L’ANTIFONARIO DI HARTKER - Accademia Corale "Teleion" – … sul Canto... · - distribuì il...

38
L’ANTIFONARIO DI HARTKER: la retorica al servizio dell’esegesi 1. HARTKER, IL COPISTA E IL SUO ANTIFONARIO Nella prima miniatura del suo manoscritto alla pagina 11, Hartker si rappresenta offrendo il suo libro a S. Gallo; la scritta S. Gallus è aggiunta successivamente da una mano che risale probabilmente al XIII secolo, ma Hartkerus reclusus è della stessa mano di Hartker. Quattro versi sono scritti nella cornice della miniatura: Auferat hunc librum nullus hinc omne per evum Cum Gallo partem quisquis habere velit. Istic perdurans liber hic consistat in evum. Praemia patranti sint ut arce poli. 1

Transcript of L’ANTIFONARIO DI HARTKER - Accademia Corale "Teleion" – … sul Canto... · - distribuì il...

L’ANTIFONARIO DI HARTKER:la retorica al servizio dell’esegesi

1. HARTKER, IL COPISTA E IL SUO ANTIFONARIO

Nella prima miniatura del suo manoscritto alla pagina 11, Hartker si rappresentaoffrendo il suo libro a S. Gallo; la scritta S. Gallus è aggiunta successivamente da unamano che risale probabilmente al XIII secolo, ma Hartkerus reclusus è della stessamano di Hartker.Quattro versi sono scritti nella cornice della miniatura:

Auferat hunc librum nullus hinc omne per evum Cum Gallo partem quisquis habere velit. Istic perdurans liber hic consistat in evum. Praemia patranti sint ut arce poli.

1

Essi formulano una maledizione nei confronti di chi sottrarrà il libro e una preghieradi ricompensa celeste per lo scriba. I primi tre versi, con la menzione di S. Gallo eistic perdurans costituiscono un “ex libris” del monastero di San Gallo. L’ultimoallude alla mano divina che, nella miniatura, benedice Hartkerus reclusus: ciòequivale ad una firma. Le fonti sangallesi antiche (gli Annali del monastero di S. Gallo) danno alcuniragguagli sulla persona di Hartker. Vi si apprende che Hartker, monaco e sacerdote,si condannò volontariamente alla reclusione in una cella piccola e bassa occupataprecedentemente dalla monaca Pehrtorade, imponendo a se stesso, data la sua altastatura, di non potersi tenere ritto in piedi. Circa il periodo in cui visse il nostro copista, il manoscritto 915, alla pag. 217, dove sinarrano gli avvenimenti dell’anno 980, riporta due esametri;

Perhterat in claustro defuncta petit loca caelo. Hartker mox antrum postquam se damnat in ipsum.

Nello stesso manoscritto, a pag. 223, per l’anno 1011, un distico ricorda la morte diHartker:

Hartker in melius mutatur, ut opto, reclusus. Dexter in octaba sit bone Xpe tua.

Si apprende inoltre che la cella occupata da Perhterat dal 959 al 980 fu inprecedenza la cella di San Giorgio. Siccome Hartker succede a Perhterat l’annostesso della sua morte (980), conosciamo il luogo della sua reclusione: la cella di SanGiorgio, non lontano dall’abbazia, oggi Sankt Georgen, ancora nella cinta della cittàdi San Gallo. Le fonti sangallesi (il Necrologio del ms. 915) ci informano anche del giorno della suamorte: 21 dicembre del 1011.

L’Antifonale che Hartker trascrisse nella sua cella di recluso è attualmenteconservato nella Stifts-bibliothek di S. Gallo nei due ms. 390 e 391. Esso era formatoall’origine da un solo volume, così come è rappresentato nella miniatura dedicatoriadi pag. 11 del codice.Nel XIII secolo fu diviso in due tomi per distinguere una pars hiemalis e una parsaestiva con lo scopo di renderlo più maneggevole. La separazione non era prevista efu effettuata in modo approssimativo: il confine tra “inverno” ed “estate” è statoposto il più vicino possibile a Pasqua e cade tra il Giovedì e il Venerdì Santo per lasola ragione che questo punto coincide con il passaggio da un quaderno all’altro. Idue tomi sono stati catalogati

2

con la segnatura che conosciamo: 390 e 391. Come protezione, all’inizio e alla finedei due volumi, furono impiegati i fogli di un Tonario, forse già mutilato e in ognicaso considerato allora inutilizzabile. I due codici hanno una altezza di 22,2 cm e una larghezza di 16,7 cm, quindi unformato di piccole dimensioni, quasi certamente ad uso del primicerius per laconsultazione. Le rigature per le 17 linee contenute in ciascuna delle pagine dell’Antifonale con loscopo di allineare il testo sono tracciate con una punta a secco e delimitate dallaparte del dorso e dalla parte del bordo esterno da tre rigature verticali tracciate allostesso modo: queste ultime servivano per delimitare i confini del testo scritto.L’inchiostro usato da Hartker per la scrittura del testo è di un colore bruno scuro; in alcuni punti esso colava così parsimoniosamente dalla penna che le lettere sonoassai sbiadite. Quanto ai neumi, essi sono tracciati notevolmente più chiari del testoe con tratti fini e delicati; ma non c’è alcuna ragione di ritenere che il testo e lanotazione siano dovuti a due diversi scrivani.A parte le aggiunte del XIII secolo e inserzioni che datano tra l’inizio dell’XI secolo e ilXIII secolo da altre mani o mani tardive, nel suo insieme l’Antifonario presenta da uncapo all’altro una scrittura omogenea, Sembra, per la verità, che ci sia una differenzatra l’inizio del manoscritto e la sua fine. Lo scriba all’inizio traccia le lettere conmano spigliata e regolare. Più procede nel suo lavoro, più la scrittura sembraindecisa, con un modulo un po’ più piccolo e meno regolare: Hartker invecchia e lasua mano perde in sicurezza e, soprattutto, si serve probabilmente di inchiostridifferenti, con fluidità diverse, e di differenti penne che non hanno tutte la stessamorbidezza.Insomma non c’è alcuna ragione per non riconoscere ad Hartker la paternitàdell’Antifonario nella sua interezza.

I neumi sono posti sopra il testo letterario dopo che questo è stato copiato. Le dueparti di questo doppio testo, letterario e musicale, corrispondono a due fasisuccessive del lavoro: sui fogli di pergamena già preparati, rigati e disposti inquaderni, lo scriba ha anzitutto trascritto il testo letterario riservando, come alsolito, gli spazi dove più tardi sarebbero stati tracciati con l’inchiostro rosso i titoli ele rubriche. Successivamente il notatore ha aggiunto i neumi servendosi di unapenna molto fine con il becco tagliato. Un indizio evidente permette di affermare che la trascrizione del testo e lanotazione neumatica sono state effettuate in momenti successivi e nonsimultaneamente: nei brani dove la melodia è molto ornata, in particolare neiResponsori prolissi, non c’è generalmente alcun rapporto tra gli spazi riservati neltesto e gli spazi che viceversa esigerebbero i melismi. Lo scriba sapeva che il suotesto avrebbe ricevuto una notazione, ma si preoccupava raramente di lasciare unospazio adeguato (1).

3

2. I CANTI DELL’UFFICIO

L’Antifonario contiene tutti i canti dell’Ufficio Divino, cioè antifone, responsori, versus, invitatori secondo l’ordine del loro impiego liturgico. Questo contributo tratterà in modo particolare il primo gruppo di questi canti: le antifone, che accompagnano il canto dei salmi, i quali rimangono da sempre la parte preponderantedell’Ufficio.

