L'Attore e La Recitazione

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L’ATTORE E LA RECITAZIONE di Cesare Molinari 1. L’attore come problema e come metafora Il modo più interessante di dire «attore» è sicuramente il termine greco hypokrités, che deriva dal verbo krino, che significa «discernere, decidere», ma in questo senso «interpretare». Dunque originariamente vale per «colui che interpreta» eppure nella nostra lingua e in tutte le altre l’ipocrita è «colui che finge», dunque il significato «attoriale» ha scavalcato e riassorbito il significato originale del termine, questo introduce a due problemi decisivi riguardanti l’attore: a) la questione della finzione: come stabilire il confine tra l’autenticità di un sentimento vissuto e la finzione che lo recita? i gesti e le espressioni esteriori sono infatti sempre le stesse, soprattutto se chi finge è bene allenato, ma della vita interiore non c’è altra testimonianza che appunto questi gesti e queste espressioni! In realtà l’autenticità del sentire è dubbia anche per colui che lo enuncia e lo prova o crede di provarlo: quando lo analizziamo a cosa si riduce il sentimento che proviamo? In questo senso il problema dell’attore è una metafora di un’esperienza psicologica molto comune: l’impossibilità di capire l’autenticità di un sentimento provato. b) la questione del ruolo: actor è per eccellenza «colui che agisce», ma agisce sulla base di un preciso mandato, il «ruolo»; ma ciò significa che la sua azione è libera o determinata? dove si colloca il limite tra il ruolo imposto e il margine dell’interprete. Anche in questo senso l’attore diviene metafora, pone cioè il problema quasi metafisico di stabilire in quale misura siamo predestinati all’azione e quanto invece l’azione sia libera e di nostra iniziativa, in Shakespeare ad esempio si presenta sovente la figura dell’attore come metafora dell’uomo marionetta nelle mani del fato, condannato ad agire senza conoscere né le ragioni né le conseguenze del suo agire, come l’attore che riceve il papel, in spagnolo la «parte», letteralmente la «carta» dove è scritto cosa c’è da fare. 2. Teorie dell’attore e della recitazione A partire da questi due problemi fondamentali inizia una lunga interrogazione sulla funzione dell’attore:

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L’ATTORE E LA RECITAZIONEdi Cesare Molinari

1. L’attore come problema e come metaforaIl modo più interessante di dire «attore» è sicuramente il termine greco hypokrités, che deriva dal verbo krino, che significa «discernere, decidere», ma in questo senso «interpretare». Dunque originariamente vale per «colui che interpreta» eppure nella nostra lingua e in tutte le altre l’ipocrita è «colui che finge», dunque il significato «attoriale» ha scavalcato e riassorbito il significato originale del termine, questo introduce a due problemi decisivi riguardanti l’attore:

a) la questione della finzione: come stabilire il confine tra l’autenticità di un sentimento vissuto e la finzione che lo recita? i gesti e le espressioni esteriori sono infatti sempre le stesse, soprattutto se chi finge è bene allenato, ma della vita interiore non c’è altra testimonianza che appunto questi gesti e queste espressioni! In realtà l’autenticità del sentire è dubbia anche per colui che lo enuncia e lo prova o crede di provarlo: quando lo analizziamo a cosa si riduce il sentimento che proviamo? In questo senso il problema dell’attore è una metafora di un’esperienza psicologica molto comune: l’impossibilità di capire l’autenticità di un sentimento provato.

b) la questione del ruolo: actor è per eccellenza «colui che agisce», ma agisce sulla base di un preciso mandato, il «ruolo»; ma ciò significa che la sua azione è libera o determinata? dove si colloca il limite tra il ruolo imposto e il margine dell’interprete. Anche in questo senso l’attore diviene metafora, pone cioè il problema quasi metafisico di stabilire in quale misura siamo predestinati all’azione e quanto invece l’azione sia libera e di nostra iniziativa, in Shakespeare ad esempio si presenta sovente la figura dell’attore come metafora dell’uomo marionetta nelle mani del fato, condannato ad agire senza conoscere né le ragioni né le conseguenze del suo agire, come l’attore che riceve il papel, in spagnolo la «parte», letteralmente la «carta» dove è scritto cosa c’è da fare.

