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TRIMESTRALE DELL’ACCADEMIA URBENSE DI OVADA GIUGNO 2013 ANNO XXVI - N° 2 Poste Italiane s.p.a. Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB/AL Il castello di Racconigi residenza reale dei Savoia L’Oratorio di N.S. Assunta di Campo Ligure Alle origini del Monferrato Carpeneto 1678: non è un paese per vecchi Ovada, d’Africa: fra ricordi e storia L’assedio di Rocca Grimalda L’Oratorio di N.S. Assunta a Rossiglione Inferiore SILVA ET FLUMEN giugno 2013 drp:Layout 1 4-07-2013 9:24 Pagina 1

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TRIMESTRALE DELL’ACCADEMIA URBENSE DI OVADA

GIUGNO 2013ANNO XXVI - N° 2

Poste Italiane s.p.a.Spedizione in Abbonamento Postale

D.L. 353/2003 (conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46)art. 1, comma 1, DCB/AL

Il castello di Racconigi residenza reale dei Savoia

L’Oratorio di N.S. Assuntadi Campo Ligure

Alle origini del Monferrato

Carpeneto 1678: non è un paese per vecchi

Ovada, d’Africa: fra ricordi e storia

L’assedio di Rocca Grimalda

L’Oratorio di N.S. Assuntaa Rossiglione Inferiore

SILVA ET FLUMEN

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Periodico trimestrale dell’Accademia Urbense di OvadaDirezione ed Amministrazione P.zza Cereseto 7, 15076 OvadaOvada - Anno XXVI - GIUGNO 2012 - n. 2Autorizzazione del Tribunale di Alessandria n. 363 del 18.12.1987Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003(conv. in L. 27 / 02 / 2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB/ALConto corrente postale n. 12537288Quota di iscrizione e abbonamento per il 2013 Euro 25,00Direttore: Alessandro LaguzziDirettore Responsabile: Enrico Cesare Scarsi

Alle origini del Monferrato: Aleramo e il suo tempodi Flavio Rolla p. 092L’assedio di Rocca Grimalda. Poema di Francesco Roccaa cura di Gian Luigi Bruzzone p. 099Il Monte Frumentario dell’Annunziata di Ovadadi Paola Piana Toniolo p. 113Vincenzo Stefano Muricchio: un Geniale tecnico nella squadra di progettisti del fucile Modello 91di Pier Giorgio Fassino p. 116La confraternita “dei Disciplinati” e l’Oratorio di N. S. Assuntain Campo Liguredi Paolo Bottero p. 121L’Oratorio di N. S. Assunta di Rossiglione Inferiore:un bene storico artistico da salvaredi Simone Repetto p. 131Due sculture restaurate a Santa Limbania di Rocca Grimalda:La Madonna del Carmine e Sant’Antoniodi Antonella Rathschuler p. 136Note sul restauro della Madonna del Carminedi Valentina Boracchi e Viviana Sgaminato p. 141Note sul restauro del gruppo scultoreo di S. Antonio da Padovadi Valentina Boracchi e Viviana Sgaminato p. 142Carpeneto 1678: non è un paese per vecchidi Lucia Barba p. 144Ovada d’Africa, una sorella dimenticatadi Pier Giorgio Fassino p. 153Ovada “Honeymoon” safari - June 1947. dal diario di Mrs. Marjorie Allendi Cinzia Robbiano p. 157Un silvanese a fianco di Erminio Macario; Pupi Mazzucco: una vita per lo spettacolodi Eros Palestrini p. 159I Martinenghi come luogo della memoria: Lele Luzzatia cura dell’Associazione “Amici di Bozzolina” p. 165La tramvia Novi - Ovadadi Tiziana Rossi p. 166U trenein da Nove a Uòdi Tonino Tassistro p. 169Marcello Venturi e Cefalonia, l’isola dell’eccidiodi Pier Giorgio Fassino p. 170Recensioni: VITTORIO BONARIA, Storia della Diga di Molare. Il Vajont dimenticato, (Lu ca Mercalli); GIANNI REPETTO, Come le lucciole (Carlo Prosperi): FEDERICO FORNARO,Pierina, la staffetta dei ribelli (francesco edoardo de salis); MARIO TAMBUSSA,Delibere del Comune di Capriata d’Orba 1600 -1946 (Paolo Bavazzano) p. 171

SILVA ET FLUMEN

SOMMARIO

Sede: Piazza Giovan Battista Cereseto, 7 (ammezzato); Tel. 0143 81615 - 15076 OVADAE-mail: [email protected] - Sito web: accademiaurbense.itURBS SILVA ET FLUMEN Stampa: Litograf. srl, - Via Montello, Novi Ligure

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La mostra che si è tenuta a maggio, alla Gal-leria il Vicolo, di alcune opere della quadre-ria di Nino Natale Proto ci ha offerto ilpretesto per far conoscere ai nostri Socil’avvenuta ristrutturazione di quei locali. Agiudicare dai commenti che abbiamo rac-colto il risultato raggiunto è stato apprezzato.Gli spazi sono stati riorganizzati e bonificatidalle infiltrazioni di umidità mentre le paretisono state ade gua ta mente isolate. I lavori,affidati all ditta CESA, si sono svolti sotto lasapiente regia dell’Arch. Andrea Lanza e so-no stati seguiti giornalmente per conto del-l’Accademia da Giacomo Gastaldo, a lo ro ilrin gra ziamento più sentito.Sebbene la presenza delle opere fosse secon-daria per i nostri fini tuttavia, esse hanno de-stato grande interesse ed anche in questopossiamo ritenerci soddisfatti.Il nostro patrimonio archivistico continua adarricchirsi grazie alla generosità dei Soci; inparticolare è giusto segnalare la recente do-nazione di preziose lastre fotografiche dellaSignora Licia Maineri, riguardante l’archi-vio di Ernesto Maineri editore delle carto-line illustrate dell’intero Ovadese e delleValli Stura e Orba. A Lei un grazie di cuore.E’ scomparsa in questi giorni La Sig.ra Gian-nina Schiavina di Montaldo B., alla Fami-glia le nostre più vive condoglianze. A noirimane la speranza che la sua opera di ricer-catrice delle memorie del paese natale vengacontinuata dal Marito Ing. Moretta, che con-divideva con Lei questa passione.Il neo senatore Federico Fornaro (a Lui au-guri di buon lavoro) ha reso omaggio alla fi-gura di Pierina Ferrari (Milly) valorosa staf-fetta partigiana con la pubblicazione dellasua biografia. Noi vogliamo ricordarla anchecome socia partecipe ed affezionata al no-stro sodalizio.Vittorio Bonaria ha editato: Storia della digadi Molare, frutto del lavoro di anni di attentaricerca. Si tratta di una pubblicazione esau-riente sull’argomento che ci sentiamo diconsigliare a tutti gli appassionati della sto-ria del nostro territorio.É in dirittura d’arrivo la Guida di Taglioloche ha richiesto un notevole lavoro di ricercaed è destinata a soddisfare pienamente leaspettative di tutti coloro, e sono tanti, chevogliono conoscere a fondo la storia e le bel-lezze del paese monferrino.

Alessandro LaguzziPaolo Bavazzano

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Aleramo viene considerato il fonda-tore della cosiddetta Marca Aleramicache comprendeva una estensione territo-riale situata fra il Po ed il mare con i Co-mitati di Monferrato, Acqui, Savona. Allasua destra confinava con la Marca Ober-tenga comprendente i comitati di Mi-lano, Pavia, Tortona e Genova. Alla suasinistra la Marca Arduinica con i comi-tati di Torino, Asti, Mondovi, Alba ed Al-benga.

Da lui prende origine una stirpe, gliAleramici che ebbero signoria su vastiterritori, ma è con Guglielmo il Vecchio(1135-1190) che prende vera consistenzaquello che diventerà il Marchesato delMonferrato, entità territoriale e politicache sopravvisse, pur con diversi cambia-menti di dinastie, fino al 1708 quando, re-gnante Vittorio Amedeo II, ven ne inglo-bato nello stato Sabaudo.

Aleramo, il capostipite, divenne unpersonaggio mitico ed intorno a lui creb-bero leggende, specie di Chansons deGeste, simili a quelle che interessaronoaltri personaggi come Arduino il Glabro,Beroldo il Sassone. Chi raccolse questetradizioni fu un frate domenicano, fra Ja-copo Bellingeri da Acqui, il quale nelsuo Chronicon imaginis mundi (primametà del XIV sec,) riporta, senza citare lefonti, una fantasiosa storia riguardanteAleramo, storia che dopo di lui sarà ri-presa da altri autori fino ad interessareGiosuè Carducci. Questo per sommi capiil racconto di Fra Iacopo Bellingeri.

Nel 934 il nobile Aldebrando di ori-gine sassone e la moglie si mettono inviaggio diretti a Roma per esaudire unvoto fatto al fine di propiziarsi la nascitadi un erede, grazia che era stata esaudita.Giunti nei pressi di Sezzè, l’odierna Sez-zadio, la moglie venne colta dalle dogliedel parto. Il viaggio venne temporanea-mente interrotto per far nascere un bam-bino a cui venne imposto il nome diAleramo. Dopo circa un mese i coniugiripresero il pellegrinaggio verso Romama per evitare al piccolo Aleramo glistrapazzi del viaggio egli venne lasciato aSezzè col proposito che i genitori sereb-bero tornati a riprenderlo al ritorno. Arri-vati a Roma e sciolto il voto, nel viaggiodi ritorno essi persero entrambi la vita

forse vittime dei briganti che in queltempo infestavano le principali vie di co-municazione. Aleramo rimasto orfanovenne adottato dai signori di Sezzé ecrebbe gagliardo e coraggioso. Ottone Isceso in Italia stava assediando Bresciasenza successo e chiese ai Signori italianiaiuto militare. Aleramo quindicennevenne inviato al campo dove si distinsetanto che Ottone volle incontralo di per-sona. Per ricompensare il valore da luidimostrato in battaglia lo ammise alla suacorte come coppiere. Qui avvennel’incontro fatale tra il prode Aleramo e lafiglia di Ottone, Alasia. Ottone non ap-provava la relazione fra i due giovani sic-ché a loro non rimase altra alternativa chela classica fuga insieme. Il padre di Ala-sia non accettò il fatto compiuto e sguin-zagliò i suoi armati in cerca dei fuggitivi.Aleramo e Alasia si rifugiarono nelle fittee impenetrabili foreste che ricoprivanoallora l’Appennino ligure e per sopravvi-vere Aleramo si adattò all’umile mestieredel carbonaio. Secondo la leggenda lacoppia ebbe addirittura sette figli. Ot-tone, ridisceso in Italia, aveva nuova-mente posto assedio a Brescia e richiestoaiuto ai signori italiani. Il vescovo di Al-benga, il quale in qualità di Vescovo-Conte aveva obblighi di assistenzamilitare nei confronti dell’Im peratore,con un drappello di soldati si recò alcampo senza rinunciare completamenteagli agi a cui era abituato. Infatti con-dusse con se il suo personale di cucina tracui figurava come assistente Aleramo.

I Bresciani con una audace sortitaavevano messo in fuga i soldati dell’Im -peratore e si erano avvicinati tanto allasua tenda da minacciarne la vita. Ale-ramo, sentito l’odore della battaglia, get-tate alle ortiche le pentole, indossòl’armatura, prese una spada, saltò su uncavallo e si gettò nella mischia. Il suo in-tervento fu risolutivo. Ottone volle cono-scere l’intrepido cavaliere e venne così aconoscenza della sua vera identità. Neseguì il perdono e la ricompensa. Glivenne promesso che sarebbe entrato inpossesso di tutte le terre che sarebbe riu-scito a percorrere a cavallo in tre giorni.Dopo due giorni di folle cavalcataAleramo visto che il suo cavallo zop -

picava ne controllò la ferratura ed aven-dola trovata non perfetta la risistemò ado-perando un mattone. Il Monferrato fucosì chiamato da mattone (mun in mon-ferrino) e ferrato (frha).

Cosa c’è di storico in un racconto cosìleggendario? Ben poco, ma non tutto èfavola. Come le ricerche storiche hannoin seguito dimostrato Aleramo era figliodi un conte Guglielmo, di origine germa-nica ma non Sassone bensì Franca, infattii suoi successori si dichiareranno osser-vanti la legge salica tipica dei Franchi.Sposò in seconde nozze non l’unica figliadi Ottone I che si chiamava non Alasiama Liutgarda andata sposa a Corradoduca di Franconia, bensì Girberga fi-glia del Re d’Italia Berengario II.L’investitura di Aleramo a signore dellaMarca Aleramica fu effettivamente operadi Ottone I Imperatore con un diploma ri-lasciato a Ravenna il 25 Marzo del 967.

Aleramo inizia e consolida le sue for-tune in quel periodo storico caratterizzatodelle convulsioni politiche succedutesi inItalia tra la scomparsa del l’ul timo dei Ca-rolingi, Carlo il Grosso, avvenutanell’887 e l’avvento di Ottone I nel 967.In quegli anni si succedettero al potere inItalia fra Re e Imperatori ben dieci per-sonaggi, molti di essi venuti fuorid’Italia: Berengario I, Guido da Spoletoed il figlio Lamberto, Arnolfo di Carin-zia, Ludovico e Rodolfo di Borgogna,Ugo di Provenza ed il figlio Lotario, Be-rengario II ed il figlio Adalberto.

Questa per sommi capi la situazionedell’Italia di allora. La penisola era uncoacervo di staterelli. Il più vasto era aNord, il cosidetto Regno d’Italia, checomprendeva l’Italia Nord-Occidentale,l’Emilia, parte del Veneto e della To-scana, ed il cui titolo spettava di dirittoall’Imperatore del Sacro Romano Imperoin carica. La capitale era Pavia, anticasede dei Re Longobardi che non avevaperso la sua importanza sotto i Carolingitanto che Carlomagno alla morte del suoprimogenito Pipino (810) aveva nomi-nato il figlio di Pipino, Bernardo, Red’Italia, destinandogli come sede Pavia.Al centro si situavano i Ducati di Toscanae di Spoleto ed il cosiddetto Patrimoniodi S.Pietro governato dal Papa di Roma.

Alle origini del Monferrato:Aleramo ed il suo tempodi Flavio Rolla

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Più a sud il Ducato Longobardo diBenevento e quanto era rimasto deipossedimenti bizantini in Italia. LaSicilia era diventata una coloniaislamica e da essa partivano razzieverso le coste italiane. Gli Arabi sierano installati in Spagna e avevanocostituito tra la fine del IX e l’iniziodel X secolo una enclave in Pro-venza a Frassineto (l’odierno abitatochiamato La Garde Freinet vicino aSaint Tropez) che serviva loro comebase per spedizioni sulle coste ligurie francesi con ampie penetrazioninell’interno (nel 906 giunsero fino a Susache occuparono per quasi cinquant’an-ni). Furono sconfitti ed il loro covo pro-venzale distrutto da Guglielmo Marchesedi Provenza coadiuvato da Arduino mar-chese di Torino dopo che il 21 luglio del983 ebbero l’impudenza di sequestrareMaiolo abate di Cluny in visita all’abaz-zia della Novalesa e chiederne per la libe-razione una forte somma come riscatto.

Scomparso Carlo il Grosso l’Italia sitrovò allora preda dell’anarchia e in baliadei vari conti, marchesi e duchi i qualiderivavano il loro potere, almeno teori-camente, dall’Imperatore, ma scom parsolui non rappresentavano altro che sestessi e le loro ambizioni. Intrigavano,corrompevano e si lasciavano corrom-pere pronti a cambiare bandiera secondola convenienza del momento, arruola-vano milizie e si scontravano fra loro in-stancabilmente.

Nell’888 emersero due personaggi:Gui do, Duca di Spoleto e BerengarioMarchese del Friuli. Entrambi potevanovantare una lontana parentela coi Caro-lingi e si sentivano in diritto di aspirareal trono d’Italia. Berengario battè sultempo Guido e nei primi mesi del 888 sifece proclamare a Pavia Re d’Italia dauna assemblea di Conti Lombardi e Ve-scovi. Guido, Duca di Spoleto, non rico-nobbe la legittimità della sua elezione edisponendo di poche truppe raggiunse laFrancia in cerca di sostegno. Tra coloroche gli assicurarono appoggio, secondoquanto riferisce la cronaca”gesta Beren-garii Imperatoris” vi fu un Conte Ansca-rio borgognone e un Villelmus che alcuniritengono possa identificarsi col padre di

Aleramo poiché Aleramo in un atto re-datto nell’Agosto del 961 per una dona-zione a favore dell’Abazia di Grazzano(l’odierna Grazzano Badoglio) si dichiarafiglio del Conte Guglielmo. Riforzatosimilitarmente Guido dopo aver sollevatocontro Berengario alcuni Margravi lom-bardi si scontrò con lui nei pressi delfiume Trebbia (gennaio 1889), lo scon-fisse e lo mise in fuga. Dopo la vittoriaGuido convocò a Pavia un Sinodo alquale parteciparono i Vescovi dell’Italiadel Nord i quali, dopo essersi assicuratiche venivano riconosciuti i loro dominiie le immunità ecclesiastiche, lo procla-marono Re d’Ita lia cui seguì nel 891l’elezione a Imperatore da parte del Papa.

Berengario, sconfitto e ritiratosi a Ve-rona, si assicurò l’alleanza del suo vicinoArnolfo Re di Carinzia dichiarandosi suovassallo. Arnolfo nel 893 su sua sollecita-zione scese in Italia, devastò la Lombar-dia, ma una improvvisa epidemia, scop-piata fra le sue truppe, gli decimòl’esercito e lo costrinse al ripiegamento.Guido che nel frattempo aveva associatoal trono il figlio Lamberto morì nel No-vembre dell’894. Gli successe Lambertoche un riluttante papa Formoso nominòImperatore.

Roma, che all’apogeo dell’Imperoave va ospitato più di un milione di per-sone, aveva visto la sua popolazione ri-dursi a poche decine di migliaia diabitanti. Per difetto di manutenzione nonfunzionavano né acquedotti né fognature.Le pecore pascolavano nei fori imperialiin rovina. I territori circostanti la città,impaludatisi per la mancata manuten-zione ai canali di drenaggio, erano diven-

tati malsani e infieriva la malaria.Anche l’istituzione papale era dege-nerata, prigioniera com’era delle fa-zioni che si combattevano l’unl’altra e di esse le più potenti eranoquella toscana dei Tusculo e quellaspoletina dei Crescenzi. L’alto clerosprofondò nella corruzione, vivevain un lusso fastoso, il concubinaggioera la regola, invece delle pratichereligiose la loro principale occupa-zione erano le cacce ed i banchetti.In questo contesto si situano dueeventi emblematici del degrado dei

tempi: il processo postumo intentato aPapa Formoso e la carriera di Maroziadonna che i cronisti del tempo descrivonodi grande bellezza ma corrotta e intri-gante la quale fece il bello ed il cattivotempo nella Roma del tempo, facendoeleggere ed assassinare Papi. Una delledonne politiche più note del X secolo.

Papa Formoso che mal tolleraval’ingerenza degli Spoletini, in segretoinviò messi ad Arnolfo di Carinzia invi-tandolo a scendere nuovamente in Italiapromettendogli appoggio e la corona im-periale e Berengario fu naturalmentedella partita sapendo che poteva trarnevantaggi. Nell’894 Arnolfo scese in Ita-lia e pose l’assedio a Roma. Lamberto,scoperto il tradimento di Formoso, fecemettere il papa in prigione nella roccaAdriana (Castel S.Angelo). EspugnataRoma, Arnolfo liberò il papa e si fece no-minare Imperatore da Papa Formoso. Be-rengario che lo aveva appoggiatoricuperò l’Italia settentrionale. Sulla viadel ritorno in Carinzia Arnolfo si ammalògravemente e Lamberto figlio di Guidoda Spoleto, approfittando dell’accaduto,partì alla riscossa, riuscì a ripristinare ilsuo potere nell’Italia centrale e si accordòcon Berengario su una spartizione di ter-ritori lasciando a lui il settentrioned’Italia e riservando a sè l’Italia centrale(autunno 896). Due anni dopo (ottobre898) Lamberto moriva a causa di una ca-duta da cavallo e l’anno successivo (di-cembre 899) calava nella tomba Arnolfo.

In quegli anni tormentati si situa unevento rimasto celebre: il processo po-stumo a Papa Formoso morto nel maggiodel 896. Alla sua morte la fazione spole-

A lato, Grazzano Badoglio, Aleramo in una raffigurazionedi Guglielmo Caccia detto il Moncalvo

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tina aveva fatto eleggere Papa StefanoVI, figlio di un prete romano. Agiltrude,vedova di Guido da Spoleto e madre diLamberto indusse Stefano VI a convo-care un concilio per punire il defuntoPapa Formoso. Il pretesto fu che la suaelezione al pontificato era stata illegit-tima in quanto il diritto canonico di queitempi impediva ai Vescovi di essere elettiPapi (dovevano rimanere nelle diocesi asvolgere la loro funzione pastorale). For-moso infatti era vescovo di Porto altempo della sua elezione al pontificato.Lo scopo vero era quella di punire For-moso per l’appoggio dato ad Arnolfocontro i duchi di Spoleto e annullare diconseguenza tutti gli atti da lui compiuti.Il corpo di Formoso nel febbraio del 897venne esumato, portato in mezzo all’as-semblea nella Basilica Lateranense e sot-toposto a un macabro giudizio. Fu pro-clamato indegno ed illegittimo pontefice,dichiarati nulli tutti i suoi atti (i Vescovida lui eletti dovettero farsi riconsacrare)e, spogliato dei paramenti sacri, il suo ca-davere fu gettato nel Tevere. I suoi restivennero ricuperati da un monaco che glidiede provvisoria sepoltura. Solo piùtardi Formoso venne riabilitato e sepoltonelle grotte vaticane.

Scomparsi gli spoletini Guido e Lam -berto, morto Arnolfo di Carinzia, Beren-gario si trovò il campo sgombro. DaVerona dove era acquartierato si recò aPavia e da una dieta di Conti e Vescovi sifece nominare Re d’Italia (899). Nel-l’agosto dello stesso anno vi fu nell’Italiasettentrionale una scorreria di Ungari, unresiduo dell’Orda d’Oro di Attila che siera stanziata nelle pianure magiare. Be-rengario che non aveva ancora potutoconsolidare il suo potere cercò di contra-starli con un esercito raccogliticcio ma fusconfitto sul Brenta, salvò a stento la vitae si ritirò con quello che gli era rimastodell’esercito a Pavia. I suoi nemici interniapprofittarono del suo rovescio e capeg-giati da Adalberto di Toscana e Albericoda Camerino convinsero il Re della bassaBorgogna Ludovico, che vantava una an-tica discendenza carolingia, a varcare leAlpi nell’Ottobre del 900 con un esercito.Berengario privo di appoggi e di armatidovette fuggire e venne deposto, perse

anche il marchesato friulano e si rifugiòin Baviera. Ludovico venne proclamatoImperatore dal Papa nel 901. Ma Beren-gario, uomo audace e volitivo non si detteper vinto. Con un’azione temeraria nel905 accompagnato da un pugno di ar-mati, avendo saputo dal Vescovo di Ve-rona che Ludovico era ospite in quelluogo con esigua scorta, si diresse rapi-damente verso la città, fece prigionieroLudovico gli salvò la vita ma lo fece ac-cecare e lo rispedì in patria. Berengarioera tornato padrone del Regno di Italia elavorò, appoggiandosi specialmente aiVescovi, a consolidare il suo potere lar-gheggiando in concessioni ecclesiastiche.Nel Dicembre del 915 papa Giovanni Xlo proclamò Imperatore. Ma la fazioneche si opponeva a Berengario si riorga-nizzò e capitanata da Adalberto e daBerta di Toscana si rivolse a Rodolfo redell’Alta Borgogna, anch’egli di lontanaascendenza carolingia, convincendolo apassare le Alpi. Nel luglio del 923l’esercito di Rodolfo si scontrò conquello di Berengario a Fiorenzuola neipressi di Piacenza. Berengario fu nuova-mente sconfitto e messo in fuga e Ro-dolfo cinse la corona d’Italia.

In un atto datato 924 un conte Vuillel-mus interviene insieme all’arcive sco vo diMilano Lamberto, i conti Giselberto eSansone a favore del vescovo di PiacenzaVuidone presso Re Rodolfo. Se il Vuil-lelmus sopra citato è come alcuni pen-sano il padre di Aleramo doveva esserein strette relazioni con Rodolfo, tanto dapoter patrocinare una supplica a favore diun suo protetto che oltretutto era vescovodi una città importante come Piacenza.

Berengario non domo arruolò sotto lesue insegne 5000 mercenari ungari, glistessi che lo avevano sconfitto sul Brentanell’Agosto dell’899 e partì alla riscossacontro il luogotenente che Rodolfo, rien-trato in patria per beghe famigliari, avevalasciato in Lombardia. Il comportamentodegli Ungari fu ferocissimo tanto che en-trati in Pavia la misero a ferro e fuocosenza che Berengario li trattenesse. Spar-sasi la notizia del massacro, Berengariovenne additato dai suoi nemici alla gene-rale esecrazione degli Italiani. Venne or-dita contro di lui una congiura il cui

esecutore fu un suo vassallo che lo pu-gnalò alla schiena mentre era intento inpreghiera in una chiesa di Verona. Eral’aprile del 924 e scompariva così, pu-gnalato a tradimento, Berengario I Im-peratore, uomo bigotto, astuto e violentoa cui non mancò ambizione e risolutezzadi propositi.

Rodolfo riuscì a mantenersi sul tronod’Italia per soli due anni. Tramarono con-tro di lui Ermengarda, vedova del Mar-chese di Ivrea, Berta di Toscana, l’arcive-scovo di Milano Lamberto e papa Gio-vanni X ansioso di liberarsi dalla tuteladi Marozia. Il prescelto alla successionefu Ugo, fratellastro di Ermengarda, ilquale nel 923 era diventato Re di Pro-venza. Nel 926 Ugo di Provenza vennein Italia e nel luglio fu incoronato Red’Italia a Pavia dal Vescovo Lamberto.Rodolfo fu deposto e rispedito in Borgo-gna. Nel 931 Ugo associò al potere il fi-glio Lotario.

A questo punto la vicenda di Ugo siinterseca con quella di Marozia.

Marozia, nata probabilmente nell’892,era figlia del Conte Teofilatto, di lontanaorigine bizantina,e di Teodora. Teofilattoaveva raggiunto a Roma una posizione dirilievo tanto da essere nominato Vestera-rius et Magister Militum. Teodora amantedel conte longobardo Lando ne aveva de-terminato l’elezione al pontificato colnome di Giovanni X nell’anno 914. Nel915 papa Giovanni X aveva favorite lenozze di Marozia con un conte spoletinodi nome Alberico. Da quel matrimonioerano nati tre figli maschi ed una fem-mina. Al primogenito venne imposto lostesso nome del padre e passò alla storiacol nome di Alberico II. Rimasta vedovaaveva deciso di sposarsi con Guido, fra-tellastro di Ugo di Provenza, e capo dellafazione toscana di Roma. Giovanni Xpreoccupato per l’aumento di potenzacha a Marozia derivava dall’alle an za coni toscani cercò di contrastare il matrimo-nio e favorì l’intervento di Ugo di Pro-venza in Italia. Marozia reagì facendoprima imprigionare e poi assassinareGiovanni X. Al suo posto venne elettoPapa col nome di Giovanni XI un ra-gazzo di 12 anni che una voce correntesosteneva fosse un figlio adulterino che

Nella pag. a lato, Sezzadio, Abaziadi santa Giustina, Aleramo investito,il 21 marzo 967, dall’imperatoreOttone I. delle terre tra l’Orba, ilPo, la Provenza e il mare; le difen-derà con il diritto e con le armi. Adincontrarlo la moglie Adelaide conle proprie ancelle.(Laboratorio Principessa Valentina)

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Marozia aveva avuto da Sergio III elettopapa nel 904. Marozia si fregiò del titolodi Senatrix et Patricia. Morto Guido diToscana, Marozia concepì un disegno piùambizioso e si offerse in sposa ad Ugo diProvenza, nuovo Re d’Italia. Ugo, cheaveva necessità di rinforzare il suo po-tere, accettò la proposta perché Maroziaal futuro marito avrebbe portato in doteRoma ed il controllo sul Papato da cuipoteva derivarne il conferimento dellacorona Imperiale per sé ed il titolo di Im-peratrice per Marozia. Nel febbraio del932 Ugo si recò a Roma per convolare anozze. La cerimonia fu celebrata da papaGiovanni XI. L’ambizioso Alberico figliodi primo letto di Marozia si sentì messoda parte. Organizzò una sommossa inci-tando i romani a sollevarsi contro Ugo eMarozia. Venne iniziato un assalto allaRocca Adriana dove i novelli sposi ave-vano stabilita la loro residenza. Ugo ter-rorizzato, temendo per la sua vita, piantòin asso la sposa e fuggì. Alberico entratoal castello imprigionò papa Giovanni XIe fece por- re la madre a domicilio coattofino alla morte di lei, avvenuta nel 935.Si concludeva così la parabola di Maro-zia. Alberico rimasto padrone di Roma sifece acclamare Principe dei Romani colnome di Alberico II usurpando così il po-tere ai papi. Il matrimonio fra Ugo di Pro-venza e Marozia venne dichiarato nullo

perché il diritto canonico di quei tempiimpediva le nozze di una donna con il co-gnato. Giova ricordare a questo propositoche il secondo marito di Marozia, Guidodi Toscana, era fratellastro di Ugo. Albe-rico riorganizzò l’amministrazione, ar-ruolò a sue spese un corpo di polizia, chinon gli prestava ubbidienza venne esi-liato ed i beni confiscati, eliminò dallacircolazione le monete con l’effigie dellamadre Marozia e di Giovanni XI e le so-stituì con altre in cui compariva la sua,avocò a sè l’amministrazione della Giu-stizia e mantenne il suo potere su Romaper 22 anni.

Ugo di Provenza tentò di rimediareall’infortunio cercando di conquistareRoma nel 933 e nel 936 ma fallì en-trambe le volte nell’intento, tanto che fucostretto ad un accomodamento con Al-berico tramite i buoni uffici di Odoneabate di Cluny. La figlia di primo letto diUgo, Alda venne promessa in sposa adAlberico. Forse Ugo sperava di rientrarea Roma con la scusa del matrimonio, maAlberico proibì al futuro suocero di pre-senziare alla cerimonia.

Ugo, reduce dall’insuccesso, vide in-debolirsi il suo potere e cercò di tenertesta ai potentati insofferenti di ogni au-torità appoggiandosi alle classi feudaliminori.

Frutto di questa politica è il diploma

redatto a Pavia nel 933 col qualeUgo di Provenza ed il figlio Lota-rio, su proposta del Conte Inghel-berto conferisce a ”fideli nostroAlledrami comiti” in allodio (quindipiena proprietà) la “curtem que no-minatur Auriola adiacente in Comi-tatu l(e)nse) inter duo fluminaAmporio et Stura cum castro, masa-riciis (masserizie, termine di chiaraderivazione longobarda) servis etancillis aldionibus (gli aldii, ter-mine anche questo di origine longo-barda, erano dei semiliberi servidella gleba) vineis (le vigne) cam-pis, pratis ecc.ecc. In esso Aleramoo Alledramo si affaccia per la primavolta alla storia.

Dove era ubicata questa CurtisAuriola?

La difficoltà sorge dal dare unainterpretazione corretta alla dizione ab-breviata Comitatu l(e)nse che figura nel-l’originale. Qualcuno, tra i quali Bernar-dino Bosio, la legge come ComitatuAquense e la identifica con la regionedetta Valoria situata tra il ponte di ferrodella ferrovia Ovada-Genova e la fra-zione del Gnocchetto. L’Amporio sarebbeil torrente Piota, lo Stura ha conservatolo stesso nome, Il Castrum forse quellodi Uxetium ora Belforte. Altri, tra cui Ri-naldo Merlone, con forse migliore vero-simiglianza, la legge invece come Comi-tatu Vercellense e individua la Curtis Au-riola con la località Mons Oriolii situatatra le rogge Lamporo e Stura tuttora esi-stenti nel Comune di Trino Vercellese.

Il 6 febbraio 935 Ugo e Lotario per in-tercessione di “Ambrosius episcopum(era l’Arcivescovo di Milano) et Eldri-cum comitem” assegnano al Fideli nostroconte Aleramo ”quandam cortem quaeForum nuncupatur sitam supra fluviumTanari (l’odierna Villa del Foro vicino adAlessandria) adiacentem scilicet in Co-mitatu Aquensi”con ogni pertinenza, dalfiume Tanaro al fiume Bormida. Oltre aquesta, la “Villa quae vocatur Runco” daalcuni identificata con la località attual-mente chiamata Ronco Gennaro nel co-mune di Bistagno. La posizione diAleramo si era evidentemente rafforzataalla corte di Ugo e Lotario tanto che alla

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modesta Curtem Auriola si erano ag-giunti territori di ben maggior consi-stenza in una zona di grande importanzastrategica perché percorsi dalla romanavia Julia-Augusta che univa Tortona aVado e dalla romana via Fulvia che con-giungeva Tortona a Torino passando perAsti. Qualcuno ha affacciata l’ipotesi cheil movente di questa donazione fosse ilfatto che in quegli anni i Saraceni venutida Frassineto avevano devastato le terrefra Acqui e Savona, distrutto l’Abazzia diUidisione (Giusvalla) e si erano spintifino al territori compresi fra il Tanaro ela Bormida. Ugo e Lotario forse pensa-vano che Aleramo avesse forza suffi-ciente per rendere più sicuri i confini delRegno verso il mare.

Ugo per rinforzarsi venne ad un ac-cordo con Rodolfo II di Borgogna, il Red’Italia che aveva spodestato, cedendoglialcuni territori provenzali al confine conla Borgogna e facendo sposare nel 937 ilfiglio Lotario con Adelaide figlia di Ro-dolfo, donna di cui avremo occasione diriparlare nel seguito della nostra storiache segue le orme dell’ascesa di Ale-ramo.

L’avversario più insidioso che Ugocol figlio Lotario dovette affrontare fuBerengario II figlio di Adalberto Mar-chese di Ivrea e di Gisla, figlia di Beren-gario I. Egli era succeduto al padre nel940 ed aveva subito manifestato ostilitànei confronti del potere dei provenzalitanto da diventare il portabandiera ditutti gli oppositori. Berengario II te-mendo per la propria incolumità si rifu-giò in Germania ove ottenne l’ap poggiodi Ottone di Franconia, re di Germaniadal 936, dichiarandosi suo vassallo. Ar-ruolato in Germania un esercito scese inItalia nel 945 accolto come un liberatoredai grandi del regno desiderosi di disfarsidi Ugo. Questi accettò di ritirarsi dallascena politica italiana, abdicò al trono afavore del figlio Lotario e ritornò in Pro-venza nel 946 dove si spense ad Arlesnel 947.

Berengario II non ottenne la coronad’Italia come era nei suoi propositi maLotario fu costretto ad assumerlo comesummus consiliarius e capo dell’ammi -nistrazione del regno, di fatto il vero po-

tere era nelle sue mani. Berengario volleporre fine a questa diarchia di facciatadurata quattro anni. Si sbarazzò di Lota-rio facendolo avvelenare a Torino nel No-vembre del 950 ed il 15 di Dicembredello stesso anno si fece incoronare aPavia re d’Italia insieme con il figlioAdalberto. Berengario iniziò a persegui-tare i sostenitori di Lotario, cercò di co-stringere la vedova di Lotario Adelaide asposare suo figlio Adalberto per dare le-gittimità al potere del figlio, ma al suo ri-fiuto la fece confinare in un castello sulLago di Garda.

Quale era stata la posizione di Ale-ramo fra i contendenti Ugo e Lotario dauna parte e Berengario II? All’inizio nonappare molto chiara perché da un docu-mento datato il 28 marzo 945 sappiamoche i Conti Lanfranco e Aleramo rivol-gono una supplica ad Ugo e Lotario peruna donazione di beni situati nel comitatodi Tortona a favore del conte Elisario edella moglie Rotlinda e nella risposta deidue re vengono definiti dilecti nostri fi-deles, il che farebbe supporre un appog-gio di Aleramo alla loro causa. Ma pochigiorni dopo (13 aprile 945) Berengariocon un placito conferma un atto di dona-zione da lui steso l’8 aprile dello stessoanno e convoca fra i testimoni di quel-l’atto gli stessi conti Lanfranco e Ale-ramo. Tutto fa supporre che i due fiutatoil vento che spirava favorevole a Beren-gario in pochi giorni con un voltafacciaimprovviso fossero astutamente saltatisul carro del futuro vincitore. Iniziavacosi l’ascesa di Aleramo alla corte di Be-rengario fino alla promozione alla dignitàdi marchese, e non solo, perché ottenneanche, rimasto vedovo della prima mo-glie, di sposare in seconde nozze Gir-berga figlia del Re.

Scomparso Lotario, Aleramo si legòstrettamente a Berengario ed in un di-ploma emanato tra il 958 e il 961 con-giuntamente da Berengario e dal figlioAdalberto fu designato come”inclitusmarchio fidelis nostro” e venne concessoa lui ed ai suoi eredi il diritto di creare neiterritori in suo possesso“mercata ubicun-que voluerit”.

A concedergli questo privilegio inter-viene a suo favore Girberga figlia di Be-

rengario e sorella di Adalberto.In un documento dell’Agosto del 961

Aleramo dona al monastero di Grazzano(l’attuale Grazzano Badoglio nel BassoMonferrato) terreni e corti iniziando cosìquel patrocinio a favore di istituzioni mo-nastiche che sarà tipico della famigliaaleramica e si concreterà in donazioni cheriguarderanno il monastero di Spigno,quello di Sezzadio e l’Abazzia Cister-cense di Tiglieto. Nel documento Ale-ramo risulta essere figlio del ConteGuglielmo e marito di Girberga”filia do-mini Berengarii regis”.Quali fruitoridella donazione vengono associati i figlidi primo letto di Aleramo, Anselmo edOddone.

Torniamo alla vicende di BerengarioII. Le sue persecuzioni ai danni speciedegli ecclesiatici provocarono la nascitadi un fronte di oppositori. La vedova diLotario, Adelaide, fuggita con la compli-cità dei custodi dal suo domicilio coattogardesano, riparò a Canossa, si rivolseper aiuto al fratello Corrado, Re di Bor-gogna, protetto di Ottone I. Corrado pe-rorò la causa della sorella presso Ottone.Venne ottenuto anche l’appoggio delPapa. Nella tarda estate del 951 Ottonescese in Italia, Berengario si vide benpresto abbandonato da tutti e dovette riti-rarsi ad Ivrea. Ottone prese in mo glieAdelaide figlia dell’ex re d’Italia Ro dolfoII di Borgogna e vedova del l’ex Red’Italia Lotario, assicurandosi la legitti-mità alla successione al Regno e venneincoronato Re a Pavia il 23 settembre951. Nel 952 Ottone fu costretto a rien-trare in Germania per contrastare una se-dizione capeggiata da Liudolfo di Sveviaappoggiato dall’Arcivescovo di Magonzaed altri nobili.

Nella dieta tenuta da Ottone ad Au-gusta nell’Agosto del 952 si verifica unfatto apparentemente paradossale sullacui interpretazione gli storici non hannosaputo dare una interpretazione univocae convincente. Ottone reintegrò Beren-gario II sul trono italiano obbligandolo adichiararsi suo vassallo, ma il suo regnovenne mutilato dell’im portante marca diVerona e del Friuli che vennero assegnatead Enrico, Duca di Baviera, fratello diOttone. Que st’ultima decisione ha una

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sua logica. Ottone si riservava il diritto diintervenire militarmente in Italia edaveva necessità che i passi alpini fosserocontrollati da persona di sua fiducia.

Berengario II, sfruttando a suo favorele difficoltà che in quegli anni affligge-vano Ottone impegnato a contrastare larivolta interna e fronteggiare una nuovaincursione di Ungari in territorio germa-nico, riuscì a consolidare il suo po terestringendo alleanze con i nobili laici(giova a questo proposito ricordare chela concessione del titolo di Marchese adAleramo ed il matrimonio di lui con lafiglia di Berengario, Girberga, si situaproprio tra gli anni 958-961). Iniziò amolestare i partigiani di Ottone e cercòdi impossessarsi di territori emiliani e ro-magnoli che facevano parte del Patrimo-nio di San Pietro suscitandosi l’ini mi cizia del Papa allora sedente, GiovanniXII, figlio di quell’Alberico che per 22anni tenne il potere incontrastato a Roma.Nel 960 Giovanni XII invitò Ottone aRoma e gli offerse la Corona Imperiale.Ottone, che era riuscito a debellarel’opposizione interna ed aveva sconfittodefinitivamente gli Ungari nel 955 vicinoad Augusta, scese alla fine del 961 in Ita-lia con un forte esercito e dopo una sostaa Pavia si recò a Roma dove GiovanniXII il 2 febbraio 962 lo incoronò Impe-ratore del Sacro Romano Impero. Dopol’incoronazione Ottone si rimise in mar-cia per ritornare in Germania dove lo ri-chiamavano affari urgenti.

Giovanni XII, a cui la tutela del l’Im -pe ratore incominciava a pesare, si riavvi-cinò a Berengario ed al figlio Adalbertoche si opponevano ad Ottone. Questocambiamento di fronte provocò un nuovointervento in Italia di Ottone che sceso inItalia nel 963 sconfisse nel dicembredello stesso anno Berengario, lo fece pri-gioniero e lo confinò a Bamberga dovemorì nel 966. Il papa si dette alla fuga.Ottone convocò un concilio, fece deporreGiovanni XII e al suo posto fece eleggereil capo degli archivi lateranensi che preseil nome di Leone VIII. Nel Luglio del964 Ottone riprese la strada della Germa-nia. Morto Leone VIII nel 965 Ottoneimpose l’elezione a Pontefice del ve-scovo di Narni che salì al soglio pontifi-

cio col nome di Giovanni XIII, ma i no-bili romani, indignati per l’invadenza del-l’Imperatore sulla scelta dei pontefici,cosa che ritenevano di loro esclusiva per-tinenza, imprigionarono il Papa. Loschiaffo ricevuto fece infuriare Ottone elo indusse a scendere ancora una volta inItalia nel 966. L’ira di Ottone si abbattèsui ribelli romani che vennero massacratiin massa. La vigilia di Natale del 967papa Giovanni XIII associava all’Imperoil figlio quattordicenne di Ottone cheportava lo stes so nome del padre e chepassò alla storia col nome di Ottone II.Ottone I riuscì così a porsi a capo di un ri-fondato Sacro Romano Impero che se purmeno vasto di quello fondato da CarloMagno (comprendeva infatti soprattuttola Germania e l’Italia) fu più duraturoperché più compatto, pacificato e conso-lidato così all’interno che all’esterno.L’Eu ropa che solo una generazione primarischiava di essere sommersa dalle inva-sioni degli Arabi, dei Vichinghi, degliUngari trovò in esso un valido baluardo.Ciò che egli creò e che altri per più di tresecoli dopo di lui hanno difeso divenneuna delle più grandi e stabili istituzionimedievali, tanto che i posteri tributaronoa Ottone l’appellativo di “il Grande”.L’Impero come struttura a pretesa univer-salistica venne nei secoli seguenti a con-flitto inevitabile con quel l’altra strutturauniversalistica che era la Chiesa di Romae con la civiltà particolaristica comunale.

Nell’ambito di questa riorganizza-zione imperiale si colloca il diplomaemanato a Ravenna il 23 marzo del 967col quale Ottone I per intercessione di suamoglie Adelaide concede a Aleramo “ip-sius fidelitatem considerantes”tutte lecorti “in desertis locis,consistentes a flu-mine Tanaro usque ad flumen Urbam etad litus maris”. In totale sono sedicicorti dislocate lungo gli Appennini e ipassi che aprono la via al mare. E non

solo, perchè l’Imperatore gli conferma laproprietà di”omnes res et proprietatessuas ad utriusque sexus familias tam dehereditate parentum quam de adquestuilli advenientes per diversa loca infra Ita-licum regnum coniacentes” beni che ri-sultano distribuiti su un area molto vastacomprendente i comitati “Aquensi, Sao-nensis, nec non Astensi et Montisferrati,Taurinensi, et Vercellensi, Parmensi etCremonensi seu Pergomensi”. E’in que-sto documento che compare per la primavolta il toponimo Monferrato. A conclu-sione del diploma Ottone dichiara di ac-cogliere il Marchese Aleramo”cum filiiset heredibus suis….sub nostri munburdi-tione”. Ormai Aleramo è compreso tra imaggiori dignitari imperiali tanto da me-ritarsi una particolare protezione da partedell’Imperatore, uno dei pochi che nelsuccedersi di tre regni quanto mai diversie rivali tra loro ha saputo non solo man-tenere ma anche accrescere il suo potere.La morte di Aleramo sopravviene in unanno imprecisato ma dall’atto di fonda-zione del Monastero di S.Quintino di Spi-gno stilato nel 991 sappiamo che siverificò prima di quell’anno perchè suofiglio Anselmo si dichiara”filius bonaemamoriae Aledrami”. La tradizione vuo-le che Aleramo sia stato sepolto nellachiesa del Monastero di Grazzano da luibeneficato nel 961 e su cui aveva eserci-tato alte funzioni di patronato. Nella se-conda cappella laterale destra, intitolataalla Madonna del Rosario, si trovano duelapidi a lui dedicate ma sono una del XVIe l’altra del XX sec.

L’unità della marca Aleramica si di-vise alla sua morte. Al figlio Oddone edai suoi discendenti toccò il Monferrato,ad Anselmo la marca Savonese. Mentreil territorio savonese si spezzettò in nu-merosi rami facenti capo a diverse fami-glie marchionali quali i Marchesi di Incisa,di Saluzzo, di Busca, di Clavesana, DelCarretto, di Ceva, di Cortemilia, il Mon-ferrato mantenne pur con diversi rimaneg-giamenti, una sua unità territoriale epolitica che sopravvisse come abbiamodetto fino al 1708, anno in cui venne in-globato nello Stato Sabaudo.

A lato, stemma degli Aleramicidi Monferrato

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Proseguiamo la pubblicazione del poema in ottavedel Rocca, che tanto interesse ha destato nei nostrilettori, scusandoci per il forzato frazionamento.Stiamo pensando con il Comune di Rocca di edi-tarne a parte un estratto completo.

[la redazione]

CANTO QUINTO

1L'essere tutti voi qui rittornati la rara istoria a udir e il bel racconto che siete, fa vedere appassionati sentirla a raccontar in ogni ponto. Se vi mostrate tanto appassionati che vogliate venir ad ogni conto, io non mi prenderò più tanta pena li canti d'abbreviar e avrò più lena.2Lo star con attenzion voi tutti quanti mi fa molto piacere e mi dà segno che son di genio vostro li miei canti, sebben v’è noto il scarso mio ingegno, già lo sapete, e questo dissi avanti, che in altro non consiste il mio impegno se non a darvi gusto a raccontare sebben il mio rimar buon non appare. 3Se tanta ammirazion ne’ canti andati prendeste per le azion che avete udito, ne resterete ancor più stupefatti andando avanti e quando avrem finito. Si son ora i briganti confinati nel luogo suo premier ben circuito, come si disse già, dal Genovese, che chiude ogni passaggio al Piemontese86.4Ansiosi a udir il fin degli insorgenti credo sarete adunque, o almeno mi pare, io volentier vi renderei contenti se non sapessi certo di mancare: perché intendiate ben starete attenti prima fatti importanti ho da notare, pazienza abbiate, che poco per volta di tutto andrò facendo la raccolta.5Abbiam lasciato quando rittornati Son a Carosio quelli tai briganti da San Cristoffo alquanto spaventati, non quanto che a Silvan furono d’avanti: son poi dopo due giorni rittornati indietro una gran parte, non so quanti, e Montaldeo andare a visitare e la contribuzion li fer87 pagare. 6Li pover paesan e disgraziati di Montaldeo ben umil paese ben da lontano gli hanno ravvisati, capirono che dovrebbero pagar spese sebben fosser allor molto imbrogliarti ciò che dovesser far, ognun comprese, pensar d'andarli incontro e far li inchini siccome han fatto quei pover meschini.

7Sicché si son insiem lor radunati li pretti, communisti e paesani e presto presto fur ben accordati di non far fronte ed attentati vani, dunque sebbene alquanto spaventati fin fuor del luogo incontra a quei villani si sono portati e fer protestazione loro sono pronti a far sottomissione.8Fur abbracciati tutti in quell'istante che gli incontraron, parve cordialmente, gran complimenti fer, finezze tante, che gli han creduti in ver ben buona gente: venuti – disser – siam, ed è costante per farvi viver più felicemente, via vogliamo levar la tirannia e stabilire fra noi democrazia.9Con simili discorsi e complimenti Nel luogo entrati son allegramente, gli principali poi degli insorgenti che comandavan poi a quella gente andarono in castel immantinente e là li dieder pranzo conveniente. Mangiaron e bevetter molto bene stavan gli altri a veder non senza pene.10Fermossi tutto il resto manco male giù nella corte a far le sentinelle, in ogni sito e questo molto vale per conservar quanto si può la pelle. Potevali arrivare, è naturale, l'attacco in apparir le prime stelle o in ora poi qualunque all'improvviso, così dato li vien sempre l'avviso.11 Poi - disser - cittadini noi vi portiamo la libertà, leviam la tirannia, il tiranno Re a levar noi se n’ andiamo, così stabilirem democrazia, bisogno d'assistenza noi abbiamo e ce la deve dare chiunque sia, pagate dunque cinque milla lire, non state qui a parlar, non state a dire.12 Non v’era nel castel88 il Castellano, sua moglie v’era sol, ma mezza morta, ma quei pochi signor e alcun villano non lascian d’esser gente ben accorta, stavan attenti, e non riuscili vano, la lor idea non andol[l]i storta, perché non ebber poi a disborsare tutta quella gran somma, ecco l'affare.13Lasciarono parlar dal segretaro che in verità si sa ben maneggiare, li fece elli veder, e molto chiaro, era impossibile di poter pregare: pochi abitanti sono, poco danaro, disse lo vedono loro, ed ecco appare, e tanto più che non v’è il Castellano il qual si trova in or un po' lontano.

14Perciò fissaron sol tre milla lire,due se ne pagassero fra d’un'ora, le mille poscia per le tre compire dovesser fra tre dì sborsare ancora e avrebbonli di poi fatta spedire la quittanza final giust’in allora, ma se non fosser pronti ad ubbidire pagate avrebber cinque milla lire. 15Cosa dovevan far e cosa dire, tra tutti e con insiem la castellana pagaron le due milla circa lire moneta almen d'argento tutta sana, promisero di presto poi unire il resto: fu a scusarsi cosa vana, li fecero di più ancor obbligare a Carosio dovesser lor portare.16Mentr’eran in castello per appunto quella ciurmaglia e alcun dei abitanti, quelli che avean da far la guardia assunto, soldati vider lor un po' distanti: questi eran trenta in tutto e in a buon conto che stavan fermi giusto là davanti sopra un'altura o per dir meglio un colle che a Montaldeo in faccia alto s’estolle. 17Appena visto ciò, tre dei briganti quai fulmini lor corser ver quel monte: vi giunser con furor tutti anelanti pensando di trovar quei a far fronte, ma quelli lì scopriro tosto d’avanti ebber al par di lor le gambe pronte, così si giudicò, ma spesso s’erra da chi pratico ben non è di guerra.18E’ ver, fuggiti son, e s’è veduto, ma quella fuga ben fu maliziosa; li capi lor gran l’hanno così creduta, e gli è comparsa almen cosa dubbiosa: la copia89 in verità n’era perduta se ne andava verso là; truppa copiosa v'era dietro nascosto e un bel bordello vedevasi in quel giorno un gran macello. 19 Capìta - dissi – l’han i principali, che qualche poco san pensare giusto, provvidero che quei soldati tali avevano altro corpo più robusto, stimaron non dover esser uguali e non avrebber certo tutto il gusto, perciò deliberar non più fermarsi ed a Carosio andar a pernottarsi.20 Ma prima di partir quelli briganti si diede veramente un caso degno: uditelo, non so, se poi fra tanti veduto avrete un tal barbaro impegno. Calò giù dal castel un poco avanti il secretar che a niun ei era a sdegno e giunto nel cortil viene arrestato da un di quei briccon vile e malnato.

L’assedio di Rocca GrimaldaPoema del Dottor Francesco Rocca (1798)a cura di Gian Luigi Bruzzone

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21Vedendosi arrestar di quella sorte, grida: Come, così si suol trattare? Rispose quel mastin d’ idee storte volerlo là sul campo fucilare. Al pover'uomo si fer le gote smorte sentendosi la morte ad intonare, non si perde’ di cuore. E qual reato esser mi può tal sorte meritato?22Uno di quei uffiziai, infame e rio,che con tale ciurma là s’ era fermato, disse dover sicur pagar il fio chi ha fatto il spion la morte ha meritato:Il tempo tu segnasti, so ben io, a que’ soldati hai tu strada insegnato perciò di cruda morte tu sei degno castigo anzi non v'è per te condegno. 23Udito ch’ebbe sì buggiarda accusa rispose con furor al mascalzone:Un mentitor tu sei, così s'abbusa come tu fai in or della ragione? e qual arma nel cuor ti sta rinchiusa capace essendo di sì mal azione? e non fui sempre qui con voi d’appresso? non vi condussi dentro qui io stesso? 24 Ma pur non s'appagò quel birbo fiero perverso aveva il cuor e sempre uguale lo fece là seder su un fascio nero di rami ch’ era in quel cortile tale. Allora con più voce e grido altiero: Io m’ appello – disse - al Generale. No, li rispose quell'uom inumano ugual ho autorità, ciò cerchi invano. 25E come il secretar li disse allora: Non hai tu, subalterno, un superiore? Io certo non capisco dunque ancora che gente siate voi, di niun onore: col tuo Generale io fui fin’ora, tu sei a quel sicur molt’ inferiore. E mentre s’era in tal fiera contesa un giù discende e prende sua difesa.26Discese – dissi - giù un buon giovinetto, visto e inteso quel che si diceva, disse: Lasciatel star, è patriotto. E più parlò nessun, e lui si leva e a casa se n’ando tosto di botto, la strada neppur – penso - più vedeva. Questa è la gran virtù, la caritade di que’ che voglion dar la libertade.

27Or una riflession dovete fare, e state un poco attenti, sarà giusta. Pensate che volesser fucilare quel povero onest’uom: non vi vuol fusta90

per dentro qui veder, ben chiaro appare, che l’oro oppur l'argento a quei li gustatentaron questo per far disborsare qualche somma per lor, quest’è l'affare.28Eppur vi son ancor dei ciechi tanti fanatici può dirsi ad un tal segno, che ciò che fa qualunque dei briganti lo lodano, sia pur un fatto indegno: non puon91, se non chiamarsi deliranti a non aver tai ingiustizie a sdegno. Ma se fosser tal gente al gran governo, …92 sarebbe il mondo un ver inferno.29Da Montaldeo son que’ rittornati al suo Carosio tosto tutti quanti, lasciam che si siano lor un po' posati, a suo tempo poi verranno avanti. All'indoman cinquanta dei soldati a San Cristofo tornan ben costanti, partiti son assiem da Capriata per fare qualche scoperta in tal giornata.30L'esser giti colà quei tai soldati, se nulla fe’ ai briganti di svantaggio, almeno gli impedì d'esser tornati, siccome s’ eran già lor messi in viaggio, ma adietro, inteso ciò, ne sono andati senza soffrir almen alcun disaggio, non avendo pensier quella ciurmaglia d’ andare colà su per far battaglia. 31Nel giorno appresso giunse a Carpenetto un piccolo squadron di buon mattino ed alla sera tosto il corpo detto andò alla Rocca, e v’è poco cammino: di questi il comandante uomo schietto disse venivan altri, e fu indovino, ma in tutto erano poi solo che cento il popol nondimen restò contento.32Era il numero forse tra i soldati e la popolazion che fer unione trecento e ancor cinquanta ben armati, e giunta v’era ancora di previsione a Sajsi erano tutti confidati per la prudente sua disposizione e si sperava se fosser andati mandarli via vinti e debellati.

33Al Bosco era il quartier del Generale cavalleria e con di fanteria, da là a Silvan n’andò poi corpo tale che mise tal region in allegria; ma presto poi cascò in disgusto eguale udendo se ne son tornati via, che benché avesser cuor quei abitanti temevan d’ accidenti tanti e tanti.34Pensavan esser questa scorreria dai generai frequente ad ordinarsi e ciò scaldava ben la fantasia, perché si vider tosto a rittirarsi, ma poscia s’ ingannar e quale sia la causa che obbligòlli allontanarsi si è tosto di scoperta il giorno appresso, come lo vuo’ scoprire a voi adesso.35Ai ventisette dello stesso mese d'april e circum circa a mezzo giorno, giunse notizia da lontano paese che quei briganti, quai sono all’intorno, e andavan ogni dì per far sorprese in quei luoghi vicini attorno attorno, come a Mornese93, all’Erma94, a Casareggio95,e dove li riuscì di far dispreggio. 36Nel luogo di Pozzuol96 v’era d'armata da trecento in più forse soldati con dei cavalli insieme, e situata in vantaggiosi posti ed adattati era una guarnigion ben appostata in mezzo ad abitanti tutti armati, eppur i birbi l’han sì ben intesa che li riuscì di farli una sorpresa.37E che volete dir, fu il fatto tale: sorpreser della guardia il primo posto, vinto che fu quel passo, cosa vale, resta tutto quel corpo allor scomposto ed eccol prigionier, caso fatale!Li cavalier ancor si reser tosto e ciò non fa venir a chi che sia delli fedeli al Re la bizzarria.38Presi non furon tutti gli offiziali, come si seppe poi, e s'ebbe a dire, dormivano in maggion de’ principali97, saputo gli hanno questi custodire; fur varii i sentimenti, su de quali si ragionava e si potè udire, ma niuno si perdé su questo affare avendo d’altro a dire e ragionare.

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39Condutti prigionier fur tutti quanti a Carosio provincia e capitale del regno allor nascente dei briganti, e non si sa se le facesser male, ben sì sentì, e n’ho veduti alquanti, che li riuscì fuggir da gente tale e in ogni giorno ne veniva alcunoe in poco tempo vi restò nessuno.40Non poco quel tal fatto ha spaventato la Rocca ed altre ancor popolazioni e tanto più che fu il caso alterato da tutte le dì fuor altre regioni. Nel tempo stesso pur s’è presentato un altro mal che diedeli ragioni di conformarsi nella lor speranza ceder dovesse il Re poi in sostanza.41Nel giorno che tal fatto s'è sentito s’udì novella ancor ben sorprendente, quella a Pozzuol ognun può aver capito esser potuto avrà ver accidente: di questo mi riccordo aver udito diverse le opinioni, ma questo è niente: quel ch’ ho da dir è di peggior natura e senza paragone, senza misura. 42Al Castelazzo98, grande e bel paese e decantato in qual si sia maniera, v’è della truppa sempre ch’ogni mese si cambia, ed in quel tempo molto n’era. Là puon le schiere star e ben distese sia di fantaccin truppa leggera, sia poi ancor diciam cavalleria essendovi colà gran prateria.43Nel Castellasso dunque un dì alla sera mentre che un uffizial andava a spasso, incontra un paesano di fosca ciera, che in luogo tal andava di buon passo. Mirollo quel guerrier in aria fiera: Chi - disse - siete voi o poverasso?che stanco siete e andar dove volete?Senza difficoltà dir lo potete.44Da Carosio io vengo, dico il vero, e al bosco vuo’ andare, ed ho premura, io devo ricercar, e trovar spero un uffizial per cui ho una scrittura. Disse la verità, fu ben sincero, la lettera mostrolli a dirittura, e quel leggendo tosto a chi n'andava più non la restituì, ma si pensava.45Insospettito adunque l'uffiziale: In fin – disse - io sono ciò c’hai da dire. Di pur. Credendo fosse in ver quel tale senza badare e aver lei altre mire li lascia quella carta tale e quale e allora non fu lento quella aprire e appena letto ha scorto un tradimento che fa stordire e fa dello spavento.