San Benedetto (ca. 480-547) ebbe cura di distribuire in modo equilibrato l’orario dei monaci in lavoro, lectio divina e ufficio corale, attribuendo tuttavia a quest’ultimo, cioè all’opus Dei, la massima importanza. Questo servizio della “gloria” di Dio, che doveva essere eseguito con la dovuta cura e devozione, occupava nella sua Regola un posto di rilievo: ben dieci dei settantatre capitoli sono dedicati all’Ufficio. Esso doveva riempire una parte considerevole della vita del monaco, disporre l’animo alla preghiera comunitaria ed infine arricchire la propria conoscenza, affinché l’ascolto della Scrittura diventasse più proficuo favorendo la preghiera personale.

All’epoca di San Benedetto erano previste due modalità di cantare i salmi: la forma “antifonata” e la forma “responsoriale”. La prima indicava una declamazione alternata fra due cori, paradossalmente senza l’elemento che poi sarà chiamato “antifona”. La forma responsoriale invece presupponeva l’alternanza tra un solista, che cantava il salmo diviso in versetti, e il coro che ripeteva il “ritornello”, preso sempre dallo stesso salmo; è a questo ritornello che verrà dato in seguito il nome di “antifona”: era l’esecuzione più elaborata e solenne e che Benedetto definiva “cum antiphonis”. In taluni casi, a motivo del numero ridotto dei monaci che si trovavano in coro, si adottava un metodo più semplice, il modo in directum, cioè l’esecuzione del salmo da parte di tutti i monaci senza alternanza di cori, oppure con alternanza, ma senza ritornello (sine antiphona in directum). Il metodo sicuramente non in uso a quell’epoca era quello che prevalse nel tardo Medioevo: esecuzione alternata del salmo a due cori, preceduto e concluso dal canto dell’antifona.

Benedetto introdusse alcune novità rispetto all’epoca precedente: - distribuì il Salterio, ossia i 150 salmi, lungo l’arco di una settimana e insistette perché questa misura non venisse mai ridotta.- Mantenne il numero sacro di dodici salmi per la vigilia; volendo dare maggiore risalto alla vigilia domenicale, vi aggiunse tre cantici profetici. - Scelse il salmo 94, come salmo invitatorio delle Vigilie.- Fece un uso molto razionale dell’“alleluia”. Rifacendosi alla tradizione monastica antica, vide nell’alleluia il segno della prossimità imminente dell’ora “resurrezionale”: l’ultimo notturno che prelude all’ora mattutina (che prenderà il nome di Laudes dai salmi “Laudate” 148, 149, 150) è infatti antifonato con l’alleluia durante tutto l’anno). - Infine, frutto della sua personale creatività, fu l’uso del versus, una giaculatoria ripetuta insistentemente alla conclusione di tutte le ore dell’ufficio dei periodi più importanti dell’anno liturgico. Erano le frasi più significative delle antifone salmiche,

1

risuonate nei giorni precedenti, poi riprese e custodite dai monaci come prezioso vademecum del periodo liturgico appena trascorso. Il grande santo aveva percepito l’efficacia spirituale della ruminatio di questi versus i quali, rappresentando la sintesi dei misteri della salvezza che la Liturgia proponeva durante l’anno liturgico, ravvivavano al massimo grado la capacità di contemplazione del senso della festa e ne facilitavano l’assimilazione (H 19).

Le antifone salmiche

E’ dapprima nell’ambito ecclesiastico, e successivamente monastico, che si lavorò alla composizione delle antifone, che diventeranno il più naturale complemento del Salterio come libro di preghiera liturgica. A distanza di secoli, tra i vari sforzi per adattare i salmi all’uso della preghiera corale cristiana, possiamo considerare la salmodia responsoriale, la cui paternità è riconosciuta al grande vescovo milanese Ambrogio, come la scoperta più geniale in questo senso. Dall’analisi del repertorio più antico delle antifone-ritornello risulta evidente che i compilatori posero una grande cura perché il canto dei salmi producesse effetti immediati e profondi nell’animo dei fedeli che partecipavano alla preghiera liturgica. Perciò le antifone salmiche assumono questa loro veste formale di estrema semplicità e concisione, proprio perché dovevano penetrare agevolmente nel cuore dei fedeli per poi riaffiorare spontaneamente alla memoria. Se ne trovano un buon numero alle pagine 90-101 del manoscritto: su una sola riga ne sono scritte addirittura due (H 97).

2

Si tratta di antifone semplici sia dal punto di vista letterario che musicale.

Clamavi, et exaudivit me (Ps 119) : il salmo è inteso come preghiera personale.

Adiutor in tribulationibus (Ps 142) Auxilium meum a Domino (Ps 120) : Dio è presente quando lo invochiamo.

Benedictus Dominus Deus noster (Ps 143)Laudate Dominum de coelis (Ps 148)Magnus dominus et laudabilis nimis (Ps 47)Per singulos dies benedicam te Domine (Ps 144): il salmo è supplica ma anche confessione di lode.

Miserere mei Deus (Ps 50)Cor mundum crea in me Deus (Ps 50)De profundis clamavi ad te domine (Ps 129): riconoscimento del proprio peccato.

Nonne Deo subiecta erit anima mea (Ps 61): sottomissione fiduciosa all’azione di Dio. Come si vede, alcune di queste antifone sono vere e proprie acclamazioni. Occorre immaginare la celebrazione di lode come un canto vivace nel quale la partecipazione del popolo, o grande coro, è continua. Solo così si possono spiegare certe antifone che, dal punto di vista letterario, sarebbero incomplete. Iniziano addirittura con una congiunzione o con una particella causale o finale, che presuppongono la frase precedente:

Et invocabimus nomen tuum domine (Ps 74)Quoniam in aeternum misericordia eius (Ps 135)Quia mirabilia fecit Dominus.(Ps 97)

Queste brevi frasi, staccate dal contesto, ripetute insistentemente, davano al salmo un volto nuovo. Il suo canto diventava un’esperienza concreta di preghiera, dalla quale si ricavava una idea dominante. In questo modo ogni salmo conteneva una miniera di

3

piccole gemme, di piccole frasi di lode o di invocazione che, un giorno l’una e un giorno l’altra, arricchivano il tesoro intimo della preghiera personale dei monaci (2). Sappiamo che la salmodia era per lo più eseguita da un piccolo gruppo di cantori specializzati, mentre la maggioranza dei monaci non faceva che ripetere alternativamente antifone e responsori (brevi risposte del salmo), che imprimevano nel loro animo il senso generale del testo cantato. Per questo le antifone salmiche, analogamente a quello che succedeva per i versus, assunsero una veste formale semplice e incisiva: dovevano essere agevolmente assimilate e quindi ruminate continuamente durante le ore della giornata. Il primato indiscusso della salmodia liturgica non ostacolava anzi favoriva l’esercizio della preghiera privata e alimentava la pietà individuale. Come si può ben vedere, il serbatoio a cui attingere queste preghiere era, almeno alle origini, esclusivamente il libro dei Salmi. Il Salterio era considerato la sintesi lirica di tutta la rivelazione dell’Antico Testamento. In esso, più che in ogni altro libro sacro, si sperimentava la rivelazione, il discorso di Dio all’uomo che si arricchisce progressivamente fino a manifestare un disegno, una salvezza, una presenza, una persona. Era la contemplazione di questo disegno, di questa persona, di questo volto che permetteva l’intelligenza più vera e profonda della Sacra Scrittura. Tutti i temi della rivelazione contenuti nei Salmi, la creazione e l’intervento nella storia d’Israele, la giustizia e la misericordia divine, la paternità di Dio, la religione del cuore, la sofferenza redentrice del Giusto, la sete di purezza e di espiazione, l’attesa messianica e l’universalità della salvezza, confluiscono nel Vangelo e si concentrano nella figura di Cristo. E’ proprio il Salterio che prepara in modo particolare alla comprensione del Cristo, che ne esprime il desiderio e ne contiene la lode. Ecco perché, nella tradizione cultuale cristiana e successivamente monastica, il canto dei Salmi è sempre stato considerato come l’elemento primario e insostituibile della preghiera liturgica e privata. L’utilizzo così intenso dei salmi come nutrimento dello spirito si fondava sul metodo della lectio divina, che rendeva efficace per il monaco la grazia contenuta in ogni parola di Dio, ne svelava i sensi e lo faceva penetrare nel disegno di salvezza che Dio gli aveva preparato. Lectio, meditatio, oratio, contemplatio: i termini variano, ma la realtà indicata è fondamentalmente la stessa; è uno sguardo fisso in Dio, nel quale si raccoglie tutta l’anima e in cui si esaurisce tutta una esistenza. Questo piccolo sondaggio sui contenuti del repertorio delle piccole antifone salmiche ci porta ad una conclusione: innanzitutto sono le più antiche, inoltre sono state concepite per dare al salmo cantato una maggiore vivacità e popolarità, per accentuarne il potenziale pedagogico, in vista di una migliore capacità di preghiera dei fedeli. Purtroppo le antiche antifone salmiche, originariamente distribuite lungo tutto l’arco dell’anno liturgico, vennero poi “accantonate” nel salterio “per annum” dove, anziché ritornelli di una forma responsoriale, divennero formule da recitare solo all’inizio e alla fine del salmo, perdendo così gran parte della loro efficacia.

