L'arte di lavorare - Maggio 2013

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L’orientamento europeo a confronto Rischiare e sinonimo di intraprendere non di fallire La cortesia dona charme LA RIFORMA FORNERO: TRA MONITORAGGIO E PROPOSTE DI MODIFICA #organizzazione #cortesia #genlezza #project management #programmazione #governo #Lea #sport #startup #sviluppo #Parlamento

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L’orientamento europeo

a confronto

Rischiare e sinonimo

di intraprendere non di fallire

La cortesia dona charme

LA RIFORMA FORNERO: TRA MONITORAGGIO E PROPOSTE DI MODIFICA

#organizzazione #cortesia #gentilezza

#project management #programmazione #governo #Letta

#sport #startup #sviluppo #Parlamento

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Lavorare per progetti: la ricetta per l’efficienza

- A N D R E A S O L I M E N E -

6 maggio

“necessità di comprendere e valutare l’incertezza, l’aleatorietà e l’imprevedibilità degli eventi...”

organizzazione

il salotto dell’organizzazione

#organizzazione #pianificazione #progetto #project management #programmazione

Nella mia famiglia la regina delle torte di mele è la mamma. La sua ricetta ha subito nel tempo numerose e diverse varianti dall’originale, sempre alla ricerca di nuove frontiere, ma ogni volta sorprendentemente squisita. La prepara occasionalmente: purtroppo non abbiamo una pasticceria di famiglia. Fare una torta di mele non è un’attività routinaria. È un progetto che – seppur brevissimo – richiede il rispetto di regole e accorgimenti: ricetta, ingredienti e tempistiche i fattori chiave. Difficilmente si può improvvisare, qualche volta può andar bene, altre no. Uova, farina, zucchero, mele, lievito, ecc … gli ingredienti base sono sempre gli stessi, a volte cambiano le dosi.

Diverso il discorso quando il progetto in considerazione è l’avvio di un’attività imprenditoriale, la realizzazione di una campagna pubblicitaria o l’esternalizzazione di un ramo d’azienda. Le variabili da valutare sono molteplici e la complessità del progetto necessita un elevato livello di attenzione e monitoraggio. L’improvvisazione è bandita!

Secondo le recenti elaborazioni effettuate da Unioncamere, nel 2012 circa 9600 imprese hanno portato i propri libri contabili in tribunale. Una media di 32 aziende al giorno con un picco in Lombardia, la regione con la maggior presenza di imprese (a Milano si sono registrati 977 casi). Un dato che riflette l’attuale situazione socio-economica del Paese ma che, in molti casi, nasconde l’assenza di una solida pianificazione e strategie in grado di adattarsi all’evoluzione del contesto.

Le cause che possono determinare l’insuccesso, o addirittura il fallimento, sono numerose: motivi economici e temporali, motivazionali, organizzativi. Le più comuni possono essere di carattere tecnico (assenza di una governance per la gestione delle attività, stime non accurate, rischi non valutati, gestione inefficace delle risorse) o di carattere comportamentale (eccessivo ottimismo, mancanza di comunicazione). In molti casi di fallimento, l’origine è da ricercare nelle errate modalità di progettazione, sviluppo ed esecuzione

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dell’attività imprenditoriale. Per evitare il rischio di episodicità e frammentarietà dell’intervento, e per migliorare l’efficacia e l’orientamento dell’intervento, è necessario adottare un approccio progettuale adeguato (metodologia del Project Management) in grado di minimizzare gli errori e massimizzare i risultati. La logica progettuale, difatti, si muove tra due poli: la valutazione del bisogno e il raggiungimento degli obiettivi.

Il Project Management nasce principalmente dall’affermazione di un nuovo approccio alle problematiche: si è passato da una concezione “meccanicistica” dell’operare, focalizzata sugli elementi costitutivi di un determinato fenomeno, a una “cibernetica”, più improntata sul rapporto di interdipendenza delle cose in cui il sistema esterno è parte integrante del fenomeno considerato. Di qui la necessità di comprendere e valutare l’incertezza, l’aleatorietà e l’imprevedibilità degli eventi collegati al fenomeno: progettazione garantisce una visione più integrata del fenomeno e facilita la sua esecuzione.

Un approccio simile consente, in altri termini, di pianificare le attività da svolgere ed evitare di incorrere in eventuali errori durante il percorso evolutivo di un’impresa. Progettare significa controllare e allo stesso tempo assecondare la “dinamica evolutiva di un’idea”, considerando tre elementi chiave: piano di progetto, milestone e risorse.

Innanzitutto bisogna riassumere le caratteristiche di un progetto: il piano di progetto è un documento

che chiarisce i requisiti base, gli obiettivi da raggiungere, le risorse necessarie, i soggetti direttamente interessati e coinvolti, i costi stimati, la gestione delle attività e delle priorità d’intervento, i rischi collegati. In sintesi: scrivere la ricetta.