46Vede che v’era appunto un capitano a cui era la carta indirizzata, qual stava per tradir il suo sovrano con ben secreta e presta rittirata: onde fa cenno tosto al paesano andasse seco, ché gli avrebbe dato risposta e lo menò dal Generale e s’ impedì così quel grande male.47Era quel traditor d’anima ria, che sen voleva presto disertare, un capitano di cavalleria, a cui si suole il Re tutto affidare, stenta sicur entrar in fantasia che ciò un uomo di comando possa fare; finché diserti un semplice soldato niun resterà sicur meravigliato.48Ma azion si vil, che faccia un capitano e specialmente di cavalleria99

a ognun sembrerà caso molto strano e ne dubbiterà chiunque sia.Eppure lo fu, e posto gli ha la mano il gran signor a tal birboneria, da un puro caso fe venir scoperto ciò che portato avrebbe un gran sconcerto.49Ei non voleva andar sol col briganti come in quella il concerto si leggeva, ma seco via condur ancora tanti cercava quel fellon, se almen poteva. Il general mandò soldati quanti capaci ad arrestarlo e ciò doveva e incattenato il traditor meschino tosto lo fe tradur la sù in Torino.50Siccome io l'udii, così la dico e non seppi alcun’ altra circostanza, perciò mi leverò presto d’ intrico: non state a farmi più nessuna instanza, sol vi dirò che non valeva un fico la vita di quel tal: ma pur speranza avuto avrà sul conto dei francesi da’ quali i traditori eran diffesi.

52Nel giorno stesso, come ho già narrato, che fecero i briganti la sorpresa nel luogo di Pozzuol su nominato, e quasi quella truppa han tutta presa, seguì un caso alla Rocca inaspettato che la popolazion fu molto lesa nel suo coraggio e da molt’ agguerrita in un istante sen restò avvilita.53Mentre che di Pozzuol si discorreva chi aveva l'un, chi l'altro sentimento, giusta le nuove che si riceveva, ed in quei casi ne pervengono cento: sentesi tutt’ insiem che si fa leva di quei soldati tutti. Oh cambiamento! Corrono su nel castel100 ben molti uniti e trovanli a partir tutti allestiti.54Mesti gli abitator son arrestati, disser al Comandante: Che vuol dire ch’ora ne lascia noi abbandonati? Ciòcché potean lor non ben capire. Or - si soggiunser - che si siam fidati lor in sostegno aver: dovrem subire pena per fatto aver sempre diffesa? Or conosiam l'abbiam noi mal intesa.55Confuso il Capitan: Mi vengon dati ordini – disse - a cui devo ubbidire, neppur capir io so, quali sian stati li gran motivi d’ un cottal agire. Forte mi duole il cuor, affascinati ho tutti i sensi miei, mi fa stupire, ma pur a me conviene anche da qui parta, così mi vien prescritto in questa carta.56Volle neppur scoprir da quale parte dovesse andar, e se ne gittò101 via con la sua truppa: e appunto è così l'arte che s'usa in guerreggiar, uop’è che sia. Che allor doveva dir? e con che carte giocare mai, oh Dio che sorte ria! La notte si passò in quella regione non a dormir, ma si in costernazione.

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57Parevali d’ùdir ad ogni istante giungessero i briganti ad attaccare, poch’ armi v’eran - ciò vi fei presente - per far difesa e per potersi ostare, non sol quel ch’ha timor, ma il ben costante pensava già d’andarli ad incontrare in quella notte e fu una gran fortuna non v'arrivò lassù persona alcuna.58Non si stupisca se restò avvilita sì spiritosa inver popolazione, che di tal caso in vista l’ha capita verrebbe messa in gran desolazione, sarebbe di sicuro allor riuscita alli briganti far inondazione, distruggere, rubbar e massacrare lo che si protestavan di voler fare.59Ma tosto alla mattin s’è invigorita per caso che s'avrebbe mai pensato: avanti giorno quella fu avvertita che n’ era il Capitan già ritornato. Se nuova con piacer mai fosse udita d’uopo non fa d’un dir mio sforzato, perché ciascun da sé lo può capire che peso avrà il premier di lei ardire.60E in ver il Capitan è rittornato con tutti quanti insiem li suoi soldati avevan tutta notte strapazzato, giunti sicché a dormir ne sono andati e quando il Capitan si fu levato tosto si son con quello rallegrati e li chiedetter per qual novitate d’ andar e rittornar per quelle strade.61Bisogna – disse allora - aver pazienza, star forti all'occasion che si presenta, la causa poi di cui non è a mia scienza io vedo ancor questo a capir si stenta in Aqui io n'andai da sua eccellenza102

e a miei m’aggiunse di soldati trenta poi m'ordina di presto ripartire ed al primiero posto di venire.62Già dissi che non fu mia opinione quel dì partir da qui sì all'improvviso, ma me fu imposto e a questa guarniggione di non fermarsi più dopo l'avviso: doveva io obbedire a mia opinione il foglio avuto ben era conciso, e non poteva dire io schiettamente103, ma si dovette andar e prestamente.63Ebbi per dir il vero consolazione quando sentii dover qui rittornare, e tutta l'ebbe ancor la guarniggione e tanto che non so io qui spiegare: rivolti noi si siam tutti in unione sebbene lassi per tanto marciare ed ecco tutti siam noi di rittorno per far diffesa a questo bel soggiorno.

64Ma fu una notte in ver ben fastidiosa, che ognun lo può pensare ben di leggeri, la via - già si sa - è fatticosa pure s’ è fatta molto volentieri e non ci parve appunto sì noiosa, perché rincrebbe assai a partir ieri, quando ai soldati infin disse tornare niuna difficoltà mi sentii fare.65Trincee accrescersene fe’ quel comandante tutt’all’intorno del picciol paese, vide le genti attente et eran quante calde nel travagliar con ogni arnese: il corpo del comun fu pur costante a invigilar, né mai vi fur contese: di giorno i principai attorno andavan, di notte dormirno ma si vegliavan.66Di nuove in ciascun giorno pervenivan sorpresi esser dover dalli briganti, altro d’Ovada che di spesso ardivan andar ad osservare lavori tanti portavan relazion e li pativan così caldi vedere quei abitanti sempre studiavan lor in ogni accento di poter insinuar grande spavento.67Non li riuscì per quanto abbian studiato d’intimorire tal popolazione, anzi di questi alcun fune arrestato credendolo sicur un vero spione, era dal capitan esaminato e giusta non avendo cognizione si fea accompagnar fuor del paese e andavan di ciò, che da lor s’intese.68Era ben noto a loro il giorno stesso che si darebbe il fier e forte attacco, ma niun di loro giàmmai ha questo espresso,bensì vantavan presto dar il sacco. Per fede aveva ognun fissa in se stesso dover presto cader la Rocca in smacco, fu vero, questa fu come attaccata, ma falso fu che l’abbian espugnata.69 Ai due di maggio dier la gran battaglia fiera, tremenda quanto si può dire, la mia penna non saprei se vaglia il fatto dir, e di ciascun l’ardire: era delli briganti la ciurmaglia deliberata o vincer, o morire. Lasciamo ora così nell'altro canto dirò come fini poi tutto quanto.

1Penso che ancora più dell’altra fiata104

sarete in questo dì qua volentieri venuti ad ascoltar le intralasciate rime che io lasciai appunto ieri. Le ciurme - era per dir - si son portate come rabbiosi can a dar e fieri la sù alla Rocca attacco, che da un mese era aspettato certo dal paese.2Ma per descriver ben la gran battaglia che fatta si è con tanta gente fiera poeti v’andrebber di gran vaglia, come un Tasso, un Ariosto od un Chiabrera105, perché per verità cottal canaglia si combatté con tanta bile nera, che facil non sarà ben ben narrare ché non so d’armi né so ben rimare. 3 Già figlio io non sono del grand’Apollonè al fonte io bevei dell’Ippocrene106, ma pur messo mi son la cetra al collo, così devo cantar, or mi conviene pur ch'io non dia al ver nessun tracollo ma sol io dica ciò che sopravviene se non saprò cantar si dolcemente mia colpa non è, né posso niente.4 La mia promessa fu di raccontare dei insorgenti e di Rocca Grimalda107,or nel pensar dover io continuaresicur mi fa venir la testa calda:ma pur impegno avendo di ciò faredi star io cercherò con mente saldae proseguir cantando come prima sia come si vuol la mia rima. 5 Or entro adunque giusto ai 2 di maggio dopo minacce tante e tanto dire fecer in fin la sù quel grande viaggio per quel paese franco inaridire: non li riuscì però con quel vantaggio che si pensavan loro e dal suo ardire han combattuto in ver come arrabbiati, ma n’ebbero a fuggir molto scornati. 6Di vincer sicur a lor premeva e il grand’ impegno fu per due motivi,un di vendetta e ciò il cuor li rodeva e questo li fe far moti sì attivi; l'altr’era che da loro si prevedeva che se non può riuscir passar per ivi far non potevan certo quei progressi che in mente si fissar tra loro stessi.7S’eran quei insorgenti vincitori potevansì portar da là in avanti avuto avrebber molti protettori così non fosse che n’avevan tanti. In Aqui andavan fin i traditori uniti al par di lor birbantiche certo ve ne son in ogni loco, ed era un guai sicuro e non da poco.

A pag. 99 panorama di Castellettod’Orba in un’incisione della Statistique du Departiment deMontenotte di Chabrol de VolvicNella pag. a lato, il Castello diMornese

CANTO SESTO

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8Giuntivi son adunque in quei contorni Un’ora avanti di tre grosse schiere: andò la prima a far un giro attornopassò in situazion, quali a vedere fanno d'orror che in quelle anche di giorno vi stentano a passare le stesse fiere, bisogna confessare e creder vero ch’erano guidati da buon condottiero. 9L'ha fatta poi entrar in quella strada che il volgo suole dir della Nunziata, sta questa verso il nord, se ben si bada, e va a finir e far la sua entrata in quella sola e grande che una rada da parte dritta, dissi, ed appoggiata da Poggio al mur, qual va sin alla porta e altrove non può andar d’ alcuna sorta. 10 L'altra colonna poi fe altrove il giro ascose, calò monti, e venne in fine in quella strada entrar, qual io miro verso ponente e sono vie meschine. Ma quel che le far così mal tiro n’era pratico ben, sta alle Cassine108

ne siti stessi, ma nell’ Ovadese e questo si può dir, chiaro si rese. 11Tal via in fin va ancor a sprofondare in quella sola, qual fu già notata, coperta resta in su, che non appareda due monti e in giù vien abbassata, quella a sinistra in alto più compare, quel della dritta va più in giù in calata: il primo sito detto vien S. Pietro quell'altro poi ha due cassine retro.12La terza in fin di tal razza di gente venne da Ovada tosto a dirittura, ascese quella in su direttamente per quei dirupi e tal scoscesa dura.La guida aveva ben li giri a mente perita era per certo a dismisura, quella sul poggio uscì per attaccare con gran coraggio, non si può negare.13 Una quarta si ben ve n’era ancora ma l’Olba quella già non l'ha passata, io non dirò il perché, ma verrà l’ora altrove la ragion ho trasportata. Non si capiva certo per allora il fin per cui colà stesse fermata, si seppe dopo il gran combattimento e d'ogni cosa a visto il compimento.14Avean suo concerto fatto bene ed eseguito ancor perfettamente, non posso che lodar, come conviene, l'astuzia e il buon agir di cottal gente, in tre colonne fur e ognuna viene e giunser tutte insiem quietamente poteva dirsi in ver ben bene intesa per fare per appunto una sorpresa.

15Ma tal supposizion li riuscì vana altro v’andav a far una sorpresa a Sajsi ch’ha una mente pronta e sana e mai si suol fidar e tutto pesa.In quella notte, e non fu cosa strana fece elli verso l’Olba una discesa e a visitar andò tutti quei siti s’eran con attenzion ben custoditi.16E appunto di mattino nel far del giorno mentre ascendeva su quella bel bello due schioppettate udì per là d’intorno: a caso - egli pensò - non esser quello. Lento elli già non fu, fece ritorno ben tutto ansante dentro nel castello a rinforzar mandò quella tal parte dove pensò giocar poteva l'arte.17E in ver non l'ingannò la sua accortezza sebben segreta fu la spedizione di que’ briganti, che la lor finezza non vinse del gran Sajsi l'attenzione. Un contadin, che gente son avvezza andar di buon mattino, vide un'unione di gente sopra un colle, diè l'allerta,due volte elli sparò e fe scoperta.18Sajsi non si perdè si sicuramente: ne’ posti distribuì li suoi soldati corser li paesan ben prestamente e con la truppa insiem sonsi appostati: la campana fe’ dar espressamente per all’ intorno far tutti avvisati, e non v'andava men che di prestezza l'attacco pronto fu con gran fierezza.19Tutti i colpi primier di quei bestiali e quel picchetto su ch’ era in San Pietro109

della colonna fur di quelli tali che vennero dal nord del monte dietro la truppa li tirò de’ colpi uguali ma presi si vedendo e dinanzi e dietro, perché l'altra vi giunse da ponente con numero maggior ancor di gente.20 Pensaron esser ben di ritirarsie fu prudente tal sua ritirata, dietro al castello andar ad appostarsi di là tiravan dritto nell'armata: ma vider altri su sul poggio alzarsi ch’era la flotta terza nominata e chiusi si trovar fra quel castello e quel ch’ era sul poggio fier drappello.21 Dentro il castel non sono potuti entrare ché gli uscii quai vi son erano chiusi e altri vedendo poi a penetrare nel Poggio pel rastel furon delusi d'ogni speranza di poterne andare tutti rimasero lor perciò confusi come fu allora quel rastrello aperto lo seppe niuno ancor non s’è scoperto.

22Posaron sicchè l’armi, e prigionieri si resero per allor ai briganti, ma un paesan di sensi non leggierigridò, si fé sentir da tanti e tanti ch’eran su nel castel amici veri,uno discese e aprì se ben tremanti mentre che in tal istante dai balconi ucciser gli altri tre de’ mascalzoni.23 Allor li paesan e li soldati ch’ eran si può dire tutti perduti, tutti su nel castel ne sono andati, chiusero tosto e poi si son valutidella sua libertà, che ben portati varii dei insorgenti han poi battuti e da ogni parte si faceva fuoco che quei briganti non trovavan loco.24In quel’istesso tempo e in tal azione il forte Gambacurta110 e un uffiziale eran sul Poggio insiem ed in unione da quel primo rastel e principale di cui qui sopra già vi fei menzione, qual dava ingresso a quel drapel bestiale ma che battuto fu poi dal castello talmente che più d’un trovò suo avello. 25Sentissi il Gambacurta ad intimare: T'arresto – disser – tu sei prigioniero. L’attaccan per poterlo via tirare che di condurlo fuor era pensiero, ma gli urta tutti e se li far staccare poi con aspetto par e ancor più fiero un colpo tira ed un ne getta a terra e per quel tal finì tutta la guerra.26Ma come che già tanti eran entratied elli v’era sol con l'uffiziale previde d’ essere ambi trucidati facendo lotta ancor sì disuguale,così dal muro giù si sono gettati senza riguardo e non cercaron scale e corser alla porta e son entrati dentro si son almen assicurati.27 Penso sarete tutti un po' curiosi sapere chi sia poi il Gambacurta, qual fece attacchi tanti e sì furiosi e tanto in occasion si batté ad arte.Se – dico – siete tanto premurosi di ciò saper, ve lo dirò alla curta: questo soldato fu là del paese dei provinciai che fier molto si rese.28Corse alla piazza e al gran rastel monta111

dal qual si fa in Castel la prima entrata; di truppa v’era appunto colà giunta che s’era dalle botte112 allontanata: Vili - questo gridò - non vi fa d’ onta, indietro, o che vi do una schioppettata. Ed ad un tempo giunse l'uffiziale con sciabola nuda e fe’ minaccia eguale.

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29 E veramente se si deve dire quelli soldati che restaron fuori di quel castel, eran di poco ardire e niente amanti lor dei bei allori.Si vide un uffizial presto fuggire: gelati aveva in ver tutti gli umori, s'andò nasconder giù in una cantina e si coprì trovando una fascina. 30Fortuna che fur buon li terazzani, correvan dappertutto e in ogni lato, non feano per certo colpi vani, ma andava il suo tirar ben aggiustato: facevan sul castel poi colpi strani, era un spavento che mai là s'è dato. Ma Sajsi era con lor, il capitano, e quivi consisté tutto l'arcano.31Al fatto ritorniam. Con lui li fe’ fermare perché i briganti già s’eran portati alla gran porta e andar quella ad urtare con grande ardir, ma là vi son restati:credevan di poter quella schiantare, entrar con facilità e far squartati, ma quei di dentro appunto dai balconi uccisero ben tosto i mascalzoni. 32La verità però non vuo’ lasciare: parevano tanti Orlandi113 disperati, la vita ebbero – è ver - colà a lasciare, ma molti ne restar ben spaventati: per due garzon presto fini l'affare ché in quel tal sito fur lor trucidati, che poi io narrerò, ch’or mi conviene, la battaglia contar ciò che contiene. 33Tornossi il Gambacurta a trasportarea quel tale rastel e tosto è entrato dietro al castel, se vi può rammentare, e trova là un brigante e l'ha arrestato, ma presto li fuggì, si mise andare un da un balcon, l'ha presto fucilato. Usciva fuoco tanto dal castello che compariva appunto un Mongibello114. 34Dove dall'altra parte vi è il giardino per quei dirupi in mezzo son montati dal poggio al mur ognun si porta chino, per dallo stesso andar lor riparati ed ebber nel pensar lo spirto fino montar l'un sopra l'altro e sono entrati: a quattro li riuscì d'andar di dentro e s'avanzarono oltre fin nel centro. 35Alla sinistra del rastel in fondoDella spiazzato e giunto nel cantone,v’era un soldato che con cuor giocondobatteva dal ripar, ma un fier ladronevide là dal di fuor foro rotondomise il fucil là dentro il mascalzone,tirò giusto, ferì quel poverinonel capo, e restò morto quel meschino.

36Dei quattro poi a cui riuscì d'entrare in quel giardin ne furono là due uccisi quelli che voler oltre ancor andare nello spiazzato poi si sono divisi: uno alla porta andò quella a crollare, l'altro più in al torrion, e fur conquisi, parevan due Orlandi, ma infin morti ambi restar, e il diavol se li porti. 37Quel ch’era dalla porta il colpo ha preso da un di que’ balcon, lo prese bene, l'altro poi al torrion venne disteso dall'uffizial Michaud115 di ferme vene.Già - come prima questo avete inteso – fermossi dal rastel, ma dir conviene che prima di morir quel fiero tale ai due che dissi die’ colpo fatale. 38 Eran i poverin ragazzi ancora senza consiglio e niun avvedimento sullo spiazzato fermi eran allora, tiravan colpi a dir cento per centoed ecco andati son alla malora e vede ognun che l’han quasi ricercata, non son da compatir: se l’han trovata.

39Ciò che alla Rocca fe’ di dispiacere fu un caso sol, ch’un uomo restò ferito, a casa si portò prese parere ma giudicossi prenderà partito.Le predizion furon purtroppo vere che in cinque ore al più restò spedito. Fu questo tutto il mal in quel paese che dal combattimento si rese. 40Gli altri insorgenti non si fer più avanti, eran sicur di più di cinquecento, battevan su dal monte ben costanti, facevan fuoco ma di gran spavento, ve n’eran a sinistra d’altri tanti dietro alle case e non perder momento, tiravan con star sempre al coperto, per certo era tremendo un tal concerto. 41Ve n’era longo ancor le due strade lateralmete di S. Pietro al monte che l'una e l'altra giù in profondo cade, restando in una sol fra lor congiunte, quali ai due lati pur ancor la rade il suo vivaggio ed il castel a fronte da quale usciva pur un grande fuoco ma lor eran coperti in ogni loco. 42 Con tutto ciò il castel soleva fare fuoco di furia tal e continuato che non saprei qui certo ben spiegare, pareva in verità tutto incendiato. Correva in ogni posto a incoraggiare il prode comandante in ogni lato, tra il fuoco dentro e quello dall'esterno sembrava che vi fosse un ver inferno.

43Ciò ch’al nemico fe’ più di spavento fu il fuoco qual uscì dal gran torrione di quei di sopra niun era in cimento, scoprivan dei briganti ogni loro azione, facevan colpi con avvedimento, ferivan, li portar gran consione, perché colpivan quelli di lontano, chi si lasciò veder di mano in mano. 44Non erano minor le fucilate che andavan dalla porta là giungendo e senza interruzion erano gettate non già così così, di quando in quando. N’era pur dal giardin pari mandate che tutti al fin s'andar più spaventando se stati fosser anche cinquemillanon entravano per certo nella villa.45Si sono infin accorti que’ sgraziati di non poter riuscir in quell'impresa, s’avvider che quei, quai son entrati nel poggio del castello a far contesa furono parte maggior là trucidatie prest’ in rete fur agli altri tesa:e che se il loro fuggir non era prestorestavan tutt’ insiem, vuo’ dir il resto. 46Non v’era per salvarsi che fuggire com’ hanno fatto e se ne sono andati, ma li crescè l’orror al non più dire il suono d'un tambur dietro od ai lati. Chi allor sua confusion potrà capire, si son chi qua chi là precipitati, quei ch’ eran poi ancor longo quel poggio si rotolaron giù, ma senza appoggio. 47Per quella strada gli altri son discesi che delle vecchie abbiam denominata116, ma giunti a un certo posto si son resi, perché la ritrovar colà tagliata. Precipitati adunque e non discesi fer l'un sopra l'altro rotolata, s'andarono a fermar giù in un ritano un tiro si può dir, un po' lontano. 48Eran li birbi tanto spaventati che miseri in un corso sì furioso che inavveduti insiem si sono trovati in fondo e nel ritan tutti schifosi: restaron fra di lor incavestrati che non sì tosto com'eran vogliosi poterono rialzarsi per fuggire sul dubbio li potessero inseguire. 49Allora sì che venti sol armati che fossero là giunti in quel tal sito avrebbero non sol quei disarmati, ma uccisi ancor e in parte era finito. E che volete dir, fur fortunati: ebbero tempo e ognun se n’è fuggito dovevasi - mi par - presto ciò fare e non si fece, li lasciar andare.

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50Un’altra strada fer altri a fuggire e alcuni di partir fur impediti, a niun più valse se quel sì gran ardire temevan che saran sempre seguiti. Oh Dio che confusion! chi può capire in cui messi si son quei fuorusciti. Infine giunser poi nella gran strada che guida il passeggier dentro d'Ovada. 51 Io non saprei spiegar la confusione che gli ovadesi avran avuto allora quai stavan aspettare con attenzione vincesser li fratelli in men d’un’ora,ve n'eran – vi so dir – molti in unione che stava osservar fin dall'aurora e tanto più che qualchedun di loro anch’essi eran a far un tal lavoro. 52Il nome di fratelli dare solevan fin da principio a que’ tai piemontesi e ammetter come mai loro dovevan a tanta fratellanza i brutti arnesi ma tutti la ragion ben apprendevan perché fean così quei ovadesi: s’uniscon volentier lor tutti insieme quelli d’irreligion, d'un vile seme.53Non tutti eran però d'un tal umore so dir vi son là dentro onesta gente dell'onestà amator e del Signore piangevano tanto mal secretamente. Ma che potevan far? era impostore chi non voleva dir a sua mente venivan anzi questi denonziati di quel sistema lor contro giurati. 54Sìcché li vider dunque ritornare scornati tutti e in ver ben fracazzati con danno non sicur di riparare e questo li rende di più arrabbiati: perdettero la speranza di piantare l'alber117 che s’eran sempre protestati, fremevan, varii sono caduti infermi dei più maligni e più cattivi germi. 55Abbiam noi detto già, vi sovverrete,che in là dall’Olba, altra colonna v’era, ma non s’è mossa e voi non capirete per qual ragion così fosse leggiera: certo io son che non vi stupirete se nota vi sarà la causa vera, erano sessanta sol di quelli arnesi, dico briganti, e il resto genovesi.57Vider quel fuoco tanto indemoniato udivan dal castel quel gran fracasso l’ intorno scorto han ben fortificato, cinto di difensor ad ogni passo, d’ascender niun sicur s’è più azzardato,cattivo parve ben quell'imbarazzo sebben non fosser dunque lor inermi stimaron ben miglior di star là fermi.

58 Perché - dirà qualcun - quelli d'Ovada, e con tanti altri insieme de’ genovesidesiavan che così la Rocca cada ed ai briganti tosto fossero resi? Mi par a lor che gli importasse nada118

a quei qual uttil mai cattivi arnesi non mi fa specie se a voi sembra strano atteso che non v’è ancor noto il piano. 59 Prima di quello espor, dir più conviene d’aver la Rocca quanto a quei premeva:sarebbe il lor quartiere stato là bene ed il partito più forte si fea; sarebbero così con minor peneandati avanti, ciò che si credea e giusto come lor han concertato tutto prendevan presto il Monferrato. 60 Formato avevan giusto il suo piano liguri, cisalpini e piemontesi, e vi prestavano pur la loro mano sebben secretamente li francesi, quella nazion e non vi sembra strano facevan atterir tutti i paesi, eppur dicevan che la loro vaglia119

bisogno non avea di tal ciurmaglia. 62 Di ciò si sono sempre protestati di più miser fuor delle scritture che mai sono stati lor quivi intrigati giurando non pensar su questo pure, ma non ostante tutti gli attestati al mondo già non parver cose oscure credette sempre ognun che tale scossa da quella gran nazione venisse mossa. 63 Lasiam ora così la sua opinione d’accrescer era più il di lor partito e fatta avean già la divisione come se fosse il tutto ben riuscito120. Toccava ai ligur per la sua porzione dal Tanaro di qua al loro unito, ai cisalpini poi tutto quel resto che sta al di là, e fu il concetto questo. 64 Ma qui si può cantar com’il salmista, il desiderio in fin de’ peccatori121

figura per lo più fa molto trista e termina coi pianti e negli errori. Il sommo Dio qual ha tutto in vista122

permette ai buon cristian persecutori, ma poscia il poverin che vien oppresso risorger deve e ciò si vede spesso. 65 Per ritornare adunque ai spaventati perversi ed insorgenti fuggitivi, ch’andaron attaccar tanto arrabbiati e ch’avvivar si può dir furtivia dietro tutti non sono ritornati ché morti vi restar e de’ captivi123: a quindici si è fatta là la fossa e marciran in quella le lor ossa.

66 Otto feriti fur e prigionieri ve ne arrestar ancor de gli altri appresso,quattro abitanti, ma di spirito fieri, Battal o Cour content che gli è lo stesso,Giacomo Montaiutti de’ più altieri,e forti abitator che vi sia adesso Colino Lavagnin, Chiabrera unitihanno insiem quei tai dopo inseguiti.67 E giunti alla metà della via nuova quella che chiusa sta a doppio rastello, sempre fuoco facendo per far prova di metter giù qualcun del fier drappello, sotto un rogo mirar e là si trova un personaggio d'apparenza bello, gli appostan li fucili e quel s’abbatte, lo fecer prigionier ed era un frate. 68 Ebbero forza ancor molti a fuggire sebben feriti chi di più, chi meno, varii dovettero per la via morire di questi non saprei quanti si sieno dopo: di quei ch’erano in forze per guarire il numero nemmen si seppe a pieno.Si disse ne mancar di più di centodi quei che si trovar là su al cimento. 69Di questi in gran parte sono fuggiti e anelaronsi ben presto a constituiregli altri dispersi poi si son uniti portandosi a Taliol124 per là dormire. S’ erano di sicur tutti avvilitie non avevan più quel gran ardire.Ma tempo è in or lasciarli riposare fin a doman, poi tornerem narrare.

CANTO SETTIMO

1 Ieri veduto abbiam che son fuggiti, da là precipitar con gran spavento, da rabbiosi fur quei fuorusciti perchè ben non gli andò il combattimento. Ma poi non son ancor tutti finiti li casi a raccontar e il compimento lo sentirete poi - che è ben curioso –per loro e tutti gli altri vergognoso.2S’accrebbe a quei briganti nel fuggire terror non poco e insieme un gran spavento; un suon di tambur si fe’ sentire rotti già essendo e giùsto in quel momento:altro che vanti, ora fa bisogn d'ardire, ma tempo più non v’è che il compimento di loro disfatta aver temetar125 certo appena che s’udì quel tal concerto.

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3Fu il caso a dir il ver da spaventare qualunque armata ancor fosse più fortedoversi per davanti riguardare e dietro si sentir altra coorte. Penso nessun sicur saprà spiegare avuto quanto avran sue gotte smorte quanto quei crudi cor si sono smarriti e quanto si saran lor atterriti.4E chi gli si apportò terror fatale fu un garzon di spirto veramente, ma che in un reggimento provinciale era uffizial, e accorto che tal gente era battuta ben: non pensò male. Sen venne via ma speditamente da Carpeneto con due o tre compagni e presersi un tamburo, non fur baggiani126.5E giunti questi tosto a mezza strada, che appena un’ora vi è là di distanza, pensò di non tenersi molto a bada, fe’ quel tambur toccar poi in sostanza per spaventare quei, sì che li cada l'animo a più tentar e la speranza: se non ottenne in tutto sua intenzione, almeno gli accrescè la confusione.6Penso che fosser ben da compatire se molto più si son quei spaventati, eran sforzati già al di là fuggire temendo essere ancor perseguitati, sentendo poi di più sopravvenire dietro altra forza furono disperati, perciò correvan senza alcun riguardo,fuggivan tutti insieme al puro azzardo.7Scarpe dietro lasciar e dei fucili, mantelli, berretin e dei vestiti, di sciab[o]le, dei cappot e delli stili, roli di quelle carte ov’ son uniti i nomi di ciascun di quelli vili ch’andaron là e allor tanto atterriti. Varii però di quei birboni veri non potero fuggir, fur prigionieri.8In quello stesso giorno i Carpenesiriuscilli ancor di far dei prigionieri, trovaron per quei campi quei arnesi che addietro si lasciar i masnadieri, come ne ritrovar anche i Rochesiciò che li fe’ venir un poco altieri: pareva a lor non più dover temere quando fesser ritorno quelle schiere.

9In Ovada fuggendo in fin sono giunti ansanti tutti ben e rovinati, non più in quel numero no, facendo i conti, ne son lassù e per cammin cascati. Quelli d’Ovada a finger furono pronti, entrar nel borgo lor non gli han lasciati, ma quella – dissi – fu pura finzione chiara e non già del mondo un'opinione.10Non mi vedrete mai ad imitare il ligur Gazzettier127, qual dalle sfere ei n’esce ed a passion suol raccontare, quel eleva oppur aggiunge a suo piacere, e per lo più si sente ad approvare li tradimenti e azion più vili e nere, cambiar li fatti in tutto e ben di sbalzo,coprendo il ver e raccontando il falso.11Peggior ancor egli è del Gazzettiereil Monitore128, oh Dio che uom infame! Non solo cava fuor delle chimere, ma al roversio rapporta ogni certame: fa ancor d'ogni nazion pitture nere che rider fan però, fan venir fame: a tavola si contan per sollazzo nemmen credito egli han da un pur ragazzo.12Io fo con Rocca forte ben vedere, se sia quel ch’ho detto falso o vero: se mai gli altri li fan poi travedere ciò non li va1, un uom che è gazzettieropersone deve aver schiette e sincere, come ve ne sono tante e a dovero; siti quelli non sono poi sì lontani che non si sentano lì racconti sani.13Li patriotti – dissi – piemontesi alla Rocca loro dier l'assalto ieri, v’eran là sopra per difesa estesi soldati almen cinquanta, forti e fieri, quai circondati fur e si son resi, tutti restati son suoi prigionieri. Nulla restava più di dover fare che del castel la porta giù atterrare.14Mentre per atterar eran tal porta da Carpenetto tosto è sopraggiunta truppa con paesan; ciò li sconfortaper non aver più d'altra gente pronta, onde il caso sicur più non comporta fermarsi là. Così ce la racconta e in tutto ognuno sa che quel mentisce e quel raggir bugiardo ognun capisce.

15Perché si sa di certo che i briganti che Roccaforte andar ad attaccare passavan cinquecento, ma di quanti è qui uopo non fa tragiversare, dice che i prigionier fossero tanti, quanti ve n’era senza più fissare che il numer cinquecento, come ho detto. Ora mirate quel, se parla schietto. 16 Per ritornar di nuovo a quell'impresa faran li patriotti un altro sforzo, la Rocca sono sicur che sarà presa e allor li metteran un duro morso che li vendicherà di tanta offesa, giacché s'aspetta venghi un gran rinforzo.Quest’è la veritier gran relazione fatta dal gazzettier di tal nazione.17S’eran nel castel solo cinquanta soldati e fatti tutti prigionieri, chi gli obbligò di far cotanta forza, la porta in atterrar, ben di leggieri quella poteva entrar gente che vanta, chi gli impediva? Se son detti veri ognuno può giudicare qui la bugia la può scoprir leggendo chi si sia. 18 Ma passa il menzogner ancora darefranco ragguaglio di più d'un paese ch’ hanno voluto sponte lor piantare l'albero infame in quei tai giorni e mese: principia Castelletto129 a nominare, più un San Cristofo130 appresso e poi Mornese131,

Casareggio132, Silvan133 e insieme Lerma134, Taliolo135, Cremorin136 e ancor non ferma.19V’aggiunge Montaldo137, poscia com-prende i luoghi al qua di Bormia138 situati e dice esser certo e lui intende ovunque saran gli alberi piantati. Gioisce in dir così, il furor l'accende, ei tutti vuol che restino ingannati. Oh gran miseria dell'umanitade, maledetta passion e cecitade.20In pochi luoghi – è ver - già nominati L’arbor di libertà vi fu piantato, ma dai locali no, lor non sono stati, son i briganti che l'han innalzato, ma fu schiantato tosto dai soldati e ognun di tal region s’è rallegrato e ciò al di là dell’Olba sol s’è dato, di qua fin’or non si è ancor penetrato.21Molt’altre scrisse di millanterie quali non voglio perdermi a notare, perché son tutte in fin bugiarderie che la cieca passion fa desiare. Dunque lascierò star tal gofferie, l’istoria vuò seguir a raccontare, mi studierò sicché d'andar appresso e niente vi sarà sicur d’ omesso.

A lato, il forte di Gavi

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22Abbiamo or in Taliol a ritornare dove dopo v’andar quelli briganti, vi volerò in un pian tutti schierare sopra d’Ovada ed alla Rocca avanti ne fecer poi venir a rinforzare da Carosio, ma non saprei dir quanti, ma quelli paesan stavan attenti tutti ad osservar suoi movimenti. 23 Fu ai 2 di maggio adunque la battaglia furiosa lassù intorno a Rocca forte: tal nome li vuò dar, voglia o non voglia, diffendersi poté, n’ebbe la sorte; fu in mercoledì - che certo non si sbaglia - al giovedì, che tosto vien consorte calaron molti al pian per spaventare si misero [a] ballar, cantar, girare.24Si stava in attenzion da tutta quanta la guarnigion e ancor da paesani, se avevan quei ancor baldanza tanta d’andar a riattaccar all'indomani, l'avevan fatto dir da più cinquanta, ma videsi che fur suoi vanti vani, l’Olba non s'azzardar più di passare, la Rocca non riuscì di spaventare.25Per tre continui giorni da quel monte calaron loro giù nella pianura, ve n’eran a caval e a quei congiunte le schiere a piedi, e poi a dirittura facevano veder che n’eran pronte a dar attacco con furor e arsura, ma dalla Rocca niente si temeva e son per dir, da loro, che si godeva.26Su e giù correvan quei stanti a cavallo di là dal’Olba in un ben longo prato, ed erano per certo in un gran fallo nessun sicur non s'è mai spaventato, anzi dovetter far un altro ballo che non avevan forse sospettato vider discender giù venti soldati da alcuni paesan accompagnati.27Quei – dissi – eran di là dal’ Olba in riva,questi eran di qua, ma si scoprivan, avevan il tamburo li birbi e pivasonavan invitando e si capivan chiar’era il sol come in giornata estiva, certo proprio vedendo si stupivan che avessero cotanto d'ardimento ch’esporsi contro a tanti in tal cimento.28Si son e gli uni e gli altri ben postati, principio poi si die’ a scaramucciare, tiravan gli insorgenti disperati le rive fean molto risonare. All’incontrario quei pochi soldati adagio andavan più nel schioppettare, ma questi d’armi essendo più periti varii briganti ne restar feriti.

29Alcuni v’era poi de’ paesani che san fare dei colpi, ma aggiustati,uno a caval colpo ebbe nelle mani, perdette un dito e se ne sono andati, ma il gioco fatto da quei fier villani, l’essersi lor cotanto affaticati non era senza fin, si sa sicuro, e a chi badò non li fu tanto oscuro.30Si giudicò da Saysi saviamente qual fosse dei briganti l'intenzione: credevano con ciò subitamente da là dovesse uscir la guarnigione unita ai paesan e facilmente andarli ad attaccar in confusione, pensando se cotal riusciva gioco facil sarebbe entrare loro nel loco.31Avevan li birbanti destramente fatto dietro girar una porzione dei forti e più robusti di sua gente, che come usciva fuor la guarnigione per far combatto all’Olba poi da niente quelli furtivi entrar senza questione. Ma Saysi capì tosto la malizia e ferma fe’ restar la sua milizia.32Al venerdì siccom’al giorno appresso il gioco stesso fer quelli briganti e dalla Rocca ancor calò lo stesso piccolo corpo, come il giorno avanti, al solito tirar quelli di spesso colpi spietati, gli altri poi non tanti, ma in fin feriti fur due di coloro, quando nessun ve ne restò di loro.33Fecer ritorno in ambi quelle serelà su in quel pian, ov’erano accampati,domenica di poi tal genti fiere fur attaccate lor inaspettati: in mente venne a Saysi un bel pensiere tosto lo fe’ eseguir ed ha mandati sessanta fra di truppa e paesani a salutar quei birbi e gran villani.34Passaron quieti l'Olba tutti questi e ascesero quel monte tale gente, andaron sopra un colle molto lesti in faccia di Taliol in sito avante: là giunti insieme e molto prestili schioppi scarican unitamente e messi gli han in tanta confusione che abbandonaron tosto tal regione.35Com’il lepre fuggir quand’è cacciato io torno a dir in molta confusione e tutto quel drappel restò sbandato.Lasciarono dietro fin la provisione: alcun però di quelli fu arrestato ad altri poi servì quell'occasione e il favorevol tempo per fuggire e li riuscì l’andarsi a constituire.

36Asceser in Taliol tosto i soldati e l'albero schiantar di libertade, se fosser un po' avanti là arrivati prendevan di sicuro per quelle strade il generale, ma tardi son andati a Ovada sen fuggì per veritade tutto tremante v’arrivò ed ansante, fortuna l'aiutò quel gran birbante.37Due in Taliol allor hanno arrestati e molto allegri son tornati via, li prigionier con lor si sono menati, ed eran di quei di grande babia139, de’ quali se ne sono poi ritrovati sparsi per qua, per là, per ogni via,cinquanta e forse più n’hanno perduto in giorno tal, lo che si è poi saputo.38Trovossì all'indoman lungo le strade scarpe, fucili e molti d’altri arnedi, sciabole, pistole, stil ed altre spade;trovavansi in andar tutto fra piedi. Ed ecco come poi ai birbi accade, possibil cieco uom che ciò non vedi, Dio sol distrugger può le monarchie e per castigo far delle anarchie.39Fecer ritorno allor al suo quartiere qual in Carosio sempre han sostenuto.Compiute non sono più le loro schiere, che - come dissi - molto avevean perduto a partitanti poi le gotte nere li vennero per quel ch’ era accaduto e in cambio di restar illuminati son diventati ancor di più acciecati.40Indietro devo in or io ritornare, le generose dir e grandi azioni ch’ hanno saputo quei briganti fare mentre han fatto in Taliòl le sue stazioni.Fatevi ben in or rammemorare tutte le precedenti cognizioni vi sovverà d’aver io già parlato d'un certo prete e non ho continuato.41Bene, quel tale, qual fu conosciuto, li fecero pagar duemilla liree buon ancora il fatto gli è paruto volevan la maggion sua distruire, ma amico là a Taliol gli è comparuto che seppe così ben e tanto dire che quelli in fin si sono accontentati di quei denari ch’han tosto ritirati.42Ma un altro fatto orrendo vuo’ narrare che mi sommuove il sangue ancora adesso e penso che ancor voi farà alterare se riuscirò [a] narrar e ben espresso. Tornate in vostra mente a richiamare quando la prima volta ha piede messo nel castel di Taliol quei intriganti e il grande mal che fer quelli briganti.

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43In quelli giorni che si sono fermati nella seconda volta in quel paese s’erano li principali tutti alloggiati su nel Castel140 e fur sempre alle spese del buon agente quei indemoniati, e ciaschedun di loro padron si rese, ma questo non bastò, mi par sì strano il caso che non sono darli di mano.45Mi fa tanto d'orror e dispiacere che quasi - dissi - non so principiare, ma pur mi sforzerò farlo vedere affin ne possa ognun poi giudicare. Diranne ciaschedun il suo parere quando che per intier saprà l'affare v’apparecchiate pur a intirizzire, v'avviso prima che mi metta a dire.46Tre bravi figli tien quel brav’agente: due son dottor ed un minore, la sera alla gran festa precedente udì il primo filiol certo rumoreche avevasi a arrestar fra poco gente ed ei che fosse misesi in timore, sentivasi però esso innocente parevali temer dovesse niente.47Dubbio li venne ancor esser potesse un suo cognato pur là del paese e ben secreto alcun a quei diresse di ciò avvisato insomma ne lo rese. Quello sebben delitto non avesse pure fuggì quando tal nuova intese e in verità l’ha ben indovinata a far di là ben presto ritirata.48Dal luogo appena quel n’é poi uscitoin casa andar tosto briganti armati chiesto e cercato l’han in ogni sito, ma già non v’era più, fur ingannati: sua moglie via menar ben ben pulito con quella nel castel son ritornati, videli su a salir quell'avvocato con sua sorella e incontro giù gli è andato. 49Andò là - dico - tosto ad incontrare per del coraggio far alla smarrita e videsi egli stesso ad arrestare, ma fosse almeno ancor poi qui finita. Il medico al fratel vuon aggiuntaree bene circa questi gli è riuscita, altro fratel di più di quell’agente restar e custodir ben strettamente.50Il padre ciò vedendo s'è portato su sopra per parlare al Generale di quell’arresto, e ben s’è lamentato, chiamò cosa han mai fatto a lor di male,poche risposte quel birbon gli ha dato,l'umigliazion per quanto sia non vale e tutti all'indomani menaron via col padre stesso ancor in compagnia.

51Seco alla capital han quei menati e chiusi fur e molto custoditi, ch’eran - inteser poi - lor accusati ben molto chiar dai stessi fuoriusciti,ch’eran d'intelligenza loro stati col comandante dei soldati uniti, che stavan nella Rocca contro loro: quest’ è l'accusa che li dier costoro.52Un foglio era poi tutto il fondamento che - disser - capitò nelle sue mani scritto chi sa da chi, qual'era sentouna risposta con raggir e arcani a far vedere che quell’è tradimento già non bastò, pretesti erano vani eppur quello da loro si è fatto apposta o un nemico almen tal carta ha esposta.53E’ ver, in quel sebben piccol paese vi son genti per ciò di far capaci, da certo tempo in qua fiero si rese. Meglio è fra brutti star ancor rapaci si sa che prima d'or l'odio si stese, altre accuse si dier pure fallaci, se han dato quelle non mi meraviglio so che nei traditor non v'è consiglio.54Gli han d’ altre cose ancor accuse date oltre di quella a tutti gli arrestati, cioè ch’eran genti sempre state fedeli a un re tiranno e appassionati; sapevan che da lor non son amate quelle rivoluzion, che son ingrate a chi metter li vuol in libertadee d’altre cose fuor d’umanitade. 55E s’han voluto in fin di fuor uscire, la vita conservar e ritornare a casa, furon otto mila lire dovettero sborsar, quest’ è l'affare. Ma fatto il pagamento senton dire doversi per ostaggio ancor fermare come di fatti gli han intrattenuti sicuro per otto giorni ben compiuti.56O grande crudeltà, udite appresso se può trovarsi fra le ircane fiere141

quando d’uscìr li fu dato il permesso un de’ briganti posto in quelle schieres’è nella pretenzion quel tale messo di far pagar a man del tesoriere altra somma di quattro mila lireprima che di lasciar quei fuori uscire.

57Ma via, gli altri fur meno crudeli e quel progetto l'han fatto sventare; un obligar ancor quei infedeli stare in ostaggio e fu il zio, mi pare, alle promesse bon non fur fedeli: per venti giorni vi dove’ ancor stare, l'hanno lasciato in fin venire via e si partì da gente così ria.58 Quest’è l’armata in ver repubblicana che i popoli vuol far tutti felici, la legge del tiranno è fiera e vana e tocca a tali genti farsi attrici e dar la libertà, gente inumana! Chi fiere vide mai maggior, più ultrici? Anzi compaion ben crudeli arpie, avide sol a far di ruberie.59Alla Rocca torniamo. Il comandante altre fe’ far più forti palizzate,una in castel che val poi tutte quante, al Poggio ed al giardin n’ha fabbricate, fe’ chiuder quel rastel che sta davante fe’ far a strade ancor di barricate e quelle piante tutte fe’ tagliare che prima li briganti fer salvare.60 Elli stimava tal popolazione qual seppela animar al non più dire. Vi fu Possier142 ch’un giorno ha fatto unione in piazza della gente di più ardire, poscia li fece longa un'orazione nel suo linguaggio e tutto fe’ capire. Evviva – fe’ gridar - il Rege, evviva muoia l'infame union, l'orda cattiva. 61Trovossi il comandante là presentee v’eran pur ancor gli altri uffiziali contenti fuor di sì brava gente ch’ eran di quell’umor e tutti uguali il saggio Saysi in ver di viva mente fece in tal occasion discorsi talich’altro di più colà non si sentiva se non Evviva il Re, gridare Evviva.62Quei di comunità, li consiglieri agivan anche loro con efficacia, facevano di più dei lor doveri, andavano tutta notte in giro in traccia eran provvisti ben i siti veri là dove uopo forza che si faccia la muta lor si dava per dormire, se andava l'un, l'altr’ era per venire.63Ma come che grand’ erano le spesesomministrar dovendo pane e vino ai pover paesano là del paese che in verità più d'uno era meschino,un atto consolar ben ben s’estese, l’inv[i]aron per espresso su in Torino per dar al buon sovrano di lor buon contoe dell'impegno qual s'erano assonto.

A lato, il cortile interno del Ca-stello di Tagliolo Monferrato,con il balcone dell’arengario,dopo il restauro del D’Andrade

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64Contento il Re di lor, per caritade di grano gli accordò sacchi cinquanta, affine con maggior virilitade il povero a difender si presenta e perché vedan sua maggior bontade che non si può spiegar quale sia e quanta, gli accorda ancor pur un mille lireper quelle spese che li puon venire.65E fe’ sperar di più, che nel progressoavrebbe fatto d’ altre sovvenzioni, ciò il pover rallegrò fino all'eccesso, che uopo più non ha d’esortazioni.Andavan dal Saysi molto spesso e lui sapeva far delle orazioni che li metteva in tal risoluzione di far fronte a qual si sia nazione.66Lasciam ora così, ché il canto è longo,e prima d'or non me ne sono accorto, sarete sazii voi ancor suppongo, ma vi assicuro che io non ho torto è natural, se a ragionar mi pongo, li tiro giù per dritto e ancor per torto, ma nel bolor tal volta mi sovviene che d’annoiar cotanto non conviene.67Ora vedete che vi do licenza,anzi vi prego tutti che n’andiate.L’udire tutto insieme non è d’essenza:basta che in ogni giorno ritorniate;quanto durerà ancor non ho prescienza,ma non fa uopo a questo, che badiatefinchè i briganti resteran in sena143,spero che a raccontar avrò la lena.

CANTO OTTAVO

1Senza perdere tempo in complimenti com’ in principio sempre si suol fare in questo canto non sarem sì lenti, andrem l’istoria tosto continuare, non parlerem per or degli insorgenti, ché prima io vi vuò notizia dare dei communisti e poi d’altri signori del luogo e degni in ver i bei allori. 2Abbiano detto ier ch’ erano attenti quei di communità, quali non son tanti, cinque in numero son que’ tai agenti ora però, ciò che non era avanti, messi si son due aggiunti brave genti per questi affari appunto sì importanti,essi però son sol per provisione e in assistenza agli altri in occasione.

3Il primo presidente144 a consiglieri Mordiglia145 egli è notar, uomo polito, correva anch’ei notar, ha bei pensieri Vassal per terzo a quei ne resta unito, Panizza il quarto e serve volentieri nel ben oprar non è mai disunito; quinto Paravidin146 amante in vero dello stato e del re, saggio e sincero.4E’ ver, ch’ erano poi lor sollevati sia nel vegliar di notte o in altri affari dagli altri in specie almen dalli assennati,quali facevan ronde ai luoghi vari e giusto par che siano qualificati, Burgata per primier ei non ha pari,Domenico però qual s’ impiegava a far buoni riparar e affaticava. 5E’ uom giusto e amante dell'onesto fedel al suo prence ed al paese, ne stia alcun con lui prende pretesto che certo non fa mai vane contese. Insomma - vi dirò - soggetto è questo da non cercar nell’inoneste imprese egli è incapace certo di viltadee di mancare a niun di fedeltade.6Merialdi andava ancor e ben di spessodi notte a visitar tutti i picchetti, il Viano Malco caldo era all'eccesso e invigilava al par de’ sopraddetti: quei altri che vi son poi in appresso quai eran dai incommodi interdetti pagavan perché vi fosser messi altri soggetti a far per loro stessi. 7Intanto i ben attenti paesani alle pattuglie fuor ivan del luogo, oggi gli uni e gli altri all'indomani facevan ogni giorno un tale sfogo,gli ardori lor per certo non fur vani,distrussero sicur ben grande rogo a cui fuoco per dar eran le spie che andavan arrestando per le vie.8Nel luogo dentro pur n’han arrestati in ogni giorno di que’ tai spioni del luogo e forestier ve ne son stati, quai si servivan lor dell'occasioni per guadagnar eran ben ben pagati, ma cari li costar que’ buon bocconi, n’hanno arrestati ancor per sospizione, ma breve era di questi la prigione.9Per quanto in questi canti v'abbia detto che nella Rocca tutti erano caldi, difendersi ed espor il loro petto alle battaglie e star ben forti e saldi: non sarei certo qui un uomo ben schiettoquando dicessi non v’eran d’araldi: dei traditori vi fur, poveri e ricchi, che la prudenza vuo’ ch’ io non li dichi.

10Vi son quattro fratelli Montaiutti che solo lor di quei valevan dieci, fean col suo calor anim’a tutti, e a prender l'armi non v'andavan preci, non sol sono di valore, ma son astuti e poi di fedeltà non sono già greci, i primi erano sempre all'occasione di qualche all'erta in quella tal regione.11Quasi ogni giorno qualchedun d’Ovadacercava andando là delli pretesti, ma perché alcun v’è sempre che vi bada e li conosce che non sono onesti, o s’arrestavan longo della strada o entrati i paesan subito presti, menavanli in castel dal comandante quale gli intimava andar in quell'istante.12Al sommo questo pur li dispiaceva le nuove non potendo riportare ai suoi fratei, da lor ciò si faceva la truppa per poter ben numerare se v’eran tanti quanti si temeva, se v’eran dei cannon od altro affare, insomma il suo mestiere era di spionefacendome ai briganti relazione.13Dopo il combattimento i disperati o fosse uom o fosse donna pure, che a Ovada avesse andar que’ scellerati, non li lasciavan stare punto neppure, trattavanli di birbi e di malnati, li strascinavan fuor di quelle mura e senza avere mai loro ricevuta offesa anche da gente più minuta.14Forse - qualcun dirà - che con ragione così quei della Rocca fur trattati, atteso che l’istessa inibizione avean lor, anzi eran arrestati. Ma piano esaminiam noi la cagione, per cui quei della Rocca son odiatie quella poi che odiar fa gli Ovadesiche presto resterem fra noi intesi.15Odio implacabile fu da lor preso verso quei della Rocca già s’ intese ed il motivo or or io vi palesoe capirete poi come s’ estese. Questo popolo tal s’è ben difeso ai undici d’april e ai due del mesedi maggio da briganti loro fratelli, la rabbia in ciò consiste, ch’ hanno quelli.16Se un odio tal poi ragionevole sia lo lascio ad ogni uom io giudicare, aver in mente quella gran pazzia ch’ognun a piacer lor sen debba stare, troppo alterata par la fantasia, superbi troppo son, almeno mi pare, l'uomo che di ragion è poi capace sa Venere nemen a tutti piace.

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17Quei della Rocca lor chiaman birbanti perché non san amar sua libertade, ma Dio buon stien pur essi costanti che tal invidia niun felicitade se lor ne son così di quella amanti non stian pur che a quelli nulla accadeall'incontrario, ma lasciti poi gli altri siccome son, sebbene non sian sì scaltri.18Se quelli della Rocca son indegni di quella libertà che tiene a bada l'Italia, le province e vari regni, cosa deve importare a quei d’Ovada:che tale grande ben da quei si sdegni, sopra di loro non che mai vi cada. Lasciam ora così e andiamo appresso alli briganti e mi par tempo adesso.19Vantavansi sicché quei di tornare a più furiosa dar altra battaglia quelli d’Ovada almeno solevan dare tali notizie e non fu la ciurmaglia facevan lor intanto reclutare, prendean ogni sorte di canaglia e ebber modo e gli riuscì di fare delli soldati molti disertare.20Quei della Rocca niente di spavento avevan per tai vanti certamente, ve n'eran di sicur ben più di cento avidi del ritorno di tal gente e si faceva intanto aprestamento per quei ricever convenientemente, anzi dicevan esser ben onesto di darli ritornando il loro resto.21Speravan molto lor sul capitano che saggio era e prudente e buon guerrie-ro, non si lasciava prendere di mano, era grazioso sì, ma insiem severo, poco dormiva e i posti poi pian pianon'andava a visitar e a doverodi notte tempo e se qualcun mancava quel senza remission lo castigava.22E tanto aveva appunto d'attenzione ch’elli di cose molte ha discoperte, un giorno udì tal qual sussurazione ch’ era in castel un gran condotto aperto e che lo fosse in tempo dell'azione, anzi ch’ avesser con qualcun concerto di far li birbi per quel penetrare e in segretezza dentro farli entrare.23Lo fece un tal sussurro sta ben all'erta e ogni sito andò ben visitare, premeva poi assai quella scoperta poteva essendo per là rovinare una portuccia in fin trovò aperta, poteva nel cortil ingresso dare e appena la toccò cedette al suoloe si poteva entrar per là di volo.

24Grande fe’ tutti ciò meravigliare e a chi riflette ben è caso strano, che mai potè nessun ciò penetrare di quelli che stan là, che v’han la mano, eppur ella e così, tal è l'affare. Restò confuso ben il capitano, ciò poi die’ cognizion di molte azioni fatte dai birbi verso tai regioni.25Quella tal porta dunque fe’ levare che di pericol grande era sicuro e invece la fe’ tosto ben murare per impedire il danno nel futuro, qualche finestra ancor fece serrare ed altre precauzioni usò, ch'io giuro, che se i birbi tornavan e compagni avrebber fatto in ver pochi guadagni.26Venne di quel condotto la notizia dal padre di quel tanto indegno frate che s’arrese per sorte ben propizia e di tal caso non vi sgomentate.Esercita il Signor la sua giustizia girate pur, non serve, e rigirate; non mancano i mezzi a Lui per atterrare quello che il perfid’om propon di fare.27Quello – dissi – ha scoperto a un paesanoil personaggio qual andava illeso con li briganti e così tutto al piano chiaro senza badar quell'uomo obeso: il paesan di mente un po' più sano il tutto riferì, ma ben esteso, tanto che presto presto fu arrestato quel tal soggetto che venne indicato.28Com’anderà io ancor non lo so dire, perché il processo non è in or finito147, ma poi per quello che si sente dire altri affari vi son a quell’ unito. Nulla saper si può, nulla arguire, potrebbe d'innocenza esser fornito, a me fa ben mal pro, lo dico certo, vorrei che uscisse ben da un tal sconcerto.29Tornaron - come dissi - al loro quartiere, quei insorgenti, quai han sempre avuto, ma come al chiar ognun può prevedere non era di star fermi a lor dovuto: faceva d'uopo di mangiar e bere e sapersi erano lor presto all'asciutto di maggio ai dieci e sei lor sono andati chi qua, chi là sicom’ i disperati.30Divisi lor si son in tre porzioni e andaron assaltar paesi varii:parte d’essi n’andò a bei squadroni verso Vignola148 e dentro commissariimandaron a chiamar contribuzioni, credendo non poter aver contrarii perché non v’era alcun per far difesa nel piccol luogo poi in tal sorpresa.

31Han dato gli abitanti la campana con la speranza almen di spaventare149

e totalmente poi non era vana, non li poteron longo tempo stare, ma prima la bestial tal caravana le case fece presto a saccheggiare; di più nel ritirarsi han dato fuoco a più cassine e il danno non fu poco.32Si son di poi ben presto rifugiati nel Genovese150, dov'erano sicuri, quel luogo era vicin e confina ai latilor tutti si rinchiuser dentro i muri. Neghino ancor che non son associati i liguri a quei tai, saran spergiuri, son ben lontan di quelli discacciare se sempre son con loro ad abitare.33Andò l'altra porzion di quei molesti a Bazzaruzzo151 e fer’ sue baronate: agli abitanti dei danari han chiesti, due milla lire le furon sborsate.Eppur chiamati son guerrieri onesti, anzi persone al cielo terzo portate, ma se vi stavan poi ancora un pocoera ancora finito allor per quelli il gioco.34In Francavilla152 i terzi e in Pasturana153

nel tempo stesso quei ne son andati, neppur a questi gli è riuscita vana non so quanti poi n’abbian là rubati, ma quelle arpie d’alma sì inumanaancora presto son di là sloggiati, fuggiron tutti insiem sul Genovese, vicino essendo ancor un tal paese.35Pensate piccol sono quei tai paesi niuna fare da lor posson difesa, armi non han, non han che i loro arnesi da travagliar154, e quest’è bell'intesa, e furon tanto più lor soprapresi. Devon il mal soffrir e ancor l'offesa, ma a suo tempo il Dio delle vendette155

li scaglierà sicur le sue saette.36Con commodo si son tutti portati al solito quartier lor generale; la truppa giunse tardi, erano andati, non fu maturo ancor il loro male, ma verrà tempo che saran pentiti e tutti faran poi un fine uguale com’ebbero già certi suoi compagni che son già morti, e fur i suoi guadagni.37Di spesso in tali giorni del ….156

facevan alla Rocca e in confusione tutti gridavan, poi prendevan l’armisoldati, paesan tutti in unione, e a ciò spiegarvi il vanto non vo’ darmi e chi chiara potrà far spiegazione avevan tutti un cuor da fier leonebastante a rintuzzar una legione.

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38 Ai quindici di maggio si è portato Alla Rocca l’Osasco, il Generale157. Quel cavalier i posti ha visitati e vide un luogo forte tutto uguale, contento fu e si è di poi spiegato che la disposizion si dava tale da far che sia il timor ben dissipatoe quel ceto ribel reso sgraziato.39Ben per poch’ore s’è colà fermato poi se n'andò, lasciò buone speranze, dopo un bel manifesto egli ha mandato come in tutte quell'altre vicinanze e dichiarava quel che è terminato l'indulto, ma che pur dell’ indulgenze s’usava ancor per otto dì avvenire per quei che s’anderebber constituire. 40 Un tal indulto - qual non ho citato –per li banditi, rei e disertori alli diciotto april fu pubblicato, se pur la mia mente non fa errori: un buon numero allor s’è presentato che ha goduto del Re i bei favori, ma i più colla speranza dei sostegni vollero sostener i suoi impegni. 41 Intanto si sentì che il reggimento d'ogni provincia esser dovea in piede, ognuno dei briganti fu scontento, e presterete a questo voi la fede.I loro manifesti a ciò inerenti inviaron ancor lor dalla sua sede alle comunità che a sua vista pareva a lor d'aver fatto conquista. 42 Pena la vita fu a chi ubbidiva agli ordini del re, di quel tiranno. Ecco, signori, l'uom fin dove arriva, ecco li traditor poi cosa fanno eppure ciechi niun di lor capiva che poco apporterebbe al Re di danno quella minaccia e tai proibizioni a sì picciol region, umil stazioni.43In fin a Castelletto158 e ancor a Leva159, alle Molare160 dier contribuzioni: stava quella catterva sempre ferma e varie desolar popolazioni.Che far potevan mai tal gente inerma:lor minacciavan sempre di istruzioni di case e luoghi e più poi delle genti potevan mai oprar quei altrimenti? 44 Quei della Rocca intanto fer coraggio cre-dendo che gli andasser riattaccare, pareva sempre quei fosser in viaggio vantavansi sicur dover là entrare,ma finalmente ai dieci nove maggio161

come da molti udii a raccontare dalla sua capital partiron quanti già non si sa, ma disser ch’ eran tanti.

