L’arte contemporanea

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CAPITOLO 11 Arte Contemporanea

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CAPITOLO 11

Arte Contemporanea

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Michelangelo Pistoletto “Disegnatrice” 1962-1975 serigrafia su acciaio inox lucidato a specchio, 2 pannelli, 250 x 125 cm ciascuno Foto: P. Pellion

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L’arte contemporanea come motore e specchio del cambiamento post-industriale

L’arte contemporanea è in sé pura creatività e parlare dell’una equivale evocare l’altra. Ma entrando nel mondo delle arti visive si scopre anche quanto le relazioni sociali, il mercato, la

produzione e le istituzioni contino e modifichino il senso stesso del concetto di creatività.

Negli ultimi sei anni, un artista dal grande riconoscimento internazionale come Douglas

Gordon ha avuto 22 mostre personali (dati artfacts.net). Jonathan Monk, 25. Olafur Eliasson

ne ha avute 32. Senza contare, naturalmente, le collettive: in dieci anni, Gordon ne ha fatte 200, Monk 160, Eliasson 184. E si tratta di stime per difetto. In un momento in cui le imprese

modificano i loro modelli di organizzazione per portare negli ambienti di lavoro un clima più ludico e rilassato e per lasciare spazio all’espressività e alla creatività individuale, l’arte

contemporanea, regno incontrastato del pensiero creativo e di tutte le sue complesse e

sfuggenti modalità di manifestazione, sembra al contrario muoversi quasi verso un modello tayloristico della catena di montaggio, in una lotta perpetua con le scadenze pressanti di una

programmazione artistica sempre più fitta e geograficamente pervasiva. E’ vero che molti degli artisti di maggior successo – e soprattutto quelli che per realizzare le loro opere hanno

bisogno di processi produttivi che coinvolgono un alto numero di competenze interdisciplinari

– dispongono ormai di squadre di collaboratori organizzate come piccole o persino medio-piccole imprese, ma bisogna comunque riconoscere che siamo di fronte ad un profondo

cambiamento nelle modalità di produzione dell’arte contemporanea e forse del senso stesso del fare artistico.

Che cosa spinge questi artisti a lavorare tanto, correndo il rischio di bruciare in un attivismo

frenetico la propria capacità e disponibilità a dedicare il tempo e le energie necessari all’ideazione e allo sviluppo di nuovi progetti profondi e originali e quindi, in ultima analisi, di

sacrificare la sostenibilità di lungo termine dei propri processi creativi alle ragioni di un’efficienza produttiva di breve-medio termine? La risposta è semplice: una quantità

esorbitante di richieste provenienti da realtà di tutti i tipi: quelle tradizionali, come musei, gallerie, fondazioni, fiere, collezioni private, case editrici, ma anche – e sempre più –

aziende, istituzioni pubbliche, ospedali, università, parchi scientifici. All’artista non si chiede

più soltanto di produrre mostre, progetti di arte pubblica o più in generale interventi nei luoghi deputati, per quanto il loro numero cresca senza limiti. Di fatto, ogni occasione è buona per

chiamare in causa gli artisti. L’arte è ormai ovunque, e più si diffonde più genera nuovi appetiti e nuove richieste. Le riviste di moda e di costume costruiscono interi numeri attorno

all’arte e agli artisti, quando non ne affidano direttamente a loro la direzione creativa. I

pianificatori urbani se li contendono. Le aziende chiedono loro di tenere workshop per i manager e i dipendenti, di progettare oggetti e processi comunicativi.

La visibilità sociale degli artisti comincia a fare concorrenza a quella delle rockstar. Ma la differenza sta, o meglio stava, nel fatto che mentre la musica rock è parte della cosiddetta

industria culturale – vale a dire, un settore produttivo nel quale il prodotto in vendita è fatto

per essere riprodotto in tirature illimitate, la cui effettiva entità dipende soltanto da quella della domanda – l’arte contemporanea è invece, o forse dovremmo cominciare a dire era – parte

del core, cioè del nucleo della produzione culturale, che si organizza con modalità che non hanno a che fare con l’industria ma semmai con la piccola bottega artigiana. Evidentemente,

però, non è più così: anche gli artisti, a loro modo, stanno cominciando a produrre in serie.

Non tante copie dello stesso oggetto, ma una proliferazione di ‘esemplari unici’ che esulano dai confini delle opere d’arte definite in senso tradizionale. E anche qui si trova in fondo

un’analogia con le rockstar che ormai scrivono libri, firmano profumi e vestiti, o aprono bar e ristoranti: pratiche ormai sempre più diffuse tra gli stessi artisti, come nel caso di Damien

Hirst.

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A cosa si deve tutta questa attenzione nei confronti dell’ arte e degli artisti? Al fatto che,

proprio nei mercati di massa nei quali ormai i consumatori si avvicinano ad una condizione di sostanziale sazietà, gli artisti riescono ad offrire proprio quella merce che in un mondo di

abbondanza resta scarsa: i significati. Gli artisti definiscono i loro sistemi di regole apparentemente inutili, insensati o comunque discutibili, che però rivelano aspetti del mondo

inaspettati, o mettono in crisi imprevedibilmente le convenzioni sociali apparentemente più

solide. I consumatori mostrano ormai una certa insofferenza verso ritualità di prodotti sempre più prevedibili, e quindi trovano nell’arte un appagante diversivo. E se questo è vero per chi

vive nelle affluent societies, risulta vero a maggior ragione per i nuovi consumatori dei paesi emergenti come quelli arabi o dell’estremo oriente, dove l’arte contemporanea diventa il

simbolo stesso di un nuovo status sociale legato alla possibilità di accesso ad un consumo

globalizzato i cui presupposti comportamentali vengono acquisiti in fretta ma anche altrettanto in fretta trasgrediti e superati alla ricerca di una sintesi identitaria credibile tra

vecchio e nuovo, tradizionale e innovativo, conforme e trasgressivo.

Nei mercati di massa, l’abbondanza, e anzi l’aggressività dei prodotti, che sono ovunque e

reclamano attenzione, spinge i consumatori a forme di difesa sempre più sofisticate: si fatica a ricordare il nome dei prodotti, se ne confonde uno con l’altro, si consuma senza neanche

farci più caso, magari pensando già a cosa si consumerà subito dopo. E fenomeni simili, in

effetti, si cominciano a riscontrare anche nell’arte: il pubblico dell’arte, ormai, non va più a vedere una specifica mostra, ma piuttosto intraprende veri e propri tour delle mostre, o degli

stand nelle fiere, a seguito dei quali si è esposti in un giorno a centinaia di opere, spesso mentre simultaneamente si intraprendono complesse e articolate attività relazionali. L’arte si

sta adeguando al nuovo stato di cose, adottando strategie di seduzione e di richiamo

dell’attenzione tarate su un pubblico sempre più distratto e disattento. E questo non vale nemmeno soltanto per le opere, ma anche per gli stessi concept delle mostre, che devono a

loro volta imporre formati e modalità sufficientemente insoliti e originali da stuzzicare l’attenzione di un pubblico perennemente saturo di stimoli.

Effetti di selezione: l’Italia nel contesto internazionale

“A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza: e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”: è

un celebre passo del vangelo di Matteo (13:12). E’ per questo che si parla di ‘effetto Matteo’ a fronte di un fenomeno tipico di molti mercati culturali: quello della concentrazione

dell’attenzione (e delle risorse) su un numero molto ristretto di artisti, a scapito di tutti gli altri.

E non è un fenomeno tipico soltanto della sfera culturale: qualcosa di analogo accade anche nella scienza. Quando un saggio è firmato da uno scienziato famoso, riceve più attenzione

rispetto ad altri firmati da scienziati meno conosciuti, a prescindere dal contenuto. Accade anzi che, come osservato da James Surowiecki nel suo The wisdom of crowds, quando due

articoli sono pubblicati, uno di seguito all’altro, sulla stessa rivista e su un argomento pressoché identico ma uno ha uno scienziato famoso come prima firma mentre nell’altro lo

stesso scienziato firma dopo l’altro coautore, il primo articolo risulta molto, molto più citato e

letto del secondo, perché si presuppone che in esso il contributo dello scienziato ‘degno di nota’ sia più sostanziale.