Per l’esecuzione del progetto è necessario definire e approvvigionarsi delle risorse materiali e immateriali, economiche e umane per lo svolgimento delle attività. In sintesi: reperire gli ingredienti.Infine, occorre definire e attenersi alle milestones necessarie per garantire lo sviluppo del progetto fino alla conclusione e al raggiungimento degli obiettivi. In sintesi: rispettare le tempistiche.

L’assenza di uno dei tre aspetti mette in serio dubbio il successo di un progetto. Si pensi alle sole tempistiche: siete in grado di partire senza stimare la durata della fase di start-up? Tornando all’esempio della torta di mele: siete capaci di prepararla senza tempi di cottura? Quanti impasti andrebbero gettati o carbonizzati? Lavorare per progetti è una questione di impostazione: in caso di avvio di un’iniziativa imprenditoriale l’approccio progettuale è lo stesso, cambiano le dosi.

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sviluppo

publico

I giornali e le televisioni ci informano che tutti i fattori che distinguono una società che non funziona sono in crescita: aumenta la disoccupazione, aumentano i suicidi, aumentano le imprese e i negozi che chiudono, aumenta l’invasione di immondizia e i conseguenti atti di vandalismo in molti quartieri delle città del sud, un tempo perle del turismo. Nello stesso momento ci mettono al corrente che l’indice che distingue una società che funziona, il PIL è in declino da 5 anni. Nel giardinetto delle news, non può mancare la notizia che il potere d’acquisto degli italiani sta tornando, senza tante inutili chiacchiere, ai livelli degli anni ’90. Se avessimo a disposizione l’IDC, l’indice che misura la cortesia, sarebbe talmente in basso che neppure lo noteremmo.

La cortesia non è una qualità innata, non è scritta nel DNA, o che si acquisisce per cause naturali come la gentilezza. Si sa che nei paesi dove il clima è salubre e piacevole, si mangia bene, la terra è fertile, la gente è portata ad essere gentile. Per questo il popolo italiano è “naturalmente” gentile. Ma non è cortese, perché la cortesia è una qualità sociale che si impara. E chi può insegnare a un popolo la cortesia se non una classe dirigente “cortese”? L’Italia, per ragioni storiche piuttosto complesse, è stata privata di una classe dirigente che disponesse del linguaggio e dei segni della cortesia con cui comunicare e pertanto trasferirne il vocabolario e la cultura all’intero corpo sociale.

Il filosofo umanista francese Emile Chartier (1868-1951) aveva definito la cortesia “arte dei segni”, un’abitudine sociale, la grammatica che serve per vivere con gli altri, il modo per

La cortesia dona charme- G A B R I E L E P I L L I T T E R I -

10 maggio

“...il popolo italiano è “naturalmente” gentile. Ma non è cortese, perché la cortesia è una qualità sociale che si impara”

#cortesia #gentilezza

#italia #sviluppo

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manifestare le qualità sociali non soltanto della persona, ma di ogni organizzazione. Immaginiamo per un istante che politici, imprenditori e sindacalisti mettano da parte il linguaggio del risentimento e si scontrino con le armi della cortesia. Il risultato complessivo per il Paese sarebbe semplicemente straordinario e vedremmo presto i fattori e gli indici che segnalano il funzionamento di una società invertire i loro trend. Una classe dirigente che ha imparato il linguaggio e i segni della cortesia, può non essere “naturalmente “ gentile, come quella degli Stati Uniti. Quando sbarcarono i Pilgrim con il Mayflowers sulla costa orientale, non trovarono condizioni ideali per essere gentili e durante un paio di secoli le questioni interne furono affrontate e risolte con i fucili. Poi hanno imparato, grazie al loro pragmatismo, che la cortesia avrebbe fatto da supplente all’assenza di gentilezza per cause storiche e di conquista di spazio vitale.

Una differenza fra un’azienda americana e un’azienda italiana, è tra chi sa che la cortesia esprime segnali di forza e di importanza dell’organizzazione e che le persone cortesi contribuiscono al buon nome della azienda, e chi, al contrario, non avendola imparata, percepisce la cortesia come un segno di debolezza. Qualche giorno fa mi trovavo nella sala d’aspetto di una media azienda italiana, in attesa di essere ricevuto dal direttore generale. Improvvisamente vedo apparire nel corridoio una signora elegante sui 55 anni, da un braccio piegato spuntano