45Dovevansi a costor ancor unire d’Ovada li gendarmi e i paesani ch’erano quattrocento, udii a dire, dei sollevati, ed ecco i grand’ arcani. Ma quel Signor che sa tutto accudire sian secreti più fini e strani162

sa dissipar quello che l'uom propone e tutto a suo piacer può, fa e dispone163. 46 Levossi in quella notte un temporale che non si vide mai il più furioso: per strada li pigliò quel tempo tale mentre fean camin cottant’ ansioso acqua veniva giù, grandine eguale164. Allora si levò quel capriccioso drappel la volontà di proseguire, tutti temetter anzi di perire. 47 Ecco libera ancor quella in allora da tanto attacco fier e risoluto: chi regge il mondo pur veglia tutt’orail terzo attacco già non ha voluto. Oh infinita bontà che fin ad oraquesto stato salvar sì v’è piaciuto!Deh continuate a far che un sì buon Regeconservisi ed insiem la santa legge!48Stavan talmente certi i genovesi che entravan quella notte li briganti nel luogo della Rocca e insieme compresiquelli d'Ovada che litigi tantiin Genova vi fur, siccom’intesie di scommesse fra li partitanti ed anzi s'era in Voltri dichiarata distrutta già la Rocca ed abbruciata.49Chi mi saprebbe dir perché tal fede in Genova si die’ della vittoria? Quel ch’ha un po' di ragion presto lo vedel'impegno era di lei, quest’è la storia: levar voleva il Re dalla sua sede e toglierne dal mondo la memoria; ma poi chi sa, mi par troppo confida in chi compare in or in auge e rida.50Già dai sette di maggio scorso mesed’Aqui il suo reggimento provinciale doveva esser insieme, e ciò s’ intese ma il compimento non vi fu totale doveva esser così pure l’Astese, ogni provincia andar doveva eguale e intanto ve n’andava arrivando e in ogni giorno poi di quando in quando.51Alla rocca si fe’l'accrescimento di truppe come posto più importante, il numero vi fu di ben trecentoe v’era un'opinion allor costante bastasse per duemila e cinquecentounendo i paesan che dissi avantefondata sul buon gusto e gran ripariche Sajsi fece far non era guari.

52N'andò di truppa ancora a Cremolino165

come se n’aggiuntar in Carpeneto d'altra poi per Silvan prese cammino e allor quel luogo non fu più negletto. Al castello del fer andò persino per duecentocinquanta corpo elettocolonna si chiamò quella volante, perché dovea andare in dietro e inante.53Allora si può dir che ben allerta quelli d'Ovada stetter e spavento; già non avevan più di posta aperta e si sentivano dentro un rodimento, tenevano sicur e cosa certa che appunto tutto quel preparamento fosse per loro, perché sapevan come s’eran in casi tai fatto il lor nome.54 Anche dai monferrini già si sperava d'andar a Ovada a far le sue vendette, ma che se ad ogni giorno v'arrivava degli ordini di carte benedette che i liguri d'offender li vietava ciò che poi da nessun già si credette, eppur era così: che tal prudenza vedrassi qual sarà la conseguenza.55 La Rocca e Ovada son luoghi vicini fra quali sempre fu perfetta pace166. Quei della Rocca li di lor quattrini portavan là: niente è di più verace. Dirò di più, ciascun de’ monferrini di que’ contorni non era capace d'andar a provveder cosa si sia se non andava là per quella via.56Ovada veramente è un borgo bello, vi son famiglie ricche ed onorate, ma certo non è poi un luogo quelloche viver possa sol delle sue entrate. Il commerciar è quel li va a pennello accrebber con tal mezzo le derrate, ma rovinati or son, ciò si può dire, per una avidità di sé ingrandire.57Da tali idee furon sì accecatiche un odio fier conservano e mortale alli rocchesi per aver scacciati quelli briganti, che mai dir qui vale? Credean di poter quelli sgraziati ir in Piemonte ed alla capitale se non si fosser quei tanto difesi e se lor volentier si fosser resi.58Fu tale l'odio e il livor sì fino che non sapendo come si sfogare per fin l'acqua levar da quel Molino167

che dal Finaggio lor suol andare, e si ricorda niun da tempo fino fosse l'accordo di lasciar passare longo quel suo terren e far girare quelle rotte sì antiche, come appare.

Nella pag. a lato, il paese diCarpeneto in una mappa cata-stale di Matteo Fallabrino difine Settecento

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59E s’han voluto appresso ancor godere del-l'acqua per poter lor macinare, senza di cui – ciascun lo può vedere –quei della Rocca non potean stare dovettero pagar sono cose vere lire seicento e questo in scritto appare, è ver che non li pagò tutte l’agente della Contessa, là Giusdicente.60 Fosse finita almen, direi pazienza, s'è fatta ora per sempre una questione, ma certo non è ver, la conseguenza è più cattiva ancor, a mia opinione: li dier l'anno sol la sua licenza di prender l'acqua là con promissione che sempre far così continueranno se in quel tal corso il gius non porteranno.61Amici or dite voi un odio tale sopra il principii posto sì birbanti è ragionevol poi, oppur bestiale? È forse da cristian? No da briganti. E pur se non l’han tutti in generale almen una gran parte e tanti e tanti se alcun a Ovada va, li dan la taccia di gran birbon, li sputan fin in faccia.62Chi mai potrà capire poi quale siail rodimento fier nel suo interno ebbe principio allor che fuggir via dalla Rocca i briganti e non discernoper quale ragion: ma poi la cachessia168

li fe’ venire quel gran fuoco d'inferno che li rocchesi fer ai due di maggio, che n’ebbe alcun di lor un po' d'assaggio. 63Qualcun per certo li lasciò il mantello e ve ne furon d’ altri ancor feriti, quei si ricorderan di quel castello e fosser di quel guasto almen guariti,ma il fuoco li crescè, fe’ un Mongibello169

nei loro cuor e fur di più infieriti e stavan aspettare che un nuovo attacco alla Rocca si dasse e un crudel sacco.

64Ma il fatto sta che non li son più andati, ne s’abbian volontà so di tornarvi quei della Rocca stan apparecchiati, gli aspettan: nuova è questa che so darvi.Or a Carosio son ben trincerati quel che accadrà saprò notificarvi, già pare che vi siaen preparamenti che portan di cambiare sentimenti.65Quel piccol popol ben han rovinato, nessuna casa v’è ricca dovero solo vi fu un mercante nominato se la notizia vien da uom sincero: è totalmente il poverin spiantato. Oh briganti bestial, o corpo nero, quai ingiustizie fe’, che cose orrende, che il diavolo nemmen – penso – l’ intende.66Vi stava un uffizial là prigioniero e deve esser costui di Serravalle, amico del mercante da davvero non già di quei che voltano le spalle: d’aver sua libertà entrò in pensiero e a casa ritornare nella sua valle, ma li fan per aver la ben capire quattro dover pagar di mille lire.67Li fece sigurtà quel mercadante, perché l'avesser tosto a rilasciare, ma no: li fe’ sborsare quel tal contante qual non dovev allor elli pagare. Avuti quei denar, fer brighe tante che certo nol lasciar subito andare, anzi obbligaron quel pover mercante monete a disborsare più d’altre tante.68Ma qui ancor non finì: d’altri pretesti servironsi che l’han infin spogliato. Altri particolar ancor da questi messi ne furon pur in tale stato. Ora poi mi convien che qui m’arresti, di tutto non son ben io informato, quel che so dir egli è per anzi certoCarosio piangerà, n’avrà scontento.

69Or mi per tempo di finir il canto che sembra più degli altri longo sia, lamento fate mai, ed io intanto che pieno tosto son di poesia non me n'accorgo certo più che tanto. Da questo luogo mai andarei via, pur sempre tocca a me far sovvenire essere tempo di dover partire.

NOTE86 Allude a Carosio.87 Fecero: usato anche nell’ottava 8.88.Il castello di Montaldeo innalzato nella

parte più alta del paese, dal massiccio impiantoquadrato. Cfr. A. FERRARIS, Spettri e fantasminel castello di Montaldeo in “Urbs”, 1999; cfr.anche note 60 al poemetto e 29 all’introduzione.

89. Copia: latinismo per truppe.90.Scilicet: non occorre molto.91 Possono.92. Breve parola pasticciata.93. Mornese a 380 m. si trova fra l’Alto

Mon-ferrato e l’Appennino ligure; documentatoal-meno dal 1188, fu feudo dei Rosso DellaVolta che vi innalzarono il castello nel 1270, poidei Marchesi del Monferrato e dei Doria dal1330 al 1574.

94. Cfr. nota 57.95. Cfr. nota 59.96. Pozzolo Formigaro, a pochi chilometri

da Novi e da Alessandria, importante nodo com-merciale e viario. Già menzionato in documen-ti del secolo x, fu dominio dei marchesi delBosco, dal 1437 dei Duchi di Milano, dal 1527feudo dei nobili genovesi Sauli fino all’estin-zione della famiglia, allorchè fu incamerato daiSavoia.

97 Presso i maggiorenti del luogo.98. Castellazzo Bormida, centro antico della

pianura alessandrina, già Gamondium, chiama-to Castellazzo nel secolo xv quando fu fortifi-cato da Ludovico il Moro. Il borgo risulta ancoraraccolto nel tracciato poligonale della fortezza,un tempo protetta da dodici torri.

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99 Cui apparteneva per lo più il ceto nobi-liare.

100. Il castello di Pozzolo Formigaro, sortocome rocca difensiva di pianura, fu conteso fraTortona, il Monferrato e da ultimo passò aiDuchi di Milano. Oggi è sede del municipio.

101. Se ne partì.102. Il comandante le truppe imperiali, di

stanza in Acqui.103. Non potevo esprimermi con fran-

chezza.104. Volta.105. Torquato Tasso (1544-95), Ludovico

Ariosto (1474-1533) parlarono a lungo di guer-re, combattimenti e guerrieri, sempre con im-peccabile terminologia, un po’ meno GabrielloChiabrera (1553-1638).

106. Ippocrene – ci permettiamo di ram-mentare – era la fonte sacra alle Muse, scaturitasul Monte Elicona nella Beozia.

107. E’ la prima volta che adopera per il to-ponimo l’aggettivo Grimalda.

108. Cassine a 190 m., sulle colline a sini-stra del basso corso della Bormida. Già del Ve-scovo di Acqui, passò al Marchese delMonferrato nel 1164, distrutto dagli alessandrininel l231 con altre traversie nei secoli seguentifino al 1707 allorché fu annesso al dominio sa-baudo.

109. Cfr. stanze 11 e 41.110. Cfr. nota 65.111. Monta: congettura per l’inchiostro de-

leto.112. Scilicet: scaramuccia.113. Il paladino carolingio, come anche

nella stanza 36. Interessante codesto riferimentoad Orlando, indizio di quanto allora fosse ancorapopolare nell’immaginario collettivo.

114. Ossia l’Etna.115. Identificabile nel barone Claude

Ignace-François Michaud (Chaux-Neuve, 1751– Luzancy, 1835) poi generale; nel 1800 asse-diava Mantova.

116. Cfr. nota 28.117. L’albero della libertà.118. Congettura per essere la parola pastic-

ciata. Il termine castigliano, scelto per esigenzadi rima, significa nulla.

119. Valore, eroismo.120. I giacobini erano talmente sicuri della

vittoria – sostiene il narratore – che già avevanoprogettato la spartizione del territorio fra la Re-pubblica ligure e la Repubblica cisalpina.

121. Ribadisce ad sensum la citazionescritturistica già espressa nel canto II: cfr. nota 2.

122. Cfr. Ioannes, xv, 20.123. Prigionieri.124. Tagliolo Monferrato ; cfr. nota 41.125. Temetar: così nel testo.126. Sciocchi, sprovveduti.127. Cfr. nota 80.128. Alluderà al “Monitore ligure”, perio-

dico bisettimanale fondato in Genova il 17 set-tem-bre 1798 ed impresso fino al 1810. pare vi

collaborassero Sebastiano Biagini, Pietro Ro-lando Mangini, P. Celestino Massucco scolopio.Cfr. L. MORABITO, Il giornalismo, cit., pp209-231.

129. Castelletto d’Orba a 200 m., ubicatosul margine destro della piana alluvionale for-mata dall’Orba. Forse di origine romana, fu deiMarchesi del Monferrato cui si deve il castelloinnalzato l’anno 1488, poi dei Doria, dei Trotti,degli Spinola, degli Adorno e del Regno sardodal 1815.

130. Cfr. nota 58.131. Cfr. nota 93.132. Cfr. nota 59.133. Cfr. nota 4.134. Cfr. nota 57.135. Cfr. nota 41.136. Cremolino a 405 metri; “dall’alto del

colle sormontato dalla rocca si gode un vasto pa-norama, chiuso a sud dalle incombenti collineapenniniche ammantate di boschi, aperto versonord lungo i solchi della Bormida e dell’Orba, inuna digradare di culture dove il vigneto segna imargini della pianura occupata da cereali e fo-raggi”: Guide d’Italia. Liguria, cit., p 226.

137. Cfr. nota 51.138. Fiume Bormida.139. Forse nel senso di babilonia, confu-

sione.140. Come il feudo, il castello appartenne

alla famiglia Gentile dal 1498, poi ai Pinelli-Gentile per via matrimoniale, che ne sono tut-t’ora proprietarii. Assai ben conservato, subì irestauri di Alfredo D’Andrade alla fine dell’Ot-tocento.

141. Ircane vale persiane, poiché nell’Irca-nia, regione dell’antica Persia, in antico vive-vano tigri ferocissime. È aggettivo abbastanzadiffuso nel linguaggio poetico dei secoli passati.

142. Dell’ufficiale Possier non dispongonotizie.

143. Scena, suppongo.144. Intervento dell’editore sul prescie-

dente del ms.145. Cfr. nota 53.146. I cinque consiglieri di Rocca Gri-

malda: Mordeglia, Vassallo, Panizza, Paravi-dino. Nelle stanze successive sono presentatialtri rocchesi che si diedero da fare in quel fran-gente: Borgatta, Domenico, Merialdi, VianoMalco, quattro fratelli Montaiutti.

147. Si noti l’interessante precisazione.148. Vignole Borbera a 243 m., si trova in

Val Borbera, presso la confluenza con lo Scri-via, a quasi metà strada fra Genova ed Alessan-dria. Già dell’abbazia di S. Pietro di Precipiano(fondata da Liutprando), appartenne poi a Ga-vi, fu libero comune, passò al Ducato di Milanoe dal 1752 ai Savoia. Nell’anno 1797 insiemecon Borghetto di Borbera fece parte della Re-pubblica ligure. Il castello si trova presso lachiesa di S. Lorenzo, risale al secolo XVI, marisulta assai rimaneggiato.

149. Spaventare: ossia di tamponare la bra-

mosia di saccheggio degli aggressori.150. Fino all’ottocento il nome più adope-

rato per indicare la Liguria era Genovesato.151. Basaluzzo, paese non lungi da Novi,

oggi in provincia di Alessandria. Cfr. PietroVERNETTI [1832-99], Storia di Basaluzzo,1895 edita in Basaluzzo e la sua storia, Basa-luzzo, Comune, 2003, la quale alle pp. 85-96tratta nei particolari “la battaglia che si svolse il15 agosto 1799 fra Basaluzzo, Novi e Pastu-rana”.

152. Francavilla Bisio “là dove le ultimepropaggini dell’Appenino ligure si consegnanoalla pianura, sulla sponda destra del torrenteLemme, tra il verde di boschi e vigneti, sor-montato dall’imponente sagoma del castelloGuasco”: Rosa MAZZARELLO FENU, Guidadi Francavilla Bisio, Comune-Accademia Ur-bense, 2007, p 3.

153. Pasturana paese ubicato sulle estremepropaggini dell’Appennino ligure, a 214 m., giàdel Monastero di S. Salvatore di Pavia, poi deimarchesi di Gavi, della Repubblica di Genova,del Marchesato di Monferrato. Fu feudo degliSpinola e da ultimo dei Trotti.

154. Gli attrezzi agricoli e gli utensili degliartigiani.

155. Eccl. V.3: Deus enim vindicans vindi-cabit.

156. Parola pasticciata e deleta.157. Policarpo Cacherano d’Osasco: cfr.

nota 76.158. Cfr. nota 129.159. Leva: località minima ovvero che

mutò nome, ovvero lapsus calami. 160. Cfr. nota 61.161. 19 maggio.162. Ezech. XXVIII.3: Omne secretum

non est absconditum a te.163. Parafrasa il vetusto adagio : L’uomo

propone, Dio dispone.164. Scrive il teologo e scrittore Divo Bar-

sotti (1914-2006): “La storia è fatta dagli uo-mini? È fatta da Dio, e voi lo vedete…Napoleone! Credi di guidare i destini dei popolie a a un certo momento tutto si disfa nelle tuemani. Nessuno può dire come andranno le cosepri-ma che esse vengano, perché Dio può inter-venire attraverso fatti, anche di tale poverà chefanno stupire. Pensate alla pioggia di Water-loo…”.

165. Cfr. nota 136.166. In precedenza aveva espresso un giu-

dizio difforme.167. Allude al mulino ai piedi dell’altura

di Rocca Grimalda.168. Cachessia: grave forma di deperi-

mento organico.169. Cfr. nota 114.

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Nei libri di storia usati nelle nostrescuole non si parla mai delle Confrater-nite devozionali laicali, che pure sono unfenomeno presente fin dal secolo XIIInell’Europa meridionale1. Nella maggiorparte dei casi esse furono espressionedella religiosità popolare e del bisognodelle classi più umili di trovare sostegnoe guida nella solidarietà reciproca, ma viaffluirono anche molti membri dell’ari-stocrazia e del clero, e non solo di quelloregolare2.

Nelle città più grandi si formaronoConfraternite di mestiere o di quartiere,distinguendosi quindi secondo i ceti so-ciali; nei paesi vi aderirono anche i nobililocali, magari per convenienza e spessocome “protettori”, mentre molti sacerdotisi iscrissero come semplici membri perumiltà e per il proprio perfezionamentospirituale3, specie in quelle Confraternitepiù severe nell’attuare la Regola.

Se in molti casi esse furono confuse osi confusero con le Arti, cioè le associa-zioni di mestiere vere e proprie, ricono-sciute come tali anche dalle autoritàcivili, esse ebbero però vita più lunga,adattandosi attraverso i secoli alle diversenecessità e ai diversi condizionamenti.

Nei primi tempi furono caratterizzatedalle penitenze pubbliche, tanto che imembri vennero indicati col nome diBattuti, Disciplini, Flagellanti e simili,ma in seguito assunsero compiti più spe-cificamente sociali nel sostegno di po-veri, malati, pellegrini, mendicanti,carcerati4, prigionieri dei mussulmani5,orfani, vedove, prostitute pentite6, ra-gazze in pericolo7, nobili “vergognosi”8

ecc.A dir la verità si formò così un mo-

saico molto confuso e disordinato di so-cietà, al quale mise ordine il cardinaleCarlo Borromeo, un ordine però molto li-mitativo delle libertà cui si erano abituatii confratelli.

Espressione dell’orientamento as-sunto dalla Chiesa durante il Concilio diTrento, il Borromeo assegnò alle Confra-ternite compiti esclusivamente di culto,cercando di controllare e minimizzare lemanifestazioni più vistose: proibite lepreghiere ed i canti in volgare, le proces-sioni non dirette dagli ecclesiastici seco-lari, in specie quelle notturne, i banchetticomunitari ecc., ma anche limitate lespese ed i programmi sociali. Prima di lui

avevano tentato la stessa opera i Visita-tori Apostolici nelle persone, per la no-stra diocesi, di Mons. Ragazzoni e Mons.Montiglio9.

A Genova le Confraternite trovaronoun sostegno, anch’esso però a suo modolimitativo, nelle Autorità della Repubblica.Andrea Spinola, all’inizio del Seicento,così difendeva le autonomie laicali delleConfraternite: “Non si consenta che i no-stri Arcivescovi et i loro Vicari o altri capispirituali10 vi prendano autorità sopra, per-ché […] le nostre Casaccie11 non hannomai riconosciuto che la Signoria Serenis-sima”12. Pertanto le tre Confraternite diOvada, cioè dell’Annunziata, di S. Gio-vanni Battista e di S. Sebastiano13, si bar-camenarono tra le due autorità, lavescovile e la politica, appoggiandosi al-l’una o all’altra a seconda delle circo-stanze14 e riuscendo così a mantenere unadiscreta autonomia, che permise loroanche una notevole attività nel campo as-sociativo ed interventi concreti nel sociale.

Tra questi ultimi ricordiamo il MonteFrumentario organizzato dalla Confrater-nita dell’Annunziata nel 160615.

Il 16 agosto di quell’anno si teneva in-fatti la riunione generale dell’Assembleadei Confratelli, durante la quale il prioreAlessandro Maineri, il sottopriore Ga-spare Gaviglio ed i consiglieri Carlo Lan-zavecchia, Benento Bavazzano, Fran- cesco Costa, Vincenzo Carosio e Gio-vanni Buffa invitavano i presenti ad ap-provare la delibera del Consiglio circal’istituzione di “un monte di pietà” nelcortile della “casa”, per cui tutti erano in-vitati ad offrire una quantità di grano odaltro16 secondo le proprie possibilità.

“Tutti li fratelli, niuno discrepante”,approvavano la delibera ed, uno allavolta, si impegnavano a consegnare ilgrano. I principali della Confraternita,ovviamente, offrivano di più, fino ad unostaro di grano17, gli altri quantità diverse,fino ad un minimo di un coppo, che va-leva un dodicesimo di staro. Solo perquattro nominativi restava in biancol’indicazione dell’offerta e non sappiamoperché, forse erano troppo poveri. Laquantità complessiva del grano offertoascendeva a quasi venti stari, e gli offe-renti erano stati 121, tra cui due donne18.

Trascriviamo, nella versione origi-nale, i nomi dei Confratelli con la rela-tiva offerta, in primo luogo perché questo

è il più antico elenco degli associati cheabbiamo trovato, in secondo luogo perrendere omaggio alla loro generosità edinfine per soddisfare il legittimo deside-rio dei Confratelli odierni, e di tanti altriOvadesi, di riconoscervi il proprio co-gnome19, se non addirittura un antenato.«Alessandro Minero (st. 1),Gasparo Gavilio (st. 1),Carlo Lansavechia (q. 1),Benento Bavasano (q. 1),Bertolameo Casulino (c. 4),Silvestro Minero (c. 4),Vicencio Carosio (c. 4),Gio Buffa, Stefano Buffa (c. 8),Francischo Costa, suo padre (c. 8),Giangiachino Casulino (c. 4),Francischo Scarso (c. 4),Antonio Drodano (c. 2),Stefano Costa (c. 2),Battista Gavilio (c. 4),Agustino Domenico Moicio (c. 4),Bertolameo Viano (c. 2),Antonio Pessio (c. 2),Giorgio Vella e Nicrosio (c. 4),Lodovico Pessio (c. 4),Andrea Casale (c. 1),Antonio Casale (c. 1),Andrea de Igina (c. 4),Antonio Cotella (c. 2),Alessandro Grande (c. 1),Francischino Minero (c. 2),Francischino Negrino (c. 1),Toma Fre,Biaso Costa (c. 2),Dominico Toriello (c. 2),Antonio Campora (c. 1),Zanino Lombardino (c. 1),Simone il morinaro Marcantonio (c. 8),Dominico Mirolo (c. 1),Roco Lupo (c. 2),Mateo Stario (c. 1),Benento Reboro (c. 1),Gaspario Orsino (c. 2), Andrea Toriello (c. 2),Petro Bolla, suo filio (c. 4),Pasgarino Botacio (c. 1),Nicolino Macia (c. 1),Batesto Polarolo, suo filio (c. 4),Antonio Bavasano (c. 4),Andrea Isola (c. 2),Stefano Bavasano (c. 2),Cristofano Gatto (c. 4),Bernardino Toriello (c. 1),Bertolameo Dotto Pocevera (c. 1),Batisto Grillo (c. 1),Gio Bogero (c. 1),

Il Monte Frumentario dell’Annunziata di Ovadadi Paola Piana Toniolo

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Mateo Planna (c. 2),Giacomino Casarino (c. 1),Bastiano Planna (c. 1),Gorgino Lombardino (c. 1),Zannantonio Planna (c. 1),Marcantonio Orsino (c. 2),Pasquarino Planna (c. 4),Vicencio Vivado (c. 4),Oracio Berardo (c. 2),Gio Batista Berardo (c. 2),Batista de Tomati (c. 2),Vicincio Toriello (c. 2),Mateo Fraschera (c. 2),Filipo Tribono (c. 2),Gio Fero,Bastiano Prato (c. 2),Lucho Grillo (c. 2),Antonio Bastino (c. 2),Antonio Vioto (c. 1),Alessandro Toriello (c. 2),Zan Maria Cotella (c. 1),Alessandro Toriello q. Gio (c. 2),Gio Merlino (c. 1),Obertino Grillo (c. 1),Gio Vivado (c. 2),Andrea Bono (c. 2),Francischo Garono (c. 1),Mergino Dolermo (c. 1),Gabriello Dolermo (c. 1),Lorencio Grillo (c. 1),Petro Gio Grillo (c. 2),Lorencio Negrino (c. 2),Badasino Bo (c. 2),Bertolameo Bono (c. 1),Biasino da Castello (c. 1),Simono Masera (c. 4),Batista Macagno (c. 4),Zanino Toriello (c. 4),Nicolo Masa (c. 2),Francescheto Scalioso (c. 1),Gio Batista Planna (c. 2),Bodasa Bavasano (c. 2),Francischo Pessio (c. 2),Obertino Grillo (c. 1),Giacomo Rosso (c. 2),Bertolameo Cotella (c. 1),Andrea Gabella (c. 1),Manuello Toriello condam20 Vicencio (c. 2),Giormina Toriella (c. 2),Bertolameo Malvesino (c. 1),Bernardo de Milano (c. 1),Pietro Odino (c. 4),Benento Pisorno (c. 4),Batisto molinario (c. 4),Marcantonio Moicio (bianchi 3),Gulia Moicia molie di Marcantonio(bianchi 2),

Pero Vivado (c. 2),meser Tomaso Canevario (c. 8),Grigorio Buffa (bianchi 4),Bertolameo Hodone,Dominico Grillo,Bernardino Picerni (c. 2),Monfrino Garone (c. 2),Francischo Pessio (c. 2),Geromino Basso (c. 2),Giovani Grillo (c. 1),Iohanes Vella (c. 1).Il tuto per stari 19 e copi 6.»

Il 21 dicembre dello stesso anno 1606cominciava l’attività del Monte: la distri-buzione del grano doveve avvenire sottocondizione che “quelli che lo prenderanosi diano bona sigurtà idonia o vero pegnodi lino o vero horo et argento” di resti-tuire una quantità di grano eguale a quellaricevuta. Incaricati del delicato ufficioerano il priore e i cancellieri.

I Confratelli beneficiati questa primavolta erano stati 41, moltissimi dei qualiavevano promesso per sé e per un altroConfratello presente, scambiandosi quin-di la “sigurtà”. È interessante notare chela maggioranza di loro non comparivanella lista degli offerenti e solo alcuninomi coincidevano. Questo ci dice che laConfraternita comprendeva ben più di120 membri e che le loro potenzialitàeconomiche non erano omogenee.

Con il passare del tempo, visto chequalche beneficiato non restituiva se-condo quanto aveva preso, restando cosìin debito parziale, e non bastavano a co-prire l’ammanco le nuove offerte dei piùgenerosi ed i legati testamentari, mentreera necessario anche fare “la carità” aqualche bisognoso esterno, la Confrater-nita era obbligata a comprare del grano,da messer Gio Montano nel 1607, damesser Alessandro Maineri nel 1610 e daaltri ancora21.

Negli anni successivi cresceva il nu-mero delle donne cui veniva assegnato ilgrano, tra cui una “madona Manu Od-dina”22, alla quale faceva “sigurtà” mes-ser Francesco Costa; ma spesso le donnenon avevano chi si impegnasse per lorose non consegnandogli in pegno un mo-desto gioiello, come un “chiavacore” o“ciavacore” d’argento, che si portava sulcorpetto a modo di spilla. Era il caso di“madona Geronima Norese, moglie dimesser Bastiano”23, di Arexina Bavazana,di Giacominetta della Siorba24 ecc.

Anche l’arciprete si presentava alladistribuzione per diversi anni di seguitoa partire dal 161025, non per sé, ma “peruno delli fratelli della nostra Compagniaper essere vergognoso”, e restituiva rego-larmente il grano. E messer StefanoBuffa ne imitava il gesto nel 161126.

Chi non restituiva il grano rischiava“de esere scangelato de la casa”27, ma serimaneva del grano dopo l’assegnazioneai Confratelli, non si poteva venderlo, masi doveva distribuirlo “ali poviri”28, evi-dentemente senza obbligo di resa.

Noi, che pretendiamo dagli altri quel -lo che non saremmo disposti a dare noi,ci chiediamo che specie di aiuto fornissequesto Monte frumentario se si dava unacosa e si voleva poi indietro la stessa. Eb-bene, se si fosse dato il grano senza resti-tuzione, il Monte sarebbe finito già ilprimo anno e si sarebbe trattato di unaelargizione momentanea, ottima, sì, mainevitabilmente senza seguito. Il Monte,invece, era nato per combattere l’usura,per realizzare cioè quel gratis et amoreDei che dai notai si scriveva su tutti i con-tratti di prestiti e mutui, in denari o benimobili, e per lo più nascondeva un inte-resse non da poco, il quale, ricadendo suipiù deboli, ne determinava poco a pocol’annientamento.

In una società agricola quale era an-cora quella ovadese, un interesse più volteripetuto avrebbe generato il passaggiodella maggior parte dei terreni coltivatialle proprietà maggiori e la trasformazionedei piccoli proprietari, i cosiddetti partico-lari, in affittuari o mezzadri o addiritturasalariati e stagionali, con le conseguenzeche siamo in grado di capire.

Purtroppo non sappiamo fino aquando il Monte riuscì a vivere perchédal 1613 al 1660 circa i documenti rima-stici sono ben pochi.

Interessante la delibera del 2 settem-bre del 1631, in cui si dichiarava: “Non sipossa dare grano a confratelli che nonhabbino habiti”29, vale a dire le cappe tur-chine che costituivano il segno distintivodell’appartenenza alla Confraternita.L’obbligo all’abito era stato più volte ri-cordato dai Priori con minacce varie, maevidentemente con scarso successo, cosìsi tentava una strada più coercitiva, ma… stava per calare su Ovada la scuredella peste.

Gli ultimi cenni al Monte si hanno nel

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166530, poi non se ne sa più nulla. Erano intervenute altre necessità ed

altri modi di gestire l’economia. Ovadaera ormai una cittadina di transito e dicommercio, gli strati sociali si eranomaggiormente differenziati el’arricchimento di una classe borghesestimolava il desiderio, ben poco pre-sente prima di allora, di esternare leproprie potenzialità economiche conl’abbellimento delle abitazioni e soprat-tutto dei luoghi di culto, in primis gliOratori.

In quegli anni così, dalla metà delSeicento, si avviava una complessa at-tività gestionale dei beni fondiari acqui-siti per donazioni e testamenti, ci siimpegnava nella ristrutturazione e nel-l’abbellimento dell’Oratorio, nell’acqui-sto di quadri e statue e nella celebrazionedelle festività con la maggior pompa pos-sibile, mentre sembrava divenuta assaiminore l’attenzione rivolta ai bisognidella popolazione. Sembrava!, perchétutto quel lavorare, quell’andare e venire,quel darsi da fare, - ed ogni attività, anchela più insignificante, era rigorosamentevalutata e pagata secondo il dettame didare la giusta mercede all’operaio, - erain fondo la continuazione dello spirito delMonte: dare a ciascuno la possibilità divivere del proprio lavoro. E oggi ben sap-piamo quanto sia importante questo con-cetto!

NOTE1 Ci sono diversi studi sull’argomento, ma per

restare alle nostre zone vedi: P. PIANA TONIOLO,Le Confraternite devozionali, in «ITER. Ricer-che, fonti e immagini per un territorio», a. V, n.19, dic. 2009, pp. 25-40.

2 Il clero regolare è quello che aderisce ad unaregola, come frati e monaci. Le Confraternite tro-varono proprio tra i frati, soprattutto Francescani,i loro confessori e cappellani. I sacerdoti secolari,invece, videro spesso nelle Confraternite degliostacoli e delle indebite ingerenze nella loro mis-sione, ma alcuni vi aderirono e vi si fecero iscri-vere.

3 Nei documenti dell’Annunciata troviamospesso citati tra i membri normali sia gli arci-preti sia altri sacerdoti secolari.

4 Il loro compito era il sostegno spirituale, so-prattutto per i condannati a morte, che, oltre adessere confortati nelle ultime ore, venivano ac-compagnati fino al luogo del supplizio, anche perevitare le intemperanze del pubblico che spessolanciava pietre e altri oggetti o cercava di ferire ilcondannato, aggiungendo pena a pena.

5 Ricordiamo le scorrerie dei pirati saraceniche desolarono i paesi delle coste settentrionalidel Mediterraneo, distruggendo, rubando, ucci-dendo e catturando uomini, donne e bambini. Peril loro riscatto nacquero i Trinitari, Ordo SS. Tri-nitatis redemptionis captivorum, ordine religiosofondato in Francia da S. Giovanni di Matha e S.Felice di Valois e approvato nel 1198 dal Papa In-nocenzo III. Esso ebbe una grande diffusione inEuropa, ma decadde nel sec. XVIII. Molte Con-fraternite, come quella di S. Giovanni Battista diOvada, presero il titolo della SS. Trinità e assun-sero anche i compiti dei Trinitari.

6 Si fondarono case apposite per esse, similia conventi, in modo da evitare i contatti sia conantichi clienti sia con altre ragazze e donne cor-rompibili. Spesso però le donne interessate con-siderarono queste case più come un rifugio per lavecchiaia che un luogo di conversione e peni-tenza.

7 In pericolo, evidentemente, di cadere nelmestiere più antico del mondo. L’interventousuale consisteva nel favorirne il matrimonio for-nendo loro una dote.

8 Nobili, cioè, caduti in miseria e che si ver-gognavano del loro stato, per cui non avrebberoaccettato di mescolarsi con i miserabili di nascita.

9 Vedi le loro relazioni in ARCHIVIO VESCO-VILE DI ACQUI, con trascrizione, per il Ragazzoni,di P. Piana Toniolo e per il Montiglio di don An-gelo Siri.

10 Il territorio della Repubblica si estendevain diverse diocesi: Ovada, per esempio, pur es-sendo politicamente sotto Genova, ecclesiastica-mente dipendeva dal vescovo di Acqui.

11 Casaccia è il termine con cui a Genova siindicava l’oratorio della Confraternita e la Con-fraternita stessa, non come spregiativo di casa,altro termine usato frequentemente per indicarel’oratorio, ma, al contrario, per valorizzare la riu-nione di più persone o addirittura di più Confra-ternite in un comune sentire. A Genova infatti farcasaccia vuol dire accomunare il casato. Vedi F.FRANCHINI GUELFI, Le casacce, in “Penitenza eribellione nelle Confraternite dell’Oltregiogo.

Prospettive di ricerca. Convegno di studi, Ma-sone, 1 aprile 2000”, fascicolo a cura del Co-mune di Masone, 2000.

12 F. FRANCHINI GUELFI, Le casacce cit.13 Si veda P. PIANA TONIOLO, Per la storia

delle Confraternite ovadesi, in «URBS silva etflumen», trimestrale dell’Accademia Urbense,a. XIV, nn. 3-4, sett. dic. 2001, pp. 193-200,dove però alcune notizie sono da rivedere.

14 Il parroco di Ovada don Gaspare Grandi,in occasione di un contenzioso con la Confra-ternita di S. Giovanni, così scriveva al Ve-scovo: “in gratiosis riconoscono e ricorrono daVostra Signoria Illustrissima et in odiosis di-cono che sono sogietti al Prencipe”, ARCHIVIO

VESCOVILE DI ACQUI, Fondo Parrocchie,Ovada, Oratorio di S. Giovanni Battista e Con-fraternita della SS. Trinità per il riscatto deglischiavi, fald. 5, cart. 1, fasc. 1.

15 ARCHIVIO STORICO DELLA CONFRATER-NITA DELLA SS. ANNUNCIATA DI OVADA

(A.S.Ann.), Fald. 1, fasc. 1, Libro delle ordina-zioni del priore e soto priore de la Madona de’Disiplinanti d’Ovada, 1579-1612, cc. 8v-10v.

16 Qualcuno offrirà del denaro, cioè alcuni“bianchi”.

17 Lo staro o staio o stero, come misura gra-naria, equivaleva più o meno ad un cubo di m. 1di lato; il resto va di conseguenza. Indicheremostaro con st., la quarta con q., il coppo o copo con c.

18 Questa indicazione è molto interessante:non solo esistevano le consorelle, ma potevanopartecipare alle assemblee ed alle decisioni condiritti eguali a quelli degli uomini, in un caso ad-dirittura facendo una offerta personale distinta daquella del marito.

19 Sorridendo faccio parte di aver trovato trai Confratelli beneficiati negli anni documentatialcuni individui con il cognome: Togniolo, To-gniollo, Tognolo, Tognollo, Tognuolo, famigliadi cui non c’è più traccia in Ovada dal Settecento.Che il mio sia un ritorno alle origini?

20 Condam e q.(quondam) corrispondono alnostro fu.

21 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 14v e c. 27v.22 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 42v.23 Anche qui una donna agisce in modo auto-

nomo dal marito. A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 46v.

24 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 68v.25 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 39v.26 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 46v.27 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 104r., 1 no-

vembre 1609.28 A.S.Ann., Fald. 1, fasc. 1, c. 104r., 26 di-

cembre 1609.29 A.S.Ann., Fald. 14, fasc. 1. Delibere del

Consiglio, c. 119r.30 A.S.Ann, Fald. 14, fasc. 1, c. 69v.

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Alcuni ovadesi ricordano ancora ilGenerale: un signore distinto con baffi ebarba bianca solito a passeggiare per levie di Ovada, a passo svelto pur essendoquasi centenario, negli anni Cinquantadel secolo scorso. Questi era VincenzoStefano Muricchio, ufficiale di anticostampo, che aveva ricoperto ruo li di in-dubitabile rilevanza come progettistaquando, a fine Ottocento, an che in Italiacome presso gli eserciti delle altre Potenzeeuropee, venne dato un notevole impulsoallo studio di moderni fucili per aumentarela potenza di fuoco delle fanterie.

Ma la Storia, quella che Charles Rol-lin nel suo Traité des Etudes, definiscecome “ ... luce dei tempi, la depositariadegli avvenimenti, il testimonio fedeledella verità....” non sempre è stata beni-gna nei confronti del Muricchio e di al-cuni dei suoi superiori e colleghi.

Questa circostanza emerge in generedalla pubblicistica divulgativa riguar-dante il ruolo degli ideatori del famosofucile Modello 91 che accompagnò i no-stri soldati su tutti i fronti: dalla guerra diLibia alla Seconda Guerra Mondialecompresa.

Infatti, raramente vengono citatil’allora capitano Muricchio ed il suo di-retto superiore, il generale Gustavo Par-ravicino (1), capo della commissioneincaricata, nel 1891, dei lavori di proget-tazione del fucile destinato inizialmentead affiancare e successivamente a sosti-tuire l’ormai obsoleto “Vatterli-Vitale”,risalente al 1870, a sua volta discendentedel Carcano mod. 1868, primo fucile aretrocarica adottato dal Regio Esercito.

Al contrario, molte pubblicazioni ci-tano costantemente Salvatore Carcano,capo tecnico di prima classe dell’Ar -senale di Torino, e Ferdinand von Man-nlicher, ingegnere austriaco ideatore delcaricatore e del serbatoio. Sicché al-l’estero il 91 è conosciuto come “Car-cano-Mannlicher” o addirittura sempli-cemente come “Carcano” come lo defi-nivano comunemente i giornali americaninei giorni che seguirono all’at tentato alPresidente Kennedy in quanto, secondo

la versione ufficiale, per compierlo venneutilizzato un fucile di questo modello.

Vincenzo Muricchio era nato il26.12.1861 a Portocannone, un piccolocomune in Provincia di Campobasso,raso al suolo da un parossistico terremotonel 1456. Ma, circa dieci anni dopo, ungruppo di emigranti albanesi favoritidalla concessione dei feudi di MonteSant’Angelo, Trani e S. Giovanni Ro-tondo a Giorgio Castriota Skanderbeg,l’eroe nazionale albanese della lotta con-tro i turchi (2), per essere intervenuto asupporto del re Ferdinando I di Aragonain conflitto contro Giovanni d’Angiò, ini-ziò un primo tentativo di ricostruzionedel paese abbandonato dagli abitantisfuggiti al disastro. Rifondazione rinvi-gorita, verso il 1468, da nuove immigra-zioni di albanesi in fuga dalla loro terrain procinto di cadere sotto la domina-zione ottomana dopo la morte delloSkanderbeg, che riedificarono il borgo apoca distanza da quello terremotato e locompletarono con la costruzione dellachiesa dedicata alla Madonna di Costan-tinopoli.(3)

Quindi è certo che in questo scattanteed intelligente militare scorresse sanguearbereshe ossia dell’etnia originaria dellaSkyperia, il “Paese delle Aquile”, poiché,secondo diverse fonti, il nonno materno,

Nicola Campofreda (4), stimato ufficialeborbonico assai attivo nella lotta controle bande brigantesche che infestavano ilMolise, era imparentato con lo Skander-beg stesso. Pertanto, grazie alla sua ap-partenenza alla nobile famiglia Muric-chio, proprietaria di vasti terreni e del pa-lazzo omonimo in Portocannone (oggiposto sotto la tutela della Soprintendenzadei Beni Culturali), al giovane Vincenzonon riuscì certamente difficilel’ammissione, ad Ottobre del 1875, alla“Nunziatella”(5), l’antica accademia mi-litare borbonica ristrutturata come Colle-gio Militare a seguito dell’amalgama nelnuovo Esercito originato dalla conseguitaUnità.

Terminato il corso presso questo isti-tuto, a Ottobre del 1878, transitò all’Ac-cademia Militare di Torino che all’epocaforgiava i futuri ufficiali di Artiglieria eGenio. Istituto dal quale uscì, nel Luglio1881, col grado di sottotenente nelloStato Maggiore di Artiglieria per seguire,sempre in Torino, i corsi presso la Scuoladi Applicazione di Artiglieria e Genio,nella storica sede dell’Arsenale militare,che completò nel 1882.

Assegnato per il servizio di prima no-mina all’11° Artiglieria, reggimento inin-terrottamente di stanza alla Cittadella diAlessandria dal 1884 al 1943, quivi vissele prime esperienze della sua lunga car-riera militare. Tra l’altro - nel corso del-l’addestramento delle batterie ippo- trainate da 75 lungo le strade dell’ales-sandrino o in occasione di campi estivi omanovre nell’Alto Monferrato - è moltoprobabile che il Muricchio sia stato inOvada sino da quell’epoca. A giugno del1885 proseguì il servizio al 9°Artiglieriaa Pavia per rientrare in Alessandria nel29° Artiglieria da Fortezza (6) presso ilquale venne promosso capitano l’11 ot-tobre 1888.

Ma ad aprile del 1890 la sua vita subìun cambiamento radicale poiché, impre-vedibilmente, venne distolto dalla routinequotidiana di un reggimento di Artiglieriaper essere immerso in un effervescentemondo tecnologico a cui avrebbe colla-

Vincenzo Stefano Muricchio: un geniale tecniconella squadra di progettisti del fucile Modello 91di Pier Giorgio Fassino

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borato dando il meglio di se stesso:il Laboratorio Pirotecnico di Bolo-gna.

Sull’attività svolta in quel pe-riodo esiste un breve promemoria,redatto di suo pugno, oggi conser-vato presso l’Archivio Storico del-l’Accademia Urbense, di cui siriportano alcuni brani:

“Il Laboratorio Pirotecnico diBologna, in collaborazione col La-boratorio Pirotecnico di Capua edel Laboratorio di precisione di To-rino, doveva, tra la fine del 1889 ela primavera dell’anno successivo,portare a compimento il nuovo mu-nizionamento della Fanteria conpolvere senza fumo (balistite) in so-stituzione di quella fumogena (polverenera).

Nel Settembre 1889, dopo un annodalla mia promozione a Capitano d’Ar -ti glieria, trovandomi in distaccamento aBologna, fui destinato d’autorità a pre -stare servizio temporaneo presso il Labo-ratorio Pirotecnico di quella città.

Al Direttore, Col. Luigi Garau,espressi con franchezza la mia insuffi-ciente preparazione tecnica per disimpe-gnare mansioni riservate ad un ufficialedi Artiglieria, sebbene provvisto di cogni-zioni in materia ed attitudini a disbrigarelavori delicati di officina che impone-vano responsabilità non indifferenti.

Il Direttore, forse, dubitando ch’iovolessi sottrarmi a quel servizio per altrimotivi non palesati, ironicamente mi feceosservare: “Lei trascorrerà qui po chimesi, quale ufficiale d’ordine per la sor-veglianza delle maestranze, poi rientreràal suo reparto di provenienza.”

Assunsi, mortificato nel mio amorproprio, il servizio al quale ero stato de-stinato – Uso obbedir tacendo - mi ac-cinsi a rendermi conto del mio “altoufficio” ... di ... sorvegliante!-

Però con mia somma sorpresa, mi fu-rono accollate altre mansioni dal Diret-tore, più corrispondenti al mio grado,forse per sollevare il mio morale al-quanto depresso e mortificato, e fra le

altre, quella di Capo della sala di col-laudo dei manufatti. Il Direttore, consciodelle sue alte responsabilità, per portarea compimento il lavoro assunto, giornal-mente, all’ora del rapporto, invitava gliufficiali ad esporre le difficoltà emergentidurante lo svolgimento dei lavori....

Durante un rapporto, in uno dei primigiorni del mio servizio allo stabilimento,il Capitano, e mio collega ... di infortu-nio, Luigi Stampacchia, fece presente ledifficoltà che incontravano le operaie ad-dette alla scelta dei bossoli per separarei buoni dai difettosi, specialmente daquelli che presentavano delle ”stria-ture”, difetto quest’ultimo, derivantedalle successive operazioni di trafila-mento alle quali veniva sottoposto ildisco di ottone, che doveva trasformarsiin bossolo, durante la lavorazione, e dif-ficilmente rilevabile al riverbero dellalampadina allora in uso....

Si era all’inizio dell’uso delle primelampadine elettriche a filamento di car-bone e delle lampade ad arco, tutte privedi riflettore; le lampadine a filamentometallico erano ancora ”in mente dei”.I raggi luminosi delle lampadine anda-vano a disperdersi tutto attorno;illuminavano l’ambiente, ma non con -cen- travano tutta la potenza luminosadella medesima sull’oggetto in esame perfare risultare i difetti di fabbricazione che

interessavano le sceglitrici per eli-minare i bossoli imperfetti (striati) eperciò da scartarsi in modo asso-luto.

La soluzione del problema, mo-destamente mi permetto di aggiun-gere, rivestiva un’importanzacapitale ed una soluzione sollecita.... Riandando, colla memoria, aimiei studi giovanili mi risovvennidegli “specchi ustori”, ideati edusati dal grande Archimede; sugge-rii di munire le lampadine di un ri-flettore a sezione parabolica cheproposi, arditamente seduta stante.

Il mio modesto suggerimento,chiaro e convincente, fu ritenuto dipratica applicazione. I riflettori fu-rono subito costruiti nello stesso sta-

bilimento, come furono da me progettati.I risultati corrisposero altamente alleprevisioni e le donne del Laboratorio Pi-rotecnico di Bologna, addette alla sceltadei bossoli, ne furono contente e soddi-sfatte per il risultato pratico ottenuto.

Cessò da parte delle sceglitrici, lapreoccupazione per l’individuazione deibossoli “striati”, individuazione che, nelpassato apportava loro multe, decurta-trici del loro guadagno giornaliero. Incaso di rifiuto dell’intera partita da partedella sala di collaudo, le multe si eleva-vano a varie giornate lavorative; d’altraparte solo un rigoroso collaudo potevaassicurare al tiratore l’in columità asso-luta durante l’uso dell’ar ma.

Ma rimaneva da risolvere ancora undelicato problema poiché stipati nei de-positi del Laboratorio Pirotecnico di Bo-logna giacevano milioni di bossoli,appena prodotti, in attesa di essere cari-cati con la nuova polvere senza fumo ot-tenuta nel 1884 da Paul Eugène Vieil lemediante la gelatinizzazione della nitro-glicerina con una miscela di etere edalcol.

Tra l’altro questa nuova polvere dasparo aveva anche la caratteristica diavere un potere dirompente assai supe-riore alla polvere nera per cui era neces-sario il dosaggio al centesimo di grammodel nuovo esplosivo onde evitare possi-

Nella pag. a lato, il generale Muric-chio presenzia ad una cerimonia te-nuta a Roma, nei primi anni ‘50,commemorativa dell’adozione delfucile modello 91

A lato, cartolina di propagandaedita dall’Associazione Naz.le delFante

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bili incidenti. Pertanto la Direzione dellostabilimento militare non era stata ingrado di definire a quale metodo di cari-camento attenersi: se a quello della pesa-tura o a quello della misurazione dellecariche poiché la balistite, essendo meno“fluida” rispetto alla polvere nera creavaproblemi di non facile soluzione. Sicchéper risolvere la delicatissima misura dellacarica di balistite, il Muricchio proposel’utilizzo di un particolare modello di bi-lancia “idrostatica” di sua invenzione (7).La proposta venne accettata dai respon-sabili del Laboratorio: la nuova bilanciavenne costruita in più esemplari nellostesso stabilimento e venne utilizzata congrande sicurezza sino a quando nonvenne sostituita dal così detto ”caricatoremultiplo”, ideato dal Capitano LuigiStampacchia.

La realizzazione di queste soluzionitecniche, allora all’avanguardia, porta-rono all’inserimento del Muricchio nellasquadra dei progettisti che iniziarono, nel1891, lo sviluppo del nuovo fucile desti-nato in un primo tempo ai soli fanti e inun secondo momento, dopo opportunemodifiche, anche alla Cavalleria comemoschetto da cavalleria (1893) ed alletruppe speciali (1897).

Le linee guida del progetto fu-rono caratterizzate dall’adozionedi un otturatore girevole “Car-cano”, e di un calibro (6,50) net-tamente inferiore al calibromedio degli eserciti dell’epoca.Caratteristica negativa ma checonsentiva al fante di trasportareun numero maggiore di colpi:elemento positivo in ambientecoloniale ove i rifornimenti dimunizioni spesso erano assai dif-ficoltosi. Infatti era ancora bru-ciante il ricordo della Battaglia diDogali, avvenuta in Eritrea il 26gennaio 1887, quando una co-lonna di 548 uomini, uscita dalforte di Moncullo per portare rin-forzi al forte di Saati, venne attac-cata da preponderanti forzeetiopiche. Nonostante l’asso lutadisparità numerica delle forze in

campo i nostri fanti resistettero tenace-mente all’accerchiamento sino a quando- esaurite le munizioni - furono sover-chiati dall’incon- tenibile irruenza degliassalitori abissini.

Altra caratteristica di spicco era costi-tuita dalla presenza della canna del fucilead anima con rigatura elicoidale progres-siva probabilmente ideata dal maggiorePietro Garelli Colombo, segretario dellasquadra di progettisti, mentre alcune fontigiornalistiche l’ascrissero al Muricchiosebbene questi non se ne attribuisse maila paternità. La nuova arma venne uffi-cialmente adottata il 29 marzo 1892 maverrà utilizzata in combattimento sola-mente nel 1911 nel corso della Guerra diLibia. Infatti ad Adua (1° marzo 1896),l’infausta battaglia che bloccò per qua-rant’anni le mire espansionistiche italianenel Corno d’Africa, i nostri soldati, peresigenze di uniformità di muniziona-mento con i reparti indigeni, erano statiriequipaggiati con l’ormai obsoleto Vet-terli-Vitali 70/87.

Terminato felicemente il lavoro diprogettazione, il team venne sciolto ed ilMuricchio rientrò in Alessandria al 29°Artiglieria da Fortezza per poi essere as-segnato, nel 1894, alla Direzione Territo-

riale d’Artiglieria di quella città.L’assegnazione a questo importante

incarico lasciava prevedere una lungaserie di attività eminentemente tecnichema dopo un breve rientro al 12° Artiglie-ria, a Giugno del 1897, venne assegnatoal Corpo Truppe Coloniali che, dopo ladisastrosa sconfitta di Adua, necessitavadi personale molto qualificato.

Analizzando il suo Stato di Servizio,redatto in modo eccessivamente stringatodagli ottocenteschi scrivani del Ministerodella Guerra che si succedettero nella re-dazione del documento, e confrontandolocon l’elenco delle unità in servizio in Eri-trea in quel periodo, possiamo stabilire -con sufficiente certezza - che inizial-mente prestò servizio in una delle quat-tro compagnie Cannonieri aggregate allaDirezione d’Artiglieria. Evoluzione dellaconsistenza organica del l’Arma di Arti-glieria rappresentata sino dalla prima spe-dizione, sbarcata a Massaua il 5 febbraio1885, da una compagnia del 17° Artiglie-ria da Fortezza destinata a presidiare lefortificazioni presenti in quella località,Forte Ras Mudur e Forte Taulud sul-l’isola omonima, e dare manforte ai fanticome avvenne nei combattimenti di Saatie Dogali.

A partire dal 10 gennaio1898 prestò invece servizionella 2^ Batteria da Monta-gna Indigeni di stanza adAddì Caièh: un graziosopaese di circa duemila abi-tanti sulla strada che daAsmara conduce a Dessiè,posto a 2.400 metri sul li-vello del mare con unasplendida vista sul Vallonedell’Haddas e sulle alturecircostanti. Il clima, rispettoa Massaua, era mite e la si-tuazione tranquilla nono-stante che dalla folle giornatadi Adua fossero trascorsipoco più di due anni. Proba-bilmente il Muricchioavrebbe prolungato volen-tieri la sua permanenza inuna sede coloniale così acco-

In basso, il generale Muricchio, im-braccia il fucile modello 91 durantela già citata cerimonia

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gliente ma a Giugno del 1898,per una riduzione d’organico,venne disposto il suo rientro inItalia. Inizialmente prestò servi-zio nell’11^ Brigata da Fortezzaper rientrare nel 12° e diveniremaggiore nel 16° da Campagna il20 dicembre 1903.

Però, dopo la parentesi colo-niale, la sua vita militare conobbeuna nuova svolta in quanto venneimpiegato in una delicata mis-sione per conto del Ministerodegli Affari Esteri. Non sap-piamo in quali circostanze il no-stro Maggiore conobbe ilMinistro San Giuliano (8) ma èpossibile che le sue lontane ori-gini albanesi ne influenzassero lascelta in quanto perfettamenteconsone al teatro di operazionicui era destinato: la Macedonia el’Albania. Quindi partecipò dal 1°gen-naio 1905 al 7 aprile 1909 all’importantemissione in Macedonia, terra segnata daun profondo movimento irredentista neiconfronti dell’impero ottomano, proba-bilmente con prevalenti compiti di colle-gamento tra la Commissione Riorganiz-zatrice e l’Esercito Turco.

Infatti, la Sublime Porta, per risolverela crisi, aveva richiesto l’invio di un con-tingente militare internazionale con ilcompito di controllare i tumulti e riorga-nizzare la gendarmeria locale. Il generaledei Carabinieri Giovanni Battista EmilioDe Giorgis, cui era stato affidato il co-mando della missione, era giunto nellaregione a Gennaio del 1904 e aveva tro-vato una situazione disastrosa: la gendar-meria turca era male equipaggiata e ancorpeggio pagata ed addestrata e pertantoinadeguata a compiere azioni di controllodi un territorio come la Macedonia. Tut-tavia il De Giorgis, con il supporto di uf-ficiali dei Reali Carabinieri, tentò dimigliorarla plasmandola secondol’organizzazione militare e territoriale deiCarabinieri italiani. Ma l’esperienza cheavrebbe sicuramente dato buoni fruttivenne interrotta dalla rivoluzione dei

Giovani Turchi, ispirata dalla mazzi-niana Giovine Italia. Il movimento, com-prendente universitari pro gressisti edufficiali dell’esercito turco che volevanomodernizzare e occidentalizzare la so-cietà ottomana, sfociò nella rivolta del-l’Ottava Armata ottomana, di stanza aSalonicco, che, a luglio del 1908, insorseesautorando il sultano Abd ul-Hamid.

Rientrato in Italia, il maggiore Muric-chio riprese la consueta routine nei variincarichi: tenente colonnello nel 1912presso il 12° da Campagna; nel 1914 de-stinato alla Direzione di Artiglieria diMessina per poi rientrare a Capua nel12°, a Gennaio del 1915, divenendone ilXII colonnello comandante.(9)

In tempo per guidare il Reggimento alfronte per la guerra contro l’Impero au-stro-ungarico in battaglie che costitui-ranno pietre miliari della Grande Guerra:Sagrado, Monte Sei Busi, Doberdò, S.Michele. Oslavia e Sabotino.

Dopo queste ultime operazioni, il 18maggio 1916 venne collocato a disposi-zione del Ministero della Guerra e verràpromosso maggior generale ad Aprile del1919.

Transitato nella Riserva, a giugno del1947 convolò a nozze con la signoraLucia Malvino la cui sorella era residente

in Ovada e pertanto a quest’ul ti macircostanza si deve il suo trasferi-mento nell’importante centro del-l’Alto Monferrato. Quivi, coltrascorrere degli anni di perma-nenza, divenne ben conosciutodagli impiegati dell’Ufficio Ana-grafe del Comune in quanto il Mi-nistero della Difesa, reso semprepiù sospettoso dalla longevità delGenerale, pretendeva – ogni seimesi – il rilascio di una dichiara-zione di esistenza in vita prima diproseguire il pagamento della suapensione.

Rimasto vedovo a Maggio del1958, negli ultimi tempi della suavita abitava in Via Ruffini (localitàCarlovini) ove il 15 giugno 1960ricevette una medaglia ed il di-ploma dell’Associazione Nazio-

nale Artiglieri d’Italia essendone ildecano. Fu l’ultima apparizione pubblicapoiché poche settimane dopo, il 7 agosto,decedette a causa di una neoplasia epa-tica. Riposa in Ovada nella venustatomba della famiglia Tabbò – Malvino,sepolcro di rimarchevole struttura archi-tettonica probabilmente eretto su progettoispirato o redatto personalmente dall’il-lustre ingegnere Michele Oddini, accantoalle spoglie della moglie Lucia.

Annotazioni(1) Gustavo Parravicino: questo generale,

proveniente dall’Arma di Artiglieria, era il co-mandante della Scuola di Tiro di Fanteria inParma quando, nel 1891, venne nominato Presi-dente della Commissione per la progettazione el’adozione di un nuovo fucile per fanteria.

(2) Giorgio Castriota Skanderbeg: nato aCroia il 6 maggio 1405 da Giovanni Castriota,principe di Croia, e dalla principessa VojsavaTripalda, originaria della valle Polog, situatanella parte nord-occidentale dell’attuale Mace-donia, è stato un condottiero e patriota conside-rato l’eroe nazionale dell’Albania. Unì iprincipati dell’Epiro e d’Albania e resistette per25 anni ai tentativi dell’Impero turco di espan-dersi in Albania e nei Balcani. Morì in Alessio il17 gennaio 1468 (molto probabilmente per ma-laria). Dal canto suo Papa Callisto III lo nominò“Difensore della Fede” e “Atleta di Cristo”.

(3) Madonna di Costantinopoli: titolo attri-

A lato, cartolina di propaganda del201 e 202mo Fanteria “BrigataSesia”

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buito a numerosi edifici di culto cristiani a ri-cordo di alcune apparizioni della Madre di Gesù,avvenute “post mortem” in Costantinopoli o adun’icona miracolosa realizzata in tale città e co-piata innumerevoli volte secondo l’ottica teolo-gica orientale per cui la copia di un’iconaconserva le proprietà dell’originale. Questa cre-denza ha quindi motivato un culto popolare pre-sente in Asia Minore e nell’Italia Meridionale.

