L’arbitro Abelardo così affrontò la contesa tra i monoteismi

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8/7/2019 L’arbitro Abelardo così affrontò la contesa tra i monoteismi http://slidepdf.com/reader/full/larbitro-abelardo-cosi-affronto-la-contesa-tra-i-monoteismi 1/1 L’arbitro Abelardo così affrontò la contesa tra i monoteismi di Luigi Accattoli in “Corriere della Sera” del 2 marzo 2011 All’inizio di luglio del 1141 Pietro Abelardo, in cammino verso Roma, giunge in Borgogna, nella grande Abbazia di Cluny. A Sens un concilio dei vescovi di Francia l’ha condannato come eretico ed egli si è appellato al Papa e per questo sta viaggiando verso l’Italia. Mentre sosta nell’Abbazia gli arriva la notizia che il papa Innocenzo II ha ratificato la condanna di Sens, l’ha scomunicato e gli ha imposto l’obbligo di «tacere per sempre». Abelardo rinuncia al viaggio a Roma e muore a Cluny nove mesi più tardi, il 21 aprile 1142, di scabbia o di leucemia, riammesso in extremis nella comunione cattolica. Nei mesi passati a Cluny osserva il silenzio che gli è stato imposto, ma la sua intenzione non è quella del «perpetuo silenzio», perché viene componendo l’ultima sua opera, la più matura e sinfonica, conciliante filosofia e teologia, Grecia, Gerusalemme e Roma: Dialogus inter Philosophum, Judeum et Christianum, ripubblicato ora dal «Corriere» nei «Classici del Pensiero Libero», con il titolo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano e la prefazione di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri. Dialogo immaginario, protagonisti che egli aveva dentro di sé e riusciva a far parlare con pari dignità. Opera incompiuta Abelardo muore che la sta ancora dettando essa è come un battello affidato un giorno al mare aperto e che ancora viene tracciando la sua rotta, nella mente di chi lo legge. «In una visione notturna vidi tre uomini che arrivavano per sentieri diversi»: è l’incipit affabulante del Dialogo. I tre si presentano ad Abelardo e l’informano che dopo aver «discusso a lungo» sulle rispettive fedi hanno deciso di ricorrere al suo «giudizio». Qui dunque il maestro assume un ruolo super partes. Per nulla in dubbio sulla validità della propria dottrina, egli insedia se stesso come arbitro nel conflitto delle fedi e fa dire al filosofo del Dialogo: «Sappiamo che tu conosci bene sia la forza delle argomentazioni filosofiche, sia i fondamenti di entrambe le leggi». Sempre quel filosofo più avanti afferma che a fare di Abelardo un arbitro «in grado di risolvere questa nostra contesa» sono tutti i titoli e la fama conquistati sul campo e c’è per ultima «quella tua mirabile opera di teologia che l’invidia non potè sopportare». Allude al trattato Theologia Christiana, scritto nel 1132-34, dal quale gli avversari avevano tratto le proposizioni per le quali era stato scomunicato. Egli non riconosce valida la condanna. Non solo perché il suo ultimo protettore, l’ecumenico Pietro di Cluny, detto «il Venerabile», gli ha aperto le porte dell’Abbazia e si è adoperato per la cancellazione della scomunica presso il Papa. Non la riconosce valida perché ritiene di non essere stato capito ed è sicuro che sarà riabilitato dai posteri, come infatti è stato. Orgoglioso e a volte temerario, Pietro Abelardo si segnala per una disposizione naturale alla disputa ed è tra i primi a istruire il metodo scolastico del vaglio di ogni opinione in campo prima di dare soluzione a una quaestio disputata (questione discussa). Antesignano in questo di Tommaso d’Aquino e del suo grandioso impegno a fare della teologia una scienza con un pieno statuto metodologico. Anticipatore di Tommaso egli è anche per il rapporto equilibrato che propone tra filosofia e teologia, in dialettica con la tendenza dei teologi mistici guidati da Bernardo di Chiaravalle, che fu il suo avversario. Di che apertura alare fosse capace il raziocinio di Abelardo lo si intuisce dalle pagine in cui mette in bocca all’ebreo nel Dialogo un’appassionata difesa della propria stirpe: «Non si sa di nessun altro popolo che abbia sopportato tante prove in nome di Dio quante noi ne sopportiamo continuamente». Morto Abelardo a Cluny, Pietro il Venerabile ne manda il corpo a Eloisa, che ora è monaca ma che era stata sua allieva, amante e sposa e gli aveva dato un figlio di nome Astrolabio. Per l’audacia di quell’amore, Abelardo era stato evirato da tre sicari inviati dallo zio di lei Fulberto. Morta anche lei due decenni più tardi i due vengono uniti nella stessa tomba, che è anche oggi visibile nel cimitero del Père Lachaise a Parigi.