due occhietti allegri di un cagnolino. Passeggia mi guarda, io mi alzo e accenno un inchino. Lei mi passa davanti e finge di non vedermi. Da una porta esce un fattorino, vede la signora e rispettosamente le dice “Che scarpe meravigliose signora!”. Lei gli volta le spalle e continua a camminare in silenzio mentre sul volto, appare una smorfia di disgusto come volesse dirgli “stai al tuo posto”. Dopo dieci minuti vengo a sapere che la “signora” è la moglie dell’amministratore delegato. Quella smorfia rappresenta una filosofia di vita, l’assenza di cortesia senza supplenza di gentilezza, un’espressione di rancore sociale con le parti invertite, da una parte l’operaio gentile, dall’altra la padrona accidiosa e insoddisfatta. Forse pensa che l’ascensore sociale sia in funzione solo per lei. Mi fossi trovato in una analoga situazione negli Stati Uniti la signora avrebbe risposto al fattorino “Thanks” e chiamandolo per nome si sarebbe interessata della salute della sua famiglia o, se immigrato, della pratica di cittadinanza. La cortesia dona charme a chi la sa praticare.

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Il valore di un’impresa racchiuso in un modello

- A N D R E A S O L I M E N E -

“Un’azienda crea valore quando aiuta i propri clienti a svolgere un compito importante, soddisfare un desiderio o risolvere un problema.”

#business #Business Model Canvas #modello #Osterwalder #Porter #Value #Chain

La parola “valore” può assumere diverse accezioni in base al contesto di riferimento. In economia, il termine valore si riconduce allo scopo finale di un’impresa: far crescere il valore economico della stessa generando utili nel tempo e massimizzando i profitti. Un’impresa nasce ed esiste per creare valore con l’obiettivo di raggiungere un vantaggio competitivo e distinguersi nel mercato di riferimento. Questi concetti potrebbero essere le prime pagine di un manuale per il “buon imprenditore”. Un manuale che si evolve col tempo e che, rispetto al passato, sta subendo aggiornamenti e modifiche continue.

Il tema della creazione del valore ha interessato numerosi studiosi che hanno cercato di descriverne gli elementi chiave strutturandoli in modelli semplici da estendere a qualsiasi tipologia di organizzazione. Michael E. Porter, professore alla Harvard Business School, economista ed esperto di strategia aziendale, ha contribuito in larga misura con i suoi studi sulla generazione del valore per un’impresa. Secondo Porter un’organizzazione deve essere concepita sulla base di nove processi aziendali,

suddivisi in primari e secondari. I processi primari sono quelli che contribuiscono direttamente alla creazione di prodotti e servizi: logistica in entrata, attività operativa, logistica in uscita, marketing e vendite, servizi. I processi secondari contribuiscono in maniera accessoria e non diretta: infrastruttura, gestione delle risorse umane, sviluppo della tecnologia, approvvigionamenti. Questi processi sono distribuiti lungo una catena, nota come Value Chain (1985), che rappresenta il modello di creazione di valore di un’impresa per raggiungere, mantenere e consolidare un vantaggio competitivo. Richard Normann, consulente ed esperto di service management, introduce il concetto di Value Constellation (1995), estendendo i “confini d’azione” della Value Chain di Porter, alla rete di soggetti e organizzazioni che ruotano intorno all’impresa. Difatti uno dei limiti della teoria di Porter è sempre stata l’assenza della variabile relativa alle relazioni che l’impresa ha con l’ambiente. Condizione ora indispensabile. Normann sostiene, quindi, che il valore per un’impresa è creato da tutti i soggetti che orbitano intorno ad essa come se costituissero una costellazione.

13 maggio

organizzazione

il salotto dell’organizzazione

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In entrambi i casi l’obiettivo dei due esperti è stato quello di schematizzare gli elementi chiave per la creazione del valore. Ma come lo si crea? Qual è il modello di business per la creazione di valore? Intorno a tali quesiti si focalizza l’attenzione della maggior parte di manager e imprenditori presi dalla pressante necessità di contribuire allo sviluppo dell’attività aziendale.

Il concetto di modello di business (o Business Model) è stato elaborato partendo dalle valutazioni effettuate da Porter e Normann ed è tuttora difficile da comprendere forse perché mai ben definito. Non si è ancora riusciti a convergere su un’unica definizione. La ragione è da ricercare forse nell’assenza di una vera disciplina e di sufficienti assunti teorici di base comuni. Difatti, le diverse definizioni fornite variano sia nella struttura sia nel contenuto, risultando spesso complesse, articolate e quindi confusionarie. Si va dalla definizione di Bienstock (2002) “the way we make money” a quella di Timmers (1998) “an architecture for the product, service and information flows, including the various business actors and their roles; a description of the potential benefits for the various business actors and a description of the sources of revenues”.