(4) Nicola Campofreda: nacque a Portocan-none (Campobasso) il 14.12.1794 da Nazario eMaddalena Musacchio che apparteneva ad unaantica famiglia albanese imparentata con l’eroeGiorgio Castriota Scanderbeg. Entrò giovanis-simo nell’Esercito borbonico e vi fece una ra-pida carriera. Nel 1819 venne nominato capitanonel Reggimento Milizie del Molise ed iniziò lacaccia ai briganti che infestavano il Molise, laCapitanata e le Calabrie. A Maggio del 1830venne nominato Guardia Generale Forestale eda Maggio 1847 divenne Controllore dei DaziEsterni. Morì il 1° aprile 1873.

(5) Nunziatella”: oggi Scuola Militare fon-data a Napoli come Accademia Militare nel1787, occupa il 5° posto assoluto per anzianitàdopo l’Accademia Militare di Modena (1678);l’Accademia Militare di Artiglieria “Mikha-jlovsk” di S. Pietroburgo (1717); la Royal Mili-tary Academy di Woolwich (1741 - 1947);l’Ecole Militaire di Parigi (1750-1787).

(6) Si tratta del 29° Reggimento Artiglieriada Fortezza fondato in Capua il 1° novembre1883 come 17° Reggimento Artiglieria da For-tezza. Con l’aumento dei reggimenti di Arti-gliertia da Campagna sino al 24°, dal 1°novembre 1888 cambiò numerazione e divenne29° Reggimento Artiglieria da Fortezza. Il 28gennaio 1892, lasciata Capua, prese sede allaCittadella di Alessandria.

(7) Bilancia Idrostatica: già descritta da Ga-lileo nel 1586 nella suo saggio La Bilancetta, èun tipo di bilancia che serve per misurare il pesodi un corpo utilizzando la spinta idrostatica del -l’acqua secondo il principio di Archimede.

(8) Ministro San Giuliano: Antonino Pa-ternò Castello, marchese di San Giuliano, notocome Antonino di San Giuliano (Catania,10.12.1852 – Roma, 16.10.1914), fu Ministrodegli Esteri del Regno d’Italia dal 1905 al 1906e dal 1910 al 1914. Discendeva dall’anti ca fa-miglia Paternò di origine provenzale-catalanadell’XI secolo proveniente dalla località fran-cese di Embrun e giunta in Sicilia al seguito deire normanni.

(9) Il 12° Reggimento Artiglieria da Cam-pagna si costituì in Capua il 1° novembre 1884con il concorso dei Reggimenti 1° - 2° - 3° - 7°e 10° che fornirono due batterie ciascuno. Dopoavere cambiato più volte organico per nuovi or-dinamenti e ristrutturazioni verrà sciolto il 31

Marzo 1991.Sommarie caratteristiche

tecniche del fucile Mod. 91.Calibro mm. 6.50; Lunghezza totale dell’arma con baionetta

mm. 1580; Lunghezza totale dell’arma senzabaionetta mm. 1280; Peso dell’arma con baio-netta Kg. 4,075; Peso dell’arma senza baionettaKg. 3.750.

BibliografiaAutori vari in Rivista Militare - Luglio

1948- pag. 883.VINCENZO MURICCHIO, Quando fu ideato ed

in quale occasione fu costruito il I riflettore pa-rabolico, dattiloscritto con firma autografa del-l’Autore e datato 07 giugno 1957 (conservatopresso l’Archivio Storico dell’Accademia Ur-bense di Ovada).

VINCENZO MURICCHIO, Si deve all’Arti -glieria italiana l’invenzione del primo Riflettoreparabolico e della prima Bilancia idrostatica,manoscritto dell’Autore datato 20 agosto 1957(conservato presso l’Archivio Storico dell’Ac-cademia Urbense di Ovada) -..

GIANFRANCO SIMONE – RUGGERO BELOGI –

ALESSIO GRIMALDI, Il 91, Editrice Ravizza S.a.s.– Milano – 1970.

ROBERTO BATTAGLIA, La prima Guerrad’Africa, Giulio Einaudi Editore – Torino 1958.

RENZO CATELLANI – GIAN CARLO STELLA,Soldati d’Africa – Storia del Colonialismo ita-liano e delle uniformi per le Truppe d’Africa delRegio Esercito -, Volume I – 1885/1896 – Al-bertelli Editore – Parma 2002 e Volume II –1897/1913 – Albertelli Editore – Parma 2004.

FRANCO DELL’UOMO – ROBERTO DI ROSA –L’Esercito Italiano verso il 2000 – I Corpi di-sciolti – Volume Secondo – Tomo II – StatoMaggiore dell’Esercito – Ufficio Storico –Roma 2001.

MICHELE AMATURO, Scienze Militari, Soc.Anon. Edit. Valentino Bompiani e Co. – Milano1939.

RingraziamentiI più sentiti ringraziamenti vadano al Sin-

daco emerito di Ovada, Lorenzo Bottero, che hafornito qualificati ragguagli biografici fruttodella sua conoscenza personale col generaleMuricchio o desunti dal proprio archivio pri-vato.

A lato, i fanti italiani inneggianoalla vittoria imbracciando il fucilemodello 91; tavola tratta dalla Do-menica del Corriere

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1. La Confraternita, breve excur-sus storico.

La Confraternita “detta dei Discipli-nanti secondo l’instituzione di S. CarloBorromeo, sotto il titolo di Nostra Si-gnora Assunta in cielo”1, per quanto diun secolo e mezzo meno antica di quelladi San Sebastiano, da cui si staccò più omeno a metà secolo XVI (il primo docu-mento che la riguarda, presente in Archi-vio dell’Oratorio, è datato 28 marzo15672), in breve volgere d’anni diventòla più numerosa e la più importante dellaParrocchia, anche perché poteva disporredi un Oratorio molto più capiente rispettoalle dimensione di “San Sebastiano ilVecchio”. La Confraternita “ha l’abito ditela cruda e bianca con cingolo di corda,alcuni di essi dei principali per le fun-zioni solenni portano… il cosidetto taba-rino rosso”3.

Nel 1606, comunque, la Confraternitadell’Assunta era sicuramente esistente edomiciliata nel proprio Oratorio4 e ormaiben distinta da quella di San Sebastiano,se il 23 ottobre di quell’anno ottennel’aggregazione alla “Arciconfraternitadel Gonfalone di Maria”, la madre ditutte le Confraternite romane.

Il 4 maggio 17265 l’Oratorio fu aggre-gato alla Basilica di san Giovanni in La-terano con tutte le indulgenze ad essaconnesse, compresa la “plenaria quoti-diana perpetua”6 (seppur con l’obbligodi rinnovare ogni quindici anni la do-manda di aggregazione).

La domanda era stata presentata, indata 22 agosto 1725, da “Il Priore, Guar -diano e Confratri della VenerabileChiesa e Confraternita di S.Maria dellaAssunta posta nel Castello di CampoDiocesi di Acqui. Alla Santità di NostroSignore Papa Benedetto XIII… per go-dere l’in dul genze, et altri doni spiritualidi cui è arrichita la pred.a Sagro SantaBasilica”.

Si chiedeva direttamente al Papa“perché osta al R.mo Capitolo Latera-nense la Bolla della Santa mem. di Cle-mente Ottavo, e l’altra di Paolo quinto difel. ric., quali sospendono la facoltà dipoter più aggregare Chiese senzaespressa licenza della Sede Ap.lica, e nonessendo in d.o Luoco, ma anche in tutta

la Diocesi Chiesa alcuna aggregata, ofondata in solo Lateranense…etc.”7. LaBolla papale consta di ben sette pagine8.

Nel 1729 il Capitolo Lateranense de -cise di esimere i confratelli campesi dallaperiodica domanda di aggregazione9, mapapa Benedetto XIV (1740-1758) so-spese ogni indulgenza a tutti gli aggre-gati. Con supplica a Pio VI (1775-1799),l’8 aprile 1780 i confratelli ottennero laderoga dall’ordine di Benedetto XIV e in-sieme la concessione in perpetuo delle in-dulgenze10.

Nell’Oratorio sono murate le seguentilapidi a ricordo di dette concessioni:sopra la porta laterale sinistra (“dellecampane”) ci sono due lapidi: una recita:“INDULGENZA PLENARIA QUOTIDIANA PER-PETUA”; l’altra ricorda che “PIUS VI PONT.MAX. IACTENUS CONCESSA PRIVILEGIA

ANNO MDCC LXXX CONFIRMABAT”11.Sopra la porta che apre alla scala per

l’organo ci sono altre due lapidi: una recascritto “LIBERAZIONE D’UN’ANIMA DAL

PURGATORIO PER OGNI SACRIFICIO” (e si ri-ferisce alla indulgenza plenaria consegui-bile anche per i defunti12); l’altra ricordal’aggregazione alla Basilica del Laterano:“SACROSANTA LATERANENSIS ECCLESIA

OMNIUM URBE ET ORBE ECCLESIARUM

MATER ET CAPUT INNUMERIS SIBI PER SUM-MOS PONTIFICES CONCESSIS PRIVILEGIIS AC

QUOTIDIANA POTISSIMUM PLENAQUE PEC-CATORUM INDULGENTIA ORAT: HOC DEIPA-RAE IN COELUM ASSUMPTAE SACRUM

BENEDICTO XIII ANNUENTE AD SE ADIUN-CTUM LIBERALISSIME CUMULABAT ANNO

DOMINI MDCCXXVI”13.Ancora nel 1839, infatti, scriveva

l’arciprete don De Alexandris: “Vi sononell’Oratorio dell’Assunta, aggregatoalla Chiesa Lateranense, moltissime in-dulgenze plenarie e parziali per i Confra-telli ed una che porta la liberazione diun’anima del Purgatorio per ogni Sacri-ficio”14 il che significa che a metà Otto-cento nulla era stato ancora innovato inmerito, tanto che, non conoscendo misureprese da Roma mirate a cancellare taliconcessioni, si può pensare che essesiano a tutt’oggi valide15.

La Relazione del Vescovo, mons. Bi-cuti, del 1662 diceva che i confratelliiscritti erano 380, ma che non erano più

di una cinquantina quelli che si ritrova-vano per recitare l’ufficio; il Vescovo,quindi, ordinava che coloro che mancas-sero più di tre volte di seguito venisserocancellati dall’elenco; ordinava, altresì,che si eleggessero dei deputati “Pacifica-tori” per “far sedare subito le liti e com-porre gli animi acciò non seguanodisordini et inconvenienti, massime di ho-micidi, che pur s’intende tal’hora seguireper mancamento di chi per carità do-vrebbe frapporsi in aggionstare similiquestioni et differenze…”16. Questa testi-monianza del Vescovo ci dice di quantodifficili fossero i rapporti all’interno delsodalizio (dire “pio sodalizio”, a questopunto, sarebbe un poco forzato!) e ci con-ferma anche come le Confraternite fos-sero in quei lontani tempi non solomomenti di aggregazione d’ordine reli-gioso, ma anche luoghi e possibilità diesercitare un qual che potere per arraffareil quale tutti i mezzi diventavano buoni.

In buona sostanza, nulla di differentenel passato rispetto a quello che succedequotidianamente anche oggi.

Mons. Carlo A. Gozani celebrò nel -l’Oratorio il giorno di San Giuseppe del1676 e dei Confratelli scriveva “hannol’obligo quando muore qualche confra-tello di pagar un soldo per cad.no efanno celebrar messe trenta…”, messeche il Vescovo ordinò che fossero cele-brate dai sacerdoti del luogo (già piutto-sto numerosi), così come impose che chinon pagava la quota fosse cancellatodalla lista e per lui non fossero celebratele messe17. “…Ai confratelli è distribuitauna candela di cera bianca nel giornodella Purificazione”, ma per averla dove-vano corrispondere all’Oratorio una de-cima18: tradizione, quella della distri-buzione delle candele ai confratelli, cheè giunta sino a tempi recentissimi. Questovale anche per l’Oratorio di San Seba-stiano.

Tra le varie funzioni assegnate allaConfraternita era indicata anche quella dipartecipare alla “Compagnia della Dot-trina Cristiana”, eretta nella chiesa par-rocchiale, nel 1640 già attiva19. Essendola maggioranza dei confratri appartenential mondo contadino, la funzione catechi-stica20 divenne un’attività didattica capil-

La Confraternita “dei Disciplinanti” e l’Oratorio diNostra Signora Assunta in Campo Liguredi Paolo Bottero.

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lare svolta tra gli abitanti della campagna:“…la maggior parte de’ Confratelliascritti in d.a Confraternità dell’Assontasono Persone abbitanti in campagna…”,testimoniava nel 1722 il notaio e pretoredi Campo Pietro F. Alberti21.

Ancora troviamo nella Relazione che“In detto Oratorio vi è eretto un Monte dipietà”, che possiede dei castagneti chevengono affittati e dal cui reddito si ca-vano i fondi per soccorrere i bisognosi22.Nel 1714 mons. Gozani affermava “se-polcri in d.o Oratorio sono due, uno perli Confratelli, et altro per le Conso-relle”23. Tali sepolcri erano stati scavati apartire dal 1702 allorché la terribile allu-vione del 28 agosto di quell’anno fececrollare il ponte sullo Stura che dal paeseconduceva al cimitero: i confratelli deidue Oratori ottennero dal vescovo il per-messo di seppellire i cadaveri dei confra-tri sotto il pavimento dei due Oratori:operazione che, nonostante le protestedegli Agenti della Comunità, continua-rono per tutto il secolo XVIII e fino al1806, anche dopo il 1722 quando unnuovo ponte era stato costruito. Spul-ciando nei registri di morte della Parroc-chia, il calcolo approssimativo deidefunti sepolti in Oratorio durante il se-colo XVIII, fino al 1806, ammonta acirca 4000 cadaveri!

Don Ivaldi, nella sua Relazione del1699, scriveva che la Confraternita con-tava circa 400 adepti (saliti a 600 nellaRelazione di don Leoncini nel 1728, nu-mero confermato in quell’anno dal ve-scovo, mons. Rovero). Nella Relazioneper la Visita pastorale del 1744 si dichia-rava che i confratelli vestivano l’abitobianco, che dentro l’Oratorio c’era un“altare tutto di marmo, sopra del qualesi trova la statua rappresentante M. V.Assonta con catenina24 et altri ornamentifatti a stucco con pittura”; si continuavaaffermando che “si conservano dodici re-liquie in un reliquiario assai bello” e che“il corpo d’essa chiesa è assai bello conCantoria sopra la porta”25.

Ancora nel 1819 l’Arciprete donPrato scriveva che l’Oratorio dell’As -sunta era in grado di mantenersi da soloperché i confratelli “pagano per ognunocts. 12 all’anno” e che “oltre i due terzi

della popolazione di Campo sono ascrittiall’Oratorio”26.

Liti e contrasti con l’altra Confrater-nita campese, quella di San Sebastiano,non si contano tra Seicento e metà Otto-cento, per le questioni più disparate: unasi riferiva al diritto di iscrivere consorelle(una questione durata per decenni nel se-colo XVIII: la Confraternita tentò in ognimodo di impedire all’altra di “poter ag-gregare sorelle”, sostenendo “che le se-polture delle donne sono sempre state àconto dell’Orat.o della Beata Vergine”27).

Un’altra lite fu relativa al diritto diprecedenza nelle processioni: già nel1653 e, poi, nel 1662 il vescovo Bicutiesortava entrambi i Priori ad eleggere dei“deputati pacificatori” per “far sedaresubito le liti e comporre gl’animi acciònon seguano disordini et inconvenienti,massime homicidi che pur s’in tende tal’-hora seguire per manchamento di cha-rità…”28. Quindi nuovi interventi delvescovo nel 1685, nel 1687 e nel 168729

per mettere fine ai contrasti; altri decretifurono quelli del 22 maggio 1716 dimons. Gozani, del 26 giugno 1722 dellaSacra Congregazione dei Vescovi, la fon-damentale Convenzione del 19 luglio1728 voluta da mons. Rovero30.

Tutto sembrava definito in ogni parti-colare, ma molto baroccamente si andòavanti con disubbidienze varie “dei ca-sazzanti” (così erano chiamati per irri-sione i confratelli dagli adepti di S.Sebastiano), con interventi di avvocati,attraverso suppliche a tutte le autoritàcompetenti; insomma, dicendola con ilSimplicio di Galilei, la questione “… nonè miga così smaltita e decisa come forsealcuno si persuade”. Il vescovo do vettenuovamente intervenire nel 1744 met-tendo la parola fine con ben tre regola-menti in materia31.

Una terza riguardava il diritto di so-vrapporsi con proprie funzioni a quelledella parrocchiale (si veda la reprimendadel 1807 di mons. De Broglie32 o il di-vieto di cantare messe solenni in Orato-rio33), di cantare messe da requiem inOratorio, ma non solo quelle: si arrivòaddirittura a chiedere e ottenere per di-versi anni di poter cantare in Oratorio lamessa di mezzanotte a Natale34.

La storia della Confraternita fu tur-bata anche dalle leggi di soppressione vo-lute ora dalla Repubblica DemocraticaLigure (7 ottobre 1797 e, poi, 4 ottobre1798), ora dalla Prefettura genovese del-l’Impero francese (1811). Nel primo casoci fu il ripristino con la Costituzione dellaRepubblica del 2 dicembre 1797 (“sianoto che gli Oratori di questo Luogo …sono stati restituiti nel precedente sta-to…”, scriveva l’arciprete don FrancescoPrato il 7 gennaio 179835, sperando chela buriana fosse passata); nel secondocaso, per parare ai disordini, si stabilìl’unione delle due confraternite in unasola, quella ”della Santissima Triade”. La“Morte e Orazione” si ribellò e rifiutòl’unione; non così la “N. S. Assunta”.L’11 giugno 1803 il Magistrato Supremogenovese concedeva al l’Oratorio di ri-prendere le sue funzioni36. Il decreto 12agosto 1805 riprendeva l’ob bligo del-l’unica Confraternita37; infine il prefettodi Genova, Bourdon, nel 1811 chiusenuovamente gli Oratori e decretò la con-segna alla Fabbriceria parrocchiale ditutti i beni degli stessi. La Confraternita sisottomise.

Nel 1814, crollato l’Impero francese,il Vicario Capitolare di Acqui, canonicoGiovanni Toppia, il 27 aprile 1816 emanòun “Piano di Funzioni” cui la Con -fraternita si adeguò, a differenza della“Morte e Orazione”, il cui Oratorio fuchiuso. Durante gli anni Quaranta del-l’Ottocento ci furono momenti burrascosicon l’Ordinario, il frate-vescovo mons.Modesto Contratto, un tipo autoritario eintransigente che si scontrò anche contutto il paese quando nel 1855 imposed’autorità a Campo contro la volontà ditutti il nuovo arciprete don MaggiorinoServetti. Solo la morte del vescovo nel1867 risolse ogni lite tra gli Oratori e glianimi si pacificarono.

Non successe più nulla di notevole, adeccezione dell’episodio del 1910 allor-ché, all’uscita della statua dell’As sun tadall’Oratorio, successe il disastro dellacaduta della stessa. Fu uno scandalo checoinvolse i portatori e un paio in partico-lare che furono accusati di essersi sottrattialla cassa processionale a bel l’apposta38.

Avendo a disposizione centinaia di

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documenti, si potrebbe ampliare dimolto la narrazione della storia dellaConfraternita.

2. – L’Oratorio di Nostra SignoraAssunta – breve storia del manufattoe descrizione delle emergenze artisti-che.

La chiesa è forse la più bella e ar-moniosa costruzione architettonica diCam po e di tutta la Valle Stura.

L’Oratorio come noi oggi lo pos-siamo ammirare non è propriamentequello originale di metà Cinquecento:propone, infatti, i tre ampliamenti sette-centeschi39 che riguardano le due cap-pelle laterali40 e la parte iniziale dellachiesa41, oltre la facciata (i cui lavori dirifacimento iniziarono nel 1779); si la-vorò intensamente anche nei giorni fe-stivi, dopo aver chiesto e ottenuto dalVescovo la necessaria dispensa42. La fac-ciata precedente, non molto alta, posse-deva un campanile a vela che vennealzato al di sopra dello spiovente del tettodella chiesa: mons. Marucchi, infatti, nel1752, poteva ancora scrivere: “Vi è soprala facciata dell’Oratorio una cam-pana”43. Fu costruita in contemporaneaanche la nuova sacrestia44. La facciatadell’Oratorio (foto n. 1) fu restaurata piùvolte, così nel 1891, nel 1915 e, infine,negli anni Settanta del Novecento.

Sulla facciata furono inserite in duenicchie due piccole statue provenientidalla facciata della ex-chiesa del Con-vento (ove ancora si possono vedere lenicchie originali): le due statue raffigu-rano l’Immacolata e il beato Pietro daPisa, fondatore dell’Ordine dei gerola-mini.

Un’antica stampa secentesca tratta dauna lastra di rame sbalzato mostra unachiesina con tetto a capanna priva di cam-panile: ha due porticine e una finestra alcentro. Lo stesso dicasi per un’altra raffi-gurazione di Campo del sec. XVII. Larappresentazione di Campo del 1748 didon Luciano Rossi già ci offre una fac-ciata dell’Oratorio di un certo interessearchitettonico.

Il campanile venne innalzato nel178545. Due campane erano state acqui-state nel 173146; un’altra fu acquistata nel179047. Nel 1830-31 il campanile fu ulte-

riormente elevato con la costruzione del-l’attuale cella campanaria48. L’at tua leconcerto di campane venne acquistato nel1888 dal fonditore Picasso di Recco49.

Il Paglieri, in un saggio, scrive chel’Oratorio “svela la sontuosità delle sueforme e delle sue masse articolate soloall’interno, in quanto la fronte risulta im-ponente, ma piuttosto rigida nei raccordifra i vari pieni che ne definiscono la su-perficie. Il vano, molto curato nei detta-gli architettonici, ma compromesso dallapercezione originaria a causa delle de-corazioni pittoriche posteriori, evidenziauna netta prevalenza dell’asse longitudi-nale anche per la presenza di un atrio se-micircolare che richiama il coro, scher-mato da un grandioso altare con colonnetortili. L’elemento coagulante dell’in-sieme è lo spazio- centrale, coperto conuna volta a vela cui si saldano trasver-salmente, con giunti concavi, due grandicappelle. L’evidente predominio dellalinea curva e il disporsi di masse murariesu piani diversi riconduce questo edificioai temi del Settecento lombardo, intro-dotti in Liguria dalla chiesa parrocchialedi Ceriana”50.

L’Oratorio, tutto imbiancato a calcefino alla fine dell’Ottocento, come lachiesa parrocchiale per altro, soltanto al -la fine dell’Ottocento venne decorato daAchille De Lorenzi51 e, all’inizio del No-vecento, Luigi Gainotti affrescò la voltadell’aula e del presbiterio.

Il De Lorenzi, oltre alla decorazionegenerale della chiesa (foto n. 7), tra il1915 e il 1916, provvide ad affrescaresul l’arcone dell’altare maggiore unaco rona di angeli che sorreggono unaghirlanda di fiori e un nastro azzurroove compaiono i titoli con cui la Chiesacelebra, nelle Litanie Lauretane, levirtù di Maria. Il critico Luigi A. Cer-vetto (direttore della Civica BibliotecaBerio di Genova) nella sua relazione dicollaudo dei lavori (in data 14 luglio1916) scrisse a proposito dell’opera diDe Lorenzi: “Nella bella e veramentetrionfale ed armoniosa ghirlanda difrutti che graziosamente si svolge at-torno al l’arco sovrastante all’altaremaggiore, nella armoniosa disposi-zione dei fregi delle volute e dei simboli

allusivi alla Vergine gloriosa e nella dili-gente esecuzione dei toni, dei chiaroscurie nella indovinata collocazione dei vasifloreali, ha ottimamente seguito la tradi-zione di quell’arte decorativa che nelpassato per opera e del Camogli e deiCosta prima, dei Leoncini, dei Boccardoe dell’Agner dopo, trasformò come intan te regge le superbe sale di tanti pa-lazzi di Genova e dei dintorni e diedeanima, vita alle volte e alle pareti di tantechiese della capitale ligure e delle ge-mine riviere”. Ancora il Cervetto lodaCesare Peloso che aiutò il De Lorenzinella decorazione dicendo che “riuscì unfedele interprete del pensiero del valentedecoratore”. La doratura venne ese guitada Virginio Peloso, nipote del citato Ce-sare52.

Quanto agli affreschi di Luigi Gai-notti, ancora il Cervetto scrisse: “eseguìun buon fresco nel centro della voltaprincipale- esprimendo il mistico sog-getto dell’Assunzione al cielo della Ma-donna”, ma soprattutto il critico lodaval’affresco rappresentante la “Invenzionedella Santa Croce” (foto 4) dipinto sullavolta dell’altar maggiore: “ho riscontratoqui quei pregi artistici per i quali il dili-gente discepolo di Nicolò Barabino sortìa meritata fama: varietà e vivacità di co-lorito, felice disposizione delle figure, na-turalezza nelle pose, nei movimenti …grazia e varietà nei volti …ad esempionei lineamenti della figura di San Cirillo

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di Gerusalemme…si rendono evidente-mente chiari i moti dell’animo, del pen-siero”53.

L’altare maggiore marmoreo, chegode di essere “Privilegiato quotidianoperpetuo” (tuttavia, “della concessionesud.a non se ne ha documento espresso”,commentava don De Alexandris nel183954; ma noi possiamo assicurarel’antico Arciprete che tale documento esi-ste nell’Archivio dell’Oratorio55). Ta le al-tare è detto dal Leoncini56 provenientedalla chiesa di San Cristino (Convento),così come la balaustra che chiude il pre-sbiterio.

Per la balaustra non si può obiettare,avendo a disposizione la testimonianzadel memorialista Agostino Paladino e ladocumentazione relativa: essendo la chiesa del Convento di proprietà- dell’Ammi-nistrazione Comunale, la balaustra (incampese “à kanzélla”) fu acquistata il 22dicembre 1803 da Gio Antonio Bruz-zone, speziale del paese e Priore dellaConfraternita e donata all’Oratorio le-gando il dono ad una messa annuale per-petua57.

Per l’altare bisogna invece smentire ilNostro (come troppo spesso succede si ècostretti con il Leoncini, frequentando idocumenti): nell’Archivio dell’Oratorioabbiamo infatti il contratto siglato nel1726 tra la Confraternita e lo scultoreparmense Bartolomeo Marre di Rima-gna, contratto col quale il Marre si impe-gna a costruire l’altare “con suoi gradinia piano terra munito di sua Predella Pa-leotto, Mensa e due Angeli laterali adetta Mensa e tre gradini di sopra consuo ciborio in conformità al disegno sta-tone fatto..”58.

L’altare venne inserito nel secondoSettecento in una grandiosa macchinascenica barocca che presenta, in alto, ungrande fastigio sorretto da sei colonnetortili. Il fastigio propone l’immaginedello Spirito Santo circonfuso da granderaggiera e angeli; ai lati, le due statue rap-presentano la “Fede” (con la Croce) e la“Speranza” (con l’àncora).

Ai lati del presbiterio sono due granditele di autore ignoto di fine Settecento(molto deteriorate) raffiguranti “Cristoche lava i piedi agli Apostoli” a sinistra e

“Orazione di Gesù nell’orto del Getse-mani”, a destra: quest’ultima giudicata,da esperti, di buona fattura specie nel-l’immagine del Cristo.

Al di sopra del presbiterio è il bel -l’affresco che Luigi Gainotti dipinse nel1915-16, “Invenzione della Croce” (foton. 4) che rappresenta la scena tradizio-nale dell’ammalata che improvvisamenteè guarita dal contatto con la vera Crocedi Cristo, tra l’esultanza di Santa Elena asinistra e la stupefatta commozione diSan Cirillo di Gerusalemme a destra. Ve-ramente un bel lavoro del cinquantaset-tenne pittore parmense.

La statua di Nostra Signora As-sunta.

L’altare maggiore, che domina la sce-nografia dell’insieme architettonico, siapre in alto nella nicchia che contiene lasplendida statua lignea della “Vergine As-sunta”. Ai piedi della statua stessa è lafirma dell’autore: “Ursinus de Mare fecitNeapoli”.

La statua giunse Campo nel 1714, do-nata all’Oratorio di cui era confratello, daBenedetto Prasca, “che fu da prima am-miraglio del Gran Duca di Toscana e poiComandante supremo della flotta del-l’Imperatore Carlo Sesto” così scrive ilLeoncini59 (esageran do con l’ammiraglioe il comandante supremo!) usando qualefonte senza citarla, al suo solito (il clas-sico peccato mortale degli storiografi chenon citano le fonti!), quanto scrisse donLuciano Rossi a cappello di un brevecarme in onore del Prasca stesso: “Bene-dictus Prasca Campen- sis, Navicularius,Genuensem adscriptus in civem, MagniEtruriae Ducis, deinde Caroli Sexti Im-peratoris classibus Praefectus, de ter no-bilitate donatus, ad Oratorium B.Virginis in Coelum Assumptae Ligneamab urbe Neapoli Statuam dono misitAnno 1713. Quamobrem Confratres in-scribendum in interiori eiusdem eccle-siae pariete iusserunt sequens hocepigramma”; segue un epigramma60 (tra-duz.: “Benedetto Prasca di Campo, ar-matore, iscritto tra i cittadini genovesi,comandante della flotta del Granduca diToscana, quindi dell’Imperatore CarloVI, tre volte insignito di titoli nobiliari,mandò nel 1713 da Napoli in dono al-

l’Oratorio della B. Vergine Assunta laStatua di legno. Per la qual cosa i Con-fratelli ordinarono di scrivere sulla pa-rete interna della chiesa questo epi-gramma”). Nessuna lapide con “epi-gramma” è oggi presente nella parete in-terna dell’Assunta (probabilmente can-cellato quando a fine Settecentol’Oratorio fu restaurato e rinnovato).

La cronaca del viaggio della statua daGenova a Campo ci è raccontata da Ago-stino Paladino (che usa Luciano Rossi)61;la possiamo così di seguito sintetizzare:“Per tradizione raccontasi qualmente ap-pena gionta la notizia che era arrivatanel porto di Genova la tanto desideratastatua” i Confratelli “delegarono personeper andarla a ritirare dal Capitano checomandava la nave…”. “I Genovesi de-votissimi di M. SS, città alla stessa dedi-cata, avendo sentito dietro la sparsanotizia da’ naviganti” vollero vedere eonorare la statua che era stata trasportataed esposta nella chiesa di San Marco alporto, ove fu per giorni oggetto di vene-razione popolare tale che c’era il rischioche non le fosse permesso di proseguireper Campo. I Confratelli “dubitando diqualche sinistro accidente…spedironon.° 38 persone munite di fucile, per po-tere all’uopo trasportare li uni dopo deglialtri la sud.a cassa sulle propriespalle…”. La Statua venne, pertanto, por-tata a spalla, a causa delle pessime condi-zioni delle strade, lungo la rivieragenovese di ponente tra ali di folla devota(i fucili, comunque, servirono “per incu-tere timore, e nel tempo stesso fare le de-bite, e stabilite salve alla stessa Imma-gine…”); sostò nella pieve di Palmaro,dedicata all’Assunta, tra gran festa di po-polo, mentre “suonarono le campane afesta durante il tempo della dimora”.“Nel passare per Voltri…” i fedeli chie-sero ripetutamente ai campesi una sosta,che non venne concessa; comunque,“con imitazione dei Pievani, le due Par-rocchie suonarono a festa le campane”quando la statua passò per le vie delborgo. Quindi i 36 portatori si inerpica-rono per la strada della Canellona: “…al-cuni timori si erano sparsi sul con tegnode’ Masonesi…ma la scorta delle armiportate sino a Genova, e quelli che nuo-

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vamente furono provveduti di fucile perl’uso anzi detto, nulla di inconveniente èoccorso…”: ma i masonesi rimaserofreddi e incuranti di tutto, così la statuagiunse senza intoppi a Campo ove adaspettarla era tutto il popolo con in testail parroco, don Bernardo Leoncini. Seguìuna grande festa.

La statua venne restaurata quasi su-bito, nel 1728, dallo scultore genoveseFasce. Un ulteriore restauro avvenne nel1884 ad opera di Ignazio Bettoni62.

Quanto all’autore, debbo affermareche nonostante le ricerche più diligentinon mi è stato dato di giungere ad unqualche risultato. Consultati a Napoli glispecialisti di storia dell’arte della Soprin-tendenza, mi è stato sostanzialmente ri-sposto che di Ursino non si sa quasi nullase non che, forse, era il figlio di Nicola,scultore molisano operante in Napoli (mapotrebbe anche essere il padre o il fra-tello!) e che l’unica opera a loro cono-sciuta era un piccola statua esposta nelMuseo Diocesano di Salerno (foto n.3)63; la notizia della presenza dell’As-sunta campese è stata per loro una sco-perta, così come per uno storico dellastatuaria ligure (Daniele Sanguineti) chel’ha indicata quale “unicum” nel pano-rama ligure del secolo XVII.

Normalmente, fino a qualche decen-nio fa, davanti alla statua era stesa unagrande tela, commissionata il 25 maggio1902 al pittore Benedetto Moizo64, raffi-gurante l’Assunzione di Maria: la rappre-sentazione voleva essere una copia(ahimé, quanto lontana!) della celebre“Assunta” del Tiziano, meravigliosa-mente risplendente nella Basilica di SantaMaria Gloriosa dei Frari a Venezia.

Ormai usurata, a fine secolo XX è statasostituita da un’altra tela, opera del pit-tore genovese Archimede Cattaneo45.Nel 2010 questa tela è stata sostituita dauna nuova “Assunta” (foto n. 6) del pit-tore campese e confratello Angiolino Ti-mossi (1926-2010), lavoro terminatopoche settimane prima della morte delpittore.

La precedente statua dell’Assunta, dibuona fattura, è ancora visibile nel l’Ora -torio, posta in un deposito sopra la sacre-stia. Tale statua “è la stessa stata dallapiena dell’acqua (dell’inonda zio ne del26 agosto 1702, “l’anno fatalissimo per ilnostro Paese di Campo”), “entrata nel -l’Orat.o, e trasportata sopra i così detticavaletti sino sulla porta di essa Chiesa”(racconta A. Paladino)66.

Nel deposito di cui sopra, insieme adaltre cose antiche, si può ammirare an-cora lo splendido gruppo statuario del“Martirio di Santo Stefano”, un gruppodi ben otto statue ad altezza d’uomo dimano di un notevole scultore del primoSeicento, gruppo meritevole di essere re-staurato ed esposto alla ammirazionedegli amanti del bello.

Tale gruppo statuario67 venne acqui-stato dalla Confraternita campese il 29 lu-glio 1850 dalla Casaccia di Santo Stefanodi Borzoli e pagato 400 lire di Genovafuori banco68.

L’Oratorio era ed è ancora ricco di unnumero esorbitante di reliquie. Così, adesempio, don De Alexandris ne enume-rava 139, con paginate intere del suoscritto dedicate all’indicazione delle “au-tentiche” delle stesse69. Mons. PietroGrillo, nella sua Relazione al Vescovoscriveva di 83 contenitori presenti nel -

l’Ora torio, in molti casi con reliquie te-nute “irregolarmente in teca unica” perun totale di ben 199! Su tali reperti ci sa-rebbe da scrivere un saggio.

Tra le più importanti per l’Oratoriofurono sempre le reliquie dei “Santi Be-nedetto e Pio” dei quali si celebrava laquarta domenica di settembre la tradizio-nale “festa dei Santi Martiri”, per con -cessione di papa Pio IX nel 186270.

Le due cappelle laterali della navatasono dedicate rispettivamente al Croci-fisso e a San Gaetano Thiene.

La cappella del Crocifisso, con scul-tura lignea di artista napoletano del sec.XVII (scriveva mons. Marucchi nel1752: “L’altare del Crocifisso ha per in-cona un bel crocifisso alto in nicchia co-perta di velo trasparente”71), è splendidacostruzione barocca con grande fastigiosorretto da colonne binate, al centro delquale è un cuore ardente trafitto dalla lan-cia, ai lati del quale stanno due angeli chesorreggono l’uno la Croce e il calice (adestra) e l’altro i chiodi e la corona dispine (a sinistra). La caratteristica di que-sto Crocifisso è quella del Cristo che nonha la testa reclinata nella morte, bensì ri-volta verso l’alto nell’invocazione alPadre e, pertanto, risulta ancora vivente,secondo una moda raffigurativa che fa-ceva capo al movimento giansenista. TaleCrocifisso giunse, nel 1714 insieme allastatua dell’Assunta, nell’ Oratorio di unacomunità sperduta tra le montagne e lon-tana dalle grandi correnti di traffico (edelle idee) quale era allora Campo, dopoessere stato allontanato da qualche chiesadi città, forse di Napoli, a seguito dellacondanna del Giansenismo, operata dallaBolla papale “Unigenitus” del 1713.

A questo altare probabilmente(l’affermazione però non è certa) eraeretta la “Compagnia del SS. Croci-fisso”, una Compagnia voluta in tutte leparrocchie nel 1689 dal vescovo mons.Gozani. La Compagnia potrebbe, però,anche essere stata eretta in San Micheleove abbiamo ancor oggi conservato ilgrande Crocifisso processionale

Sopra il tabernacolo dell’altare untrono ligneo dorato sorregguna corniceche contorna la tela della Madonna dellaSalute72 (essendo stato donato il quadro

1 A lato, i Confratelli della confrater-nita campese, con il grande Croci-fisso processionale sul sagrato delDuomo di Milano durante un ra-duno di confraternite

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rappresentante la stessa da’ Sig.ri FratelliOlivieri volgo Brajotti” come raccontasempre il memorialista Paladino)

Nella cappella di San Gaetano daThiene esisteva un tempo una tela, scrive,infatti, Agostino Paladino che “l’altare diS. Gaetano da Thiene ha per incona unquadro rappresentante la B. Vergine ed.to Santo” quadro scomparso e sostituitoda un gruppo ligneo statuario, che oggila adorna: quello della “Madonna cheporge il Bam bino a san Gaetano”, (foton. 8) uno dei pezzi forti dell’arte rococòpresente a Campo, posizionato in unanicchia appositamente costruita neglianni Ottanta del 1700, anni cui risale ilgruppo stesso di autore ignoto (la Ma-donna, dall’alto, su una nuvola, ha ap-pena abbandonato il Bambino tra lebraccia di San Gaetano che si sta alzandodall’in ginocchiatoio dopo averlo rice-vuto; nell’alto un drappo azzurro formauna specie di baldacchino adorno di an-geli, putti e raggi divini).

Il gruppo statuario venne donato daCristoforo Buffetti72 all’Oratorio, dopoaverlo commissionato ad un artista geno-vese, oggi ignoto. La composizione cam-pese, seppur di maggiori dimensioni, èispirata a quella che si può ammirarenella Basilica di San Siro in Genova (lì sitratta di statue lignee della scuo la del Ma-ragliano).

Anche questa cappella presenta comebella costruzione barocca; un il fastigio,sorretto da colonne binate, propone unbassorilievo con “Padre Eterno tra dueangeli”. Sopra il tabernacolo dell’altare èposto un quadro ottocentesco raffigurante“S. Francesco da Paola con il SantoBambino”, la cui devozione si cercò diintrodurre appunto nei primi decenni delsec. XIX, ma senza molto successo.

Alla parete di sinistra dell’Oratorio èperennemente esposto il grande Croce-fisso processionale, ancor oggi oggettodella massima venerazione dei fedelicampesi. In Oratorio è stato posizionatonel 2011 un grande Crocifisso in legno diulivo di Rodi, opera del confratello scul-tore Gianfranco Timossi (foto n. 9), fra-tello del pittore Angiolino.

Sappiamo che esisteva un organodalle relazioni delle Visite di mons. Ma-

rucchi nel 1752 (“Vi è un piccolo organo,non però alcuno stipendio per l’or -ganista”) e di mons. Capra nel 1771 (“infondo vi è una cantoria, sopra cui evvil’organo”)74.

L’organo attualmente esistente vennecostruito da Giuseppe Gandini di Varesedel 189475; l’organo è a trasmissionemeccanica (catenacciatura), E’ ancora inoriginale senza aggiunte di sorta.Avrebbe bisogno di urgente restauro. Lacassa dell’organo venne costruita dal fa-legname campese Giuseppe Timossi nel189776; sempre in quell’anno venne posi-zionata la ringhiera in ferro battuto lungotutto il cornicione, opera del fabbro cam-pese Giuseppe Pisano77.

NOTE.1 - Così scriveva don G. De Alexandris nella

sua “Risposta ai quesiti della lettera pastoraledel 1839”, pag. 43. v. in Archivio Storico Vesco-vile Acqui Terme (d’ora in poi ASVAT), Visitepastorali, vescovo Contratto.

2 - v. in Archivio Oratorio Nostra SignoraAssunta (d’ora in poi AONSA) sez. 14.1 Filza In. 1.

3 - ibidem, pag. 43. In verità, i tabarrinidella Confraternita erano o verdi (dei Priori) ocelesti (dei confratelli); il rosso giungeva datempi piuttosto recenti: dal 1797-98 quando ilGoverno provvisorio della Repubblica Demo-cratica Ligure decretò la presenza di un’unicaConfraternita nei Comuni con meno di 5000 abi-tanti, tentando di riunire le due Confraternitecampesi nell’unica della SS. Trinità conl’adozione dei “tabarini“ rossi.

La “Morte e Orazione” di San Sebastiano ri-fiutò decisamente e il tentativo naufragò misera-mente.

4 - Chiara indicazione relativa alla chiesa ènell’atto del podestà e notaio di Campo, Fran-cesco Frascara (v. in AONSA, Filza I n. 2); idemin Filza I n. 4 l’atto del notaio imperiale LorenzoPizzorno del 22 luglio 1579.

Il notaio era fratello del commerciante Pie-tro, di nascita rossiglionese, ma cittadino delFeudo Imperiale, sposato con la campese Tom-masina Ventura Cosmelli (matrimonio avvenutoin San Siro a Genova, parrocchia ove i due ri-siedevano): genitori, quindi, del famoso pittorefra’ Bernardo Pizzorno, alias Strozzi, alias il”cappuccino genovese”, nato a Campo nel 1582.

Un ramo della famiglia ovadese dei Frascaranel corso dei secoli XVI e XVII fu a Campo,“chiodaioli et ferrieri” dimoranti in “Contradadel Borgo” e in “Contrada Angassino” (v. inASVAT gli Stati delle Anime del 1678 e del1711). All’inizio del secolo XVIII due membri

della famiglia campese, don Francesco e donGio Batta, risultano residenti in Roma, iscritticomunque alla Confraternita campese con laquale mantengono stretti rapporti epistolari, in-caricati dai Priori per le pratiche dell’aggrega-zione.

Un ultimo Frascara abitante e morto nel1909 in Campo Ligure fu il prof. Francesco, Di-rettore Didattico. Sua cugina Francesca, emi-grata in Argentina con la famiglia, sposò a LaPietad, presso Buenos Aires, il commerciantecampese Giuseppe M. Oliveri, che poi fu Sin-daco di Campo dal 1898 al 1903.

5 - Cfr. in Archivio Capitolare Lateranense,E, LXXXI, Regestrum Bullarum Lateranensiumab anno 1724 usque ad totum annum 1727, ff.271r-274r.

v. in AONSA, sez. 14 .1 Filza II n. 83, la ri-chiesta di aggregazione alla Basilica Latera-nense; al n. 94 la lettera del 21 settembre 1726ove si ringrazia perché insieme all’aggregazionealla Lateranense si può continuare a godere del-l’aggregazione al Gonfalone.

6 - “Item Bonifacius Papa 8us dixit quod siquis causa devotionis, orationis, aut peregrina-tionis ad Sedem n.ram Lateranen. accesserit abomni peccati immunditia liber existat”, recita laBolla papale summenzionata (Traduzione: PapaBonifacio VIII decretò “chiunque per devo-zione, per pregare, per pellegrinaggio si recassenella nostra sede lateranense ne esca liberatodalla sporcizia di qualunque peccato”); indul-genza altresì lucrabile il giorno 9 novembre,festa della dedicazione della Basilica del Late-rano, la prima domenica di Quaresima, la dome-nica delle Palme, il Sabato Santo, il sabato inAlbis, ancora nella festa della Esaltazione dellaCroce Nella Bolla papale sono ricordate altresìle numerosissime altre indulgenze per le svariatefeste dell’anno, sempre lucrabili secondo lenorme di Santa Madre Chiesa.

7 - v. Ibidem sez. 14.1.Filza II n. 362,la let-tera dei Priori 22 giugno 1726

v. Ibidem, sez. 14.1 Filza II n. 105,la letteracon cui si ringraziano i canonici lateranensi perla concessione dell’aggregazione: lettera del 14gennaio 1727; v. sez. 14.1 Filza II n. 121 il“Placet” per la perpetuazione dell’aggregazionealla Basilica Lateranense;

8 - Cfr. in Archivio Capitolare Lateranense,E, LXXXII, Regestrum Bullarum Lateranen-sium ab anno 1728 usque ad totum mensem no-vembris Anni 1729, ff. 215r-216r. v. in AONSA,sez. 14. 1 Filza II n. 374 la lettera di SebastianoLupi da Roma che annuncia l’invio della Bolladi aggregazione.

8 - v. in AONSA, sez. 14.1 Filza II, al n. 126la lettera di don Frascara da Roma che annunciail 23 luglio 1729 la firma sulla Bolla di aggrega-zione perpetua.

10 - Devo, comunque, dichiarare che non èstato dato di trovare nell’Archivio Lateranense

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l’originale della Bolla di papa Pio VI, nono-stante ricerche accurate da parte degli archivistiromani, sollecitati in merito dall’allora (anno2002) arcivescovo Vicegerente di Roma, mons.Cesare Nosiglia, in oggi arcivescovo metropo-lita di Torino.

11 - Traduzione: “Papa Pio VI nell’anno1780 riconfermò i privilegi concessi preceden-temente”.

12 - “Item Silvester Pontifex concessit sa-cello, cui nomen est Mortuorum apud Sacrarumdicat. Eccl.iae quod quoties quis Sacrum in Araibi collocata celebraverit extrahat e Purgatorijjanis animam unam”, recita sempre la Bolla pa-pale.

13 - Traduzione: “Nell’anno del Signore1726, la Sacrosanta Basilica del Laterano,madre e capo di tutte le chiese dell’Urbe e delmondo, aggregò a sé con piena generosità, conl’assenso di papa Benedetto XIII, questo orato-rio dedicato alla Madre di Dio in cielo Assunta,insieme ai numerosissimi privilegi ad essa con-cessi dai Sommi Pontefici e soprattutto la plena-ria e quotidiana indulgenza per tutti i peccatori”

14 - v. in ASVAT “Relazione dello statodella Parrocchia e Insigne Collegiata di Cam-pofreddo - 1839”, pag. 21.

15 - Sebbene durante i miei sett’anni di vitanon ne abbia MAI sentito parlare da alcun sa-cerdote e non abbia mai sentito predicare tali in-dulgenze: indifferenza, incuria dei preposti alcompito? Spreco incredibile di benefizi. Mah!

16 - v. in ASVAT, “Visite Pastorali”, Vesco-vo Bicuti, 1662, cart. 131 retto.

17 - v. Ibidem, “Visite pastorali”, VescovoGozani, 1676-78, cart. 5 verso.

18 - v. ibidem, cart. 6 retto. Circa il paga-mento delle decime si veda in AONSA, sez.14.1 Filza II n. 6 la deliberazione del Consigliodi amministrazione della Confraternita. A questoproposito si veda anche Filza II n.232, in data 4aprile 1794, la nota dei debiti dei confratelli cheda anni, a causa delle condizioni di miseria, nonpagano da alcuni anni la decima (alcuni si limi-tano a qualche prodotto agricolo).

19 - v. Ibidem, “Visite pastorali”, VescovoCrova, 1640.

20 - Il manuale di catechismo fino a metà

Settecento era quello pubblicato in Genova nel1664 con il titolo “Scuola della salute cioè Isti-tuttione del vero Christiano”, opera di padre Fi-lippo Aicardi da Camporosso, sostituito nel1748 dal nuovo manuale, opera dell’arcivescovomons. Giuseppe Maria Saporiti.

21 - v. Archivio Oratorio S. Sebastiano eRocco, (d’ora in poi AOSSR), Filza II n. 41

22 - v. ibidem, cart. 6 verso.23 - v. in ASVAT, “Visite pastorali”, Ve-

scovo Gozani, 1714-15, cart. 167 verso.24 - Una campese (sulla cui identità sorvolo

per carità di patria), nella sua tesi di laurea,avendo letto maluccio nel documentod’archivio, é giunta a scrivere della statua del-l’Assunta “con S. Caterina” (invece che “concatenina”).

Col che mi fece impazzire a cercare nel ri-postiglio dell’Oratorio la statua di S. Caterina oi resti della stessa (non si sa mai!) che, logica-mente, erano e sono inesistenti.

25 - v. in ASVAT, “Visite pastorali”, Vesco-vo Rovero, 1744, cart. 7 retto.

26 - v. Ibidem, a pag. 6 la “Risposta ai que-siti contenuti nella lettera pastorale del 10 mag-gio 1819”; la risposta fu redatta da don Prato il22 giugno 1819.

27 - v. AONSA, Filza II n. 46, la lettera al ve-scovo del 6 settembre 1718 inviata dal Priore,Gio’ Antonio Lupi.

28 - v. AOSSR, Filza I, n. 24, intervento del22 aprile 1653; v. ASVAT, “Visite pastorali”,vescovo Bicuti, 1662, cart. 131 r.

29 - v. Ibidem, Filza I n. 24, 22 aprile 1653; v.Ibidem, Filza I n. 38, le lettere del vescovo alparroco in data 16 e 23 aprile 1658;

- v. in AONSA, Filza II, n. 353, decreto delPro Vicario Generale di Acqui, canonico Lodo-vico Rodella, in data 14 agosto 1687.

30 - v. AOSSR, Filza II n. 51 e n. 52; Filza II,n. 152; Filza II n. 212 e 213. Si veda anche laConvenzione tra Confraternita e Arciprete diCampo in AOSSR, Filza II n. 215.

31 - v. il Decreto di mons. Rovero inAONSA, Filza II n. 331.

32 - v. Ibidem, Filza III, n. 25 la lettera del7 aprile 1807.

33 - v. Ibidem, Filza III n. 52, il decretò del

Vicario Capitolare canonico GiovanniToppia del 28 marzo 1817.

34 - v. Ibidem, Filza III n. 68 del1821; n. 114 del 1830; n. 123 e 128 del1832; n. 129 e 130 del 1833.

35 - v. APCL, sez. 1.1, faldone 3 regi-stro n. 9 Libro dei battesimi, alla datacitata.

36 - v. Ibidem, Filza III, n. 4.37 - v. AONSA, Filza III, n. 16.38 - v. APCL, sezione 10.3 n. 7 le

“Memorie” del canonico don Luigi Ma-riscotti.

39 - v. Ibidem, Filza II n. 187 la ri-chiesta di terreno agli Spinola perl’ampliamento dell’Oratorio in data 5 aprile1778; sempre in Filza II al n. 189 in data 9 feb-braio 1779 la richiesta di permesso a Vescovoper avanzare l’Oratorio di 10 palmi. Il vescovoconcesse il permesso il 2 giugno 1779 (v. inFilza II i n. i 193 e 194).

40 - v. ibidem, Filza II n. 218 la supplica alVescovo, in data 6 ottobre 1784, per poter cele-brare nelle due nuove cappelle, appena termi-nate.

41 - v. ibidem, Filza II, n. i 200, 201, 203,204, 206 tutti i documenti relativi alla ricostru-zione e benedizione del nuovo Oratorio.

42 - v. Ibidem, Filza II n. 180 con richiestadel 21 giugno 1779.

43 - v. in ASVAT, “Visite pastorali”, Ve-scovo Marucchi, 1752, fasc. 6° cart. 45 retto.

44 - v. AONSA, Filza II n. 199.45 - v. Ibidem, in Filza II n. 219 il conto

delle offerte per la costruzione del campanile.46 - v. ibidem, Filza II, n. 133, documento

del 20 marzo 1731.47 - v. ibidem, Filza II, n. 224 ove è se-

gnato il conto alla data 13 agosto 1790.48 - v. Ibidem, Filza III, n 132, la scrittura

privata del 4 maggio 1830 tral’Amministrazione dell’Oratorio e la Ditta ap-paltatrice dei lavori.

49 - v. Ibidem, Filza III, i numeri 216,219,220.

50 - cfr. N. Pazzini – R. Paglieri, “Chiesebarocche a Genova e in Liguria”, Genova1992, pag. 208.

51 - v. in AONSA, Filza III n. 215 il preven-tivo del 29 giugno 1887 del pittore Achille DeLorenzi.

52 - Federico Cesare Peloso (1873-1955) diAngelo Michele e della sua seconda moglie Giu-ditta Piombo, sposò Enrichetta Ferrari (1875-1971); Cesare fu pittore, decoratore, autore delromanzo storico “Fra le ombre del Medioevo”,Genova 1936 (di cui esiste una continuazionemanoscritta presso il nipote, Mario Oliveri).

Del Peloso sono anche le decorazioni dellacappella campestre “Mater Salvatoris” in valleLangassino.

Costantino Virginio Peloso (1883-1928) di

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Gio Batta e di Maria Piana, sposò Giuditta Pa-storino (1900-1999).

53 - cfr. il manoscritto del Cervetto in ACCL.Il manoscritto è usato da Vitaliano Rocchiero nelsuo saggio “Scuole gruppi pittori dell’800 li-gure”, Roma 1981, pag. 95, ove trascrive acriti-camente una parte del giudizio del Cervetto,astenendosi da qualsiasi commento in merito .

Sull’Oratorio dell’Assunta si può vedereanche Sergio Fossati, “L’Oratorio di N. S. As-sunta a Campo. Indagine sull’origine e sviluppodi un’architettura tardo-barocca in ambito li-gure-piemontese”, tesi di laurea, Facoltà di Ar-chitettura di Genova, 1984; dello stesso siconsulti un lavoro simile in “Urbs Silva et Flu-men”, Ovada 1984, pag. 87.

54 - v. in ASVAT , a pag. 21 della sua “Ri-sposta ai quesiti…”, cit.

55 - v. in AONSA, “Reliquie e Indulgenze”,14.6.5 n. 79, le indulgenze concesse da papaPio VI il 10 marzo 1781.

56 - v. Domenico Leoncini, “Campo nei se-coli”, Campo Ligure 1989, pag. 356.

57 - “…il cittad.o Gio’ Ant.o Bruzzone qm.Lorenzo, desiderando sgravarsi del debito di £100 M.ta corr.te di Genova…” lire legate dal bi-snonno per 2 messe in perpetuo “…ha cesso, edato al d.to Oratorio in estinzione di d.o suo de-bito una Balaustra di marmo…giacché la vec-chia è stata rovinata, e dispersa dalle truppefrancesi acquartierate negli anni scorsi in d.oOrat.o”; e poiché il valore della balaustra era sti-mato in almeno 600 £, Bruzzone volle chel’Oratorio “…sia obbligato di far celebrarealtra messa in perpetuo” (v. in AONSA, “Le-gati” – “Legato Bruzzone”).

Gio Antonio Bruzzone (1754-1835) di Lo-renzo fu anche Presidente della Municipalità re-pubblicana nel 1797.

58 - Per tale opera il Marre ricevette qualecompenso “95 pezzi in sborso di tanti gioiellid’oro che faccino il computo di detti 95 pezzi alire Cinque di Moneta di Genova” (v. inAONSA, Filza II n. 162, la ricevuta dello scul-tore in data 26 maggio 1726)

C’è chi sostiene (senza per altro poterlo do-cumentare) che “il delicato paliotto decorato damotivi floreali presenta un altorilievo in stucco,raffigurante la Vergine Assunta, che è indubbia-mente un inserto posteriore…” (v. Simone Re-petto, “Campo Ligure. Il patrimonio artistico”,Genova 2003, pag. 98. Sarà vero? Io non credoproprio.

59 - v. D. Leoncini, “Campo…”, cit, a pag.358. A tutt’oggi, in nessun repertorio biograficostorico di personaggi celebri per la loro carrieramilitare tra Sei e Settecento mi è stato dato ditrovare notizie circa il Prasca in questione.

60 - cfr. in APCL, sez. 11.1 n. 29 “Latina etItalica Carmina, copia tertia”, 1706,, il mano-scritto di don Luciano Rossi a pag. 179.

61 - v. Agostino Paladino, “Memorie”, tra-scritte e commentate da Paolo Bottero, CampoLigure 2005, alle pagine 61-64.

62 - v. AONSA, sez. 14.1, Filza II, n. 116per Fasce e Filza III, n. 211 per Bettoni.

63 - v. la comunicazione del prof. Attilio An-tonelli, storico dell’arte della Soprintendenza diNapoli: “Dello scultore Ursino de Mari si cono-sce una Maddalena firmata ma non datata, dipiccolo formato, custodita nel Museo diocesanodi Salerno. L’opera è ancora nella sua teca im-piallacciata in tartaruga e con fondale dipinto:una rarità. Secondo Gian Giotto Borrelli (Scul-ture in legno di età barocca in Basilicata, 2005,p. 30) Ursino potrebbe essere padre di Nicolade Mari, altro scultore specialista del legno(Dora Catalano del Polo Museale di Napoli si èoccupata delle sue opere molisane in un conve-gno leccese del 2004, gli atti a cura di LetiziaGaeta sono del 2007).Vista la data della suaMadonna è improbabile che Ursino sia il padredi Nicola (fu forse figlio o fratello?)”.

64 - v. Ibidem, Filza IV, n. 3 alla data indi-cata.

65 - Tale dipinto, tuttavia, non ha riscossomolto successo tra i fedeli, anzi! è stata mossaqualche critica all’insieme, specie alla raffigu-razione della Madonna, ritenuta da molti, com-preso chi scrive, di cattivo gusto (avendo forseil pittore equivocato sul termine “formosa”, cheper il titolo della chiesa dei Frari a Venezia si-gnifica “bella” ed non altro).

66 - Sostituita da quella nuova, l’antica sta-tua venne usata a lungo “nelle tre processionidelle 3 Domeniche di Pasqua e S.ta Maria Mad-dalena, e ciò si praticò fino al 1810” (raccontaA. Paladino). La vecchia statua dell’Assunta(che probabilmente è una Immacolata!), altacirca un metro e cinquanta, oggi si presentapiuttosto scolorita e un poco deturpata, ma piùper la scarsa cura dei Confratelli che non perl’edacità del tempo; sarebbe facilmente recupe-rabile.

67 - Il gruppo è assimilabile a quelli (spessodi notevoli artisti) che nelle varie cappelle deipiù celebri Sacri Monti (da Varallo a Oropa, daCrea a Domodossola a Orta) narrano visiva-mente e scenograficamente le storie evangeli-che.

Il gruppo è descritto e splendidamente com-mentato nelle sue implicanze artistiche alle pa-gine 111-120 di S. Repetto “Campo Ligure. Ilpatrimonio artistico”, cit.

68 - v. in AONSA, Filza III, n. 161, alladata indicata.

69 - v. ASVAT , don G. De Alexandris, “Ri-sposta ai quesiti della lettera pastorale del1839”, cit. da pagina 9 a pag. 16.

70 - v. in AONSA, Filza III n. 187 la supplicae il decreto papale in data 5 giugno 1862. Taledecreto venne rinnovato il 9 febbraio 1881 (in

Ibidem, Filza III n. 208), ottenendo altresì il pri-vilegio di ”messa propria” per i due martiri (Ibi-dem, Filza III n. 209).

I resti mortali dei due martiri erano stati por-tati a Campo da Roma dal canonico don Gio-vanni Battista Delle Piane, Visitatore Apo-stolico, poi parroco di Campo e donati all’Ora-torio di cui l’Arciprete era confratello. La reli-quia di San Pio proviene dal corpo del martireconservato in Genova nella chiesa di N.S. dellaConsolazione (si veda nel primo altare della na-vata destra della basilica).

71 - v. in ASVAT, “Visite pastorali”, Ve-scovo Marucchi, 1752, fasc. 6°, cart. 45 retto.

72 - Cristoforo Buffetti fu padre di 12 figli,tra i quali ben 3 sacerdoti. Rimasto vedovo, de-cise di diventare anch’egli sacerdote: cantò lasua prima messa nell’Oratorio dell’Assunta, as-sistito da due dei suoi figli: “i quali duel’assisterono all’altare nella sua prima messa il1° de’ quali l’Arcip.te di Arenzano (don PierGiovanni, 1771-1834 – n.d.r.-) come diacono, eGiuseppe chierico (n. 1776 – n.d.r.) come sud-diacono”. Così ci riferisce sempre Agostino Pa-ladino, in “Memorie”, cit. a pag. 30, aggiun-gendo che, quando era un ragazzino, più volteservì messa all’anziano don Cristoforo: “Tro-vandosi sud.o in Campo io ebbi il piacere di ser-virvi la Messa più volte sì in Chiesa(parrocchiale – n.d.r.) che nell’Orat.o…”.

