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C.A.I.R. - Celebrity Autograph International Register C. P. 359 - 57100 Livorno - Italy www.cair.it Articolo: Catalogazione dei carteggi Tecniche e soluzioni in una esperienza reale L’autografo come oggetto fisico ossia come catalogare un volo in mongolfiera Intervento per gli atti del convegno Conservazione e catalogazione dei carteggi: metodologie e tecnologie a confronto Livorno, Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, 25 maggio 2001 Neil Harris Borgo Allegri 25, 50122 Firenze, tel. 055.241579. Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali Università degli Studi di Udine 33100 Udine [email protected]

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Articolo:Catalogazione dei carteggi

Tecniche e soluzioni in una esperienza reale

L’autografo come oggetto fisico ossia come catalogare un volo in mongolfiera

Intervento per gli atti del convegno

Conservazione e catalogazione dei carteggi: metodologie e tecnologie a confronto

Livorno, Biblioteca Labronica “F.D. Guerrazzi”, 25 maggio 2001

Neil Harris

Borgo Allegri 25, 50122 Firenze,

tel. 055.241579.

Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali

Università degli Studi di Udine 33100 Udine

[email protected]

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«...se io che sono stata la più scelerata e ribalda puttana di Roma, anzi d’Italia, anzi del mondo, con il far male, con il dir peggio, assassinando gli amici e i nimici e i benvoglienti a la spiegata, son diventata d’oro e non di carlini, chi sarai tu vivendo come io ti insegno?»

Nanna in Dialogo di messer Pietro Aretino nel quale la Nanna il primo giorno insegna a Pippa sua figliuola a esser puttana…

(1536), tratto da Pietro Aretino, Sei giornate (1969).

Ho il dovere solenne, anche per scrupolo professionale, di avvertire il pubblico che, nel caso sia qui in platea con la speranza di imparare qualche verità sublime sulla catalogazione degli autografi, ha sbagliato relatore, intervento e giorno.

Non solo non ho cose importanti o originali da dire, ma ho anche l’obbligo di comunicare un elenco di procedure da seguire, il quale – senza offrire la distrazione gradevole di un testo parallelo in norvegese e giapponese – sarà avvincente quanto le istruzioni che si trovano sull’imballaggio di un qualsiasi prodotto multinazionale.

Se ascoltate ancora, l’unica scusa che offro per giustificare questa mezz’ora di tedio – ma si tratta di giustificare l’ingiustificabile – è che forse non tutte le persone qui presenti sono catalogatori esperti di autografi e poi che ciò che risulta banale per lo specialista non è necessariamente facile per l’apprendista.

Anzi, se mi è permesso uno sfogo in margine, parlare di catalogatori ‘esperti’ oppure di ‘cultura del catalogatore’ nella realtà delle biblioteche dei giorni nostri suona piuttosto come paradosso o addirittura come beffa. Ho spesso l’impressione che, nonostante il moltiplicarsi dei corsi universitari e la retorica dei congressi di bibliotecari inneggiante alle nuove tecnologie, nel mondo vero delle biblioteche la cultura del catalogatore conti quanto la cultura della signora che fa le pulizie. Cioè: bene se la possiede, perché così si scambiano due chiacchiere piacevoli, ma non ha alcun rapporto veridico con l’ambiente in cui si lavora. Nel sistema bibliotecario attuale, fatto di gare di appalto in cui vince chi offre meno, il punto nevralgico della biblioteca, il catalogo, finisce per essere gestito da una figura di imprenditore esterno che lavora esclusivamente per produrre il numero massimo di schede nel minor tempo possibile. In tale situazione concetti come la qualità della catalogazione e la cultura del catalogatore sono soltanto motivi fastidiosi per chi tiene in mano l’azienda che qualcuno vuol chiamare biblioteca.

Oggi però ci troviamo in riva al mar Tirreno, senza alcuna possibilità di cambiare il mondo, e pertanto, alla stregua di un piccolo manuale di sopravvivenza, ecco alcune strategie elementari intese a semplificare e velocizzare il lavoro, senza aggravio di tempo e di fatica, per chi si trova alle prese con il catalogo oppure l’edizione di un carteggio. Indirizzo queste raccomandazioni soprattutto alle vittime della situazione appena descritta, ossia a chi - forse perché è stato assunto con un contratto a termine per tale compito, forse perché sta conseguendo un titolo universitario - ha necessità di catalogare o comunque descrivere un insieme di lettere, non sa come cominciare e non ha nessuno che gli dà consiglio.

Contrariamente all’esempio poco encomiabile ma largamente diffuso offerto dai professionisti della cultura – che siano giornalisti, bibliotecari, docenti universitari o altra gentaglia non importa: sono accomunati dal fatto che costantemente fingono di sapere cose di cui non sanno assolutamente niente – il punto migliore di partenza sta nella confessione piena e assoluta della propria ignoranza. Come sant’Agostino sulla spiaggia, di fronte all’oceano di documenti conservati negli odierni archivi e biblioteche, la quantità di cose che ognuno di noi dovrebbe sapere è inconcepibile. Chi cataloga insomma fa meglio a non sapere; è tenuto soltanto a saper sapere, cioè a conoscere quegli strumenti e quei metodi che consentono di giungere rapidamente e efficacemente all’informazione di cui ha bisogno.

Il vaso di Pandora, quello dell’informazione elettronica, si è aperto da tempo e senz’altro, attraverso la digitalizzazione delle immagini e la costruzione di biblioteche virtuali, apre la possibilità di esplorare carteggi che attualmente giacciono sconosciuti in biblioteche distanti. Tali operazioni tuttavia saranno inutili in assenza delle virtù tradizionali del catalogatore, come il buon senso, la pazienza, la concezione del catalogo quale intarsio di blocchi di informazione e la capacità ad immedesimarsi rapidamente in un nucleo di documenti di cui ieri non conosceva l’esistenza.

L’approccio che espongo qui nasce da una esperienza di catalogazione svolta dal 1999 al 2001 presso la Biblioteca Comunale Labronica di Livorno, in cui ho piacevolmente seguito una stage formativa di Michela Ciancianaini e di Sabrina Taddei svolta sulla lettera ‘C’ dell’Autografoteca Bastogi. Se da un lato ‘esperienza’ è il nome amaro che diamo ai nostri errori, dall’altro ora abbiamo il dolce e voluttuoso piacere di descriverli e presentarveli.

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La catalogazione dei carteggi o piuttosto una riflessione metodologica sui principi e sulle norme che vanno applicati ad una raccolta epistolare è territorio sostanzialmente vergine: anzi non sono riuscito a trovare alcun contributo utile precedente in tema. La stragrande maggioranza di tali documenti sono dell’Ottocento: appartengono cioè ad una epoca di trasformazioni profonde nel sistema dei trasporti e delle poste, nonché teatro in cui nuove categorie di persone, soprattutto donne, prendono in mano la penna per comunicare a distanza. Per il secolo in questione non è stato fatto alcun rilevamento statistico in grado di fornirci dati fondamentali sulle caratteristiche fisiche di queste corrispondenze, e il rimpianto per tale lacuna – per cui spesso si brancola nel buio di fronte ad ostacoli banali – è stato espresso quasi ogni giorno nel corso del lavoro. Sarebbe stato prezioso infatti avere a disposizione un repertorio sistematico riguardante le diverse tipologie di carta e di penne, l’impiego di filigrane datate o databili, la presenza dei timbri a secco, la diffusione della carta intestata a stampa, e l’utilizzo del timbro filatelico. Non sono informazioni significative nel contesto di una lettera qualsiasi, ma, raccolte sistematicamente e analizzate con criteri statistici, migliorerebbero notevolmente la nostra conoscenza degli aspetti materiali dei carteggi ottocenteschi.

In ogni catalogazione di uno o più epistolari, forse distinti, esiste una differenza fra due tipologie opposte, che influisce, anche pesantemente, sull’organizzazione del lavoro, sul metodo da seguire e sulle possibilità di successo. Mi riferisco alla distinzione fra le raccolte con un centro e quelle senza un centro, che a loro volta derivano dai modi differenti in cui una collezione di lettere giunge in una sede deputata alla conservazione e valorizzazione.(1) Una raccolta possiede un centro nel caso in cui l’epistolario ruoti intorno alla vita e all’attività di una persona, di una famiglia, oppure di un ente. Porto come esempi due fra i vari carteggi con i quali mi sono imbattuto durante la mia carriera di studioso dilettante di tali cose.

Il primo è la collezione di lettere per lo più ricevute da Antonio Panizzi e da lui destinate, per volontà testamentaria, ad essere conservate presso la biblioteca del British Museum (dal 1973 British Library) dopo la sua morte, sopraggiunta nel 1879. Con pochissime eccezioni sono lettere di cui il grande bibliotecario era semplice destinatario, per cui, nel caso volessimo conoscere l’altra metà della corrispondenza, occorre fare ricerche altrove, talvolta estenuanti. Al momento in cui furono catalogati e indicizzati i singoli pezzi epistolari furono riordinati in sequenza cronologica (con quelli non datati riuniti alla fine) e rilegati in quattordici grandi tomi per costituire gli odierni Additional Manuscripts 36714-36727.(2) Mi sono servito di tali documenti per la prima volta, circa quindici anni fa, durante la mia ricerca sulla storia bibliografica dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, di cui Panizzi curò una edizione nel 1830-31. Al momento mi sto interessando, benché il lavoro progredisca con una lentezza esasperante, alla pubblicazione e al commento delle lettere scritte allo stesso Panizzi dal marchese Gaetano Melzi (1786-1851); lettere che forniscono notizie importanti riguardanti la bibliofilia e il collezionismo librario dell’epoca.(3) A tale scopo la disposizione cronologica della raccolta londinese è di indiscutibile beneficio, poiché colloca fisicamente, prima e dopo ciascuna lettera di Melzi, le missive di altri corrispondenti ricevute nello stesso periodo, talvolta contenenti riferimenti agli stessi fatti o persone. Tale possibilità di leggere i documenti in una sorta di contesto aiuta a superare l’ostacolo rappresentato dall’assenza dell’altra metà del carteggio, vale a dire le lettere scritte da Panizzi a Melzi.

Il secondo mio esempio viene dal ginevrino fattosi mercante della cultura a Firenze, Gian Pietro Vieusseux (1779-1863), i cui voluminosi carteggi oggi risultano frazionati fra tre sedi diverse del capoluogo toscano.(4) In questo caso il lavoro è consistito nell’edizione critica, fatta a quattro mani con Laura Desideri, della corrispondenza fra Vieusseux e Vincenzo Joppi (1824-1900), erudito friulano e più tardi direttore della Biblioteca Comunale di Udine, che oggi porta il suo nome. Caso eccezionale nello studio dei carteggi Vieusseux, gli originali delle sue missive sono stati recuperati presso la biblioteca udinese e confrontati con la versione dei Copialettere che oggi, insieme alle lettere inviate da Joppi a Firenze, si conservano presso la biblioteca della Deputazione di Storia Patria per la Toscana.(5) Nuovamente il carattere unitario delle due raccolte, sia a Firenze che ad Udine, ha facilitato la ricostruzione e l’interpretazione della vicenda.

È scontato perciò sottolineare quanto l’omogeneità storica e culturale di una raccolta con un centro giovi all’approfondimento biografico e critico della figura perno del carteggio, anche nell’eventualità, come si è visto con l’esempio di Panizzi, in cui vi siano pochi scritti di suo pugno. Il pericolo è semmai che la necessità di informarsi si trasformi in passione e poi in ricerca a tutto campo, per cui avremo prima o poi uno studio critico oppure una serie di articoli, tutti preziosi ed interessanti, ma niente catalogo. Quanti bibliotecari seduti oggi qui in platea - mi chiedo - conoscono la prima fondamentale legge della catalogazione, quella che non si trova mai scritta nei manuali di biblioteconomia, vale a dire finire il catalogo?

L’altra categoria di raccolta, che sarà poi l’oggetto principale di questa riflessione, è quella senza un centro, nel senso di un insieme di documenti privi di un vincolo omogeneo interno. Qualche volta una mancanza di unità si verifica quando una o più collezioni sono state mescolate in modo tale da sconvolgere l’essenza originaria, ma gli esempi sono generalmente contenuti e di scarsa portata. Molto più spesso l’assenza di un centro è dovuta invece al collezionismo. La mania di formare una raccolta di autografi si diffuse un po’ ovunque in Europa nel corso dell’Ottocento, come testimonia la pubblicazione nel 1900 e nel 1901 dei manuali Hoepli di Emilio Budan e Carlo Vanbianchi, volumi con una alta tiratura che presuppongono l’esistenza di un mercato nutrito di collezionisti disposti ad acquisirli per lo scaffale di lavoro.(6) Tale collezionismo attirava una nuova classe borghese, che non aveva i mezzi né, forse, la cultura per dare vita a raccolte di manoscritti o di stampati antichi, ma che nondimeno

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desiderava possedere oggetti preziosi ed unici. In Italia l’impulso collezionistico era fomentato anche dalla storiografia risorgimentale in corso che esaltava i grandi del

passato, fra i quali si annoveravano numerosi letterati che erano anche funzionari o uomini politici – Ariosto, Boiardo, Castiglione, Guicciardini, Machiavelli – le firme dei quali erano ben documentate e talvolta disponibili in abbondanza. Il lato positivo dell’interesse per la storia patria portò alla fondazione di numerose deputazioni e testate di rivista; il lato negativo è rappresentato dal saccheggio compiuto negli archivi e nelle biblioteche da Guglielmo Libri ed altri collezionisti poco scrupolosi, talvolta con la complicità dei dipendenti.(7) La passione degli autografi non si limitava al collezionismo privato: un esempio istituzionale di valore indiscusso è rappresentato dall’Archivio della letteratura italiana istituito a partire dal 1887 presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dall’allora direttore, Desiderio Chilovi.(8) Oggi purtroppo, forse come reazione contro questo tipo di raccolta, tal nome, insieme al concetto stesso di autografoteca, è caduto in disuso; la risorsa bibliografica, però, è rimasta e rappresenta uno fra i grandi tesori della biblioteca.

Un altro esempio insigne di collezione, e insieme oggetto non dichiarato del nostro incontro, è offerto dall’«Autografoteca Bastogi», raccolta immensa di lettere costituita – spesso con l’acquisto di nuclei più piccoli – nel periodo che vide anche la pubblicazione dei succitati manuali Hoepli. Proprio nel 1919 venne infatti offerta dalla vedova di Gioacchino Bastogi al Comune di Livorno, che la prese in consegna quattro anni più tardi.

All’interno dell’Autografoteca la sequenza dei documenti è alfabetico in ordine di mittente e poi – nel caso che ce ne sia più di uno – di ricevente. Le lettere sono raggruppate in nuclei – sempre secondo il criterio dello stesso scrivente allo stesso destinatario – all’interno di una camicia fatto con un grande foglio di carta Magnani piegata in due. Sull’esterno della camicia una mano primonovecentesca ha riportato gli estremi biografici, qualora siano noti, delle persone coinvolte nel carteggio, soprattutto del mittente.

Da un punto di vista la raccolta è atipica, per il fatto che spesso contiene nuclei considerevoli di lettere scritte dalla stessa persona, invece di limitarsi ad un unico esempio per firma che rappresentava piuttosto la norma in questo tipo di collezionismo. Per quanto riguarda il catalogatore, perciò, ciascuno di questi insiemi più numerosi rappresenta una collezione autonoma con un centro.(9)

In un lavoro di catalogazione che avanza attraverso la grande autografoteca livornese per ordine alfabetico, cambiare autore solitamente vuol dire cambiare ambiente, luogo, conoscenze e spesso secolo: così ogni volta viene meno la rete di collegamenti interni dei testi che in una collezione con un centro rappresenta il perno culturale e storico dell’operazione catalografica. In parole povere, chi lavora in questo tipo di raccolta ha a disposizione soltanto le proprie risorse, con l’obbligo di considerare ciascun documento un problema distinto, in cui l’intervento catalografico ogni volta ricomincia da zero. Il metodo che è nato, diametralmente opposto a quello che si sarebbe seguito nel caso di una raccolta altrettanto grande con un centro, prende in considerazione esclusivamente il documento stesso con l’ausilio di pochi essenziali strumenti di base.