Nel campo dell’arte contemporanea si assiste a dinamiche del tutto analoghe: una stessa idea può essere proposta allo stesso tempo da molti artisti, ma quelli con maggiore

reputazione ricevono molti più riscontri e attenzione degli altri. In sé, non è detto che si tratti

di una distorsione del sistema: nella valutazione di un artista, il percorso conta molto più della singola idea o del singolo lavoro. Ma affiora un dubbio molto più profondo: il fatto cioè che

quando un artista superi un determinato livello di affermazione e riconoscibilità, oppure anche semplicemente venga proposto attraverso canali di per sé dotati di una particolare

autorevolezza all’interno del sistema, questo faccia sì che il suo lavoro ‘debba’ ricevere

approvazione o quantomeno una forte attenzione, a prescindere dal fatto che il lavoro venga apprezzato o meno, mentre d’altra parte gli artisti che provengono da canali meno legittimati

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o che per qualche motivo non hanno raggiunto, pur avendo alle spalle un lavoro significativo,

determinati livelli di affermazione, debbano al contrario affrontare una sorta di sfiducia sistematica che compromette la qualità e la quantità di attenzione necessaria ad una

comprensione adeguata.

Nel contesto di queste forme estreme di economia dell’attenzione, diviene necessario

mettere in atto strategie che legittimino una determinata scena nazionale o locale, o meglio la

sua componente qualitativamente più rilevante, come un palcoscenico artistico interessante, capace di offrire agli artisti che vi operano un avviamento reputazionale adeguato. Nel caso

dell’Italia, negli ultimi due decenni si è venuta progressivamente configurando una situazione piuttosto complessa, nella quale gli artisti appartenenti a generazioni mature (come quelli

dell’Arte Povera o della Transavanguardia) godono di una elevata riconoscibilità

internazionale e calamitano un forte interesse sia dal punto delle istituzioni artistiche internazionali che del mercato, mentre per le generazioni più giovani questo processo di

focalizzazione si è paradossalmente rivelato fino ad oggi molto più selettivo, filtrando un numero limitatissimo di nomi, che spesso devono il loro successo all’abbandono precoce

della stessa scena italiana in favore di altre dotate di maggiore valore reputazionale e di persuasione. Il carattere paradossale di questo stato di cose si deve al fatto che, in genere,

avviene il contrario: la piramide si restringe tornando indietro nelle generazioni, in quanto

maggiore è il periodo nel quale un artista è rimasto all’interno dell’arena competitiva del sistema dell’arte, più forte è l’effetto della selezione. In teoria, gli artisti giovani che trovano

riscontro dovrebbero essere molti per poi venire progressivamente selezionati. Nel caso dell’Italia, appunto, avviene il contrario, e ciò a causa del fatto che, da una generazione

all’altra, sono cambiate le regole del gioco, o meglio è cambiato lo status della scena italiana

nel contesto internazionale: da palcoscenico di primo piano a palcoscenico relativamente marginale e secondario.

Elementi per una politica del contemporaneo in Italia

A che cosa si deve allora lo scarso rilievo di cui soffre oggi l’arte italiana all’interno del

sistema dell’arte globale? Non alla mancanza di materia prima, cioè di artisti validi e potenzialmente capaci di conquistare attenzione e interesse sulla ribalta internazionale. Il

problema sta piuttosto nel fatto che il nostro sistema soffre di alcune debolezze strutturali che penalizzano notevolmente i nostri artisti e che costringono questi ultimi, se davvero vogliono

aspirare ad una chance di successo internazionale, ad andare a vivere e lavorare altrove.

Ripercorriamo brevemente queste debolezze. In primo luogo, la mancanza di un collezionismo e di una committenza istituzionale e aziendale di qualità, che è ciò che

permette a sistemi dell’arte tradizionalmente deboli sul piano del collezionismo privato di offrire agli artisti opportunità professionalmente qualificanti ed economicamente redditizie,

aumentando il loro status sociale e dando loro una base reddituale sufficientemente solida da consentire un pieno investimento sulla carriera artistica senza bisogno di disperdere energie

in attività accessorie e necessarie per garantirsi la sopravvivenza economica. In un contesto

come quello italiano in cui il collezionismo privato è inoltre tutt’altro che debole ed è anzi vivace e diffuso come in pochi altri paesi, ma è anche molto frammentato e caratterizzato da

relativamente pochi collezionisti con grande capacità di spesa, un collezionismo e una committenza pubblica e aziendale competenti contribuirebbero in modo importante alla

creazione di una base di domanda capace di innescare la crescita di gallerie di dimensioni

economiche sufficienti a competere da protagoniste sui mercati internazionali e a investire realmente sui propri artisti di punta. Un ruolo importante può inoltre essere ricoperto dalle

fondazioni ex bancarie, una rete di soggetti tipica della realtà italiana e dotata di una grande capacità di spesa e di un grande interesse per la cultura, e che però, con poche eccezioni,

non ha mostrato grande interesse per l’arte contemporanea di qualità inseguendo spesso

logiche localistiche e culturalmente modeste. Infine, bisogna ricordare il ruolo enorme che potrebbe giocare nel rilancio di una committenza pubblica di qualità una applicazione seria

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della cosiddetta “legge del 2%”, che destina, nella nuova formulazione gestita dalla società a

controllo pubblico ARCUS, Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo S.p.A., il tre per cento del costo di costruzione o di ristrutturazione di un’opera

pubblica alla committenza di un’opera d’arte da installare in loco. Una legge che oggi resta

spesso disattesa o dà luogo ad operazioni di discutibile profilo culturale.

Un altro punto debole dell’azione pubblica sta nelle modalità stesse di promozione degli artisti italiani sul piano internazionale. Di solito, la promozione dell’arte italiana si concretizza

nell’organizzazione di mostre, a volte anche piuttosto costose, spesso ospitate in luoghi relativamente marginali di capitali internazionali dell’arte, e in ogni caso tipicamente

‘paracadutate’ in tali contesti senza intraprendere un reale dialogo preparatorio con la scena locale, che aiuti gli artisti in mostra ad interagire e a farsi conoscere da chi, se eventualmente

interessato al loro lavoro, potrà in seguito aprire per loro spazi e opportunità. Ma per fare

questo occorrerebbe che gli enti dediti a queste attività promozionali possedessero, o si affidassero a chi possiede, una solida e aggiornata conoscenza delle più importanti scene

locali dell’arte internazionale, e altrettanto solidi ed aggiornati contatti con i principali protagonisti di tali scene. In mancanza di ciò, la soluzione della mostra ‘turistica’ nella quale

l’artista arriva, installa il proprio lavoro, presenzia al vernissage e se ne va senza aver

maturato una minima consapevolezza del contesto artistico con cui (non) ha interagito, è la soluzione più comoda ed indolore per tutti, anche se, paradossalmente, dal punto di vista

della reputazione artistica avrà più che altro riflessi in patria. Né in genere è d’aiuto la rete degli istituti italiani di cultura all’estero, che malgrado la loro ampia copertura globale non

dispongono spesso di competenze nel campo dell’arte contemporanea ed ospitano un

programma espositivo elaborato in assenza di criteri qualitativi certi, e spesso invisibile nei confronti della scena artistica locale. Le soluzioni più efficienti in questo ambito sarebbero

varie. La concessione di grants finalizzati alla realizzazione di progetti espositivi e residenze, assegnati agli artisti che siano stati in grado, con le proprie forze, di accreditarsi con

successo e quindi di ottenere un invito da parte di istituzioni culturali, gallerie e spazi

indipendenti stranieri di rilievo. Il finanziamento di programmi di residenza di curatori stranieri in Italia, in modo da dare loro una reale opportunità di conoscenza della nostra scena

artistica e di un reale dialogo con gli artisti. La destinazione di consulenti per l’arte contemporanea dotati di grande competenza e professionalità presso le sedi degli istituti

italiani di cultura situati nelle città di maggior interesse per il sistema dell’arte contemporanea,

e la trasformazione del ruolo di questi ultimi da centri espositivi (con pochissime e motivate eccezioni) ad agenzie di promozione e di facilitazione dei contatti con le scene artistiche

locali. Un ulteriore sostegno potrebbe essere dato, ad esempio sotto forma di acquisto di rilevanti spazi pubblicitari per i più interessanti progetti esteri degli artisti italiani, alle riviste

italiane d’arte a più alta diffusione internazionale, e permettendo loro di realizzare o di potenziare le loro edizioni in lingua inglese. Si potrebbe anche seguire l’esempio di alcune

agenzie nazionali di promozione dell’arte contemporanea come la finlandese FRAME, che

pubblica un’eccellente rivista interamente dedicata all’arte finlandese, Framework.