4

Evoluzione dell’antifona

Abbiamo visto che le antifone erano composte a servizio esclusivo del salmo: la frase del salmo, resa più espressiva dalla melodia che ne accentuava il senso, era destinata a suggerire una interpretazione globale del salmo stesso. In seguito si avvertì la necessità di adattare la preghiera del salmo a una determinata festa, pur rispettando in modo assoluto il testo del salmo. Si trattava di ricavare dai salmi scelti per l’ufficio vigilare festivo alcune frasi particolarmente significative e trasformarle in antifone. L’antifona assumeva una nuova funzione, quella di ambientare la celebrazione di lode con la tematica della festa e del tempo liturgico. La tradizione ci ha tramandato bellissime antifone, tratte dai salmi, composte per le feste di Natale ed Epifania, e anche per gli uffici arcaici di S. Stefano e degli Apostoli Pietro e Paolo.

Tamquam sponsus Dominus procedens de thalamo suo (Ps 18).Reges Tharsis et insulae munera offerent Regi Domino (Ps 71).Domine libera animam meam a labiis iniquis et a lingua dolosa (Ps 119).Constitues eos principes super omnem terram; memores erunt nominis tui Domine (Ps 44).

Particolare attenzione viene posta nella composizione di antifone che descrivono la passione del Signore, nell’ufficio del Venerdì Santo:

Astiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius (Ps 2).

Non solo: le parole di alcune antifone, una volta estratte dal salmo, diventano parole di Cristo.

Diviserunt sibi vestimenta mea, et super vestem meam miserunt sortem (Ps 21).Caro mea requiescet in spe (Ps 15).

Questo metodo rende esplicita una verità che i Padri della Chiesa avevano proclamato con insistenza: Cristo, mediatore prescelto tra Dio e gli uomini, è il vero protagonista del Salterio; per questo, quando la Chiesa esprime la sua preghiera servendosi dei salmi, Cristo prega con la Chiesa e nella Chiesa. Non è casuale che, tra i testi biblici che hanno sostituito le antifone del periodo arcaico, ci siano in primo luogo i Vangeli, e che dai Vangeli siano state scelte precisamente frasi o sentenze pronunciate dal Signore:

Hoc est praeceptum meum, ut diligatis invicem sicut dilexi vos (Io 15,12).In patientia vestra possidebitis animas vestras (Lc 21,19).Qui mihi ministrat, me sequatur ; et ubi ego sum, illic sit et minister meus (Io 12,26).Serve bone et fidelis, intra in gaudium Domini tui (Mt 25,23).

5

A queste si aggiungeranno in seguito le antifone descrittive del tipo:

Et ecce terremotus factus est magnus; Angelus enim Domini descendit de coelo, alleluia (Mt 28,2).

In tal modo l’antifona si allontana dal testo e dal senso del salmo, diventando un prodotto artistico in sé ma svuotato della sua primitiva funzione liturgica. Non ha più senso accompagnare un salmo con testi come:

Puellae saltanti imperavit mater: Nihil aliud petas, nisi caput Iohannis.

Per fortuna, accanto a queste “stonature”, vi è tutta una produzione di antifone, per esempio le antifone minori del tempo di Avvento, che costituiscono un vero tesoro di frasi bibliche ottimamente scelte e perfettamente adatte alla loro funzione:

Ecce veniet Dominus et omnes sancti eius cum eo; et erit in die illa lux magna, alleluia (Zach 14).

Se passiamo poi dalle antifone minori, quelle per accompagnare i salmi, alle antifone « maggiori », destinate ad accompagnare il Benedictus e il Magnificat, la qualità del testo cresce notevolmente, contribuendo in modo decisivo a migliorare il carattere teologico dell’anno liturgico. Per gli ultimi giorni di Avvento si crea un complesso particolare di antifone del Magnificat, le cosiddette antifone “O”, le quali, secondo l’abate Guéranger, “contenevano il midollo della liturgia dell’Avvento”:

O sapientia, quae ex ore Altissimi prodisti, attingens a fine usque ad finem, fortiter suaviter disponensque omnia: veni ad docendum nos viam prudentiae (AM 208).

L’analisi morfologica di queste antifone, benché costruite su un modulo formulare, mette in evidenza lo stretto legame del testo con la melodia. Basti pensare alla formula neumatica più ampia e complessa che tocca anche il vertice melodico: essa è utilizzata per sottolineare le parole più significative del brano: fortiter, apparuisti, sol iustitiae, lapis angularis, exspectatio gentium…

Il richiamo all’attesa e al godimento spirituale del “giorno” della festa in quanto tale pervade sia le antifone che i responsori di Natale per influsso di uno dei sermoni più noti di San Leone Magno:

Hodie Christus natus est; hodie salvator apparuit, hodie in terra canunt angeli, laetantur arcangeli, hodie exsultant iusti dicentes: Gloria in excelsis Deo, alleluia.

Hodie natus est nobis rex regum dominus ; hodie venit nobis salus mundi, redemptio nostra, alleluia.

6

1° Resp. Matutino di Natale: Hodie nobis coelorum rex de virgine nasci dignatus est.2° Resp. Matutino di Natale: Hodie nobis de coelo pax vera descendit ; hodie per totum mundum melliflui facti sunt caeli. Hodie illuxit nobis dies redemptionis novae, reparationis antiquae, felicitatis aeternae.

Con il richiamo insistente all’ “hodie” e l’inclusione di frasi tratte letteralmente dai sermoni di San Leone, gli stessi responsori insegnano che, grazie alla sacramentalità della celebrazione, l’evento salvifico si rende presente alla Chiesa “oggi”. Per la festa dell’Epifania, al desiderio dell’ “hodie”, si aggiunge uno sforzo di sintesi per contemplare le tre scene evangeliche in una sola e presente “manifestazione del Signore”:

Hodie celesti sponso iuncta est Ecclesia, quondam in Iordane lavit Christus eius crimina; currunt cum muneribus Magi ad regales nuptias, et ex aqua facto vino laetantur convivae, alleluia.