A questo punto del discorso è materia d’obbligo aprire una parentesi – destinata non tanto al catalogatore quanto al committente della catalogazione – sul rapporto fra il livello di catalogazione e il costo dell’operazione: riflessione indispensabile nel caso in cui il rapporto lavorativo con la biblioteca sia di tipo monetario e preveda un numero fisso di pezzi in un determinato tempo. Ogni decisione relativa va presa con cognizione di causa, poiché, nella catalogazione come in ogni altra operazione di ricerca culturale, esiste una legge inesorabile di ritorni che diminuiscono mentre i costi aumentano in maniera esponenziale.(10)

Partendo dal presupposto che nello studio di un documento epistolare il livello massimo di descrizione, che definiremo ottimale, sia rappresentato da una trascrizione completa del testo secondo i criteri ecdotici vigenti, unita ad un corredo di commento e di interpretazione, valutiamo quattro approcci diversi, applicati ad un nucleo di dieci lettere scritte dalla stessa persona con una calligrafia leggibile. I tempi ipotetici che assegniamo per lo svolgimento della catalogazione includono anche quelli necessari per una accurata revisione in un momento successivo.

1) Catalogazione minima, ossia poco più di un inventario sommario, senza regesto e senza una lettura approfondita dei

testi, con lo scopo di riportarne il mittente, il destinatario, il luogo e la data di spedizione, e infine la consistenza fisica. Richiede non più di un’ora di lavoro e a mio avviso, secondo il tipo di carteggio, in termini del risultato ottenuto corrisponde a qualcosa fra 25% e 50% del lavoro ottimale. Nell’eventualità però che l’identità dello scrivente e del ricevente sia nota e gli estremi cronologici di ciascuna missiva siano chiaramente indicati nel documento stesso, una indicazione scarna ha buone probabilità di fornire quasi tutte informazioni utili per il ricercatore storico, il quale si adopererà per conto proprio se ha necessità di entrare in possesso del relativo testo.

2) Catalogazione essenziale, in cui i dati sono riportati senza riferimento a fonti esterne, con l’aggiunta di una lettura

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veloce dei testi espressa con un riassunto conciso dei contenuti, per la quale si impiegano un paio di ore, in cui si ottiene un risultato pari a qualcosa fra 50% e 65% del lavoro ottimale.

3) Catalogazione analitica, corrispondente ad una lettura attenta del testo e alla redazione di un regesto più esteso.

Include brevi verifiche per risolvere difficoltà di identità oppure di data attraverso alcuni repertori di base. Per svolgerla è necessario un minimo di quattro ore e l’esito corrisponde a qualcosa fra 65% e 75% del lavoro ottimale.

4) Catalogazione approfondita, in cui viene richiesta, oltre al regesto dettagliato e allo studio dei riferimenti interni, la

risoluzione – per quanto possibile – di tutte le incognite riguardanti il mittente, il destinatario, la data e il contesto storico-culturale, anche a costo di svolgere ricerche più ampie. Per produrre le dieci schede previste ci vogliono almeno otto ore e il risultato è l’equivalente di circa il 75% e 80% del lavoro ottimale.

Se qualcuno volesse conoscere, invece, i tempi e i costi di ciò che ho denominato ottimale, la risposta di chiunque abbia

curato la pubblicazione di un carteggio inevitabilmente sarà che essi non sono calcolabili né documentabili. Per riprendere una pregante metafora di Platone, la catalogazione non lavora tanto con la sostanza dei testi quanto con la

proiezione delle loro ombre sulle mura di una caverna, cercando di identificarli e di renderli riconoscibili per altri. Esiste pertanto un profondo divario metodologico fra la ‘descrizione’ catalografica di un documento epistolare, che ha lo scopo di dire all’utente che tale pezzo esiste e che gli può interessare, e la parallela ‘descrizione’ filologico-ecdotica, che nella sua forma più completa produce un duplicato dell’originale – in termini reali un documento autonomo – corredato di commento interpretativo.

In questa ottica il concetto che qui abbiamo definito come ottimale non solo si distingue sul piano del metodo per la sua intrinseca diversità, ma rappresenta anche una expansio ad absurdum che in fin dei conti lo rende incompatibile con l’atto stesso di catalogare. Credo che, nel caso della raccolta epistolare, ciò che spesso ci trae in inganno sia la brevità fisica dei testi, per cui qualche volta la trascrizione degli stessi sembra accettabile come parte integrale della descrizione. Che senso avrebbe però se la voce dedicata ad un incunabolo ne riportasse tutto il contenuto verbale? Anche nella catalogazione di un insieme di lettere quindi lo scopo del lavoro non è quello di insistere in modo superfluo sui problemi posti da ciascuna descrizione; è piuttosto quello di costruire un insieme informativo le cui voci creano forme di accesso per altre persone, a cui spetta poi il compito di approfondirle per proprio conto.

Valutata la graduatoria esposta qui sopra, la conclusione più immediata è che, dal punto di vista di un utente della collezione, una catalogazione anche molto scarna ha buone probabilità di fornire risposte importanti, mentre qualsiasi innalzamento del livello rischia di non essere redditizio in termini di fatica, tempi, costi.(11) Il consiglio che vorrei dare ad ogni biblioteca che ha in programma il progetto di far catalogare i propri carteggi è pertanto di cominciare sempre con una ricognizione precisa della raccolta dal punto di vista quantitativo e numerico, anche con lo scopo di redigere un catalogo preliminare in forma breve. La mappatura che ne esce servirà come base materiale per tutte le operazioni successive. L’errore clamoroso e dannoso – mi duole confessarlo – che è stato fatto nel nostro lavoro sulla lettera ‘C’ dell’Autografoteca Bastogi fu precisamente quello di non iniziare con la conta dei documenti. Lo sbaglio è stato pagato caro, nel senso che eravamo partiti con una stima di 4500 pezzi; quando, troppo tardi, li abbiamo ripassati uno per uno, ammontavano invece a 6957, per cui tutte le nostre previsioni riguardanti il completamento del lavoro sono saltate. In base a tale esperienza della lettera ‘C’ affiora il sospetto legittimo che la cifra riportata in un vecchio inventario per il totale complessivo dei documenti all’interno dell’Autografoteca, ossia 54.656 pezzi, sia altrettanto approssimativa per difetto.(12)

La nostra scelta operativa, fatta senz’altro in modo meno consapevole rispetto a quanto è stato esposto qui, è stata per un livello di catalogazione corrispondente a quella analitica. Seppure dispendiosa in termini di lavoro, la decisione è stata motivata da due ragioni: prima, la necessità di produrre un catalogo conforme al volume già pubblicato della ‘A’ e al lavoro in corso della ‘B’ intrapreso da Cristina Luschi; seconda, il carattere essenzialmente didattico del progetto in cui erano state inserite le due stagiste, per cui, oltre ai problemi intrinseci alla costruzione di qualunque catalogo, desideravamo che ottenessero una esperienza di procedure analitiche approfondite svolte sul manufatto fisico. Ad escludere l’impiego di un livello ancora superiore, oltre alla fatica che ciò avrebbe comportato in una raccolta senza centro, ha pesato l’assenza di strumenti bibliografici adeguati presso la sede dei Bottini dell’Olio, dove le filze dell’Autografoteca erano state traslocate durante la ristrutturazione di Villa Fabbricotti, per cui sarebbe stato necessario spostarsi nelle biblioteche di Pisa e Firenze per svolgere ricerche di qualsiasi entità.

Una volta che avevamo impostato l’approccio al lavoro è stato adoperato un modus operandi che inter nos è stato denominato ‘culo sulla sedia’, nel senso che il catalogatore: 1) utilizzava esclusivamente quegli strumenti di rapida consultazione che aveva a portata di mano;(13) 2) non abbandonava la postazione di lavoro per svolgere ricerche altrove in biblioteca; 3) procedeva senza fermarsi sui singoli problemi, mentre i dubbi e le difficoltà incontrati sono stati annotati in un apposito quaderno. Come in tutte le operazioni di gestione sapienziale, la soluzione a un problema spesso veniva fornita per serendipità da un documento parallelo oppure da tutt’altra cosa, per cui bisognava dare al caso la possibilità di operare.(14)

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Il cuore del metodo è consistito tuttavia nell’insegnare al catalogatore come individuare – un termine più preciso sarebbe forse ‘beccare’ – il dettaglio significativo che apriva la via ad una soluzione. È un luogo comune della letteratura gialla che, nel momento in cui l’investigatore spiega come è arrivato a comprendere la verità nascosta dietro il crimine, la soluzione sembra cosa banale; se, al contrario, avesse taciuto, tutta l’operazione sarebbe parsa quasi miracolosa.

Ora ho intenzione di compiere lo stesso identico errore, fornendo la griglia interpretativa servita quale base alla catalogazione e sottoponendovi poi un esempio che vi consentirà di seguire il nostro modo di ragionare quando viene messo alla prova.

In ogni indagine scientifica è inutile chiedersi qual è la risposta quando non si conosce la domanda. Tale affermazione non vuole suonare inutilmente paradossale, poiché ho visto numerosi progetti, anche molto ambiziosi, fallire proprio per non aver saputo porsi qualche quesito fondamentale in preparazione del terreno.

Il primo quesito riguarda la natura della catalogazione stessa. Rispetto ai sistemi di classificazione archivistica oppure alla descrizione dei manoscritti, catalogare una lettera ha più elementi in comune con la prassi convenzionalmente applicata agli stampati. Una lettera è sempre prodotta da un autore, generalmente una persona, ma talvolta qualcuno che scrive in nome di una ditta oppure di un ente. Lo scrivente si identifica attraverso la propria firma, mentre la spedizione equivale all’atto di pubblicazione. Bisogna ricordare però che, pur nel caso che una lettera sia presente in una raccolta di autografi, è perché in passato è stata conservata dal destinatario e pertanto la figura chiave risulta in verità essere quella della persona che ha ricevuto il documento, vale a dire l’identità originaria della collezione con un centro da cui tale pezzo è stato estrapolato.

All’interno dell’Autografoteca Bastogi, per quanto riguarda la struttura alfabetica delle voci, l’ordinamento conferito già all’epoca per nostra grande fortuna ha necessitato di correzione o modifica soltanto in pochi casi, mentre le notizie biografiche scritte sull’esterno delle camicie che contengono i singoli gruppi di lettere spesso si sono rivelate assai preziose.

La stesura di un regesto per ciascun documento rappresenta, invece, un problema più complesso, per il fatto che una lettera non è autoreferenziale come un testo letterario e non sempre contiene le notizie necessarie per decifrarne il senso. In una collezione con un centro il catalogatore rapidamente acquista una certa familiarità con persone, luoghi ed eventi, familiarità che gli permette di entrare nel vivo del carteggio ed interpretare la maggior parte dei riferimenti; in quella senza, dove tutti i giorni uno si trova a fare i conti con nomi e fatti mai sentiti prima, bisogna mettere a frutto la propria ignoranza e saper compilare il regesto di modo che lo specialista riconosca l’elemento che gli interessa. È necessario pertanto scriverlo pensando già alla futura indicizzazione, cosicché si rendono espliciti i riferimenti obliqui, nel caso siano importanti: ad esempio, un accenno significativo ai Promessi sposi senza il nome dell’autore compare in regesto come un riferimento ad Alessandro Manzoni. Sarebbe assurdo tuttavia pretendere che il regesto venisse sostituito all’edizione critica e al commento del documento redatto da uno specialista: segnalare che una lettera parla di Alessandro Manzoni come romanziere è utile; perdere tempo nel tentativo di scoprire quale fra le infinite edizioni dei Promessi sposi viene citata è inutile.

Occorre tenere a mente la differenza fra una raccolta con un centro e quella senza un centro anche nella valutazione della ‘qualità’ – il termine è arcaico ma esprime bene il concetto – dei corrispondenti raccolti in un insieme epistolare. Nella collezione che ruota intorno ad una persona, una famiglia oppure un ente e quindi ha carattere essenzialmente archivistico, una parte delle lettere è sempre redatta da scriventi – parenti, amici d’infanzia, compagni di studio – ‘sconosciuti’ al di fuori di quell’ambito. Almeno in teoria, ma il criterio va applicato con cautela, poiché l’esperienza insegna che una collezione di lettere raramente viene giudicata degna di conservazione senza che la figura principale abbia raggiunto un certo grado di notorietà.(15) A sua volta il semplice fatto di essere ‘famoso’ porta alla frequentazione e al rapporto con altre persone ‘famose’, con conseguente valorizzazione della raccolta, per cui un determinato carteggio spesso vanta numerose firme illustri. D’altronde, nell’Italia ottocentesca, in cui due-terzi della popolazione non sapevano leggere né scrivere, il semplice fatto di avere un proprio carteggio e di essere in grado di pagarsi le spese postali collocava la persona nella parte alta della piramide sociale. Guardando quindi i carteggi con un centro finora menzionati, nel caso di Panizzi l’amicizia con esuli italiani come Foscolo, la frequentazione dei salotti della società londinese dell’epoca, e i rapporti con gli studiosi che frequentavano la biblioteca del British Museum, fanno sì che molte firme appartengano a persone note. In quello di Vieusseux l’attività epistolare rappresentava l’estensione virtuale del Gabinetto Scientifico Letterario, inclusi gli scambi con gli storici ed eruditi che contribuivano all’«Archivio Storico Italiano», mentre in quello più piccolo di Joppi, limitato ad una erudizione di provincia, gli scriventi sono conosciuti piuttosto a livello locale. È evidente poi dal contenuto della raccolta posseduta dalla biblioteca di Udine che un criterio collezionistico in ogni caso ha influito sulla scelta delle lettere che si sono conservate, soprattutto perché sono pressoché sparite quelle vergate dai familiari.

Nella situazione opposta, quella rappresentata dall’autografoteca, dove manca una personalità verso la quale i documenti si gravitano, la presenza di una firma è già indizio di un qualche grado di notorietà raggiunto dallo scrivente, generalmente sufficiente per trovarne gli estremi nei dizionari biografici più comuni. L’altra ragione, molto meno comune, per cui una lettera anche di uno scrivente ignoto venga inclusa in una raccolta del genere sta nella qualità eccezionale dell’evento

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descritto, per cui viene collezionata in base alla testimonianza che reca. Entrambi questi meccanismi fortunatamente aiutano a compensare l’assenza di un filo conduttore. Nel nostro lavoro è stato il dizionario biografico Hoepli del Garollo (1907), anche per la forte sintonia con questa forma di collezionismo, a definire la ‘soglia’ di notorietà delle persone presenti nell’autografoteca, di cui la maggioranza risulta inclusa fra le sue pagine.(16) Si tratta di uno strumento non solo estremamente agile, ma anche privo dell’ingombro inutile dei personaggi novecenteschi – epoca in cui, per dirla con Andy Warhol, tutti sono stati famosi per quindici minuti – che per ovvie ragioni di cronologia non si incontrano all’interno dell’Autografoteca Bastogi. Il lavoro sulla lettera ‘C’ naturalmente si è avvalso anche dell’immensa risorsa rappresentata dal Dizionario biografico degli italiani, mentre, per quanto riguarda la presenza di firme illustri di altri paesi, soprattutto la Francia, la soglia di notorietà si è rivelata mediamente più alta, per cui in buona parte gli scriventi si trovano pure nell’ottimo Garollo che d’altronde ha un occhio di riguardo per la cultura d’oltrealpe.

Ho lasciato per ultime le questioni riguardanti la datazione di elementi in cui l’indicazione cronologica è incompleta o mancante, perché talvolta si tratta dell’aspetto più difficile di una catalogazione svolta su un carteggio, e per il quale si richiedono competenze particolari da parte di chi cataloga. Una lettera può recare forme differenti di data, cioè:

1) indicazione dell’anno, mese e giorno; 2) indicazione del mese e del giorno; 3) indicazione del giorno e del giorno della settimana (ad esempio, venerdì 17); 4) indicazione del giorno della settimana; 5) nessuna indicazione. Ad una stima approssimativa circa il 10% delle lettere incontrate nel lavoro sulla voce ‘C’ dell’Autografoteca Bastogi

sono prive dell’indicazione dell’anno, anche se spesso recano datazioni parziali. Una parte notevole del lavoro è stata quindi dedicata a questo aspetto, impiegando metodi adatti sia alla raccolta con un centro, nel caso dei nuclei più consistenti, sia a quella senza, nel caso di gruppi poco omogenei o di scarsa consistenza numerica. L’organizzazione interna dell’Autografoteca naturalmente ha facilitato il confronto fra lettere scritte dallo stesso mittente allo stesso destinatario, per cui ogni tentativo di datazione è partita dal confronto fatto all’interno del nucleo.