L’altra criticità riguarda il sistema degli spazi espositivi non-profit, pubblici e privati. Mentre la

rete museale per l’arte contemporanea è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, e probabilmente crescerà ancora visto che nuove iniziative vengono presentate con cadenza

regolare, altrettanto non può dirsi per il circuito degli spazi indipendenti e degli spazi

espositivi non collezionistici, che in Italia è molto ridotto. E se è vero che molti dei nuovi musei italiani hanno collezioni piccole o addirittura inesistenti, ciò si deve più a limitazioni di

bilancio che alla reale volontà di dare luogo a spazi a vocazione eminentemente progettuale. L’assenza di questo tipo di spazi danneggia gravemente i giovani artisti perché li priva di

opportunità di lavoro nelle quali sperimentare e definire la loro ricerca in assenza di vincoli e

condizionamenti di tipo commerciale. Non è un caso che gran parte degli artisti internazionali di maggior successo hanno realizzato le loro prime personali significative in spazi come

questi. Il sistema che si è dimostrato più efficace in tal senso è quello delle Kunsthalle dei paesi di lingua tedesca, spazi espositivi privi di collezione, in genere sostenuti dalle

municipalità e dalle amministrazioni locali, che offrono spesso una programmazione di

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grande qualità che alterna artisti internazionali ai più promettenti artisti nazionali e locali,

chiamando a collaborare anche curatori stranieri, e svolgendo spesso un interessante lavoro di ricognizione sulla scena artistica locale. A questo circuito si accompagna quello

complementare dei Kunstverein, associazioni private di collezionisti che promuovono spesso anch’essi attività espositive di grande qualità e permettono ai privati di perseguire una

progettualità collettiva di promozione dell’arte che va oltre la cura e lo sviluppo della propria

collezione personale. Per questo tipo di realtà, che potrebbero essere promosse anche in Italia, nonché per i musei di arte contemporanea già esistenti, si potrebbe pensare a forme di

detassazione selettiva, ad esempio l’abolizione dell’iva, o la concessione di uno statuto fiscale privilegiato quale quello oggi concesso alle onlus, ovvero alle organizzazioni non

lucrative che operano nel sociale, riconoscendo così all’arte una funzione sociale che oggi è

largamente sottovalutata e lontana dalla percezione di gran parte dell’opinione pubblica.

Infine, le gallerie, che in Italia sono tante e spesso molto vivaci ma che faticano a crescere e

di conseguenza ad investire sui propri artisti in modo adeguato a garantirne un efficace lancio internazionale. In questo caso, l’iniziativa più necessaria, al di là del già ricordato

potenziamento del collezionismo pubblico e aziendale (che potrebbe essere fiscalmente incentivato) è l’abbattimento dell’iva, che come più volte richiesto andrebbe portata

dall’attuale 20% al 4% prevalente nella maggior parte dei paesi europei. Il mancato introito

per lo Stato sarebbe modesto, vista la dimensione del settore, e potrebbe addirittura trasformarsi in un introito netto se come è prevedibile questa misura portasse all’emersione

di tante realtà che oggi agiscono nel sottobosco del sommerso in quanto un’iva al 20% è semplicemente incompatibile con la possibilità di spuntare margini accettabili su un mercato

collezionistico che come si è detto è vivace ma è mediamente sensibilissimo al prezzo.

I riflessi sul collezionismo

Collezionare arte non è più semplicemente un modo di esprimere un gusto personale o uno status sociale, quanto piuttosto un modo per prendere posizione, più o meno

consapevolmente, in una arena simbolica molto complessa e in perenne evoluzione.

Particolarmente interessante a questo proposito è il fenomeno del collezionismo nei paesi economicamente emergenti, dove, come si è già osservato, una classe sociale e

imprenditoriale rampante e ansiosa di definire appunto una propria identità distintiva adotta spesso il linguaggio dell’arte contemporanea come controparte simbolica della propria

condizione acquisita di nuovo protagonismo nell’economia globalizzata. E le dimensioni e la

rapidità di questo fenomeno rendono particolarmente evidente un altro aspetto cruciale del collezionismo del contemporaneo: il suo legame con la geopolitica. Il grande momento di

attenzione nei confronti dell’arte proveniente dalla Cina o dall’India riflette in modo naturale non soltanto il dinamismo economico ma anche e soprattutto il crescente peso politico di

questi paesi, e per certi versi ne fornisce una autorevole, indiretta convalida culturale. Non c’è dubbio che scene culturali come quella cinese o indiana, investite come sono da una

spinta di trasformazione prepotente e messe in condizione di poter finalmente esprimere ciò

che per lungo tempo non trovava spazio e non attraeva attenzione, siano oggi inevitabilmente tra le più interessanti e vitali del mondo. Ma allo stesso tempo non si può non

notare come ormai l’attenzione verso queste forme di arte si manifesti a prescindere da qualsiasi considerazione di ordine qualitativo o da qualunque effettiva competenza o

conoscenza dei linguaggi e dei temi: è, appunto, un atteggiamento che riflette la presa di

coscienza del fatto che questi sono oggi i luoghi identitari prima ancora che fisici che vanno presidiati, le espressioni irrinunciabili dello spirito del tempo.

E’ in questa chiave che si può probabilmente leggere, quasi come un contrappasso, la contraddittoria situazione dell’arte italiana nel contesto del collezionismo d’arte

internazionale. Da un lato, a Londra si susseguono nelle principali case d’asta sessioni di

Italian sales che incontrano pressoché invariabilmente un grande successo e spesso portano a dei record di quotazione. Dall’altra, si continua a registrare una preoccupante latitanza della

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nostra arte, soprattutto di quella delle ultime generazioni, da molte delle grandi collezioni

internazionali e soprattutto da quelle di più recente formazione o attualmente più dinamiche, con la parziale eccezione di coloro che, come François Pinault, avendo scelto di investire nel

nostro paese necessariamente prestano qualche attenzione in più a ciò che accade da noi.

In realtà la contraddizione è soltanto apparente e si scioglie con facilità guardando i fatti un

po’ più da vicino: l’arte italiana che oggi si vende è, come si anticipava più sopra, quella

prodotta da artisti ormai scomparsi come Burri o Fontana, Manzoni o Boetti, o dai principali protagonisti dell’Arte Povera. Senza contare che molti degli entusiasti acquirenti delle sales

londinesi sono in realtà collezionisti di casa nostra. Se ci si muove verso esperienze più recenti, ci si trova di fronte ad uno scenario ben diverso, nel quale, con pochissime eccezioni,

i protagonisti della nostra scena artistica fanno fatica anche soltanto ad arrivare nelle aste

che contano, prima ancora di potersi chiedere se sono o meno in grado di spuntare quotazioni significative.

E anche questo è un chiaro riflesso della geopolitica: l’Italia di oggi conta poco nel mondo del collezionismo internazionale perché è un paese che non soltanto non dà una impressione di

proiezione verso il futuro, ma appare ripiegato in una sorta di delirio autoreferenziale: agli occhi del mondo, abbiamo un grande futuro dietro le spalle piuttosto che davanti. Siamo un

paese nel quale la maggior parte della popolazione non conosce una lingua straniera e

soprattutto non ha nessuna intenzione di impararla. Non c’è allora da stupirsi se persino i nostri collezionisti, quando vogliono dare l’idea di essere sofisticati e cosmopoliti,

preferiscono investire su un giovane talento straniero piuttosto che su un artista ‘nostrano’ (per non parlare dei curatori italiani chiamati ad operare scelte e a fare segnalazioni nelle

grandi manifestazioni internazionali).