Per i vespri del sabato del tempo per annum, furono composte delle antifone maggiori su testo biblico che si legge durante le vigilie della settimana. Tra queste antifone ci sono dei veri gioielli:

Pater fidei nostrae Abraham summus obtulit holocaustum super altare pro filio.Omnis sapientia a Domino Deo est, et cum illo fuit semper, et est ante aevum.Sapientia clamitat in plateis. Si quis diligit sapientiam, ad me declinet, et eam inveniet; et cum invenirit, beatus erit si tenuerit eam.

Ho cercato di dimostrare con questi esempi che l’antifona, in mano a musicisti esperti, diventava un “canto” sempre più indipendente dal salmo che le aveva dato la sua ragion d’essere. Le antiche antifone salmiche sussistevano nell’ufficio feriale e domenicale per annum, ma accanto ad esse sorgevano altre forme di antifone, che davano occasione ai musicisti di esprimere le loro capacità di invenzione e creatività (3).

7

3. LA NOTAZIONE SANGALLESE

Se riconosciamo il canto gregoriano come una forma di linguaggio, dobbiamo dedurre che anch’esso abbia obbedito alle leggi dell’evoluzione dei vari linguaggi sviluppatisi nel corso della storia. Qualsiasi sistema strutturato di notazione o scrittura è stato sempre preceduto da una fase cosiddetta “orale” di trasmissione delleinformazioni o dei miti. Pensiamo ai poemi della letteratura greca o ai testi dalla Sacra Scrittura: la “fase redazionale” fu la conclusione logica di una precedente fase di “trasmissione orale”. La stessa cosa si verificò per il canto gregoriano: per un lungo periodo antecedente la comparsa della notazione, le melodie liturgiche furono tramandate oralmente da maestro a discepolo. S. Isidoro di Siviglia (morto nel 633), contemporaneo di Papa Gregorio Magno, riferiva: ”se i suoni non sono trattenuti a memoria si perdono, poiché non possono essere scritti”. Quindi anche il canto gregoriano, che non costituiva soltanto un repertorio di melodie ma conteneva la Parola rivelata, subì la stessa sorte degli antichi testi sacri che bisognava trattenere nel cuore: “a memoria” i profeti trasmisero le parole di Dio a Israele, “a memoria” gli apostoli tramandarono gli insegnamenti di Gesù alle prime comunità, Maria custodiva tutto “a memoria” nel suo cuore (la lingua italiana ha conservato in “ricordo” la radice semantica della parola “cuore”), “a memoria” i primi Padri “ruminavano” i sacri testi e ne scrutavano i sensi. La memoria, che costituiva una parte fondamentale della retorica antica e quindi era strumento indispensabile per esporre il discorso, affidava al cuore tutto il positivo del conoscere e del sentire umano. La Bibbia era conosciuta a memoria non per il gusto di un esercizio intellettuale ma per gli insegnamenti che proponeva, anzi era considerata l’unico insegnamento possibile per la vita quotidiana. La memoria ha nella Sacra Scrittura una valenza affettiva, il motivo per cui chi ama il Cristo conoscela Bibbia.

Notazione oratoria.

Nei primi decenni del secolo X compare, quasi per incanto, la scrittura neumatica, cioè un sistema di grafia costituito da segni in “campo aperto”, senza nessun riferimento lineare, che si sovrappone al testo riportato nei primi manoscritti liturgici.Numerose sono le famiglie di notazione musicale che compaiono in Europa in quel periodo: noi faremo riferimento in modo particolare alla notazione sangallese, perché questa grafia il nostro amanuense conosce. Una notazione particolarmente raffinata, elegante, ricca di aggiunte e lettere significative, assai espressiva e ancor priva di linee di riferimento per la determinazione degli intervalli, sicuramente scritta da un copista sapiente, autorevole, cantore egli stesso, che “vive ciò che scrive”. Il canto gregoriano, lo ripeto, è tradizione orale, frutto del “ricordo”, della memoria del cuore. Ebbene, in questo codice si riesce a scorgere distintamente il passaggio dalla memoria alla scrittura, dal ricordo al segno, frutto di una grande familiarità con il repertorio e di una pratica costante e quotidiana della ruminatio del testo sacro.

1

Ma, come nasce la notazione sangallese? Riassumo brevemente ciò che è stato scritto sulla questione (4). Già gli antichi retori e grammatici latini (Cicerone, Quintiliano, Varrone) sostenevano che nel linguaggio, nella declamazione di un discorso si ritrova una incipiente melodia, che è il risultato dell’accentuazione propria delle parole latine, dovuta all’alternanza di sillabe dotate di accento acuto e sillabe dotate di accento grave (Cicerone: “Est autem in dicendo etiam quidem cantus obscurior”). Questi accenti acuti o gravi costituiscono nel linguaggio una vera e propria modulazione melodica: è così stretta la relazione tra accenti e melodia che la stessa parola “accento” deriva da “ad cantus” (la parola, a causa dell’accento, è orientata al canto). Non c’è da stupirsi quindi se, nella trascrizione di questo linguaggio modulato, cioè nel tentativo di riportare sulla pergamena tali modulazioni della voce, noi riconosciamo negli accenti grammaticali (accento acuto e accento grave) i segni primitivi e naturali di una notazione oratoria. Allora la virga ( / ) è l’immagine o il segno dell’elevazione della voce, e il tractulus ( - ) è la figura dell’abbassamento della voce (per il movimento naturale della mano del calligrafo, gli accenti gravi si sono tramutati in tanti trattini orizzontali). Questo processo è stato favorito dal fatto che la versione latina della Bibbia (la Vulgata di San Girolamo), da cui sono presi i testi dell’Antifonale, furono scritti in una prosa libera, sganciata cioè da ogni forma metrica quantitativa. In questi testi, quindi, si rinforzò il valore intensivo, non di durata, dell’accento melodico segnando in modo nuovo anche il ritmo della cadenza degli accenti riguardante la caduta o la distensione delle sillabe post-toniche. I brani dell’Antifonale non dovevano appagare l’orecchio metrico dei letterati, ma l’orecchio ritmico del popolo, che acquisiva dalla semplice e naturale accentuazione del testo una garanzia di intelligibilità a servizio della preghiera.

Non solo: questi accenti grammaticali, che hanno dato origine alla notazione sangallese, non sono segni prestati dalla grammatica alla musica e adattati per convenzione alla melodia verbale, ma figure originate naturalmente dal gesto oratorioe tracciate a sua immagine. Il termine actio, che è l’ultima delle cinque parti che compongono la retorica antica dopo l’inventio, la dispositio, la elocutio e la memoria,e che rappresenta l’esposizione del discorso, oltre alla qualità della voce comprende ilgesto, l’atteggiamento, lo sguardo dell’oratore. In altre parole, nell’atto del discorso la voce è connessa strettamente al gesto dell’oratore, la mano e la voce obbediscono simultaneamente agli stessi movimenti dell’animo di chi parla. Quindi gli accenti, segni della notazione oratoria, assumono lo stesso significato dei gesti: la virga e il tractulus rappresentano la mano dell’oratore che lascia sulla pergamena la traccia deisuoi movimenti ascendenti e discendenti. La sola differenza è che gli accenti o i neumi sono ridotti nella notazione oratoria alle proporzioni che la scrittura esige.Per questo si parla, oltre che di notazione oratoria, anche di notazione chironomica.

2

Questi due segni elementari, la virga e il tractulus, servivano per fissare sulla pergamena melodie semplici, di tipo sillabico, melodie che si richiamavano alla salmodia dell’Ufficio o ai recitativi liturgici, ma che, rispetto a questi, si sganciavano da una rigida corda di recita per muoversi assecondando la naturale accentuazione della parola. Ma quando le cantilene aumentarono di numero, quando l’elemento musicale, penetrando sempre più all’interno delle parole, decorò le sillabe di gruppi di note, di lunghi melismi o prolungate ripercussioni vennero utilizzati altri segni che costituirono un sistema completo di semiografia musicale. Tuttavia, nonostante il suo grado di perfezione raggiunto in brevissimo tempo, tale notazione rimase sempre “oratoria”, ossia rappresentava gli accenti grammaticali delle parole in modo indeterminato quanto alla definizione degli intervalli: la memoria suppliva agevolmente alla mancanza di precisione melodica dei segni.