Per i documenti prodotti in serie o comunque collegati fra loro gli elementi presi in disamina sono stati i seguenti: a) Testo. Riferimento allo stesso fatto in più lettere, di cui almeno una datata. Bisogna comunque ricordarsi che,

soprattutto nelle corrispondenze fra persone che si conoscono bene, i discorsi diventano ellittici, contenenti allusioni ad esperienze comuni che non conosciamo e a documenti che non possediamo (la lacuna più cospicua da quest’ultimo punto di vista quasi sempre è rappresentata dall’altra metà del carteggio). È importante quindi non farsi distrarre dalle ambages pulcherrime del discorso ed insistere piuttosto sugli indizi che offrono una qualche forma di datazione.

b) Supporto. L’utilizzo dello stesso nucleo di carta, reso riconoscibile dall’uniformità della filigrana oppure

dell’intestazione a stampa, invoca un principio di uso e consumo applicato spesso nello studio di libri prodotti in tipografia.(17) Nel caso di un carteggio, però, il criterio che una scorta di carta verrà esaurita prima che si incominci un’altra va applicato con cautela: ad esempio, lo scrivente potrebbe avere più di un tipo di carta nel cassetto della scrivania oppure vergare lettere da luoghi diversi, come casa ed ufficio. È indispensabile pertanto, qualora il carteggio lo consenta, svolgere analisi in parallelo sui pezzi datati. I lavori presentati altrove in questo volume, sulle tipologie di lettere e di carta intestata nelle corrispondenze di Luigi Casorati e di Gian Pietro Vieusseux, mostrano tuttavia che un confronto sistematico fornisce indicazioni affidabili.(18)

c) Intimità crescente. Oltre al passaggio ovvio dal Voi/Lei al tu, lo sviluppo di forme più intime nelle formule di saluto e

di congedo, soprattutto nel caso di una serie estesa di lettere, talvolta determina uno spartiacque all’interno di una corrispondenza. D’altronde un grado superiore di intimità fra due persone spesso porta ad un calo nella qualità delle indicazioni cronologiche per il fatto ovvio che, qualora i rapporti siano soltanto formali, i corrispondenti datano gli scritti in maniera precisa; quando, invece, si conoscono meglio e comunicano spesso, le indicazioni diventano progressivamente più sommarie e talvolta spariscono del tutto. È stato un motivo di sollievo infatti constatare come chi raccolse i documenti dell’Autografoteca Bastogi non avesse alcun interesse per i carteggi fra amanti, che solitamente sono non solo fitti, ma anche difficili da interpretare e datare.

Tutt’altro metodo è stato adoperato per le lettere isolate, ossia quei casi in cui la collezione non abbia offerto altri

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esempi di pugno dello stesso mittente o dove il confronto non si è rivelato utile. Di fronte ad un documento imperfettamente datato o privo di data abbiamo preso in considerazione i seguenti elementi:

1) Contenuto della lettera

a) Oltre agli estremi biografici del mittente e del destinatario, meno forse i primi vent’anni nella vita di ciascuno, alcuni riferimenti familiari – ai genitori ancora viventi, ad una moglie o ad un marito, oppure ai figli – qualora abbiamo a disposizione informazioni biografiche dettagliate, costituiscono talvolta una data ante (o post) quem non. Analogamente l’uso di un titolo come dottore, anche nell’indirizzo di una lettera, mostra che la laurea è stata conseguita.

b) Riferimenti storici a persone, libri o eventi talvolta offrono una spia. Ad esempio, un accenno al generale Bonaparte è probabilmente successivo alla campagna in Italia nel 1796, mentre il nome Napoleone si diffuse soprattutto in seguito alla incoronazione come imperatore nel 1804. Una menzione dei Promessi sposi non può essere anteriore al 1827. Un viaggio in ferrovia in Italia è possibile a partire dal 1839 con l’apertura della linea Napoli-Portici: conoscendo però le date di apertura dei vari tratti, sappiamo a partire da quale anno è possibile compiere un determinato percorso con la strada ferrata.(19)

c) Indicazioni parziali di data spesso contengono elementi che ci consentono di far coincidere il giorno della settimana (oppure di una festa mobile) con il giorno del mese. In tale situazione un calendario cronologico ci permette di restringere la rosa degli anni possibili. Porto come esempio una lettera del già citato Antonio Panizzi, di cui ho pubblicato il testo inglese in un articolo di alcuni anni fa. La missiva reca l’indicazione di data «Sat. May 11th». Nel testo, l’esule italiano, giunto in Inghilterra nel 1823, accenna ad una recensione che l’anonimo ricevente (identificato però con il critico anglo-irlandese Thomas Keightley) stava preparando alla edizione in nove volumi dei poemi cavallereschi del Boiardo e dell’Ariosto, a cura dello stesso Panizzi, di cui il primo apparve nel 1830 e l’ultimo nel 1834. La cronologia perpetua rivela che l’unico anno in tal periodo in cui l’11 maggio cadeva di sabato è il 1833.(20)

Tale uso del calendario cronologico tuttavia va applicato con riserva, poiché non sono rari gli esempi di uno scrivente che sbaglia il giorno della settimana o del mese, soprattutto nella redazione di una lettera lunga la cui scrittura avviene nel corso di più giornate. Nel caso in cui si possieda un nucleo consistente di lettere scritto dalla stessa persona conviene perciò verificare sistematicamente la correttezza del rapporto fra le date e i giorni della settimana, qualora siano indicati entrambi gli elementi, per giudicarne la relativa affidabilità. Ogni proposta di datazione fatta in base al calendario cronologico deve sempre essere consona con altri indizi all’interno della missiva.

Un principio analogo talvolta si può applicare ai riferimenti cronologici del testo: ad esempio, se una lettera parla di affari o di politica ed è datata con giorno e mese, nel caso che i candidati non siano troppi, vale la pena di scoprire in quali anni cade la domenica in tale data, poiché nel giorno santo alcune attività difficilmente si svolgono.

2) Scrittura, penna ed inchiostro. Soltanto nell’eventualità di scriventi di cui non conosciamo gli estremi biografici una

valutazione della scrittura risulta utile ai fini di una datazione. Dal tardo Quattrocento, che rappresenta la fine dell’epoca ‘paleografica’, almeno secondo una certa manualistica, fino all’inizio dell’Ottocento gli strumenti fondamentali, la penna d’oca e l’inchiostro vegetale, non subiscono modifiche significative, per cui ogni tentativo di datazione fondato esclusivamente sulla scrittura rimane fortemente ipotetico. Molte difficoltà nascono poi dalla circostanza che una mano si forma in giovane età e rimane costante. Non è stato inusuale per noi trovare lettere scritte nello stesso anno da persone differenti, in cui, essendo uno dei corrispondenti uomo vecchio e l’altro giovane, le caratteristiche risultavano marcatamente diverse. In periodi di malattia e anche in vecchiaia una scrittura degenera ed esistono anche casi in cui uno scrittore consapevolmente modifica qualche caratteristica della propria grafia (un esempio famoso della letteratura inglese è la ‘e’ italica che il poeta Milton introduce dopo il viaggio sul continente nel 1638-39 compiuto all’età di trent’anni); l’analisi di tali variazioni necessita però di un intervento da parte di uno specialista, richiede molto tempo, e raramente fornisce risultati certi.

L’Ottocento è, invece, secolo di profonda trasformazione, sia per quanto riguarda le modalità con cui si conduce una corrispondenza, sia per gli strumenti necessari alla scrittura, per cui esistono buone possibilità di raggiungere una datazione assai precisa. Oltre alla diversità dei tipi di carta, uno spartiacque è rappresentato dall’introduzione di penne con punta d’acciaio. La storia della scoperta artigianale di tale penna è controversa, con esempi precoci già nel secolo precedente. Non esiste dubbio, invece, che il primo ad applicare una procedura industriale capace di fabbricare milioni di esempi in breve tempo è stato l’inglese James Perry di Birmingham, a partire dal 1830. Nel giro di pochi anni, insieme ai nuovi tipi di inchiostro, le penne in acciaio si diffusero in tutta l’Europa e trasformavano l’arte epistolare.(21) L’effetto dell’inchiostro acido tradizionale sul metallo delle nuove penne, oltre alle difficoltà di conservazione degli inchiostri alternativi a base di nero-fumo che avevano tendenza a coagularsi, portò rapidamente alla scoperta di nuove formule. Da questo punto di vista una innovazione significativa è stata l’introduzione di coloranti anilinici ad opera del chimico inglese William Henry Perkin nel 1856, per cui un inchiostro colorato porpora o verde in una lettera probabilmente appartiene alla seconda metà del secolo. Distinguere il tratto lasciato da una penna d’oca, soprattutto qualora l’inchiostro non sia di tipo vegetale, da quella con punta d’acciaio non è semplice, ma generalmente la

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seconda ha un tratto più fine e la scrittura è più agile. Bisogna tuttavia insistere sul fatto che nel periodo di transizione le persone più vecchie non rinunciano agli strumenti che sono loro familiari: nella già menzionata corrispondenza fra Vincenzo Joppi e Gian Pietro Vieusseux, nel 1855, il primo, che ha trent’anni d’età, sicuramente impiega una penna d’acciaio, mentre il secondo, che ne ha quasi ottanta, continua ad adoperare quella d’oca.

3) Carta. Datare un foglio di carta, anche solamente al secolo, è questione complessa, che richiede sia una lunga

esperienza in materia, sia un’ottima conoscenza dei metodi di fabbricazione e dei relativi repertori. Il prodotto carta si divide fra tre categorie fondamentali, in base al tipo di rete e al processo di fabbricazione, vale a dire vergata, velina e meccanica. La vergata è la carta tradizionale fatta al tino dalla fine del Medioevo fino all’inizio dell’Ottocento e oltre, nel caso di piccole scorte di carta pregiata, in cui si vedono in controluce le vergelle che filtrano le fibre e le cuciture dei filoni, dette catenelle, che tengono le vergelle saldamente ancorate al rettangolo di legno detto forma o modulo.

Qualunque tentativo di attribuire un luogo e una data ad un foglio di carta comincia con la filigrana, cioè il segno fabbricato in fil di rame cucita alla forma ed utilizzata dagli stessi produttori come prova di origine oppure come marchio di qualità. Esistono alcuni fondamentali repertori di filigrane che forniscono informazioni riguardanti i segni ritrovati nei fogli di carta conservati negli archivi e nei libri a stampa delle biblioteche. Sono però di utilità limitata nello studio dei carteggi, sia per la natura approssimativa dell’indicazione cronologica, sia per il fatto che si concentrano sulle carte medievali e rinascimentali – il più noto, Briquet, si ferma al 1600 - , mentre la maggior parte delle raccolte di lettere, soprattutto nell’esempio dell’Autografoteca Bastogi, appartiene ad epoche successive.(22) A partire dal Settecento si diffonde l’uso di includere una data all’interno della filigrana, particolarmente nelle carte fini destinate alla scrittura di lettere.(23) Ogni indicazione del genere è preziosa quando si tratta di stabilire una data ante quem non; altrimenti va interpretata con cautela, poiché la filigrana spesso rimaneva cucita al modulo senza aggiornamento in anni successivi e una scorta di carta talvolta rimaneva in magazzino per lungo tempo prima che fosse inviata ai negozi. Nella mia esperienza, che rimane molto limitata, nella prima metà dell’Ottocento l’intervallo medio fra la data in una filigrana e l’impiego di quella carta da parte di uno scrivente rientra nell’ordine di due anni; ancora una volta sarebbe opportuno che la catalogazione di raccolte come l’Autografoteca Bastogi fosse in grado di fornire indicazioni statistiche costruite in base all’analisi quantitativa di molti dati.

La carta velina, per la creazione della quale la superficie della forma impiegata al tino viene coperta da una rete metallica finissima, apparve per la prima volta ad opera di James Whatman nel 1757 in Inghilterra,(24) ma si diffuse solo lentamente e sono pochi gli esempi che si riscontrano all’interno della collezione livornese con una data anteriore al 1800. Non è facile poi distinguere una carta velina fabbricata manualmente da quella meccanica fatta con una macchina Fourdrinier, di invenzione francese seppure sviluppata in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, in cui la stessa rete viene utilizzata in una banda continua raccolta su un grande rullo. Nel corso dello stesso secolo, a partire dalla fine del periodo napoleonico, buona parte della carta epistolare impiegata anche in Italia era importata dall’Inghilterra, benché numerosi cartai italiani, soprattutto nell’area di Pescia, falsificassero la carta d’oltremanica perché più pregiata. Il processo meccanico facilitava la produzione di carta leggera di qualità che qualche volta tradisce l’origine industriale con il segno, come per una filigrana, della cucitura che unisce le due estremità della rete e appare come la traccia di una lumacatura che attraversa il foglio.(25) Le prime carte meccaniche sono prive di filigrana, mentre alcune successive hanno la filigrana cucita direttamente alla rete. A partire dal 1839, invece, venne perfezionata una procedura che imprimeva il segno sulla striscia continua di carta tramite un rullo detto il ballerino (in inglese dandy-wheel).

Benché le carte colorate esistessero fin dal Rinascimento, la comparsa di carte veline fabbricate appositamente al tino o con la macchina continua per uso epistolare spesso portò all’introduzione di tinte azzurre o verdi che nuovamente suggeriscono una data nella seconda metà del secolo.

Un’altra tendenza significativa è l’impiego di timbri a secco sui foglietti già confezionati in grandezza lettera. La città termale inglese Bath, luogo di convalescenza dopo malattia, di moda e quindi di intensi scambi epistolari, ricordati anche dalla scrittrice Jane Austen, dette il proprio nome alla varietà più comune (spesso applicata anche in contraffazione a carte fabbricate sul continente). La diffusione di tali timbri in Europa inizia intorno al 1840 circa e dura per una quarantina di anni, seppure manchino notizie precise intorno alla storia di questo tipo di carta e alla sua produzione.

L’ultimo fenomeno degno di nota è l’impiego crescente, nel corso dell’Ottocento, di carta con una intestazione a stampa. Nuovamente mancano indagini su base statistica, ma i primi esempi italiani sono collegati al mondo dell’editoria, con quello particolarmente precoce rappresentato da Gian Pietro Vieusseux.(26) Il loro uso caratterizza in modo particolare gli uffici e i ministeri del nuovo Regno d’Italia, mentre esempi di carta intestata ad uso privato sono piuttosto rari prima del Novecento.

4) Sistema postale. Molte lettere dell’Autografoteca Bastogi sono state piegate di modo che il foglio servisse anche

come busta e pertanto il documento stesso reca i segni del passaggio attraverso il sistema postale dell’epoca. È lapalissiano notare che un timbro postale contiene una data, cosicché, in assenza di indicazioni all’interno della lettera, essa può essere assunta come informazione cronologica.(27) Ciò che spesso risulta frustrante, invece, è che molti timbri sono illeggibili o

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frammentari, anche a causa dell’asportazione del francobollo. Tuttavia, anche quando la data di un timbro risulti assolutamente indecifrabile, il semplice fatto che esso ci sia può fornire informazioni utili: ad esempio, una lettera da Milano o Venezia con la franchigia dell’Impero Austro-ungarico appartiene al periodo della Restaurazione, mentre una obliterazione ferroviaria appartiene spesso ad una epoca più tarda, quando la posta viaggiava sulla strada ferrata.