Don Cristoforo morì a Genova non sapreidire quando, ma sicuramente dopo il 1810-13,dato che Agostino Paladino era del 1803.

73 - L’ immagine di Maria è detta “della Sa-lute” in quanto è bella riproduzione della celebreopera del Sassoferrato - G.B. Solari, 1605-1685- che oggi si può ammirare nella sacrestia dellaBasilica della Salute a Venezia.

- v. D. Leoncini, “Campo…”, cit. pag. 356.74 - v. in ASVAT, “Visite pastorali”, Vescovo

Marucchi, 1752, fasc. 5°, cart. 45 retto; VescovoCapra, 1771, fasc. 5°, cart. 42 retto.

75 - v. in AONSA, Filza III, n. i 223, 236,238, 240 circa il nuovo organo. I Gandini ave-vano in allora rilevato la celebre Ditta Mentasti.

76 - v. Ibidem, Filza III, n. 235. GiuseppeAlessandro Timossi (1851-1913), falegnamedetto “Neti d’Rulandìn”, costruì anche il tam-buro della porta maggiore (v. Ibidem, Filza IIIn. 224).

77 - v. Ibidem, Filza III n. 232. SimoneGiuseppe Pisano (1833-1908), fabbroferraio,detto “u Pciitu der Frèe”.

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Da quanto emerso dalla documen -tazione archivistica la confraternita diNostra Signora Assunta, che aveva sedenell’oratorio ubicato a pochi metri dallachiesa parrocchiale, fu la più fiorente as-sociazione laicale sorta a Rossiglio ne1. Ainizio Settecento l’oratorio possiede unconsiderevole patrimonio costituito dacascine2, castagneti3, zone boschive, at-traverso il quale gli è possibile assolverefunzioni assisten ziali, fornendo alla co-munità un indispensabile aiuto4. La con-fraternita attiva anche nel commercio delcarbone è, inoltre, proprietaria di dueforni5, di vari “aberghi”6 dove trovano ri-fugio i poveri senza tetto7. Tra le nume-rose attività svolte, prevalenti sono levoci di spesa relative alla cura degli am-malati, all’aiuto dato agli sposi indigentie all’acquisto di abiti per i poveri8. Laconfraternita di Nostra Signora Assuntapartecipa nel 1730 alle spese di santifica-zione della Beata Caterina Fieschi per laquale Giovanni Battista Marchelli, reca-tosi a Genova a nome dell’oratorio, donalire 129.

La prima attestazione dell’oratorio ri-sale alla visita pastorale del 1577, quandoi «disciplinanti di Santa Maria» sonochiamati da monsignor Ragazzoni a uni-formarsi ai nuovi principi dettati dallenorme scaturite del Concilio di Trento,cui dovrà ispirarsi d’ora in poi l’artesacra10. Il presule ordina ai confratelli diabbandonare le antiche cantilene, questanotizia, che troviamo di consueto nellerelazioni pastorali in riferimento alle con-fraternite, è la prima testimonianza di unaproduzione artistica costituita dalle laudein volgare, recitate o cantate durante leprocessioni, delle quali possediamo aoggi scarsissime testimonianze11.

Non sono purtroppo pervenuti i regi-stri della confraternita risalenti al secoloXVI, attraverso i quali avremmo potutoricostruire le vicende che portarono allacommissione dei dipinti, in precarie con-dizioni conservative, che decorano lavolta e le pareti dell’oratorio.

Il rilevante ciclo pittorico, in granparte scialbato, rappresenta le Storiedella Vergine e della Vita di Cristo: negliscomparti centrali della volta troviamo laNascita della Vergine e la Madonna

Assun- ta; nei lunettoni, al centro dellevele, L’Ultima Cena, La Lavanda deiPiedi, Il Bacio di Giuda e arresto diGesù, L’Orazione nell’Orto e Gesù da-vanti a Pilato; nelle vele i Profeti e le Si-bille.

Paolo Bovo nel 1841, riferendosi a undocumento non pervenuto, riferisce chenel 1596 «l’oratorio dell’Assunta in Ros-siglione Inferiore fu dipinto da MicheleBeccaria di Trisobbio, essendo sotto dia-cono, per 26 doppie d’oro di Spagna»12.

La notizia riportata da Paolo Bovonon trova fondamento in quanto, già auna prima analisi sommaria, è evidente laprofonda differenza stilistica e qualitativaesistente tra l’artefice degli affreschi del-l’oratorio e la produzione conosciuta delBeccaria13. L’artista piemontese, delquale non è nota la realizzazione di ciclidi affreschi, tra la fine del Cinquecento el’inizio del Seicento, esegue per oratori echiese basso piemontesi numerose telenelle quali palesa una ben diversa matriceculturale. I suoi modelli di riferimentosono, infatti, da ricercare tra gli artisti im-pegnati nella realizzazione del complessomonumentale di Santa Croce a BoscoMarengo, segnatamente dal Vasari, e inambito lombardo a Bernardino Campi e aGiovanni Battista Trotti, detto il Molosso.A queste suggestioni vanno aggiunte in-

fine, come precisato da Carlo Prosperi,«indubbie influenze che si dipartono dapittori locali o localmente attivi» comeRaffaele Angelo Soleri, Scipione Crespi,Aurelio Luini e altri14. La possibile esi-stenza di un’opera di Michele Beccarianell’oratorio non è, tuttavia, da escluderea priori. Sono ancora le visite pastorali afornire preziosi indizi: dalla relazione del1662 redatta da don Talice si ricava la no-tizia dell’esistenza di un quadro, postosopra l’altare maggiore e probabilmenteraffigurante l’Assunta, molto deterioratoper il quale si ordina un immediato inter-vento15.

Nella visita pastorale del 1714, mon-signor Gozani ribadisce la necessità disostituire il dipinto sopra l’altare poiché«molto vecchio et in molte parti corrosodall’umidità»16. La tela è definitivamenterimpiazzata nel 1722 con un dipinto, raf-figurante l’Assunta, eseguito da uno sco-nosciuto Domenico Fanello; entrambe leopere non sono purtroppo giunte fino anoi17.

Il quadro acquistato dalla confrater-nita nel 1722 potrebbe aver sostituitoquello ipoteticamente realizzato dal Bec-caria, la cui presenza è documentata aMasone, a pochi chilometri da Rossi-glione, nel 159618? Ovviamente, in man-canza sia del dipinto, che di puntualiriscontri archivistici non è possibile allostato attuale spingere oltre l’indagine.

Tornando ai dipinti dell’oratorio, Ca-millo Manzitti nel 1976 ebbe occasionedi assegnare il ciclo decorativo ad ambitogenovese, tuttavia l’attribuzione ad An-drea Semino avanzata dallo studioso nonè a mio avviso convincente19.

Innanzitutto, come si legge nel carti-glio della vela centrale, l’esecuzionedelle opere risulta conclusa nel 1596 epertanto Andrea Semino, la cui morte èattestata al 1594, potrebbe aver solo ini-zialmente contribuito alla realizzazionedel ciclo pittorico, ma questo resta co-munque nell’ambito di un’ipotesi non ve-rificabile.

Esaminando il quadro centrale dellavolta, raffigurante la Vergine Assunta, è amio avviso possibile scorgervi la mano diun pittore assai più vicino ai modi di Ber-nardo Castello, allievo prima di Andrea

L’Oratorio di N.S. Assunta di Rossiglione Inferiore:un bene storico artistico da salvaredi Simone Repetto

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3 4A pag. 131 in basso, RossiglioneInferiore, la facciata della chiesaparrocchiale di N.S. Assunta neipressi della quale si trovano i lo-cali dell’ex Oratorio di N.S. As-sunta, ora sede delle attivitàparrocchiali

In queste pagine gli affreschi chedecorano le pareti dell’Oratorio:1. Assunzione della Vergine;2. Sibilla; 3. Profeta; 4. Sibilla;5. Affreschi del soffitto e delle lu-nette; 6. Nascita della Madonna;7. Nicolò Tassara, Madonna As-sunta, (1720) statua in legno scol-pito policromo, oggi collocata,nella Parrocchiale e recentementeoggetto di accurato restauro.

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Semino e successivamente in contattocon la bottega di Luca Cambiaso20.

La composizione bipartita del dipintodella Vergine Assunta rivela l’ormai com-piuta elaborazione di modelli composi-tivi tipicamente centro-italiani, presenti aGenova nel primo Cinquecento, e piena-mente accolti da Luca Cambiaso e tra-smessi alla sua cerchia. I dodici apostoli,in drammatiche condizioni conservative,sono disposti a semicerchio intorno al se-polcro vuoto a misurare lo spazio in pro-fondità, individualizzati in moti calibratiall’apparizione della Vergine, sollevatada una nuvola e circondata dal tripudiodegli angeli, sui quali si impone con scul-torea fisicità. Tuttavia, a differenza delgeometrismo riscontrabile in analoghesoluzioni cambiasesche, qui la VergineAssunta manifesta nella dinamicità deipanneggi un’apertura verso il Barocco.L’artefice del ciclo decorativo sembraguardare alla tela realizzata da BernardoCastello nel 1597 per la chiesa di SanPietro di Cremeno21 nel territorio di Ge-nova in Valpolcevera; le fisionomie di al-cuni santi disposti attorno al sepolcro e lapostura della Vergine assisa tra le nubirendono tale confronto plausibile.

Gli affreschi posseggono una sostanzadel tutto disegnativa che propone le fi-gure accuratamente modellate e tenden-zialmente eleganti come le Sibille nellevele e la levatrice nel quadro della Na-scita della Vergine. Altre soluzioni che ri-cordano i modi del Castello sono le figuredanzanti degli angeli nel quadro dell’As-sunzione. Nella Vergine Assunta le vi-stose cadute di colore hanno fattoemergere l’analitica linea definitoriadella costruzione del panneggio, tracciatoa sinopia.

L’opera è sicuramente il risultato diun lavoro di equipe nel quale sono evi-denti momenti di alto livello, come nelquadro dell’Assunzione o nelle bellissimefigure dei Profeti e delle Sibille e altri diminore qualità sicuramente affidati adaiuti di bottega, si vedano ad esempio leStorie di Cristo a decorazione delle lu-nette.

Una notizia piuttosto interessante è ri-cavabile dal libro dei conti della confra-ternita, dove nel 1604 si evincono due

pagamenti versati a tale “maestro Ber-nardo” per un non ben precisato lavoroeseguito nell’oratorio – forse una rata perl’esecuzione del ciclo pittorico? – e peraver dipinto un Crocifisso processio-nale22. La notizia costituisce una tracciache spinge a puntare la prua delle inda-gini ancora verso l’ambito della bottegadi Bernardo Castello. Tuttavia, allo statoattuale non è possibile proseguire nellostudio dell’importante ciclo decorativoche ormai da troppi anni attende un inter-vento di restauro, necessario a disvelarequanto ancora occultato dalla calce e aconsolidare le scene ancora visibili. Solodopo questo urgente lavoro di recuperosarà possibile ricavare maggiori elementi,utili per un più approfondito studio del-l’artista che qui lavorò al crepuscolo delsecolo XVI.

La lettura del settecentesco Libro deiConti della confraternita ha condotto alritrovamento della notizia relativa al con-tratto di commissione del simulacro li-gneo della Madonna Assunta, oggiconservato nella chiesa parrocchiale, sti-pulato nel 1720 con lo scultore NicolòTassara da Voltri23. Per maggiori appro-fondimenti sull’opera, caratterizzata daindubbio valore storico artistico, si ri-manda alle pubblicazioni in nota24.

L’ultima notizia relativa al patrimonioartistico della confraternita risale al 1833,quando il priore dell’oratorio, GiacintoSalvi, invia una lettera al vescovo diAcqui, attraverso la quale prega il presuledi intercedere presso la Fabbriceria dellachiesa parrocchiale affinché questa resti-tuisca i beni dell’oratorio incamerati per«Decreto del cessato governo»25.

Con l’annessione della RepubblicaLigure alla Francia, in rapida succes-sione, vengono disposte misure tese al-l’eliminazione dell’associazionismo po-polare, fino all’«Arrêtè relatif aux biensdes confrèries» emanato il 9 febbraio1811, col quale vengono assegnati allechiese parrocchiali tutti i beni mobili eimmobili delle confraternite, sopprimen-done di fatto la vita associativa e le atti-vità mutualistiche e religiose26. Anche laconfraternita di Nostra Signora Assuntasubisce questa sorte tuttavia, a differenzadi altri oratori nei quali parte dei beni

alienati ritornano nelle sedi originarie, la“casaccia” di Rossiglione non riesce a re-cuperare il proprio patrimonio, nono-stante le numerose richieste inviate dalpriore Giacinto Salvi al vescovo diAcqui27:

Se egli è vero che con Decreto delcessato governo siano stati soppressi glioratori e le confraternite e ceduto i beniloro alle rispettive parrocchie, è altresìcerto che con Decreti Ecclesiastici eRegie Leggi sono stati ripristinati a Ora-tori e Confraternite e provveduto ai mezzidi sussistenza e specialmente a riguardodell’Oratorio di N.S. Assunta di Rossi-glione Inferiore. Ma non si conosce ilmotivo per cui questi mezzi gli sono in-terdetti dalla Fabbriceria della chiesaparrocchiale, presso cui sono appuntoquei beni, ed arredi che una volta appar-tenevano a detto oratorio.

Giacinto Salvi 1833L’oratorio, danneggiato dai bombar-

damenti del 1945, resta sede della confra-ternita fino al 1947 quando, di comuneaccordo con il parroco don Vittorio Cova,gli amministratori della Compagnia diNostra Signora Assunta «danno il loropieno consenso affinché l’oratorio di-venga sede delle opere parrocchiali, es-sendo questo il desiderio della popola-zione»28.

Ad oggi, la sensibilità dell’ammini-strazione comunale, unita all’indispensa-bile supporto della Soprintendenza alPatrimonio Storico Artistico della Ligu-ria e alla fattiva collaborazione di don Al-fredo Vignolo, hanno consentito il recu-pero del ricco patrimonio culturale con-servato negli edifici sacri di Rossiglione,documentato nel volume che nel 2009dedicammo a questi significativi risultati.Proprio alla luce di quanto è stato fatto ènecessario un ulteriore sforzo, al fine disalvare e restituire piena dignità a unciclo pittorico che da troppi anni langueabbandonato.

L’opera pittorica conservata nell’ora-torio di Nostra Signora Assunta è un ulte-riore tassello che completa il riccopatrimonio artistico di Rossiglione,esempio di devozione e di attaccamentoalla propria terra che i Rossiglionesi delpassato ci hanno donato e che è nostro

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dovere proteggere e consegnare alle ge-nerazioni future.

NOTE1 Estratto e da S. REPETTO, Gli oratori di No-

stra Signora Assunta e San Sebastiano, in Ros-siglione. Il patrimonio artistico: storia, arte,restauri, a cura di A. CABELLA e S. REPETTO, Ga-lata edizioni, Genova 2009, pp. 74-85; AVAc,Visita Pastorale di don Talice delegato di mons.Bicuti di Acqui, a. 1662.

2 Le cascine di proprietà della confraternitasorgevano in località Battura: cfr. APNSA, Perla venerabile compagnia dell’oratorio di N.ra Si-gnora Assunta in cielo in Rossiglione inferiore.Libro di conti, manoscritto cartaceo rilegato incartapecora, sec. XVIII, 1700-1729, II/8.

3 La confraternita possiede vari castagnetiche sfrutta direttamente o concede in affittocome, ad esempio, quello dello Scorzarola – iltoponimo della zona è sopravvissuto fino a oggi– «concesso alla Corte d’Ovada per annue £ 20»cfr. APNSA, Per la venerabile compagnia del-l’oratorio di N.ra Signora Assunta cit..

4 APNSA, Per la venerabile compagnia del-l’oratorio di N.ra Signora Assunta cit.

5 Un forno sorgeva nella zona che separal’oratorio dalla chiesa parrocchiale e l’altro neipressi della “Fontana”, dove oggi sorge il civicon. 29 in Via Edoardo Pizzorni.

6 Piccoli edifici, utilizzati per l’essiccazionedelle castagne e altro, ubicati nella campagnacircostante il paese.

7 Il carbone è prodotto presso la cascina Bat-tura, di cui oggi sopravvive il toponimo:APNSA, Per la venerabile compagnia dell’ora-torio di N.ra Signora Assunta cit.

8 APNSA, Per la venerabile compagnia del-l’oratorio di N.ra Signora Assunta cit.

9 Ibidem.10 AVAc, Visita Apostolica di mons. Ragaz-

zoni vescovo di Bergamo, a. 1577, fasc. I-B/e, c.63.

11 E. NEILL, I canti delle confraternite liguri,

in La Liguria delle Casacce. Devozione, arte,storia delle confraternite liguri, catalogo dellamostra a cura di F. Franchini Guelfi, Genova1982, vol. I, pp. 89-92; Valpolcevera segreta.Storie da conoscere, vedere, scoprire, salvarecit.

12 APSC, Memorie intorno a Rossiglione,manoscritto di Paolo Bovo (1797-1866), a.1841.

13 C. PROSPERI, Michael Beccarla Loci Tri-sobij pictor et Montali Parochus, in RiscoprireTrisobbio. Una giornata di studio dedicata al-l’antico borgo monferrino, Atti del CongressoInternazionale, Trisobbio 30 giugno 2001, a curadi G. PISTARINO - G. SOLDI RONDININI, Trisob-bio 2002, pp. 201-221; G. L. BOVIO DELLA

TORRE, La famiglia Beccaria nel contesto dellasocietà trisobbiese in età moderna, in RiscoprireTrisobbio cit., p. 175 e seg.

14 PROSPERI cit., p. 206.15 AVAc, Visita Pastorale di don Talice dele-

gato di mons. Bicuti di Acqui, a. 1662.16 AVAc, Visita Pastorale di mons. Antonio

Gozzani vescovo di Acqui, a. 26 aprile 1714.17 APNSA, Libro della Confraternita di N.S.

Assunta cit.18 BOVIO DELLA TORRE cit., p. 184.19 G. MERIANA - C. MANZITTI, Le valli del

Lemme dello Stura e dell’Olba. Un patrimonionaturale e artistico, Genova 1975, pp. 129-130.

20 Per maggiori informazioni in merito al-l’attività di Luca Cambiaso e della sua bottega siveda : Luca Cambiaso un maestro del Cinque-cento europeo, a cura di P. BOCCARDO - F. BUG-GERO - C. DI FABIO - L. MAGNANI, Milano 2007.

21 P. DONATI, Un “Assunzione della Vergine”di Bernardo Castello, in Valpolcevera segreta.Storie da conoscere, vedere, scoprire, salvare, acura di E. MARCENARO, supplemento al perio-dico Studi e Ricerche-Cultura del Territorio, Co-munità montana Alta val Polcevera - Comune diCampomorone, 2007., p. 142.

22 Libro dei conti della Confraternita di N.S.Assunta, 8 febbraio 1604.

23 APNSA, Per la vene-rabile compagnia dell’ora-torio di N.ra SignoraAssunta in cielo in Rossi-glione inferiore. Libro diconti, manoscritto cartaceorilegato in cartapecora, sec.XVIII, 1700-1729, II/8; S.REPETTO, Nuove notizie suNicolò Tassara da Voltri: laMadonna Assunta di Rossi-glione, in «Arte Cristiana»,anno XCIII, 829 (2005), pp.297-300; S. REPETTO,, Ros-siglione. Il patrimonio arti-stico. La chiesaparrocchiale di Nostra Si-gnora Assunta, in «Urbs,

silva et flumen», anno XXIV, n. 3-4, pp.168-177.

24 REPETTO, Gli oratori cit.; S. REPETTO,Nuove notizie su Nicolò Tassara da Voltri cit.;

25 AVAc, Chiesa parrocchiale di N.S. As-sunta, F. 2, a. 1833. «Se è vero che con Decretodel cessato Governo siano stati soppressi gli ora-tori e le confraternite e ceduti i beni loro alle ri-spettive Parrocchie, è altresì certo che conDecreti Ecclesiastici e Regie Leggi sono stati ri-pristinati e Oratori e Confraternite e provvedutoai mezzi di sussistenza e specialmente a ri-guardo dell’Oratorio di N.S. Assunta di Rossi-glione Inferiore. Ma non si conosce il motivoper cui questi mezzi gli sono intrattenuti dallaFabbriceria della chiesa parrocchiale, presso cuisono appunto tutti quei beni stabili, ed arredi cheuna volta appartenevano a detto oratorio…». Ilvescovo di Acqui stabilisce che la Fabbrica dellachiesa debba provvedere in parte alle spese peril mantenimento dell’oratorio, ma non fa alcuncenno alla restituzione degli oggetti.

26 F. FRANCHINI GUELFI, Gli oratori delleconfraternite liguri: le vicende del patrimonioartistico fra conservazione e dispersione, inConfraternite, Chiesa e società. Aspetti e pro-blemi dell’associazionismo laicale europeo inetà moderna e contemporanea, a cura di L. BER-TOLDI LENOCI, Bari 1994, pp. 154, 156, 176.

27 AVAc, Fabbriceria, Carteggio e vertenze,a. 1825-1937, lettera del priore dell’oratorio diN.S. Assunta Giacinto Salvi, a. 1833.

28 AVAc, Carteggio, a. 1947.

In alto, il borgo di Rossiglione Inferiore inuna cartolina di Ernesto Maineri di fineOttocento

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Due sculture restaurate a Santa Limbania di Rocca-grimalda: la Madonna del Carmine e Sant’Antoniodi Antonella Rathschuler

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Nella pag a lato: la Madonna del Carmine, in alto a sinistra,a fine restauro, a destra nella fase di stuccatura; in basso unangelo del basamento e la testa della statua durante le variefasi del restauro; in basso a destra la stuccatura del Bambino

In questa pag., le statue di Sant’Antonio e del Bambino fotogra-fate sia davanti che di dietro al termne della attenta opera di re-stauro

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Nella chiesa di Santa Maria di Castel-vero a Roccagrimalda, deno minata SantaLimbania dalla seconda metà del ‘600(n.1),studiatissima per gli affreschi cinquecen-teschi di Luchino Ferrari(n.2) sono custo-dite quattro sculture lignee più interes-santi di quanto lo stato degli studi e la do-cumentazione ad esse attinente abbia di-mostrato. Sono sculture nate in seguito aiculti sorti in particolari momenti dellastoria e sopravvissute all’abbandono gra-duale di quei culti, verificatisi nel XX se-colo. Un piccolo crocifisso d’altare, unastatua della Vergine con il Bambino (F.1),un gruppo dedicato a Sant’An tonio (F.2)e una Santa Limbania, sdraiata nella pacedella sua morte, protetta da atti di vanda-lismo all’interno della mensa di un altaremarmoreo.

In occasione dell’inizio dei restauri diqueste opere si è pensato di tentare di ri-collocarle, con la loro dignità storica edartistica, all’interno di un patrimonio cul-turale, quello del Basso Piemonte, assaicomplesso e variegato. Nel caso dellascultura lignea, facilmente trasportabileda un paese all’altro, la varietàd’influenze da paesi limitrofi e non, si ar-guisce attraverso un repertorio di scultureche sono, come scrive Sanguineti: “Testi-monianze caratterizzate da una disomo-geneità linguistica e qualitativa di fondo… in quanto prevalgono nettamente gliinflussi di confine e le movimentazioni diopere e di artisti”.(n.3)

Attualmente è stato portato a termineil restauro del gruppo di Sant’An tonio edella Vergine con il Bambino.

La statua della Madonna, appoggiatasu una cassa processionale e rialzata sullaparete destra della piccola chiesa ad aulaunica, versava in pessime condizioni masoprattutto, l’aspetto estetico apparivafortemente deturpato da un’opaca ridi-pintura quasi totale che andava a nascon-dere completamente l’ori ginaria doratura,minimizzandone le qualità artistiche.

La figura della Madonna è rialzata suun plinto dipinto a finto marmo e poggiasu una nube da cui emergono testine dicherubini. Stante, in posizione lieve-mente ancheggiata, così da rendere unquasi impercettibile senso di disequilibrioe quindi di spontaneo movimento, la fi-

gura s’innalza aprendo il braccio destronel gesto magniloquente di donare qual-cosa ai fedeli e sorreggendo con il sini-stro il Bambino benedicente, rappresen-tato come “re del mondo”, di cui sorreggela sfera.

Il capo della Madonna, incorniciato inun velo che ne stringe la nuca e mette inevidenza l’ovale, leggermente allungato,del volto, è sormontato da coroncina scol-pita nel legno.

Mancando un attributo specifico,l’iconografia di questa scultura potrebbeessere facilmente scambiata con quelladella “Madonna del Rosario”, tuttavial’erezione nel XVII secolo di un altaredel Carmine nella chiesa di Castelvero cifa supporre che rappresenti la “Madonnadel Carmelo“ e che l’oggetto che origi-nariamente teneva tra le dita non fosse ilrosario ma lo scapolare.

Il rinvigorirsi di questo culto alla finedel Cinquecento si collega ad “… una ve-rità di fede messa in discussione dal pro-testantesimo l’esistenza del Pur gatorio.Analoghe devozioni fiorirono attorno alleconfraternite del suffragio, che avevanocome emblema la Vergine in gloria tra isanti patroni, rappresentati in atto di ver-sare acqua sulle anime purganti avvoltein lingue di fuoco… Ma è da credere cheanche la precarietà della vita, l’alto tassodi mortalità dovuto alle malattie endemi-che ricorrenti e alle guerre, il rischio dimorte improvvisa, abbiano costituito unincentivo non di poco conto per la diffu-sione dello «scapolare» del Carmelo. Inuna società richiamata dalla Controri-forma all’ortodossia e all’osservanza ditutti i sacramenti, ma esposta dai casidella vita e dalle circostanze storiche alrischio di non poter contare sull’assi-stenza religiosa di fronte alla morte, lo«scapolare» e il «privilegio sabatino» di-vennero una garanzia di vita eterna, unsegno di speranza e di conforto.” (n.4)

Tra il XVI e il XVII secolo a Genovae in tutta la Liguria fu costruito un nu-mero cospicuo di edifici religiosi dedicatialla Madonna del Carmine e probabil-mente fu proprio la genovese famigliaGrimaldi, proprietaria del feudo di Roc-cagrimalda dal 1570 al 1736, a introdurlonella chiesa della Madonna di Castelvero.

Sono i Grimaldi infatti che, nel 1690,commissionano i rimaneggiamenti baroc-chi della chiesa lasciandone la data im-pressa sul portale d’ingresso e nellasacrestia, e certamente sono loro che, trala fine del secolo XVII e l’inizio del se-guente aggiungono due nuovi altari,quello dedicato alla Vergine del Carmeloe quello dedicato a Sant’An tonio da Pa-dova.

Il primo documento che cita l’altaredel Carmine e il beneficio legato allostesso è del 1699:“ Avendo risoluto il si-gnor Agostino Balle genovese, abitantenel luogo di Roccagrimalda di fondareun perpetuo Beneficio all’altare e sotto iltitolo della Beatissima Vergine Maria delCarmine, eretta nella chiesa detta di Ca-stelvero, ind. luogo, con l’obbligo di ce-lebrare due messe la settimana, cioè ilmercoledì e il sabato…. volentieri conce-diamo a tale supplica.”(n.5). Dello stessoperiodo è l’altare ad intarsi marmorei col-locato nella cappella, mentre precedente(XVI sec.) è il dipinto che occupal’ancona sopra l’altare rappresentante laMadonna con il Bambino e con il librodelle Sacre Scritture in mano, in mezzo aSan Sebastiano e San Rocco.

Il documento sopracitato non speci-fica la creazione della cappella, ma ladata di creazione della stessa agli ultimianni del XVII secolo viene confermata dauno scritto del 1728, in cui si dice: “nellaChiesa di Nostra Signora di Castelverovi sono tre altari, l’Assunta, del Carminee di Sant’Antonio di Padova. Non si trovaveruna memoria dell’ere zione dell’Altaredell’Assunta per essere molto antico, nedi quelli del Carmine e ne di Sant’Anto-nio, tutto che eretti in tempo di Monsi-gnor Gozzani (1675/ 1721), perchél’amministrazione di detta chiesa l’aves-se il fu Sig.Gio. Agostino Balle, genoveseche qui faceva le veci dei Conti e si sinole scritture presso al medesimo che siparte da qui l’anno 1704” (n.6)

Nel 1714 i tre altari presenti nellachiesa risultano “ben provvisti e ben te-nuti” e sembra vi sia una “gran devozioneper gli continui miracoli che opera la glo-riosissima Vergine…” (n.7) quella “N.S. delCarmine, a cui si ricorre sempre ma spe-cialmente pel mal di capo”. (n.8).

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Benchè la documentazione attinenteall’altare suggerisca di datare la statuadella Madonna con il Bambino al tardoSeicento, e uno scritto del 1634 c’informiche in quell’anno le uniche statue pre-senti in loco fossero “due angioletti in-dorati”(n.9), vari aspetti contrastanti checaratterizzano la scultura presa in esamecreano dubbi, non permettendo di darleserenamente una precisa connotazionecronologica e locale, oscillando a primavista tra ‘500 e la fine del ‘600, con carat-teri che contrastano con un’epoca ol’altra.

Dal punto di vista iconografico, l’ope -ra rientra in pieno in una tipologia sfrut-tatissima durante tutto il Seicento e ilSettecento (tipologia interscambiabilecon la Madonna del Rosario) la baseperò, costituita da nubi in cui si confon-dono teste di cherubini, rientra più nelgusto del XVII secolo, in quanto è com-patta e contenuta, rispetto a quello delXVIII secolo, in cui solitamente le massedelle nuvole risultano più libere, scioltee spumeggianti.

Questi primi caratteri ci indirizzano aconsiderare l‘opera secentesca, ipotesiconfermata anche dal tipo di abito conampio colletto arrotondato e cintura adalta vita, tipico di questo secolo in cui avolte il colletto viene sostituito da un fou-lard appuntato sul petto. Abiti simili, èpossibile trovarli anche in alcune Ma-donne marmoree di ambito ligure, operedi Bernardo Carlone o di Tommaso Or-solino e nella Madonna della Conce-zione della Collegiata dei Santi Pietro ePaolo di Carmagnola, scolpita in legno daMichele Enatem tra il 1636-37.(n.10)

Difficile comunque attribuirla concertezza al primo Seicento o alla fine delsecolo, in quanto, come già detto, la Ma-donna mostra aspetti contrastanti, qual-cosa che la rende differente dalle Ma-donne della stessa tipologia di questo ter-ritorio: una sorta di ieraticità, lontana dal-l’afflato materno tipico delle Madonnecon Bambino più diffuse nelle chiese del-l’Ovadese, una maestà tutta particolareche, ancora prima del restauro, ancorprima di aver fatto emergere l’oro da granparte dell’abito, trasudava da questa fi-gura. Da un lato un po’ rigida e frontale e

dall’altro, dinamica nell’apertura delbraccio e in quell’ancheggiamento lieveche ammorbidisce le forme del corpo e ledona un quasi impercettibile guizzo,quel la dinamicità che ritroviamo solo inopere datate tra la fine del XVII e l’iniziodel XVIII secolo.

Sembra che l’autore, i cui caratterinon si sono per ora riscontrati in nessunaopera della zona, mantenga nel suo stileun certo arcaismo che acuisce il fascinodi questa Madonna.

Un elemento molto particolare di que-sta scultura è la corona scolpita sul capo,assolutamente anomalo nel repertorio diMadonne seicentesche presente in zona,in cui la testa è coperta da un velo sulquale viene appoggiata una corona in me-tallo.

La questione della corona scolpita inlegno e della tipologia di questa corona,che rispecchia caratteri medievali, anchese è possibile trovarla in opere quattro-centesche, come nella Madonna dellaMelagrana (Ferrara, Museo della Catte-drale) scolpita in marmo, nel 1403, da Ja-copo della Quercia, o presente in operetardogotiche, dell’ultimo quarto del ‘400,come nel bassorilievo della Madonna colBambino di Francesco Filiberti della Gal-leria Sabauda di Torino, avvalora la tesidi un’arcaicità stilistica dell’autore chesembra rifarsi alle delicate Madonne diBaldino di Surso, artista tardogotico at-tivo in Lombardia tra il 1456 e il 1478 oad opere spagnole, francesi e tedesched’epoca medievale e rinascimentale.

Queste particolarità stilistiche svianoanche da una probabile identità d’originedell’autore che, se in un primo momentosi poteva presumere ligure, essendo pro-babilmente i Grimaldi committenti del-l’opera, in realtà non offrono appigli aquesta ipotesi.

Diverse Madonne, scolpite in marmonella prima metà del Seicento da artistiliguri, mostrano alcune attinenze icono-grafiche e stilistiche con la nostra scul-tura. Risulta però quasi sempre diverso iltipo d’acconciatura, in quanto, a diffe-renza della Nostra che ha velo e capelliben aderenti al cranio, le Madonne geno-vesi hanno sempre il capo coperto da unvelo morbido che contorna ondulato la

fronte e poggia sulle spalle dove inizia unmanto che va a puntarsi sullo sterno, co-prendo gran parte del busto.

La Madonna del Carmine dellaChiesa di Santa Limbania risulta quindiuna perfetta testimonianza di “contami-nazioni linguistiche” in un territorio dovetransitarono “artefici e opere giunti daAsti, da Genova e da Alessandria od’importazione transalpina“.(n.11)

Pochi anni dopo l’erezione dell’al taredella Madonna del Carmine, sul lato op-posto dell’abside, viene creato l’altarededicato a Sant’Antonio.

E’ del 17 luglio 1708 una lettera delparroco in cui “viene chiesta la conces-sione a poter dire la messa e obbligan-dosi a fornire all’altare di tutto il necessario alla forma dei sacri canoni...”.Nella stessa lettera si parla della costru-zione dell’altare stesso e di avere fatto“scolpire l’immagine di suddetto santoper riporlo alla pubblica venerazioneacciò s’accreschi più fervente devozionealli meriti di tanto Santo a maggiore ho-nore e gloria di Sua Divina Maestà et uti-lità delle anime....”(n.12)

L’immagine del Santo, protettoredegli animali, festeggiato il 17 gennaio,giorno nel quale “ i cavallari guidavanole loro bestie tutte infioccate sullo spiazzoa lato e dietro la chiesa perchè il sacer-dote le benedicesse”(n.13), è posta all’in-terno di una nicchia centrale della cap-pella e contornata da un ciclo di affreschiattribuibili al settecento genovese (n.14) aLui dedicati che, in due riquadri narrano“Il Miracolo della mula” e quello “ delpiede risanato”.

Non è una semplice statua ma ungruppo scultoreo complesso, studiatoscenograficamente, così come una cassaprocessionale. Il Santo è inginocchiato inatto di devozione di fronte al Bambino, ilquale benedicente si erge sopra una pic-cola nube, appoggiato ad un inginocchia-toio. La composizione iconografica nonè delle più diffuse in zona, in cui dominaper lo più la figura stante del Santo con ilbimbo in braccio.

Il cattivo stato di conservazione,l’opacità dell’insieme e la staticità un po’compassata del santo, hanno sviatospesso gli osservatori, portandoli, in un

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certo senso, a denigrare quest’opera e da-tandola ad epoche molto più recenti. Inrealtà il gruppo ci offre l’aspetto più con-tenuto e controriformistico del primo set-tecento, lontano dalle estasi contorte epassionali del Barocco, aderente ad unmisticismo intimo, “alla portata” del fe-dele.

La rigidità e l’espressività un poco ie-ratica del Santo contrasta con la vitalitàspontanea del Bimbo, caratterizzato dapiccoli ciuffi ribelli, occhi vivaci e una de-licatezza nell’atteggiamento e una morbi-dezza dell’incarnato che sembra spostarepiù avanti nel tempo la sculturina e cispinge all’ipotesi di due autori differenti.

Il carattere stilistico più peculiare del-l’autore del Santo, che non enumeraopere affini nella zona, è il modo di con-cepire il panneggio, lì dove l’abito si af-floscia a terra, a masse ampie e “melmo-se”, non certo di qualità eccelsa; una pe-santezza di modellato che contrasta conla raffinatezza del volto giovane dai li-neamenti affilati ed eleganti, pari solo alvolto di Sant’Alberto della scultura dellaParrocchiale di Cremolino.

Come per la Madonna del Carmine,anche per quest’opera è difficile defi-nire il luogo d’origine; un aspetto tipi-camente lombardo ce lo offre la deco-razione a pendoni composti da ghir-lande di frutta e fogliame dell’inginoc -chiatoio, caratteristica dei mobiliseicenteschi di quella regione.

NOTEn.1: Mistico faro sul crine del monte, re-

lazione di Manuela Vignolo„ AccademiaAldo Galli, “…questa titolazione costituisceuna memoria dell’influsso genovese sul ter-ritorio. Santa Limbania, vergine benedettinaoriginaria di Cipro, visse nel monastero diSan Tommaso di Genova nel XII secolo. Ilsuo culto, “importato” a Rocca dai cavallierie mulattieri che facevano la spola tra il paesee la riviera di ponente, soprattutto Voltri,dove la devozione per la santa era assai dif-fusa, vi fu ufficializzato con l’avvento dellasignoria dei Grimaldi, nell’ultimo quarto delsecolo...La chiesa divenne così meta di pelle-grinaggi”.

n.2: CUTTICA DI REVIGLIASCOG.F.,“Per il repertorio di una pittura muralefino al 1500“, in La pittura delle pievi nel ter-ritorio di Alessandria dal XII al XV secolo,

Mi. 1983; BENSO R., Gli affreschi di SantaLimbania a Rocca Grimalda, in Urbs, n.1, I,1988, p.21

n.3: SANGUINETI D., Scultura nelle Vallidel Belbo e della Bormida::una ricognizione frale varietà linguistiche, in Tra Belbo e Bormida.Luoghi e itinerari di un patrimonio culturale,pp.237

n.4: Il culto dedicato alla Vergine del Car-mine si affermò energicamente in Liguria tra lafine del Cinquecento e i primi decenni del Sei-cento per iniziativa dei Carmelitani Riformati,arrivati a Genova dalla Spagna nel 1584, edebbe subito una grandissima diffusione nellezone limitrofe. Secondo la tradizione, nell’IXsec.a.C., sul Monte Carmelo la Vergine, innal-zandosi verso il cielo come una piccola nube,apparve a Elia, primo profeta d’Israele, e portòla pioggia, salvando il paese dalla siccità. Suquel monte, da sempre meta di eremiti, vennefondato il più antico Tempio dedicato alla Ver-gine e lì si raccolsero i primi Carmelitani i qualiebbero l’approvazione dell’Ordine nel 1226 dalPapa Onorio III. La devozione a questa Ma-donna si concretizzò dopo secoli in una festa chericorre il 16 luglio e commemora l’apparizionedurante la quale, quello stesso giorno del 1251,durante la quale la Madonna consegnò a San Si-mone Stock, all’epoca priore generale dell’or-dine carmelitano, uno scapolare (dal latinoscapula, spalla) in tessuto, dicendogli: : “Prendi,o figlio dilettissimo, questo Scapolare del tuo

Ordine, segno distintivo della mia Confrater-nita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pe-ricoli, di alleanza e di pace con voi insempiterno. Chi morrà vestito di questo abito,non soffrirà il fuoco eterno.” Con queste parolela Madonna tornava ad essere tramite di sal-vezza per i cristiani defunti . MERIANA G.., LaLiguria dei Santuari, Ge.1993, p.49-50

n.5: AVA, FONDO PARROCCHIALE,Rocca Grimalda, faldone 5, cartone 1,fasc.1

n.6: AVA, FONDO PARROCCHIALE,Rocca Grimalda, Relazioni Parrocchiali dal1631 al 1966, faldone 2, cartone 1.

n.7: AVA, Visita Pastorale del Delegato ve-scovile (di Monsignor Gozzani), Don Antonio,Dott. Desio 20/4/1714

n.8: AVA, 1928 - Rocca Grimalda, Anno1929, Relazione per la Visita Pastorale allestitadal Sac. Pietro Tronero Arciprete

n.9: AVA, FONDO PARROCCHIALE,Rocca Grimalda, faldone 5, cartone 1,fasc.1

n.10: Gli Enaten sono una famiglia di scul-tori di origine fiamminga, di cui un certo “mis-ser” Lamberto o Alberto si trasferisce adAlessandria sullo scorcio del XVI secolo e lì ri-mane attivo fin al 1604, i cui figli continuanol’attività, trasportandola ad Asti nel 1621, cosìda diventare la più importante bottega di scul-ture lignee attiva ad Asti tra gli anni trenta e sas-santa del Seicento, con uno dei figli diLamberto, Michele e poi con i suoi figli Barto-lomeo, morto tra l’89 e il ’96 e Carlo Francesco

morto nel 1664. Vedi: RAGUSA E., “Mi-chele e Bartolomeo Enaten: una famiglia discultori ad Asti”, in Il teatro delsacro,scultura lignea del Sei e Settecento nel-l’astigiano, Asti 2009,p.41/57; SANGUI-NETI D., op.cit, To.2003, pp.238

n.11: SANGUINETI D., op.cit., To.2003,p.245

n.12: A.V.A. Fondo Parrocchiale Rocca-grimalda, faldone 5, cartone 1, fasc.1

n.13: G:ROSA, La fanciulla……, p.10 n.14: ZURLETTI V.., La chiesa di Ca-

stelvero, testimonianza di storia e arte,“L’ANCORA“,6 maggio 1976; BENSO R.,Gli affreschi di Santa Limbania a Rocca Gri-malda, in Urbs, n.1, I, 1988, p.21

In questa pag. a lato, una fase del-l’opera di disinfestazione dagli insettixilofagi

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STATO DI CONSERVAZIONE

La scultura si presenta in pessimecondizioni; lo stato di degrado della strut-tura legnosa è molto avanzato, ha subitoforti attacchi d’insetti xilofagi e di muffevarie; al tatto la struttura si presenta quasi‘spugnosa’, significa che il legno, inter-namente, risulta completamente scavatoda insetti xilofagi (tipo non ancora iden-tificato).

Il luogo di conservazione poco ideale,perchè ricco di umidità, ha favorito il for-marsi di muffe, causando la perdita diconsistenza della struttura. Sono visibilimoltissimi fori di sfarfallamento su tuttala superficie; l’ ammannitura è in condi-zioni precarie. Il gesso ha assorbito umi-dità e si sta disgregando, perdendo ade-renza al supporto legnoso.La superficiepolicroma si presenta con un forte cra-queler.

Tutta l’opera è ricoperta da un pesantestrato di polvere e ragnatele.

La policromia attuale non è originale.Sembra essere una tempera grassa a basedi colla animale risalente circa alla finedel 1700. L’ esame visivo non ha per-messo di vedere quanti strati di colorepresenta la superficie. Si sono trovatetracce di foglia oro e bolo in diversipunti: sotto la tempera marrone dei ca-pelli dei putti in posizione frontale sullanuvola, nella base della nuvola, sul mantoazzurro della Madonna in prossimitàdella mano che regge il Bambin Gesù.Altre tracce di foglia oro sono presenti trala nuvola e le pieghe del manto azzurro.Sotto le piccole parti di foglia oro si intra-vede il colore del bolo molto acceso, po-trebbe essere un rosso lacca.

La veste rossa è sicuramente ridipinta,si sono trovati piccoli punti di colore dirosso più chiaro.

La corona, attualmente dipinta a tem-pera color ocra, nasconde tracce di fogliaoro.

La base della Madonna ha forti cadutedi colore, sono rimasti visibili alcuniframmenti di policromia a finto marmo.

Sul bordo superiore è stata applicatauna cornice intagliata con un motivo aovuli, la base è tenuta insieme con grossichiodi di ferro a testa tonda.

La mano destra della Madonna, quella

alzata per reggere lo scapolare, è man-cante di un dito.

Anche al Bambin Gesù, molto rovi-nato, manca il dito pollice della mano cheregge la sfera del mondo dipinto a tem-pera azzurra e verde. Sulla sfera, sotto lecadute di colore, si notano tracce di bolorosso. L’incarnato delle due figure èmolto rovinato e, nei punti dove è cadutala policromia, si scorge l’ammannitura epiccole porzioni del colore originale (pro-babilmente).

La figura è stata intaglia con la tec-nica a tuttotondo (intagliata su tutti i lati),incollando diversi tasselli di legno

NOTIZIE E INCIDENZE DI RE-STAURI PRECEDENTI

La scultura è stata ridipinta su tutta lasuperficie con diversi colori con leganteoleoso molto tenace. La base su cui ap-poggia probabilmente è di epoca poste-riore.

PROCEDIMENTI TECNICI E FASIDI RESTAURO

La struttura è stata realizzata con unlegno di latifoglia, probabilmente unlegno da frutto, pero o melo.

La struttura è composta da diverseparti, ancorate tra loro con antichi chiodidi ferro, senza utilizzo di incastri.

Dalla corona alla nuvola, compresa lafigura di Gesù, è intagliata in un bloccounico, mentre il braccio sinistro e unpezzo del panneggio laterale destro sonostati aggiunti.

La Madonna è stata ancorata al capi-tello con chiodi di ferro. La policromiadella Madonna presenta tecniche e com-posizioni pittoriche differenti, parti sonostate eseguite a tempera magra, senzasupporto gessoso, altre parti sono stateinvece ammannite, raggiungendo circa 2mm di spessore e decorate poi con fogliaoro e colori a tempera grassa.

La prima operazione effettuata è statoil consolidamento a sottovuoto con cello-fan e pompa per il vuoto.

E’ stato costruito un sacco su misuratermosaldato e, con una pompa collegataa due flessibili con ventose, è stato elimi-nato l’ossigeno. Con una siringa si è in-trodotto il consolidante Aquazol 200diluito in acqua e acetone

L’ operazione è durata circa 3 ore,dopo questo passaggio è stata scaldato ilconsolidante interponendo tra il termo-cauterio e il sacco un foglio di melinex,per procurare una migliore adesione tra ilsupporto legnoso e l’ammannitura.

Asportato il sacco del sottovuoto èstato fatto un ulteriore consolidamentocon Paraloi b72 nelle parti a legno erosea vista: sulla nuvola, sul braccio di Gesù,sulle facce degli angeli.

Sulle parti più decoese del manto, so-prattutto nella parte superiore, è stato ri-petuto più volte il consolidamento acaldo con termocauterio, melinex utiliz-zando Aquazol 200 diluito con acqua, eli-minando l‘acetone.

Primo passaggio nella fase di pulituraè stata l’eliminazione dei depositi polve-rosi sopratutto nelle pieghe e nei capelli,della Madonna e del Bambino. Per fareciò sono stati utilizzati micro pennelli emicroaspiratori stando attenti a non solle-vare la policromia.

Gli strati di ridipintura da eliminaresono molto tenaci. Per mezzo di tasselli siè scoperta la presenza di foglia a oro zec-chino sotto l’ocra della corona, sotto ilverde del colletto, sotto il marrone dei ca-pelli (soprattutto nella parte destra), sottoil rosso dell’abito nella parte superioredel panneggio fino sotto la vita, e sottol’azzurro del manto azzurro, nella partefrontale.

Procedendo verso il basso si è trovatala foglia oro sotto lo spesso grigio dellanuvola e sui capelli degli angeli. Anchesotto il blu del mondo retto dal Gesùbambino è presente la foglia oro.

I colori a olio delle ridipinture sullafoglia oro a guazzo sono stati ammorbi-diti con diversi passaggi di alcool benzi-lico, impacchi con veline lasciate depo- sitate per diverse ore, poi utilizzando deimicrobisturi si è riusciti a eliminare que-sti strati gommosi a base oleosa e farriapparire la foglia oro, in molti puntimolto ben conservata.

Note sul restauro della Statua della Madonna delCarminedi Valentina Boracchi e Viviana Sgarminato

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aSTATO DI CONSERVAZIONEDegrado avanzato, restauri prece-

denti.Il gruppo scultoreo presenta notevoli

danni di conservazione nella struttura cheè costituta da 26 parti di castagno e dipioppo: 17 dalla vita ai piedi, 9 busto,braccia e testa.

Il gruppo è situato in una nicchia, a si-nistra della navata, nella quale, anni fa,sono state rilevate infiltrazioni di acquapiovana. Le opere poggiano su una pe-dana in legno, la quale si è impregnata diacqua, trasmettendo umidità alla basedella scultura del santo e all’inginocchia-toio. Il Gesù Bambino si è salvato dal-l’umidità poiché è appoggiato sopra l’in-ginocchiatoio, avvitato su una nuvola.

Il piccolo crocifisso in argento pre-senta una forte ossidazione e la croce sucui è montato una grossa fenditura inprossimità del chiodo dei piedi.

La base del Santo è notevolmentedanneggiata rispetto al resto del corpo,presenta numerosi attacchi fungini, attac-chi di carie bianca e parti molto spu-gnose. Alcuni pezzi del manto eranostaccati dalla base, logorati dall’acqua.Sotto la base è stata inserita una barra diferro battuta a mano, inchiodata per tuttala lunghezza del manto. Nel centro èstato fatto un foro filettato per poter inse-rire una vite di circa un pollice per fissareil santo alla pedana.

Tutta la superficie del manto presentagrosse fenditure che arrivano fino allabase del panneggio, causando forti de-coesioni. Alla mano destra del Santomancano 4 dita. Il piede destro è comple-tamente staccato dal resto del corpo. Il si-nistro è presente per metà.

La parte frontale presenta cadute dicolore e ammannitura in prossimità delledue ginocchia, dei gomiti, della spalla enella parte del panneggio danneggiatadall’umidità. Al cordone del santo man-cano i nodi e il finale.

Il Gesù Bambino ha perso un orec-chio e 2 dita della mano destra, tutta lasuperficie dell’incarnato è stata ridipinta.

La nuvola su cui appoggia il Gesùpresenta attacchi di insetti xilofagi e

crepe in prossimità delle aggiunte.Il libro che appoggia sull’inginocchia-

toio ha subito attacchi xilofagi che hannocausato delle spaccature del bordo dellacopertina.

L’inginocchiatoio presenta cadute dicolore e ammannitura sulla superficie.

NOTIZIE E INCIDENZE DI RE-STAURI PRECEDENTI

Il gruppo ha subito restauri prece-denti. La policromia del S.Antonio è stataridipinta nelle parti dell’incarnato, soprat-tutto sulle mani piu volte, il piede destroè stato rifatto e naturalmente ridipinto.

Il manto presenta, sotto il marrone disuperficie, una strato di colore legger-mente più scuro. La nuvola dove appog-gia il Gesù presenta 2 strati di coloresovrapposti, due azzurri di differenti to-nalità. L’incarnato del Gesù Bambino ècompletamente ridipinto da uno strato dicolori a olio come nelle parti del Santo. Illibro è stato ridipinto nelle pagine bian-che e nella copertina nera.

RADIOGRAFIESono state effettuate radiografie del

manto, del busto, della spalla dels.Antonio e del corpo del Gesù

ULTRAVIOLETTO E’ stato effettuato un esame al video-

microscopio sul piede intero di s.Antonioper stabilire il numero degli strati e lacomposizione.

PROCEDIMENTI TECNICI E FASIDI RESTAURO

S.ANTONIOLa prima operazione che è stata fatta

è lo smontaggio del Santo dalla pedanacompletamente marcia, con leve e at-trezzi è stata smontata la barra di ferrofissata sulla base.

Così facendo i tasselli di costruzionesi sono aperti ulteriormente e si è proce-duto all’eliminazione delle polveri e dellemuffe della base con mezzi meccanici.

Tutti i pezzi che si sono staccati sonostati consolidati diverse volte con diffe-renti materiali, in primis con consolidantiall’acqua: Aquazol a diverse percentualida 20 al 50% nelle parti più decoese e fi-brose, scaldando il consolidante con ilphon per aumentare l’adesione.

I vari pezzi del panneggio che si sonostaccati sono stati immersi in una solu-zione di Aquazol al 20%.Nelle parti an-cora fibrose si è utilizzato il Paraloid b72con siringhe e pennelli.

Quando la struttura si è asciugatacompletamente si è passati alla fase di in-collaggio delle diverse lamelle e dei tas-selli utilizzando colle sintetiche. Per leparti più piccole si sono utilizzate colleviniliche e, per le parti piu decoese e piugrandi, colle riempitive che saturano legrosse cavità della struttura. Non è statopossibile utilizzare colle animali perchèil legno è troppo danneggiato e carico diumidità, avrebbero causato il riformarsidi nuove muffe interne.

L’incollaggio è stato fatto con l’aiutodi morsetti molto lunghi, con tasselli dilegno per aiutare l’ancoraggio tra i varitasselli

Vari pezzi della parte bassa del pan-neggio sono stati incollati con colle riem-pitive e le grosse lacune sono stateriempite con schiuma poliuretanica, ma-

Note sul restauro del gruppo scultoreo di S. Antonioda Padovadi Valentina Boracchi e Viviana Sgarminato

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teriale completamente reversibile conacetone e meccanicamente. Si è utilizzatoquesto tipo di materiale per diversi mo-tivi: le lacune erano molto ampie e il ma-teriale originale molto leggero e friabile acausa del suo deterioramento, lo stucconon si poteva utilizzare perché è troppopesante, idem l’Araldite o altri tipi di ma-teriale bicomponenti. Un’altra caratteri-stica della schiuma è che è un materialeneutro, non subisce alterazioni conl’umidità, non è particolarmente poroso.Una volta asciugata la schiuma si è mo-dellata con un bisturi molto affilato, poila superficie è stata ricoperta con unabase di ammannitura di gesso e colla diconiglio, la seconda mano di ammanni-tura è stata tinta con terra d’ombra. Ulti-mata l’asciugatura delle parti ammannitesi è proceduto alla carteggiatura con carta120 e per finire una 400. I bordi sono statilevigati con bisturi.

Si è deciso per un ritocco ad acqua-rello miscelato con gomma arabica perindurire i colori su tutta la parte frontaledel saio ed a un ritocco estetico nel retroe sull’incarnato.

Le dita del santo non sono state rico-struite.

I fori dei tarli sono stati stuccati a cerascura, le fenditure riempite nella parte su-periore con araldite.

E’ stata fatta una pulitura con un ten-sioattivo sul saio, senza eliminare la ridi-pintura, si è invece deciso di assottigliare

la ridipintura dell’incarnato con bisturi esolvente terpenico, perchè molto pesante.

Tutta la superficie è stata verniciatacon 2 passaggi Laropal e finita con ceramicrocristallina.

GESU’BAMBINOLa prima operazione effettuata sul

Gesù Bambino è stato lo smontaggio dal-l’inginocchiatoio, poi è stata fissata la nu-vola con delle viti nella parte retro. Quindisi è iniziata la pulitura della policromiacon un tensioattivo per eliminare gli stratidi polveri pesanti che si sono depositatenei secoli, alterando profondamente la po-licromia. Lo strato di ridipintura è statoeliminato meccanicamente a bisturi. Lanuvola è stata pulita con bisturi fino allostrato originale di un colore grigio. Le la-cune sono state colmate con stuccature agesso di Bologna 1 /15 molto fine.

Al Bambino sono state ricostruite ledita mancanti e l’orecchio in legno di ti-glio. Le integrazioni pittoriche sono statefatte a rigatino nelle parti nuove e a este-tico nelle lacune. Per la verniciatura èstata utilizzata vernice Laropal e finita acera microcristallina.

Il Gesù Bambino presentava una co-rona in lamierino, successiva al manu-fatto, si è deciso con la Soprintendenza dinon rimetterla, come il piccolo drappo diseta (completamente logoro) che coprivale parti intime del Bambino.

INGINOCCHIATOIOL’inginocchiatoio è

stato stuccato e incollatonelle fessure createsi neipannelli con i movimentistrutturali del legno. Lapulitura sia del libro chedell’inginocchiatoio èstata effettuata con tensio-attivi e tamponi.

Le lacune della poli-cromia non sono statestuccate, è stato ripreso ilcolore con una miscela divernice, ossido nero eterra d’ombra, integrandosolo le parti di caduta di

colore e le stuccature. La base è stataconsolidata con iniezioni di Paraloid b72.Per la verniciatura finale è stata utilizzatala gommalacca e la cera microcristallina.

PICCOLO CROCIFISSO IN ARGENTOIl crocifisso è stato stuccato nelle

spaccature in prossimità dei chiodi di an-coraggio con gesso di Bologna. Le inte-grazioni sono state fatte con la stessamiscela dell’inginocchiatoio, vernice conossido nero; il crocifisso in argento èstato pulito con ammoniaca e una pa-glietta metallica ultra fine. La finitura èstata fatta con cera microcristallina; leparti mancanti in metallo del bracciocorto non sono state ricostruite.

LA BASELa base del gruppo scultoreo è stata

rifatta nuova col medesimo disegno e co-lore dell’originale.

NOTE SULL’ESITO DEL RESTAURORestauro molto complesso, risultati

ottimi.

In questa pag, in alto, radiogafia a raggi Xdel collo della statua di Sant’Antonio daPadova che mostra la presenza dei chiodidi giunzione che tengono assieme i vari tas-selli che costituiscono la statua

Nella pag. a lato schizzo della figura delSanto

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Stato delle anime della parrocchia di Car-penetoDiocesi di Acqui.Maggio 1678.Relatore Gio Batta Beccaria, parroco

Lo stato delle anime, a cui si fa riferi-mento, risale all’ anno 1678 e riguarda ilcomune di Carpeneto, paese di confinedel marchesato del Monferrato con la re-pubblica di Genova, dipendente dalladiocesi di Acqui di cui era pastoremons.Carlo Antonio Gozani di Casale,mentre da due anni era papa InnocenzoXI.

Il documento, comune a tutte le par-rocchie sottoposte alla dottrina di Roma,è frutto dell’ esigenza, manifestata dallaChiesa cattolica nel Concilio di Trento,di conoscere meglio i propri fedeli siasingolarmente sia inseriti nel gruppo fa-miliare di appartenenza, segnalandone,tra l’altro, mestiere e domicilio.

Il periodo storico in cui la popola-zione si trova a vivere è quello controri-formista seguito al Concilio di Trento(1)

mentre, in senso più strettamente politico,risente della crisi socio-economica con-seguente alle due guerre del Monferrato,inserite nel più vasto contesto delle guer-re europee.

Fra le tante innovazioni liturgiche edottrinali apportate dal Concilio di Trento(1545/ 1563), con cui si sanciva la nor-malizzazione cattolica di fronte alla Ri-forma protestante, ci furono cambiamen-ti formali e amministrativi che denota-vano una maggiore attenzione della Chie-sa di Roma verso i propri fedeli e una rin-novata volontà di controllo sulla devo-zione dei credenti. Così divenne obbliga-toria la trascrizione degli atti matrimo-niali in appositi registri (Decretum de re-formatione matrimonii). Allo stesso mo-do fu instaurato il registro degli atti bat-tesimali in cui il parroco doveva annotareil nome, la data di nascita e di battesimo,il nome dei genitori, del padrino e dellamadrina dei battezzati.

I registri di battesimo e di matrimonio,che avevano lo scopo di evitare i matri-moni tra consanguinei, nel 1614 venneroregolamentati, con un preciso formulario,da papa Paolo V attraverso il Rituale Ro-

manum. L’obbligo di tali registri -scriveva

Giorgio Oddini- era stato emesso perdare valore giuridico ai Sacramenti incontrapposizione alla ricusazione deiProtestanti, ma anche per conoscere me-glio la composizione delle famiglie e con-trastare l’usanza dei matrimoni traparenti stretti”.(2)

Inoltre papa Paolo V (al secolo, PaoloBorghese), definito il papa riformatore,impose anche l’ obbligo del Libro dei de-funti(3), dei cresimati e lo Stato delleanime.

Venne lasciata libertà ad ogni Diocesidi ordinare tale materia col risultato diuna grande difformità di risultati. Perquesto una Diocesi può aver conservatouna messe di documenti ben organizzati eun’altra può presentare una congerie dimateriali affastellati senz’ordine.

Questo accadde soprattutto per loStato delle anime, in quanto, mentre aglialtri registri si attingeva per stilare atti,che avevano anche valore civile e veni-vano richiesti dai singoli individui perloro esplicita necessità, al registro delleanime non era necessario fare alcun rife-rimento né per eventuali atti di battesimoné per certificati di matrimonio o di de-cesso. In ogni caso, a questi registri, com-preso quello dello Stato delle anime, man-tenutisi in un accettabile stato di consul-tazione, si incominciò a far riferimentoquando il potere civile volle fondare lamoderna anagrafe e dai registri delle par-rocchie prese spunto. Tanto è vero che neiterritori sottoposti all’Impero germanicoi registri parrocchiali assunsero valore didocumenti pubblici, con finalità civili.

