e la si lascia anda-re. Anche le mie parole furono pioli, per quellespettatrici inermi, condotte dalla provincia coma-sca nell’algido cuore di Milano e del suo marzoaltresì cristallino - a seguire come una partita diping-pong gli scambi amletici dei protagonisti. Ead applaudirli, malgrado la follia che in loromomentaneamente vociferava. Visto e capito lospettacolo (e lo spettacolo fu essenzialmente l’in-terprete di Egon il cieco, Massimo Galimberti: el’inimitabile contrappunto di quella voce roca,opaca, strinata dalle Gauloises e di quegli occhisquillanti come gli ottoni dei Gabrieli) - visto ecompreso lo spettacolo, quel copione - quella scala- tutti i pur pochi spettatori se la sono giustamen-te gettata alle spalle. Se oggi la raccolgo - e se nuo-vamente la appoggio a chissà quale altro scaffale -è per destare il ricordo delle regie immaginarie chescandirono le mie letture e i miei primi abbagli discrittore. Né mi nascondo che condividere un

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ricordo è cosa forse ancor più impossibile che con-dividere un sogno. Né tanto io amo i sogni, o iricordi: quanto proprio l’impossibile.

Bulgarograsso, febbraio 2013

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Vedere il buiodi Massimo Marino

Una stanza. Un buio appena squarciato da raggidi luce. Due uomini. Uno, il più vecchio, è immo-bilizzato su una poltrona, con un paio di occhialiscuri. Chiede al più giovane di descrivergli, di “far-gli vedere” con le parole, un ritratto che si chiedeallo spettatore di immaginare presente, appesoall’immaginaria quarta parete che separa la scenadalla platea. Si tratterebbe, scopriremo a poco apoco, di un volto che emerge dal buio, di una figu-ra assisa su una sedia istoriata della quale si colgo-no, all’inizio, solo pochi tratti espressionisti. Ladidascalia chiarisce che ci troviamo in “un localeangusto, sorta di rifugio clandestino”.

Sembrano due i riferimenti de L’Autoritratto diRoberto Morpurgo 1: Finale di partita di SamuelBarclay Beckett e la famosa serie di contorte, lace-rate figure nelle quali Francis Bacon fissa il pro-prio volto. Ma presto scopriamo che, in questastanza-cantina della mente, il personaggio in pol-trona, che sottilmente tortura quello più giovanee più malmesso, figura scavata e “giraffesca”, ècieco e cerca di vedere, dichiaratamente, attraver-so l’altro qualcosa di cui non può avere cognizio-ne. Poi realizzeremo, ancora, che non può in nes-sun modo fidarsi di ciò che il giovane gli raccon-ta, né capire se ciò che quello vede per lui sia unareale, oggettiva analisi del dipinto o se non sitratti di un’invenzione, di un compiacente o per-fido inganno. La pièce di Morpurgo si apre con un

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retrogusto retorico di vecchio teatro, con un fra-seggio quasi solenne, con quell’aria fiamminga cheriporta forse più a Michel de Ghelderode che aBeckett. Ma a poco a poco si trasforma in una trap-pola mortale, che mette in discussione la possibi-lità stessa del vedere, del penetrare una realtàdistante come quella dell’individuo, avvolta, comeil ritratto e, ancor più, l’autoritratto, nell’oscuro.

La cecità diventa metafora di un’impossibilità diconoscere, secondo il fraseggiare di questo dramma-turgo filosofo, che a mano a mano che l’azione ince-de sempre di più cattura con una lingua costruitalontana dal parlato, letteraria ma in modo assoluta-mente proprio, originale, come in cerca di una veritàtanto assoluta quanto assolutamente impossibile.