Il vero divario comunque è rappresentato dall’invenzione del francobollo da parte dell’inglese Rowland Hill nel 1840, introdotto in Italia nei territori imperiali nel 1850, il cui uso nel giro di un decennio si diffuse nel resto del paese. Nei rari casi in cui il pezzo originale sia rimasto sulla lettera è possibile ricorrere a repertori filatelici per scoprire la data di introduzione e il periodo di validità di ogni francobollo emesso in Italia; di solito, però, si scopre che esso è stato asportato da qualche collezionista, lasciando tuttavia una traccia che è opportuno segnalare.

Un esempio di datazione.

Con tutto ciò indovinare la data di una lettera rimane un’operazione empirica, affidata in gran parte all’esperienza e al fiuto del catalogatore. È indispensabile comunque che nel catalogo appaia una indicazione, pur approssimativa, fatta da una persona esperta in materia che ha il documento originale davanti a sè, a condizione che le ragioni della data attribuita siano minuziosamente spiegate in nota.

Il metodo che abbiamo sviluppato all’interno del progetto svolto sulla lettera ‘C’ dell’Autografoteca Bastogi ha dato in ogni caso ottimi risultati, sia sul piano della qualità, sia su quello della quantità. Alla fine del lavoro infatti le due stagiste livornesi, nonostante la disomogeneità del fondo, avevano catalogato il doppio e qualche volta il triplo dei pezzi rispetto ai colleghi in tirocini paralleli. In alcuni esempi poi, in cui una datazione è stata stabilita attraverso l’acquisto di informazioni da una fonte alternativa, le loro proposte cronologiche si sono rivelate molto precise e talvolta azzeccate.

Propongo quindi al pubblico un esempio, non troppo difficile, che ha anche rappresentato una piccola pietra miliare nella storia del nostro lavoro comune. Un giorno, durante una delle visite periodiche presso la Labronica, un pezzo di carta mi è stato messo davanti con la domanda «come si fa a datare questo?». In tre ci siamo seduti e, ragionando ad alta voce, nel giro di cinque minuti avevamo raggiunto la data esatta. Quale fosse quella data e come abbiamo ottenuto la relativa conferma sono cose che si riveleranno in seguito.

Il documento in questione è un breve scritto in francese (fig. 1), privo di firma perché ricopiato da un originale più esteso, recante l’indicazione di Lione e il giorno 13 gennaio di un anno non precisato.(28) Non è facilmente leggibile, poiché l’inchiostro è sbiadito ed il pezzo è stato anche danneggiato da una infiltrazione d’acqua. Questa è la trascrizione:

Lyon le 13 Janvier Notre fameux Pallon rata Samedy au conspect de cent milles Spectateurs. Son enorme machine s’enflà, mais elle ne pût

s’elever; on fit hier une nouvelle experience qui fait esperer que demain on obtiendrà plus de succes. Nos voyageurs aérions parmy les quels se trouve le jeune Prince de Ligne etaient desesperés; ils ont repris courage. Vous connaissez sans doute les Parasoles a l’aide desquels on se jette du haut d’une maison dans la rue sans se faire plus de mal qu’une volant qui est soutenû par ses plumes; on embarque de ces parasols pour qu’au cas de feu, les voyageurs puissent se laisser descendre tout doucement; ce qui vous surprendrà relativament au Prince de Ligne c’est que son Pere serà present; deux français de condition l’accompagnent dans sa course, ainsi que M. Montgolfier, et Pilatre des rozier; ce dernier aurà le comandement.

Il testo si trova su un piccolo pezzo di carta, che misura 241×175 mm, ed è stato tracciato con una penna d’oca ed

inchiostro di origine vegetale. Il foglio, di cui il nostro frammento rappresenta circa un quarto dell’originale, è vergato (con distanza 23 mm fra i filoni) e si vedono i resti di una filigrana (larghezza 38 mm), riconoscibile come la testa e la coda di un leone di San Marco.

A questo punto, caro lettore, anche per mettere fine alla noiosa finzione d’oralità, La invitiamo a scoprire la data del

documento. Gli unici strumenti a cui può fare ricorso sono una cronologia universale e un dizionario biografico, quest’ultimo preferibilmente di tipo compatto e non troppo moderno. Se risolve il problema correttamente in meno di cinque minuti, Lei è più bravo di noi e Le facciamo i nostri complimenti.

Buona fortuna. La soluzione si trova dopo le note

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Note *Una versione di questo testo, con alcuni adattamenti, è stata pubblicata anche in «Biblioteche Oggi», 21/7, settembre

2003, pp. 63-74, e 21/8, ottobre 2003, pp. 69-77.

1) Fra i partecipanti al convegno livornese si trovava Luigi Crocetti, il quale, citando esplicitamente questo intervento orale, cosa di cui lo ringrazio, ha ripreso il concetto di raccolta con e raccolta senza centro in due scritti propri; cfr. Che resterà del Novecento?, «IBC», anno 9, fasc. 3, luglio-settembre 2001, pp. 6-10, e Indicizzare la libertà: l’accresciuto interesse per gli «archivi culturali» spinge a ricercare nuove forme di descrizione, «Biblioteche Oggi», XX, fasc. 1, gennaio-febbraio 2002, pp. 8-11, rist. con il titolo Indicizzare la libertà, in Biblioteche nobiliari e circolazione del libro tra Settecento e Ottocento. Atti del Convegno nazionale di studio, Perugia, Palazzo Sorbello, 29-30 giugno 2001, a cura di Gianfranco Tortorelli, Bologna, Edizioni Pendragon, 2002, pp. 397-407. Nel secondo intervento, analizzando acutamente il fenomeno culturale rappresentato dai sempre più numerosi archivi-biblioteche d’autore, con riferimento particolare agli esempi raccolti presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, Crocetti scrive che «Neil Harris, parlando dell’autografoteca Bastogi …, ha distinto tra archivi con un centro e archivi senza un centro; e a quest’ultima specie apparterrebbe la citata raccolta, ma anche apparterrebbero i moderni archivî, non più raccolti attorno a una figura (pensiamo al più vistoso esempio novecentesco di questo tipo, il Vittoriale), ma dediti all’illustrazione e alla ricostruzione di un tessuto storico e culturale; un esempio tipico è dato dall’Archivio contemporaneo Alessandro Bonsanti del fiorentino Gabinetto Vieusseux: tanti centri, se vogliamo, che di volta in volta si chiamano Cecchi, Pasolini o Ungaretti, ma che contano soprattutto nel loro essere insieme, nei collegamenti, nelle vicinanze, nei contrasti che ci permettono di stabilire» (pp. 401-402 degli atti). Il concetto di base rimane lo stesso e concordo pienamente con le osservazioni di Crocetti, che rappresentano però una trasformazione e un allargamento in termini culturali a tutto campo della mia definizione originaria. In questo contesto, che naturalmente rispecchia l’intervento originale tenuto a Livorno, preferisco insistere sugli aspetti puramente pratici e materiali dell’organizzazione di queste raccolte e sulle conseguenze necessarie per il lavoro di catalogazione.

2) Si veda Catalogue of Additions to the Manuscripts in the British Museum in the Years MDCCCC-MDCCCCV,London, printed by order of the Trustees, 1907, pp. 194-195. L’identificazione dei mittenti delle lettere è affidata all’indice del catalogo, nella mia esperienza molto accurato, che rinvia alle carte relative in ciascun volume del carteggio, senza però precisare date o altro. Per la figura di Antonio Panizzi, si vedano soprattutto le biografie di Louis Fagan, The Life of Sir Anthony Panizzi, K.C.B., Late Principal Librarian of the British Museum, Senator of Italy, &c., &c., 2nd ed., London, Remington, 1880; Constance Brooks, Antonio Panizzi, Scholar and Patriot, Manchester, Manchester University Press, 1931; Edward Miller, Prince of Librarians: The Life and Times of Antonio Panizzi of the British Museum, London, André Deutsch, 1967 (nuova ed. London, British Library, 1988). Subito dopo la scomparsa dell’illustre bibliotecario la raccolta fu utilizzata dal discepolo di Panizzi, Louis Fagan, per pubblicare una selezione delle lettere illustranti l’attività di Panizzi a favore del Risorgimento (Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani 1823-1870, Firenze, Barbèra, 1880) e di altre inviategli dallo scrittore francese Prosper Merimée (Lettres à m. Panizzi 1850-1870, Paris, Calmann Levy, s.d., che furono anche tradotte in italiano da Olindo Guerrini e pubblicate a Bologna da Zanichelli nel 1881). Un eccellente censimento delle lettere panizziane conservate in biblioteche italiane si trova in William Spaggiari, Per l’epistolario di Antonio Panizzi: inventario e regesto delle lettere conservate in Italia, nel volume Studi su Antonio Panizzi, a cura di Maurizio Festanti, pubblicato come numero monografico della rivista «Contributi», III-IV, 1979-1980, pp. 153-513. Ampi riferimenti ai carteggi e alle carte Panizzi si trovano anche nella mia Bibliografia dell’«Orlando Innamorato», Modena, Panini, 1988-91, e nell’articolo «Je réponds à qui me touche»: The Quarrel in 1835 between Antonio Panizzi and Thomas Keightley, «La Bibliofilìa», vol. 99, 1997, pp. 237-269. Fra i pochissimi esempi di lettere scritte da Panizzi che si trovano nella raccolta, vi è un piccolo nucleo indirizzato a Thomas Grenville riguardante la pubblicazione nel 1835 delle poesie liriche del Boiardo, edito parzialmente da Fagan ed ora in forma più completa da Denis Reidy, Panizzi, Grenville and the Grenville library, «British Library journal», vol. 23, n. 2, Autumn 1997, pp. 115-130 (ripubblicato con alcune modifiche, con l’omissione delle illustrazioni e con il titolo Boiardo, Panizzi and ‘Politics’, in Italy in crisis: 1494, edited by Jane Everson and Diego Zancani, Oxford, Legenda, 2000, pp. 175-195). Il contributo di Reidy non spiega come Panizzi sia riuscito a recuperare gli originali delle proprie lettere, ma, conoscendo l’abitudine di Grenville di tenere la corrispondenza riguardante un libro della propria collezione all’interno del volume in questione, sono del parere che il lascito della biblioteca al British Museum nel 1847 abbia consentito all’amico bibliotecario di appropriarsi di quei documenti che lo riguardavano sul piano personale.

3) La figura di Melzi è stata finora poco studiata. Nondimeno egli è ricordato oggi per due strumenti ancora di

uso quotidiano in biblioteca, ossia la Bibliografia dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani in tre edizioni (cito il titolo in base alla terza del 1865, in verità opera del co-autore Paolo Antonio Tosi, mentre la paternità intellettuale di Melzi spetta alle

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precedenti del 1829 e del 1838) e il Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all’Italia, 3 voll., Milano, coi torchi di Luigi di Giacomo Pirola, 1848-1859. La storia della famosa biblioteca, dispersa segretamente nell’intervallo fra le due guerre, rimane in buona parte misteriosa, mentre l’archivio della famiglia, incluse i carteggi di Gaetano Melzi, fu distrutto – secondo fonti non confermate – in un incendio presso la casa di famiglia.

4) Per la vita e le innumerevoli attività di questo straordinario imprenditore culturale ottocentesco, si veda

soprattutto la biografia di Raffaele Ciampini, Gian Pietro Vieusseux. I suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici, Torino, Einaudi, 1953. Alla fine della vita Vieusseux cedette tutte le carte relative alla gestione del periodico l’Archivio Storico Italiano, che aveva fondato nel 1842, alla Deputazione Toscana di Storia Patria, che si assumeva l’onore e l’onere della pubblicazione. Verso la fine del secolo i suoi eredi vendettero i carteggi conservati in forma sparsa alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove confluirono nell’Archivio della Letteratura Italiana fondata da Chilovi. Oggi rimangono presso il Gabinetto Vieusseux i copialettere relativi alla gestione della biblioteca che egli fondò a Firenze nel 1819, per la cui storia si veda Il Vieusseux. Storia di un Gabinetto di lettura (1819-2000): cronologia, saggi, testimonianze, a cura di Laura Desideri, Firenze, Polistampa, 2001. Un quarto fondo importante relativo a Vieusseux e alla sua cerchia, finora non indagato dagli studiosi, è rappresentato dalle carte di Filippo Luigi Polidori presso la Biblioteca Comunale di Fano, per il cui contenuto si veda il catalogo sommario di Albano Sorbelli in Giuseppe Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, vol. 38, 1928, pp. 132-183. Segnaliamo inoltre che l’Autografoteca Bastogi stessa possiede un numero cospicuo di documenti identificati con una provenienza “Vieusseux”, la cui natura e la cui origine devono ancora essere studiate. Tuttavia non sembrano provenire dall’archivio del Gabinetto, poiché sono posteriori alla morte del fondatore e rappresentano forse le rimanenze di un collezionismo oppure di un’attività commerciale svolto da Carlo Vieusseux, direttore dal 1892 al 1921.

5) Si vedano Laura Desideri e Neil Harris, Vincenzo Joppi, Giovan Pietro Vieusseux e l’«Archivio Storico

Italiano»: testimonianze di un carteggio, in Vincenzo Joppi 1824-1900. Convegno di studi nel centenario della morte, a cura di Francesca Tamburlini e Romano Vecchiet, in corso di stampa.

6) Si veda Emilio Budan, L’amatore di autografi, Milano, Hoepli, 1900. Questo grazioso volume, scritto con

intelligenza e brio, è consigliato come lettura indispensabile a chi deve iniziare a catalogare una raccolta di autografi formata con i criteri qui descritti, poiché offre un’ottima introduzione ai desideri e ai criteri dei collezionisti; cfr. p. 1: «I manoscritti di persone che per cospicui natali ovvero per proprio valore hanno diretto le sorti o promosso il benessere materiale e morale dei loro contemporanei, quasi reliquie di uomini il di cui nome colla morte non è cancellato dalla memoria, ma scritto pei posteri nelle pagine della storia, sono sempre atti a destare un interesse speciale, vivissimo, ed il raccoglierli è da annoverarsi fra i più nobili passatempi, fra i godimenti più intellettuali». Budan, o Budau, nobile ungherese di origine (Gradisca 1869-Firenze 1936), svolse anche studi sulla storia delle macchine da scrivere e dei sistemi stenografici, fu autore inoltre di libri di successo sull’allevamento e sulla collezione di canarini e pappagalli (cfr. il necrologio di Ezio Carocci in «Bollettino della Accademia Italiana di Stenografia», 13, 1937, pp. 94-95). Il volume che accompagna il Budan, cioè le Raccolte e raccoglitori di autografi in Italia di Carlo Vanbianchi (1901), è meno interessante oggi, poiché non è altro che un censimento delle collezioni private e pubbliche. Sul fenomeno editoriale rappresentato dai manuali Hoepli, si veda Ulrico Hoepli 1847-1935 editore e libraio, a cura di Enrico Decleva, Milano, Ulrico Hoepli editore, 2001. Informazioni riguardanti raccolte medievali di lettere sono disponibili in Giles Constable, Letters and letter-collections, Turnhout, Brepols, 1976, mentre la storia della firma è indagata in Beatrice Fraenkel, La signature: genèse d’un signe, Paris, Editions Gallimard, 1992. La storia del collezionismo d’oltremanica è delineata in A.N.L. Munby, The cult of the autograph letter in England, London, University of London: Athlone press, 1962. Quanto il collezionismo di autografi diventasse mania un po’ ovunque in Europa nel corso dell’Ottocento è riscontrabile anche attraverso le pagine di un periodico The Autographic Mirror (L’Autographe cosmopolite), pubblicato a Londra dal 1864 al 1866 (ne possiede qualche annata la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), che presenta riproduzioni fotografiche di documenti eseguite con tecnica litografica, accompagnate da una trascrizione e un profilo biografico dell’autore. Dopo i primi numeri esclusivamente in inglese, vennero aggiunti testi paralleli in francese. Numerose indicazioni bibliografiche risultano anche nei due manuali Hoepli qui citati, che hanno un aggiornamento utilissimo nella voce di Federico Patetta, Autografo,nell’Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Enciclopedia Italiana, 1930 (rist. 1949), vol. 5, pp. 546-553. Uno strumento fondamentale che manca a tutt’oggi è una bibliografia dei carteggi pubblicati o recensiti analiticamente.