Nelle antifone trascritte qui sopra, contenute nell’Antiphonale Monasticum (AM), è molto chiara la struttura della melopea gregoriana: è una melodia naturale, semplice, embrionale, tipica della parola latina, naturalmente dotata di accento melodico. All’interno della parola (miserere, salutare) vi sono due sillabe interessate dal movimento prodotto dall’accento: la sillaba accentata che si eleva in genere verso la sommità melodica, sede di tensione, slancio ritmico, intensità, e la sillaba finale dove la melodia degrada su una corda più grave, sede di distensione e riposo ritmico. Questi due poli coinvolgono anche le altre sillabe: le sillabe pretoniche in cammino verso l’accento e le sillabe post-toniche nella transizione verso la finale.

Questa filiazione dei neumi dagli accenti grammaticali è solo il primo passo per capire l’origine e il significato della notazione neumatica. A questo punto ho svelato soltanto una parte del mistero e nemmeno la più interessante. Quanto è stato detto finora è sufficiente per un primo approccio ad una buona declamazione, nella quale siricerca una corretta pronuncia, il rispetto di una esatta accentuazione,

3

l’indeterminatezza del valore sillabico e una prima indicazione di orientamento del ritmo verbale suggerito dalla virga e dal tractulus. La virga, oltre ad essere il segno dell’elevazione della voce, è anche il segno della tensione che anima la parola latina ela spinge naturalmente verso il suo apice accentuativo; il tractulus, di contro, oltre a rappresentare l’abbassamento della voce segnala il momento della distensione del ritmo verbale, il punto in cui si spegne la forza ritmica della parola. E’ possibile dunque affermare che il ritmo è già all’interno della melodia, è quasi modellato dal procedimento melodico anche se, nel fluire costante del movimento ritmico, non possiamo attribuire, ad esempio, al tractulus di Miserere un benché minimo accenno di articolazione se non è chiaramente espresso dal notatore, come si dirà in seguito.

4

4. LA RETORICA AL SERVIZIO DELL’ESEGESI

Le domande che ci si pongono a questo punto sono: - c’era bisogno di scomodare grammatici, retori antichi per produrre una notazione,un sistema di scrittura che ci dà semplicemente una informazione melodica, pergiunta indeterminata, non esatta della posizione dei suoni, e un generico orientamentodel ritmo verbale tutto da scoprire? La virga e il tractulus non ci dicono “quantoacuto” o “quanto grave” sono i suoni da essi rappresentati né possono definirsidavvero gli elementi ordinatori del ritmo verbale, essendo ritmicamente “neutri”.- E ancora: c’era proprio bisogno di richiamare alla memoria dei monaci questesemplici melodie dell’Ufficio? Le conoscevano perfettamente: la tradizione orale,come è noto, ha preceduto di parecchi decenni la scrittura e i monaci si esercitavanoquotidianamente alla memorizzazione del repertorio per ben dieci anni prima di farparte dell’organico del coro. Non solo, ma conoscevano a memoria pure il testo: in“Beatam me dicent” l’amanuense tralascia di scrivere per intero il testo della partefinale dell’antifona ben sapendo che i suoi confratelli avrebbero cantato senzadifficoltà …quia ancillam humilem respexit deus” (H 30).

Ritorna la domanda di prima, riformulata in modo più chiaro: perché dunque ilmonaco Hartker, dall’anno 980 all’anno 1011, data della sua morte, si sottopose ad un impegno così gravoso e prolungato nel tempo, quale quello di scrivere e notare ilsuo Antifonario, dal momento che musica e testo erano perfettamente noti ai cantori?

Allora diventa verosimile l’ipotesi che il lavoro di Hartker (tracciare i neumi sopra il testo) sia stato concepito per ragioni non esclusivamente musicali. Alcuni dei primissimi antifonari, quelli che contenevano solo i testi dei canti senzala notazione musicale, avevano le stesse caratteristiche fisiche degli Evangeliari.Erano codici “purpurei”, codici “aurei”, codici di pergamena imbevuta di porpora escritti con inchiostro d’oro. Porpora e oro erano simboli dell’imperatore, della“summa potestas”. Con il declino dell’impero, i cristiani scelsero di riferirli a Cristo,il loro Re; perciò con porpora e oro si scrivevano gli Evangeliari, che contenevano laParola di Dio, cioè Cristo, e con porpora e oro si scrivono i primissimi antifonari.Sarebbe stato disdicevole applicare questo trattamento così prezioso eparticolarissimo a un semplice libro di melodie. Se il canto gregoriano, nella suaduplice veste di repertorio di canti della Messa e dell’Ufficio, altro non è cheproclamazione entusiasta di una fede unitaria, allora la scrittura di un codice, diquesto codice che quel canto contiene, rappresenta ben più di una semplice raccoltadi formule melodiche.

1

Ecco dunque la risposta: i neumi non trasmettono musica, ma sono il frutto di unaincessante “ ruminatio ” della Parola di Dio, sono i segni della “ lectio divina ”,attraverso i quali si rende visibile e udibile l’amplificazione sonora di un testo sacro.Quei segni rivestono un grande valore simbolico per i monaci, sono “cibodell’anima”. Gli occhi scorgono, ma è l’orecchio che raccoglie e trattiene ciò che labocca rumina incessantemente. Il vero organo di questa lettura non è l’occhio mal’udito. Grazie ad esso si interiorizzano parole che dalla bocca, dall’orecchio,dall’anima sono a lungo “rimasticate” proprio come cibo. Ecco perché i monacichiamano “ruminatio” l’atto decisivo della lettura. Essa non da’ accesso al “sapere”,ma ricerca il “sapore”, è meditazione spirituale contemplativa, o è preghiera o non ènulla, e si conclude con la “compunctio cordis”, cioè con le lacrime. San Girolamo, a proposito della lettura della Sacra Scrittura, dice che “compito del monaco non èleggere ma piangere”.

Il formato ridotto del manoscritto dimostra che colui che annotò i canti dell’Ufficio,il monaco Hartker, considerava quest’opera come qualcosa che lo riguardavapersonalmente e della quale egli stesso si riteneva responsabile in quanto destinatarioe insieme annunciatore della tradizione esegetica dei Padri. Si trattava del primomanoscritto dedicato ai canti dell’Ufficio, quindi molto vicino ad una tradizione oraleormai consolidata ma priva di un archetipo di riferimento a cui l’autore potesseattingere. Tutti gli amanuensi tenevano sul proprio tavolo l’originale e la copia su cuilavoravano: Hartker aveva soltanto il suo codice, nel quale trasferire testo e musica,richiamati unicamente dal serbatoio della sua memoria. In questa veste Hartker avrà chiesto allo Spirito il dono della fedeltà a quellatradizione non tanto nella trascrizione dei segni convenzionali della notazione quantonell’utilizzo delle aggiunte personali. L’autore del nostro codice non poteva attribuirea se stesso l’invenzione della notazione manoscritta sangallese: essa era giàperfettamente sviluppata a quel tempo (il Cantatorium 359 di San Gallo risale aiprimi decenni del X secolo e il codice di Einsiedeln 121 precede quello di Hartker dialcuni anni). L’unica iniziativa che un amanuense poteva attuare all’interno delsistema di notazione sangallese, da tempo fissato per il numero di suoni e la lorodirezione, era rappresentata dall’uso di lettere aggiuntive, dall’aggiunta di episemialla virga o al tractulus e dall’utilizzo di segni liquescenti. A questa possibilità ricorre il monaco Hartker, il quale, oltrepassando il datomelodico, si serve dei segni aggiuntivi là dove sono necessari a dare ordine e senso altesto sacro. Il codice sarà esaminato alla ricerca di quei passi nei quali si possonoriscontrare le preziose aggiunte personali dell’autore. Gli esempi riportati nel corsodel lavoro hanno lo scopo di chiarire il significato formale e retorico di tali segni, edi indicare alcune possibili tracce esegetiche nel solco della tradizione dei Padri.