Non racconterò nei dettagli ciò che il lettore diquesto volume potrà scoprire da solo. Sottolineo solocome la cecità si scontri con l’idea di sé tradotta informa pittorica. Di fronte alla massima cristallizza-zione visiva del pensiero, il dipinto, e tra tutti i tipidi dipinto il ritratto, sintesi ideologica e concretissi-ma di un carattere, di una condizione, di una storiain un volto e poco più, in una posa apparente - intempi più vicini a noi contratta e tesa all’urlo fino arivelare pezzi d’anima - la cecità diventa principio diconoscenza altra del reale. Una conoscenza che nonpotrà mai attingere l’assoluta certezza, perché sidipana su codici diversi da quelli dominanti.Dubbio continuo, quindi, messa in discussione dellesicurezze gnoseologiche, coscienza del volto comemaschera indossata su altre maschere, e della perce-zione come campo di tensioni spesso destinate allaritirata, alla sconfitta, al ritorno nel margine ansio-

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geno dell’inconoscibile, dell’indicibile.Teatro e cecità. Leggendo il testo di Roberto

Morpurgo mi sono venuti in mente alcuni spettaco-li nei quali la mancanza di vista assume un valore deltutto simbolico, che vuole rimettere in discussioneproporzioni, nozioni, consapevolezze, certezze. Apartire dall’accecamento di Edipo, che crede di vede-re in modo chiaro la realtà, di poterla dominare gra-zie alla forza magica che gli ha permesso di sconfig-gere la Sfinge, e che scopre pulsare dentro di sé unaltro Io, colpevole, che quando emerge alla luce nonpuò che accecare e lasciare senza più occhi, senzasguardo, sull’orrore che non si è stati in grado divedere. A specchio di Edipo che con gli occhi nonpenetra la realtà sta il cieco indovino Tiresia, confi-dente di Apollo l’ambiguo, che con le sue orbitevuote riesce a scrutare più a fondo nelle cose, neimisteriosi decreti del Fato (e alle spalle di tutta latragedia greca sta il cantore Omero, che figura inte-ri mondi senza poterne avere esperienza visiva, sim-boleggiando e realizzando la forza della narrazione,dell’immaginazione).

Le orbite abbacinate di Gloucester nel Re Learportano in un altro mondo sottosopra, dove niente ècome sembra, dove i figli tradiscono i padri quantopiù dicono di amarli; un mondo dove le parole sonovento senza consistenza pronto a trasformarsi nellafuria della tempesta che sconvolge e travolge.

Le voci, le occhiaie cieche: I ciechi di MauriceMaeterlinck alludono a un’umanità che si dirigesenza sguardo sull’orlo di un baratro insondabile,immobilizzata in un’attesa impotente, senza piùguide che possano con gli occhi indirizzare il cam-

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mino. Impressionante era la versione che ne diede,qualche anno fa, nel 2002, il quebecchese DenisMarleau, con i ciechi ridotti a dodici maschere,sospese, in alto, in una camera scenica nera, cheduplicavano due soli volti, quelli di un attore e diun’attrice, in un dispositivo in cui le espressionimutavano appena, per un taglio di luce, con unosbattere di palpebre su vuote occhiaie, mentre scor-reva il testo in un senso soffocante di attesa, con lospettatore inchiodato a una visione immobile, lenta,che invitava ad ascoltare, nelle parole del testo, l’in-calzare di una paura esistenziale priva di sviluppo.

Sempre nel 2002 un giovane artista privo dellavista, agitatore culturale nato a Brindisi e formatosia Bologna, in un’altra sua vita in Sicilia ideò con lacompagnia Famiglia Sfuggita Il cibo del buio, unospettacolo che trasformava in ciechi spettatori nor-malmente vedenti, privandoli della visione nel rap-porto più quotidiano, quello con ciò che mangiamo.Otello Urso, troppo presto rapitoci dalla morte,organizza, dopo un laboratorio in cui forma un grup-po di guide-angeli custodi, una cena in un buio chediventa sempre più pesto, spaesando il nostro stessorapporto col cibo: un tortellino, non visto, sologustato, sarà riconosciuto dal palato come un tortel-lino? E come sarà portato alla bocca se non si distin-guono il piatto e le posate? Il menù alla fine delpranzo è sorprendente per chi ha potuto conoscerlosolo attraverso i sensi intorpiditi dalla preminenzadello sguardo: il gusto, il tatto, l’olfatto. Il buio sca-tena le reazioni più diverse, da battutine nervose agoliardate da gita scolastica, alla concentrazione sudi sé e su quello che si sta facendo in modo non abi-