2. Teorie dell’attore e della recitazioneA partire da questi due problemi fondamentali inizia una lunga interrogazione sulla funzione dell’attore:

- nel Settecento fioriscono i primi trattati specificamente dedicati all’attore. Si affrontano due prospettive: a) coloro che ritengono caratteristica fondamentale dell’attore la sensibilité, cioè una eccezionale capace di entrare in empatia con i sentimenti dei personaggi; b) coloro che, all’opposto, ritengono gli attori freddi ripetitori del gesto e dell’espressione, privi però di qualsiasi trasporto emotivo e proprio per questo lucidamente capaci di riprodurre i segni solo esteriori della passione; tra queste due tendenze, più vicino alla seconda, s’inserisce Diderot, con il suo Paradosso dell’attore: secondo Diderot però l’attore, più che un freddo imitatore è soprattutto un lucidissimo osservatore, egli cioè è, al pari dell’autore, un vero e proprio creatore che crea usando innanzitutto la sua capacità di guardare e capire il modo in cui gli uomini si esprimono (questo aspetto della teoria di Diderot è stato per lo più trascurato dalla maggioranza dei suoi lettori);

- nel Romanticismo si afferma una teoria più complessa: non si tratta soltanto di evocare le passioni o di provarle su di sé, ma della capacità di sdoppiarsi, di guardarsi mentre si soffre, mentre si gode, mentre si ride o si piange, l’essenza dell’attore è dunque la capacità dello sdoppiamento riflessivo (questo aspetto tornerà ad essere molto importante per i teorici del ‘900);

- Naturalismo e Simbolismo disprezzano l’attore ma per ragioni diverse: i naturalisti disprezzano l’attore perché tende a prendersi libertà rispetto al testo, mentre dovrebbe seguire alla lettera le indicazioni del regista che gli permettono di rimanere attinente al vero e al quotidiano; i

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simbolisti perché l’attore, con la sua sola presenza, mette in pericolo l’incontro metafisico con il Vero, cioè con ciò che può essere solo simbolizzato e appartiene ad una sfera assolutamente altra rispetto alla bruta materialità dei corpi;

- in Gordon Craig l’attore è destinato a scomparire nella Super-Marionetta, cioè in un perfetto strumento che esegua alla perfezione l’idea estetica-figurale del regista;

- in Adolphe Appia l’attore è invece chiamato a farsi strumento della musica, sul modello wagneriano, costituendo con il suo corpo danzante il supporto che il ritmo utilizza per organizzare lo spazio, la centralità dell’attore è dunque quella di un corpo che offre geometria ad un ritmo musicale; in entrambi questi autori si coglie una decisiva rivoluzione novecentesca: l’attore non è più principalmente colui che interpreta un personaggio, ma piuttosto colui che abita/organizza uno spazio attraverso il proprio corpo;

- in Konstantin Stanislavskij il teatro tende ad identificarsi con l’attore e ciò che avviene sulla scena non è mimesi della realtà, ma realtà effettuale, effettuale deve dunque essere l’interpretazione del personaggio da parte dell’attore, l’attore deve essere capace di compiere su se stesso una sorta di montaggio cinematografico delle emozioni e degli stati psicologici, vivendo sulla propria pelle ciò che il personaggio richiede e anche di più; ma per poter fare questo egli deve rinascere in una situazione altra da quella quotidiana;

- in Mejerchol’d all’opposto non c’è alcun riferimento alla vita intima e psicologica, al contrario, l’attore è puro portatore di segni che gli sono di per sé indifferenti, deve essere una via di mezzo tra l’operaio della fabbrica, dai movimento studiati a tavolino, parcellizzati per ottenere il miglior rapporto sforzo/risultato e l’acrobata del circo, che esegue con noncuranza le più strane evoluzioni;

- per Jacques Copeau l’attore non è tanto un artista (come invece per Stanislavskij), ma piuttosto un artigiano, che compie innanzitutto un lavoro fisico richiedente un allenamento fisico; ma questo lavoro fisico ha un risvolto etico e spirituale, va cioè nella direzione della sincerità, intesa come quel «sentimento di calma e potenza, di dominio che permette all’artista di essere posseduto da ciò che esprime e di dirigerne l’espressione»; questo fa dell’attore non un professionista, ma piuttosto un ricercatore nel campo dello spirito, un aspirante a rappresentare la nuova umanità;