Genericamente è possibile individuare nell’intersecazione di tecnologia, organizzazione e strategia un possibile fattor comune tra le esperienze di ricerca sinora maturate in questa area. Chi ha fatto chiarezza è Alexander Osterwalder, imprenditore e innovatore, che definisce il Business Model come lo strumento che descrive la logica con la quale un’organizzazione, crea, distribuisce e cattura valore. È l’insieme di soluzioni che l’azienda utilizza per organizzare se stessa

e la sua offerta per creare il massimo valore possibile per i clienti. Un’azienda crea valore quando aiuta i propri clienti a svolgere un compito importante, soddisfare un desiderio o risolvere un problema. Osterwalder ha ideato il Business Model Canvas, uno strumento strategico che sfrutta il linguaggio “visuale” per creare e sviluppare modelli personalizzati. Suddiviso in 9 blocchi (segmenti dei clienti, value proposition, canali di distribuzione, customer relationship, ricavi, risorse chiave, attività chiave, partnership chiave, costi), il Business Model Canvas ha rivoluzionato il modo di pensare e rappresentare un modello di business. Consente di avere

una fotografia degli elementi chiave e di poter ragionare sulle loro varie interconnessioni.

L’attuale approccio rende comprensibile aspetti che in passato risultavano essere complessi e di privato dominio: il Business Model Canvas semplifica il processo di apprendimento dei fattori determinanti per la creazione di valore e ne fornisce un quadro di sintesi chiaro e lineare. Il Business Model Canvas viene adottato

maggiormente dalle start-up o da piccole imprese, ma è uno strumento utilizzato anche da realtà più grandi.Di fronte all’evoluzione degli scenari e all’incertezza dei mercati la rigidità dell’approccio scientifico che ha caratterizzato l’imprenditoria fino agli anni ’90 è oramai

tramontato. Con esso anche la nebulosità circa alcuni concetti chiave per la gestione dell’attività aziendale. Motivo principale di tale evoluzione è la necessità di semplificare l’impostazione organizzativa ed essere flessibili nelle scelte aziendali. La pianificazione è un aspetto fondamentale, la capacità di riorganizzarsi lo è ancora di più. È importante mettere dei “paletti” per allineare e indirizzare il business, ma non troppo in profondità. Spostarli quindi non deve rappresentare un impedimento di fronte al mutare delle condizioni ambientali.

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sviluppo

progetti

L’orientamento europeo a confronto

- M A R T A D E N A R D I -

#Europa #orientamento #Siena

“sono emersi significativi spunti per poter approcciare alle attività di orientamento in maniera diversificata...”

16 maggio

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Il 9 maggio scorso a Siena, si è tenuta la conferenza internazionale legata al Progetto JOBTRIBU; durante questa sessione, si è cercato di dare una visione complessiva dell’intero progetto, che si è sviluppato dal 2007 al 2013, grazie alla collaborazione di diversi partner, tra i quali la Provincia di Siena, il Centro Studi Pluriversum (Italia), Cascaid (Regno Unito), DEP Institut (Spagna), Institute of Educational Sciences (Romania), IBW (Austria).

Il tema della conferenza è stato principalmente improntato sull’utilizzo delle nuove tecnologie per sviluppare attività di orientamento, ed è stato di notevole interesse comprendere come in tutta Europa, l’orientamento sia considerato la “base per trovare la propria identità professionale e il mezzo tramite il quale chiunque può costruirsi nuove possibilità a livello professionale e personale”, come ha sostenuto Giulio Iannis, coordinatore del progetto.

Con lo sviluppo di tecnologie ogni giorno sempre più all’avanguardia e con la sempre maggiore possibilità di accedere alla rete, è aumentata la possibilità di interagire e di utilizzare media differenti; per questo motivo si è cercato di adattare a questi “piccoli” cambiamenti, anche le attività di orientamento; oggi, infatti, accanto al tradizionale contatto diretto tra l’utente e l’operatore, si stanno sviluppando metodologie a distanza tra cui l’approccio telefonico (tramite ad esempio la creazione di una help line dedicata), oppure tramite la formazione a distanza (webinar).

Anche lo sviluppo di software dedicati sta guadagnando una sempre maggiore visibilità e credibilità. Tra le funzioni più

frequenti troviamo il matching tra domanda e offerta, aiuti per la stesura del CV e strumenti per una migliore conoscenza del mercato del lavoro.

Grazie agli interventi degli esponenti delle varie società partecipanti al progetto, sono emersi significativi spunti per poter approcciare alle attività di orientamento in maniera diversificata: il video curriculum, che è stato sperimentato in Romania, oppure la costruzione dell’e-portfolio, sperimentata in Italia: entrambi sono metodi nuovi per poter presentare la propria candidatura: il videocv permette di presentarsi e di fare una propria analisi delle competenze possedute, mentre l’e-portfolio permette di creare pagine web in cui presentare il proprio cv in maniera diversa dal formato classico.