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tuale. Spettacolo da non vedersi, da agirsi, da viverecome un’esperienza di abbandono e di scoperta. Unaltro modo di disegnare il nostro rapporto con ilmondo (e con il suo lato buio).

Qualche anno prima ancora il Teatro delLemming aveva precipitato nell’oscurità uno spet-tatore alla volta, trasformandolo proprio in Edipo(Edipo. Una tragedia dei sensi per uno spettatore). Lospettacolo non “si vedeva”, ma “si faceva”. Si veni-va bendati, trasformati nel protagonista e manipo-lati. Attraverso voci, sussurri, spostamenti guidatinello spazio, contatti fisici, parecchi attori portava-no lo “spettatore” solo a ripercorre una storia chepoteva essere quella del re tebano o la propria,risvegliando i sensi negati dalla vista, per scoprirealtre possibilità.

Il deficiente, lo chiamano Gianfranco Berardi eGaetano Colella, in uno spettacolo del 2005 checonfonde i ruoli: trasforma un attore vedente in uncieco che riorganizza dittatorialmente in propriafunzione la vita di un gruppo di amici; tra questi c’èun non vedente vero che sembra vederci benissimo.Chi sarà deficiente in un mondo dove bisogna com-portarsi come ciechi: chi vede o chi non vede?

Il protagonista immobilizzato de L’Autoritrattochiede al proprio interlocutore, Walter, di guardarein diverse condizioni di luce il quadro, il ritratto diun volto dalla bocca prorompente come una biancaferita e dalle occhiaie allucinate. Chiede di osservar-ne i dettagli con una lente d’ingrandimento e perfi-no con un microscopio. Poi, a poco a poco, gli togliela luce, e lo incalza a fargli da occhio nelle tenebre,

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a riprodurre le tenebre stesse del proprio sguardo.Sembra imporgli di fargli riacquistare, per suo tra-mite, la vista, di fargli superare, col suo aiuto, unadeficienza che forse non si può descrivere come tale.Cosa vede del nostro mondo un cieco? E come noientriamo nel suo (pensare al famoso racconto di H.G. Wells, Nel paese dei ciechi)? Come concepisce icolori chi i colori non può vedere? E con quali diffe-renze fra chi è cieco dalla nascita e chi invece daun’epoca successiva? Domanda che equivale a un’al-tra: cosa vediamo noi di un mondo di cui non cono-sciamo comunque i contorni e neppure le sostanze?Come possiamo illuderci che i simulacri che impres-sionano le nostre deboli facoltà siano la strada cheporta a qualcosa che assomigli a una conoscenza?

Ma non solo di sapere, e di potere, di dominare infondo, si tratta. Ma anche di essere. Di esserci, quin-di dei modi di sentire, di sentirsi. Perché - scoprire-mo - il quadro invisibile (cosa vedono nella pièce gliattori? cosa vedono gli spettatori: i punti di vistadifferenti alludono alla prismaticità imprendibiledel reale?) ha un’intima relazione col vedersi (o nonvedersi) di Egon. La tortura della descrizione inflit-ta all’altro è un tentativo di rassicurarsi, di avere lacertezza di un proprio essere. Per gli altri e per sestessi. Una forma del sé da trovare. In cui rispec-chiarsi. Da far conoscere. Ma oltre non si può anda-re, in questo gioco di specchi opachi, che ricostrui-sce senza imitarlo il senso di tragedia estrema, apo-calittica, terminale di Finale di partita, con i modiprecisi, la cura dei dettagli di cose e particolari ana-tomici della pittura fiamminga. Quello che è in

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gioco è la possibilità di vedere la realtà, e se stessi. Divedere il buio, nel buio, oltre il buio.