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L’arbitro Abelardo così affrontò la contesa tra i monoteismi 

di Luigi Accattoli

in “Corriere della Sera” del 2 marzo 2011

All’inizio di luglio del 1141 Pietro Abelardo, in cammino verso Roma, giunge in Borgogna, nella

grande Abbazia di Cluny. A Sens un concilio dei vescovi di Francia l’ha condannato come eretico

ed egli si è appellato al Papa e per questo sta viaggiando verso l’Italia. Mentre sosta nell’Abbazia

gli arriva la notizia che il papa Innocenzo II ha ratificato la condanna di Sens, l’ha scomunicato e gli

ha imposto l’obbligo di «tacere per sempre». Abelardo rinuncia al viaggio a Roma e muore a Cluny

nove mesi più tardi, il 21 aprile 1142, di scabbia o di leucemia, riammesso in extremis nella

comunione cattolica. Nei mesi passati a Cluny osserva il silenzio che gli è stato imposto, ma la sua

intenzione non è quella del «perpetuo silenzio», perché viene componendo l’ultima sua opera, la più

matura e sinfonica, conciliante filosofia e teologia, Grecia, Gerusalemme e Roma: Dialogus inter 

Philosophum, Judeum et Christianum, ripubblicato ora dal «Corriere» nei «Classici del Pensiero

Libero», con il titolo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano e la prefazione di MariateresaFumagalli Beonio Brocchieri. Dialogo immaginario, protagonisti che egli aveva dentro di sé e

riusciva a far parlare con pari dignità. Opera incompiuta Abelardo muore che la sta ancora

dettando essa è come un battello affidato un giorno al mare aperto e che ancora viene tracciando

la sua rotta, nella mente di chi lo legge. «In una visione notturna vidi tre uomini che arrivavano per 

sentieri diversi»: è l’incipit affabulante del Dialogo. I tre si presentano ad Abelardo e l’informano

che dopo aver «discusso a lungo» sulle rispettive fedi hanno deciso di ricorrere al suo «giudizio».

Qui dunque il maestro assume un ruolo super partes. Per nulla in dubbio sulla validità della propria

dottrina, egli insedia se stesso come arbitro nel conflitto delle fedi e fa dire al filosofo del Dialogo:

«Sappiamo che tu conosci bene sia la forza delle argomentazioni filosofiche, sia i fondamenti di

entrambe le leggi». Sempre quel filosofo più avanti afferma che a fare di Abelardo un arbitro «in

grado di risolvere questa nostra contesa» sono tutti i titoli e la fama conquistati sul campo e c’è per ultima «quella tua mirabile opera di teologia che l’invidia non potè sopportare». Allude al trattato

Theologia Christiana, scritto nel 1132-34, dal quale gli avversari avevano tratto le proposizioni per 

le quali era stato scomunicato. Egli non riconosce valida la condanna. Non solo perché il suo ultimo

protettore, l’ecumenico Pietro di Cluny, detto «il Venerabile», gli ha aperto le porte dell’Abbazia e

si è adoperato per la cancellazione della scomunica presso il Papa. Non la riconosce valida perché

ritiene di non essere stato capito ed è sicuro che sarà riabilitato dai posteri, come infatti è stato.

Orgoglioso e a volte temerario, Pietro Abelardo si segnala per una disposizione naturale alla disputa

ed è tra i primi a istruire il metodo scolastico del vaglio di ogni opinione in campo prima di dare

soluzione a una quaestio disputata (questione discussa). Antesignano in questo di Tommaso

d’Aquino e del suo grandioso impegno a fare della teologia una scienza con un pieno statuto

metodologico. Anticipatore di Tommaso egli è anche per il rapporto equilibrato che propone tra

filosofia e teologia, in dialettica con la tendenza dei teologi mistici guidati da Bernardo di

Chiaravalle, che fu il suo avversario. Di che apertura alare fosse capace il raziocinio di Abelardo lo

si intuisce dalle pagine in cui mette in bocca all’ebreo nel Dialogo un’appassionata difesa della

propria stirpe: «Non si sa di nessun altro popolo che abbia sopportato tante prove in nome di Dio

quante noi ne sopportiamo continuamente». Morto Abelardo a Cluny, Pietro il Venerabile ne manda

il corpo a Eloisa, che ora è monaca ma che era stata sua allieva, amante e sposa e gli aveva dato un

figlio di nome Astrolabio. Per l’audacia di quell’amore, Abelardo era stato evirato da tre sicari

inviati dallo zio di lei Fulberto. Morta anche lei due decenni più tardi i due vengono uniti

nella stessa tomba, che è anche oggi visibile nel cimitero del Père Lachaise a Parigi.