Il nostro lavoro di orientatori svolge un ruolo sempre più indispensabile nelle condizioni economiche odierne; un lavoro che oggi è ritenuto alla base della crescita e dello sviluppo della nostra società, non solo in Italia, ma con origini ben più radicate in altri paesi europei, nei quali assume un’importanza ancora più strategica. E queste occasioni permettono l’analisi e la condivisione delle metodologie più efficaci con approcci culturali differenti.

E’ infatti molto comune nelle varie organizzazioni, che l’orientatore operi in maniera autonoma e isolata da altri contesti: progetti come JOBTRIBU riescono invece ad unire in un confronto le varie esperienze svolte nei diversi Paesi appartenenti all’unione europea e a far sì che gli esperti di settore si sentano inclusi in una rete di professionisti con i quali poter condividere le proprie esperienze di lavoro.

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organizzazione

politica

L’Italia non è solo il paese dove‘l si suona, ma è diventato il Paese dove risiede il più grande Parlamento del mondo. Non per il numero esagerato di Deputati e Senatori che occupa gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama svolgendo i medesimi compiti istituzionali ma per il fatto che negli ultimi 25 anni il Parlamento si è

allargato in maniera smisurata fino a comprendere la grande maggioranza di italiani. I principali responsabili

della mutazione genetica che coinvolge politici e gente comune,

sono i talk show televisivi, le trasmissioni radiofoniche e il

modello di comunicazione adottato dai conduttori con cui mettono i politici alla

berlina, ed essi reagiscono in modo buffonesco per essere all’altezza di chi li sfotte sottolineando comicamente le loro inadeguatezze.

Spogliato della veste carismatica di chi è stato eletto, più per volontà del capo partito che dal popolo, il politico della seconda repubblica ama confondersi con la gente comune, ne adotta il linguaggio, gli liscia il pelo per il verso giusto nelle

Il Parlamentorio- G A B R I E L E P I L L I T T E R I -

“...il lato peggiore della classe politica, quello della chiacchiera inconcludente, si incontra con il vizio tutto italiano di confondere il dire con il fare”

#governo #Letta #Parlamento #paura #politica

23 maggio

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piazze virtuali allestite dai conduttori un po’ sciamani e un po’ scaltri suggeritori di tendenze politiche che per i servizi offerti riescono a farsi mandare in Parlamento dove possono maturare una nuova pensione. Le piazze virtuali, i salotti televisivi, i bar radiofonici, sono nient’altro che un grande parlamentorio, neologismo che unisce parlamento con parlatorio, dove il lato peggiore della classe politica, quello della chiacchiera inconcludente, si incontra con il vizio tutto italiano di confondere il dire con il fare.

La politica italiana ha impoverito il linguaggio, banalizzato i problemi, allontanato tentativi di soluzioni che comportassero scelte in cui una parte vince qualcosa e l’altra lo perde. I politici hanno assunto linguaggio e comportamenti esteriori simili a quelli delle macchiette inventate dai comici per deriderli, mentre il pubblico ha scoperto che l’urlo di guerra “vaff…” di Grillo è più potente di quello di Munch. La dialettica politica è diventata un tiro al bersaglio e nel parlamentorio si scatenano tutte le sere i migliori tiratori scelti delle fazioni che lanciano ammonimenti e minacce per dichiarare ai fedeli che non li hanno abbandonati, e che governano con l’avversario non perché vanno d’amore e d’accordo ma per l’interesse supremo del Paese. Un’altra poderosa balla. Hanno paura di un ulteriore travaso di voti a Grillo.

La semina di parole magiche è un’antica abitudine dei politici italiani che hanno sempre guardato al particulare, (clan, tribù, territorio), chi per fare il verso al sindacato chi per farlo alle professioni, piuttosto che sorvolare con lo sguardo l’intera nazione. Ma in questi 20 anni le cose sono peggiorate, vieppiù sollecitando la fantasia dei loro fedeli con promesse impossibili e assecondando l’osceno schema dei sondaggi che, da analisi dei trend sociodemografici sono diventati strumenti di consenso e di elaborazione delle piattaforme elettorali in omaggio al paradigma “il nostro compito è di capire ciò che vuole la nostra

gente”. In apparenza sembra una scelta logica e razionale, perfino ovvia. Troppo ovvia.