Purtroppo, come già detto, anche sepapa Paolo V aveva fornito un precisoprocedimento per la stesura degli atti, ac-cadde che ogni parroco scegliesse moda-lità proprie, decidendo spesso di proce-dere in un secondo momento alla stesuradefinitiva. Per questo, spesso, i cognominon sono chiari e ci sono richiami paren-tali comprensibili solo ai contemporaneie conterranei. Tuttavia, pur con questi li-miti, i registri delle anime, insieme aquelli dei nati, dei matrimoni e dei morti,sono una fonte preziosa, se pur non scien-tifica, circa i movimenti naturali della po-

polazione nell’ ambito delle singole par-rocchie in periodi in cui non erano ancorapresenti rilevazioni demografiche daparte dell’ autorità civile.

Le origini della rilevazione demo-grafico-devozionale

Nelle settimane successive alla Pa-squa ogni parroco andava a benedire lecase dei suoi parrocchiani. Non a casoveniva scelto quel preciso periodo inquanto il parroco doveva chiedere e se-gnare sul registro se ogni parrocchianoaveva o meno ottemperato al precettodella comunione a Pasqua.(4) Pertanto larilevazione veniva fatta per testa se purnell’ambito della famiglia di apparte-nenza. Per questo motivo nel registro par-rocchiale a fianco di ogni nominativoc’era la lettera C. Fondamentale era la C,iniziale di Comunione; ma di C ce ne po-tevano essere addirittura tre: Comunione,Confessione, Cresima . Quando non cen’era nessuna, se si trattava di un adultovoleva dire che non si era comunicatosennò si trattava di un comunicando dietà inferiore ai 12, 13 anni, perché il sa-cramento della comunione non lo si rice-veva prima di quell’ età, alquanto tardivaper il nostro modo di intendere. Il con-trollo era più che altro una verifica, inconsiderazione del fatto che chi chiedeva,con buone probabilità, era la stessa per-sona che aveva somministrato la comu-nione….

Come già osservato, contrariamenteagli altri registri parrocchiali, che risul-tano abbastanza omologati, quelli ine-renti allo stato delle anime sono contrad-distinti da stesure più o meno ordinate.Ce ne sono di molto precisi e ce ne sonodi vaghi e lacunosi, considerando che ipreti non avendo una necessità impel-lente di consultarli, non si preoccupavanodella loro conservazione.

Nella stesura, oltre alle abrasioni, do-vute alle offese del tempo, ci possono es-sere dei dati anagrafici imprecisi cheriguardano nomi e date o sviste materialidovute a fretta o cattiva memoria. Quan-do, però, si ha la fortuna di imbattersi inun registro preciso e in soddisfacentestato di conservazione molti sono i datiche ci permettono di avere uno spaccato

Carpeneto 1678: non è un paese per vecchidi Lucia Barba

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della vita di una comunità che, a menonon si tratti di casi speciali, appare as-sente o assai poco rappresentata nei do-cumenti politici ufficiali.

Se poi esistono due o più documenti,riferiti alla stessa comunità, distanziati neltempo si possono fare comparazioni suimovimenti naturali della popolazione,sulla situazione demografica, sugli assettieconomici, sugli aspetti sociali dellastessa.

Lo stato delle coseL’anno di riferimento dello Stato delle

anime(5) in oggetto è il 1678, il mese èquello di Maggio, poco dopo Pasquache, quell’ anno, era caduta il 10 aprile.

Il periodo storico è difficile e trava-gliato per il Monferrato e lo è da moltianni. Da più di un secolo Gonzaga e Sa-voia si palleggiano il possesso del mar-chesato vantando entrambi legittimidiritti ereditari. Le vicende dell’ anticoMarchesato che si erano già complicatenel XVI secolo avevano avuto un’ accele-razione in senso negativo nel XVIIquando il Monferrato era stato teatro didurissime lotte fra più potenze rivalicome descrive Alessandro Manzoni neiPromessi Sposi.

La pace di Cateau Cambresis del 1559,assegnando il Monferrato ai Gonzaga diMantova, aveva concluso, momentanea-mente, la disputa tra i Savoia e i Gonzagavisto che vantavano entrambi diritti di pa-rentela sul glorioso e antico marchesato.L’ assegnazione non piacque e non giovòai monferrini per i quali iniziò un periododi gravi difficoltà economiche soprattuttoper il comportamento dei duchi Gonzaga

che fecero del Monferrato una specie dicolonia da sfruttare. In particolare il ducaVincenzo Gonzaga vendette ai miglioriofferenti (soprattutto Genovesi) feudi divecchia e nuova nomina per ricavare de-naro che non veniva però reinvestito inMonferrato.

I Savoia, che non avevano mai persola speranza di impossessarsi delle terremonferrine, non si lasciarono sfuggirel’occasione di scendere in campo a fiancodelle grandi potenze e a dare luogo a dueguerre per impadronirsi del marchesato.La prima guerra del Monferrato iniziò nel1612 quando, alla morte di Francesco IVGonzaga, Carlo Emanuele I di Savoiaavanzò pretese dinastiche ma la Spagna,come aveva già fatto con la pace di Ca-teau Cambresis, decretò che il marche-sato spettava ai Gonzaga.

Il duca di Savoia fu sconfitto e, nel1617, con la pace di Parigi, riconsegnò ilterritorio conteso ai Gonzaga.

La seconda guerra iniziò nel 1627,alla morte di Vincenzo II Gonzaga, men-tre era in atto la guerra dei 30 anni. LaFrancia sosteneva i diritti ereditari delduca di Nevers francese, che aveva spo-sato Maria Gonzaga. I due conflitti eb-bero un costo altissimo per i Savoia chenon vinsero le guerre dove avevano pro-fuso gran parte delle loro sostanze ma ot-tennero Alba, Trino e altre 84 terre.

Dopo tante angustie e vicissitudini imonferrini s’aspettavano che i Gonzaga–Nevers adottassero un indirizzo di go-verno più blando o, quantomeno, menoopprimente, in modo che potessero rifio-rire l’agricoltura e alcune attività mer-cantili. I nuovi signori … non avevano un

occhio di riguardo per il Monferrato senon per ricavarne quanto potesse risul-tare utile a incrementare le risorse da im-piegare per la rinascita della lorocapitale .(6)

Nel 1678 Carpeneto, facendo partedel Monferrato acquese, che non rientranelle terre passate sotto i Savoia, è ancorasotto i Gonzaga. Nello specifico il feudodi Carpeneto è passato in molte mani coninfeudazioni e sub-infeudazioni succes-sive che, a fine 1669, vede investiti di unaparte del feudo i fratelli Agapito e Mar-c’Antonio Grillo. Quest’ ultimo diventeràunico feudatario del paese nel 1693.(7)

Sono tempi di grande penuria e lo atte-stano anche i documenti locali che ci par-lano della grave decadenza delle chiesettedi san Bovo, san Giorgio e sant’ Albertoche, alla fine del 1600, sono in quasi to-tale rovina.

Solo nel 1708 il Monferrato verrà as-segnato a Vittorio Amedeo II di Savoia enel 1713 -1714, con i trattati di Utrecht eRastadt (8), passerà definitivamente sottoi Savoia e da allora cesserà la sua storiapolitica autonoma.

Stando così le cose, e passando dallamacro alla micro storia è interessante ciòche si può desumere e presumere dai nudidati diligentemente trascritti da don Bec-caria.

Gli abitanti registrati dal sacerdote,parroco di Carpeneto sono 874, di cui472 sono uomini e 402 sono donne.

La popolazione presente nel Comune,compresa nella fascia di età che va da 1 a20 anni, è di 479 unità, cifra che rappre-senta il 54,23% della popolazione totale.

Nella fascia d’ età compresa fra i 21 e

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i 40 anni la percentuale scende oltre lametà visto che il numero complessivo diuomini e donne è di 178 unità con unapercentuale, rispetto al totale della popo-lazione, del 20,36%.

Tra i 41 e 60 anni la percentuale si at-testa su 19,10 % e la somma aritmetica èdi 167 unità.

La percentuale crolla per la fascia dipopolazione con età compresa fra i 61 e i70 anni, rappresentata da 37 unità che co-stituiscono il 4,23% della popolazione to-tale

Al di sopra dei 70 anni i numeri sonocosì esigui da poter parlare di superstiti.Infatti sopravvivono solo 5 persone: 1donna e 4 uomini. La donna è la vedovaMaria Boggiero, di anni 71, mentre gliuomini sono Bernardino Barba,71 anni,Giuseppe Ritio, ancora 71, Matteo Grillo72, Stefano Cassone 71. Non risultano in-dividui di età maggiore. La percentualedegli ultrasettantenni rappresenta lo0,57% del totale(9). Parafrasando il titolodi un bel libro di Corrmac Mc Carthy, di-ventato poi film di grande successo, Car-peneto nel 1678 non è un paese pervecchi e nemmeno per donne, visto chesono inferiori per numero, il loro statussubisce forti limitazioni esistenziali, illoro ruolo appare sempre subalterno.Inoltre risultano più presenti nel paese eassai meno nella frazione e nelle case iso-late dove, con ogni probabilità, c’eranomeno contatti umani, minor sicurezza in-dividuale, peggiore qualità di vita.

Ciò che colpisce maggiormente è ilcrollo percentuale della popolazione nelpassaggio dalla fascia 1-20 alle due fascesuccessive che rimangono sostanzial-mente simili. Infatti da più del 50% dellapopolazione al di sotto dei 20 anni sipassa al 20,36% della seconda fascia (21-40 anni ) e al 19,10% della terza fascia(41-60anni). Più della metà della popola-zione sotto i 20 anni non arrivava alla fa-scia successiva di età, quella tra 20 e 40.

Oltre quell’ età c’è un crollo verticalein quanto la popolazione dei sessantennie oltre si restringe di quasi quattro quintiper poi arrivare sotto lo 0,5 % quando siva oltre i 70!

Evidentemente la mortalità infantile eadolescenziale erano molto alte e la curva

della popolazione fortemente squilibratain quanto la forza lavoro era notevol-mente ridotta rispetto ai figli da sfamaree da crescere. Non stupisce, quindi, chela maturità e l’ avvio al lavoro avvenis-sero in età precoce e che i figli adole-scenti sopravvissuti fossero avviati allavoro familiare e al lavoro servile pres-so terzi, come dimostra la presenza di nu-merosi famigli che altro non erano chegiovani servitori.

I nuclei familiari presenti sono 170.Sono presenti famiglie:

1) Semplici o nucleari (formate cioèda un solo nucleo familiare).

2) Estese (costituite da un nucleo fa-miliare cui si sono aggiunti parenti convi-venti. Spesso si tratta di sorelle del capofamiglia che sono rimaste vedove edhanno figli).

3) Multiple (formate da due o più nu-clei familiari, legati da parentela).

4) Senza struttura (costituite da per-sone non legate da un vincolo familiare.Ad esempio l’ archibugiere e la sua ser-vente)

5) Costituite da persone sole ( non più

facenti parte di un nucleo familiare).

Mentre sono poco numerose le fami-glie nucleari, quelle senza struttura equelle costituite da una sola persona (unaassoluta rarità) esistono moltissimi casidi famiglie estese e multiple. Succedevache più fratelli, sposandosi, restasseronella casa paterna con le mogli e i rispet-tivi e numerosi figli, oppure che alla fa-miglia si unissero parenti collaterali perlo più vedovi e con prole. Ciò che colpi-sce è che il padre rimaneva sempre capo-famiglia anche con figli ampiamenteadulti, secondo una tradizione che af-fonda le radici nel diritto romano dove l’aspetto più interessante della patria pote-stas era la sua perennità che… non ces-sava quando i figli diventavano adulti.Essa durava fino a quando il padre erain vita. I figli non avendo un patrimonioproprio dipendevano economicamente dalui. Quale che fosse la loro età.(10)

Poichè don Beccaria colloca le fami-glie nei vari rioni in cui era diviso il paesepossiamo sapere quante persone abita-vano nel rione di Polcevera,che ha con-servato un impianto medievale con case aun piano rialzato e limitata cubatura. E’ ilborgo sotto le mura del castello sicura-mente meno toccato nel tempo. Ebbene acontare le 170 persone che vi situa donBeccarla viene da chiedersi dove potes-sero stiparsi. Era anche quello con la piùalta percentuale di presenze femminili aconferma del bisogno di socialità del-l’universo femminile, con molte famiglienon particolarmente numerose e un certoequilibrio fra le diverse fasce d’ età.

I MestieriL’ attento don Beccaria segna a fianco

del nome di ogni capofamiglia, l’ attivitàche svolge. Accade spesso che con il capo-famiglia vivano figli ormai grandi, spo-sati e con prole. Accanto al loro nomeviene segnato il mestiere che esercitanosolo quando è diverso da quello del padre.D’altra parte le caratteristiche morfologi-che del territorio molto acclive, i rudimen-tali strumenti agricoli, la parcellizzazionedi gran parte dei fondi rurali, la precarietàdel lavoro subalterno portavano la fami-glia a unirsi in un lavoro comune e con-

Alla pag. precedente, panoramadi Carpeneto, in una cartolinadel fotografo Ernesto Maineri

A lato, Cappella di S. AlbertoIn basso, Cappella di S. Bovo

Nella pag. a lato, la chiesa diSan Giorgio, antica parrocchiale

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diviso che impegnava tutti i membri conmansioni diverse, a seconda dell’ età edella salute fisica.

Era, molto probabilmente, un’agricol-tura mista, di pura sussistenza, in cui siproduceva quanto serviva per l’ autocon-sumo. Su 170 nuclei familiari segnalatida don Beccaria 116 vivono di agri- col-tura. Solo in pochi casi si può parlare digente che vive di rendita. Si tratta conevidenza di una comunità molto omoge-nea nel lavoro, nello status sociale e cul-turale. L’omogeneità sociale è facilmentedesunta dal tipo di attività condivisa, pra-ticamente una monocultura che lasciaben poco spazio all’originalità.(11) Nonmancava però chi viveva della terra senzabisogno di lavorarla come presumibil-mente accadeva alla signora Zerbina cheviveva in paese, aveva due servitori dicasa e la proprietà di 3 cascine. E’ il casoanche “del signor Marchese” (comescrive sempre don Beccaria) che risultapossedere cascine con massari e famigli.

Oltre alla dicitura “agricoltore” noncompare altro e ciò che si può sicura-mente desumere è che le famiglie sonomolto numerose, che i singoli individuihanno in comune una bassa aspettativa divita perché anche se sono riusciti a su-perare la barriera dei 20 anni, raggiuntal’età matura la curva della vita crolla ine-sorabilmente di colpo, visto che dal quasi20% della fascia 40-60 si passa a menodel 5% tra i 60 e i 70.

La percentuale dei nuclei familiari de-diti all’agricoltura è del 67,05% e lasciapoco spazio ad altre attività che risultano,in ogni caso, subalterne e complementariall’attività predominante.

Sono però proprio queste attività se-condarie che ci danno la possibilità diadombrare, se non conoscere pienamen-

te, il modus vivendi della nostra comunitàcollinare in quanto danno vivacità ad unquadro che rischia di diventare noiosa-mente monocromo.

I massariColoro che lavorano terreni di cui non

sono proprietari da don Beccaria ven-gono annoverati sotto la dicitura massari.E a ragione, visto che il dizionario storicodefinisce massaro colui che coltiva ilmanso, inteso come cellula agraria risa-lente al Medioevo. Il massaro presta lasua opera nel fondo agricolo in condi-zione di libero o di servo. Il tipo di con-duzione del manso è la colonìa parziariain base alla quale il proprietario affida almassaro la conduzione del fondo e il la-voratore, a sua volta, si assume la respon-sabilità di corrispondere al padrone ognianno quanto stabilito dal contratto.

Ha due massari la signora Zerbina , dicui conosciamo la pingue ricchezza sicu-ramente alimentata da tre cascine tra cuila cascina Magnona, dove abitano i fra-telli Giacomo e Santino Sutto con rispet-tive famiglie.

Sono massari dell’illustrissimo signorMarchese alla cascina Campazza 4 fra-telli e 1 sorella. Due di questi fratelli sonosposati e hanno figli piccoli. In totale sitratta di 15 persone, 8 delle quali sonosotto i 10 anni e 2 hanno rispettivamente16 e 17 anni.

Alla cascina Valle del pozzo, ancoraproprietà del Marchese, è segnalato nonpiù un massaro bensì un fittavolo, cheevidentemente ha un altro tipo di con-tratto col signor Marchese. Si chiama GioAntonio Piana : ha 30 anni, vive qui conla moglie Appolonia(12) che è più grandedi suo marito di 4 anni ma ha pur sempresolo 34 anni, ha già partorito 6 figli che

hanno rispettivamente 13, 11, 8, 5, 2 ,1anno… Resta il dubbio sul marito diven-tato padre per la prima volta a 17 anni.Improbabile ma possibile.

Ancora per il signor Marchese alla ca-scina Lonchino (Ronchino) lavora unafamiglia multipla formata dal capofami-glia Giobatta Bruno con moglie e duefigli a cui vanno aggiunti una sorella edue fratelli del capofamiglia. Uno dei fra-telli è sposato e ha 1 figlio. Si aggiunganodue famigli di 12 e 9 anni, Totale:11 per-sone. Nelle cascine del marchese che im-piega massari e fittavoli non ci sonopersone al di sopra dei 40 anni! Tuttaviala forza lavoro, almeno secondo i nostriparametri, è molto bassa. Nello stessotempo stupisce un tale assembramentonelle cascine del Marchese soprattutto difamiglie che non sembrano avere aggancifamiliari con il resto del paese. Con ogniprobabilità la loro forza contrattuale erabassa data l’aleatorietà della manodoperainfantile che indubbiamente pesava in-vece come bocca da sfamare. insomma:se era in dubbio che i figli aiutassero eracerto che mangiavano!

Attività collateraliIn una comunità sostanzialmente po-

vera ed omogenea, votata all’autosuffi-cienza per necessità e vocazione basta-vano pochi artigiani per soddisfare le ri-chieste di molti fruitori. Ai mestieri arti-gianali vanno uniti quelli di caratteresociale (scuola, sanità, difesa). In questicasi il numero dei funzionari viene rego-lato da altre ragioni che vanno oltre allalegge della domanda e dell’offerta e sicollegano a motivi di ordine pubblico.

Tra le attività collaterali viene segna-lata la mercatura. Ci sono infatti 2 mer-canti. In un caso il mercante, di nomeAngelo, 55 anni, vive con la moglie Cat-tarina di 44 anni. Non risultano figli con-viventi ma Carlo Malatesta, il secondomercante di 19 anni, con una servente di20, che di nome fa Giacomina Frasci-netta, è figlio di Angelo, da cui vive indi-pendente. Caso unico in tutto il paesedove i figli e i figli dei figli vivono tuttiinsieme. Forse è proprio il mestiere cheporta ad una libertà di azione e di com-portamenti impensabili in una società ru-

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rale, per definizione conservatrice e tra-dizionalista. Il mercante, al contrario, èun self- made man, un uomo che si è fattoda sé, che non ha l’appoggio della fami-glia e della consorteria. Il mercante è, ge-neralmente, uomo di pace perché vuolestrade libere e ambiente sicuro. C’è ilmercante che acquista all’ingrosso e ven-de al minuto e c’è il piccolo mercante chevende direttamente al pubblico. Figurafondamentale a partire dal Medioevo ilmercante può anche essere prestatore didenaro e, oltre che esercitare l’arte dellamercatura essere tesoriere ed esattore. In-somma è personaggio che ha dimesti-chezza col denaro liquido; tutto il con-trario del contadino che si sente sicurosolo della terra e di quel che la terra offre.

Se è vero che la maggior parte delleunità attive della popolazione maschilesono dedite all’agricoltura è pur vero cheun paese contadino, lontano dagli agglo-merati urbani ha bisogno di una serie dimanufatti sia per le esigenze del quoti-diano che per l’attività agricola.

In questo senso sono indispensabili ifalegnami. E qui ce ne sono quattro. Ilprimo in ordine di presentazione è Ber-nardo Bozzino. Vive con la famiglia inpaese, in zona san Bovo e ha deciso dinon seguire l’attività del padre che fal’agricoltore ed è già avanti negli anni, inquanto ha ben 68 anni.

Carlo Bruno, di 45 anni vive pure luifuori dalle mura di san Bovo, insieme acinque figli maschi di età compresa tra 24e 10 anni. Non c’è presenza di una mo-glie del capofamiglia. Il primogenito Lo-renzo è sposato con Francesca che ha 17anni. Vivono tutti nella casa paterna. E’probabile che i figli lavorino nella bot-tega del padre visto che non è specificataaltra attività alternativa.

Il terzo falegname è Nicolò Bacica-lupo, di anni 22, che vive da solo nellacolombara del castello. Accade che, difron- te a gruppi familiari molto struttu-rati, si trovino alcuni lavoratori del tuttoisolati ed estranei ai gruppi familiari pre-valenti nel Comune. Il giovane Bacica-lupo, unico con questo cognome nelpaese, potrebbe essere un lavoratore fo-restiero che presta occasionalmente la suaopera per il marchese.

Il quarto falegname abita nella frazionedella Villa. Viene definito “mastro fale-gname”, qualifica attribuita solo a lui. Ha66 anni con moglie di 10 anni più giovane,tre figli di età compresa fra i 18 e i 14 anniche, presumibilmente, lavorano con lui. Ilnucleo familiare comprende anche un ni-pote di 14 anni e un famiglio di 16.

La mansione di fabbro-ferraio è eser-citata dai 2 fratelli Perelli: Matteo di 40anni, Giò di 30. Abitano nella stessa casa,nel centro del paese con le rispettive mo-gli e 8 figli, 4 ciascuno. Vengono definitiferrari che, come cognome diventerà unodei più diffusi in Italia.Ci sono alcune fa-miglie Ferrraro, che non fanno i fabbri,bensì gli agricoltori. I fabbri invece sichiamano Perelli, cognome ancora pre-sente in paese in diverse famiglie non piùparenti tra di loro.

Uno dei pochi esempi di vita al singo-lare è quello del capitano di milizia: ha30 anni, si chiama Christoforo “Terra-gno” (cognome ancora presente , se purmutato in “Terragni”) e vive “in la terrade la contrada del ponte”. Toponimo nonpiù in uso e non riferibile ad alcun luogocon ragionevole sicurezza.

Nella stessa contrada abita anchel’unico maestro di cui si è a conoscenza:ha 40 anni, si chiama Pietro FrancescoBava, viene da Monastero ed ha una ser-vente, segno di un certo status sociale:Bartolomea ed ha 54 anni.

Non lontano dalla casa canonica equindi al centro del paese abita il chirur-gico Francesco Bertolotto, di 35 anni, conmoglie e 4 figli. Un solo maestro, un solo“chirurgico”. Se a quei tempi il chirur-gico era spesso equiparato al barbiere quisi fa una netta distinzione. Infatti il bar-biero è un altro ed esercita nel cuore delpaese “nella contrada della piazza da unaporta e l’ altra”.

E’ uno solo il “ cavallaro “ del paese.Il padre Bartolomeo Bobbio è agricoltoredi 60 anni e il figlio, che di anni ne ha 27ha deciso per il trasporto con i cavalli.Abita in paese nell’affollato borgo diPoncevera (ora Polcevera), dove, nonlontano da lui, esercita la sua attivitàl’unico mulattiere del paese Pietro MariaCaroso, appartenente a una famiglia diagricoltori.

Il figlio della vedova Ivalda fa lo scar-paro. Ha 31 anni, moglie e 2 figlie.Vivein paese nel “recinto dei Fallabrini”. Diquale recinto si trattasse non si è in gradodi sapere ma rimane presente in paese ilcognome, nella doppia accezione Falla-brini/Fallabrino.

Un altro solista è il lavoratore dellaBandita, Domenico Barisone. Non se neconosce l’età, né lo status sociale, né sihanno notizie di una bandita locale. Si sasolo che abita da solo entro il recinto deiFallabrini. Oltre al Capitano di Giustiziarisulta presente anche un archibugiere, dinome fa Giuseppe Bianchi, ha 35 anni edabita in rione Poncevera forse accuditodalla vedova del fu Bartolomeo Terragno.

Se basta uno scarparo per tutto ilpaese, basta anche un sarto. Così è. Vivecome lo scarparo, il barbiere, il fabbroferraio nella contrada della piazza da unaporta all’altra, si chiama Giò Gandino evive con la moglie Maria e i figli GioBatta, Zanina e Catta. E’ l’unica famigliaGandino in paese, forse immigrata dalMilanese visto che a Castelferro e din-torni è cognome tuttora diffuso.

In una comunità la cui sopravvivenzaè strettamente dipendente dal raccoltoagricolo annuale, sempre molto aleatorio,pochi sono coloro che possono viveretranquilli anche senza lavorare grazie alleentrate. C’è il Marchese che con tuttequelle persone che lavorano per lui, inmodo più o meno attivo, non ha di che te-mere, c’è la signora Zerbina che vive condue domestici e possiede tre cascine affi-date a massari, ci sono i proprietari di al-cune cascine che don Beccaria segnalasotto la voce “ agricoltori”. E in questache sembra quasi una comune agricolaper la sua omogeneità ci sono tre nucleifamiliari che vivono d’intrate secondo ladefinizione un po’ criptica che ne dà donBeccaria. Una di queste persone è Anto-nio Tortonese che vive con la famiglia “inla contrada della piazza”. Con lui vive ilfiglio, notaio, 28 anni, sposato e con unaservente a disposizione.(13)

Vive d’ intrata anche Constanzo Ber-tolotto di 16 anni, figlio del fu Antonio.In questo caso si potrebbe trattare di unaricchezza pregressa ereditata da chi nonha ancora un’attività propria e gode del

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benessere ereditato. Anche il signor Ter-ragno vive d’intrata con moglie e 2 figli.Non risultano né beni a suo nome né unaattività dichiarata.

I curatori d’ animeOltre a don Beccaria altri preti risul-

tano presenti in paese. Prete e capofami-glia è Beltramo Tortonese che vive con ilnipote Bartolomeo di 22 anni e una ser-vente che tiene con sé la figlia di 9 anni.In castello, sopra il ricetto, abita CarloAntonio Beccaria di anni 47 con serventedi 49. Come si vede è rispettata l’età si-nodale delle serventi dei preti sancita dalConcilio di Trento sopra i 40 anni, comeci ricorda Alessandro Manzoni a propo-sito dell’età di Perpetua. Il nipote vieneda Trisobbio e la servente da Morsasco.

Nella casa canonica vivono oltre adon Beccaria, estensore del documento inoggetto, il nipote del parroco DomenicoBeccaria di anni 10 e la servente Verdinadi 60 anni.

Infine alla (Madonna della)Villa c’èun capellano, detto capellano di quellachiesa ( parole di don Beccaria) che vivenel gruppo familiare di più curiosa for-mulazione composto oltre che da luistesso sessantacinquenne, dal suo fami-glio di 62 anni, di nome Antonio e, quelche è più curioso, da un heremita dinome Pellegro di 42 anni.

I Famegli e gli EspostiIl termine famiglio, di origine latina,

stava a definire il servitore di casa, conmolteplici e non specifiche mansioni, in-somma un tuttofare che doveva esserepronto a svolgere i lavori più diversi, nonesplicitamente definiti. Giuseppe Ferraronel suo Glossario Monferrino a propositodi famiglio ricorda la sua versione dialet-tale famej o famiyh, inteso come fami-glio, servo.(14)

A proposito dei famigli il vocabolario

Treccani annota che in alcune localitàdell’Italia settentrionale è così chiamatala persona addetta alla cura, al governo ealla mungitura delle mucche o, in genere,ai lavori dell’azienda agricola, dove con-vive con la famiglia del conduttore. Nelnostro caso l’allevamento e la cura delbestiame doveva essere una voce secon-daria, rispetto ai lavori agricoli propria-mente detti perché, date le condizioniambientali, non si trattò mai di territoriovocato all’allevamento estensivo ma adun allevamento, numericamente limitato,destinato al consumo locale e alla ferti-lizzazione del terreno. Oltre ai famegli(come don Beccarla chiama i famigli)possono essere a servizio gli esposti, valea dire coloro che sono stati abbandonatineonati sul sagrato degli istituti religiosie delle chiese. Esposti, quindi, per esseresoccorsi e cresciuti dalla carità pubblica.Nelle famiglia della vedova di GiobattaPrevidino sono presenti un fameglio dinome Giuseppe, proveniente da Sezzadiodi 16 anni e un esposto di 11 anni, dinome Giobatta.(15)

Uno dei rari casi di donna che vivesola e non ha lo status di vedova è quellodi Francesca Zerbina, di anni 60, abitantein borgo Poncevera, zona centrale delpaese, che, oltre che proprietaria terriera,come già annotato, si permette un fami-glio di 34 anni di nome Giobatta Oneto euna servente di 30, di nome Antonina diRivalta.

Anche Federico Bobbio, agricoltore,di anni 57, che vive con la moglie Mariadi 30, il figlio Galeazzo di 19 anni e Fran-cesco Maria di 1, ha un famiglio di 19anni. Si tratta di famiglia nucleare in cuiil capofamiglia è al secondo matrimonio.Caso frequente fra gli uomini che non ri-sultano mai vedovi, al contrario delledonne, per le quali la vedovanza diventaun vero e proprio status . Gli uomini non

sono mai definiti vedovi. Si risposano,per lo più, con donne parecchio più gio-vani e la presenza di figli più o menocoetanei della moglie rende ragionevolel’ipotesi un secondo matrimonio.

Quindi, mentre la vedovanza femmi-nile viene evidenziata e la vedova vivecoi parenti senza altro status ricono-sciuto, il vedovo non viene mai presen-tato come tale, rimane capofamiglia,molto spesso si risposa e ha figli di se-condo letto.

Anche la famiglia di Ivaldo Bernar-dino, agricoltore di 41 anni con 4 figli aldi sotto dei 10 anni, ha un famiglio; sichiama Antonio Carozzo e ha solo 12anni: quasi un bambino!

Nella famiglia multipla di AntonioTortonese, di 60 anni, agricoltore conquattro figli che vivono con lui, ivi com-preso Guglielmo sposato con moglie e trefigli, c’è un famiglio di 16 anni di nomeGiò Magnone,

Non necessariamente un famiglio è ri-chiesto da una famiglia numerosa. E’ ilcaso di due fratelli: Antonio e Giò Terra-gno, di 42 e 34 anni, che vivono nellastessa casa con le rispettive mogli ehanno un famiglio di nome Biagio DeAgosti, di età non precisata di Ottaggio.

Anche Giò Antonio Zerbino, agricol-tore di 41 anni che ha a carico una mo-glie, due figli e una sorella di 20 anni(esempio di famiglia estesa), ha un fami-glio di 15 anni, Bernardino Bruno .

Domenico Merlo di 11 anni è a servi-zio in una famiglia di tipo nucleare com-posta da Giò Previdino, agricoltore di 42anni, dalla moglie Benidittina di 36 e daun figlio, Angelo Michele.

Questi ragazzini –servitori, a parteSartore e Lerma, due famigli con co-gnomi presenti nella onomastica comu-nale, hanno cognomi forestieri, probabilesegno di una provenienza esterna.

La vedova Maddalena Francesca Ri-tio, di 60 anni, vive sola, caso rarissimo,ed ha un famiglio di 21 anni, GiacomoAntonio Boggero e una servente di 19anni, moglie di Giacomo. Caso simile aquello della signora Zerbina anche se quinon ci sono proprietà immobiliari che nespieghino lo status signorile.

Raro esempio di famiglio adulto in

A lato, il piazzale del Castello

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mezzo ai famigli ragazzini è quello diVincenzo Parisso che ha 40 anni ed è ser-vitore della famiglia (esempio di famigliamultipla) di Caniggia Michele, agricol-tore di 51 anni con moglie di 44, un fi-glio di 11 e un nipote di 12. Con luivivono anche un fratello di 35 con mo-glie e 2 figli piccoli. In più è presente unabimba di due anni, di nome Anna Mariache viene presentata come figlia del ca-pofamiglia Michele Caniggia ma non disua moglie…

Ancora di più difficile lettura la situa-zione di un unico gruppo familiare ubi-cato a un miglio dalla Villa (con ogniprobabilità si trattava dell’attuale fra-zione di Carpeneto, denominata Ma-donna della Villa). Del gruppo fanno par-te un capellano di nome Guglielmo, dianni 65, un famiglio, Antonio Ferrando,di anni 62, e un heremita, di anni 42, dinome Pellegro da Cassinelle. Esempio difamiglia senza struttura.

Alla Cannona, località che, nel tempo,si è trasformata in una tenuta signorile,poi centro sperimentale della regione Pie-monte abita Stefano Cassone, agricoltoreche ha 71 anni, è uno dei grandi vecchidel paese e il patriarca della sua famiglia.Con lui ci sono il figlio Agostino, di 44anni, la moglie Margarita, di 46, e i loro5 figli di età compresa fra i 17 anni e 1anno: Antonio, Biaggio, Virginia, Ste-fano, Gio Batta, Pietro Paulo, Domenico.Hanno un famiglio di 32 anni Gio Batti-sta Ritio.

Alla cascina di sua proprietà vive GiòTerragno di 51 anni con la moglie Mariadi 32 da cui ha avuto 6 figli di 10, 7, 6, 5,4, 2 anni. Risulta inclusa nel nucleo fa-miliare la sorella del capofamiglia, ve-dova di 57 anni con 2 figli di 27 e 20 an-ni, C’è anche un famiglio, Battistino Gar-rone di 16 anni.

Alla Cassinetta , cascina non lontanadalla Villa, vive la famiglia Parodi: il ca-pofamiglia ha 30 anni, la moglie 24 ehanno 5 figli. Fanno parte del gruppo fa-miliare un famiglio di 45 anni di nomePietro Lanza, con moglie trentenne dinome Catta e il figlio Lazzaro di 1 anno.C’è anche un altro famiglio Giò Parodi,di 18 anni.

Forse l’ esempio più complesso di fa-

miglia multipla ed estesa si verifica allacascina .. Lonchino (Ronchino nellemappe catastali) dell’ill.mo sig.Marchesedove abitano Gio Batta Bruzzo, massarodi 34 anni, la moglie Zanina di 36 anni, iloro due figlioletti, due fratelli e una so-rella di Gio Batta. Uno dei fratelli ha unamoglie, Hiacinta e un figlioletto di unanno. A servizio ci sono due famigli chesono poco più che bimbi di 9 e 12 anni. Sichiamano Giuseppe Napoli e Michele,vengono rispettivamente da Ovada e Cre-molino.

Le serventiNello Stato delle anime stilato con

cura e precisione toponomastica da donBeccaria le donne non esistono di per séma solo per il ruolo familiare: figlie, mo-gli, sorelle, vedove. L’unica possibilità diavere uno status personale è fare la ser-vente o la nutrice. Purtroppo la richiestadi serventi era minima. Su 875 anime in-ventariate risultano esserci solo 11 ser-venti e 1 nutrice.

Doveva essere un lavoro legato allacura della casa e delle persone che gode-vano di una buona situazione familiare.Inoltre il lavoro continuava nel tempovisto che molte di loro sono avanti neglianni e l’età avanzata non sembra costi-tuire un limite.

Non risultano serventi che vivanofuori dal concentrico del paese.

E’ servente del maestro di scuolaAlberta Bartolomea, di anni 54.

Il maestro in questione Pietro France-sco Bava ,di anni 40, non risulta averefamiglia né a carico né alle spalle.

Come già annotato ha una servente laricca signora Francesca Zerbina. Si chiama Antonina ed ha 30 anni.

In tutta la comunità c’è una sola nu-trice: ha 40 anni, proviene da Rossi-glione, vive al servizio di una famigliaformata da 6 fratelli tre dei quali già spo-sati e con prole e tre celibi. L’età dei fra-telli è compresa tra i 41 e i 13 anni. Nonci sono genitori e, forse, la nutrice po-trebbe essere in famiglia da anni…

Nel gruppo familiare dell’ archibu-giere Giuseppe Bianchi, di 35 anni com-pare Bernardina, di anni 67, vedova delfu Bartolomeo Terragno. Poichèl’archibugiere vive solo, Bernardina po-trebbe essere aiutante in casa ma in realtàdon Beccarla non attribuisce alla donna,per altro avanti negli anni, nessuna quali-fica lavorativa.

E’ servente nella famiglia di ManfrinoFerraro, agricoltore di 56 anni con mo-glie e due figli una ragazza di 14 anni dinome Anna Lancia. L’età per noi adole-scenziale era, per quei tempi, già un’età damarito, che iniziava verso i 13 anni oanche un po’ prima in quanto coincidevacon la pubertà. Curiosamente l’età per laprima comunione poteva coincidere, gros-so modo, con l’età del matrimonio!

I luoghiCostruito sulla sommità di una col-

lina, Carpeneto ha mantenuto nel tempoil suo impianto di borgo medievale. Perquesto non ci è difficile seguire don Bec-caria nel giro della benedizione delle caseperché, a parte alcuni toponimi che nonsi sono conservati, i riferimenti topono-mastici sono gli stessi.

Carpeneto ha quattro straded’ingresso a cui nel Medioevo corrispon-devano due porte principali verso sud everso nord e due postierle (porte seconda-rie) verso ovest e verso est. Don Beccariaalla fine del ‘600 parla di porte a nord e asud del paese.

Il parroco inizia il suo giro di benedi-zioni partendo dalla porta sud dove si tro-vava e si trova la chiesetta di san Bovo.

Negli Statuti di Carpeneto, fatti risa-lire al XV secolo, si parla del borgo di sanBovo ma non si dice nulla della chiesache, nel 1600, doveva essere in pessimo

In basso, il pozzo nella zona disant’Alberto

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stato visto che Monsignor Beccio, in vi-sita apostolica ordina che vi siano ese-guiti lavori di manutenzione …(16) E nel1634 la cappella rischia di essere abbat-tuta a causa del degrado. Cosa che nonavverrà e, anzi, agli inizi del 1700, saràtutto un fervore di lavori per abbellirla.(17)

Quindi si sposta ad ovest nel borgochiamato santa Barbara, che conserva an-cora lo stesso nome. Non c’ è memoria diun qualche manufatto devozionale legatoal culto della santa ma la definizione è ri-masta tale e quale. La porta a nord si apri-va verso un territorio che aveva comepunto di riferimento la cappella di sanGiorgio. La cappella, già presente negliStatuti comunali, si trova a nord-est delpaese. Per molto tempo fu parrocchiale, ilterreno circostante era adibito a cimiterodella comunità. Con la costruzione di unanuova parrocchiale all’interno del paesela chiesetta ha iniziato a decadere.L’aspetto attuale denota caratteristiche ti-piche dell’ architettura cinquecentesca,con pronao, tetto a capanna e piccolocampanile.(18)

Procedendo sul lato esterno don Bec-caria arriva alla benedizione delle casedel borgo sant’Alberto. Il borgo di san-t’Alberto è già presente negli Statuti Co-munali e la Chiesa è certamente esistentenel 1610, se pur in pessimo stato, tantoche Monsignor Beccio nella visita apo-stolica di quell’ anno fa presente che cisono evidenti condizioni di degrado doveera ubicata la chiesetta dedicata al santo.Migliorano le condizioni della chiesettanei successivi due secoli quando nel 1883l’Amministrazione Comunale per allar-gare la strada provinciale per Rocca Gri-malda ne ottiene la demolizione con lacostruzione poco distante di una nuovachiesetta in posizione più favorevole allacircolazione dei veicoli.(19)

Entro questi limiti il paese si svi-luppa(va) con un andamento fusiforme

interrotto dalla mole del Castello. Sottoil castello un elementare ricetto(20) a cuis’addossa il borgo di Polcevera, che so-vrasta borgo santa Barbara. Da una portaall’altra (direzione nord-sud) si sviluppail centro del paese che, al tempo di donBeccaria racchiude le botteghe artigianeindispensabili alla vita della comunità. Cisono il sarto, il barbiere, il fabbro ferraio,il notaio, il chirurgico, il prete. Appena aridosso delle mura del castello (maesterno rispetto alle mura stesse) c’ è ungruppo di case che doveva costituire il ri-cetto. Tra il ricetto e il borgo santa Bar-bara, in declivio stava e sta il borgo diPolcevera. Lì c’erano le abitazioni e lastalla del cavallaro e del mulattiere. Al-l’interno delle mura del castello e pocodistanti da esso ci sono alcune abitazionirustiche chiamate secondo tradizione“arset”, ricetto( 21). Don Beccaria le defi-nisce “sopra il ricetto” e non il ricetto.Con molte probabilità il toponimo ha su-bito uno spostamento semantico, spo-stando la definizione da fuori a dentro lemura del castello.(22) Rimangono non ve-rificati tre toponimi utilizzati da don Bec-caria: il recinto dei Fallabrini, la casadella Bertolotto, la terra della contradadel Ponte. Mentre le prime due defini-zioni potrebbero essere ragionevolmenteconsiderate contigue a borgo san Bovoper la terza è difficile avanzare ipotesi.Potrebbe aiutare l’esistenza del toponimoil fosso all’esterno del concentrico in unluogo in cui non esiste più un fosso bensìuna piazzetta, costituita da un terrapieno.Però è pura ipotesi. All’ interno del paesedon Beccaria annette la casa canonica ericorda pure la colombara del castellodove vive in solitario il falegname Baci-calupo.

Concluse le benedizioni in paese, donBeccaria si sposta verso il borgo dellaVilla (ora frazione di Madonna dellaVilla) e non dimentica le cascine isolate.

Alla Villa rileva la presenza di una chiesacon relativo cappellano, poi annota inomi delle cascine isolate. Di alcune nonriconosciamo i nomi perché cambiati neltempo, di altre viene dato solo il nomedel proprietario, per cui, cambiato il pro-prietario, ci sfugge la possibilità di rico-noscimento. Alcune però sono immutatenel tempo; si tratta delle cascine Can-nona, Campazza , Cascina Vecchia (dovepermane, come allora, il cognome Gavi-glio), la Cascinetta, la Cravaresa, il Lon-chino (Ronchino nelle mappe succes-sive).

I cognomiI cognomi presenti nel paese(23) al mo-

mento del rilevamento sono 92. Il co-gnome che si riscontra in ben 13 nucleifamiliari è Boggiero seguito da Terragnocon 9 nuclei, Previdino (ora Paravidino)e Tortonese con 8, Ritio (ora Rizzo) con7, Barba con 6, Ivaldo (ora Ivaldi) e Fer-raro con 5, Bobbio, Beccaria, Arcagno,Botero con 4, Zerbino, Onetto, Falla-brino, Parodi, Magnone, Bissone, Berto-lotto con 3, Sartore, Bruno, Carozzo,Parisso, Sant’Andrea, Orsino, Carosio,Grillo, Rossi, Levoratto (ora, presumibil-mente, Lepratto), Malatesta, Gaviglio,Alberti, Prato, Sutto, Lerma con 2 nucleifamiliari.

Corrispondono ad un unico nucleo fa-miliare i cognomi Bianchi, Vaccino (ora-Vacchino), Trabucco, Campastro, Grosso, Merlo, Brignetti, Romba, Perelli,Bozzino, Carlino, Bava, Piovera, Cas-sine, Frascinetta, Lanza, Cassone, Lan-cia, Gandino, Insulmone, Verdina, Ser-vetti, Ravegno, Bobbio, Masino,D’Ardoa, Chivella, Frattino, Prina, Bari-sone, Atello, Semporuola, Notte, Gagero,Pavese, De Agosti, Canonero, Bavaz-zano, Caniggia, Bacicalupo, Millano,Sardi, Martino, Radice, Merialdi, Rinal-done, Pesce, Caneva, Coltella, Piana,Certella, Areno, Pestarino, Peocione, Fer-rando, Rapetti, Bruzzo, Napoli.

Se si escludono alcuni cognomi moltoradicati sul territorio la maggior parte deicognomi è riferibile a nuclei familiaripoco o per nulla diffusi. Questo porte-rebbe ad immaginare una grande mobi-lità che poco si confà ad una comunità

A lato, Cascina “Era”, l’anticaaia del Castello

Alla pag. seguente, la tenutaCannona

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agricola che, per definizione, è forte-mente radicata sul territorio e di lenta in-novazione. Evidentemente fattori socio-politici più grandi legati alla precarietàdel periodo storico possono aver causatoquella che appare come un’anomalia.

Note(1) Si trattava precisamente del XIX conci-

lio ecumenico aperto da papa Paolo III nel 1545e concluso nel 1563 e chiamato così dalla cittàin cui si è svolto.

(2) G. Oddini, Il primo libro dei battesimidella Parrocchiale di Ovada, p. 146 in Urbs,anno IX, n. 34, Ovada 1996.

(3) Questi registri che, di per sé, avevano va-lore amministrativo e devozionale, diventano inalcuni casi documentazione di fatti estremi qualile epidemie di peste, che falciarono le comunitàdel tempo, come attestato dal Libro dei Mortidella Parrocchia di Lerma dove all’ 11 settembre1630 il parroco Giovanni Costa annotava: quicomincia una terribile pestilenza di Lerma chedurò fino al 17 Dicembre… (vedi G. Ferrando,1630, La peste di Lerma, p.67 sta in Urbs, AnnoIII, n.2, Ovada1990.

(4) I 5 precetti della Chiesa sono:1) partecipare alla messa nelle feste coman-

date2) confessarsi almeno 1 volta all’anno3) comunicarsi almeno a Pasqua4) santificare le feste comandate5) osservare digiuno e astinenza dalle carni

nei giorni di penitenza.(5) L’estremo interesse di questo documento

scaturisce dal fatto che gli antichi sacerdoti do-vevano annotare nome e domicilio dei propriparrocchiani, infine suddividerli per famiglie.Ne traspare quindi un affresco della vita di queitempi con i nomi dei parrocchiani delle contradee delle località dove abitavano i nostri antenati.(E.e G. Rapetti, Lo stato delle anime a Morsasconel 1678 p. 149, Urbs ,Anno XII, n.3/4, Ovada1999.)

(6) Valerio Castronovo, Il Monferrato nellelotte per l’ egemonia in Europa, p.42 in AA.VV.Monferrato, identità di un territorio, Cas sa di ri-sparmio di Alessandria, Alessandria 2005.

(7) L.Barba, Appunti per una storia di Car-peneto, p.88, Urbs, annoX, n.3, Ovada 1997.

(8) Le paci di Utrecht e Rastadt sancirono la

fine della guerra di successione polacca (1702-1713/14) in cui si sono affrontati Francia, Casti-glia, Baviera, da una parte, e Impero, Inghilterra,Austria, Province Unite, Savoia dall’altra. Termi-nato il conflitto, che ebbe tre fasi di lotta, ai Sa-voia vennero assegnati la Sicilia (scam biata nel1720 con la ben più povera Sardegna), tutto ilMonferrato, parte della Lomellina e la Valsesia.

Nel complesso si sanciva la fine del predo-mino spagnolo in Italia in favore dell’Austriache, nel 1734, al termine della guerra di succes-sione polacca (1733-1735 ) cederà a Carlo III diSpagna la Sicilia. Il duca di Savoia si fregerà deltitolo di re di Sardegna fino all’ unificazione delRegno d’Italia nel 1861.

(9) Fuori percentuale rimangono otto per-sone equamente divise fra le diverse fasce.Manca infatti la possibilità di leggere l’età perabrasioni del testo.

(10) Eva Cantarella, Non cercate a Roma ipadri di oggi da Il Corriere della sera.p.31, 8Aprile 2013.

(11) Quanto all’omogeneità culturale bastapensare che nell’Europa del XVII secolo granparte della popolazione non sapeva né leggerené scrivere e anche nelle città solo 1/3 della po-polazione era alfabetizzato.

(12) Come non ricordare Apollonia, perso-naggio del film Heimat,di Edgar Reitz, in cui sinarra la storia di un villaggio agricolo tedesco,Schabbach, attraverso la storia, lunga un se-colo,della famiglia Simon ?

(13) Nel 1473 i fratelli Filippo ed Antoniodel Pomo d’oro, chiamati Tortonese, chiedevanoin feudo i beni del castello detenuti sub titulo pi-gnoraticio. Assieme al feudo di Carpeneto otte-nevano censi, fitti, redditi, pedaggi, forni,pascoli, boschi, acqua. Ma già nel 1480 di unaparte del feudo veniva investito Urbano Avoga-dro di Valdengo, a cui seguiva nel 1484 un attodi investitura per la famiglia Ripa di Livorno(L.Barba, Appunti per una storia di Carpeneto,p. 84 Urbs, Anno X, n, 3/4, Ovada 1997)

Non sappiamo che legami ci fossero tra iTortonese feudatari del XVI secolo e i Tortonesedel 1678, quando le famiglie Tortonese presentiin paese erano otto. C’erano i Tortonese che vi-vevano di rendita con il figlio notaio e i Torto-nese che facevano gli agricoltori e avevanomolti figli senza qualifica.

(14) G. Ferraro, Glossario monferrino, Fer-

rara 1881. (15) Dà un’ interessante documentazione del

fenomeno in zona G. Vacca in Uvallare, santua-rio dei 5 paesi, Urbs, Settembre – Dicembre2011, pp.183/188.

(16) A. Rathschuler, Le chiese di Carpe-neto, in Per una storia di Carpeneto, vol. II, Car-peneto 1998 pp. 29/44.

(17) A. Rathschuler, Cappella di san Bovoin Per una storia di Carpeneto, pp. 38/40 vol.II,Carpeneto 1998.

(18) A. Rathschuler, Cappella di san Gior-gio, pp.34/35 in Per una storia di Carpeneto, p.37 vol. II, Carpeneto 1998.

(19) A. Rathschuler, Cappella di sant’ Al-berto, pp, 37/38 in Per una storia di Carpeneto,p. 37 vol. II, Carpeneto 1998.

(20) Sul ricetto di Carpeneto: L.Barba,Carpeneto: ambiente naturale e trasfor-mazioni antropiche attraverso lo studio dei to-ponimi , p. 37, Urbs, Anno XI, n. 1-2, Ovada1998.

(21) All’interno del recinto del castello è si-tuato il corpo di fabbrica a destinazione preva-lentemente rustica come suggeriscono ladistribuzione e l’impianto realizzato in pietramee laterizio. La struttura viene fatta risalire alXVII secolo.( Soprintendenza per i beni archeo-logici del Piemonte, dattiloscritto s.d. p. 7)

(22) Per un’interessante documentazione suiricetti locali vedi C. Cassano - N. Garofalo, Ilricetto di Lerma, pp. 108/116, Urbs, anno IV n.4, Ovada 1991.

(23) Don Beccaria pone i famigli e le ser-venti nello stesso nucleo familiare del datore dilavoro ma, poiché questi lavoratori vengono giu-stamente presentati con il loro cognome, in que-sto elenco li consideriamo indipendenti dalnucleo familiare in cui sono inseriti.

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In un giorno non precisato, ma certa-mente a Gennaio del 1934, un missiona-rio - dopo un faticoso cammino lungo unapolverosa e malagevole carrabile che sol-cava la savana dell’altipiano del Tanga-nika(1), in quegli anni ancora una terra dipionieri e di evangelisti coraggiosi - rag-giunse un nucleo di capanne in una zonacollinosa: era Kilimba, un povero villag-gio a circa 25 chilometri ad ovest di Kurionel Distretto di Kondoa-Irangi. Il missio-nario era Padre Fortunato Fornara(2) chedal 4 gennaio di quell’anno aveva presopossesso della vecchia stazione missiona-ria di Kurio aperta, nel 1908, dai Padridello Spirito Santo(3) e da loro abbando-nata pochi anni dopo.

L’agglomerato di Kilimba, abitato da“boscimani”(4) della tribù dei Wasandawe,dediti alla pastorizia ed alla cultura dicampi dai magri raccolti, era composto dapoche capanne, sparse tra piante di felci edeuforbie, e da una fatiscente costruzioneche un tempo aveva ospitato una scuola.Padre Fortunato non poteva certo imma-ginare che un giorno quel misero villag-gio, grazie ad una propulsiva e multiformeattività missionaria, non solo avrebbeavuto uno sviluppo economico, demogra-fico ed edilizio ma avrebbe assunto ilnome di Ovada a ricordo del luogo di na-scita di S. Paolo della Croce, fondatoredella Congregazione dei Padri Passionistia cui l’evangelizzatore apparteneva.

Tutto era iniziato il 26 novembre 1933quando da Pianezza, comune della cinturadi Torino sede di un grandeSantuario dedicato a SanPancrazio(5), officiato daiPadri Passionisti, partì unnucleo di giovani missio-nari destinato a propagarela fede cristiana in Tanga-nika, all’epoca protetto-rato inglese. Il piccologruppo, composto da PadreFornara, Fratel GiovanniAndreini, Padre DanieleDelle Donne, Fratel Ro-berto Pellizzeri, PadreLeone Ferraresi, PadreDisma Giannotti e PadreGiovanni Ivaldi era direttoa Napoli per imbarcarsi sul

piroscafo di linea “Mazzini”. Ma invecedi raggiungere direttamente il porto napo-letano i Padri missionari vollero fare unabreve visita in Ovada alla Casa natale delloro Santo Fondatore, da pochi anni acqui-sita al patrimonio della Congregazione edadeguatamente restaurata su iniziativa diPadre Stanislao dell’Addolorata.(6)

Così descrive la vicenda Padre For-nara: “[I Missionari] Giunsero alla sta-zione ferroviaria di Ovada alle sei delpomeriggio e trovarono una sorpresa: adattenderli c’erano le autorità civili e reli-giose, tutti i Passionisti del vicino Santua-rio delle Rocche (Molare), ed una enormefolla di ovadesi. Furono accompagnatitrionfalmente alla Casa di S. Paolo, e, ilgiorno dopo, 27 novembre, fu celebrata lafesta del solenne addio. Verso le ore 19 unfolto gruppo di cittadini, assieme a tutte leautorità, venne a prelevare i missionaridalla casa del fondatore e li condusse pro-cessionalmente alla grande chiesa parroc-chiale già gremita di popolo.(7)

Si tenne una funzione liturgica so-lenne con l’esposizione del SantissimoSacramento. P. Disma Giannotti pronun-ciò il discorso di circostanza. Dopo la ce-lebrazione i missionari vennero ricondottiprocessionalmente alla Casa di S. Paolodella Croce, dove le autorità civili offri-rono un pranzo memorabile. Fu proprioalla fine di quel lauto pranzo che il Pode-stà di Ovada(8), felicitandosi con i missio-nari, propose loro, a nome di tutti i cit-tadini, di fondare in Africa una stazione

missionaria con il nome di Ovada. Laproposta venne accettata con entusiasmoe il P. Provinciale, P. Stanislao Ambro-sini, a nome dei missionari partenti, pro-metteva solennemente di realizzare al piùpresto possibile il progetto.”

I propositi dei Padri Passionisti eranoammirevoli ma le fondazioni di nuovemissioni in Tanganika, nella zona di Do-doma loro affidata, nel 1933. dalla Con-gregazione di Propaganda Fide, richie-devano un impegno non trascurabile acausa delle modeste risorse di personalee fondi disponibili. D’altra parte i primitentativi di cristianizzare le coste ed i ter-ritori interni di quel paese africano risali-vano solamente agli ultimi decenni del- l’Ottocento grazie ad una iniziativa dellaCongregazione francese dello SpiritoSanto che, nel 1868, dopo alcuni contatticol sultanato di Zanzibar(9), si era stabi-lita a Bagamoyo. Questo centro abitato,posto sulla costa dell’Oceano Indiano apoche decine di chilometri a nord di DarEs Salaam, sino alla prima metà del XIXsecolo era una insignificante località ovela maggior parte dei residenti era compo-sta da pescatori ed agricoltori ma, con losbarco dei primi padri predicatori, era di-venuta una importante base per le mis-sioni cattoliche e protestanti. Queste ulti-me, in particolare, potevano contare sul-l’aiuto fornito dalla “Società tedesca perla colonizzazione”, sodalizio nato nel1884 con lo scopo di favorire le mire co-loniali della Germania . Penetrazione ra-

dicatasi grazie a“trattati” con capi-tribù locali ed allafondazione dellaDeutsch AfrikanisheGesellschaft [societàtedesco africana] checonsentirono al Can-celliere Otto von Bi-smark, previo assensodella Gran Bretagna edel sultano di Zanzi-bar, di proclamare ilTanganika colonia te-desca. Però, in seguitoalla disastrosa scon-fitta subita dalla Ger-mania nella Prima

Ovada d’Africa, una sorella dimenticatadi Pier Giorgio Fassino

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Guerra Mondiale, questa colonia, parteintegrante dell’Africa Orientale Tedesca,era stata assegnata all’Inghilterra in am-ministrazione fiduciaria.

Sicché il Padre Provinciale, Ambro-sini, conscio dei numerosi problemi cheassillavano i propri missionari, lasciatotrascorrere un congruo periodo di tempo,verso la metà del 1936, sollecitò PadreFornara perché avviasse l’apertura di unamissione in una località che avrebbe do-vuto assumere il nome di Ovada, secondola promessa fatta a suo tempo. Il Missio-nario, rimosse le incertezze, decise dicreare una succursale della missione diKurio proprio a Kilimba mentre, conte-stualmente, avrebbe tentato di cambiareil nome di quella sperduta località ride-nominandola Ovada. Tra l’altro, questanuova stazione avrebbe abbreviato dimolti chilometri il percorso che settima-nalmente compivano i fedeli dei villaggidei territori ad Ovest di Kurio per adem-piere al precetto festivo.

Tuttavia, prima di procedere al cam-bio di denominazione, volle sentire il pa-rere dei fedeli e pertanto invitò tutti i capifamiglia ed i maestri catechisti di Ki-limba ad intervenire ad una riunione nelcorso della quale sarebbero state preseimportanti decisioni.

Infatti, durante l’adunanza, rivelò aifedeli le proprie intenzioni dicendo loro:

“Carissimi Cristiani, sapete quanto siagravoso per voi, le vostre donne, gli an-ziani e i bambini, recarvi allaMissione di Kurio per adempiereil precetto festivo e ricevere i sa-cramenti. Per rendere meno fati-cosa la vostra vita di buonicristiani, ho pensato di trasfor-mare questa bella e spaziosascuola in chiesa permanente, conl’altare stabile, gli ornamentiadeguati, un confessionale fisso.Sistemato tutto questo, verrò quialla seconda domenica di ognimese per tutto l’anno, anche du-rante il periodo delle piogge; ce-lebrerò la messa e ascolterò leconfessioni incominciando al po-meriggio di venerdì, dando cosìtempo a tutti.

Le messe saranno due: alle

ore sei per coloro che poi dovranno con-durre al pascolo le loro bestie e per co-loro, uomini o donne, che dovrannoritornare a custodire la casa, e alle oreotto per tutti gli altri, come si fa ogni do-menica alla missione di Kurio.”

Gli indigeni, pur dovendo contribuiremanualmente alla costruzione di unanuova scuola dotata di tre grandi aule, nefurono entusiasti. E parimenti felici fu-rono quando Padre Fortunato annunciòche la località avrebbe assunto il nuovonome di Ovada. Anzi, per timore di su-scitare qualche opposizione, non rivelòsubito il vero motivo del cambio di deno-minazione poiché già taluni villaggi cir-costanti portavano il nome di potenti clanfamiliari.

Circa venti giorni dopo, al ritorno inquella località, con grande sorpresa ilMissionario trovò scritto sulla paretedella vecchia scuola prospiciente la ca-mionabile, a caratteri cubitali, OVADAper cui non solo tra gli abitanti del luogoma anche tra i viandanti e tra i conducentidei rari autocarri in transito sulla rotabilesi diffuse, in poco tempo, il nuovo nomedel villaggio.

A questo punto lasciò trascorrere al-cuni mesi e quando si rese conto che ilnome della località era sufficientementedivulgato, in occasione della festività de-dicata a S. Paolo della Croce, rivelò che“Ovada” era il nome del luogo che avevadato i Natali a S. Paolo e con sua grande

gioia notò che “... tutti rimasero contentie soddisfatti.” (P. Fornara op. cit.)

Tuttavia l’iniziativa ebbe una battutad’arresto poiché Padre Fornara venne im-provvisamente trasferito a Dodoma -centro importante ma, nel 1938, ancoraprivo di un missionario residente e di unedificio di culto cattolico - onde aprire inquel sito una nuova stazione missionaria.