Il collezionismo, dunque, è oggi una vera e propria cartina al tornasole di ciò che accade, anche al di fuori delle arene culturali. Ma è anche un modo di accumulare: la collezione, in

fondo, è un capitale nel senso economico del termine, rappresenta un investimento il cui valore si rivela man mano che le scelte operate risultano condivise o meno dal mercato, e in

questo senso la prospettiva di breve e quella di lungo periodo possono esprimere verdetti

molto diversi. Non a caso, il mondo delle banche e della finanza si è ampiamente accorto di ciò che accade nell’ hortus non più conclusus dell’arte e sta moltiplicando iniziative e prodotti:

dai servizi di consulenza per i clienti del private banking, alla creazione di art funds, alla stessa espansione dei propri programmi di collezionismo aziendale. Un interesse

collezionistico diretto condiviso peraltro anche da aziende il cui core business ha

apparentemente poco o nulla a che fare con l’arte.

Le aziende e l’arte contemporanea

Ma allora perché le imprese italiane investono relativamente poco in arte contemporanea?

Mentre il nostro collezionismo privato è, come si è già accennato, vivace e dinamico, le imprese, a differenza di quanto accade in paesi come la Germania o il Regno Unito, sono

molto più restie, e anche quando gli imprenditori diventano collezionisti sono in genere più

inclini ad acquistare per sé che per l’azienda. L’argomento classico che viene proposto per spiegare lo scarso interesse delle imprese è la mancanza di incentivi fiscali: se gli acquisti

d’arte potessero essere detassati, si argomenta, le imprese acquisterebbero molto di più. C’è motivo di dubitarne, almeno in parte: ascoltando l’esperienza degli imprenditori che hanno

deciso di investire in arte a livello aziendale o addirittura di costruire una collezione

aziendale, quasi mai si sostiene che una incentivazione fiscale favorevole avrebbe potuto giocare un ruolo decisivo nella decisione di imboccare questa strada: quel che conta è la

passione e la convinzione dell’importanza di questo tipo di iniziativa. Sono molti di più, invece, gli imprenditori che non investono a richiamare la mancanza di incentivi fiscali come

giustificazione, che però suona spesso come una via comoda per togliersi d’impaccio. In

realtà, approfondendo la questione, emergono altri elementi molto più decisivi: la paura di non avere abbastanza competenze per affrontare il mercato dell’arte, la paura di reazioni

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negative da parte dei dipendenti che potrebbero considerare la collezione uno spreco di

danaro e una sottrazione di risorse nei confronti di priorità più importanti, soprattutto nei momenti nei quali la competizione globale si fa più incisiva, la paura di attrarre l’attenzione

della finanza e di subire accertamenti particolarmente accaniti, e così via. Un vario assortimento di paure, dunque, alla base del quale sta, in varie declinazioni, una stessa

causa: una scarsa cultura del contemporaneo, che impedisce all’imprenditore di capire che le

competenze si possono costruire conoscendo un poco alla volta la scena dell’arte contemporanea e affidandosi agli esperti verso le cui scelte si prova una maggiore affinità.

Che impedisce di capire che i lavoratori considerano l’arte uno spreco di risorse e un irritante capriccio dei vertici aziendali se non sono messi in condizione di conoscere, di capire, di

partecipare, ma che invece spesso diventano dei sostenitori di questo tipo di programmi

quando comprendono il contributo che essi possono dare al miglioramento della cultura organizzativa e della qualità degli ambienti di lavoro, all’apertura mentale, alla disponibilità

verso il nuovo. Che impedisce al nostro fisco di pensare all’arte come ad un bene voluttuario invece che ad un investimento (e ne è prova il non mai abbastanza stigmatizzato trattamento

iva delle transazioni, che come si è detto a differenza di altri paesi europei impone un’aliquota del 20% e impedisce in buona parte l’emersione del mercato), e che quindi

inocula nelle imprese il timore di essere oggetto di insidiose attenzioni da parte del fisco.

Un robusto e maturo collezionismo aziendale farebbe benissimo non soltanto a molte imprese ma anche, ovviamente, al nostro sistema dell’arte, che avrebbe la possibilità di

crescere e di investire più risorse sui nostri artisti, favorendone l’affermazione internazionale. Una delle sfide da proporre ai dicasteri governativi dei beni culturali e dello sviluppo

economico sarebbe quella di dare avvio ad un programma di sensibilizzazione delle imprese

al collezionismo aziendale, concedendo benefici ai musei e alle istituzioni culturali che si impegnano a diffondere questa cultura con iniziative mirate alle imprese del proprio territorio,

coinvolgendo attivamente anche le associazioni imprenditoriali di categoria.

I musei e la costruzione del pubblico dell’arte contemporanea

Il museo è senz’altro una delle realtà su cui si concentrano più speranze quando si pensa ad un modello di organizzazione che sappia inserire i meccanismi dell’offerta culturale all’interno

di uno scenario vitale e competitivo di sviluppo economico locale. Ma se il museo non è generalmente in grado di porsi come centro di profitto, quale ruolo può svolgere in concreto?

Una casistica internazionale ormai ampia mostra come il museo abbia due funzioni

importanti all’interno del sistema culturale locale: quella di attrattore e quella di attivatore. Il museo di arte contemporanea si presta particolarmente a svolgere queste funzioni in quanto

esso diventa il luogo in cui si esprime con la massima compiutezza ed efficacia tutto il mondo simbolico su cui si costruiscono le moderne catene del valore: in altre parole, nel museo si

realizzano proprio quelle condizioni ideali da ‘laboratorio di ricerca e sviluppo’ in cui si elaborano e divengono accessibili, al di fuori di immediati obiettivi commerciali, tutte le

declinazioni più interessanti ed innovative dell’universo simbolico della cultura

contemporanea, che vengono poi ‘metabolizzate’ all’interno della propria catena del valore dal sistema produttivo, generando idee di comunicazione, di design, di packaging ma anche

modelli relazionali, stili di vita, idee di prodotto: né più né meno che il pane quotidiano dell’azienda post-industriale dal cui successo competitivo dipende il futuro delle nostre

economie e delle nostre società.

Da un lato, il museo agisce come attrattore nella misura in cui è in grado di aumentare la visibilità del sistema locale a cui appartiene, contribuendo all’orientamento di flussi turistici, di

decisioni di investimento, di copertura mediatica ecc., tutte risorse preziose nei moderni processi di sviluppo locale. Limitandoci soltanto a casi europei, il Guggenheim Bilbao, la Tate

Modern a Londra, il nostro MART, il Centre Pompidou di Parigi sono tutti esempi di musei

con una chiara vocazione di attrattore.

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Dall’altro, il museo agisce come attivatore nella misura in cui le sue iniziative e i suoi

contenuti sollecitano l’emergere di nuovi progetti imprenditoriali, la formazione e la selezione di nuove professionalità, il varo di progetti di responsabilità sociale rivolti alla comunità, la

rilocalizzazione di attività produttive e residenziali all’interno del sistema urbano. Esempi di musei-attivatori, sempre restando nel contesto europeo, sono ZKM a Karlsruhe, Baltic a

Gateshead, il Palais de Tokyo a Parigi, il CAC a Vilnius.

In tutti i casi di studio di successo, tanto quando emerge con particolare forza la funzione-attrattore che quella –attivatore, si nota chiaramente che, accanto alla necessaria capacità di

catalizzare energie e risorse provenienti dal di fuori del contesto locale, il museo riesce con successo a mobilitare e coinvolgere attivamente anche il pubblico e le risorse economiche

del sistema locale che lo esprime. In altre parole, il museo che ‘funziona’, a prescindere dalla

sua vocazione e dalle sue caratteristiche specifiche, è un museo che è vissuto e utilizzato come risorsa in primo luogo da coloro che, vivendo nella città o nel sistema metropolitano

che lo ospita, godono di condizioni fisiche di accesso facilitate e privilegiate. Piuttosto che inseguire formule predefinite, occorre allora fare in modo che sia il dialogo tra il museo e il

suo territorio a definire il modello di uso dello spazio e dei tempi del museo stesso. Un dialogo che presuppone un forte investimento del territorio in una crescita delle proprie

competenze culturali, della propria capacità progettuale, dell’apertura al nuovo e alle

esperienze internazionali.