7) Si vedano Giuseppe Fumagalli, Guglielmo Libri, a cura di Berta Maracchi Biagiarelli, Firenze, Olschki, 1963;

P. Alessandra Maccioni Ruju – Marco Mostert, The life and times of Guglielmo Libri (1802-1869): Scientist, patriot, scholar, journalist, and thief: A Nineteenth-century story, Hilversum, Verloren, 1995. Si veda anche Budan, L’amatore cit., p. 256: «…le raccolte decimate delle biblioteche pubbliche e private potrebbero fornirci schiarimenti su mezzi riprovevoli che innumerevoli volte e con grande audacia sono stati messi in opera per procurarsi, quasi sempre a scopo di lucro, manoscritti di valore. Solo

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l’introduzione e la severa osservanza di rigorose misure di precauzione potè diminuire il numero impressionante di questi furti che alle volte assumevano proporzioni dei veri saccheggi, ben meditati e ancora meglio diretti ed eseguiti».

8) Per la figura di Chilovi, si vedano Alfredo Serrai, ad vocem, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 24,

Roma, 1980, pp. 768-770; Gianna Del Bono, La biblioteca professionale di Desiderio Chilovi. Bibliografia e biblioteconomia nella seconda metà dell’Ottocento, Manziana, Vecchiarelli, 2002. Lo stesso Chilovi descrive il proprio progetto in L’Archivio della Letteratura Italiana e la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Firenze, Bemporad, 1903.

9) Per ulteriori osservazioni relative alla costituzione e all’origine della Autografoteca livornese, si veda il

contributo di chi scrive in questo stesso volume. Va comunque rammentato che, all’interno di un’Autografoteca di tali organizzazione e dimensione, un’operazione apparentemente semplice come la verifica per scoprire se altre vie hanno condotta alla stessa raccolta l’altra metà di una corrispondenza è in verità dispendiosa in termini di tempo e di fatica. Benché non sia stato svolto un controllo a tappeto di ogni voce, finora non è stato riscontrato alcun esempio in cui la raccolta possieda entrambe le metà di un carteggio. Chi poi ha avuto l’occasione di curare l’edizione di un carteggio sa che riconciliare ed interpretare il dialogo fra le due parti, nel caso ci siano entrambe, non è sempre compito facile.

10) La classica dichiarazione in tal senso si trova in D.F. Foxon, Thoughts on the History and Future of

Bibliographical Description, Los Angeles-Berkeley, University of California, 1970, pp. 27-28. Una traduzione italiana è disponibile in Piero Innocenti, Metodi e tecniche nella ricerca bibliografica (Trilogia di Mary Poppins), Manziana, Vecchiarelli, 1999, p. 178, corredata dall’indicazione dei contributi italiani in merito.

11) Cito fra gli esempi recenti che sono giunti alla mia attenzione: Corrispondenti di Corrado Ricci: indice-

inventario della serie «Corrispondenti» nel ‘Carteggio Ricci’ della Biblioteca Classense, a cura di Simonetta Secchiari, Ravenna, Società di Studi Ravennati, 1997; Un uomo di lettere. Marino Parenti e il suo epistolario, a cura di Angelo d’Orsi, Torino, Provincia di Torino, 2001, con l’inventario della corrispondenza a cura di Eloisa d’Orsi alle pp. 349-397; e Il fondo Venturi della Biblioteca Panizzi. Catalogo, a cura di Roberto Marcuccio, Bologna, Pàtron editore, 2001. Nel primo e nel secondo caso le indicazioni sono estremamente succinte, poiché si limitano al nome del corrispondente, all’estensione fisica e agli estremi cronologici del nucleo; nel terzo la quantità di informazioni è aumentata per includere le date delle singole lettere, nonostante lo schema rimanga essenziale.

12) Si veda Cristina Luschi, L’Autografoteca Bastogi nella Biblioteca Labronica di Livorno, vol. 1, Livorno, 1995,

p. VI.

13) Nella gestione scientifica di una risorsa come un’Autografoteca è importante sapere quanti e quali documenti sono stati pubblicati. Per quanto riguarda la situazione livornese, trattandosi di una sede decentrata e di un insieme poco sfruttato, relativamente pochi materiali sono stati resi pubblici, benché ci auguriamo che fra gli esiti di questo convegno vi sia una crescita di interesse per tale collezione. Bisogna tuttavia dire che la gestione del fondo da parte della biblioteca è stata nel passato assai insoddisfacente: non esiste infatti alcun archivio di pubblicazioni relative ai documenti dell’Autografoteca che sono stati pubblicati, né sono stati fatti schedoni oppure un libro delle consultazioni che avessero lo scopo di registrare quali materiali siano stati visionati e da chi. Com’è noto, nella gestione bibliotecaria esistono circoli virtuosi e circoli viziosi. Nella mia veste di studioso di documenti antichi, se mi servo di una risorsa che non sembra attirare interesse da parte della biblioteca, non sono invogliato a comunicare l’utilizzo che ho fatto di tali materiali alla stessa; se, al contrario, mi accorgo che il mio contributo, per quanto modesto, sarà accolto e sfruttato in qualche modo, ho voglia maggiore di darne copia oppure a segnalarne l’esistenza a chi gestisce la collezione. Da questo punto di vista cito come esempio di circolo virtuoso le pubblicazioni della Biblioteca Nazionale di Venezia riguardanti la bibliografia dei loro manoscritti nella rivista interna «Miscellanea Marciana»; gli esempi di circolo vizioso sono troppo numerosi per essere menzionati in questa sede.

14) Nel grande Dizionario della lingua italiana, vol. XVIII, 1996, p. 719, questo «strano termine, introvabile nei

dizionari» viene descritto come «la capacità di un ricercatore di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale» (definizione di Luciano Serra). Il vocabolo italiano deriva da quello inglese serendipity, coniato da Horace Walpole nel 1754, e definito dall’Oxford English Dictionary «The faculty of making happy and unexpected discoveries by accident».

15) Si veda Il carteggio Acciaioli della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, a cura di Ida Giovanna Rao,

Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1996, per un esempio diverso che descrive il fondo epistolare trecentesco di una

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famiglia fiorentina, in cui nessuno dei componenti pare figura di rilievo. 16) Gottardo Garollo, Dizionario biografico universale, Milano, Hoepli, 1907 (rist. 1989) (Manuali Hoepli), 2

voll. Il più recente Indice biografico italiano, a cura di Tommaso Nappo, ha ormai raggiunto la terza edizione cartacea (München, Saur, 2002), ma si rivela per molti versi meno utile del robusto predecessore.

17) Si vedano in particolare Roberto Ridolfi, Le filigrane dei paleotipi: saggio metodologico, Firenze, tipografia

Giuntina, 1957 (Università degli Studi di Firenze, Centro per lo Studio dei Paleotipi, 1), e Allan Stevenson, The problem of the Missale Speciale, London, The Bibliographical Society, 1967. Per lo stampatore il consumo ingente di carta da parte del torchio fa sì che, nel caso sia ricostruita in dettaglio tutta l’attività di una officina in un determinato periodo, l’evidenza proveniente dalle filigrane si riveli molto utile: si veda ad esempio in Neil Harris, Bibliografia dell’«Orlando Innamorato» cit., II, pp. 113-116 e 225-234, la dimostrazione che la princeps del rifacimento del Boiardo da parte di Francesco Berni fu impressa originariamente fra la fine del 1539 e l’inizio del 1540. L’uso della carta da parte di uno scrittore è inevitabilmente più irregolare, per cui la relativa ricostruzione ha bisogno di essere molto completa prima che le informazioni siano affidabili. In uno studio su alcuni appunti manoscritti di Marin Sanudo tuttavia il documento preso in esame è stato datato attraverso un confronto con le scorte di carta impiegata dal cronista di Venezia nei suoi diari: si veda Neil Harris, Marin Sanudo, forerunner of Melzi, «La Bibliofilìa», XCV, 1993, pp. 1-37, 101-145, XCVI, 1994, pp. 15-42, in part. le pp. 103-104, che offrono notizie bibliografiche ulteriori riguardanti tale metodologia.

18) Si vedano i contributi di Michela Ciancianaini – Sabrina Taddei e di Laura Desideri. 19) Particolarmente utile per conoscere lo sviluppo della rete ferroviaria è Italo Briano, Storia delle ferrovie in

Italia, Milano, Cavallotti, 1977. Notizie bibliografiche aggiornate si trovano in Andrea Giuntini, Il paese che si muove. Le ferrovie in Italia fra ’800 e ’900, Milano, Franco Angeli, 2001.

20) Si veda Harris, «Je réponds à qui me touche» cit., pp. 243-245. 21) Mancano studi approfonditi sulla scrittura e sui materiali utilizzati per la scrittura dell’Ottocento, ma si vedano

Donald Jackson, The Story of Writing, London, Parker Pen Co., 1981, pp. 130 sgg. (trad. it. La scrittura nei secoli, Firenze, Nardini, 1988); Albertine Gaur, A history of calligraphy, London, British Library, 1994; Andrew Robinson, The Story of Writing, New York, Thames & Hudson, 1995; Michelle P. Brown, The British Library Guide to Writing and Scripts: History and Techniques, London, The British Library, 1998.

22) Per le filigrane in epoca moderna, si vedano Edward Heawood, Watermarks mainly of the 17th and 18th

Centuries, Hilversum, The Paper Publications Society, 1950, rist. Amsterdam, idem, 1969 e 1981, a cui si aggiunge Watermarks: addenda et corrigenda, Amsterdam, idem, 1970; W.A. Churchill, Watermarks in Paper in Holland, England, France etc. in the XVII and XVIII centuries, Amsterdam, Hertzberger, 1965, rist. Nieuwkoop, De Graaf, 1985 e 1990. Per quanto riguarda la carta anche in epoca più recente, soffriamo per una cronica mancanza di repertori affidabili. Ad esempio, le filigrane prodotte dalla cartiera Magnani di Pescia spesso nominano il membro della famiglia che in tale periodo dirige l’azienda, ma, in assenza di una storia approfondita della casata, non conosciamo le date relative.

23) Tali indicazioni vanno sempre prese con un certo beneficio d’inventario, poiché la ragione per cui una

determinata filigrana includeva una indicazione cronologica non aveva necessariamente lo scopo di dire l’anno in cui era stato fabbricato il foglio in questione. In Inghilterra, dopo un rialzo nell’imposta sulla carta, i moduli avevano l’obbligo di includere l’indicazione dell’anno di fabbricazione, ma, fino alla revoca della tassa nel 1811, spesso veniva messa la data di introduzione del balzello, ossia il 1794; cfr. Harry Dagnell, The taxes on knowledge: Excise duty on paper, «The Library», s. 6, XX, 1998, pp. 347-366; Idem, The taxation of paper in Great Britain 1643-1861: A history and documentation, Edgeware, published by the author in collaboration with the British Association of Paper Historians, 1998.

24) Si veda Philip Gaskell, New Introduction to Bibliography, Oxford, Clarendon Press, 1972, pp. 214-230. Sulla

figura del cartaio, si veda J. N. Balston, The Elder James Whatman, England’s Greatest Paper Maker, in tre volumi (1992-98), di cui il terzo, dal titolo The Whatmans and Wove (Velin) Paper: Its Invention and Development in the West, descrive in dettaglio il processo attraverso il quale Whatman giunse alla fabbricazione di un nuovo tipo di carta (i volumi non sono in commercio e vanno acquistati direttamente dalla Whatman plc, Maidstone, Inghilterra).

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25) Cfr. la riproduzione fotografica in Gaskell, cit., p. 225, fig. 81. Un esempio si trova anche in una lettera inviata da Vieusseux a Joppi; cfr. Desideri-Harris, cit.

26) Si veda il contributo di Laura Desideri in questo stesso volume. 27) Per lo studio sistematico dei timbri postali e dell’organizzazione del relativo servizio consiglio le numerose

pubblicazioni edite dall’Istituto di Studi Postali di Prato. 28) Autografoteca Bastogi, Cassetta 26, Inserto 1334, c. 9.

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Risposta ossia qual fu la data del volo fallito in mongolfiera

Intervento per gli atti del convegno

Conservazione e catalogazione dei carteggi: metodologie e tecnologie a confronto

Livorno, Biblioteca Labronica «F.D. Guerrazzi», 25 maggio 2001

Neil Harris

Borgo Allegri 25, 50122 Firenze,

tel. 055.241579.

Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali

Università degli Studi di Udine 33100 Udine

[email protected]

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“I begin to think, Watson,” said Holmes, “that I make a mistake in explaining. ‘Omne ignotum pro magnifico,’ you know, and my poor little reputation, such as it is, will suffer shipwreck if I am so candid...”.(1)

Nel contributo edito sopra ho dato all’amichevole lettore il compito di scoprire, con l’ausilio di soltanto due strumenti di reference (un dizionario biografico compatto e un calendario perpetuo), l’anno in cui fu vergata una lettera conservata nell’Autografoteca Bastogi di Livorno. Il documento in questione reca soltanto l’indicazione, scritta in francese «Lyon, le 13 Janvier». Qui, nella tradizione migliore della Settimana enigmistica, viene data la risposta.

Non subito però, poiché, a differenza della Settimana enigmistica, la risposta empirica ad una domanda empirica innesca altre domande e la tela della storia che tessiamo con i filamenti delle testimonianze documentarie non è mai finita. Nel caso del nostro testo la data è solamente la lacuna più vistosa nella rete di collegamenti informazionali che il catalogatore virtuoso costruisce intorno alla notizia. Mancano però altre cose: per esempio, l’identità del mittente e del ricevente che non risultano presenti nel documento, nonché quelle delle quattro persone nominate in qualche modo all’interno del testo, e poi la natura dell’evento a cui lo scrivente anonimo fa riferimento.

Sono tutti quesiti che necessitano di risposta. Trovarla sarà invece una impresa che ci obbligherà a fare un viaggio attraverso la vasta memoria artificiale rappresentata dagli archivi e delle biblioteche che l’uomo ha costruito nel corso dei secoli. In questo itinerario, come se stessimo leggendo e vedendo il documento per la prima volta, voglio esporre ed illustrare quattro strategie di ricerca, collegate ad altrettante metodologie, con cui giungere ad una interpretazione e una indicizzazione efficaci del documento.

Prima soluzione alla datazione del documento.

Come sempre, l’analisi del documento comincia con i dati fisici rappresentati dalla carta e dalla scrittura. La prima è di tipo vergato, fatta manualmente al tino, mentre il frammento di filigrana con il leone di S. Marco è tipico della produzione veneta fra il 1750 e il 1850 (ho riscontrato esempi simili, anche intorno a metà Ottocento, fra i manoscritti della raccolta Joppi ad Udine). L’uso di una penna d’oca e di un inchiostro vegetale per scrivere il documento escludono però una data troppo oltre lo spartiacque fra i due secoli. Anche la forma linguistica e il sistema paragrafegmatico dello scrivente francese risultano consoni ad un periodo compreso fra la seconda metà del Sette e i primi decenni dell’Ottocento.

Queste indicazioni provenienti dal manufatto materiale rimangono necessariamente generiche. Il passo logicamente successivo è quello di percorrere il testo con la speranza di reperire riferimenti ad eventi oppure a persone che avrebbero potuto trovarsi citati in una enciclopedia oppure in un dizionario biografico. Nel caso nostro siamo facilitati: il documento parla di un volo in mongolfiera fallito davanti ad un pubblico immenso, per cui è lecito dedurre che, all’epoca dello scritto, questa forma di trasporto rappresentasse ancora una novità.

Rimanendo fermamente attaccati alla sedia si resiste alla tentazione di correre al catalogo della biblioteca in cerca di qualche grosso tomo sulla storia del volo, poiché tali compilazioni solitamente registrano i successi e non i fallimenti. La speranza quindi di trovare qualche riferimento che identificasse questo episodio lionese difficilmente si realizzerebbe. Inoltre va messo in conto il tempo che si perderebbe nella ricerca al catalogo, nel recupero del volume dal magazzino (nel caso improbabile che ci fosse un titolo da consultare con profitto) e nello spoglio del contenuto.