Tra l’altro, Dodoma doveva la sua ri-levanza alla propria centralità rispetto alterritorio del Tanganika, tanto da essereun importante crocevia delle piste e ca-mionabili che collegavano le maggiorilocalità periferiche al centro del -l’altipiano e quindi del Paese. Inoltre eraattraversata anche dalla ferrovia colle-gante Dar Es Salaam con Kigoma sulLago Tanganica sicché, nel 1964, verràprescelta come capitale dell’attuale Tan-zania. Quivi padre Fortunato avviò laprima missione cattolica e gettò le basi diuna comunità che consentirà al VescovoGeremia Antonio Pesce (10), nato all’om-bra del Santuario della Madonna delleRocche, di innalzare la più bella e la piùgrande cattedrale della nazione e dive-nirne il primo Vescovo.

Ma a Dicembre del 1938, Mons. Sta-nislao Ambrosini, divenuto nel frattempoprefetto apostolico, designò Padre Fortu-nato come superiore della Missione diOvada e dispose il suo trasferimento inquel villaggio.

Padre Fornara accettò con grande fe-licità; si mise in cammino con Fr.Cassiano e giunse ad Ovada il 9Gennaio 1939: giorno che il Mis-sionario considerò come data uf-ficiale della fondazione dellanuova stazione missionaria diOvada d’Africa.

Così Padre Fortunato de-scrisse la località in cui avrebbedovuto svolgere la propria mis-sione:

“Oltre ad essere un fondovallemalsano (durante la stagione dellepiogge diventava un acquitriniocon sinfonia notturna di rane erospi), a pochi metri dalla nostracapanna scorreva un torrentaccio,e un altro bagnava, durante lepiogge, la parte opposta, dove si

Alla pag. precedente, un gruppodi Padri Passionisti in partenzaper le missioni del Tanganica

In basso, un guado nei pressi diOvada d’Africa

Nella pag. a lato, l’edificio dellachiesa realizzato dai MissionariPassionisti ad Ovada (Tanganica)

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trovava la scuola. La strada camionabileche conduceva a Singida, e che attraver-sava tutta la missione, passava tra lachiesa e la nostra abitazione. Era assolu-tamente necessario trovare un’area piùedificabile e salubre. La trovai a pochecentinaia di metri, a metà collina. Fu lostesso maestro Otto a indicarmela e conlui la misurai perché desideravo poter di-sporre di almeno trenta acri (11) : quanto,generalmente, il governo inglese conce-deva agli europei. Il terreno era disbo-scato e sufficientemente vasto; solo unapiccola parte era occupato da un fore-stiero, che proveniva dalla vicina tribùWanyaturu, con un campicello e la suacapanna. Segnati i confini con mucchiettidi sassi, raccomandai al maestro di pren-dere ufficialmente e provvisoriamentepossesso di quel terreno, perché nessunaltro potesse farlo prima di noi”.

Tuttavia Padre Fortunato ritenne op-portuno, per i futuri sviluppi della Mis-sione, di acquisire nella sua totalità quelterreno particolarmente adatto per erigeredei fabbricati e pertanto - con l’aiuto delcommissario britannico e con l’esborso diuna somma di denaro - convinse il Wanya-turu a spostarsi altrove. Cosa che costuifece senza frapporre indugi prima che ilMissionario - per un ripensamento - riti-rasse la propria offerta.

Ma i lavori su tale superficie non pote-rono iniziare con quella sollecitudine cheil Nostro si era prefisso perché lo scoppiodella guerra tra Italia ed Inghilterra (10giugno 1940) frappose non pochi ostacoli.Infatti l’Ufficio di Dar Es Salaam del-l’Amministrazione britannica per il Terri-torio (Land Office) come prima misurabloccò l’intestazione del terreno alla Mis-sione. Inoltre limitò fortemente i movi-menti di Padre Fortunato cui venneingiunto di non allontanarsi da Ovadanemmeno per visitare le scuole perifericheo gli ammalati.

Soltanto mesi più tardi, allentatasi latensione provocata dal conflitto, si pote-rono iniziare i lavori per la costruzione dei

nuovi fabbricatidella Missione.

I lavori co-minciarono conla costruzionedi un presbite-

rio con annessa sacrestia in mattoni cottie tetto in lastre di zinco per proseguire conil corpo della chiesa realizzata più sempli-cemente con pali, fango e tetto di paglia.Attività che proseguì con la realizzazionedi una casa per i Padri, una scuola ed unacucina. Il tutto in una salubre posizione,lontana dalla zona paludosa, dalla polveredella rotabile e con vista sulla pianura esulla foresta.

Questo segnava il raggiungimento diun importante traguardo, però occorre sot-tolineare che l’attività missionaria passio-nista non si limitava alla sola predicazionema si estendeva all’assistenza sociale, sa-nitaria e scolastica. Generalmente l’iniziodella costruzione del primo edificio dellanuova stazione missionaria coincideva coni primi aiuti agli indigeni maggiormentebisognosi come i bambini e gli anziani.Aiuti ai quali facevano inevitabilmente se-guito gli interventi sanitari in quanto ilmissionario forniva ai suoi assistiti medi-cine giunte dall’Italia e consigliava curesecondo le sue cognizioni ed esperienze inmateria. Pertanto la missione assumeva lafunzione di un dispensario che, col passaredel tempo, grazie al provvidenziale arrivodelle suore missionarie - l’aspetto maternodell’apostolato - si sarebbe trasformato, inmolti casi, in ospedale.

Un’altra importante valenza della pre-dicazione missionaria era costituita dallafondazione di scuole nelle quali venivanodati insegnamenti caratterizzati da un pro-fonda impronta cristiana. Nella diocesi diDodoma questo aspetto dell’attività mis-sionaria era particolarmente curato grazieall’opera infaticabile di Monsignor Pesce.Sicché, nel 1957, quando il governo di Ju-lius Nyerere, nazionalizzò tutte le scuoledel paese, questo Vescovo consegnò al-l’am ministrazione governativa 63 scuoleelementari, 7 medie ed una secondaria.Passaggio di consegne avvenuto senzaparticolare traumi in questa diocesi poichéè notorio che Monsignor Pesce aveva, datempo, con singolare intuito e pre -

veggenza, sostituto il missionario con unindigeno alla direzione scolastica.

Tuttavia, per meglio completare il qua-dro dell’attività passionista in Ovadad’Africa e nelle altre missioni limitrofecome Bihawana o Farkwa, occorre ricor-dare anche l’attività formativa in campoagricolo degli indigeni che videl’introduzione o l’incremento di coltiva-zioni come la vite. Al riguardo basti ricor-dare ancora una volta il Vescovo molareseche, nel 1963, importò dall’Italia 200 pian-tine di vite e diede inizio ad una non tra-scurabile attività con positivi riflessisull’economia del paese.

Oggi la Diocesi di Dodoma è profon-damente diversa da quando la cattolicizzòPadre Fornara e la ereditò, come VicarioApostolico, Monsignor Pesce poiché ilclero è costituito da indigeni, intelligenti elaboriosi, che proseguono nel solco trac-ciato dai primi missionari passionisti.Questa circoscrizione ecclesiastica, a Feb-braio del 2011, quindi prima che venissesmembrata per dare origine alla nuovaDiocesi di Kondoa (12), su una popolazionedi circa due milioni di abitanti poteva con-tare su oltre trecentoquarantamila cattolici,trentanove parrocchie, settanta sacerdotidiocesani (34 sacerdoti religiosi e 36 fra-telli religiosi). Inoltre le Religiose addettealla cura di dispensari, ospedali, asili.scuole, e centri sociali erano ben cinque-cento mentre una quindicina erano i gio-vani seminaristi.

Anche il piccolo villaggio di Ovada ècompletamente mutato: la popolazione èaumentata di molte unità ed il censimentodel 2002 registrava - per la circoscrizioneamministrativa di Ovada - una popola-zione di 9.544 abitanti. La prima chiesa,innalzata nel 1942, venne rinnovata nell’anno 1951 e, dal 1982, per iniziativa delvescovo di Dodoma, Mons. Mathias Isuja,degno successore di Mons. Pesce, venneavviata la costruzione dell’attuale che, inun nuovo scenario urbanistico, si erge tracase dall’architettura europea e stradeasfaltate.

Attualmente la memoria di questa so-rella africana è messa in secondo pianodalle iniziative della Parrocchia di Ovadache col suo Gruppo Missionario del Borgocura una Missione in Burundi e dall’in-

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tensa attività dei Reverendi Padri Scolopii quali da diversi anni hanno aperto inCosta d’Avorio alcune missioni.

Attività significative che, per riflesso,dovrebbero spingere gli ovadesi a rinno-vellare i ricordi e rinsaldare i legami conquesta Sorella d’Africa non con vacuiproponimenti di circostanza ma con so-lidi aiuti.

Note(1) Tanganika: verso la fine del XIX secolo,

Inglesi e Tedeschi iniziarono a consolidare leloro penetrazioni nell’Africa sud-orientale. Per-tanto, a seguito degli accordi scaturiti dalla Con-ferenza di Berlino (1885), il Tanganika con ilRuanda e Burundi costituirono l’Africa Orien-tale Tedesca. Dal canto suo l’Inghilterra ottenne,oltre ad altri territori africani orientali, Zanzibarche divenne protettorato britannico. Dopo lasconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale,la Lega delle Nazioni divise i territori colonialitedeschi tra: Gran Bretagna (Tanganika, Togo,Nuova Guinea, gli arcipelaghi delle Bismarck edelle Salomone); Francia (Camerum); Sudafrica(Africa del Sudovest); Belgio (Ruanda e Bu-rundi); Giappone (isole Marianne e Caroline);Stati Uniti (isole Samoa). Solo dopo la fine dellaSeconda Guerra Mondiale, iniziò il processoche, nel 1961, portò il Tanganica alla piena indi-pendenza dal Regno Unito divenendo una re-pubblica. Nel 1963 anche Zanzibar ottennel’indipendenza per cui fu possibile costituire colTanganica una repubblica federale che, nel1964, assunse l’odierna denominazione di Re-pubblica Unita di Tanzania.

(2) Padre Fortunato Fornara: nato a Cameri(NO) il 23.08.1908, aveva professato il2.11.1926 ed era stato ordinato il 3.4.1932.Dopo una ventennale ed intensa predicazionemissionaria in Tanganika, svolse la propria atti-vità nei Santuari di S.Pancrazio a Pianezza edella Madonna delle Rocche a Molare rico-prendo, in vari periodi, gli uffici di superiore,vice superiore ed economo. Decedette in Molareil 12.01.1989.

(3) Padri dello Spirito Santo o Spiritani: ap-partengono alla Congregazione dello SpiritoSanto (Congregatio Sancti Spiritus sub tutelaImmaculati Cordis Beatissimae Virginis Ma-riae), istituto religioso maschile di diritto ponti-ficio fondato da Clade-Francois Poullart desPlaces (1679 - 1709). Questi, il 27 maggio 1703(festa della Pentecoste), si impegnò con altri do-dici seminaristi a formare gli aspiranti al sacer-dozio di povera estrazione sociale e per questomotivo aprì a Parigi un seminario intitolato alloSpirito Santo. Morì giovanissimo, ma la Con-gregazione ebbe un tale sviluppo che attorno al1732 iniziò a fondare missioni in Cina, Ton-

chino, Siam, Cocincina, Canada e Guyana fran-cese. Col passare del tempo l’attività missiona-ria si estese in Europa, Americhe, Australia,isole dell’Oceano Indiano e Africa.

(4) boscimani: San o Boscimani è un gruppoetnico nomade dell’Africa australe che attual-mente vive nel deserto del Kalahari. Circa 1500anni fa le terre dei Boscimani vennero invase datribù Bantù, dedite alla pastorizia e all’agricol-tura, alle quali, negli ultimi tre secoli, si aggiun-sero progressivamente Boeri e Inglesi. Il termineboscimani deriva da bushmen ossia “uominidella boscaglia”.

(5) San Pancrazio: secondo gli Acta romaniera un orfano di origine sira o frigia che subì ilmartirio a Roma sotto Diocleziano. Sin dal V se-colo, il culto di S. Pancrazio era già presente aRoma e si diffuse anche in Inghilterra perlo-meno dal tempo di Agostino di Canterbury (de-ceduto nel 604).

(6) Padre Stanislao dell’Addolorata: nel-l’Archivio Storico dell’Accademia Urbense èstata recentemente rinvenuta la lettera – datata12 marzo 1930 – con la quale P. Stanislao, Con-sultore della Congregazione dei Padri Passioni-sti, informava il Podestà di Ovadasull’imminente inizio dei lavori di abbellimentoe ristrutturazione della Casa natale del Santo.

(7) Nell’anno 1933 la Parrocchia di Ovadaera retta da Don Felice Beccaro da Grognardo,destinato a divenire Vescovo di Nuoro dal 3Marzo 1939 e Vescovo di S. Miniato dal 1947.

(8) Podestà di Ovada: all’epoca era il Prof.Emanuele Alberto Delfino (1928 - 1933), pri-mario dell’Ospedale Civile di Ovada. Nel pe-riodo gestito dall’Amministrazione da Luipresieduta venne costruito il Ponte S. Paolo ededificata la Colonia Solare in Pizzo di Gallo.Inoltre, dal 1934 e per diversi anni, il Prof. Del-fino esercitò la sua attività di medico anche nel“Policlinico Ovadese” da Lui creato con alcunimedici tra i quali il Dott. Eraldo Ighina, in unapalazzina di Corso Italia.

(9) I primi religiosi francesi erano giunti aZanzibar il 22 dicembre 1860 e, avendo ottenutola protezione del sultano di tale località, la utiliz-zarono come base di penetrazione in Tanganika.

(10) Vescovo Geremia Antonio Pesce: nac-que a Rocche di Molare il 2 Agosto 1908; pro-fessato nella Congregazione dei PadriPassionisti il 28 Agosto 1927 e ordinato sacer-dote il 24 Settembre 1932. Ricoprì importantiincarichi nell’ambito della Congregazione comeDirettore del Seminario Minore di Basella e Pro-

vinciale per l’Italia Settentrionale sino a quandovolle dedicarsi interamente alle Missioni. Desti-nato in Tanganika, nel 1951, come Vicario Apo-stolico a Dodoma, fu consacrato vescovo il15.7.1951 e venne innalzato a primo episcopodi quella importante località dal 1953. Congrande dedizione curò l’impianto delle scuolecattoliche, l’incremento delle vocazioni indi-gene, la formazione del clero locale e la vita re-ligiosa femminile. Morì a Genova-Quarto nelMonastero delle Passioniste il 22.12.1971 ma lesue spoglie vennero traslate a Dodoma ove ri-posa nella magnifica cattedrale di cui ne propu-gnò la costruzione.

Motto episcopale “In verbo tuo laxaborete”.

(11) acro: unità di misura di superficie cor-rispondente a mq 4.046,87.

(12) Kondoa: la nuova Diocesi di Kondoa,suffraganea della Sede Metropolitana di Dar-Es- Salaam, ha: una superficie di 13.210 kmq.; unapopolazione di 541.345 individui di cui circa46.000 cattolici; 9 parrocchie; 15 sacerdoti dio-cesani, 87 religiose e 4 seminaristi (dati al12.03.2011).

Benedetto XVI ha nominato primo Vescovodi Kondoa, il Rev. Rev.do Bernardine Mfum-busa, che, tra i numerosi e prestigiosi incarichisempre assolti in modo encomiabile, è stato Vi-cario alla Parrocchia di Ovada.

BibliografiaGeremia Antonio Pesce, VITA MISSIONA-

RIA NEL TANGANIKA, Editrice Nigrizia – Bo-logna – 1967 (II edizione).

P. Fortunato Fornara, OVADA AFRICANA -Vita in missione - Storia e realizzazione di unasolenne promessa, Centro Studi Stampa Passio-nista - 1984.

Vanessa Cartasegna, FIABE e VANGELO –Le missioni dei Padri Passionisti in Tanzania,Tesi di laurea presso l’Università degli Studi diGenova – Facoltà di Lettere e Filosofia. – AnnoAccademico 1998 – 1999.

RingraziamentiUn sentito ringraziamento vada a Padre

Diego Menoncin, Superiore Emerito del Santua-rio della Madonna delle Rocche, per la preziosadocumentazione fornita.

A lato, cerimonia religiosa nellospiazzo antistante la prima chiesaeretta ad Ovada dai Passionisti

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Dopo il pranzo partimmo per la no-stra destinazione finale, Ovada

Il tratto peggiore della strada eraquello in cui le erbacce erano cresciuteper circa 20 cm in altezza

Sotto questo strato di erbacce c’erano2 solchi paralleli profondi almeno 10 cm-e larghi 5

Credo che Jack abbia guidato perquel tragitto seguendo l’istinto perchéera impossibile vedere il terreno.

Oltre questo sentiero l’erba era dinuovo bassa, accorciata dal bestiame egiungemmo ad un largo spiazzo con ununico e ombroso eucalipto sotto il qualepiantammo la nostra tenda

Lì accanto c’era l’ampio e sabbiosoletto di un fiume, con un rivolo d’acquache scompariva sottoterra. Ci fermammolì per quattro giorni, durante i quali Jackmandò le sue guide per capire se nei din-torni si erano manifestati nuovi casi dimalattia del sonno.

Potevamo fare davvero poco ed eracosì caldo, così lessi molto, dormimmonel pomeriggio e la sera passeggiammo.Durante una delle nostre passeggiateudimmo una canzone giungere da ungruppo di case. Questi gruppi di caseerano spesso circondati da recinti d’erbaper difenderle dagli animali selvatici.Oltre un recinto potevamo scorgere testemaschili sparire e riapparire. Ciascunodi loro aveva un bastone ed erano postiin cerchio, colpivano qualcosa in mezzoa loro con tutta la loro forza, a ritmo dimusica. Chiesi a Jack cosa stessero fa-cendo e lui mi rispose che battevano ilgrano. E’ una pratica familiare cui pren-dono parte tutti gli uomini.

Inizia così il diario della luna dimiele di Marjorie Allen. Il racconto, da-tato giugno 1947, si riferisce ai giornitrascorsi in tenda nei pressi di Ovada.

Come il lettore avrà già capito,l’Ovada di cui si parla si trova in Tanza-nia (allora Tanganica), di cui si è ampia-mente parlato nell’articolo precedente,su cui la Gran Bretagna esercitava ilproprio mandato dalla fine della 1°guerra mondiale. E’ un distretto della re-

gione di Kondoa, circondata da collineche non superano i 300 m. Sorse comemissione dei Padri Passionisti nel 1934,in prossimità di un corso d’acqua.

Marjorie Allen nacque nel 1918 emorì nel 2002. Trascorse gli anni dellasua formazione tra lo Yorkshire e Londra.

Nel 1945, essendo insegnante qualificata,lasciò il Regno Unito per insegnare nellescuole del Tanganica. Lì incontrò John‘Jack’ Allen, ufficiale dell’Esercito di SuaMaestà, che sposò nel 1946 dopo un tra-volgente e romantico fidanzamento. Ebbe5 cinque figli, di cui tre femmine e duemaschi. Continuò ad insegnare in Tanga-nica e nel Regno Unito sino alla pen-sione.

Marjorie Allen John Jack AllenUna sera, un Padre proveniente dalla

Missione di Ovada, posta a circa un mi-glio di distanza al di là del fiume, vennea farci visita e rimase a chiacchierarecon noi per un’ora o poco più. Ogni mat-tina, a colazione, avevamo un cerchio dispettatori , che rimaneva a fissarci nelloro tragitto sino alla scuola della Mis-sione fino a quando non li costringevamoad allontanarsi. Probabilmente non ave-vano mai visto una donna bianca primadi allora.

Per fortuna le notti erano fresche el’ultima sera accendemmo un fuoco da-vanti alla tenda perché era più freddo delsolito. Mangiammo pollo, uova e lattecomprati sul luogo e verdure in scatolache avevamo portato con noi. Viverenella savana è molto più economico chevivere in un piccolo paese o in una città.L’unico inconveniente è che ci si stancadi mangiare pollo!

I ragazzi cucinavano su un fuoco al-l’aperto e servivano i pasti come fos-simo stati a casa, con tovaglioli ebottiglie di salsa. Ali, il cuoco, indos-sava scarpe enormi e calzettoni fatti amano molto spessi, cosa che non gli eraconsentita di fare a casa, poichél’usanza per i ragazzi (e per i bambini ascuola), prevede che ci si tolga le scarpeprima di entrare in un edificio. Jacksoncamminava scalzo ma doveva fare moltaattenzione a dove metteva i piedi. Al-cune pianticelle avevano semi appun-titi.In qualsiasi modo cada il seme, lapunta è rivolta verso l’alto ed essendocosì piccoli sono praticamente invisibilinell’erba.

Ovada ‘Honeymoon’ Safari - June 1947. Dal diariodi Mrs. Marjorie Allendi Cinzia Robbiano

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Tornammo a Dodoma seguendo unpercorso più breve ma più difficile.Fummo costretti a percorrere la stradamolto lentamente per via dei numerosidossi e della superficie sconnessa. Acirca 50 miglia da Dodoma ci ritro-vammo sulla strada principale e arri-vammo a casa piuttosto stanchi eaccaldati.

***Come sono venuta a conoscenza di

questa storia? Navigando in rete. E cosìho scritto a chi aveva inserito le foto cheè poi il figlio di Marjorie e John Jack. Miha raccontato la loro storia e mi ha man-dato il diario della mamma che ho qui tra-dotto. E’ una piccola storia inserita in unagrande storia che solo il miracolo del webha reso nota. Ho pensato che meritasse diessere raccontata per la sua originalità inun mondo come quello attuale dove lemete dei viaggi di nozze anche in tempidi crisi sono sempre più “crediamo” eso-tiche. In realtà di esotico non c’è nulla, lospirito del viaggio si è perso da tempo. Eafferma ancora una volta l’audacia delleviaggiatrici inglesi. Molti elementi diqueste poche pagine rimandano alla me-morialistica del viaggio: l’attenzione perla natura, l’indiscreta curiosità dei locali,l’avventurosita’ dei percorsi ma Marjoriedà prova di avere le competenze tipichedella tradizione maschile che sino ad al-lora sembravano non appartenere alledonne viaggiatrici che dei propri viaggidavano resoconti sentimentali. Ma ciòche in fondo testimonia è la straordinariacapacità di questa giovane donna inglesedi immaginare per sé altri mondi: la gio-vane Marjorie che partì dall’Inghilterracon spirito d’avventura in fondo scoprìse stessa e le proprie potenzialità. Ancheil nome Marjorie, che può tradursi anchecome origano o maggiorana, in fondo infondo evoca una natura mediterranea benpiù esotica della brughiera inglese. E nelsuo caso sembra ancor più vero lo Sha-kespeariano “I viaggi finiscono laddoves’incontrano gli amanti” se non fosse chelì per lei e il suo John Jack iniziò il veroviaggio, quello che durò tutta la vita.

Alla pag. precedente, in altol’autrice delle memorie Mrs Marjo-rie Allen; in basso gli sposi sorri-denti dopo la cerimoniaA lato, momenti di vita al campo deiconiugi Allen

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Erminio Macario nacque a Torino il27 maggio 1902 nel popolare quartiere diPorta Palazzo; il padre, Giovanni, di pro-fessione decoratore, dovette emigrarenegli Stati Uniti a causa delle ristrettezzeeconomiche in cui versava e dopo qual-che anno morì. La madre, Albertina Berti,priva di risorse, trovò un posto come por-tinaia, mentre le due sorelle maggiori,Ester, Maria e Felicina, si impiegaronocome commesse in un negozio di tessuti.

Macario frequentò le scuole elemen-tari statali Patacchioni e in questo periodoebbe le prime avvisaglie della vocazioneteatrale: il luogo fu l’oratorio salesianoDon Bosco, annesso alla chiesa MariaAusiliatrice e il debutto nella filodram-matica dell’oratorio avvenne con il boz-zetto Il sacrificio di un innocente.

Il risultato fu talmente convincenteche ben presto Macario divenne l’attoreprincipale della piccola filodrammatica.Conclusa la parentesi scolastica, a causadel suo disinteresse per lo studio, senzalode e senza infamia, fu quindi gioco-forza accantonare i sogni di gloria e co-minciare a pensare ad intraprendere unmestiere. Ne provò molti, ma nessuno glidurava più di qualche settimana, fece tuttii mestieri, se non imparati, almeno ini-ziati; per circa un anno di permanenzaalla FIAT, tra il 1917 e il 1918, riuscì acambiare quasi tutti i reparti.

Nel frattempo aveva già fondato unasua filodrammatica e tutte le domeniche,presso il circolo San Donato, dava rap-presentazioni di prosa leggera. Qui svol-geva tutti i ruoli e tutte le funzioni, dalcostumista al cassiere, dal primo attore alregista.

La prima occasione vera arrivò di lì apoco: era l’inverno del 1918 e Macariorispose a un annuncio trovato su di ungiornaletto di settore, in cui si cercavano“giovani attori generici per compagnieminime di provincia”. Avuta risposta po-sitiva, in una fredda giornata di dicembreegli partì per la sua avventura. La com-pagnia del cavalier Salvetti, gruppo arti-stico che lo aveva scritturato, era laclassica famiglia di attori d’infimo ordineche facevano una vita stentata e miserarecitando nei piccoli centri e nei teatri po-polari di periferia, cosiddetti guitti, dove,

dalla suocera all’ultimo nato, tutti ave-vano un ruolo nel repertorio. La tradi-zione veniva più o meno direttamentedalla commedia dell’arte: nel loro reper-torio rappresentazioni come I martiri dellavoro di F. Cavallotti, La maestrina diD: Niccodemi, I figli di nessuno e La si-gnora di Saint Tropez.

Per Macario furono anni di duro ap-prendistato, sebbene il suo talento si an-dasse forgiando; egli cambiò compagniacon grande frequenza, ma seppe sempretrarne vantaggio e il suo nome via, via sifece sempre più noto, anche al di fuoridel suo pubblico e all’ambiente artisticoad esso legato: infatti, a quel tempo, lasua attività si svolgeva presso gli “scaval-camontagne”, piccole formazioni che da-vano spettacolo durante le fiere di paese.

Macario passava con grande ecletti-smo dai ruoli melodrammatici a quellileggeri della farsa e il bagaglio artisticoacquisito sarebbe stato il patrimonio che,di lì a qualche anno, ne avrebbe fatto unodei più amati artisti della rivista e varietàa livello nazionale.

Nel 1924, nel corso di una parentesiartistica torinese, fu l’occasione di incon-trare G. Mulasso, in arte cavalier Mo-lasso, coreografo, ballerino e impresariodi un certo livello, il quale era alla ricercadi volti nuovi per uno “spettacolo di ballie pantomime” che intendeva allestire al

teatro Romano. L’audizione fu brevis-sima e Macario fu scritturato su due piedialla paga di 15 lire al giorno; l’esordioavvenne con Sei solo stasera? seguito aruota da Senza complimenti!: gli spetta-coli ambedue “riviste di Nicola”, anda-rono benissimo, anche grazie alla suapresenza.

In quel periodo Macario conobbeMaria Giuliano, una diciassettenne chedanzava al teatro Regio, fu un amore ful-mineo e reciproco; successivamente, laGiuliano entrò nella sua compagnia e di lìa poco non fu difficile convolare a nozze.Purtroppo, il matrimonio ebbe breve du-rata, ma il sodalizio artistico tra i duedurò oltre vent’anni e la Giuliano fu lacoreografa di un gran numero di rivisteallestite da Macario.

La sua fama si diffondeva a macchiad’olio, dal settembre 1924 recitò a Mi-lano in teatri quali il Dal Verme, il Liricoe il Fossati in lavori di P. Mazzuccato, C.Rota, C. Veneziani. Il suo nome fu segna-lato da una delle signore del palcoscenicodi rivista, in arte Isa Bluette, al secolo Te-resa Ferrero, la quale stava costituendouna propria compagnia.

Secondo quanto riporta lo stesso Ma-cario, era l’aprile 1925, la Bluette partì daModena dove era in scena e gli diede ap-puntamento alle tre del mattino all’hotelCommercio di Torino. L’intesa tra i duefu immediata, la paga venne fissata a 60lire al giorno con la garanzia di una stan-zialità torinese di almeno sei mesi. Il de-butto avvenne al teatro Odeon di Torinocon La valigia delle Indie di Ripp, pseu-donimo di L. Miaglia e Bel Amì, pseudo-nimo di A. Francini. Questi furono autoridi molti altri copioni per la compagniadella Bluette , con la quale Macario ri-mase fino al 1929, anno in cui costituì lasua prima compagnia.

Una breve parentesi, alla fine del1927, separò Erminio Macario dalla com-pagnia della Bluette, tutto ciò per allestirecon, a quei tempi, la famosa Titina, al se-colo Tina Cocchia, ex bambina prodigio,alcuni spettacoli, sempre di Ripp e BelAmi, che ebbero un buon successo. LaBluette, pur di riaverlo in compagnia, glipropose di affiancare il suo nome al suo,così che egli fece ritorno.

Un silvanese a fianco di Erminio Macario,Pupi Mazzucco: una vita per lo spettacolodi Eros Palestrini

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Dal 1929, data della definitiva sepa-razione dalla Bluette, fino alla fine dellacarriera, cioè alla fine degli anni Settanta,Macario ebbe, quasi ininterrottamente,una compagnia a suo nome.

La crisi del ’29, la cui onda lunga del’30 con gli strascichi europei mandò incrisi quasi tutto il sistema dello spetta-colo, fu l’occasione per Macario di pren-dersi una pausa; sciolse la compagnia dapoco organizzata e tornato a Torino si de-dicò con impegno a quello che era statouno dei suoi primi amori: il teatro dialet-tale.

In questo contesto la proposta glivenne da U. Fiandra che dirigeva la com-pagnia “La Stabile” al teatro Rossini diTorino; tale ruolo poteva apparire un ar-retramento artistico per il capocomicoche stava riscuotendo un successo senzaprecedenti in tutte le piazze della peni-sola. Invece si rivelò un’abile mossa stra-tegica poiché, se da un lato gli consentìdi superare la crisi con il minor dannopossibile, dall’altro gli permise di staresulla scena accanto ad eccellenti profes-sionisti della prosa, di conseguenza la suaarte non poteva che trarne vantaggio.

Nel 1932-1933 la ripresa economicae la voglia di ridere era tornata: ciòindusse Macario, con gesto inusualee con grande coraggio a investire ditasca propria una somma di lire12.000, a quell’epoca un capitale, perfondare la sua seconda compagniacon sede al teatro Maffei, anni primarinomato Bal tabarin: il debutto av-venne con Pelle di ricambio el’autore era Ripp. Gli anni seguentifurono successi ininterrotti, tra glialtri: Mondo allegro, Follie d’Ame-rica, Piroscafo giallo, ancora Caro-sello di donne, Tutte donne, Trentadonne e un cameriere.

Macario era un critico spietato delsuo e del lavoro altrui: fu in queglianni che si affermò come grande sco-pritore di talenti, soprattutto femmi-nili. Egli riuscì a passare lavorando,con alterne vicende, tanto il venten-nio fascista che il periodo dellaguerra.

Il secondo dopoguerra si caratte-rizzò per il capocomico e per la sua

compagnia in una serie di ennesimi suc-cessi con riviste e commedie musicali, trale quali Febbre azzurra di M. Amendolae Macario, 1945; Moulin Rouge, 1946,stessi autori; Oklabama, 1949 di Amen-dola e R. Maccari. In questo periodo siaccentuò ancor più la vena surreale e stra-lunata della maschera Macario, parago-nabile ad un Pierrot malizioso piuttostoche ai vari Arlecchini e Pulcinella dellatradizione italiana.

Questa è una delle ragioni per le qualilo portarono a calcare i palcoscenici fran-cesi, dove nel 1951 aveva rappresentatoVotez pour Venus, versione franco-mac-cheronica di Votate per Venere di D. Fal-coni e O. Vergani, lavoro che in Italiadebuttò al Sistina di Roma e nel qualeebbe al fianco la soubrette Elena Giusti eil giovane Gino Bramieri come spalla,costumi di Shubert: fu un grande suc-cesso in tutta la penisola. La parentesifrancese gli consentì anche di legalizzarel’unione con Giulia Dardanelli, relazioneche durava ormai da tempo e dalla qualela coppia aveva già avuto due figli, Al-berto, nato nel 1943 e Mauro nel 1947.

Dagli anni Cinquanta Macario fre-quentò a più riprese il teatro di prosa,

sono circa una ventina di titoli in carnet,da Il coniglio di A. Novelli del 1954, aDitegli sempre di sì! Di E. De Filippo del1971, Le finestre sul Po di A.Testoni del1960. Nel 1970 aveva dato vita a un’indi-menticabile versione de Le miserie diMonssù Travet, capolavoro di V. Berse-zio, uno dei rari testi che sono riusciti aemergere nettamente dal teatro dialettaleper diventare, con il nome del personag-gio da cui deriva il proprio nome, meta-fore universali di una condizioneesistenziale. Tra il 1973 e il 1976 Maca-rio interpretò importanti opere teatrali,tutte di Amendola e Corbucci: PautassoAntonio esperto in matrimonio, CarlinCeruti sarto per tutti, Due sul pianerot-tolo, di quest’ultima, grandissimo suc-cesso accanto a Rita Pavone nellastagione 1975-1976, si fece anche unaversione filmata per la regia di M. Amen-dola. Alla fine della sua carriera, nel1978, interpretò con uno Sganarello me-dico si fa per dire, scritto dal figlioMauro con C.M. Pensa.

Macario, pur continuando a calcareprincipalmente il palcoscenico, non si ri-fiutò di apparire alla televisione, prestan-dosi ripetutamente al mezzo che,

nell’arco di un decennio, più precisa-mente tra la fine degli anni Sessanta ela prima metà degli anni Settanta, fuprobabilmente la principale causa delrapido declino e poi della definitivasparizione del varietà, il genere teatraledove Macario aveva lasciato più ampiae significativa impronta artistica.

Erminio Macario morì a Torino il26 marzo 1980, a causa di una malattiache lo aveva costretto ad interromperele recite di Oplà, giochiamo insieme; lospettacolo, da lui scritto insieme con ilfiglio Mauro, era in scena al teatro divia S. Teresa che aveva restaurato e cheportava il suo nome.

IL CINEMADagli anni Trenta Macario si era av-

vicinato anche al cinema che coltivòcon varia intensità e con esiti alterni.

Inizialmente l’esperienza cinemato-grafica non fu proprio soddisfacente:deluso dal risultato del suo primo film,Aria di paese del 1933, con un copione

Alla pag. precedente e alla pag. alato, alcune immagini del mondodella Rivista tratte dal settimanale“Tempo” del 1942

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piuttosto debole, diretto da E. De Li-guoro, fece passare ben cinque anniprima di riprovarci, sebbene nonostantele offerte e le sollecitazioni arrivasserofitte e regolari. Fu solo grazie alla compe-tenza e alla sensibilità di M. Mattoli, chelo diresse in Imputato alzatevi! del 1938,Lo vedi come sei? del 1939 e Non me lodire! del 1940, tutti lavori di grande suc-cesso, al punto che i titoli erano diventaticelebri a livello nazionale. A questopunto per Macario la riconciliazione conil cinema fu cosa fatta e la sua filmogra-fia si fregiò di una trentina di titoli: non sitratta di capolavori, ma alcuni di essi an-drebbero riscoperti per trovarvi una certaatmosfera surreale e svagata che ne facertamente delle rarità nella cinematogra-fia italiana di quell’epoca.

Nei primi anni Cinquanta, sull’ondadi alcune pellicole di grande successo,come La famiglia Passaguai fa for-tuna, del 1952 diretto da Aldo Fabrizi;Agenzia matrimoniale, del 1953 di-retto da G. Pastina, era pure cresciutain Macario la fiducia nel cinema, alpunto che fondò una propria società diproduzione, la Macario Film, la qualeebbe vita breve e provocò all’interes-sato un discreto dissesto economico.Nel 1955 esce nelle sale cinematogra-fiche un documento prezioso diun’epoca e di un’arte: Carosello delvarietà, diretto da A. Bonaldi e A.Quinti, vede in scena tra gli altri, oltrea Macario, Josephine Baker e Mistrin-guett, al secolo Jeanne FlorentineBourgeois, E.Petrolini, Renato Rascel,Anna Magnani, Clelia Matania, Totò eVanda Osiris.

Dall’incontro con Mario Soldati,nacque l’unica interpretazione dram-matica di Macario per il cinema, Italiapiccola del 1957, con Nino Taranto e

un Enzo Tortora alle prime armi. Taleesperienza fu la conferma che dietro lamaschera dell’omino con la testa tonda,c’era un attore completo e pronto a en-trare in qualsivoglia parte o ruolo. Aglianni Sessanta risalgono le numerose pel-licole interpretate da Macario al fianco diTotò: si tratta, in genere, di lavori piutto-sto di basso profilo, che perlo più porta-vano il nome di Totò nel titolo: Totò sexy,Totò di notte n° 1, Lo smemorato di Col-legno, Il monaco di Monza, La cambiale,Totò contro i quattro. Nei film, compa-riva il nome di Antonio De Curtis, in arteTotò, dato che quest’ultimo, a differenzadi Macario, era divenuto una star cinema-tografica.

LA RIVISTALe riviste sono un genere di spettacoli

teatrali consistenti nella successione di

numerosi quadri mu-sicali e coreografici,alternati da breviscenette in prosa,sketch, per lo piùcollegati da un tenuefilo conduttore e,spesso, addirittura,senza alcuna trama,creati allo scopo dipiacevole svago. Tali

spettacoli legavano soprattutto alle primeparti, il comico e la soubrette, i numeridel vecchio varietà.

Macario sperimentò le più disparatemacchiette e da queste, dalle esperienzefin lì accumulate, nacque la maschera chelo avrebbe accompagnato trionfalmenteper tutto il resto della carriera. Nella suaesperienza artistica gli spettacoli che se-guirono, Il dito di Giove, Sottane alvento, ambedue di Ripp e Bel Ami, ven-nero ricordati dall’artista come i momentiin cui si attuò il passaggio dalle moltemacchiette al personaggio unico che inbreve lasso di tempo si sarebbe fissatopermanentemente: l’omino con la facciaa uovo e il ricciolo ribelle, gli occhi tondi,sotto la cui superficie ingenua e indifesasi poteva leggere facilmente un fondo difurbizia maliziosa.

Per quanto attiene le vicende dellaRivista italiana nel suo insieme, nuovoimpulso ricevette durante il secondodopoguerra, grazie ai grandi sfarzosispettacoli coreografici, sempre contrad-distinti da un esilissimo filo conduttore;già si erano andati affermando, specienelle compagnie organizzate da R.Paone, i cosiddetti spettacoli “errepi”,dalle iniziali del suo nome. Nel con-tempo, destano maggiore interesse, piùche le scarsamente fortunate imitazionidelle “musical comedies”, Riviste dipensiero, la cui formula si regge sul-l’acutezza dell’ironia e del paradosso,sull’intelligenza delle situazioni, piùche sullo sfarzo delle messinscene e delcorpo di ballo o sulla novità delle mu-siche; del genere sono gli spettacoli of-ferti dal Teatro dei Gobbi di Valeri,Bonucci e Caprioli, quindi Riviste con-cepite da autori ed interpreti, tra cui Pa-renti, Fo, Durano e Chiari.

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Accanto a questi capocomici vi eranoartisti che già nel periodo tra le dueguerre avevano saputo mantenere intatti ivalori della Rivista tradizionale, comeWanda Osiris, il nostro Erminio Macario,Totò, Dapporto, Navarrini e Renato Ra-scel.

Infatti, nel primo dopoguerra, in pienoregime fascista, il teatro della Rivista ita-liana tentava di darsi un nuovo contenutoattraverso una trama che talvolta ha avutorealmente grande importanza nello svi-luppo dello spettacolo, come ad esempionelle cosiddette Riviste senza ballerine,nelle quali si provarono anche illustri ar-tisti di teatro, quali Besozzi, Merlini, Ci-mara ed altri; questo genere di Rivistaebbe il suo incontrastato capolavoro in“Triangoli” di Biancali e Falconi.

Altro filone della Rivista italiana del“Ventennio” si caratterizzò da spettacoliessenzialmente musicali e coreograficiche ebbero particolare successo di pub-blico nella fortunata formula introdottada Za-Bum nel 1931.

Macario ebbe difficoltà a costruire ilsuo personaggio: a differenza di altri co-mici, specie napoletani, che potevano at-tingere alle farse, ai lazzi, alle parodiedell’immenso repertorio tradizionale par-tenopeo, egli inventava giorno per giornola sua comicità. Sua specialità era di farelo stupido come replica all’intelligenzadella “spalla” vestita in frac; ne risultavache l’intelligente, in questi casi, diven-tava stupido e lo stupido intelligente!

Secondo quello che scriveva di lui,Eugenio Ferdinando Palmieri, maestrodella critica teatrale “Macario è il fratellominore di Arlecchino, di Brighella, conquel viso a uovo dipinto pasquale, con labocca a fetta di cocomero, il ricciolo sullafronte, la camminata a dondolo e la buf-foneria attonita”.

A quei tempi la comicità era Macarioe Totò, seguiti da Carlo Dapporto e daRenato Rascel, ma la grande Rivista eraMacario. Egli era torinese e se ne van-tava; la sua comicità non si rifaceva aquella corposa e strapaesana della ma-schera di Gianduja, ma ad una graziaumoristica più seria e sottile.

A questo proposito, citando nuova-mente il maestro Eugenio Ferdinando

Palmieri, critico autorevole, ebbe a dire“Si rinnova in Macario il fulgido mira-colo delle maschere: abbiamo, cioè, unpersonaggio definito, immutabile, conuna sua sillaba, un suo significato (....).E’ finalmente fiorita dalla commedia del-l’arte - arte nostra, gloria nostra - un’altramaschera. E Macario è in classico” (cfr.Macario story, p.11).

Tutti sanno quanto sia difficile dare ilsignificato giusto ad una frase, se si pensaalla sua bravura di riuscire a dare il sensogiusto ai suoi silenzi! Le sue pause eranopiù importanti delle sue battute!

Macario era una maschera, forsel’ultima della commedia dell’arte: era unburattino, un cartone animato. Dietro gliammiccamenti e le pause di Topo Gigioscoprite Macario.

LE “DONNINE” DI MACARIOCome si è già evidenziato la grande

Rivista era Macario, al suo fianco vierano le sue famose “donnine”, tuttemolto giovani e bellissime e che la scuolaartistica del comico torinese le avevafatte diventare anche brave. Come adesempio Lauretta Masiero, per anni at-trice brillante nella compagnia di prosadiretta da Ernesto Calindri, a MarisaMerlini, ottima caratterista del cinemaitaliano, o al grande successo televisivodi Marisa del Frate nel L’Amico del gia-guaro..

A partire dagli anni Trenta Macario siaffermò come grande scopritore di ta-lenti, soprattutto talenti femminili. Lalista dei nomi delle soubrette, in partesovra menzionate, che debuttarono conlui, negli anni e decenni seguenti è unaparte consistente della del teatro di rivi-sta: da Tina De Mola a Marisa Maresca,da Isa Barsizza a Lauretta Masiero, daCarla Del Poggio a Marisa Del Frate, daDorian Gray a Sandra Mondaini, dalleBlueball Girls a Raffaella Carrà. Lavoròripetutamente con Wanda Osiris in Chic-chirichì, Disse una volta un biglietto damille, Follie d’America e Piroscafogiallo, e ancora Aria di festa, Tutte donnemeno io, la quale in compagnia con Ma-cario mise a punto il suo personaggio eacquisì quella sicurezza del palcoscenicoche ne fece per molti anni la regina in-contrastata, la grande Wanda Osiris, delteatro leggero. Fu ancora l’artista torinesead usare per primo la locuzione “don-nine” riferita a quelle presenze femminili,né soubrette, né ballerine, ma che ave-vano un ruolo fondamentale nel calami-tare l’attenzione del pubblico.

Comunque Macario fu sempre vigileaffinchè il tono dei suoi lavori fosse sce-vro da cadute nella volgarità e ciò gli ga-rantì il costante favore di un pubblico dimassa eterogeneo che poteva andare ateatro con la famiglia intera, bambinicompresi, e con la garanzia di un diverti-mento garbato. Anche la satira, quan d’erapresente, fosse politica o di costume, erasempre discreta e controllata.

Tra le numerose soubrette dell’ar tistatorinese, merita particolare menzione lafigura di Sandra Mondaini, icona della te-

A lato, Lauretta Masiero e in bassoSandra Mondaini due delle soubret-tes scoperte da Macario

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levisione insieme al suo com-pagno di vita ed artistico Rai-mondo Vianello, purtropposcomparsi entrambi recente-mente. Nata a Milano il 1°settembre 1931 aveva iniziatoa recitare in teatro con Mar-cello Marchesi e, poi, nel1955, era diventata una dellesoubrette nella compagnia di rivista diErminio Macario. Un mondo duro: ognivolta che sbagliava, doveva pagare unamulta salata. E lei, testarda, accettò: sba-gliò e pagò, ogni giorno imparando unpo’ di più e sbagliando un po’ di meno.Nel 1958 l’incontro che le cambiò la vita:quello con Raimondo Vianello, sposatoquattro anni dopo.

PUPI MAZZUCCO, nasce a Ge-nova il 23.12.1928, ma opera e lavora intutta Italia. Per Mazzucco, il ricordo diMacario lo accompagna per tutta la vita,da quando lo ha incontrato per la primavolta nella sua villa di Santa MargheritaLigure. Oggi preferisce ricordarlo con ilgiudizio che dava di Macario il più voltecitato critico teatrale Eugenio FerdinandoPalmieri “ Macario è la comicità inno-cente, non raffinata, non pensierosa. Hauna buffoneria cordiale, tenera, discreta.Ha una sua grazia torinese, gozzaniana”.

Il giornalista Dino Falconi, a suavolta, aggiungeva: “Macario non ha lacomicità corposa e strapaesana di Gian-duja. La sua è una grazia umoristica piùseria, sottile”, ed aggiungeva ancora “....mentre Totò , ad esempio, più istintivo,impulsivo, ricco di estro e di trovate,come è l’animo partenopeo, Macario, furiflessivo, preciso, calcolato, come lo spi-rito piemontese”.

Mazzucco aggiunge anche il giudizioespresso dal grande comico romano, Et-tore Petrolini, che dopo aver vistol’artista torinese gli disse “... come seipiemontese! ... Ma fai bene, non bisognarinnegare le proprie origini”.

E questo tocco di piemontesità gli èstato riconosciuto anche dal commedio-grafo Carlo Terrom che ha detto: “la co-micità di Macario, non arriva con forza,ma è casalinga, bonaria, saporita .... allapiemontese”.

Pupi Mazzucco diventa fra i collabo-ratori del brillante attore torinese che conRaffaele Cile sono stati gli autori dellacommedia musicale “Pop a tempo dibeat”, la rivista rappresentata dalla com-pagnia del grande Erminio Macario chemise in scena al Teatro Alfieri di Torinonella stagione 1966 - 1967 con grandesuccesso e poi venne replicata nei mi-gliori teatri italiani. La critica scrive cheil copione firmato dai due autori è una sa-tira intelligente del costume contempora-neo e si adatta con arguzia al gusto delpubblico, che, a poco a poco, si stavaevolvendo. Infatti, sia il quadro finaledella rivista, chiaro omaggio al girotondodi Fellini in “8 e mezzo”, sia i riferimentialla letteratura di avanguardia (Kerouac),sono citazioni insolite nel teatro leggero.

Nel 1970 è co-autore, con RaffaeleCile, della commedia in lingua veneta 22Modi per avere un figlio, rappresentatadalla compagnia diretta da Tonino Mi-cheluzzi a Palazzo Grassi di Venezia e,

poi, in tournè nei miglioriteatri del Veneto con unbuon successo d’incasso edi pubblico.

Mazzucco, silvanese diorigine, torna a stabilirsi,alla fine degli anni Ses-santa, al “suo paese”: nel1969 organizza, in colla-

borazione con il comune di Silvanod’Orba un importante convegno dal titolo“Incontro e testimonianze sulla resistenzaligure-piemontese”, con la partecipazionedell’allora vice Presidente del Senatodella Repubblica italiana, Onorevole Pie-tro Secchia, di Gelasio Adamoli, sindacodi Genova, della delegazione dell’UnioneSovietica nella persona di due alti uffi-ciali dell’armata rossa, della delegazionedella Repubblica Jugoslava e di nume-rose altre personalità.

Per l’artista silvanese inizia con iprimi anni Settanta una fervida attivitàorganizzativa di manifestazioni culturali,in collaborazione con la SOMS di Sil-vano d’Orba dà vita al circolo culturale“Cesare Pavese”, promuovendo varie ini-ziative culminanti con due serate digrande successo per la presenza di duecelebri artisti, Edmonda Albini e DuilioDel Prete, del giornalista nonché scrittoreDavide Lajolo, detto Ulisse, il quale hatenuto un’applauditissima conferenza-di-battito sulla figura dello scrittore CesarePavese.

Sempre a Silvano d’Orba, Pupi Maz-zucco fonda nel 1980 con il cantante-at-tore Bernardo Beisso, la compagniateatrale “Stella Polare”, portando “reci-tal” di canzoni d’autore e poesie, riscuo-tendo un buon successo in provincia diAlessandria: in particolare, in occasionedel concerto a favore dei detenuti del pe-nitenziario di Alessandria in piazza DonSoria.

Nel 1996 l’artista silvanese collabora,con il Comune di Silvano d’Orba, allacommemorazione del “51° anniversariodella liberazione” allestendo, nella galle-ria d’arte “Il Pennino”, una personale daltitolo “Dittatura e Libertà” del noto pit-tore Franco Resecco, che espone unaventina di disegni sulla resistenza.

Nello stesso anno l’associazione cul-

A lato, Erminio Macariocon Pupi Mazzucco neglianni ‘60in basso Harry Potter inuna ceramica della raccoltasilvanese

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turale “laboratorio di pro-duzione e promozione tea-trale”, decide di assegnarea Pupi Mazzuccol’edizione 1996 del pre-mio “Teatro nel cuore” diNovi Ligure, per l’operasvolta a favore del teatro di figura in pro-vincia.

Con successo organizza, nel corso del1997, per il teatro dell’oratorio parroc-chiale, una serie di spettacoli di artevaria, ai quali partecipano ottimi musici-sti come i maestri Marcello Crocco e Ro-berto Margaritella; il tastierista PaoloPerduca, il fisarmonicista Sergio Mor-chio, il bravo poeta dialettale silvanese,scomparso prematuramente di recente,prof. Sergio Basso, il sensibile poeta ge-novese Camillo Volanti e alcuni giovanicantanti: il tutto presentato dal giornali-sta televisivo Enrico Rapetti di Teleradio-city. L’anno successivo, Mazzucco hapartecipato alla cerimonia di inaugura-zione della biblioteca comunale di Sil-vano d’Orba, invitando l’oratore uf fi- ciale, il compianto scrittore, poeta Mar-cello Venturi.

A Silvano il nome di Mazzucco re-sterà sempre legato al teatro dei burattiniche vivono ancora nel cuore e nel pen-siero degli spettatori una volta chiuso ilsipario. Tutto, nacque tanti anni fa, gra-zie all’incontro di due grandi dello spet-tacolo Pupi Mazzucco e Tinin Mante-gazza, il primo co-autore di opere teatrali.Infatti, l’artista silvanese, nel 1990, è co-fondatore del premio nazionale “Ai braviburattinai d’Italia”, unitamente alla col-laborazione del compianto GiuseppeBaldo, detto Fulmine. Un sodalizio fe-condo, che darà luogo ad una vera e pro-pria cultura del teatro dei burattini e, conessa, l’idea di una rassegna che possa ri-chiamare burattinai da ogni parte d’Italia,finalizzata all’as segnazione di un ambitoriconoscimento “un Premio per i piùBravi”. Un evento di straordinaria impor-tanza teatrale, che ha ottenuto negli annigrande notorietà e acquisito tale prestigioda far diventare Silvano d’Orba uno deimaggiori centri a livello nazionale delteatro dei burattini.

Nel 2000, in occasione della ricor-

renza relativa al decennale la fondazionedel premio nazionale “Ai bravi burattinaid’Italia”, Pupi Mazzucco allestisce nellasala consigliare del comune di Silvanod’Orba una mostra internazionale italo-danese a cui partecipa una delegazionedel Paese scandinavo. Protagonisti dellacitata mostra sono stati: Burattini ...Gnomi ... Trolls e fotografie, ottenendoun grande successo di pubblico e la par-tecipazione degli alunni delle scuole lo-cali e dei paesi vincitori.

Ancora oggi Mazzucco non smette dipensare al teatro e a vivere la memoriadella sua arte, proseguita ed interpretatada degni eredi del teatro italiano. Constraordinaria sintesi di pensiero analizzail suo progetto attuato e le sue principalifinalità, sostenendo che il “suo” “Premionazionale Silvano d’Or ba intitolato “Aibravi burattinai d’Ita lia”, non sia solo unasemplice rassegna di burattini. La mani-festazione, patrocinata dal Ministero deiBeni Culturali e finanziata dal Comunedi Silvano d’Or ba, è stata un’idea ambi-ziosa e coraggiosa, tesa ad inventare unqualche cosa di sostanzialmente nuovoper la collettività e che, in particolare, sa-pesse incuriosire i silvanesi e ne fermassela loro attenzione.

Per realizzare tutto ciò si è ricorso alteatro, a quello povero, popolare, la Com-media dell’Arte: la nostra cultura, le ma-schere a cui basta un guizzo di fantasia edi furbizia perché la buffoneria di Arlec-chino diventi irriverente alle ipocrisie delmondo borghese o che l’eterna fame diPulcinella “morda” l’arroganza del po-tere. Un tempo la satira era tollerata solose recitata da attori mascherati, oggi tuttociò diventa più complesso: di conse-guenza l’invenzione del teatro di strada,ovvero mascherarsi per smascherare!

Con questi valori il Premio Silvano haottenuto grande prestigio, tali meriti lo di-mostrano i giudizi positivi ottenuti nelmondo artistico dei burattinai, sia a li-

vello nazionale, sia inquello internazionale, lepresenze a Silvano d’Orbadi personaggi di altissimoprofilo artistico e culturaledi livello nazionale, comeEmanuele Luzzati, Sergio

Staino, Lella Costa, Mogol, ecc. Inoltre,l’interesse della stampa, della radio, dellatv di stato; preziosi sono stati i contributidi Regione, Provincia, Comune e Com-pagnia San Paolo.

Sempre più alta risulta essere la parte-cipazione ai laboratori per gli alunni dellescuole e, più in generale, a favore dei ra-gazzi, ai seminari per aspiranti attori, sce-nografi, costumisti, creatori di storieteatrali, piccoli sceneggiatori: il tutto te-nuto dai nostri maestri burattinai.

Pertanto, si può considerare il teatrodei burattini come luogo avente una va-lenza sociale ed artistica; infatti, a Sil-vano d’Orba il lavoro impegnativo elodevole svolto dall’associazione “amicidei burattini” ha creduto al successo diun’impresa difficile, ardua ed impegna-tiva e soprattutto ha contribuito al recu-pero di un’arte, i burattini, che stavascomparendo. Ne consegue che tale pro-getto deve continuare con grande entusia-smo e senza tradirne l’identità, masoprattutto senza venirne meno al suoobiettivo che è l’impegno artistico e so-ciale, senza il quale ogni più nobile inten-zione scade a semplice operazione diintrattenimento.

Il teatro, allora, assume una duplicefunzione, oltre a quella puramente legataalla volontà di far divertire, emergequella a sfondo sociale: i burattini alle-viano le pene a chi soffre, entrano inospedale grazie a vari progetti di collabo-razione con le strutture ospedaliere e do-nano momenti di spettacolare magia dievasione e favola.

A lato, il clown GianniTaffone, in arte Tata diOvada, con Pupi Maz-zucco a colloquio con gliamministratori silvanesi

Nella pag. lato, in alto lavilla dei Martinenghi in basso, “Pinocchio” in unpastello di Lele Luzzati

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Il castello dei Martinenghi ela zona circostante costitui-scono un argomento di note-vole interesse per l’Associa -zione Culturale “Amici diBozzolina”, costituita nel2009, per valorizzare la bor-gata del territorio di Castel-letto d’Orba che porta questonome e il suo circondario neiloro aspetti storici, paesaggi-stici e umani; la testimo-nianza riportata in questoarticolo -che segna solo lapartenza di un’iniziativa de-dicata agli approfondimentistorici su questo particolareluogo del territorio castellet-tese- è in grado di far sco-prire alcuni fatti da conoscere e da nondimenticare. Questo è possibile grazie aPupi Mazzucco, silvanese, autore di testiteatrali, esperto conoscitore del mondoartistico e dello spettacolo, che fu a lungocollaboratore di Erminio Macario (maidimenticato attore di teatro, cinema e te-levisione, oltre che protagonista di com-medie musicali insieme alle soubrettespiù famose dei suoi anni) e fondatore delpremio “Silvano” dedicato all’arte deiburattini. Dalle parole di Mazzucco si ap-prende della visita ai Martinenghi delgrande artista Emanuele “Lele” Luzzati(nato nel 1921) sul finire del secoloscorso: «era stato premiato a Silvanod’Orba e aveva in più occasioni sottoli-neato che conosceva i nostri luoghi, ri-cordando che proprio ai Martinenghi, nelterritorio di Castelletto d’Orba, aveva tro-vato rifugio con la sua famiglia dopol’allontana-mento da Genova a causadelle persecuzioni contro gli ebrei nelcorso della Seconda Guerra Mondiale».Era quindi nata da questa circostanza ladecisione di un ritorno dopo oltre cin-quant’anni ed è significativo osservareche Luzzati attese l’arrivo da Israele dellasorella con il marito per poi raggiungerecon loro i Martinenghi, insieme a PupiMazzucco e all’allora sindaco di Silvanod’Orba, Pino Coco. Come è facilmenteprevedibile, ritrovarsi sul posto dopo tuttiquegli anni -viste anche le circostanzeche avevano portato la loro famiglia a di-

morarvi- ebbe per loro un forte impattoemotivo; «li lasciammo che ripercorres-sero da soli la strada di accesso, il cortilee il sentiero ai piedi del castello; il lorocammino era lento, si fermavano in con-tinuazione e si capiva che in ogni angoloe in qualsiasi dettaglio panoramico c’eraqualcosa in grado di risvegliare ricordiintensi, emozioni giovanili e profonde ri-flessioni … Ad un certo punto», ricordaancora Mazzucco, «Luzzati si avvicinò ame, mi afferrò per un braccio e mi indicòemozionato la bellissima torretta del ca-

stello dei Martinenghi,spiegandomi che era solitoattendere lì il sorgere delsole e seguire nel corsodella giornata gli effettidella luce attraverso i vetridi colore diverso presentisulle finestre di quella partedel castello… Ho capito su-bito il suo messaggio: lasua sensibilità artistica hainiziato a manifestarsi e aispirarsi proprio in quelluogo preciso e da quei mo-menti!…». Grazie a questatestimonianza, magicamen-te sospesa tra atmosfere checi riportano al romanzo diGiorgio Bassani “Il giar-

dino dei Finzi Contini” e al film “Il postodelle fragole”, diretto da Ingmar Ber-gman, i Martinenghi ci appaiono sotto unprofilo ancora più coinvolgente e ingrado di sollecitare altre scoperte. Si ap-prende intanto da Pupi Mazzucco che,dopo il periodo dei Martinenghi, Ema-nuele Luzzati raggiunse la Svizzera e sidiplomò all’ “Ecole des Beaux Arts” diLosanna; fu pittore, decoratore, illustra-tore, ceramista, scenografo (con all’attivooltre quattrocento allestimenti per Prosa,Lirica e Danza nei principali teatri italianie stranieri), realizzatore di film a disegnianimati, illustratore di libri per l’infanzia,autore di pannelli, arazzi e altre operesulle navi “Andrea Doria”, “Leonardo daVinci”, “Michelangelo” e altre. La suamostra intitolata “Il sipario magico” hagirato dal 1981 al 1984 in Italia e al-l’estero. Nel 1992 l’Università di Genovagli conferì la laurea honoris causa in Ar-chitettura, mentre un quarto di secoloprima aveva avuto due nomination al-l’Oscar per i suoi film d’animazione, rea-lizzati insieme a Giulio Gianini, “Lagazza ladra” e “Pulcinella”. Luzzati, chefu anche tra i fondatori del “Teatro dellaTosse”, morì a Genova il 26 gennaio2007, nella sua casa di Via Caffaro;l’indomani avrebbe ricevuto il “Grifod’oro”, la massima onorificenza del Co-mune di Genova.