- per Brecht invece l’attore torna ad essere il portatore di segni, perché per lui il teatro è prioritariamente il luogo della comunicazione di una coscienza storica e politica; l’attore di Brecht è perciò «straniato», perché mentre trasmette sentimenti o informazioni, trasmette anche dei segni che invitano a codificarli e a metterli sotto critica, recuperando ma anche in qualche maniera rovesciando in senso anti-espressivo, quell’idea dell’attore che si sdoppia. L’attore brechtiano emette una duplice serie di segni: una con la quale trasmette le situazioni e il personaggio, l’altra con la quale prende le distanze da essi;

- secondo Artaud, come per Stanislavskij, il teatro non è mimesi, ma avvenimento reale per quanto effimero. I gesti dell’attore sono virtuali, sono cioè gesti che non sono volti ad ottenere l’effetto, ma a suscitare delle forze, a operare delle trasmutazioni, dei cambiamenti di segno nell’esistente, perciò i gesti dell’attore sono simili a quelli dell’alchimista. L’attore è «atleta delle passioni», la cui virtù è ad esempio quella di compiere il gesto di uccidere senza uccidere, ma chiamando in causa le forze della morte per esibirle e mostrarle;

- per Grotowski l’attore «è l’uomo che, lavorando in pubblico con il suo corpo, lo dà pubblicamente» in sacrificio, con lui l’attore si denuda completamente, lasciando solo l’essenza, cioè la sincerità, un santo;

- in Eugenio Barba l’idea di attore procede direttamente dal confronto con il teatro orientale: l’attore orientale, al contrario di quello occidentale, si dà una rete di regole, queste regole sono basate sulla eliminazione dell’atteggiamento quotidiano, e permettono all’attore di dotarsi di una grammatica forte, basata su un principio opposto a quello della vita di tutti i giorni, cioè sul principio dello spreco: l’attore deve scomporre il proprio corpo per ricomporlo in forma differente da quella della vita quotidiana.

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3. L’interprete e il personaggioInizialmente il personaggio consiste in un coacervo di battute e qualche didascalia in certi casi e l’attore che deve farsi interprete può/deve compiere vari tipi di operazioni su di esso:

a) completamento: si tratta innanzitutto di fare di queste membra sparse un’entità autonoma che non si riduce alla somma delle battute, di comprendere quindi il valore simbolico, la funzione nel contesto del dramma e le caratteristiche fisiche, psicologiche e morali del personaggio (su queste caratteristiche si basa il principio del physique du role, alla base della strutturazione «per ruoli» di molte compagnie come quelle della Comèdie Française o dell’ottocento italiano); in linea di principio questo significa considerare idealmente il personaggio come un individuo reale;

b) tipizzazione: il personaggio diviene un «tipo», assume cioè comportamenti, andature, atteggiamenti, nevrosi, manie che possono essere creazione autonoma dell’attore, suggeriti dal regista o dall’autore stesso (i personaggi di Molière erano fortemente tipizzati, in quanto erano portatori di monomanie che li rendevano particolarmente coerenti);

c) identificazione (o straniamento): spesso l’attore conduce implicitamente un confronto tra sé ed il personaggio, che gli serve per «entrare» nella parte, o, in alcuni casi, per uscirne, come avviene nel teatro brechtiano, basato appunto sulla capacità dell’attore di prendere le distanze dal personaggio mentre lo interpreta. La Duse ad esempio dichiarava di provare pena per le donne che era chiamata ad interpretare, pertanto entrava con loro in un rapporto di com-passione che non era identificazione pura, ma mediata, in quanto passava per un confronto con i propri sentimenti;

d) reviviscenza: è il termine usato da Stanislavskij per indicare la identificazione pura che i suoi attori dovevano applicare nei confronti del personaggio. Egli chiede all’attore di comporre l’intera personalità del personaggio, non solo i suoi tratti fisici e morali, ma la sua storia, il suo vissuto, l’attore diventa il biografo del suo personaggio. L’attore conosce il personaggio come una propria creazione sulla base dei dati drammaturgici forniti dall’autore, ma al contempo lo ricrea, vive e rivive al suo posto la sua vita immaginata.

e) strumentalizzazione: con Grotowski e Barba il rapporto si rovescia: il personaggio diventa strumento nelle mani dell’attore, mezzo in mano all’attore per esprimere se stesso e la propria individualità profonda; Barba crea uno spettacolo assegnando a ciascuno dei suoi attori il compito di creare un personaggio e intrecciando le storie dei vari personaggi così creati.