2

Ecco i segni aggiuntivi più frequentemente impiegati:

Ma allora anche la nozione di neuma deve essere riformulata, ampliata e chiarita seper neuma intendiamo un insieme di segni, e non il semplice accento grammaticale,che doveva svelare il senso profondo del testo. Se prendiamo un frammento di unapagina qualsiasi dell’antifonario, noi ci accorgiamo che i neumi fondamentali dellanotazione sangallese (virga e tractulus, i neumi-accenti) sono contornati da lettere,segni aggiuntivi o arricciamenti del tratto grafico (liquescenza), che costituiscono untutt’uno con i neumi-base a cui si uniscono per precisarne il significato (H 30).

Questi segni aggiuntivi, impiegati in un contesto di tradizione manoscritta ormaiconsolidata da almeno un secolo in area sangallese, non sono elementi accessori,come può sembrare a prima vista, ma sono la parte sostanziale della notazione e nedeterminano l’importanza e il valore.

Alla luce di tali segni il canto gregoriano non è più una generica declamazione, madiventa una declamazione “ordinata” del testo, una declamazione che è in grado didefinire in modo sicuro il ritmo verbale, individuare le mete accentuative dellesingole parole o di entità verbali più ampie (accento verbale e fraseologico), metterein evidenza le parole-chiave che danno senso e significato ai vari incisi, orientando latensione dell’intera frase verso il suo nucleo espressivo.

Prendiamo ad esempio il salmo 129 e proviamo a cantare il primo versetto secondoun modulo salmodico tra quelli previsti dall’octoechos. Nella salmodia vienerealizzato il primo approccio di declamazione nel pieno rispetto del ritmo sillabicoche è la base del ritmo verbale, indeterminato, essenzialmente libero e flessibile,come il ritmo del discorso.

3

Nella salmodia tutto è molto semplice: la declamazione prevede soltanto una pausa ametà del versetto, in corrispondenza dell’asterisco, che divide appunto ogni versettosalmodico in due stichi: in tale declamazione ogni parola è scandita secondo ilproprio ritmo verbale nella piena osservanza della struttura della parola e del proprioarco sonoro in un gioco di tensione e distensione. Questo non è ancora cantogregoriano: è semplice declamazione subordinata al ritmo verbale. Così come non ècanto gregoriano leggere soltanto il testo enfatizzandolo dalla prima parola all’ultima:non si fa retorica in questo modo, si alza semplicemente la voce. Quando si passa dalla salmodia al repertorio notato (antifone e responsori) ladimensione retorica suggerisce ciò che è necessario fare di quel testo, come ordinarloin distinte unità verbali, su quali parole fermare il flusso della declamazione, su qualecorda e con quale intensità proclamare quell’inciso. Tutto ciò si realizza attraverso lamediazione di una notazione non più neutrale, ma “personalizzata”, arricchita cioè disegni aggiuntivi che definiscono di volta in volta il valore agogico delle singole sillabenello specifico contesto, conferendo alle parole un ordine e una direzione del ritmocreata e condizionata dal loro senso, dal loro significato. La retorica non è tutto, ma è strumento indispensabile per accedere ad una dimensionepiù alta, quella esegetica.

I segni aggiuntivi, quindi, sanno cogliere il senso pieno e profondo del testo,orientando l’attenzione del monaco cantore verso le parole centrali di ciascun brano. E’ il caso di “de profundis”, contrassegnato da una grande segno liquescente sullasillaba tonica al posto della semplice virga: nel solco della tradizione generazioni dimonaci, attraverso la ruminatio del testo, hanno ritenuto de profundis la parola centraledella frase. Infatti i Padri della Chiesa, nel commentare questo versetto, concordementepresentano la figura di Giona, il quale gridò dalle profondità degli abissi, ma né i fluttiné il grande corpo della balena poterono arrestare la sua preghiera. Giona è la figura diCristo, che, inghiottito dalla morte, dagli inferi è venuto per riscattarci dal peccato edonarci la speranza della redenzione (5). E’ importante infine che la dimensione verbale e quella retorica siano completatedalla dimensione musicale: è un testo che deve essere cantato. La notazione esigeper sua natura il canto, anzi solo attraverso il canto si raggiunge la pienezza disignificato e si manifesta la sua carica profetica. Il fine ultimo della notazione non è la comprensione del testo nel suo aspetto esegetico, ma il suo farsi continuamente“suono” in quella forma e in quel momento nella Liturgia.

4

Funzione dei segni aggiuntivi (6) Nell’antifonario di Hartker il testo delle antifone non presentava alcun segno di punteggiatura ed era scritto tutto di seguito senza segni di interpunzione. Era necessario quindi, in primo luogo, chiarire i dati formali di un testo, definire lastruttura grammaticale e logica di un periodo; ed ecco che queste aggiunte o episemiavevano la funzione ritmica di segnalare un momento di articolazione della frase,suddividendola in tanti piccoli incisi o segmenti per rendere il testo perfettamentecomprensibile (gli episemi avevano la stessa funzione delle attuali virgole oggi inuso). Gli antichi non si preoccupavano solo di ristabilire l’esatta lezione dei testi,emendandoli da interpolazioni, errori o aggiunte ma anche di corredarli della giustapunteggiatura. Il valore di un codice antico era determinato dal fatto che fosse uncodice emendato e distinto (le distinctiones erano i segni della punteggiatura) (7). In questa prima fase, nella quale il notatore cerca di riordinare il testo dal punto divista logico-formale, l’episema o la lettera aggiuntiva ha anche lo scopo di dividerel’antifona in due parti ben distinte quasi fossero due stichi di un versetto salmodico.

“Dabo in sion salutem x et in hierusalem gloriam meam alleluia“.

“Darò in Sion la salvezza ; e in Gerusalemme la mia gloria alleluia”.

La lettera x (exspectate) corrisponde al nostro segno di punteggiatura (;) e rimandaal gesto retorico fondamentale dell’oratore, il quale, isolando fra un movimento el’altro della mano segmenti di testo, scandisce con gli appoggi della voce unitàsintattiche di senso compiuto. Nello stesso tempo si palesa quell’elementofondamentale e caratteristico della poetica ebraica che è il parallelismo, il qualeconsiste essenzialmente nella ripetizione di un concetto con termini analoghi,antitetici o di sviluppo. La prima forma è la più comune ed è quella rappresentatadalla nostra antifona: si ripete con parole diverse il medesimo concetto, ma perché ciòappaia chiaro anche nella forma poetica è necessario, secondo Hartker, operare unaevidente distinzione delle due entità verbali: ecco la funzione della x. Tale modalità di espressione diventa uno strumento retorico particolarmente adatto afavorire la persuasione: il parallelismo, come il chiasmo o l’allitterazione, secondoAgostino, presentano una verità da far entrare nel profondo dell’animo.