Le grandi aziende che fanno sondaggi e ricerche di mercato per capire quali prodotti offrire ai consumatori fanno scelte di buon senso; scimmiottarle chiedendo ai cittadini cosa desiderano dalla politica significa soltanto essere inadeguati al ruolo di guidare il Paese. Ora i nodi son venuti al pettine; i partiti che si sono sempre contrapposti sono costretti a bere il calice amaro di condividere le responsabilità delle scelte di governo. Gli italiani osservano, c’è chi si domanda come sia possibile un comportamento così audacemente contro natura, altri sono solo costernati, c’è chi è compiaciuto e speranzoso (pochi), taluni gridano il loro rancore nel parlamentorio delle televisioni, altri con il supporto dei media che enfatizzano ogni alito del Grande Nemico trasformandolo in un rutto di scherno, preparano tranelli per vedere il governo cadere nella polvere. Ma i tanti motivi per soccombere sono altrettanti motivi per durare. Quello di Letta sarà un governo che durerà a lungo perché è tenuto in vita da un collante formidabile: la paura.

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sviluppo

idee

“Ho sbagliato più di 9000 tiri nella mia carriera. Ho perso quasi 300 partite. 26 volte, mi hanno dato la fiducia per fare il tiro vincente dell’ultimo secondo e ho sbagliato. Ho fallito più e più e più volte nella mia vita. È per questo che ho avuto successo”. Così Michael Jordan, il più forte e famoso cestista della storia del basket, rispose a un’intervista dopo il suo terzo, e ultimo, addio alla NBA. Il campione americano è ora fonte di ispirazione per molti ragazzini che si avvicinano al basket. La sua canotta numero 23 dei Chicago Bulls, squadra con cui ha vinto diversi trofei, è la più ambita e ricercata. La sua storia è ricca di vittorie, aneddoti, sacrifici, ma è caratterizzata anche da sconfitte e delusioni. Un uomo che è diventato leggenda del basket per un semplice motivo: non si è mai tirato indietro davanti alle sfide e opportunità che gli si sono presentate.

Nella vita – comune – ognuno di noi si trova dinanzi a scelte importanti, che incidono in maniera diversa sul nostro futuro. L’interrogativo più comune è: agire o riflettere? Istinto o ragione. Spesso le

persone passano troppo tempo a pensare senza mai rischiare. Atychiphobia. Paura di sbagliare. Teorizzata

dallo psicologo della Standford University John Atkinson, il quale negli anni ’60 effettuò diversi esperimenti sui bambini per testare la loro motivazione dinanzi a un compito da portare a termine. Il risultato fu abbastanza chiaro. Notò che i bambini assumevano due atteggiamenti opposti: alcuni spinti dal “need for achievement” si focalizzavano sul compiere l’attività, altri, spaventati dall’errore preferivano evitare l’umiliazione pubblica. La paura di sbagliare gioca un ruolo chiave nelle decisioni e spesso rappresenta un ostacolo duro da superare.

Numerose possono essere le motivazioni di tale atteggiamento. Assenza di autostima, personalità debole, mancanza di obiettivi o incertezza. Purtroppo quello che non riusciamo ad accettare,

Rischiare e sinonimo di intraprendere non di fallire

- A N D R E A S O L I M E N E -

#basket #esperienza #fallimento #innovazione #sport #startup #sviluppo

“Un fallimento non può considerarsi tale se vi è la possibilità di imparare dagli errori commessi.”

28 maggio

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e comprendere, è una delle lezioni più antiche che le nostre maestre di scuola ci ripetevano alle elementari: “sbagliando si impara”. Sbagliare fa parte del percorso di vita, ma forse la paura di farlo ci spinge a non agire. Nel processo di crescita è normale avere delle sconfitte, difficile è accettarle.

“Tutto ciò che gli esseri umani hanno appreso lo devono grazie all’esperienza di tentativi ed errori successivi nel tempo. Gli esseri umani hanno imparato solo sbagliando”. Lo dice anche Richard Buckminster Fuller, personaggio eclettico dello scorso secolo. Un parere illustre visto che nella sua vita è stato inventore, scrittore, designer, filosofo e professore alla Southern Illinois University, oltre che conduttore televisivo. Per usare un eufemismo: non si è mai tirato indietro nel far qualcosa confrontandosi in diversi campi.

Tuttavia, molto spesso la paura di sbagliare si configura con la paura di fallire. Il fallimento è temuto non solo per le conseguenze giuridiche ma anche per quelle sociali: oltre alle procedure giudiziarie che riguardano effetti personali e patrimoniali, l’insuccesso si ripercuote sulla famiglia, in maniera importante per le società di persone, e sulla vita personale, generando depressione e sconforto. L’etichetta del fallito crea una condizione psicologica con cui è difficile convivere.

In un’economia dove la bancarotta è limitata al 4-6%, è essenziale offrire una seconda chance agli imprenditori (onesti) che hanno visto fallire le loro attività. Numerosi studi confermano che i secondi tentativi sono più proficui e creano maggiore occupazione, in quanto gli imprenditori (onesti e intelligenti) riescono a focalizzarsi sulle lesson learnt e stimare meglio i rischi.