Andando invece alla voce Montgolfier del dizionarietto biografico di Garollo, scopriamo che la prima ascensione riuscita con un pallone captivo – cioè legato con una corda - è avvenuta ad Annonay, vicino a Lione, il 5 giugno 1783, cosicché tale data ha fissato il nostro termine ante quem non. Visto che il documento menziona un «Monsieur Montgolfier» che partecipa attivamente alla spedizione, prendiamo atto di quanto dice la fonte sulla coppia di fratelli, figli di un cartaio benestante, che si chiamavano Joseph-Michel (1740-1810) e Jacques-Étienne (1745-99). Non sappiamo ancora quale dei due si trovasse a bordo del pallone descritto nel documento: la data di decesso di quello vissuto più a lungo tuttavia stabilisce la nostra data post quem non.

Un controllo nello stesso repertorio sulla figura del «Prince de Ligne», padre oppure figlio, dà pure un risultato, segnalando l’esistenza del noto soldato e letterato Charles-Joseph, prince de Ligne (1735-1814).(2) Visto che all’epoca del primo volo in mongolfiera (1783) quest’ultimo aveva già 48 anni di età, va identificato con il padre menzionato nel documento. Per quanto riguarda la datazione, aggiungiamo la considerazione che va esclusa la partecipazione di un gruppo di nobili francesi ad

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un volo in mongolfiera dopo lo scoppio della rivoluzione del 1789 e il regno di terrore a cui, poco tempo dopo, dette adito. Da più di un secolo la collocazione cronologica del documento è stata ristretta ad un arco di poco più di un lustro, ma

noi facciamo di meglio. Mentre i Montgolfier sono noti ancora al grande pubblico, anche per il fatto che questo genere di veicolo volante porta ancora il loro nome, l’altro personaggio ivi menzionato come capitano della spedizione è conosciuto soltanto dagli specialisti della storia del volo. Il dizionario portatile Hoepli nondimeno rivela la sua efficacia informandoci che Jean François Pilâtre de Rozier era noto ai suoi tempi come ardito e coraggioso viaggiatore aereo, anzi troppo ardito, poiché è stata la prima persona, dopo Icaro, a morire in un incidente di volo, il 15 giugno 1785.(3) Dopo tale evento ovviamente non poteva trovarsi a Lione.

A questo punto gli anni possibili si riducono solamente a due, vale a dire il 1784 e il 1785, e perciò prendiamo in considerazione i riferimenti al giorno della settimana che si trovano all’interno del testo. Secondo il documento il tentativo di ascensione fallito è avvenuto il ‘sabato scorso’, che quindi non è il giorno in cui la lettera è stata scritta. Va esclusa anche la domenica, sia perché l’autore ha distinto ‘hier’ da ‘Samedy’, sia perché ha parlato di un’altra prova che difficilmente si sarebbe svolta il giorno santo. È plausibile perciò che la nuova prova fosse fatta di lunedì, per cui il giorno 13 gennaio in cui l’anonimo scrisse la lettera sarebbe stato il martedì o, al più tardi, il mercoledì. Una consultazione della cronologia universale rivela che nel 1784 il 13 gennaio è caduto di martedì e nel 1785, a causa del salto dovuto all’anno bisestile, di giovedì.

La conclusione perciò è che l’anno in questione è il 1784.

Indagine sul contesto documentario e conferma della datazione.

Le fasi del ragionamento ripercorse qui sono esattamente quelle della reazione iniziale a questo documento, quando qualche anno fa l’ho visto per la prima volta. Quanto ho esposto è esempio di un approccio rapido ad un testo storico, corrispondente al metodo consistentemente adoperato per la catalogazione di una raccolta senza centro, in cui il presupposto è che non ci siano altri documenti a disposizione che ci aiuterebbero nell’interpretazione dello stesso. Questa volta, invece, l’assunto era falso e ci potevamo risparmiare tutta la fatica della riflessione appena descritta, perché la stessa verità era raggiungibile in maniera meno spettacolare.

Se infatti il catalogatore che aveva posto il quesito originale avesse riconosciuto che tutti i documenti – in tutto cinquantaquattro lettere – nella stessa filza avevano certi tratti comuni, avrebbe capito che nonostante le firme differenti erano in verità stati prodotti essenzialmente dalla stessa persona o per conto della stessa persona. In parole semplici sarebbe passato al metodo diametralmente opposto della raccolta con un centro, in cui i documenti vengono confrontati fra di loro. In fin dei conti però la lezione è stata che i due modi di procedere stanno perpetuamente in equilibrio, cosicché la scelta fra l’uno e l’altro è spesso solo questione di istinto e di esperienza. La raccolta Bastogi infatti non è una autografoteca nel senso canonico della parola, in cui il collezionista si limita a radunare un sol esempio di ciascuna firma illustre; al suo interno capita frequentemente di trovare nuclei consistenti con la stessa provenienza. Tali nuclei senz’altro beneficiano dal raffronto interno, benché raramente siano così grande da giustificare un serio approfondimento storico.

Dopo il ragionamento appena esposto, stabilita una ipotesi di datazione, viene voglia di capire perché un testo scritto in francese si trova fra i documenti appartenenti al professore ed architetto padovano Domenico Cerato (1715-92), mentre l’impiego di un pezzetto di carta fabbricato nel Veneto per redigere un testo a Lione pare sospetto. Insomma forse esiste qualche elemento ancora da capire.

L’ipotesi iniziale, peraltro ragionevole, è che il collocamento sia avvenuto per sbaglio e che il documento in realtà appartenga ad un’altra filza. Constatiamo poi che tutte le carte contenute nella stessa camicia provengono dall’archivio dello stesso Cerato, come dimostrano sia l’assenza di segni di un passaggio attraverso il sistema postale, sia – soprattutto nei documenti con la sua firma – il carattere provvisorio dello scritto, che in molti casi rappresenta il brogliaccio di un testo presumibilmente spedito in bella copia.(4) All’interno del nucleo si trovano altre lettere a firma diversa che Cerato ha evidentemente ricopiato o fatto ricopiare per l’interesse del contenuto. Il tutto rappresenta quindi una raccolta con caratteristiche omogenee che favoriscono il confronto fra i singoli documenti.

L’appunto in francese senz’altro appartiene alla categoria dei documenti riportati per interesse intrinseco e, percorrendo gli altri testi contenuti nella stessa camicia, ci accorgiamo di una lettera con firma di Gasparo Soderini, in cui, scrivendo al cardinale Angelo Maria Durini, egli accenna brevemente all’ascensione fallita di Lione e descrive alcuni esperimenti svoltisi a Milano con modelli di pallone.(5) Il testo è il seguente:

Eccellenza(6) Ecco il risultato della spedizione Areostatica Lugdunense che hò rittratto dalla amabile <lettera di> Peppa [?]

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ecr<iv>ain del Ministro Plenipotenziario, <ch>e mi incarica di fargli i complimenti suoi, come glieli invia col mio mezzo il Ministro. Qui poi si travaglia da molto. Domenica dovea salire quello a fumo di Marsilio <Landriani>, nato di carta, e cresciuto in Tela, ma avendo una gran Neve stimato [!] aproposito di discendere hà impedito il Pallone di salire; due minori furon spinti nell’Atmosfera i giorni prima, uno dall’Arciduca, e fece la traversata della Piazza radendo le Guglie della Cattedrale poi cadde, uno al Castello, ma volendo riposarsi su un Tetto brugiò. Veneziani non ancora hà cominciato il lavoro del suo, perché l’associazione non è ancor terminata; e siccome i Zecchini son la vera anima dei Palloni, non volan mai se non precede la numerazione dei primi.

Avant ieri salirono due Palloni alla Mongolfier cioè a fumo, uno del Canonico Veneziani l’altro di certo Gerli, di diametro di pochi piedi, fecero piccolo viaggio, e poca alzata; capitarono uno in un tetto, ed inclinando prese fuoco, un altro da Porta Renza andò a porta Nova; ieri doveva andar il Pallone di Landriani fatto a spese dell’Arciduca, ma la Neve lo impedì.

Desidero che corrisponda alla mia buona volontà la sollecitudine dell’edizione Ambrosiana di Mister Paker, e mi conforta l’aggradimento del Magistrato ma soprattutto la persuasione favorevole di V.E. A Landriani dirò mille cose da sua parte e leggerò l’articolo postscritto.

Egli è occupatissimo a difendere il Pallone che scrissi prima esser impedito dalla Neve, ma che poche ore sono si è fatto partire. Salì fino a livello del tetto del Palazzo, ma sia <per> la sproporzione tra la sua gravità nella parte superiore e la leggerezza della inferiore, sia <per> l’ineguaglianza, e non giusta collocazione del fuoco, non sormontò il tetto, ma inclinato capite cominciò a brugiarsi; non può rivocarsi in dubbio che ubbidì; ma penso esser messe in disputa le proporzioni; e può convenirsi che queste macchine a rarefazione se non avranno la mano dell’uomo che ravvivi, mantenga, accresca, o diminuisca a proporzione del bisogno il fuoco sacro, insomma se non avranno una Vestale, faranno una pessima figura.

Hò l’onor d’essere di V.E Milano 21 gennaro 1783/4 Dev.mo Fid.mo Obb.mo Servit.e

Gasparo Soderini

Non solo l’estratto in francese è stato vergato dalla stessa mano che ha copiato la lettera di Soderini (non pare tuttavia quella di Cerato stesso), ma la filigrana del leone di San Marco corrisponde esattamente a quella del frammento.(7) Come avvisa la lettera stessa, il brano dell’anonimo corrispondente francese è stato copiato per accompagnare la missiva spedita al cardinale Durini. La data di quest’ultima è il 21 gennaio 1784, giorno che conferma in pieno l’esattezza della nostra proposta cronologica.

Il limite di questa seconda procedura però è ovvio: l’insieme documentario deve contenere, o il catalogatore deve essere in grado di individuare, materiali paralleli che consentano di risolvere la difficoltà posta dal documento singolo. Questa situazione chiaramente rappresenta qualcosa di ideale, possibile soltanto in una raccolta con una struttura ordinata di carattere archivistico; nella realtà però le cose raramente sono così semplici.

Ricerche storiche intorno al documento.

Bisogna ammettere che il vizio del pallone è contagioso, cosicché neppure chi deve solamente svolgere una operazione catalografica è risparmiato. Insomma – ci si chiede – come andò a finire questa storia della mongolfiera francese? Fu un fallimento totale, oppure un trionfo, oppure succedette qualche altra cosa? Le altre lettere contenute nella camicia tacciono e, nel caso in cui Cerato avesse ottenuto altra documentazione al riguardo, questa non è confluita nell’Autografoteca Bastogi.

La curiosità quindi spinge ad intraprendere una ricerca sulla storia delle prime avventure aerostatiche in Francia e in Italia – vicende a noi totalmente sconosciute – con il labile pretesto di chiarire i riferimenti ai nomi e ai luoghi menzionati nelle due lettere qui riportate. Per quanto riguarda Lione, vista la natura scarsa della documentazione disponibile nei centri di ricerca in Italia, la soluzione più semplice è quella di rivolgere un interrogativo alla sezione Fonds documentation régionale della Bibliothèque Municipale della città. La risposta che ci giunge dagli amici francesi è ampiamente documentata e chiarisce i risvolti principali della vicenda.(8)

Il brano anonimo del 13 gennaio 1784 si riferisce agli eventi preliminari alla terza ascensione in mongolfiera in assoluto. Il piano prevedeva un lungo volo, da Lione a Parigi, con un pallone enorme – il più grosso costruito fino al 1878 – denominato «Le Flesselles» in onore del principale sostenitore dell'impresa; ma, dopo numerose difficoltà tecniche, il volo effettivo, avvenuto il successivo lunedì 19 davanti ad una folla di centomila persone, con un equipaggio di sette persone a bordo, durò poco più di dodici minuti, dopo di che uno strappo alla tela fece cadere la mongolfiera, la quale finì in un prato a poca distanza dal punto di lancio, senza danno per i passeggeri. Nonostante ciò l’evento fu accolto come un trionfo e la notizia fece il

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giro d'Europa. Oltre a Pilâtre de Rozier, pilota della spedizione, gli aeronauti includevano il costruttore, Joseph Montgolfier (che a questo punto possiamo distinguere rispetto al fratello Etienne nell’indice del documento(9)), e uno fra i principali finanziatori dell’avventura, Charles-Joseph-Emmanuel, giovane principe de Ligne,(10) il cui padre, Charles-Joseph, il già menzionato letterato, faceva parte del pubblico ed ha lasciato una descrizione delle proprie emozioni di fronte allo spettacolo del figlio che spariva fra le nuvole. Gli altri nobili che accompagnavano il giovane aristocratico – che non sono esplicitamente nominati nel nostro documento – furono il conte de la Porte d’Anglefort; Prost de Royer, conte di Laurencin; e il conte di Dampierre. Il settimo passeggero era un ‘clandestino’, Fontaine, amico dei Montgolfier, che s’infilò a bordo all’ultimo momento.(11) In tal modo l’indagine storica ci consente di perfezionare le voci biografiche riguardanti le persone menzionate nel documento che è stato il nostro punto di partenza.

Risolte le incognite relative al testo in francese, passiamo a quelle della lettera in italiano, fra le quali figura quella sull’identità del suo autore, Gasparo Soderini. Insomma: chi era costui? A chi scrive tal nome d’altronde suona familiare. Fallendo però la memoria, la ricerca comincia con il tentativo di reperire altre lettere con tale firma all'interno dell'Autografoteca Bastogi; però senza successo. Segue quindi la consueta serie di verifiche attraverso i dizionari biografici, i grandi cataloghi di biblioteca, gli indici di rivista che una vetusta generazione di bibliotecari ha raccolto come strumenti presso le sale di consultazione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, e finalmente gli indici dei testi di storia che si occupano di Milano e della Lombardia in tale periodo. Si incappa nondimeno in un curioso vuoto informativo, poiché tutti i repertori visionati mantengono un silenzio ostinato al riguardo.

Cambiando approccio, lanciamo una ricerca sul nome-frase in rete, che – con mia sorpresa – fornisce la traccia necessaria. Veneziano, diplomatico di professione, nel triennio 1783-85 Soderini è stato il residente della Serenissima a Milano. In tempi recenti i suoi dispacci e relazioni conservati alla Biblioteca del Museo Correr (oltre a Milano rappresentò la repubblica lagunare a Napoli e a Londra) hanno attirato l’attenzione degli storici per la quantità e la qualità delle informazioni economiche e sociali che vi sono contenute. Dizionari biografici ed enciclopedie in effetti abbisognano di tempi lunghi per aggiornarsi, per cui non è stata recepita ancora la prima importante segnalazione della figura di Soderini (1740-1801) apparsa in un libro di Mario Infelise del 1989: libro che in verità ho sullo scaffale di casa e illis temporibus ho anche letto (ed evidentemente dimenticato).(12) Adduco la misera e inadeguata scusa che all'interno del nostro documento non risulta un elemento collegante Soderini con la Serenissima e perciò, mentre l’indice dello splendido libro di Marino Berengo sulla Milano della Restaurazione è stato puntualmente visionato,(13) le parallele fonti veneziane non sono state ripassate. Maxima culpa mea.

Per quanto riguarda gli episodi accaduti a Milano e riferiti da Soderini, i repertori a disposizione in Italia si rivelano più che adeguate. Seppure vecchio di più di mezzo secolo, uno strumento prezioso è rappresentato dalla Biblioteca aeronautica italiana di Giuseppe Boffito, che consente il reperimento di una serie di articoli e di libri, incluse le testimonianze più significative dell’epoca.(14) Tali esperimenti milanesi hanno preceduto di un mese circa la prima ascensione avvenuta in Italia il 25 febbraio 1784 dalla villa di Moncucco, vicino a Milano, che vide innalzarsi il conte Paolo Andreani in un pallone costruito dai fratelli Gerli, preludio di un altro più importante volo il 13 marzo dello stesso anno.(15) Vale la pena di confrontare il resoconto in chiave ironica di Soderini con la nota descrizione delle stesse prove del mese di gennaio, pubblicata verso la fine dello stesso anno da Agostino Gerli.