5

Un altro esempio di parallelismo testuale e melodico è Dextera Domini . In questo caso rileviamo sì una forma di parallelismo tipico della poetica ebraica,ma anche una simmetria compositiva, elemento pure importante della retorica latina:i retori hanno insistito molto sulla simmetria compositiva, cioè sulla capacità diaccostare le parole del testo in modo da formare un ritmo regolare e simmetrico chedistendeva lo spirito del lettore e lo convinceva della bontà del contenuto. Così unelemento formale, legato all’armonia delle parole, portava ad avvertire l’armoniadello spirito; in sostanza, visto che la retorica era l’arte della persuasione, questanasceva e prendeva corpo dall’ordine spirituale impresso dalle parole (e dallamelodia: compositio è un termine rimasto nel linguaggio musicale). Questa armoniacompositiva viene ulteriormente rafforzata dall’aggiunta dell’episema su entrambe leparole dextera, poiché, secondo la credenza ebraica, proprio la mano destra è la sededella forza, la mano che sola guida a salvezza. Secondo la tradizione patristica è Cristo la destra del Signore : il genitivo “Domini”non è elemento secondario, ma merita un segno di punteggiatura (episema su sillabafinale). La cesura così prodotta richiede che tutta la parola dextera sia declamata concalma. Essa è icona del Cristo, che opera meraviglie (fecit virtutem) e porta aresurrezione (il versetto 17 recita: non moriar, sed vivam). La melodia del primostico, invece di piegarsi al grave sulla sillaba virtutem, rimane sullo stesso grado,mantenendo la tensione necessaria per la ripresa di dextera, ripetizione indispensabileaffinché non sia vanificato lo schema della simmetria compositiva. Un’ultima osservazione che dimostra la finezza del notatore sangallese. Laliquescenza su exsaltavit me trattiene la declamazione su sillaba finale per rendere piùudibile il monosillabo me evitando che sia risucchiato in un’unica parola dall’accentodel verbo che lo precede nella forma di uno pseudoparossitono.

La compositio verborum degli antichi, che, come si è detto, aveva lo scopo dicolpire in modo efficace l’attenzione o la memoria dell’ascoltatore, è statasoppiantata dall’analisi logica della scuola moderna, che ha perduto così il senso delritmo che scaturiva dalla intelligente e armoniosa disposizione delle parole del testo.Oggi, gli specialisti riescono a cogliere questa elegante combinazione ritmica di

6

parole nelle clausole finali. Ma queste sono soltanto un elemento dell’armoniosità delperiodo degli antichi compilatori. La numerositas, cioè il ritmo che scaturiva da unsapiente accostamento delle parole con la conseguente modulazione della voce,abbracciava tutte le parti della frase ed era percepibile dall’orecchio di chi leggevacome dall’orecchio di chi ascoltava. Oggi noi leggiamo mentalmente secondo modulilogici; gli antichi, invece, leggevano secondo un ritmo che accompagnava l’ordinestesso delle parole, ordine pensato per persuadere della bontà del messaggiocontenuto nel testo. Talvolta anche i segni di interpunzione adottati dall’Edizione critica Vaticana (i quattro tipi di stanghette verticali) sono l’espressione del nostro schema mentale di lettura e non riproducono le distinctiones degli antichi amanuensi.

La Vaticana pone il quarto di stanghetta secondo gli schemi logici moderni dopo ilsoggetto gratia, legandolo al proprio predicato verbale diffusa est. Hartker, invece,anticipa la cesura sulla copula est (episema e lettera x), operando una distinzione nonsu base logico-grammaticale, ma per ragioni esegetiche, mantenendo compiuto edintegro l’inciso verbale gratia in labiis tuis, poiché questa è l’immagine che siamoinvitati a contemplare: la grazia del Padre effusa sulle labbra del Figlio. L’episemasu est si propone come modello dell’episema su propterea, parola ricalcata due gradipiù al grave sulla stessa cellula melodica di diffusa est. I due episemi, similmente ainostri due punti, interrompono l’arco di frase, definito da una notazione cheesigerebbe continuità, per il motivo che Hartker intende sottolineare i due incisiseguenti: nella prima semifrase gratia in labiis tuis e nella seconda benedixit te. Ledue immagini si sovrappongono secondo uno schema simmetrico molto raffinato: labellezza e la grazia del Figlio sono “segno” dell’elezione del Padre, della suabenedizione. E’ una benedizione regale e sacerdotale quella di cui si parlanell’antifona come conferma un versetto dello stesso salmo: Dilexisti iustitiam etodisti iniquitatem; propterea unxit te Deus Deus tuus oleo laetitiae (Ps 44,8).

7

Una seconda funzione rappresentata dall’episema, cioè dai segni aggiuntivi odall’uso della grafia liquescente, è quella di segnalare un forte accento verbale ingenere collocato sulla sillaba tonica della parola interessata. Il frammento del codiceriportato a pag. 3 del presente capitolo ci offre qualche esempio: Tu es, ad lumen,pauperes. Osservo soltanto che il medesimo segno su lumen e resurgunt assumerispettivamente un diverso significato: l’episema in corrispondenza di una sillaba deltesto poteva significare o la opportunità di ordinare grammaticalmente il periodo(resurgunt) oppure la segnalazione di un particolarissimo significato testuale (lumen, pauperes).

L’esempio riportato qui sopra, oltre che segnalare con tutta evidenza il forte accentodi Aquam, ci offre lo spunto per rivelare un altro aspetto della sapienza compositivadi questi maestri cantori. Anche qui la compositio verborum, volta a ricercare unparticolare ordine delle parole, è determinante per il raggiungimento del fine ultimodell’arte retorica: la persuasione. Il testo letterale di Giovanni, più lungo e articolato,recita: Qui autem biberit ex aqua quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum. Il testo della nostra antifona è costruito ad arte secondo la tecnica dellacentonizzazione: quindi è più breve per incidere maggiormente nello spirito di chiascolta (la brevitas di Agostino è un principio interiore che vuole la lettura speditasenza le remore che ritardano la presa immediata; questo principio continua la stradaincominciata dalla narratio evangelica, dove ogni parola e addirittura ogni numerorimanda a un significato simbolico preciso). Inoltre, mediante un anacoluto, la frase ècostruita senza i nessi sintattici tipici del periodare moderno. Proprio per questorisulta estremamente efficace. In questo testo l’attenzione doveva essere concentratada subito sulla parola più importante: aquam, sulla quale il nostro Hartker, attraversoun gesto retorico di grande energia (episema su sillaba tonica), concentra un’enfasi diparticolare intensità. I due “celeriter” che seguono sembrano accrescere la forzaespressiva di tale accento che, dirigendosi sul pes corsivo di ego si placa nella formadattilica di dedero in una progressiva diminuzione di energia.

8

Per quale motivo il nostro amanuense ci invita a riflettere su aquam? Sappiamo che acqua è sinonimo di purificazione, è elemento che disseta, masoprattutto è simbolo dello Spirito Santo, è la grazia della Spirito Santo, anzi inquesto caso è uno dei nomi “propri” dello Spirito. Giovanni, in un altro passo del suovangelo, dice: “Amen, amen dico vobis nisi quis renatus fuerit ex aqua et SpirituSancto, non potest introire in regnum Dei” (Gv 3,5). Nelle antichissime catechesi diGerusalemmme si dice che “l’acqua è il costitutivo di tutte le cose e genera la vita.Unica nell’aspetto, essa ha una molteplice virtù operativa. Così anche lo SpiritoSanto: pur essendo uno solo, con un unico e indivisibile aspetto, tuttavia conferisce a ciascuno la grazia secondo come spira”.