Da quando è stato varato il Decreto Crescita 2.0 lo scorso anno dal Ministro dello Sviluppo Economico ed è stata introdotta nel gergo comune la parola “startup”, qualcosa è cambiato nel tessuto imprenditoriale italiano, a partire dall’atteggiamento nei confronti del fallimento. Forse perché il fenomeno startup, che tanto sta spingendo la voglia di ripartenza economica

italiana, ha molte sfumature a stelle e strisce nell’approccio imprenditoriale. Anche se negli Stati Uniti il fallimento è visto come un’esperienza negativa, allo stesso tempo viene percepito come un’occasione per apprendere dagli errori e migliorare. Nella cultura statunitense è molto radicata la convinzione per cui se cadi hai sempre l’opportunità di ripartire e ricostruire. Una delle regole base della Silicon Valley può essere riassunta

nella frase “se non hai alle spalle almeno un fallimento, non potrai essere un imprenditore di successo”.

Un fallimento non può considerarsi tale se vi è la possibilità di imparare dagli errori commessi. In tal caso bisogna parlare di esperienza e non di fallimento. L’UE ha recentemente avviato un processo di semplificazione e snellimento delle procedure fallimentari per andare incontro ai numerosi imprenditori onesti che, per via di situazioni economiche congiunturali o investimenti errati, hanno difficoltà nel ripartire.Il poeta americano George Woodberry scrisse “non è la sconfitta il peggior fallimento. Il peggior fallimento è non avere tentato”.Molti startupper hanno la voglia di uscire dalla “cosiddetta” zona di comfort e intraprendere nuove sfide. Dimostrano di avere coraggio, oltre a talento, passione e idee da sperimentare. L’Italia intera non può restare immobile di fronte a questo fenomeno. Il Governo ha almeno il dovere di ascoltare la community di giovani imprenditori. Il momento giusto per cambiare è adesso, senza paura di sbagliare.

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Parlando di innovazione, questo mese, ho voluto dedicarmi alla lettura di un genere diverso; non sono andato a cercare l’innovazione nel contenuto ma nella forma. Mi si dirà che di innovativo le graphic novel hanno poco; hanno almeno 30 anni di storia alle spalle e hanno un pubblico vasto ed eterogeneo. Quindi venire a raccontare che la graphic novel è una forma innovativa di racconto regge poco.

Ha più senso, forse, affrontarla in termini semiotici, di cultura dell’immagine e di ritorno all’informazione visiva. Personalmente, non lo nascondo, rimasi molto colpito dalla lettura del “Questo ucciderà quello” di Victor Hugo. L’idea di una società del libro e della parola che andava uccidendo la cultura della pittura e delle cattedrali ebbe un forte impatto sulla mia vita universitaria.

La graphic novel, in questo senso, rappresenta bene il tentativo dell’immagine di riguadagnarsi un ruolo narrativo; un ruolo, intendiamoci bene, che il web in generale ed i social network in particolare, già hanno rafforzato prepotentemente negli ultimi anni.

E’ in questo senso, quindi, che incasello questo genere in un ruolo innovativo; una sorta di postmodernismo del concetto di racconto che, dopo aver esplorato l’espolorabile, torna alle origini.

L’opera che ho scelto per il mio primo incontro con questo genere è “Non costa niente” di Saulne (il francese Sylvain Limousi, nato nel 1977). La storia raccontata nasce come relazione tra occidente ed oriente (un ragazzo francese che vive a Shangai) ma si trasforma in una relazione tra uomo e denaro, in una spirale di decrescita personale che insegna al protagonista a vivere senza sperperare: “Perché fai sempre lunghe passeggiate da solo, invece di andare al ristorante o uscire con gli amici?” viene chiesto al protagonista; “Perché camminare non costa niente”.

Una descrescita economica che acquisisce un maggior impatto proprio perché ambientata a Shangai, in una Cina che accoppia con una facilità disarmante la fame di crescita dei grattacieli alla fame reale, quella di intere famiglie che vivono in baracche, con pochi centesimi al giorno. Il racconto descrive bene questa doppia personalità, non solo in termini visivi ma anche (e qui ciò che mi ha spinto a scegliere questo volume) tangibili: non solo il racconto ed il ritmo rallentano, tentano di dare respiro ad ogni momento guadagnato; contemporaneamente sono anche la pagine stesse, non i disegni, a farsi più grigie, in una dicotomia che prende forma concreta tra le mani del lettore.

Non mi addentro nel racconto, un po’ per evitare spoilers un po’ perché non vuole essere quello il centro della mia riflessione. Unico rammarico, devo essere sincero, è la velocità di lettura: una graphic novel si può tranquillamente leggere nell’arco di due ore, il che, p e r s o n a l m e n t e , rovina un po’ il gusto della scoperta e dell’evolversi del racconto.