I Martinenghi come luogo della memoria: l’artista Lele Luzzatia cura dell’Associazione Culturale “Amici di Bozzolina”- Castelletto d’Orba

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Dopo la costruzione della ferroviaGenova -Torino, avvenuta nel 1853, furono pre-

sentate differenti proposte per larealizzazione di linee tranviarie e ferro-viarie che si sarebbero potute diramare daquella principale, facilitando gli scambidi merci e servizio viaggiatori con il nordPiemonte e, in particolare, con Torino.

Questo fu il caso della tranvia NoviLigure - Ovada, i cui piani risalivano al1855; si costituì un gruppo promotorecon esponenti ovadesi e della Valle Orba.

II tracciato tranviario non nacque nelmomento in cui si richiese la sua costru-zione, ma aveva già una storia prece-dente, perché, durante i dibattiti per lacostruzione della linea, la ditta Casaline e& C. anticipò i tempi con l’istituzione diun servizio di carrozze a cavalli sullatratta della futura tranvia svolgendo sia ilservizio passeggeri che quello postale. Ilsuccesso di questa iniziativa indusse aconcretizzare la nascita della stessa.

Nel 1879 il Sindaco di Ovada stipulòuna convenzione insieme ai sindaci deicomuni interessati al passaggio dellanuova via di comunicazione che preve-deva quanto segue: «Si stabilì che la so-cietà appaltatrice avrebbe costruito, conregolare concessione, una tranvia traOvada e Novi secondo il progetto appro-vato, e l’avrebbe aperta all’esercizioentro la fine di agosto del 1880. Si sareb-bero dovute esercitare almeno tre corseda Novi a Ovada, tutte in coincidenza coni treni della linea Torino - Genova in ar-rivo e in partenza dalla stazione di Novi.Il servizio doveva essere svolto secondoi regolamenti governativi; le tariffe deltrasporto di merci e persone sarebberostate uguali a quelle previste dalle stradeferrate italiane. Il tempo di percorrenzasarebbe stato di un’ora e dieci minuti,comprese le fermate a Silvano, Capriata eBasaluzzo».

Purtroppo, però, si incontrarono diffi-coltà impreviste che ne ritardarono la co-struzione. Solo nel dicembre del 1880,per interesse e volontà dell’ingegnereLuigi Della Beffa, fu firmato il decretoministeriale della concessione. Questo ul-timo consisteva in quattro articoli: ilprimo riguardava la concessione e le re-

lative condizioni di esercizio richia-mando la convenzione stipulata tra i sin-daci. Il secondo accoglieva le richiestedel Sindaco di Castelletto d’Orba per lacostruzione di una nuova stazione. Ilterzo concedeva alle Poste di servirsidella linea per il trasporto della corri-spondenza. Il quarto obbligaval’osservanza del decreto stesso da partedell’ingegnere capo del Genio Civiledella Provincia e del Regio CommissarioTecnico governativo presso le ferroviedell’Alta Italia.

Dato ciò, si diede avvio all’opera e alavori già iniziati, nel 1881 fu stipulatonei locali della Banca popolare a Novi ilcontratto di costituzione della SocietàAnonima per la Ferrovia della Valled’Orba (SAFVO). La direzione dell’eser-cizio venne stabilita a Novi Ligure, il ca-pitale sociale della SAFVO era di650.000 Lire e suddiviso in azioni da 50lire ciascuna.

La direzione dei lavori venne affidataall’ingegnere Della Beffa, il quale riuscìcon estrema celerità ad ultimare la costru-zione nel settembre 1881. La tranvia fuinaugurata il 2 ottobre, entrando in rego-lare servizio già il 16 dello stesso mese.

Come accadde ad Acqui Terme, al-l’inaugurazione del passaggio del primo

treno la popolazione lo salutò con entu-siasmo, anche perché la linea fu realiz-zata dopo una lunga attesa di ventiseianni.

La tranvia a vapore Novi Ligure -Ovada era a scartamento ordinario, si svi-luppava in 23,227 Km, le curve avevanoraggio minimo di 150 metri e pendenzamassima del venti per mille.

L’armamento fu costituito da rotaietipo Vignole da 22 Kg per metro lineare.

La tramvia venne allacciata alla sta-zione delle Ferrovie dello Stato di NoviLigure con un binario di raccordo di 400metri; il capolinea di Ovada fu situato inpiazza Castello.

Oltre alle due stazioni di capolinea, vierano anche quattro stazioni intermediecioè: Basaluzzo (da qui si sarebbe dira-mata la ferrovia per Frugarolo), Capriatad’Orba, Castelletto d’Orba e Silvanod’Orba. Inoltre, vi erano dodici fermatefacoltative: Cattanietta, Michelina, San-t’Antonio, Predosa, Villa Sauli, Prato Al-borato, Lerma, Lercaro e Tagliolo.Alcune località non erano assolutamentetoccate dalla tranvia, il centro del paesepoteva essere distante dalla fermataanche di qualche chilometro, ma si pote-rono raggiungere con strade rese poi car-rozzabili.

Nel 1887 fu inaugurato il tronco chesi distaccava da Basaluzzo per raggiun-gere Frugarolo e attraversava i paesi diFresonara, Levata e Bosco Marengo. Eraclassificata ferrovia a scartamento nor-male in sede propria. La gestione di que-sto tratto fu affidato alla SAFVO conRegio Decreto 3763 del 1 febbraio 1886,per la durata della concessione pari a 90anni a partire dalla data del R.D.

Entrambe le linee possedevano di-versi raccordi con gli stabilimenti indu-striali del loro itinerario. Le industrielocali ebbero un discreto traffico di pro-dotti agricoli, ma anche di ghiaia e di sab-bia estratti dai torrenti Orba e Lemme.Tutte le merci si indirizzavano al mercatogenovese e dintorni.

I tempi medi di percorrenza ammon-tavano a un’ora e venti minuti del trattoNovi - Ovada. La lunghezza del viaggiodipendeva anche per il basso limite di ve-locità fissato in 20 Km/h. Gli orari del-

La tramvia Novi - Ovadadi Tiziana Rossi

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l’epoca riportavano cinque coppie dicorse giornaliere. Le partenze da Novierano fissate alle ore: 6.25, 9.05, 11.15,14.42, 18.30 con il rispettivo arrivo aOvada alle ore: 7.49, 10.25, 12.35, 16.00,19.50, mentre le partenze da Ovada perNovi erano fissate alle ore: 6.05, 8.28,10.50, 13.15, 18.25, con il rispettivo ar-rivo alla stazione di Novi alle ore: 7.25,9.46, 12.14, 14.32, 19.42. Tutti gli oraridi partenza e arrivo della tranvia a Novierano comodi per le coincidenze dei treniper Genova, Milano e Torino.

La tariffa per la corsa Novi-Ovada diKm 23,23, in prima classe era di 2,05Lire e 1,35 Lire per la seconda; il viag-gio di andata e ritorno costava invece2,90 Lire in prima classe e 2,10 Lire inseconda classe. Le tariffe da Ovada-Fru-garolo Km 32,22, erano: 2,10 Lire per laprima classe e 1,40 Lire per la secondaclasse per la corsa ordinaria; il viaggioandata e ritorno costava 3,10 Lire inprima classe e in seconda classe 2,25.

Sulla tranvia si verificarono diversiincidenti, di cui molti furono causati dal-l’armamento piuttosto fatiscente e trascu-rato; inoltre la linea era promiscua con lastrada carrozzabile e tutti questi problemirichiedevano non pochi investimenti daparte della società gerente. Un altro pro-blema era dovuto anche al deteriora-mento del materiale rotabile che nonconsentiva di viaggiare in tempi rapidi.

All’inizio del Novecento nascevanoper il trasporto locale di merci e personei primi veicoli a motore. Il primo esempiodi autoveicolo adibito al trasporto pub-blico venne impiegato nella valle Stura enegli anni Venti il servizio si stava allar-gando rapidamente anche in tutta la Valled’Orba. Lo scarso traffico dei passeggeridella tranvia stava quindi ulteriormente

diminuendo, a causa della crescente con-correnza dell’autocorriera, perché eranostate istituite corse con tempi più rapididi percorrenza; inoltre permetteva il col-legamento diretto dei paesi non toccatidalla tranvia.

Questo fatto spiegò che cosa accaddenegli anni Trenta del Novecento. Moltelinee tranviarie e ferroviarie di oltre qua-rant’anni di età, con armamento e mezziassai deteriorati, vennero soppresse e so-stituite con autoservizi che oltre a esserepiù rapidi consentirono una maggioreelasticità di percorso.

La linea della Val d’Orba presentò an-cora un bilancio accettabile nel 1933; latranvia registrò un prodotto lordo chilo-metrico pari a 16.951 Lire, mentre quellodella ferrovia era pari a 3.485 Lire. Nono-stante la crescente concorrenza del tra-sporto delle autocorriere, questi percorsifurono salvaguardati dallo smantella-mento. Le linee Novi - Ovada e Basa-luzzo-Frugarolo furono tenute aperteperché lungo il loro percorso erano rac-cordati degli stabilimenti industriali chesi servivano della strada ferrata. Alla finedel 1933 venne costituita una società de-nominata «Società Ferroviaria Val d’Or-ba», con sede in Genova e capitalesociale di 500.000 Lire, a cui venne affi-dato l’esercizio delle due linee. Dovetteattuare un programma di miglioramentodella qualità del servizio, provvedendoinnanzitutto ad un radicale rinnovamentodell’armamento, con un investimento di4.250.000 Lire da coprire con i futuri pro-venti. In seguito a ciò, il Ministero delleComunicazioni approvò la proroga dellaconcessione tranviaria, (che si sarebbeconclusa nel 1941), fino al 1976, anno incui sarebbe scaduta la concessione dellaferrovia Basaluzzo - Frugarolo.

Alla fine deglianni Trenta si inter-venne all’infrastrut-tura della tranvia No-vi-Ovada con la se-parazione dalla sedestradale per ridurregli incidenti (cheerano frequenti inpassato) e di con-sentire l’aumentodella velocità di per-

correnza. Per la ferrovia, invece, -il cui ar-mamento era in condizioni migliori- lerotaie vennero conservate, ma si mise inatto una revisione generale del suo statocon la sostituzione del materiale ove ne-cessario. Venne assunto ulteriore perso-nale, gli agenti in servizio passarono daventinove a trentasei, mentre la manuten-zione delle linee e la gestione delle sta-zioni venne data in appalto.

Con questi provvedimenti la qualitàdel servizio migliorò notevolmente e laconseguenza più evidente fu la riduzionedel tempo di percorrenza che passò da 80a 56 minuti per la tranvia e da 28 a 19 mi-nuti per la ferrovia. Nel 1936 si approfittòdella ricostruzione del ponte sull’Orba aOvada realizzando l’allaccia- mento dellatranvia alla stazione di Ovada Nord delleFerrovie dello Stato; il tronco era lungo910 metri circa.

Per interessamento del Marchese Cat-taneo, allora direttore dell’Ilva, venne de-ciso di acquistare cinque nuove automo-trici a nafta - le littorine FIAT- dal costodi 415.200 Lire ciascuna, (più un carrellomotore di riserva), per il normale servi-zio passeggeri. Avevano una capacità dicinquantaquattro posti a sedere in se-conda classe e quattro in prima, ed eranodotate di comparto postale. Le nuove vet-ture entrarono in servizio nel 1940 conpiena soddisfazione del pubblico e dellasocietà esercente. Si ridussero ancora itempi di percorrenza a soli quaranta mi-nuti, perché potevano viaggiare fino allavelocità di 65 Km/h. Le littorine permi-sero la demolizione del materiale più vec-chio. La Ferrovia della Valle d’Orba potèquindi disporre di:

1 locomotiva a vapore a tre assi da450 cavalli; 1 locomotiva a vapore a tre

A lato, Cartolina difine Ottocento:P.zza Castello e iltrenino della Tram-via Ovada- Novialla pag precedentel’Ing. Michele Od-dini sindaco diOvada

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assi da 350 cavalli; 4 locomotive a vaporea tre assi da 450 cavalli; 1 locomotiva avapore a due assi da 180 cavalli; 59 carrichiusi ed aperti; 12 carrozze di cui 5 ri-modernate.

A causa della lontananza del centrodei paesi alla tranvia, erano stati presen-tati dalla Società dei progetti di riassettodel tracciato ferroviario. La richiesta piùimportante riguardava una deviazione di2,8 Km che avrebbe permesso di raggiun-gere Castelletto d’Orba, perché era metadi villeggiatura e turismo estivo e luogodi cura per la presenza di sorgenti sulfu-ree. Un altro progetto prevedeval’allacciamento della stazione tranviariaa quella ferroviaria di Ovada Centrale,senza dover più accedere a quella diOvada Nord, perché si sarebbe ridotta ladistanza. Però, nessuno dei progettivenne mai realizzato, l’utenza del servi-zio continuava ad essere assai ridotta enon vi furono altre prospettive che avreb-bero potuto incrementare il traffico.

Durante la Seconda Guerra mondialel’esercizio continuò a singhiozzo, fino al-l’esaurimento delle scorte dei carburanti.Il 27 aprile 1945 venne attestata la situa-

zione della linea: «Danni non gravi allasede; gravi danni allo scalo merci diNovi, al fabbricato della direzione e allarimessa automotrici; totale distruzionedella rimessa autovetture; danni sensibilial materiale di trazione». Terminata laguerra nel 1946 l’esercizio venne ripreso,con alcune modifiche agli orari, a causadei danni subiti soprattutto dalla stazionedi Novi. Il materiale ancora utilizzabileera rappresentato da:

5 locomotive a vapore a tre assi; 3 au-tomotrici termiche; 7 carrozze a due assi;4 carri chiusi; 26 carri aperti;

Nel 1948, per i motivi già citati, lapiccola ferrovia Basaluzzo-Frugarolovenne però definitivamente soppressa esu tutto il suo territorio di percorrenza fugià attivo il servizio di autocorriere ge-stito alla Società Autotrasporti Alessan-drini (SAA).

Gli ultimi servizi della tranvia Novi-Ovada si effettuarono invece fino al 30giugno 1953.

La SAA subentrò alla Ferrovia Valled’Orba, rilevando linee, materiale rota-bile e personale. Mentre quest’ultimovenne reimpiegato, la linea ferroviaria fu

smantellata e il materiale rotabile ven-duto al peso del ferro; le automotrici inbuone condizioni -secondo quanto dettoda un funzionario della MotorizzazioneCivile di Alessandria - furono cedute alleFerrovie Jugoslave.

L’epoca del progresso per la piccolaferrovia era ormai decaduta e sostituitadall’affermarsi dello sviluppo automobi-listico; per quanto riguardava il trasportopubblico divenne sempre più rilevantel’avvento della corriera.

BibliografiaC. BOZZANO, R. PASTORE, C. SERRA (1999), Latranvia Novi Ligure - Ovada e la ferrovia Basa-luzzo-Frugarolo, in La freccia del Turchino,Compagnia dei librai, Genova.

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U trenéin da Nove a UòL’era hai so tempi rinumòl’avaiva n’tasta na vapurierache i vagugni a s’tiròva drera.

U s’muntòva n’ti vagugnichi paraivu tanci salugnicun dei banche foce a listee n-tei bròie ui resto va ei cighe.

Quande i t’avaivi da stè suu t’gniva i granfi a care xù,i eru durui, i eru fuimeieu t’gniva i granfi an tèi déie.

U marciova provu a ra stròda tùcci l’era salutòe b’sogna di ra veritòu no moi mandò n’cioun a ruspiò.

Di scrulugni i t’nan ciapòvidi spunciugni i t’nan dóvi,quanta giainte lò purtòan tanci ogni d’attivitò.

U ra purtòva avanci a n’dreraa laure ai meicò e ai ferau s’dòva òrie e u s’ampettòvae ra giainte al rispettova.

Se na féia u truova per stròprountu ui dova na sciouròe cuntainta le a s’vutovacun na man al saluto va.

U cuntinuova a caminòl’aveiva giainte da purtèus saraiva bain fèimòe dui baxigni u i’avraiva dò.

Spoichi d’tera o d’causeinau lasciova munte tucci n’simaun faxiaiva distinsiounda l’uperoiu hai padroun.

L’era cun tucci tantu amigoperò sil cuntradivuu n’avaiva n’cioun riguorduu faxiaiva ure d’ritordu.

I caratéi i s’aragiovua steie a dre i gnira fovui caruséi i s’truovu n’Castea specè coch furestè.

Per purteie da Pietru o a ia Grottaper purai mangè cheicosadopu n’viogiu n’tu treneinu i’andaxaiva in boun spuntéin.

A Leichera u rivovau sentiva udù de stoaladoie n’drainta machinistache ded d’Uò a surna n’vista.

Dou paroie ded chèibounil fovu n’dè su d’presciounle da xurè che dal quel mumalntuu marciòva ultre hai saintu.

A ra fein u rivova a Uòu tie dova na sciouròan Caste t’rivo vi stancudopu a vai marciò eh’sì tantu.

L’era tainciu ded canisae ul savaiva ei machinistache dopu avai fociu tanta stròai vaxaiva bain na strasunò.

Dopu il purtovu a ripusèprima d’metle turna a marcèd’chèiboun e d’eua il rifurnivuper purai parti d’asbrivu.

Dopu availe fociu laurè,anche n’feriera a manuvrèi l’han misu an penscioune i Than sarò n’tin baracoun.

Ancura aura u s’vò n’Castècun ra speransa d’vegle gni n’drèmò le sulu n’illusioiini’han l’vò feina ra stasioun.

Trenein coaru in te rivi ciùu to sbuffè an le sentuma ciùle restò per nui sulu in ricorduche a scrurdesle un’gna d’modu.

Aura i’han misu ra curieramo le a porta dan tra fèrae per muntele però n’simab’sogna ese vestì n’prima.

Dopu tanta cumpagnèiale restò sulo che malincunéia.Su Uaroxi le gnu i mumaintud’fè au trenein in munnumaintu.

Il trenino da Novi a Ovada.Il trenino che collegava Novi Ligu re adOvada era ai suoi tempi rinoma to. Avevadavanti una vaporiera che si tirava appressoi vagoni. Si saliva sui vagoni che parevanotanti saloni; con panche fatte a liste che fa-cevano le pie ghe ai pantaloni. Quando ti al-zavi ti ve nivano i crampi, erano dolori, eraun formicolio.

Il trenino marciava a lato della stra da ed erasalutato da tutti e in verità non ha mai fattofinire nessuno in ospe dale. Degli sballotta-menti ne prende vi, degli spintoni ne davi;quanta gente ha portato in tanti anni di ser-vizio. La portava avanti e indietro: a lavo-rare, al mercato, alla fiera; si dava dellearie, si impettiva e la gente lo rispet tava. Setrovava una ragazza per stra da pronto davauna fischiata, lei si voltava contenta e con lamano salu tava. Continuava a camminare,aveva gente da portare, si sarebbe ben fer -mato per darle due bacini.Sporchi di terra o di calce li lascia va saliretutti, non facendo distizione tra operaio epadrone. Era con tutti amico ma se lo con-traddivano allora non aveva alcun riguardoe faceva ore di ritardo. I carrettieri si arrab-biava no, a starle dietro non riuscivano; icarrozzieri in piazza Castello attende vanoqualche forestiero. Per portarlo da Pietro oalla Grotta per riempirsi lo stomaco dopoun viaggio in trenino l’ideale era uno spun-tino. A Lercaro si sentiva odore di stalla:«dacci dentro macchinista che di Ovadasiamo in vi sta». Due palate di carbone lofaceva no andare su di pressione, è da giu-rare che da quel momento marciava oltre icento. Alla fine giungeva ad Ovada edemetteva un fischio; in piazza Castel lo,dopo quel viaggi; giungevi stanco.Era sporco di fuliggine, lo sapeva il mac-chinista che dopo aver percorso tanta stradagli avrebbe fatto bene una sudata. Lo porta-vano a riposare prima di rimetterlo in mar-cia; lo riforniva no di carbone e di acqua edera pronto a ripartire di colpo. Dopo averlofatto lavorare anche in ferriera a manovra -re, l’hanno messo in pensione e l’han nochiuso in un baraccone. Ancora oggi si vain piazza Castello con la speran za di ve-derlo ritornare ma è solo un’il lusione,hanno tolto persino la stazione. Treninocaro non arrivi più, il tuo sbuf fare non losentiamo più, è rimasto per noi solo un ri-cordo e dimenticarlo non c’è modo. Adessofa servizio la corrie ra ma lei parte dallafiera (piazza XX Settembre), e per salirvisopra occor re indossare abiti decenti. Dopotanta compagnia è rimasta la malinconia.Su Ovadesi è venuto il momento di fa re altrenino un monumento.

(Alla pag seguente: l’arrivo ad Ovada deltrenino in un’immagine di Cesare Ugo del1935)

U trenein da Nove a Uòdi Tonino Tassistro

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Fresco di stampa, grazie alla Monda-dori alla quale va il merito di avere ripro-posto un classico della narrativa modernain una attraente collana, è riapparso in li-breria la tanto apprezzata e mai sufficien-temente gratificata opera di MarcelloVenturi: Bandiera bianca a Cefalonia.Felice concomitanza con le imminenticelebrazioni del 70° Anniversario del -l’Eccidio degli appartenenti alla Divi-sione “ACQUI”. Nome che subitamenterichiama alla memoria il 17° ReggimentoFanteria “Acqui” che in quella occasionepagò in maggior misura il tributo di san-gue rispetto ai meno numerosi organici diartiglieri e genieri di quella Grande Uni-tà. Reggimento oggi destinato a compitiaddestrativi perché i giovani volontarirafforzino il proprio animo nell’alveodelle eroiche tradizioni di questa unità ri-salenti al 1703. Tradizioni infuse nel suomotto “Aquensem legionem time” e nellesue ormai secolari mostrine rettangolaridi colore giallo recanti - al centro - unariga longitudinale nera assurta ad incan-cellabile segno di lutto in memoria deiCaduti a Cefalonia. Per questi motivi laFesta del Reggimento viene celebrata il25 Settembre, anniversario della conclu-sione dei combattimenti nell’isola ionica.La greca Kefallenìa che, erta sul marecon le sue montagne dai fianchi copertida radi oliveti e boschi di pini - sorellamaggiore a difesa della piccola Itaca daiviolenti marosi sollevati dai venti di sud-ovest -, rimarrà per sempre indissolubil-mente legata alla storia di questi nostriuomini:

umilissimi soldati che trovarono im-provvisamente in se stessi la forza dellafierezza o alti ufficiali che prima cerca-rono di risparmiare i loro uomini, ma poiseppero scegliere la via dell’onore, cam-peggiano, nelle pagine di Venturi, nellaloro splendente verità; e altrettanto risal-tano l’umanità (anche nei momenti di de-bolezza), i gesti, gli atteggiamenti, gliepisodi.

E fra questi, quello fondamentaledella scelta coraggiosa che provocò ilmassacro: per la prima volta, nella storiamilitare di tutti i paesi e di tutti i tempi,ufficiali e soldati poterono decidere delloro destino; interpellati, tutti, dal loroComando, se volevano combattere con-tro i tedeschi o continuare la guerra conessi o cedere le armi, unanimemente,dopo una drammatica notte tra il 14 e 15settembre, decisero di resistere. Ful’inizio della Resistenza e fu l’inizio della

democrazia. Purtroppo dopo, dopo atti divalore, debellati dagli Stukas tedeschi, gliitaliani furono sopraffatti e cominciò ilterribile massacro.

Leggendo il libro di Venturi, due sen-timenti dominano il nostro animo: quello

della commozione per la strage di mi-gliaia di inermi e quello dell’orrore perla inumana ferocia con cui degli uoministerminarono i loro simili; non si dimen-ticano il coraggio e la dignità con cui gliitaliani andarono a morte, così come nonsi dimenticano i falò dei cadaveri......

Marcello Venturi ha quindi impostatoil suo romanzo su questa antinomia dielementi: l’umanità e la disumanità, ladignità e la ferocia .... Ma sopra questa

contrapposizione. sopra questa antitesi,sopra lo stesso desiderio di giustizia enon di vendetta, lo scrittore pone il suosenso di pietà e l’acquisizione di un suoconvincimento: “Forse il vero, il grandecolpevole, è da ricercare altrove: in que-sto spirito di violenza e di sopraffazioneche, al di sopra di ogni frontiera geogra-fica ed ideologica, continua ancora adarmare la mano di nuovi assassini.”

E’ questa saggezza, è questa superio-rità morale che ha consentito a MarcelloVenturi di presentarci con animo pacifi-cato, anche se triste, l’affresco di sanguedi Cefalonia, di esprimere in tono som-messo, mai retorico e mai gridato, il sen-timento di un esercito avviato al massa-cro e quello di un altro che del massacroè l’autore......”: (Sandro Pertini in “Prefa-zione” al volume).

Alla luce di questi principi, i lettori -meglio se giovani perché l’ammaestra-mento morale di Marcello Venturi si dif-fonda e perpetui tra le nuove generazioni- dovrebbero accingersi alla lettura o allarilettura di questa opera ora arricchita daun’appendice contenente due testi delVenturi. Il primo è l’articolo Un’isolapubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” adicembre del 1962, narrazione del viag-gio che Venturi compì a Cefalonia; men-tre il secondo è la Prefazione allaristampa Rizzoli del 1972 in cui l’Autoredescrive la favorevole accoglienza avutadalla pubblicazione del 1963 e la se-quenza di processi che sollevò in Germa-nia la rivelazione di questo eccidio tenutorigorosamente nell’oblio perché non siindagasse sulle responsabilità della We-hrmacht. L’introduzione di Francesco DeNicola e la postfazione di Giovanni Ca-pecchi coronano la pubblicazione ma èdoveroso non lasciare in secondo pianole parole con cui Sandro Pertini chiude laprefazione di questo romanzo:

“Il valore storico e civile si fonde conquello letterario in quest’opera dallaquale non si potrà mai prescindere se sivorrà tenere presente e vivo nella memo-ria il sacrificio della Divisione Acqui.Forse in poche circostanze come in que-sta, la poesia ha veramente servito la sto-ria e la verità.”

Marcello Venturi e Cefalonia, l’isola dell’eccidiodi Pier Giorgio Fassino

In questa pag. in alto, Marcello Venturiin una foto scattata al tempo della suavisita all’isola di Cefalonia

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VITTORIO BONARIA, Storia dellaDiga di Molare. Il Vajont dimenti-cato, prefazione di Luca Mercalli,Erga edizioni, Genova 2013, pp.332.

II libro, frutto di indagini bibliografi-che e di inchieste sul campo, si rivolge siaagli appassionati di storia locale che a tutticoloro che sono interessati a fatti o disa-stri ormai dimenticati. La narrazione degliavvenimenti e delle cause del disastro èvolutamente di tipo divulgativo ed è cor-redata da numerosissime immagini di re-pertorio. Il libro contiene molteplicispunti di approfondimento per gli studentidelle scuole secondarie e delle universitàassumendo un notevole interesse alla lucedegli eventi ca lamitosi che periodica-mente scuotono la nostra nazione e chevengono ripetutamente considerati senzaprecedenti, mettendo ancora una volta inevidenza il difficile rapporto tra uomo adambiente circostante.

Gli amanti delle escursioni naturalisti-che e di archeologia-industriale troverannodi grande utilità la guida per recarsi allaDiga di Molare corredata da una mappa deisentieri consigliati e da numerose fotogra-fie a colori raffiguranti lo stato attuale deiluoghi. La Diga di Molare è un monumentoimmerso nei boschi delle Alpi Liguri che sierge a memoria di un evento catastroficoormai quasi totalmente dimenticato ed ac-caduto nel 1935, al confine tra le provincedi Genova ed Alessandria. Nel Comune diMolare, in Località Ortiglieto nel cuoredella Valle Orba, venne infatti realizzatodalle Officine Elettriche Genovesi tra il1919 ed 1925 un grande invaso idroelet-trico avente una capienza di 18 milioni dimetri cubi ottenuto dallo sbarramento delTorrente Orba per mezzo di due dighe.Dopo meno di un decennio di funziona-mento, nella mattinata del 13 Agosto 1935,uno dei due sbarramenti, denominato ‘DigaSecondaria di Sella Zerbino’ collassò a se-guito di un violento nubifragio. Una grandeondata si riversò a valle seminando morte edistruzione lungo tutto il corso del TorrenteOrba sino alla lontana confluenza con ilFiume Bormida posta alle porte della cittàdi Alessandria. Le vittime accertate furono111. Da allora la Diga di Molare, alta 47metri non è più toccata dalle acque del Tor-rente Orba che, da quel lontano 13 Agosto1935, si è aperto un nuovo varco dove untempo sorgeva la Diga Secondaria di SellaZerbino.

Il volume reca la prefazione del notostudioso di meteorologia e Presidente So-

cietà Meteorologica Italiana, Luca Mercalliche, per gentile concessione, di seguito ri-portiamo:(n d. r.):

Come ruscelli che confluiscono in unnodo idrografico alcuni fatti mi hanno con-dotto alla diga di Molare, sia pure contempi di corrivazione assai lunghi. Il primoè l’aver avuto come docente di zoologiaalla Facoltà di Agraria di Torino quella pro-fessoressa alessandrina Arzone scampatamiracolosamente alla disastrosa onda dipiena: era il 1987 quando sostenni il suoesame di zoologia alla facoltà di Agraria diTorino e venni a conoscenza della sua sto-ria dalle solite voci di corridoio di studentipiù anziani di me. Di tanto in tanto la in-contro ancora in qualche congresso scienti-fico. Una donna di tempra eccezionale. Eper me poco più che ventenne ciò fu di sti-molo a curiosare tra le pubblicazioni nellabiblioteca dell’Istituto di Idraulica, vistoche le dighe e i canali mi avevano sempreappassionato e rimango tuttora un fermoestimatore degli impianti idroelettrici benrealizzati. Il secondo fatto è ovviamenteconnesso con la mia attività di ricerca cli-matologica: l’immane nubifragio del 13agosto 1935 non poteva non attirare la miaattenzione e a tal proposito vale la pena ag-giungere qualche dettaglio.

L’area alpino-appenninica che funge daspartiacque tra la Liguria e il bacino del Poè soggetta infatti a precipitazioni di ecce-zionale intensità, tra le maggiori d’Italia ed’Europa, a causa della formazione di de-pressioni sottovento alle Alpi localizzatesul Golfo di Genova, del consistente ap-porto di umidità marina e della presenza dirilievi che accentuano i fenomeni convettivi.

E un’area simile a quella delle Céven-

nes, nel Midi francese, dove i fenomeniintensi che vi si sviluppano, da temposono stati battezzati dai meteoidrologid’oltralpe “pluies cévenoles”. Propongoqui per analogia la denominazione simbo-lica di “nubifragi genovesi” o “piogge ge-novesi” per quelle precipitazioni intenseche caratterizzano il settore ligure che vadal Savonese allo Spezzino. E in effetti lapioggia di maggior intensità mai registratain Italia, responsabile di una grave allu-vione genovese con 44 vittime, è quelladell’ottobre 1970 quando tra le ore 19 delgiorno 7 e le ore 17 dell’8 a Bolzanetocaddero 948 mm di pioggia, di cui 447 in6 ore. Si tratta di una quantità pari al va-lore medio della pioggia che cade a Mi-lano in un anno, totalizzato in meno di 24ore! L’evento pluviometrico del 13 agosto1935 sull’alto bacino dell’Orba venne ainterrompere una settimana anticiclonica

calda e asciutta (non proprio una siccitàepocale come le cronache descrivono, inquanto nei mesi precedenti vi erano statitemporali sparsi sul Piemonte, a differenzadi altre crisi idriche ben più estreme). Im-provvisamente una saccatura alimentata daaria fredda scandinava si approfondì tra iPirenei e il Golfo del Leone, convogliandosulla Liguria un vigoroso flusso da Sud-Ovest. Le celle temporalesche, verosimil-mente classificabili oggi come un sistemaconvettivo stazionario rigenerante, si for-marono nella mattinata del 13 agosto pro-prio sullo spartiacque padano - ligureoriginando violenti scrosci che produrrannoa fine gior nata l’accumulo di 554 mm dipioggia (di cui 534 in sole 8 ore), al pluvio-metro di Lavagnina Centrale e 453 mm aquello di Piampaludo, posti a una dozzinadi km dalle dighe di Molare. Un valore im-ponente, allora difficile da immaginare inserie di osservazioni pluviometriche brevi,cominciate - in quei comuni piuttosto appar-tati - in genere soltanto dopo il 1915 conl’istituzione del Servizio Idrografico delMinistero dei Lavori Pubblici. Si aveva ra-gione allora a definirlo uno dei nubifragipiù intensi a livello europeo, anche se nelperiodo successivo nuovi episodi di entitàconfrontabile definirono meglio una clima-tologia delle precipitazioni intense piutto-sto ricorrente in quelle zone. Dopo l’ecce-zionale evento genovese dell’ottobre 1970vi furono infatti i 429 mm del 27 settembre1992 (pluviometro dell’Università), connuova alluvione della città e due vittime, i351 mm del 23 settembre 1993, ancora al-luvione su Genova e Ponente, i 396 mm in6 ore a Monte Gazzo il 4 ottobre 2010 (al-luvione di Sestri Ponente), i 539 mm del 25ottobre 2011 (di cui 511 in 12 ore) al plu-viometro di Brugnato, nello Spezzino, con

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alluvione delle Cinque Terre (13 vittime) ei 395 mm del 4 novembre 2011 a GenovaUniversità (ma una stazione meteorologicaamatoriale sita a Quezzi rilevò 556 mm,che storicamente risulterebbe il valore piùelevato sul territorio urbano genovese), ra-gione dell’esondazione dei torrenti Bisagnoe Fereggiano e di 6 vittime, nonché, sempreil 4 novembre 2011, i 175 mm di precipita-zione accumulati in appena un’ora dallastazione Arpal di Vicomorasso, sulle alturealle spalle di Genova (310 m), probabil-mente il massimo di intensità oraria mai ri-levata in Italia, e l’elenco non è affattoesaustivo, in quanto quasi sempre in occa-sione delle alluvioni genovesi i massimipluviometrici dell’ordine di 600-800 mmper ciascun evento furono registrati (o sti-mati) nell’entroterra. Ed ora veniamo al-l’ultimo e più recente elemento di risonan-za con queste pagine. Questo approfonditostudio di Vittorio Bonaria mi ha offerto unaserie di nuove informazioni e dettagli suuna vicenda che avevo soltanto sfiorato,privo del conte sto geografico e sociale diriferimento. Avevo già accettato di scriverequeste righe per i motivi precedenti, ma du-rante la lettura delle bozze sono rimastosorpreso di come la storia di una certa arro-ganza del potere economico-politico neiconfronti delle cosiddette “grandi opere”infrastrutturali abbia in Italia radici antiche.Ignoravo il caparbio positivismo indu-striale, condito da una buona dose di inte-resse economico, dell’ingegner Zunini, cheinseguendo il sogno ben remunerato di for-nire acqua a Genova ed elettricità alle fer-rovie era tuttavia disposto a passare sopraad ogni protesta locale. Ignoravo la freddadeterminazione delle Officine ElettricheGenovesi nel realizzare ad ogni costol’opera idraulica piegando perfino la geo-logia delle inconsistenti miloniti serpenti-nitiche al proprio servizio, alterando il piùprudente progetto originale dell’opera,stringendo alleanze facinorose con la poli-

tica, sfruttando la propaganda della stampalocale, prima contraria, poi solida alleatadelle magnifiche sorti e progressive cheavrebbero illuminato le comunità graziealle due dighe nei remoti canyon dell’Orba.Ciò che quest’arroganza produsse costitui-sce il culmine della narrazione di que-st’opera, che assume il valore di unadenuncia postuma di come allorché il po-tere economico, quello politico e quellotecnico - qui rappresentato dall’elite del-l’ingegneria idraulica italiana dell’epoca -si alleano, producono mostri. Sembrerebbequasi che in mancanza di una serena e me-ditata dialettica con i cittadini di un territo-rio che si oppone a un certo progetto, iproponenti, resi via via più forti e autorefe-renziali dalle protezioni politiche, perdanodi capacità autocritica e subiscano una sortadi delirio di onnipotenza che li porta a com-piere catene di errori irreversibili: tale ap-pare la scelta dell’ingegner Gianfranceschiquando ormai certo della propria invincibi-lità decide di elevare l’altezza della dighettadi Sella Zerbino per aumentare l’invaso equindi il denaro ricavabile dall’energiaidroelettrica producibile, tale la decisionedi non approfondire la prospezione geolo-gica basandosi ancora sulle vecchie e labiliconsiderazioni del Salmoiraghi. Tale ap-pare la voluta sottovalutazione delle perdited’acqua che compaiono fin durante la co-struzione nel substrato del piccolo sbarra-mento. E intanto ecco che attorno al poteresi aggregano come attirate da un dramma-tico magnete le complicità: i funzionari chedovevano fermare il mostro quando ancoraera in gestazione al contrario lo alimentanoe chiudono gli occhi firmando verbali tran-quillizzanti, i dirigenti iniziano a produrredenaro sonante in una centrale non ancoraautorizzata e collaudata e via così, incredi-bilmente fino al processo che seguirà il di-sastro, quando ancora si cercherà in tutti imodi di difendere l’indifendibile a colpi dicavilli e interpretazioni lessicali, anche a

costo di vergognose connivenze dei periti,tra cui alcuni giganti indiscussi dellascienza idraulica nazionale. Questa limpidaricostruzione di Bonaria getta dunque lucesulla storia poco nota di una sconfitta sututti i fronti, un disastro umano, sociale,economico, ambientale e ingegneristico. Ilcrollo della dighetta di Sella Zerbino, in-sieme al precedente collasso della diga delGleno (1923), mostra il volto del momentostorico nel quale in Italia furono sotterrati isemi maligni di quelli che poi furono, pochidecenni più tardi, il Vajont e Stava, ma infondo tutti i grandi disastri ambientali delPaese, dall’Eternit di Casale Monferrato al-l’Ilva di Taranto: il sacrificio della sicu-rezza e della ponderazione sull’altare delguadagno immediato e del saccheggio dellerisorse, funesta abitudine che non è ancorastata estirpata e si rinnova ogni giorno congiganteggianti progetti di stato, venduti peril benessere dei cittadini, difesi con i carriarmati, ma in realtà frutto di interessi oli-garchici e, per la loro natura rapace, spessoportatori di conseguenze funeste. Sembre-rebbe dunque che non esista diga che tengadi fronte all’umana tendenza al malaffare eal sotterfugio. E vero, forse non una diga dicalcestruzzo. Ma con maggior probabilitàdi successo sarà forse una diga di consape-volezza e di cultura che queste pagine con-tribuiscono pazientemente ad erigere, e chesperiamo in futuro nessuna piena possa piùsormontare.

Luca Mercalli

*****

GIANNI REPETTO, Come le luc-ciole, Tipografia Pesce, Ovada 2012

Il 1o febbraio 1975 sul “Corriere dellaSera” usciva un articolo di Pier Paolo Paso-lini nel quale la scomparsa delle luccioledovuta al proliferare inconsulto dell’inqui-namento era assunta a simbolo e spartiac-que di due modi di essere di quello che luichiamava “il fascismo democristiano”:quello anteriore alla scomparsa delle luc-ciole si caratterizzava per una sostanzialeadesione ai valori della civiltà contadina epaleoindustriale, mentre quello successivosi connotava per la sua conversione, in granparte inconsapevole ed eterodiretta, al “be-nessere” e al “consumismo di massa”, conla conseguente distruzione dei primitivi va-lori, al posto dei quali la logica impersonaledel mercato e dell’indu strializzazione in-staurò il deserto. Ovvero un vuoto ideale emorale che andava riempito di merci. Ora,Gianni Repetto, in questo suo ultimo ro-manzo, dimostra di avere ben chiara e pre-

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sente l’analisi pasoliniana, anche perché luistesso, ad un certo punto, la richiamaespressamente. Ed il titolo, del resto, è diper sé eloquente, sebbene rimandi, in ma-niera ironica, al ritornello di una famosacanzone in cui “le lucciole” sono tutt’altracosa.

Il riferimento letterario a Pasolini non èisolato: altri autori, non solo italiani, si pre-stano, con brani delle loro opere, a sugge-rire allo scrittore qualche incipit di capitolo,a dare, per così dire il la al suo discorso.Non si tratta, però, solo di affinità letteraria,sia che Repetto attinga a Pavese, sia che siispiri a Mark Twain o a Prosper Mérimée,tanto più che sul piano stilistico il suo mo-dello rimane pur sempre Giovanni Verga,di cui riprende, adattandola peraltro all’arealigure-piemon- tese e quindi a una cadenzaassai diversa da quella siciliana,l’indulgenza per il parlato, con i suoi appa-renti solecismi, il suo gusto marcato per ideittici, per le ridondanze, per certi idioti-smi che nella lingua nazionale non sempretrovano adeguati corrispettivi. Di qui lefrequenti foderature, le prolessi pronomi-nali, i calchi vernacolari. Di suo, se vo-gliamo, Repetto, sulla scia di certoneorealismo, vi aggiunge qualche espres-sione dialettale, spingendo la mimesi lin-guistica a cogliere ed assaporare inflessionie sfumature che altrimenti si perderebbero.In un caso, poi, cerca di trascrivere fedel-mente, a costo di disarticolare la sintassi edi deformare l’ortografia, l’ibrida e appros-simativa parlata dell’immigrato semi-inte-grato, e qui lo stile si fa davvero specchio diun disagio esistenziale. Ma - dicevamo -non è solo una questione di stile: è, se mai,una dimostrazione ulteriore del fatto che loscrittore non deve solo fare i conti con larealtà, bensì e prima di tutto con la lettera-tura, con le sue forme, i suoi modelli. Conalcuni libri che hanno “segnato fortementela sua vita”. La visione della realtà è inevi-tabilmente condizionata da filtri letterari.Qui, almeno, l’autore gio- ca a carte sco-perte.

Il romanzo si presenta come un“giallo”, ma l’investigatore - secondo unatradizione che risale quanto meno a Poe e aChesterton, per protrarsi fino a Sciascia eoltre - non è un professionista o un funzio-nario di polizia, sibbene un professore pe-rennemente lacerato “tra la passionepolitico-sociale e la famiglia”; un profes-sore, Stefano Bisio - già protagonista de Ildetective immaginario -che si è inventatauna strana professione: quella di recuperarei rapporti all’inter no della coppia. Un indi-viduo perennemente in crisi: reduce dal’68, che ha vissuto con genuino ed entusia-

stico trasporto, ma “fregato” dal suo stessoentusiasmo, spiazzato e costretto a ripie-gare nel “privato”, lui “pacifista non vio-lento”, dalla degenerazione del movimento,che aveva rinunciato al dialogo per “il mo-nologo delle armi”. Deluso dal crollo deisuoi ideali, Stefano non ha miglior fortunanell’ambito familiare: si è separato dallamoglie Elisa, da cui ha avuto due figli, e daqualche tempo convive con un’altra donna,Cinzia. Vive a Genova, con lei e con lamadre, la quale, incapace di elaborare illutto per la prematura scomparsa del ma-rito, si è come estraniata nel suo lavoro diportinaia, troncando all’apparenza ognirapporto con il passato e, in particolare, conil paese d’origine, L. (il riferimento auto-biografico a Lerma è ovvio). Stefano havissuto il distacco dal paese natio, del padree dei nonni, come una sorta di dolorosa am-putazione, come una sottrazione dell’infan-zia e cova, di conseguenza, un sordo risen-timento nei riguardi della madre. Nella suamemoria egli serba tuttavia l’immaginespettacolare delle lucciole, i liminn-i, che,grazie alla nonna, aveva avuto modo di sco-prire in una delle fugaci scappate a L. e,nella sua mente, avevano assunto una di-mensione mitica. A quella favolosa epifa-nia era rimasta sospesa la sua infanzia.

La crisi esistenziale in cui si dibatte Ste-fano, vittima delle sue stesse contraddi-zioni, giacché sente da un lato di essere untradizionalista (“un uomo all’antica”) e sadi avere una visione della vita tutto som-mato maschilista, ma dall’altro nutre idee eideali libertari e si trova a fare i conti conun duplice fallimento (quello del movi-mento, sommerso ormai dall’imperversaredel più gretto conformismo e del più ottusoconsumismo, e quello della famiglia, in cui,nonostante tutto, si ostina a credere), preci-pita, non senza comici risvolti, il giorno chela madre, contro ogni sua aspettativa, glipropone di tornare a L. E di tornarci, oltre

tutto, con la famiglia allargata: quella chea lui sembra una “incredibile promiscuità”.Il suo disorientamento è totale e grandeanche il suo disappunto, perché eglis’avvede dell’inanità degli schemi umani,destinati a saltare dinanzi all’imprevedibi-lità della vita. E questo lo costringe a rimet-tersi in gioco, “a ricominciare”. Né devesorprendere che la sveviana “originalità”della vita s’incarni di preferenza nella fem-minilità: chi ha letto D. H. Lawrence (maanche altre opere di Repetto) sa bene comela conflittualità tra istinto e ragione, tra na-tura e cultura, sia anche di genere. Ad ognimodo quel che importa ai fini narrativi èche il conflitto tra Stefano e le sue donne siprotrae per buona parte del libro, coinvol-gendo anche i figli, rischiando così di di-ventare pure generazionale. Ed è questo illato che potremmo definire comico del ro-manzo, perché in fondo i contrasti, più omeno latenti, non degenerano mai in scon-tri veramente drammatici, ma restano sulpiano delle “baruffe chiozzotte” di goldo-niana memoria.

A questo punto ci accorgiamo che eti-chettare il romanzo come “giallo” è quantomeno improprio. Il tema del nostos, del ri-torno al paese alla riscoperta del padre,delle radici, complica ulteriormente il qua-dro: per un verso ci rimanda all’epica (il ro-manzo è in parte una “telemachia”: ancheStefano sentirà parlare del padre - “un uo-mo che non ce n’era” - nei termini usati perrievocare Odisseo), per altri si apparenta airacconti di ricognizione e di memoria, in unviaggio à rebours alla ricerca del tempoperduto e di quel piccolo mondo antico cheera la “comunità” del villaggio contadino.Sotto questo aspetto, il protagonista riescea rinnovellare, sia pure per poco, la miticaesperienza infantile del contatto e dell’im-medesimazione panica con la natura, attra-verso l’incanto delle lucciole, ma questonon fa che acuire la nostalgia, il dolore lan-cinante del distacco e della distanza irrime-diabile. Il legame che unisce l’uomo allaterra si è ormai incrinato, ineluttabilmente.Ed a suggerirci che questo è uno dei temiprincipali del libro è appunto una sorta disua mise en abîme nell’incontro, quasi li-minare, di Stefano con Amed, il maroc-chino che si sente “dilaniato tra due storie”,sradicato e spaesato: straniero in patria estraniero in Italia, “un altro uomo”, senzaqualità e senza più identità. È qui evidentela parabola devastante della modernità.

Allo stesso modo anche Stefano soffrel’ambiguità del suo ritorno, in quanto ri-trova sì qualcosa che aveva a lungo cercato,ma constata pure quante cose ha perso enon potrà più recuperare. In particolare lo

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angustia lo smarrimento dello spirito comu-nitario, anzi il tradimento e l’oblio dell’au-tentica lezione dei padri: “gli uominiavevano smesso di ascoltare i vecchi saggiche ogni civiltà contadina aveva espressoalle diverse latitudini e così, senza quellabussola indispensabile, il mondo stava an-dando tutto in driverio”. Di qui la confu-sione del presente, di qui il degenerare delsolidarismo comunitario nell’anomia indi-vidualitica. Paradossalmente anche per ef-fetto della cultura, giacché la scolarizza-zione di massa, invece di tradursi “in pro-gresso sociale, solidale”, si era risolta nel-l’accentuarsi delle “rivendicazioni indivi-dualistiche”. Col risultato che il paese eraormai “annebbiato dal miraggio consumi-stico e dalle urla della televisione”. Non èun caso, allora, che il viaggio di ricogni-zione all’interno di L. sotto la guida, quasivirgiliana, dell’amico Nan, si trasformi perStefano in una specie di descensio ad infe-ros o, meglio ancora, nella struggente rivi-sitazione di una ghost-town.

E proprio dal passato, dal suo torbidodoppio fondo, ecco, ad un certo punto, riap-parire i fantasmi. Essi grondano sangue echiedono giustizia. Dante, nel Paradiso,con riguardo all’etimologia del termine,parla di “vendetta”, e la vendetta come giu-sta rivendicazione di un torto è un temacaro anche a Repetto. Qui essa diventa “esi-genza di verità”, una esigenza che spiegaperché Stefano si cala nel ruolo del detec-tive: in effetti l’investigazione gli si addicemolto più che non la professione da luiesercitata, tanto più che alla luce delle suevicissitudini familiari questa si appalesastridente. Medice, cura te ipsum: verrebbeanzi da dire. Stefano, in effetti, è animatoda una istintiva generosità e, oggi comeieri, non riesce a darsi pace e a rassegnarsidi fronte alle ingiustizie. Egli non può farsuo il motto del Candide volterriano di“coltivare il proprio giardino”, perché sentecome un imperativo categorico l’esigenzadi ristabilire la giustizia. Costi quel checosti. Non a caso cita le parole di Socratenel Gorgia: “L’uomo giusto è colui che nonha quiete fino a quando non si ristabilisce lagiustizia”.

Il passato che ritorna è quello della Re-sistenza, le cui ferite ancora non si sono deltutto rimarginate. E benché Repetto ne vedaanche le incongruenze e ne ammetta i latioscuri (sia pure degradati a semplici “epi-sodi”); benché ne riconosca apertamente ilcarattere fratricida di guerra civile; nonmanca di mitizzarla, così come aveva inprecedenza mitizzato la più recente espe-rienza del ’68; del resto, fra i due momentiepocali qualche trait-d’union o, per meglio

dire, un fil rouge neanche troppo sottilecorre. D’altra parte ognuno ha diritto adavere i propri miti e non saremo certo noi abiasimare per questo lo scrittore. Il quale habisogno - un bisogno romantico e viscerale- di mitizzare luoghi, eventi e personeanche perché crede nella valenza pedago-gica della storia, che non è per lui (come in-vece per Montale) “magistra di niente checi riguardi”. Egli, in altre parole, sente fortel’esigenza di esemplarità, se non altro perinterrogarsi sul ruolo della violenza, sullasua “necessità” storica e sull’importanza dicoltivare la memoria.

Non diremo dove porti questa rivisita-zione della Resistenza, soprattutto per nontogliere ai lettori il piacere di scoprirlo. Pre-feriamo chiudere il nostro discorso par-lando dell’importanza che ha per Repettola letteratura, persuasi che “la forza dellaletteratura” (parole sue) sia pure la forza diquesto romanzo complesso e composito. Alromanziere si può concedere ciò che sinega invece al polemista, ed è proprio perquesto che la parola del romanzo arrivadove non riesce la discussione polemica: ilracconto ha infatti “una forza magnetica”che si porta dietro “dal fuoco tribale”. È laforza magica della parola che, coinvol-gendo emotivamente ed esteticamente, rie-sce a “trasformare un’idea come tante altrein una verità assoluta condivisa collettiva-mente”. Su questo siamo pienamented’accordo.

CARLO PROSPERI

FEDERICO FORNARO, Pierina, lastaffetta dei ribelli – Ed. ISRAL –Collana di storia contemporanea –n. 26 – Anno 2013 –

Nel 70° Anniversario della Resistenza,il senatore Federico Fornaro, con grandesenso della storia e delle battaglie parti-giane per la riconquista della libertà per-duta, ha voluto aprire uno squarcio su di unaspetto, spesso poco conosciuto, riguar-dante l’attiva partecipazione della compo-nente femminile al riscatto moraledell’Italia attraverso il movimento insurre-zionale. Quanto soleva sottolineare Ada, lamoglie di Piero Gobetti “ ... nella Resi-stenza la donna fu presente ovunque: sulcampo di battaglia come sul luogo di la-voro, nel chiuso della prigione come nellapiazza o nell’intimità della casa. Non vi fuattività, lotta, organizzazione, collabora-zione a cui ella non partecipasse: come unaspola in continuo movimento costruiva eteneva insieme, muo- vendo instancabile iltessuto della guerra partigiana.”

Esempio ammirevole di quel concetto èstata Pierina Ferrari – nome di battagliaMilly e sorella dell’indimenticabile parti-giano Cucciolo (Domenico Ferrari) – che,rischiando più volte la propria vita, rese im-portanti servigi alla Resistenza. Inizial-mente accettata con sospetto a causa didiversi tentativi dei nazifascisti di infiltraredelle donne come spie nelle formazionipartigiane, ben presto seppe guadagnarsi lapiù incondizionata fiducia servendo comestaffetta sulle alture dell’Appennino Li-gure-Piemontese ed in particolare tenendoi contatti con il Comitato Liberazione Na-zionale di Ovada.

Il volume si sviluppa su quattro partiche nel loro insieme trasmettono un’impor-tante testimonianza della ribellione al Ven-tennio:

Milly, parte che introduce il lettore nelclima in cui vissero i cittadini dell’AltoMonferrato nei mesi successivi all’8 set-tembre 1943;

La cattura, ricorda i tristi giorni in cuiPierina Ferrari, catturata nei pressi di Mor-nese, dovette subire le torture ed il carcerea Torino sino alla sua liberazione grazie al-l’intervento del cardinale Pietro Boetto, ar-civescovo di Genova e del cardinaleMaurilio Fossati, arcivescovo di Torino,presso le autorità militari tedesche;

La Resistenza continua, la ripresa del-l’attività partigiana di Milly nonostante letorture, le violenze subite e le mortali con-seguenze nel caso fosse stata nuovamentecatturata;

Il segreto della Benedicta, commentodedicato allo storico rastrellamento chescrisse le più luttuose pagine della lotta re-sistenziale sull’Appennino Ligure-Piemon-tese.

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Coronano l’opera: Un ringraziamentospeciale; le Onorificenze concesse a PierinaFerrari; la Bibliografia ragionata; le paginededicate ad una interessante documenta-zione fotografica sulla indimenticabile staf-fetta partigiana esempio di convintaadesione alla Resistenza ed ai valori di giu-stizia sociale da questa rappresentati.

francesco edoardo de salis

*****MARIO TAMBUSSA, Delibere del

Comune di Capriata d’Orba 1600 -1946, Capriata d’Orba, 2012.

Questa volta il vulcanico Tambussa, pergli amici Marietto, poeta dialettale e Can-tore in liete brigate, ha omaggiato il paesenatale portando a termine una ricerca meti-colosamente svolta tra i vetusti registri e gliannosi faldoni dell’archivio comunale. Il ri-sultato è un libro dal valore documentariorilevante nel quale sono riportati in ordinecronologico i regesti dei Convocati seicen-teschi, ovvero gli antichi verbali del consi-glio comunale, sovente di non facile lettura,per giungere alle Delibere consiliari più re-centi, si fa per dire, prese in esame fino al-l’anno 1946.

Per la parte più antica la raccolta è cor-redata da fonti bibliografiche essenziali el’Autore non dimentica l’apporto dato dallostudioso capriatese Bartolomeo Campora,che della propria terra illustrò uomini ecose attraverso erudite e numerose pubbli-cazioni. Sui trascorsi del paese mancavaperò questo nuovo apporto conoscitivo e,spazio permettendo, Marietto, in certi casi,avrebbe potuto essere meno telegrafico ri-portando per intero delibere che si annun-ciano già nel titolo di sicuro interesse.Riprendendo in mano il filo del discorsodelle patrie memorie, ha indubbiamentereso un buon servizio ai concittadini. Sfo-gliando le 298 pagine del volume, caldeg-giato dal Sindaco Pier Sandro Cassulo e daiConsiglieri Comunali al completo, i lettorihanno infatti la possibilità di varcare il pic-colo mondo delle vicende paesane dei se-coli lontani incontrando strada facendo,anche quegli eventi che si intrecciano conla Storia nazionale, per contesti e perso-naggi.

Nei secoli più vicini a noi Capriata,come affermava nel 1836 l’abate GoffredoCasalis nel suo Dizionario Storico Geogra-fico edito a Torino, era Capo Mandamentonella provincia di Novi, apparteneva alla

Diocesi di Alessandria, Divisione di Ge-nova; dipendeva dal Senato di Genova,Vice Intendenza prefettizia ufficio ipotechee Posta di Novi, Ufficio di Insinuazione. diCastelletto d’Orba, avendo soggetti i co-muni di Basaluzzo, Francavilla, e Pastu-rana.

Trecento e più anni di vita comunitariasono molti e le delibere prese in esame of-frono davvero innumerevoli spunti di ap-profondimento e ampie osservazioni suitrascorsi della Comunità. Centro conside-revole per numero di abitanti, con chiese eoratori, comunità religiose e scuole, ospe-dale e pretura, asilo per l’infanzia, medicocondotto e buoni collegamenti viari, Ca-priata assurse a Collegio Elettorale e, qualeprimo esponente al Parlamento Subalpino,venne eletto il barone Alessandro Bianchidi Basaluzzo. Nel 1882 il numero dei de-putati eletti nel Regno erano 508, la Provin-cia di Alessandria ne eleggeva 13, di cuiuno nel Collegio di Capriata, composto diben 27 Comuni, Ovada compresa.

Capriatese fu il deputato Enrico Brizzo-lesi che in campagna elettorale promise la-voro e una volta eletto mantenne lapromessa!!! aprendo uno stabilimento tes-sile a Ovada, che impiegava essenzialmentemanodopera femminile, in esercizio finoalle soglie della seconda guerra mondiale.Dopo l’esperienza parlamentare Brizzolesiricoprì la carica di Assessore e Sindaco,realizzando molteplici innovazioni. Eventoeclatante e irripetibile, non solo per Ca-priata ma per tutti i paesi di Val d’Orba fu,nel 1881, l’apertura della ferrovia Novi -Ovada. In tale occasione tutti i padri co-scritti della vallata, il giorno inauguraledella linea, attesero in gran pompa l’arrivodella vaporiera al suono della banda e at-torniati dall’intera popolazione, entusiastaed inneggiante al progresso. Collegamento

ferroviario cheapriva una nuovaera e che si an-nunciò con forza,quale auspiciocollettivo, anchenegli atti ammini-strativi. All’appa-renza scartoffieburocratiche, cheinvece tramanda-no testimonianzequasi parlanti eindispensabili perla ricostruzionestorica dei vari

accadimenti: dicono ad esempio di quan dogli amministratori si impe- gna rono a com-battere le epidemie e di quando, per scon-giurarne il pericolo, decisero di dotare ilpaese di un acquedotto, approvando nuovirego- lamenti d’igiene, di polizia urbana erurale per la tutela della pubblica salute.Scorrendo le pagine del libro, sia per motividi studio, sia per puro diletto, non si ha chel’imbarazzo della scelta sull’argomentopreferito, tanto è ricco di informazioni e ri-ferimenti su ogni aspetto della vita delpaese: sull’agricoltura, il piccolo commer-cio, i corsi d’acqua, il mulino, le questionidi confine, le strade e i pedaggi, le ricor-renze, le fiere, le sagre e perfino le beghepaesane. Si entra così piacevolmente in sin-tonia coll’ universo capriatese dove hannovissuto gli avi e dove oggi continuano amuoversi e ad agire i loro discendenti iquali, grazie anche a questa pub- blica-zione, saranno maggiormente consapevolied orgogliosi di appartenere ad una Comu-nità traboccante di memorie. Patrimonioche ci fa meglio intendere il presente e ciindirizza con serenità verso il domani. Hafatto bene quindi Tambussa a dedicare unbel po’ del suo tempo ai Convocati comu-nali; la stessa cosa dovrebbero fare altri, dialtri paesi, di tutti i nostri paesi. Molti do-cumenti giacenti per secoli negli archivi co-munali sono andati perduti negli anni delboom economico quando, ad esempio, cor-rendo appresso alla moda si barattavano imobili antichi con quelli realizzati con tru-cioli pressati e rivestiti in formica. Da unpo’ di tempo a questa parte invece si prestasempre maggiore attenzione al patrimonioarchivistico e non si mandano più al ma-cero le carte del passato: e questo è segno diciviltà.

Paolo Bavazzano

Redazione: Paolo Bavazzano (redattore capo), Edilio Riccardini (vice), Remo Alloisio, Giorgio Casanova, Pier Giorgio Fassino, Ivo Gaggero,Renzo Incaminato, Lorenzo Pestarino, Giancarlo Subbrero, Paola Piana Toniolo. Segreteria e trattamento informatico delle illustrazioni a cura diGiacomo Gastaldo. Le foto di redazione sono di Renato Gastaldo.

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