Si tratta di trasporre ciò che si è e di farlo cono-scere agli altri, laddove per assenza di occhi, percecità, la traduzione appare così ardua da non ritrarrepiù alcuna esteriorità: si tratta dunque di squarciareil velo dell’essere profondo, offrendosi, senza rime-dio, alla sconfitta dell’impossibile rispecchiamento.La sempre precaria fedeltà dell’autoritratto quimette in discussione la comunicabilità dell’Io, por-tando anche la parola tornita della prima parte aimplodere in una forma-involucro che si tende finoallo spasimo del dolore, senza mai lacerarsi, cercan-do di riprodurre (ricreare) la torsione verso l’indici-bile dell’autoritratto di Bacon, sostanziandosi del-l’apparente calma reificata capace di dominare larealtà dell’iconografia fiamminga.

La possibilità (o impossibilità) di vedere la realtà ese stessi diventa quella di farla e farsi riconoscere. Unafolgorazione può darsi forse solo per quell’istanteeterno, di infinita rivelazione, di squarcio terminaledel Grande Velo, che chiamiamo “Apocalisse”.Finale di partita, senza trombe di angeli che nonsiano i dubbi sulla possibilità della verità e dellarelazione umana. “Apocalisse” con il connesso sensodi fine nel momento del Kairos - il tempo di Dio,della coscienza - finalità folgorante della storia chetutta la storia comprende e rivela, non solo la finedella storia; rivelazione mai ripetibile, annunciabilesolo in quel surrogato che può essere la visionemistica o la profezia, destinate presto a svanire, comela vita, come le cose, come l’illuminazione nontesaurizzabile che la cecità filosofica può procurare.

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Basta guardare con altri sguardi. Anche se poi ciòche si vede - con gli occhi o senza gli occhi - è soloil tormento.

1 Il testo è stato scritto nel 1986. Già alloraviene recensito da Radio 2 e Radio 3. Troverà la vitadella scena, però, solo nel 2008, per la regiadell’Autore - che nello stesso anno ne curerà anche laversione radiofonica per la Radiotelevisione dellaSvizzera Italiana.

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Massimo Galimberti nel ruolo di Egon – spazio Zazie, Milano, marzo 2008

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L’Autoritratto

atto unico

Personaggi: Egon, uomo di mezza età, affaticato,cieco dalla nascita. È avvolto da una coperta sino allapancia e siede su una poltrona imprevedibilmentegirevole. Walter, giovane visitatore, meno anni diEgon ma peggio portati, indossa un mantello oimpermeabile che ne sottolineano la complessioneallampanata, quasi giraffesca.

Scena: interno “fiammingo”, intimo come una visio-ne interiore; forti penombre, rade luci dalla fonteindiscernibile. L’insieme della scena dovrà allusiva-mente ricordare un dipinto.

Arredo: due poltrone: una, massiccia, accosta al fon-dale, verso sinistra, l’altra, dove siede Egon, un po’verso il proscenio, verso la quinta destra. Al centro,fra Egon e l’altra poltrona, un tavolino povero, spo-glio. Alle spalle di Egon uno scaffale scarno e pocoprofondo reca tre oggetti ben distanziati (una broc-ca, un microscopio, un fermacarte). Lungo la quin-ta sinistra scende una scala a gradini scomodi eripidi, atti a dare l’idea di un locale angusto, sortadi rifugio clandestino.

Illuminazione: ampie zone della scena sono in ombra,ma via via che il colloquio procede si illuminano “atema”, come se una torcia o un faro seguisse ora que-sta ora quella zona dell’ambiente. Sia i colori delle

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cose sia il colore della luce ricorderanno ora i croma-tismi del legno, ora della tela e del cuoio.