4. Le compagnieNell’antica Grecia le compagnie cominciarono ad esistere tardi, solo all’epoca di Alessandro (330 a. C.), nella forma di formazioni permanenti e nomadi di artisti teatrali.Nell’Antica Roma vi furono compagnie stabili guidate da un impresario principalmente nel breve periodo, tra III e II sec. a. C. nel quale vi fu la fioritura della commedia con Plauto e Terenzio.Nel Medioevo, e per oltre un secolo, le compagnie scomparvero quasi del tutto, si ridussero a giullari solitari o quasi, i giullari però non devono essere confusi con veri e propri attori, essi sono piuttosto dei «professionisti del divertimento».

Tra il ‘500 e il ‘600, con il passaggio dall’economia della festa all’economia di mercato, la compagnia rinasce: in Italia, Francia, Inghilterra e Spagna l’apertura di teatri a pagamento coincide con il riformarsi di compagnie professionali. La data di nascita è il 1545, quando a Padova si sigla il famoso contratto tra sette uomini che si mettono in società per fare rappresentazioni drammatiche; con questo non nasce solo un’impresa economica, ma anche un ideologia (non sempre coincidente con la realtà) basata sull’idea di «collaborazione paritetica» e «reciproco aiuto». Possiamo analizzare la fase tra ‘500 e ‘600 in modo approfondito, perché è il momento decisivo della storia delle compagnie di attori:

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a) dal punto di vista economico: ad ogni attore spettava una parte, ai più giovani e meno prestigiosi una frazione di parte dell’incasso netto;

b) dal punto di vista politico: in Italia le compagnie furono costrette a mettersi al servizio dei duchi; in Francia cercarono fin dal principio la protezione della real casa e del re; in Inghilterra erano obbligati, spesso per legge, a chiedere la protezione dei nobili, divenendo loro servitori personali, per non essere considerati come gruppi di vagabondi o mendicanti;

c) dal punto di vista della mobilità: da principio tutte le compagnie furono nomadi. In seguito però questa divenne una caratteristica dei soli gruppi italiani. In Francia e in Inghilterra l’attrattiva esercitata dalla capitale e dalla corte ben presto fece sì che le compagnie si apparentassero stabilmente con un teatro del quale divenivano la compagnia ufficiale. Ad esempio in Inghilterra il definitivo stanziarsi a Londra della compagnia di Shakespeare (Chamberlain’s Men) coincide con la costruzione del primo autonomo edificio teatrale dell’età moderna, ma questo edificio (il Theatre) apparterrà alla compagnia stessa! Questo però è un caso limite, di solito le compagnie erano in affitto nei teatri.

d) Dal punto di vista dell’organizzazione interna: la struttura della compagnia ricalcava, soprattutto in Italia, i ruoli richiesti dalla commedia: due vecchi, due servi, due giovani amanti, essendo tutti indispensabili alla commedia la compagnia funziona in modo paritetico. In seguito, nel corso del ‘700 si sarebbe sviluppata la vera e propria compagnia divisa per ruoli: esempio principale la Comèdie Française, che si struttura per emplois divisi per genere (comico/tragico), e rigidamente gerarchici, con rimpiazzi destinati a sostituire in casi limite il detentore di diritto di un certo emploi. In Italia solo nell’800 i ruoli sono divisi tra primari e secondari.