Nel contesto italiano, la crescita vertiginosa delle dimensioni del nostro sistema museale del

contemporaneo in corso negli ultimi anni, e attualmente in fase di ulteriore accelerazione, richiede un notevole sforzo di coordinamento strategico per evitare, anche all’interno di una

stessa area metropolitana, controproducenti sovrapposizioni di competenze accompagnate

da vistose lacune strutturali del sistema nel suo complesso: una stessa area metropolitana o regione può così paradossalmente ospitare molti musei dediti ciascuno alla costruzione di

collezioni piccole e incomplete piuttosto che concentrare gli sforzi su un unico progetto di qualità, e allo stesso tempo può essere, ad esempio, del tutto carente di spazi progettuali

dalla vocazione non collezionistica. Un ruolo particolare, all’interno di questo sistema, dovrà

essere assunto dal MAXXI che in quanto museo nazionale del contemporaneo assume inevitabilmente una responsabilità di leadership che dovrà essere attentamente costruita e

declinata.

La difficoltà dei giovani artisti italiani spiegata attraverso le carenze del sistema

formativo

In libri che sono anche classifiche editoriali internazionali come Cream 3 o Fresh Cream della Phaidon scopriamo che su 100 artisti gli Italiani sono solamente 2: Luisa Lambri e Grazia Toderi. In un’altra classifica del 2002, Art Now. 137 Artists at the Rise of the New Millennium della Taschen, gli italiani sono Monica Bonvicini, Maurizio Cattelan, Paola Pivi e ancora Grazia Toderi. Pochi gli artisti italiani anche nei regesti internazionali dedicati ai giovani disegnatori, ai giovani pittori e ai giovani fotografi. In mostre di una certa rilevanza nelle fiere di massimo impatto, da Frieze di Londra ad Art Basel ad Art Basel Miami e così via se ne incontrano di rado e spesso le gallerie italiane preferiscono portarvi star internazionali piuttosto che rischiare l’invenduto. Inoltre una fiera come Miart di Milano, che nel 2008 ha fatto i suoi ultimi tentativi di rinnovamento con sezioni dedicate ai giovani italiani, così facendo ha probabilmente decretato la sua fine.

Uno dei motivi centrali per i quali gli artisti italiani stentano ad affermarsi all’estero almeno in quanto categoria – ci sono casi di successo eclatante, ma sempre

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raggiunto come caso isolato e mai in quanto membri di una cordata nazionale - può essere riscontrato nella mancanza di strutture adeguate dal punto di vista formativo.

Le Accademie sono state per secoli i luoghi deputati all’insegnamento delle arti figurative. Basate sul rapporto maestro apprendista, sulla ripetizione di modelli, nascono intorno alla fine del XVI secolo, quando l’arte aveva delle funzioni decorative, per cui dall’Accademia dovevano uscire decoratori, stuccatori o affrescatori che avessero comunque uno stile riconoscibile; un primo elemento di debolezza delle Accademie è che l’arte sperimentale, come la si concepisce oggi, ha preso delle vie talmente varie e, appunto segnate dalla sperimentazione tecnica, progettuale, teorica ed estetica ,che un’omologazione simile degli stili degli studenti non è più proponibile.

Il sistema delle Accademie di Belle Arti in Italia propone ancora e soprattutto un sapere centrato sulla tecnica - cosa sacrosanta in bacini come quello di Carrara, ove il territorio fornisca un materiale come il marmo, che chiede competenze specifiche di lavorazione, ma solo in questi rari casi .

Un altro dei problemi delle Accademie riguarda inoltre il prolungato tempo di esposizione di un ragazzo giovane ad un solo docente. Una questione importante, soprattutto quando non sia garantita una qualità alta e omogenea dei docenti: per quattro anni consecutivi il ragazzo si confronta sostanzialmente con una modalità creativa e con un solo approccio alla disciplina; benché siano sempre presenti scambi o occasioni di colloquio con altri docenti, questo contatto prolungato è adatto a qualcuno che abbia la capacità di entrare nella logica progettuale del proprio maestro, ma anche di separarsene per trovare la propria via autonoma.

Tentativi subentranti e spesso lodevoli di riformare le Accademie di Belle Arti si sono succeduti in Italia dai primi anni settanta, per riempire queste lacune e anche in seguito alla spinta del movimentiamo studentesco. Dapprima sono stati introdotti nel corso di studi i cosiddetti “Corsi Speciali” per affiancare un sapere storico-teorico a uno meramente pratico (in precedenza lo studente doveva solo fare un esame l’anno di Storia dell’Arte e uno l’anno della disciplina pratica prescelta, tra pittura, decorazione, scultura e architettura).

Negli anni Novanta è iniziato il processo che ha condotto a conferire agli studenti che terminano gli studi un “diploma di Laurea” uniformato alle lauree cosiddette brevi (triennali). Questo mutamento, avvenuto con la legge 21 dicembre 1999, n. 508, è stato però più nominale che sostanziale: il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca tratta attraverso due direzioni generali diverse l’Università in senso tradizionale e i cosiddetti Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale, in cui rientrano le Accademie.

Nei fatti, solo di rado i crediti acquisiti alle Accademie sono permeabili rispetto a quelli che possono essere acquisisti con esami universitari, e soprattutto è piuttosto infrequente il contrario (crediti formativi offerti dall’Accademia riconosciuti come validi nell’ambito universitario).

Inoltre, i docenti delle Accademie continuano ad avere un tipo di ruolo statale che non identico, né per tipologia di concorso né per retribuzione né per permeabilità con le strutture “veramente” universitarie, rispetto a quello appunto dei docenti degli atenei. Tutto questo è un residuo del tempo in cui le Accademie rilasciavano diplomi di tipo diverso rispetto alle Lauree.

Un passo avanti è stato comunque raggiunto: iscrivendosi a un biennio universitario specialistico, gli studenti delle Accademie finiscono per avere un titolo di studio

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universitario in senso pieno. Ciò significa che almeno in termini di “uso” del titolo di studio, gli studenti dell’Accademia maturano diritti analoghi a quelli degli studenti universitari. In particolare, aggiungendo al loro diploma una laurea specialistica o magistrale, possono ottenere il titolo rilasciato dal tre + due universitario. I docenti restano invece confinati in un limbo, economico ma non solo, che li demotiva da un lato e che dall’altro li spinge a denigrare ogni altro tipo di formazione artistica.

La Rivoluzione delle Accademie non era forse necessaria, dal momento che un paese che ha dato all’arte recente molti importanti nomi e grandi scuole come la Germania non si è mai allontanato dal quel modello di studi. Certo è che gli artisti tedeschi migliori considerano un motivo d’orgoglio insegnare ed è rarissimo che un grande artista lo eviti: persino la vicenda creativa di un grande ribelle come Joseph Beuys – prima docente integrato, poi espulso, poi creatore di quella Free International University che concepì come un’opera - si avvolse intorno a questo tema. Al contrario, pochissimi tra gli artisti di fama riconosciuta in Italia si sono rivolti all’insegnamento. Dei movimenti più significativi del dopoguerra, Informale, Arte Povera e Transavanguardia, possiamo al massimo ricordare le docenze di Emilio Vedova a Venezia e di Luciano Fabro a Milano.

Va anche ricordato che la nascita di molti tra questi istituti sono sorti al Sud non per rispondere alle reali esigenze del bacino di riferimento, ma per motivi politici di altra natura. Zone dall’ampia richiesta con il Nord Italia sono costrette, per fare fronte alle richieste di un bacino vastissimo, ad avvalersi di accademie comunali (come quella di Verona, la Ligustica a Genova, la Giacomo Carrara di Bergamo) oppure private (come la Naba di Milano) oppure di centri privati che non rilasciano un titolo legale (Domus Academy, Istituto Europeo del Design oppure altre organizzazioni, sovente estemporanee e poco controllate e quindi di efficacia sospetta).

Accademie di Belle Arti in Italia.