Azione: Quando Walter entra in scena, scendendo lascala a passi tanto felpati quanto “invadenti”, comese si introducesse in un santuario, Egon lo anticipa,rallentando sino allo spasimo il già lentissimo ince-dere del visitatore.

Legenda: (p) = pausa, (bp) = breve pausa, (bbp) = bre-vissima pausa.

Buio. Scroscio di pioggia, botola che si chiude, pioggia chedegrada. Mentre il rumore della pioggia va a svanire, sisentono i passi di Walter, la scala si illumina, e via via lascena.

Egon: un po’ in anticipo, non crede? Mi ricorda, lasciche glielo confidi, un’educanda al suo primo fox-trot. (bp) Lei sa di essere comunque il benvenuto.

Walter: mi limito a sperarlo. Piuttosto lei: la vedopiù stanco del solito. Ha forse qualche motivo di tri-stezza, o di noia?

Egon: di noia, forse.

Walter: capisco bene il suo stato. Non c’è nulla dipeggio che una serata uggiosa e…

Egon: non è poi così grave. Per me, almeno, è l’abi-

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tudine. Sento parlare di cose che non vedo e nonvedo le cose di cui parlo. Il mio tempo, per così dire,ne esce raddoppiato.

Walter: non sono certo di comprenderla sino infondo… Le confesserò anzi che non è mia abitudinesoffermarmi su certe questioni e che quando micapita di doverlo fare ne traggo ben poco giovamen-to… diciamo pure che anzi un certo genere di rifles-sioni mi turba e un poco…

Egon: la indispone.

Walter: già. Ha intuito alla perfezione un sentimen-to che pensavo ben occultabile.

Egon: non mi è forse riservata l’evidenza dell’animo?

Walter: lei vuol dire…

Egon: che mi è preclusa quella del mondo.

Walter: lei ora allude alla sua condizione…

Egon: a nessuna condizione alludo io ora. Bensì a unacondanna: la cecità.

Walter: sì, questo intendevo… vorrei dirle che puòcontare su di me per qualsiasi cosa e…

Egon: la intenerisco?

Walter: forse, ma non volevo dir questo.

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Egon: dica allora quel che voleva dire.

Walter: non so nemmeno io con precisione quel chevolessi dire… è tutto così ovattato, come se unospettro aleggiasse sulla nostra conversazione…

Egon: la prego, continui.

Walter: forse ho esagerato, non intendevo uno spet-tro propriamente, diciamo piuttosto una presenza…incombente? Qualcosa che mi impedisce di sentirmidel tutto a mio agio.

Egon: credo di comprenderla perfettamente. Lei nonpuò sapere di cosa si tratta, e ne ha qualche ragione;ma potrei confermarle che in un certo senso una pre-senza incombe sulla nostra conversazione. O, con lesue stesse parole: aleggia.

Walter: e in che modo potrebbe confermare, possochiederle?, una mia quasi segreta sensazione?

Egon: indicandogliene la causa oggettiva, quantun-que, per così dire, necessariamente inconsapevole; e- lasci che io le dedichi un’espressione un po’ scher-zosa - pudica a rivelarsi.

Walter: pudica... una causa... a rivelarsi... non riescoa seguirla, mi creda...

Egon: non ha notato nulla di nuovo?

Walter: non mi pare… o forse l’ho fatto e non lo

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ricordo.

Egon: eppure lei ha occhi.

Walter: certo, e ben funzionanti! Ma è normale - neconverrà - non accorgersi delle cose a cui si è fattal’abitudine.

Egon: delle cose... a cui si è fatta... l’abitudine...

Walter: non vengo forse a farle visita ogniqualvolta imiei impegni me ne lasciano il tempo?

Egon: si direbbe allora che lei abbia realizzato così afondo questo vezzo della nostra natura da aver con-tratto anche l’abitudine a non accorgersi delle cosenuove.

Walter: lei è un fine dialettico.

Egon: eppure dico le cose come stanno. O pretendeche la sua abitudine la giustifichi anche quando nonsi accorge di cose con le quali in nessun caso potreb-be aver familiarizzato?