Il giorno 13 di Decembre dell’anno scorso [1783] il signor Canonico Veneziani inalzò su la Piazza del Castello di

Milano un Palloncino sferico ad aria infiammabile… Con queste idee si formò da noi con carta della Cina un Palloncino di figura sferica; ma non soddisfece al comune e nostro desiderio, perché la materia inserviente al fuoco di troppo compressa non potè facilmente abbruciare, onde rarefare l’aria al segno d’elevarlo a sufficiente altezza. Si ripigliò subito l’esperienza con un altro del diametro di tre braccia milanesi, il quale al giorno 19 di Gennajo fu inalzato avanti al Palazzo di Sua Eccellenza il Signor Conte Plenipotenziario de Wilzeck, che si compiacque d’esserne spettatore unitamente a molta Nobiltà, dall’E.S. a tale oggetto invitata. In questa volta l’esito corrispose alla più lusinghiera aspettazione, essendosi elevato alla doppia altezza della maggiore Guglia del nostro Duomo, prendendo al primo alzarsi la direzione verso Ponente, e dopo un corso regolare e sicuro andò a discendere a Mezzogiorno.

Questi due Palloncini ad aria rarefatta furono li primi veduti in Milano; e tanto piacquero, che in seguito quasi in ogni contrada se ne inalzarono di varie forme e figure.(16)

Chi ha ottenuto il trionfo finale ha avuto anche il privilegio di scriverne la storia: la versione autobiografica di Gerli,

disponibile poco tempo dopo il volo di Andreani in una prestigiosa pubblicazione, inevitabilmente esalta il proprio ruolo; quella di Soderini, in cui l’altro è definito solamente «certo Gerli», presta attenzione alle figure di maggior richiamo prima del volo di Moncucco, vale a dire il canonico e sperimentatore Giacomo Veneziani(17) e lo scienziato Marsilio Landriani.(18) D’altronde non è il primo esempio di difformità offerto dal confronto fra un contributo storico descrivente i primi voli in aerostata e la sua eco testimoniata in un carteggio coevo.(19)

L’occhio di Soderini si ferma in modo particolare sul rapporto fra spettacolo e potere, che dal punto di vista

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dell’osservatore sardonico venuto da uno stato estero è l’aspetto di maggior interesse. Egli quindi rivela non solo il già conosciuto patrocinio dell’evento da parte del ministro plenipotenziario austriaco, Johann Joseph, conte di Wilzeck,(20) ma anche la partecipazione finanziaria dell’arciduca Ferdinando d’Absburgo all’impresa di Landriani.(21) L’ultima curiosità degna di nota sta nel fatto che il fascino esercitato dal volo di Andreani sull’erudito cardinale Durini, destinatario della lettera, portò quest’ultimo a redigere un opuscolo di versi latini ineggianti al primo aeronauta italiano.(22)

Esplorazioni archivistiche.

La consultazione delle fonti storiche a stampa, per quanto rappresenti per grandi linee una ricostruzione organica del passato, nei dettagli è affidata molto al caso e alla curiosità di chi fa ricerca. La nostra possibilità di giungere a materiali utili dipende in primo luogo dalla natura dei documenti scoperti e resi noti e in secondo luogo dalla funzionalità dei meccanismi bibliografici che hanno il compito di individuare e diffonderne la notizia. In sostanza ciò che a distanza di secoli appare come una terra appianata dalle grandi sintesi storiche ha, invece, quando uno capita dentro, la sembianza di una selva oscura in cui ogni senso della giusta via è stata smarrito. In tal caso l’unica soluzione è quella di scavare per conto proprio nelle risorse documentarie rappresentate dagli archivi, aprendo per così dire un quarto gradino di esplorazione della nostra indagine.

I problemi importanti a cui dobbiamo trovare ancora risposta sono due: vale a dire l’ubicazione odierna della lettera originale di Soderini, nel caso fosse ancora esistente, e il recupero del testo completo della lettera francese, di cui possediamo solamente il frammento ricopiato dal diplomatico veneziano, nonché l’identità sia del mittente che del ricevente.

Per quanto riguarda la lettera di Soderini, la pista più migliore sembra quella di cercare nell’Archivio Durini di Como, la cui consistenza è stata accuratamente segnalata nella voce biografica relativa al cardinale dallo storico moderno Nicola Raponi, il quale menziona in particolare una serie di filze contenenti corrispondenze ricevute dall’erudito principe della chiesa.(23) Si tratta però di un archivio che nel 1993 – epoca in cui apparve la voce relativa ad Angelo Maria Durini nel Dizionario biografico degli italiani – si conservava presso la famiglia Durini Ajmone Cat di Tavernola vicino a Como, per cui esiste un problema di accesso. Attraverso l’Università Cattolica di Milano è possibile entrare in contatto con il professore Raponi, che molto cortesemente fornisce una serie di indicazioni utili, incluso l’indirizzo di Villa Durini; una successiva lettera inviata alla famiglia ottiene in risposta una bella telefonata di Rita Ajmone Cat con l'informazione che nel 2001, con munifico gesto, l’intera raccolta è stata donata all’Arcivescovado di Como. Dopo aver rivolto un quesito a quest'ultimo, il controllo diretto sulle carte viene ostacolato dalla disinfestazione in corso dei documenti, per cui, fino all'estate del 2003, soltanto gli inventari sono disponibili. Dopo aver pazientato diversi mesi, i pacchi si riaprono e una ricerca puntuale svolta dall’archivista Anna Rossi determina che non vi si trovano la missiva originale di Soderini, né altre lettere di suo pugno.(24) Nello stesso tempo un controllo eseguito sui dispacci dello stesso presso la Biblioteca del Museo Correr non rinviene alcun riferimento agli sperimenti milanesi di volo, eventi giudicati forse triviali per il resoconto ufficiale alla Serenissima.(25)

Per quanto riguarda il documento francese, in base all’ipotesi che il ricevente originario fosse proprio il ministro plenipotenziario, si mette in moto una indagine presso l’Archivio di Stato di Milano per scoprire se il relativo originale sia rimasto all’interno della corrispondenza ricevuta dal conte di Wilzeck nella sua qualità di governatore della Lombardia. Anche qui la fortuna ci è contraria. Benché venga individuata una cinquantina di lettere avute dallo stesso, esse decorrono dal 25 maggio 1784 al 16 febbraio 1796, per cui manca la nostra attribuita al 13 gennaio 1784. Un’altra filza, dedicata esplicitamente alla questione dei palloni aerostatici, contiene pure una lettera di un corrispondente francese del 16 marzo 1784, purtroppo di firma illeggibile, con una serie di informazioni relative alla loro pericolosità, che sembra la molla che il giorno dopo portò il Wilzeck ad emanare il noto decreto proibendo nuovi lanci di pallone nella capitale lombarda.(26) Ma il documento che cerchiamo noi non si trova.

La ricerca archivistica insomma è quella che ha dato meno risultati, per lo meno nei luoghi ovvii, visto che non è possibile escludere che i nostri documenti siano conservati da qualche altra parte. Tale mancanza di riscontro non equivale a un fallimento, se accettiamo, come si dovrebbe sempre accettare, che una verifica con esito negativo ha lo stesso peso di quella con esito positivo. Dal punto di vista della ricerca documentaria il fatto significativo sta nell'azione stessa di verificare.

Conclusione.

In queste pagine abbiamo acquisito una quantità di notizie prima impensabile intorno agli eventi e alle persone ricordati nella lettera di Gasparo Soderini e nel piccolo allegato francese. Le quattro metodologie utilizzate hanno rappresentato una scala di complessità crescente, sia per quanto riguarda l’impegno e il lavoro richiesti al catalogatore, sia dal punto di vista della certezza raggiunta, anche qualora i risultati siano stati infruttuosi.

Nella prima, lavorando con il metodo concepito nel caso della raccolta senza centro, una ipotesi è stata elaborata

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sfruttando esclusivamente i dati a disposizione nella manifattura e nel testo del documento stesso. Questo è senz’altro il metodo più veloce, ma ha eventualmente bisogno di ottenere prove più sostanziose attraverso altre forme di indagine.

Nella seconda, applicabile piuttosto al caso della raccolta con un centro, sono stati comparati i dati presenti nell’evidenza fisica e nel contenuto del documento con quelli disponibili in altri materiali conservati nella stessa filza all’interno dell’Autografoteca.

Nella terza è stata avviata una indagine storica, dettata piuttosto dall’esigenza di interpretare il contesto dell’avvenimento e i riferimenti all’interno dello scritto.

Nella quarta sono stati perlustrati alcuni fondi archivistici, alla ricerca di pezzi documentari che mancavano. L’esito finale corrisponde ad una descrizione ‘ideale’ del documento, benché il nostro successo non sia stato completo e

alcune incognite rimangano irrisolte. La vera impasse è rappresentata semmai dalla constatazione che qualunque documento epistolare, per quanto grande o piccolo, fa parte di una tela infinita di richiami storici e testuali che compone a sua volta il passato e la memoria di quel passato.

Ma qual è stato il costo dell’operazione? Con il primo metodo per stabilire la probabile data dell’estratto in francese, sono bastati pochi minuti. Con il secondo per capire il rapporto con la lettera di Soderini, per leggere quest’ultima e ripassare tutti i materiali della

filza, con lo scopo di vedere se ci fossero altri documenti utili, stando in sede a Livorno, abbiamo impiegato un paio di ore, forse di più.

Con il terzo, per svolgere una indagine storica sugli eventi accaduti e sui personaggi menzionati in entrambi i testi, un ricercatore esperto con uno stipendio da docente universitario, abituato a muoversi con disinvoltura fra lingue e culture diverse, insomma chi scrive, si è dovuto impegnare per un paio di settimane, facendo ricorso soprattutto alle raccolte estese della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. All’impegno complessivo di tempo e fatica va aggiunto il disturbo recato ai colleghi ed amici di Lione per ottenere alcuni materiali non disponibili in Italia, nonché per una richiesta spedita a Milano per ottenere la fotocopia di un articolo introvabile nel capoluogo toscano.

Con il quarto, allo svolgimento delle tre verifiche archivistiche descritte qui, tutte fatte per interposta persona, hanno contribuito – per fortuna mia a titolo gratuito – diversi studiosi di primissimo piano, mentre lascio al lettore il compito di immaginare la complessità del negoziato e la quantità di corrispondenza che hanno permesso l'individuazione e la disamina dei documenti visionati e poi esclusi. E per riuscire in tutta l'operazione – ammettiamolo con candore – il sottoscritto ha impiegato tutta l'influenza che possiedo di figura non solo introdotta nei meccanismi operativi del settore, ma anche sufficientemente conosciuta ed autorevole per ottenere risposte scrupolose e precise. Queste ultime sono cose che difficilmente giungono ad un novizio timido assunto a contratto, anche per il semplice fatto che una buona risposta dipende dal modo in cui è stata formulata la domanda.

Fra impegno finanziario e tempo consumato, sono costi ai quali la tariffa di mercato di una semplice operazione di catalogazione di autografi neppure si avvicina, anche perché alla fine di molte giornate qui si sono catalogate, seppur in modo ottimale, soltanto due lettere. In parole povere, per quanto siano stati interessanti gli esiti della terza e quarta ricerca, il gioco biblioteconomico francamente non vale la candela logistica e monetaria.

Eppure è possibile trovare lamentele e critiche sulla questione della catalogazione di autografi, che hanno come presupposto l'idea che estese ricerche storiche ed archivistiche sarebbero auspicabili e praticabili per ogni voce. Si tratta però di una inabilità a distinguere fra la resa critica che va dedicata ad un testimone in sede filologica e la necessità di costruire un insieme informazionale descrivente efficacemente tutti i testimoni.

Ritorno quindi ad insistere sulla necessità di una catalogazione che rispecchi le lezioni americane di Calvino, che sia veloce, leggera e precisa, che sia in grado di cogliere e registrare con estrema rapidità i dati salienti di ciascun documento, e che abbia la forza di procedere oltre senza perdite inutili di tempo e di denaro. Solo in tal modo si giunge al vero scopo dell’operazione: cioè quello di avere un catalogo concluso. Il nostro modo di operare pertanto non mira a dare tutte le risposte, ma a reperire un minimo di informazioni essenziali nel tempo più breve possibile. La piena riuscita del caso esaminato non si esaurisce con il chiarimento di interrogativi che avrebbero potuto comunque essere risolti da un documento parallelo o attraverso una ricerca storica in una biblioteca a due ore di distanza o tramite uno scavo negli archivi lombardi; a determinare il successo dell’operazione ha contribuito piuttosto la velocità con cui il problema è stato risolto lì in sede, poiché la data dello sconosciuto brano è stata individuata nel giro di pochi minuti, senza alzarsi dalla sedia, con i limitati mezzi a disposizione: in altre parole con il risultato giusto e il prezzo contenuto.

Visto che abbiamo viaggiato insieme per tante pagine in questa mongolfiera di costrutti catalografici, caro lettore, vorrei, come gesto finale di amicizia, confessare l’indole falsa e tendenziosa del caso che ti è stato presentato. È infatti l’esempio di un successo, per cui una persona ingenua – che tu non sei – potrebbe ricavare l’impressione che i metodi semplici, che prediligo, siano sempre in grado di risolvere i problemi. Niente di più lontano dal vero: si tratta di un documento ostico solamente in apparenza, al cui interno si trovano numerosi appigli, sia per l’eccezionalità dell’evento, sia per la notorietà dei personaggi ivi menzionati. Avrei certo potuto portare casi più ‘neutri’: dubito però che saresti rimasto entusiasta di fronte al

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lungo elenco delle volte in cui riferimenti sicuri a persone o ad eventi mancano oppure risultano impenetrabili. Tieni però conto del fatto che ove i metodi che lavorano direttamente sul documento falliscono, non è detto che altre forme di ricerca riescano. E, nonostante quest’ultima riflessione, concludo con la parafrasi delle parole di Sherlock Holmes al Dr. Watson: «Conoscete i nostri metodi. Applicateli!».(27)

Note*

*Nel chiudere questo saggio in due parti ringrazio sentitamente Michela Ciancianaini, Luigi Crocetti, Laura Desideri, Maria Chiara Flori, Cristina Luschi, Roberta Masini, Sabrina Taddei, per la loro collaborazione nella

redazione del testo. Un ringraziamento particolare va ad Armando Petrucci per la costante ispirazione.

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Note

1) Arthur Conan Doyle, «The Red-Headed League», pubblicato in periodico nel 1891, raccolto in The Adventures of Sherlock Holmes nel 1892. La citazione in latino proviene da Tacitus, Vita Agricolae, cap. 30.

2) Notizie sono facilmente reperibili inoltre in fonti come l’Index biographique français, 2nd ed., 1998, e in opere

di erudizione generale come La grande encyclopédie e l’Encyclopédie Larousse. Per la biografia aggiornata, si veda il volume recentissimo, che non ho visionato, di Philip Mansel, Prince of Europe: The Life of Charles Joseph de Ligne (1735-1814),London, Weidenfeld & Nicolson, 2003.

3) Scienziato ed aeronauta (1756-85), fece le prime ascensioni sia in un pallone captivo il 15 ottobre 1783 ad

Annonay, sia in quello libero il 21 novembre successivo a La Muette. La morte avvenne vicino a Boulogne in un tentativo coraggioso di attraversare la Manica, quando il veicolo prese fuoco, facendo precipitare Rozier e compagno da una altezza di 400 m.

4) Si veda la voce di Franco Barbieri nel Dizionario biografico degli italiani, vol. 23, Roma 1979, pp. 668-672.

L’estensore anonimo della notizia sull’esterno della camicia infatti spiega il contenuto come «N° 13 lett[ere] fam[iliari] e di sua mano copiato alcune sue e altre di Simone Cavalli, del Conte Oeyras, del Facciolati ed altre». Gli abbozzi delle lettere di Cerato stesso all’interno della camicia sono datati fra il 1752 e il 1784.

5) Autografoteca Bastogi, Cassetta 26, Inserto 1334, cc. 7-8. Per il carattere sbiadito dell’inchiostro alcuni brani

sono stati letti con l’ausilio di una lampada di Wood, mentre altri risultano deteriorati da infiltrazioni d’acqua, risalenti probabilmente al periodo bellico, quando le collezioni della Labronica subirono diversi danni. Alcune parole che presentano difficoltà di lettura sono seguite da un punto interrogativo fra parentesi quadre e la parola ‘plenipotenziario’, puntata nel testo, è stata sciolta. La lezione pare scorretta oppure lacunosa in diversi luoghi: tali lezioni sono state segnalate da un punto esclamativo oppure sono state integrate fra parentesi uncinate.