Sede n° Iscritti n° Diplomati

2003

BARI 400 48

BOLOGNA 1233 167

CARRARA 482 78

CATANIA 560 48

CATANZARO 171 34

FIRENZE 1081 194

FOGGIA 215 24

FROSINONE 139 28

L'AQUILA 104 30

LECCE 512 78

MACERATA 246 34

MILANO BRERA 2155 423

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NAPOLI 1405 103

PALERMO 846 122

REGGIO CALABRIA 417 66

ROMA 1822 301

SASSARI 326 44

TORINO ALBERTINA 540 103

URBINO (PS) 251 44

VENEZIA 905 74

Totale 13810 2043

Fonte: Miur, 2005.

Alla carenza della formazione artistica ha cercato di fare fronte il DAMS, istituito dapprima a Bologna nel 1970/'71 all'interno della Facoltà di Lettere con lo specifico intento di indagare criticamente e sviluppare operativamente le sinergie tra i linguaggi espressivi non-verbali dell'Arte, del Cinema, della Musica e del Teatro. A tutt’ oggi la formula è stata ripetuta da molti atenei. Quella che doveva essere una svolta decisiva si è però dovuta scontrare con una prevalenza degli insegnamenti teorici e la difficoltà di avere importanti momenti laboratoriali: in particolare è difficile arruolare nel corpo insegnante dei professionisti i quali infatti non tendono alla ricerca di riconoscimenti accademici. Accade dunque che spesso anche i Dams non hanno contatti con i centri di produzione artistica del paese e quasi mai hanno docenti scelti a contratto tra i maggiori professionisti mondiali. La preziosa arma della docenza a contratto, cioè per periodi brevi ma con un buon compenso, chiamando artisti di fama internazionale, è stata del resto gravemente spuntata, per una incomprensione del ruolo steso della docenza a contratto di alto livello, con il cosiddetto Decreto Mussi del marzo 2007, che stabilisce requisiti minimi di docenti strutturati all’interno degli atenei così alti da scoraggiare le chiamate appunto a contratto. Questo problema si annuncia come il nodo più significativo da risolvere nei prossimi anni, liberalizzando e promuovendo la docenza a contratto laddove questa non sia una scappatoia per fare fronte a carenze di organico, ma si presenti invece come un modo per richiamare nei nostri atenei i protagonisti della cultura mondiale.

Esistono nel paese, alla data dell’aprile 2008, solo due sole Facoltà in Università dello Stato designate sotto il termine di Design e Arti, una a Bolzano e una a Venezia. Solo in un caso, all’Univeristà Iuav di Venezia, è attivo un Corso di Laurea Specialistica in Arti Visive (progettato e diretto da Angela vettese) nato peraltro solo nel 2001, che ha cercato di mantenere vivace lo scambio con artisti e critici internazionali anche avvalendosi della compresenza in città di un magnete come La Biennale. Peraltro il corso ha dovuto subire un notevole ostracismo da parte non solo dell’Accademia di Belle arti della città, con cui non si è riuscito ad avviare, nonostante i tentativi iniziali dalle due parti, uno scambio osmotico, ma anche da parte delle altre Facoltà del medesimo ateneo (Architettura e Pianificazione Urbanistica). In apparenza sono state lungamente impaurite dal drenaggio di fondi che esso avrebbe potuto rappresentare e

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a più riprese tentate di sopprimerlo. In realtà, dietro a tale ostracismo e anche sullo sfondo della fatica dei Dams e delle Accademie, sembra stagliarsi un dubbio di fondo sulla necessità che la formazione artistica avvenga a livello universitario. Il mondo culturale italiano non confessa palesemente, ma continua a sentire che le arti visive siano parti del sapere pratico che non merita di essere approfondito in associazione con un’alta tradizione di teoria.

Attesta il permanere di questa opinione, che non vede le arti visive come “cosa mentale”, l’oblio nel quale è tenuto il cosiddetto Liceo Artistico: considerato alla stregua di una scuola professionale, è centrato sulla pratica pittorica e plastica ed è incapace di fornire quelli che oggi sono strumenti teorici fondamentali: si pensi che l’insegnamento della filosofia non vi è sostanzialmente praticato; grave anche la scarsa considerazione in cui è tenuta la lingua inglese, vero passaporto per presentarsi in un contesto non solo nazionale. Seguire dunque un semplice corso Erasmus in inglese o un Master all’estero diventa difficile o infruttuoso.

Tutto questo accade a fronte di uno sviluppo fortissimo delle strutture di formazione artistica all’estero, sia con il modello delle Accademie (Germania, Francia, Cina), sia con il modello dei College (in Inghilterra e paesi ex Commonwelth), sia con l’idea di scuole di tipo universitario (soprattutto Stati Uniti). Che ci si affidi a “meinsterclasse” alla tedesca o che ci si affidi invece a scuole come la UCLA o la Cal Arts di Los Angeles o la Staedel di Francoforte, dove l’insegnamento è affidato a rotazione a protagonisti diversi del mondo dell’arte, va detto che ormai da molti anni la maggior parte degli artisti stranieri di punta nasce all’interno di uno o più centri di formazione di eccellenza. I fotografi tedeschi che hanno impregnati della propria presenza gli anni ottanta e novanta - Thomas Ruff, Thom as Struth, Andreas Gursky - sono venuti fuori dall’insegnamento di Bernd e Hilla Becher a Duesseldorf. La scuola degli Young British Artists, che tanto scalpore e tanto successo ha avuto negli anni Novanta, proveniva quasi in toto dal Goldsmieths College.

Si tenga inoltre presente che gli scambi tra gli studenti di queste scuole sono sempre più frequenti (si pensi alla riunione annuale Real Presence, organizzata solitamente a Belgrado). Solo nel 2003 una simile riunione ha avuto luogo in Italia, a Venezia, nell’ambito della Biennale di Venezia e dell’iniziativa Recycling the Future. Nella maggior parte dei casi la partecipazione a simili, formativi meeting internazionali viene lasciata all’iniziativa dei singoli e non favorita dalle scuole.

Al sospetto riguardo alla validità culturale delle arti visive si aggiunge, negli anni del loro massimo successo di pubblico, l’abbraccio mortale dell’intrattenimento e il sapore di un’industria della cultura centrata su valori di mercato. Di qui anche una scarsa attenzione delle case editrici a una pubblicistica seria e a traduzioni dei maggiori saggi teorici e storici. L’ampliamento dei testi divulgativi ha condotto a libretti di sottofondo cinico e compiacenti con il “questo lo so fare anch’io” che è di casa tra chi non conosce l’arte contemporanea. Scarse anche le traduzioni degli studi italiani in inglese, cosa che favorisce un isolamento autoreferenziale degli studiosi italiani.

Le nostre case editrici tendono a considerare il libro d’arte contemporanea come un ambito di edizioni prepagate da un committente. Anche quando non intervengano immagini a rendere costoso il prodotto, non si ritiene opportuno tradurlo per la piccolezza del bacino linguistico rispetto ai costi di pubblicazione (traduzione, diritti e distribuzione). Antologie decisive sul pensiero degli artisti e dei teorici del Novecento, come Art in Theory (Harrison & Wood, Blackwell 1995) oppure Theories and Documents in Contemporary Arts (Kristine Stiles e Peter Selz, California Press 1996)

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non hanno trovato in Italia neppure edizioni ridotte. Qualche speranza viene da nuove aperture: se si è dovuto attendere il 1993 perché il più classico dei critici americani, Clement Greenberg, trovasse una traduzione (Allemandi, Torino), la sua erede ribelle Rosalind Krauss ha visto tradotta quasi tutta la sua bibliografia rilevante grazie oltretutto a editori diversi (Bruno Mondadori, Codice). D’altra parte molto lascia pensare che questa buona volontà non nasca tanto da una attenzione ai luoghi di formazione e alle loro necessità, quanto dal boom di presenza che le arti visive hanno registrato dagli anni ottanta e fino agli anni duemila inoltrati sulla stampa anche non specializzata, epifenomeno della diffusione di mostre come elemento di politica culturale locale rivolta a un pubblico vasto.

Potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che sia stato tradotto un manuale costoso e ponderoso, Arte del 900 edito da Zanichelli (prima uscita Thames and Hudson),di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yves-Alain Bois e Benjamin Buchoh.

Suscita riflessioni ulteriori il fatto che i docenti di prima e di seconda fascia degli ambiti L-Art 03 e L-art-04, che coprono il settore della storia, della critica, della sociologia dell’arte contemporanea nei suoi aspetti più diversi, sono estremamente pochi: un’eredità inevitabile della nascita tarda dell’insegnamento della disciplina negli atenei; e a sua volta, un’eredità della tardiva e riluttante accoglienza che l’arte contemporanea ha avuto non solamente tra i docenti di materie scientifiche, ma anche di materie umanistiche, se possibile, soprattutto da parte dei colleghi storici dell’arte che si occupano di produzioni di secoli passati. Non solo mancano facoltà e corsi di laurea dedicati alla produzione e progettazione dell’arte visiva, ma anche nei corsi di laurea di Lettere, Beni Culturali, Storia, Filosofia, insomma nelle facoltà cosiddette umanistiche, l’arte del Novecento ha fatto un ingresso lento e rado. E con ciò torniamo a quello che è il leit motiv di questa riflessione.: anche la sola dicitura “arte contemporanea “ suscita più di un sospetto tra i cultori dell’arte antica e moderna.

Un radicale cambiamento di linguaggio

l’arte attuale ha perso le caratteristiche tecniche e le ricorrenze iconografiche di quella del passato. I materiali possono essere solo presentati e non manipolati. Le “figure” possono essere assenti, anche quando si tratti solamente di elementi astratti e geometrici. Alcune competenze di cui gli artisti recenti sanno avvalersi, come la tecnica della fotografia, del video o della cinematografia, non vengono riconosciute come facenti parte del novero di quelle che stanno nella categoria che ha alla base pittura e scultura. Si trova difficile evidenziare elementi di continuità con quella storia che, pure, gli artisti rivendicano come la propria fonte di ispirazione e il proprio principale riferimento nel passato. Esiste una vera difficoltà nell’attribuire valore di arte a ciò che non è più riconoscibile come tale. Molti artisti vengono considerati dagli storici dell’arte, dunque, dei semplici millantatori senza perizia tecnica né rispetto per la tradizione. Del resto questa è la direzione in cui è andata l’arte internazionale nel corso dell’ultimo secolo: il ready made sta per compiere appunto cento anni. In ambito concettuale, dagli anni sessanta, il supporto delle opere si è ridotto a un nonnulla (una definizione da vocabolario, un enunciato, un gesto) tanto che la studiosa americana Lucy Lippard ha potuto parlare di s-materilaizzazione dell’oggetto artistico e il critico Harold Rosenberg ha potuto definire quest’ultimo un “oggetto ansioso” alla ricerca della propria ridefinizione. Il collasso della materia e della manualità ha avuto il ruolo, peraltro, di dichiarare la potenza dell’opera al di là di ogni fattura manuale e in base solo all’idea che la sostiene. Siamo di fronte a una querelle antichissima, che ci riporta al tempo in cui gli artisti del Rinascimento sui battevano perché pittura e scultura

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venissero annoverate tra le Arti Liberali e, più in generale, tra gli ambiti che concedono di arrivare alla conoscenza. Questo processo di riconoscimento di valore epistemologico fu lentissimo; fu appunto questa lentezza la responsabile della mancata nascita o della nascita poco tempestiva, nella cultura europea e specialmente italiana, di istituti di formazione realmente universitaria. Per le arti visive, Pittura e Scultura erano equiparate alla Decorazione, terzo ambito della formazione tradizionale. Il quarto, l’Architettura, si è del resto staccata solo recentemente dal “ghetto” del sapere minore delle Accademie di Belle Arti, ed è forse per questo che ancora oggi difende con foga un primato guadagnato così di recente.

Tutta la circospezione che attornia l’arte contemporanea nasce da una circospezione che da sempre circonda il territorio del visivo, ma è oggi ulteriormente suffragata, appunto, dalla difficoltà di capire cosa meriti questo appellativo. Dopo le provocazioni futuriste, dadaiste, concettuali e così via, è davvero difficile orientarsi in un campo che autorizza i profani a fare di tutta l’erba un fascio. D’altra parte dovremmo chiederci anche se non sia giunto il tempo di restituire o di dare tout court una piena dignità di veicolo del sapere all’ambito del visivo, dal momento che è in questo settore che si stanno sviluppando a grande velocità la maggior parte delle forme di comunicazione nuove. La supremazia dell’immagine sul testo non può essere considerata una moda, un fenomeno passeggero rispetto al quale c’è soltanto da attendere un inevitabile declino. I linguaggi non verbali non potranno che essere in futuro sempre più determinanti.

Un discorso ulteriore meritano quei ”libri fatti di cose”, quelle occasioni per imparare a conoscere e a praticare il linguaggio dell’arte, rappresentate dalle collezioni di arte contemporanea. Quelle dei nostri musei sono, purtroppo, sporadiche e poco coerenti, cosa che non favorisce l’approccio didattico alla disciplina. Come si vede dalla tabella qui sotto, gli autori non mancano: ciò che è assente è la coerenza interna delle collezioni e la qualità dei pezzi.

Nonostante la grande spinta data dagli anni novanta alla creazione di nuovi musei, tra cui spiccano i progetti per il MART di Rovereto (arch. Mario Botta), il Maxxi di Roma (arch. Zaha Hadid) del Macro di Roma (arch. Odile Decq), per il Museo d’arte contemporanea di Milano (Arch. Daniel Liebenskind), si è oramai perduta in Italia la possibilità di avere una collezione coerente di arte del XX secolo. Ciò nonostante il fatto che l’Italia sarebbe stato il paese con maggiori possibilità di costruirlo, almeno per la seconda metà del secolo, considerando che tutte le più importanti tendenze artistiche e tutti gli autori di rilievo degli ultimi settant’anni sono passati dalla Biennale di Venezia in tempi rapidi, tempestivi, quando le loro opere non costavano che poche migliaia di dollari. Purtroppo nessun organo dello Stato e nessun museo si è fatto carico di una politica di acquisti alla Biennale anche a basso costo, ma oculata e capace di precorrere i tempi. I prezzi dell’arte contemporanea sono a tal punto cresciuti, soprattutto dagli anni Ottanta in poi che una sistemazione del “buco” non è più proponibile. L’Italia potrà avere un museo del XXI secolo se emenderà questo errore, con i riflessi prevedibili nel campo della formazione del pubblico. Va ricordato che fenomeni come il “mostrismo” a fini di divertimento e turismo e la tentazione di costruire musei a fini si speculazione edilizia del territorio circostante (altrimenti detta riqualificazione urbana, spesso con sofisticata ipocrisia), nulla hanno a che fare con una genuina necessità di implementare la formazione e la coscienza artistica nel paese. Cercare i grandi numeri di visitatori per le mostre così come per i musei può addirittura essere controproducente, in quanto riesuma il fantasma dello spettacolo e fa vivere l’arte visiva contemporanea dell’ennesimo misunderstanding. La sua

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funzione primaria non può essere considerata quella di arricchire le città d’arte, già abbastanza nutrite dall’arte e dall’architettura antiche, ma appunto quella della produzione di sapere.

Collezioni dei principali Musei Italiani di Arte Contemporanea.

Museo Numero pezzi in

collezione1

Periodo Tipo di collezione,

principali artisti

MUSEION

Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Bolzano

1700 XX secolo, particolare riferimento alle correnti artistiche italotedesche.

Accardi, Afro, Beuys, Cage, Capogrossi, Fontana Hofer, Lawler, Lewitt, Locher, Kosuth, Kounellis, Kowarz, Manzoni, Nauman, Novelli, Paik, Paolini, Rudolf, Stolz, Zimmermann

MART

Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto

7000 Tutto il XX secolo Balla, Boetti, Burri, Carrà, Depero, de Chirico, Fontana, Long, Kiefer, Kounellis, Martinetti, Merz, Moranti, Nauman, Prampolini, Sironi.