Walter: m-mi p-per... mi permetta di chiederle piùsemplicità.

Egon: come desidera. Vede la parete che le sta difronte?

Walter: ebbene?

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Egon: ebbene vi è affisso un quadro: oggi per laprima volta pende a quel chiodo, a quel lembo dimuro, dove ora presumibilmente lei sta indirizzandolo sguardo.

Walter: vero. Già: non l’avevo notato.

Egon: proprio, non l’aveva notato. L’ho appeso iostesso, poco prima che lei arrivasse. Ma forse tuttoquesto la sorprende.

Walter: nient’affatto. O meglio, mi incuriosisce.

Egon: proprio come immaginavo. (bp) Ma sieda: laprego.

Walter siede con circospezione, in punta.

Walter: già, lo immaginava... lei, non il quadro, misorprende. Mi riferisco alla sua capacità di intuire inanticipo gli altrui stati d’animo.

Egon: non esageri. Mi onora di una virtù che non hoaffatto dimostrato: sebbene lei non sia nuovo a con-sacrare il valore delle mie intuizioni: alludo natural-mente a quel moto del suo animo che poco fa credet-ti di dover tradurre con le parole: “Ciò la indispone”.

Walter: è così. E tuttavia sono disposto a credere chequesta sua inclinazione sia una autentica dote natu-rale, piuttosto che il frutto di una fortuita coinci-denza. Propendo a vedervi una virtù stabile.

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Page 30: L'Autoritratto

Egon: si sente a suo agio, nelle parole. Ma ora - miaccorderà questo innocente favore? - vorrei metter-la un po’ alla prova.

Walter: la prego. Sebbene non sia certo di aver affer-rato appieno le sue intenzioni.

Egon: capirà. Vede ancora il quadro alla parete?

Walter: certamente.

Egon: se io le chiedessi di... descriverlo?

Walter: di... descriverlo... ? Già… perché no?

Egon: presti però attenzione: intendo, non unadescrizione sommaria - e men che meno un com-mento - perdoni la secchezza della mia esortazione -per così dire - estetico. Intendo ottenere da lei preci-samente una descrizione, la più fedele e dettagliatadescrizione di ciò che avrà visto.

Walter: naturalmente. Lascerà che io colga questaoccasione per confessarle che lei tocca così un tastodavvero dolente?

Egon: ora è lei a doversi spiegare più chiaramente.

Walter: dipingevo, in gioventù.

Egon: dipingeva, davvero?

Walter: dipingevo - ma con scarsi risultati, e ancor

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Page 31: L'Autoritratto

più magre soddisfazioni.

Egon: è naturale.

Walter: e in che modo, voglia scusare, sarebbe natu-rale dipingere... per poi trarne però... magre soddi-sfazioni?

Egon: lei vede, o sbaglio? Dunque in un certo modoè naturale che abbia almeno una volta avvertito l’im-pulso a testimoniare quel che vedeva lasciandosi pre-scrivere dalla imperturbata vivacità di ciò che anda-va osservando l’arte più appropriata al suo caso: epoiché vedeva immagini, non poteva che dedicarsialla pittura.

Walter: già... le sue sono parole che sorprendono. Lecose stanno proprio così. Dipinsi, per un breve perio-do, con l’animo colmo di un’aspirazione che lei hasapientemente evocato. Pervaso da speranze e convin-cimenti incrollabili... poi, non so come, tutto si perse.

Egon: è più che naturale smarrirsi lungo il camminodell’arte.

Walter: lei trova ovvie cose che a me appaiono inve-ce strane - per non dire inquietanti. Non so perchédovetti smarrirmi allora: certo fu un’umiliazione dicui tuttora arrossisco.

Egon: capirà anche questo, se avrà l’animo di lasciar-si guidare.

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Page 32: L'Autoritratto

Walter: intende dire... cosa, precisamente?