Nel teatro contemporaneo sono molto pochi i teatri stabili che hanno una compagnia, piuttosto si tende ad allestire ad hoc un gruppo di attori per ogni rappresentazione. La compagnia diventa dunque caratteristica dei gruppi di attori senza teatro stabile, costretti o per loro volontà, a vivere di nuovo l’esperienza del nomadismo e delle tournées. In questo senso si profilano nella seconda metà del ‘900 due tipi di esperienza della compagnia:

1) il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, nel quale la compagnia è intesa come una vera comunità anarchica, dove gli associati condividono donne, beni e soprattutto idee. Agli spettacoli partecipavano tutti gli attori (circa una quarantina); la preparazione dello spettacolo serviva all’elaborazione delle idee del gruppo e la funzione del teatro era la comunicazione di quelle idee;

2) la linea che va da Copeau a Grotowski e Barba, invece, pensa la compagnia come la cellula base del rinnovamento del teatro, ma anche del rinnovamento etico-spirituale dell’uomo. Per Copeau il teatro si identifica con la struttura della compagnia, «insieme di persona che , sotto una guida autorevole e indiscussa, si dedica al servizio dell’arte». In Grotowski la compagnia non è più finalizzata allo spettacolo, ma fine a se stessa, cioè volta alla formazione di una micro-società di uomini-attori che sviluppano tutte le loro capacità espressive. Una micro-società il cui valore sta nel farsi, nel formarsi, non nel produrre spettacoli.

5. Il training e le scuoleTraining significa allenamento, ma in relazione al mestiere o all’arte dell’attore il significato si amplia. Per Eugenio Barba il training si identifica con la vita del teatro. Esso diventa dunque, più che allenamento, educazione. Con tre aspetti principali:

a) preparazione specifica a produrre un dato exploit in situazioni più o meno determinate;b) acquisizione di abilità fisiche, atletiche, acrobatiche, ma anche psicologiche, quali la

concentrazione e il rilassamento;c) preparazione di ordine culturale, specifica o generica.

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Il training può essere individuale o collettivo, volto a sviluppare le capacità di osservazione dell’individuo oppure a creare riflessi d’interazione all’interno di un gruppo. Si può dire che vi sono molti tipi di training perché esso non mira alla formazione dell’attore in generale, ma piuttosto alla formazione di un determinato tipo di attore.

Le fonti attestano la lettura di classici della letteratura e della filosofia come parte integrante del training già ai tempi della commedia dell’arte (ovviamente non si chiamava ancora così), così come l’improvvisazione, che era parte decisiva e centrale degli bagaglio degli attori nomadi del cinque-seicento, l’elemento dell’improvvisazione tornerà decisivo nel corso del ‘900.

Il rapporto maestro/allievo all’interno delle compagnie poteva essere paragonato a quello tra un maestro di bottega e un garzone apprendista. Nelle compagnie inglesi i grandi attori aveva apprendisti sotto la loro responsabilità individuale.

Nel corso del ‘700, quando nascono le prime scuole di recitazione in Europa, l’attenzione si rivolge innanzitutto all’suo corretto della parola e alla dizione, recitare era innanzitutto essere oratori.

In Italia nei primi anni dell’800 fioriscono scuole per attori incentrate soprattutto sulla dizione, ma il loro fine, più che formare attori, è quello di insegnare il «bel parlare». Non dunque scuole per teatro, ma insegnamento teatrale che diventa scuola per la vita e per la formazione del cittadino.

È nel corso del ‘900 che il training assume nuova centralità nella vita teatrale, con l’apertura di scuole che si distinguono dalle accademie, perché sono volte a formare non attori da introdurre in un teatro che già c’è, ma capaci di rivoluzionare il modo di fare teatro contribuendo alla nascita di un teatro che non c’è ancora:

1) Stanislavskij appronta un vero e proprio sistema, detto psicotecnica. Come dice il nome, il carattere del suo training è innanzitutto psicologico, volto ad ottenere il controllo degli stati emozionali, solo secondariamente esso riguarda abilità fisiche, dal momento che l’attore deve ri-nascere, dunque imparare da capo anche a camminare, saltare, correre;

2) Actors Studio è la più famosa scuola per attori dell’ultimo secolo ed è ispirata a Stanislavskij. Si tratta di una scuola di perfezionamento, non indirizzata ai principianti, ma ad attori che già lavorano nel campo del teatro o del cinema. Si tratta di un metodo inteso come aggiornamento del sistema stanislavskijano. Il direttore Lee Strasberg si concentrava innanzitutto sul concetto di «memoria affettiva», che è alla base dell’immaginazione e pertanto è indispensabile non solo agli attori, ma a tutti gli artisti; per Strasberg l’attore non deve tanto ri-nascere, quanto rimuovere gli ostacoli, dovuti alle abitudini espressive della vita quotidiana che gli impediscono di esprimere pienamente le sue emozioni;