GAMeC

Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo

60 XX secolo Balla, Baj, Basilico, Boccioni, Casorati, Cattelan, de Chirico, De Pisis, Fontana, Hartung, Kandinskij, Manzù, Moranti, Pirandello, Richter, Tesi.

Castello di Rivoli

Museo d’Arte Contemporanea di Rivoli (Torino)

300 Dal 1950 ad oggi Bonvicini, Cattelan, Cragg, Flavin, Fontana, Goldin, Halley, Kiefer, Kounellis, Long, Marisaldi, Merz, Nauman, Ousler, Paladino, Penone, Pistoletto, Richter, Tesi

Fondazione Torino Musei

GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino

15000 Dalla fine del XVIII secolo ad oggi.

D’Azeglio, Fattori, Mancini, Pel lizza da Volpedo, Medardo Rosso;

Anselmo, Balla, Boccioni, Boetti, Burri, de Chirico, De Pisis, Dix, Ernst, Fontana, Hartung, Klee, Kounellis, Martini, Manzù, Melotti, Merz, Modigliani, Morandi, Picabia, Picasso, Paolini, Pistoletto, Severini, Warhol

Galleria Civica di Modena

9000 Dal ‘900 ad oggi Carrà, Evans, Fontana, Ghirri, Goldin, Lorca di Corcia, Morandi, Penone, Sironi, Zorio

GAM

Galleria d’Arte Moderna di Bologna

4000 Dall’800 ad oggi Angeli, Beecroft, Burri, Cattelan, Cesar, Cucchi, Gilbert & Gorge, Gilardi, Merz, Ontani, Pane, Paladino, Paolini, Penone, Schifano, Schnabel, Zorio.

Centro per l’Arte Contemporanea

500 Dal 1950 ad oggi Bagnoli, Boetti, Cucchi, Fabre, Gilardi, Kapoor, Kounellis, Lewitt,

1 Il numero dei pezzi è approssimato.

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Luigi Pecci Prato Merz, Paolini, Pistoletto, Schnabel, Zorio

GNAM

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

1900 Dall’800 ad oggi Canova, Cézanne, Courbet, De Nittis, Fattori, Lega, Michetti, Monet, Pel lizza da Volpedo, Previati, Medardo Rosso, Van Gogh

MAXXI

Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo

60 XXI secolo Airò, Alys, Anselmo, Arienti, Avery, Bartolini, Basilico, Beecroft, Beninati, Boetti, Cattelan, De Dominicis, Esposito, Galegati, Gilbert & Gorge, Kentridge, Khebrenzades, Linke, Manzelli, Manzoni, Marisaldi, Merz, Moro, Oursler,Pessoli, Pivi, Richter, Ruscha, Schutte, Tesi, Trickell, Tuttofuoco, Vezzoli, Walker

MACRO

Museo d’Arte Contemporanea di Roma

1000 Dal 1960 ad oggi Accardi, Castellani, Perilli, Pivi, Pizzi Cannella, Rotella, Tesi.

MAN

Museo d’Arte della Provincia di Nuoro

100 Arte del XX secolo in Sardegna

Balleru, Canu, Collu, Floris, Lai, Mura, Nivola, Spada, Sini

Per concludere: alcune semplici misure di azione

Per concludere, riportiamo qui quelli che a nostro parere potrebbero divenire gli elementi iniziali di una vera e propria ‘terapia di impatto’ nei confronti del nostro sistema del

contemporaneo, che non sostituiscono il paziente lavoro di costruzione di una strategia di lungo termine ma possono diventare il segnale eloquente e credibile di un effettivo

cambiamento in atto. Si tratta di misure in parte già richiamate nelle pagine precedenti, ma che è opportuno riportare qui di nuovo in forma schematica, evidenziando così ulteriormente

il loro carattere di interdipendenza. Piuttosto che lavorare sui grandi scenari e su problemi

strutturali di difficile soluzione, ci sembra utile e pragmatico partire dalle problematiche immediate degli artisti e degli operatori del settore, accompagnando a queste azioni un

intervento più complesso e profondo sui temi e sugli attori esaminati nelle pagine precedenti.

1) Stabilire efficaci programmi internazionali che offrano ai curatori stranieri la possibilità di

trascorrere soggiorni di studio in Italia. Il già citato FRAME, ad esempio, organizza un programma di visite intensissimo: in ogni giorno dell’anno sono presenti nella piccola ma

efficiente sede almeno due-tre curatori provienienti da ogni parte del mondo a cui viene offerto ampio accesso ad una ricca documentazione sul lavoro degli artisti, la possibilità di

visite agli studi (guidate o meno, a seconda delle preferenze), nonché la possibilità di

proporre progetti. I risultati sono evidenti: artisti come Eija-Liisa Ahtila, Salla Tykka, Elina Brotherus, Esko Mannikko hanno raggiunto ormai una notevole visibilità internazionale e più

o meno tutti mantengono ancora la propria base di residenza e di lavoro in Finlandia.

2) Inserire gli artisti all’interno delle reti dei programmi di residenze più interessanti a livello

internazionale. La carriera di un’artista come Luisa Lambri, ad esempio, si è esemplarmente

sviluppata attraverso una sequenza di residenze in contesti attentamente scelti e non

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scontati: dalla Lituania al Giappone. Ma analizzando il curriculum di quasi tutti gli artisti di

primo piano emersi negli ultimi anni, si nota che le residenze giocano sempre un ruolo importante, soprattutto in corrispondenza della fase di consolidamento internazionale del loro

lavoro.

3) Abituare gli artisti a saper presentare e discutere il proprio lavoro. Quasi ogni mostra museale

negli Stati Uniti prevede un artist talk nel quale l’artista o gli artisti coinvolti discutono con il

pubblico, lo staff curatoriale del museo, gli studenti delle scuole d’arte locali e spesso con curatori e critici esterni. In Italia questo accade di rado, e ancora una volta i risultati si

vedono. Molti degli esperti interpellati evidenziano come non raramente gli artisti italiani mostrino una scarsa disinvoltura nella presentazione e nella discussione, se non anche nelle

modalità di proposta progettuale, un limite che inevitabilmente li penalizza fortemente nelle

fasi di selezione per le mostre importanti.

4) Sostenere gli artisti che ricevono inviti in istituzioni estere importanti, non soltanto nella prima

fase della carriera, ma anche e soprattutto nelle fasi decisive del consolidamento internazionale. Gli artisti tedeschi, olandesi, nordeuropei, inglesi o americani - per limitarci ad

alcuni degli esempi più evidenti - a cui vengono offerte opportunità espositive di particolare rilievo ricevono molto spesso un supporto finanziario significativo dalle istituzioni del paese di

origine, e di conseguenza, a parità di condizioni, tendono ad essere invitati preferenzialmente

rispetto ad artisti provenienti da paesi che non dedicano risorse a queste iniziative (come troppo spesso avviene da noi).

5) Potenziare la DARC con mezzi finanziari adeguati a farla funzionare come una vera agenzia del contemporaneo a 360 gradi, così da poter dedicare risorse finanziarie e umane non

soltanto ai compiti istituzionali basilari ma anche al coordinamento e all’impegno diretto in

politiche attive di promozione come quelle citate ai punti precedenti.

6) Offrire finalmente alle nostre gallerie un regime fiscale ragionevole che permetta loro di

sviluppare la propria attività in condizioni concorrenziali rispetto a quelle degli altri paesi, con conseguenti più ampi margini di investimento nei propri artisti e nelle proprie strategie di

promozione e internazionalizzazione. La debolezza economica e finanziaria di buona parte

delle nostre gallerie, in un contesto nel quale anche molti musei devono a propria volta combattere con budget estremamente ristretti e soprattutto sempre incerti, in assenza di una

politica pubblica orientata secondo le linee sopra descritte lascia i nostri artisti pressoché inermi di fronte alla sempre più agguerrita competizione internazionale.

Si tratta di un programma di azione ambizioso, ma realizzabile, come mostra chiaramente

l’esperienza di molti altri paesi europei e non che hanno fatto della cultura del contemporaneo la loro principale priorità di politica culturale. Non c’è motivo per cui non

possa farlo anche il nostro paese.