6) Un asterisco rinvia alla nota in fondo al primo recto, dove il ricevente è identificato come «Card. S.E. Angelo

Durini». Il cognome in particolare è scritto in maniera poco chiara, per cui inizialmente è stato letto come ‘Guerini’ o ‘Guarini’. È stato necessario verificare sulla Hierarchia catholica i nominativi dei cardinali creati da Pio VI per capire invece che si trattava di Angelo Maria Durini (1725-96), nominato cardinale il 20 maggio 1776; si veda la voce di Nicola Raponi nel Dizionario biografico degli italiani, vol. 42, Roma 1993, pp. 195-200. I sette volumi della Hierarchia catholica Medii aevi [a partire dal vol. 3: Medii et recentioris aevi] sive summorum pontificum s. r. e. cardinalium, ecclesiarum antistitum series e documentis praesertim Vaticani collecta, digesta, edita… finora pubbicati sono: 1) 1198-1431 (1913 [rist. 1960]); 2) 1431-1503 (1914 [rist. 1960]); 3) saeculum XVI ab 1503 (1923 [rist. 1960]); 4) 1592-1667 (1935 [rist. 1960]); 1667-1730 (1952); 6) 1730-1799 (1958); 7) 1800-1846 (1968); 8) 1846-1903 (1978); 9) 1903-1922 (2002). Si tratta però di un repertorio non posseduto dalla Biblioteca Labronica, per cui il riscontro è stato fatto presso la Biblioteca di Storia dell’Università di Udine.

7) Con questa tipologia di filigrana la direzione di marcia del leone infatti ci consente di distinguere fra i due

segni posti sulla coppia di forme utilizzata al tino. Nonostante il carattere frammentario della filigrana nel primo documento, si tratta senz’altro della stessa e non della filigrana gemella. È ovvio che una carta del genere veniva diffusa soprattutto nei territori veneziani o limitrofi: ho reperito altri esempi di filigrana leonina, senza però avere un riscontro preciso con quella presente nei due documenti sopracitati, in altri sei fogli all’interno della camicia, che recano testi scritti fra il 1776 e il 1784.

8) Ringrazio Yvette Weber e Marie-Noëlle Frachon per la cortesia e per la tempestività della risposta. 9) Nei dizionari biografici appaiono notizie relative esclusivamente ai due fratelli Montgolfier più noti, ed ho

dovuto nel corso di un soggiorno in Francia prendere in mano studi sulla famiglia per scoprire che dal matrimonio di Pierre Montgolfier (1700-93) con Anne Duret sono nati sedici figli, di cui Joseph era il dodicesimo e Etienne il penultimo. Per la storia della stessa famiglia e della cartiera, che esiste a tutt’oggi, si vedano Marie-Hélène Reynaud, Les moulins à papier d’Annonay à l’ère pré-industrielle: les Montgolfier et Vidalon, Annonay, Editions du Vivarais, 1981; Eadem, Une histoire de papier: les papeteries Canson et Montgolfier, Annonay, Canson, 1989, e per le vicende aerostatiche, Eadem, Les frères Montgolfier et leurs étonnantes machines, Vals-les-Bains, Editions de plein vent, 1982. Per la storia dei primi voli rimangono utili i contributi ottocenteschi, anche bibliografici, di Gaston Tissandier, si veda Bibliographie aéronautique. Catalogue de livres d’histoire, de science, de voyages et de fantaisie, traitant de la navigation aérienne ou des aérostats, Paris, H. Launette, 1887 (rist.

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Amsterdam, B.M. Israel, 1971), e Histoire des ballons et des aéronautes célèbres, Paris, H. Launette, 1887-90. La più dettagliata testimonianza d’epoca si trova in Description des expériences de la machine aérostatique de mm. de Montgolfier… par m. Faujas de Saint-Fond e Premiere suite de la Description des expériences aérostatiques, Paris, chez Cuchet, 1784 (rist. anastatica Osnabrück, Otto Zeller, 1968). Altre indicazioni utili sono disponibili nel catalogo storico della mostra di Francoforte del 1909; si veda Louis Liebmann-Gustav Wahl, Katalog des historischen Abteilung der ersten internationalen Luftschiffahrts-Austellung (ILA) zu Frankfurt a. M. 1909, Frankfurt a. M., Druck und Verlag Wüsten & Co., 1912, pp. 94-97, nn. 260-268. Un riferimento di particolare interesse storico nell’estratto è rappresentato dall’accenno a una forma di paracadute che i viaggiatori aerei avrebbero utilizzato in caso di sciagura o di incendio del cocchio volante. Il principio di rallentare la caduta di un oggetto attraverso un meccanismo che catturasse l’aria in una tela era stato riconosciuto fin dal Rinascimento, fra altri da Leonardo da Vinci. Benché il primo lancio di un uomo risalisse a poco tempo prima, quando cioè nel 1783 Louis-Sebastien Le Normand saltò da un grosso albero rallentando la velocità della discesa con un apparecchio primitivo a forma di parasole, l’iniziativa di includere un salvagente fra la strumentazione di bordo non risulta altrove nelle fonti storiche che descrivono l’ascensione lionese. Il primo salto con paracadute da un pallone in volo infatti fu realizzato solamente nel 1802 a Parigi da André-Jacques Garnerin, che più tardi, lo stesso anno, ma questa volta in Inghilterra, ripeté l’esperienza da una altezza di 2400 metri.

10) Rispetto alla documentazione riguardante il padre (si veda nota 2 sopra), sappiamo poco del figlio, che muore

nel 1792 combattendo a fianco degli austriaci contro la Francia rivoluzionaria. 11) Si veda Reynaud, Les frères Montgolfier cit. L’elenco dei nomi risulta anche nel «Journal de Lyon» del 21

gennaio successivo, pp. 29-30: «M. de Montgolfier l’ainé, M. Pilâtre du Rosier, M. le comte de Laurencin, M. le comte de Dampierre, M. le comte d’Anglefort de la Porte, le Prince Charles D’Aremberg-Ligne & M. Fontaine qui n’avoit pas été compté au nombre de ceux qui devoient partir, mais ayant beaucoup contribué à la construction de la machine s’est jeté dans la galerie par un transport de zele & de courage au moment même du départ».

12) Mario Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 245-246. La relazione di

Soderini del 1781 sullo stato di Napoli è stata edita in Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli: relazioni, a cura di Michele Fassina, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1992, pp. 205-243, che contiene anche un utile profilo biografico (pp. 55-58).

13) Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980. Oltre ad un

testo denso di informazioni, è degno di nota l’indice del libro ordito in maniera straordinariamente dettagliata ed efficace, per cui il volume appartiene di diritto allo scaffale di lavoro del catalogatore di autografi.

14) Giuseppe Boffito, Biblioteca aeronautica italiana, Firenze, Olschki, 1929, a cui si aggiunse successivamente

un Primo supplemento decennale (1927-1936), ivi, 1937. Lo stesso Boffito, attraverso uno spoglio della Gazzetta universale,segnala articoli del 13 e 23 gennaio in cui vengono riferiti gli eventi di Lione, si veda Corrispondenze giornalistiche d’aeronautica del 1784, «Rivista aeronautica», 9, n. 10, ottobre 1933, pp. 173-178. Una raccolta utilissima di testi coevi è stata pubblicata da Luigi Pescasio, Rarità bibliografiche aeronautiche dei secoli XVII-XVIII-XIX, Mantova, Editoriale Padus, [1975].

15) Per Andreani (1763-1823), si veda la voce di Lodovico Vergnano nel Dizionario biografico degli italiani, vol.

3, Roma 1961, p. 128, nonché il volume recente di Giuseppe Dicorato, Paolo Andreani: aeronauta, esploratore, scienziato nella Milano dei lumi 1763-1823, Milano, Ares, 2000.

16) Si vedano gli Opuscoli di Agostino Gerli, Parma, dalla Stamperia Reale, 1784. All’interno appare la

«Relazione della macchina aerostatica contenente uomini fatta innalzare per la prima volta in Italia nel giardino della Villa Andreani in Moncucco sul Milanese il giorno XXV di febbrajo, indi più solennemente il giorno XIII di marzo M.DCC.LXXXIV». Il testo è riprodotto anche in Pescasio, Rarità bibliografiche cit., pp. 197-240. Per la figura di Gerli, si veda la voce di Dario Melani nel Dizionario biografico degli italiani, vol. 53, Roma 1999, pp. 434-436.

17) Figura oggi poco nota (m. 1794) ed assente dai repertori biografici consultati. Si veda Eligio Jotti da Badia

Polesine, Esperienze aerostatiche di Marsilio Landriani, Giacomo Veneziani e Francesco Maria Regibus, «Rivista aeronautica», 7, n. 10, ottobre 1931, pp. 201-210. L’articolo riporta un contributo apparso nella Gazzetta enciclopedica di Milano il 26 gennaio 1784, in cui gli stessi eventi della lettera di Soderini sono descritti come segue: «La bella macchina aerostatica alta 13 piedi e larga 7, che volò mercoledì prossimo passato [21 gennaio] sopra tutti i quartieri della città, fu quella,che il Sig. Canonico D. Giacomo Veneziani, R. dimostratore di fisica speriment. aveva promesso … di fare volare sulla Piazza del Castello. S.A.R. e

Page 26: L’autografo come oggetto fisico ossia come catalogare un ... · PDF fileOggi però ci troviamo in riva al mar Tirreno, senza alcuna possibilità di cambiare il mondo, e pertanto,

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Articolo:Catalogazione dei carteggi

Tecniche e soluzioni in una esperienza reale

S.E. M.P. Co: di Wilzeck, che hanno onorato colla loro presenza questo spettacolo; un immenso numero di nobiltà e di Popolo, che copriva tutta P.O. e finalmente tutta la città, hanno visto con piena soddisfazione quella macchina per vari giri, e rigiri, e dopo tre quarti d’ora andare a cadere fuori di P. Ticinese in Magolfa tale quale era stata all’aria rilasciata. Un gran numero di fanciulli accorsi per vedere più da vicino quella macchina cui avevano seguita, osservandola in aria ad una grandissima altezza, la fecero in pezzi, portandosene via tutti contenti la loro porzione; fu pertanto assai peggio accolta di quanto andò a cadere in altra terra incolta. L’avere questa macchina servito tre volte senza mai abbruciarsi, né rompersi, deve farci pienamente persuasi che i sinistri accidenti non accompagnano sempre il volo e la discesa di tali macchine. Fra pochi giorni ne vedremo probabilmente un’altra assai più bella, e più grande, fabbricata dal medesimo Sig. Canonico». Un numero successivo della stessa gazzetta del 9 febbraio 1784, con riferimento al giorno giovedì 5 precedente, descrive il lancio promesso fatto con un pallone di «forma cilindrica» in presenza dell’arciduca e del ministro austriaco, in cui «al cenno di S.A.R. il Sig. Can. lasciò la corda, e la macchina quasi in un istante fu dall’aria portata almeno tre volte più alta della Madonna del Duomo».

Il mio tentativo di visionare questo articolo, segnalato in modo poco preciso in Boffito, ha fornito un esempio poco divertente degli ostacoli improvvisi che possono presentarsi in una ricerca storica. Il contributo fa parte di una serie di scritti, principalmente a firma dello stesso Boffito, pubblicati nella «Rivista aeronautica», che, oltre ad essere un periodico tecnico, è stata anche portavoce dello spirito più ardito del régime fascista, con numerosi riferimenti alle imprese di Italo Balbo. Ogni anno furono pubblicati dodici fascicoli corposi che andavano a formare quattro volumi, ciascuno dei quali con la propria sequenza di pagine. Poiché il riferimento bibliografico a disposizione non specificava il volume, al sistema recentemente automatizzato della BNCF è stata chiesta l’intera annata; ma in base al regolamento interno sono stati mandati solamente i primi tre volumi. Ogni tentativo di ottenere anche il quarto, che effettivamente conteneva l’articolo, è stato rifiutato dal computer e soltanto dopo la restituzione dei volumi già ricevuti, nonché la perdita di una giornata, è stato possibile avere il quarto tomo. Il tempo era mio e perciò gratuito; se invece avessi dovuto monetizzare tale fallimento, sarebbe stata una operazione costosa.

18) Patrizio milanese (1751-1815), professore di fisica sperimentale, il 15 novembre 1783 aveva lanciato due

palloni sperimentali a Monza. Per la vita e le ricerche, si vedano le introduzioni di Mario Pessina in Relazione di Marsilio Landriani sui progressi delle manifatture in Europa alla fine del Settecento, Milano, Il Polifilo, 1981, pp. xli-lxix, e di Marco Beretta in Marsilio Landriani, Ricerche fisiche intorno alla salubrità dell’aria; con un articolo di Alessandro Volta sull’eudiometria, Firenze, Giunti, 1995, pp. 5-17. Qualche indicazione riguardo agli esperimenti con il pallone si trova nell’articolo Costruzione dei palloni volanti secondo il metodo del sig. march. Landriani, «Memorie enciclopediche», Bologna 1784, che non sono riuscito a visionare (riferimento in Boffito, p. 136).

19) Si veda Alessandro Giulini, I primi tentativi dell’aeronautica a Milano (da un carteggio inedito), in

Miscellanea di studi lombardi in onore di Ettore Verga, a cura del Comitato per le onoranze a Ettore Verga, Milano, Castello Sforzesco, Archivio storico civico, 1931, pp. 113-118. Da un carteggio dei fratelli Belgioioso emergono notizie sui tentativi falliti, anche dei fratelli Gerli. Ancora per sottolineare le difficoltà della ricerca storica, questo contributo all’interno della miscellanea in onore di Verga, puntualmente segnalato da Boffito (Suppl., p. 279), non è stato reperito nelle biblioteche fiorentine, per cui ho dovuto chiederne una copia a Milano (ringrazio Emanuela Sartorelli del Centro Nazionale di Studi Manzoniani per la cortese disponibilità).

20) Non risulta nei repertori biografici consultati. Si veda Storia di Milano, vol. 12, ad indicem (con il ritratto a pp.

353 e 377). Il 17 marzo 1784 emana un editto per proibire il lancio di palloni, adducendo come causa il timore della caduta di uno di essi su un magazzino di polvere da sparo (il testo a stampa della proclama è riprodotto in Pescasio, Rarità cit., p. 113).

21) Governatore e capitano generale della Lombardia austriaca (1754-1806), figlio terzogenito dell’imperatrice

Maria Teresa. Nei documenti d’epoca è ricordato soprattutto per il matrimonio sfarzoso con Maria Beatrice Ricciarda d’Este nel 1771. Fu cacciato da Milano dai francesi nel 1796. Doveva ereditare il ducato di Modena, ma la storia gli fu contraria.

22) Si conoscono due edizioni; cfr. Boffito, Biblioteca cit., p. 269 (e riproduzione a p. 159). Cito il titolo della

seconda, più esteso, cioè: Alla gloria immortale del celebre signor don Paolo Andreani cavaliere milanese il quale in età d’anni XX primo nel mondo dopo i francesi innalzatosi nella villa di Moncucco alla presenza di innumerevole popolo in un globo aerostatico largo XXXVI braccia alto XXXIX, solo per la direzione scientifica, accompagnato per gli esercizi meccanici da due giovani operai coraggiosi e fedeli Gaetano Rossi e Giuseppe Barzago, eccitati da lui con estemporaneo invito, volò in cielo per lo spazio di mezz’ora, invisibile per VII minuti nelle altissime nubi, tornò con esito felicissimo in terra tra Carrugate e Caponago nel giorno XIII di marzo dell’a. MDCCLXXXIV offrono e donano tributo d’ammirazione e monumento d’onore i versi latini dell’em.mo sig. card. Angelo Durini volgarizzati dal p. don Francesco Mainoni e dedicati a rispettabilissime dame e chiarissimi cavalieri, Seconda edizione, In Milano, per li fratelli Pirola, s.d. [1784].