3) Jacques Copeau, per lui scuola e teatro si identificano, forma un dettagliato programma basato su ginnastica ritmica, ginnastica tecnica, acrobazia, danza, canto, strumentistica, gioco, lettura e recitazione poetica, improvvisazione e artigianato, ma anche studio del repertorio e istruzione generale, era dunque una scuola formativa, che mirava umanisticamente alla formazione di tutte le sfere della personalità umana;

4) Jerzy Grotowski è colui che porta alle estreme conseguenze il concetto di training, questo gli deriva dalla sua conoscenza del teatro orientale: in Oriente, e in particolare nel teatro Kathakali indiano, l’attore è sottoposto a una formazione intensiva che deve iniziare non oltre i dodici anni e che prevede l’acquisizione di abilità quasi sovrumane, come il controllo di ogni singolo muscolo di ogni parte del corpo e

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l’apprendere a memoria ogni singola parola gesto o movimento che spettano ad una parte che gli potrebbe capitare di interpretare. Gli esercizi sono al limite della tortura. Grotowski trattiene l’essenza della concezione orientale: la conquista dell’immediatezza, cioè della «presenza», che consiste nell’annullamento della distanza tra gesto fisico e movimento spirituale, nella loro perfetta coincidenza, anch’essa da ottenere tramite l’eliminazione degli ostacoli che si frappongono fra l’intuizione e l’espressione;

5) Eugenio Barba: pur prendendo spunto da Grotowski elimina concetti come sincerità e naturalezza. Per lui il training è una forma di condizionamento che deve condurre al punto di rottura l’equilibrio, raggiungendo il «momento pre-espressivo», cioè il momento in cui si assume l’atteggiamento opposto a quello che si dovrà poi assumere, come avviene ad esempio nelle discipline quali il lancio del peso, quando l’atleta di prepara al lancio.

6. I rapporti tra attore, regista, autore

Bisogna sfumare la concezione secondo la quale il regista sia assente dal teatro fino al ‘900, in realtà vi sono molte figure che svolgono una funzione simile a quella del regista, almeno nel mediare l’interpretazione del testo. Si può dire che per un lungo periodo e in molti casi l’autore fu regista del suo stesso testo, ma solo dal punto di vista, appunto letterario, e non dal punto di vista coreografico, per cui per lungo tempo gli attori si muovevano sul palco senza una direzione precisa e solo con l’obiettivo di recitare la loro parte. In realtà però la funzione registica era già implicita, per quanto riguarda la scelta delle parti, nelle compagnie organizzate per ruoli: ogni ruolo ha le cause caratteristiche e ogni parte corrisponde ad un ruolo del quale tutti conoscono le caratteristiche. Il pioniere della regia Ludwig Chronegk, a capo della compagnia del Duce di Meininger negli anni ’70 dell’800 per prima cosa distribuiva i ruoli, dunque poneva fine a questa regia implicita nel fatto che la compagnia fosse organizzata per ruoli. Si può dire che il regista appaia ad un certo punto intromettendosi nel rapporto tra autore e attore, divenendo prima il mediatore di questo rapporto, e poi il vero e proprio autore, unico responsabile della qualità artistica dell’operato sia dell’autore sia dell’attore. Stanislavskij non la vede così, per lui il rapporto autore-attore è come quello tra una uomo e una donna che danno alla luce un figlio (il personaggio), e il regista non è terzo incomodo, ma la levatrice, che garantisce la nascita.Paradossalmente in Barba e Grotowski, che rappresentano il trionfo dell’attore e del momento delle prove sullo spettacolo e sulla potenza del regista, che tendono a vedere nell’attore il vero protagonista spirituale del teatro, l’unità stilistica e il successo di spettacoli (che sono intesi come “testimonianza del lavoro svolto” più che come momenti fondativi del teatro) dimostra invece come il loro training inteso come l’attività principale che il regista svolge sugli attori, non li abbia affatto condotti a trovare la loro personale espressione, ma piuttosto a diventare tutti personali espressioni del regista che è «spettatore unico» e privilegiato del loro lavoro quotidiano.