Egon: nulla che lei per primo non possa intendere enon abbia forse già segretamente inteso. Posso gio-varmi dunque per un poco della sua cortesia: e chie-derle di cominciare?

Walter: cominciare... la mia descrizione, suppongo.

Egon: sì. Devo tuttavia pregarla - certo che guarderàcon occhio indulgente all’insistenza di questo mioinvito - devo dunque pregarla di attenersi stretta-mente all’evidenza di ciò che verrà osservando sullatela.

Walter: farò del mio meglio.

Egon: cominciamo, allora.

Walter si alza con lentezza e si schiarisce la gola. Guardaalternativamente in direzione di Egon e della TelaImmaginaria, che pende alla Quarta Parete.

Walter: su fondo scuro, grigio direi per le parti supe-riori della tela, più sul marrone, forse ocra scuro, perle inferiori...

Egon: tralasci i dettagli.

Walter: come desidera. Dalla quasi completa oscuritàdel fondo si staglia sulla destra il profilo obliquo diun volto virile.

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Page 33: L'Autoritratto

Egon: cosa significa profilo obliquo? Un mezzo profi-lo... lineamenti non compiutamente raffigurati…cioè forse quelli di un volto che diremmo allorapreso di tre quarti?

Walter: per l’esattezza.

Egon: ebbene, procediamo.

Walter: il volto è quello di un uomo affaticato,quasi affranto... si confonde a tratti con l’intornocromatico...

Egon: intorno - cromatico? Ma cosa mai va dicendo?Descriva con fedeltà ciò che vede!

Walter: è più che fedele, la mia descrizione. Se solopotessi dargliene una prova!

Egon: fedele, una descrizione confusa? Lei nemmenosuppone il significato della fedeltà... ma tralasciamo,non era mia intenzione trascendere. E non è certoquesto il momento dei battibecchi. Avrà modo diperfezionarsi in altre occasioni. Prosegua pure.

Walter: (sguardo perduto lungo la Quarta Parete): ilvolto mostra, e anzi esibisce, una bocca contratta,abnorme, quasi irreale, e deforme... una prominenzachiara che contrasta con il colorito ombroso delleguance... no, non “colorito ombroso”...

Egon: voleva dire “il bruno circolo delle orbite” - ?

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Page 34: L'Autoritratto

Walter: non a me dovrebbe chiederlo, ma a se stes-so... si direbbe che lei...

Egon: si risparmi, prosegua piuttosto. Io l’ho inter-rotta.

Walter: in questo contrasto la bocca risalta con la vio-lenza di un effetto innaturale, improvvisa come unascogliera lungo un litorale piatto e uniforme...

Egon: badi, non è di un litorale marino che stiamoparlando, bensì di una bocca: una bocca chiara, gros-sa, forse deforme, pateticamente incastonata in unvolto scuro, particolarmente scuro all’altezza delleorbite e degli zigomi.

Walter: sì, ecco... il chiarore quasi lunare della suabocca richiama quello del drappo... un drappo...

Egon: ebbene? Un drappo?

Walter: ecco, non osavo dirlo... un drappo bianco, spor-co di qualcosa che potrebbe anche essere sangue o...

Egon: un drappo biancastro - sporco di rosso? Un faz-zoletto? Un tovagliolo? Una - benda, forse?

Walter: non proprio. Un drappo, un semplice drappocon una macchia diffusa al centro, non posso direcon precisione... certo qualcosa di informe...

Egon: e il drappo - la macchia informe - dove sitrovano?

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Page 35: L'Autoritratto

Alessandro Marini

Bertolucci. Il cinema, la letteratura.

Il caso Prima della rivoluzione

Ignazio Senatore

Conversazione con Giuseppe Piccioni

Giulio d’Amicone

Vamos! Il western italiano oltre Leone

Claver Salizzato

I Gattopardi e le Iene. Gli splendori (pochi)

e le miserie (tante) del cinema italiano oggi

Lino Molinario

Risultato urbano: cancellato

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