Il mese scorso avevamo parlato di Calvino e delle specificità che la letteratura continua

a portare con sé nel futuro; ora, esplorare il concetto di graphic novel, personalmente, mi ha permesso di percorrere un cammino parallelo; un cammino per me nuovo. Eppure qualcosa mi dice che prima o poi i due percorsi, letteratura e grafica, parola ed immagine, si confronteranno e che la sintesi potrà produrre risultati molto interessanti.

Postmodernismo del racconto

- S T E F A N O M A G L I O L E -

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20 maggio

Page 15: L'arte di lavorare - Maggio 2013

Dalla lettura del secondo monitoraggio pubblicato dall’Isfol sugli effetti prodotti dalla c.d. Riforma Fornero emerge come l’andamento del mercato del lavoro non abbia subito gli effetti positivi sperati, sebbene nel quarto trimestre del 2012 si sia parzialmente arrestato il calo di assunzioni registrato durante la prima parte dell’anno.

Ad essere in ripresa risultano, in particolare, gli avviamenti di contratti a tempo determinato (+3,7% sul trimestre precedente) e di contratti di apprendistato (+5,2%). Al contrario, continuano a scendere in maniera preoccupante le attivazioni di contratti a tempo indeterminato, che nel quarto trimestre sono diminuite del 5,7% – dato che, comunque, appare essere in linea con l’andamento congiunturale fortemente negativo. In calo anche i contratti di collaborazione (-9,2%) e quelli di lavoro intermittente (-22,1%).

Complessivamente, il livello dell’occupazione ha raggiunto nel quarto trimestre dello scorso anno il suo minimo dall’inizio della crisi economica. Gli addetti ai lavori continuano, di conseguenza, a “bocciare” la Riforma e da più parti vengono avanzate proposte di modifica della stessa, che, se con riguardo ad alcune tipologie contrattuali sono mirate ad una liberalizzazione ed all’introduzione di novità, con riferimento, invece, ad altri istituti auspicano addirittura un semplice ritorno al passato. Della serie, si stava meglio..

Tra i fautori di una “controriforma”, in particolare, i Consulenti del Lavoro, che hanno pubblicato un documento riassuntivo degli istituti da modificare per rilanciare l’occupazione e rendere meno rigido l’ingresso nel mondo del lavoro. Modifiche alla disciplina del contratto a termine, dell’apprendistato e delle partite iva, ma anche incentivi e diminuzione della contribuzione: questi alcuni degli ingredienti della ricetta dei Consulenti del Lavoro.

In particolare, anzitutto, con riguardo al contratto a termine, le principali proposte consistono nel sospendere due dei limiti al suo ricorso per tutti i contratti avviati entro il 31 dicembre 2016: l’obbligo di indicazione della famigerata causale ed i c.d. stop and go, ossia i periodi di interruzioni obbligatoria tra due

contratti a termine. Ciò consentirebbe di rendere il contratto di lavoro a termine estremamente flessibile, seppure per un periodo di tempo limitato, volto ad arginare la situazione di letterale emergenza occupazionale in cui versa il Paese.

Con riferimento al principale contratto di ingresso nel mercato del lavoro da parte dei giovani, ossia l’apprendistato, viene

proposto un ritorno al passato per quanto riguarda l’obbligo di stabilizzazione, attraverso l’eliminazione

della previsione normativa che obbliga alla stabilizzazione degli apprendisti nella misura

del 50% nei trentasei mesi precedenti ad una nuova assunzione, lasciando

che, come in precedenza, sia la contrattazione collettiva ad introdurre

eventualmente tale obbligo e ad indicarne la relativa

percentuale.

Anche con riguardo alle discipline di partite IVA ed associazione in partecipazione, i

Consulenti auspicano un ritorno al passato, attraverso la secca proposta di “eliminazione integrale” delle novità introdotte dalla Riforma Fornero e di ripristino della disciplina ante riforma. Idem per il nuovo rito del lavoro, cui non dovrebbe toccare una sorte migliore.

Agli incentivi all’occupazione ed a quelli alla stabilizzazione toccherebbe fare il resto, prevedendo uno sgravio fiscale sulle retribuzioni per 5 anni per i lavoratori assunti a tempo indeterminato con età inferiore a 30 anni o superiore a 50 anni (in misura totale per le retribuzioni fino a 40.000 euro o nella misura del 50% per retribuzioni non superiori a 80.000 euro) ed un onere contributivo agevolato per 3 anni in caso di stabilizzazione di rapporti di lavoro a termine. E, dulcis in fundo, la riduzione del costo del lavoro di 5 punti percentuali per tutti i lavoratori in forza a tempo indeterminato.

31 maggio

# Fornero #monitoraggio #normativa #riforma

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La Riforma Fornero: tra monitoraggio e proposte di modifica

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