Ma nell’esempio ritroviamo, come accennavo poc’anzi, un altro elemento decisivoche deriva dall’arte retorica antica. Il tono della voce insieme con la scelta del gradomelodico (il più acuto nella nostra antifona) conferiva massimo supportoall’eloquenza; era un modo decisivo per scuotere potentemente gli animi e indurrealla persuasione. Gli antichi davano grande importanza agli effetti che lamodulazione della voce provocava nell’animo degli ascoltatori. I grammatici e iretori educavano gli allievi a variare la modulazione della voce a seconda dellesfumature degli affetti e di tutti i moti dell’animo. Così un oratore efficace, attraversoun tono di voce elevato o un tono di voce dimesso, era in grado di stabilire conl’ascoltatore un rapporto di empatia e trascinarlo con la potenza della sua arteretorica. L’impianto melodico era scelto con cura, era unico e irripetibile per quel tipodi testo in quel particolare momento del discorso.

Così è impossibile immaginare per noi una melodia diversa da quella concepita perquel testo in quel momento della liturgia. E’ vero che il canto gregoriano è costituitoda strutture formulari, ma il compilatore sceglieva sempre la formula “su misura” perquello specifico testo. Se noi dovessimo adattare a questa antifona una formula diprimo modo, simile a quella riportata a pag. 22 del presente capitolo, faremmoindubbiamente una operazione sbagliata, a tal punto da comprometterne l’esegesi.

Un altro brano decisivo per comprendere la logica della notazione, nella quale glistrumenti della retorica sono piegati a servizio dell’esegesi è l’antifona notissima:Lumen ad revelationem gentium dal Cantico di Simeone, che conclude la Compieta.

9

In questa antifona troviamo ancora una particolare densità di accentuazione sullaprima parola della frase ma rileviamo anche una chiara disposizione simmetrica deltesto: pur con sostegni grafici differenti gloriam si richiama a lumen. Diversamentedall’antifona Aquam, dove questa parola raccoglie in modo esclusivo su di sél’accento fraseologico, diventando la prima ed unica meta accentuativa e disignificato, qui tra lumen e gloriam si stabilisce un evidente parallelismo melodico ed espressivo. Collocate sullo stesso grado melodico acuto, entrambe le parole sonomesse rispettivamente in rilievo da un episema su sillaba tonica (lumen) e da unaliquescenza su sillaba finale (gloriam), artificio retorico certamente più raffinatoattraverso il quale la parola è come trattenuta dalla liquescenza per impedire che“scivoli”, per così dire, sul contesto verbale successivo senza lasciare una tracciaespressiva evidente. Senza avere la pretesa di stabilire una gerarchia tra i due termini,è chiaro che lumen e gloriam sono fortemente intrecciati e sono la spiegazione,l’esegesi del termine greco “soterion” citato poco prima dall’evangelista Luca:“perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza…: luce per illuminare le genti egloria del tuo popolo Israele”. Il Messia dunque sarà causa di salvezza per tutti, sia per i pagani che per Israele.Sarà luce per gli uni e gloria per gli altri. Cristo, dice Agostino, è chiamato lucedivina non solo in senso figurato ma in senso proprio; perciò rivela alle genti nonsolo la grandezza del Signore, ma pure le illumina affinché possano aderire al suovangelo. Poiché questa salvezza viene da Israele (Gv 4,22), ecco che la venuta delMessia costituisce motivo di gloria per il popolo eletto. La novità della notazione di Hartker è che egli ha potuto riversare le qualità dell’arte oratoria (la declamazione innanzitutto, ma anche l’espressione del volto, il gesto dell’oratore, il tono della voce) in una pagina “scritta”, dove in genere sitrovano esclusivamente i pregi estetici dello stile letterario, ma dalla quale nonsempre emergono tutti gli stati d’animo che sono in continuo movimento. I suoni che sono nella voce rimandano agli affetti che sono nell’anima: ilcoinvolgimento emotivo del notatore al momento della scrittura è fondamentale,anche se tale coinvolgimento, in Hartker, non era dettato da un atteggiamentodevozionale privato ma era legato a uno dei principi fondamentali del monachesimo,la piena coscienza di collaborare al bene collettivo nel solco della tradizione deiPadri. Il tipo di oratoria di Hartker è il frutto di una precisa e chiara strategia comunicativa,i cui effetti sono già pianificati nel processo di composizione del brano. Sembra cheHartker abbia voluto assegnare ad ogni incipit un’espressione, un gesto, un tono divoce specifici e ben riconoscibili, che rimandano immediatamente al senso e alsignificato. Lo stile oratorio di Hartker è la testimonianza scritta della sua fede e delsuo amore per le Sacre Scritture: la forma e il contenuto sono strettamenteinterdipendenti. Agostino dice che “la forma trascina il contenuto” e in qualche modolo condiziona. L’eloquenza e la sapienza percorrono insieme la strada della verità;anzi il fine dell’eloquenza è la sapienza, che si identifica con l’amore per Cristo.

10

Dunque l’atteggiamento di Hartker mentre trascrive i testi sacri è quello di unoratore sapiente e appassionato, perché educato dalla pratica della lectio divina allamemoria della Parola, ma anche coinvolto emotivamente nella fedele trasmissionedella stessa, in modo che il lettore o ascoltatore attento sia indotto a preparare il suoanimo all’incontro con Cristo: l’ascoltatore sarà trascinato al timore di Dio o allamisericordia, alla gioia o al pianto, alla giustizia o alla carità, se tutte queste emozionisono visibilmente impresse a fuoco nella memoria, nel gesto e nella voce dello stessoamanuense.

Una terza funzione dei segni aggiuntivi riguarda il fraseggio nel senso più profondodel termine: in questa fase il notatore ci conduce per mano verso la comprensionepiena del testo sacro. E’ la fase più difficile e più delicata anche per noi chedobbiamo decifrare il comportamento del notatore con umiltà e rispetto senzaattribuire significati che esulano dalle sue intenzioni. Qui il significato di declamazione assume una speciale connotazione. Quandoparliamo di “declamazione ordinata” del testo non ci riferiamo soltanto ad unasuddivisione logico-grammaticale delle varie entità verbali, necessaria tuttavia per lacomprensione, oppure alle caratteristiche fonetiche delle singole parole del testo,elemento pure importante per la definizione del ritmo verbale. Ci riferiamo a un tipodi declamazione che, contraddicendo talvolta le esigenze di una buona declamazionenel rispetto della materialità del testo e delle proprie caratteristiche fonetiche, intenderaggiungere un obiettivo molto più profondo: il testo nel suo significato, il testonella sua esegesi. Tale significato si realizza attraverso l’individuazione di un“fraseggio”, cioè nella identificazione di mete accentuative corrispondenti a parole oespressioni ritenute centrali nel testo sacro. E’ proprio la notazione manoscritta contutta la sua ricchezza espressiva a guidarci verso una declamazione “ordinata” deltesto, raggiungendo l’obiettivo di una approfondita comprensione delle intenzioni delnostro amanuense. Egli ci offre una interpretazione del testo disciplinata dall’interpretazione che nehanno dato Israele, Gesù di Nazareth e la Chiesa. Egli non fa nulla di personale oarbitrario: compie l’esperienza di ascolto e ri-ascolto della Parola così come l’avevacompiuta la comunità dei discepoli di Gesù. Si tratta di un riascoltare con fedeltà,quindi di un’attività memoriale ma anche di un’attività ermeneutica: l’azione diHartker non è un semplice lavoro di trascrizione, non è una ricerca d’archivio, mauna ricerca di quanto la memoria deve selezionare di significativo per l’esistenzadell’uomo. La verità non è immediatamente nel testo ma emerge e si manifesta in ungioco di domande e risposte tra il testo e l’interlocutore. In altri termini, èun’attribuzione di significato quella che compiono il nostro amanuense e la suacomunità nell’esperienza quotidiana dell’Opus Dei. Noi cantiamo dei testi che sonoil risultato di un lavoro memoriale compiuto da una comunità, la cui auctoritasdisciplina la nostra fede nell’Evento di un Dio che salva. Ma si tratta anche diun’azione ermeneutica che risulta dalla sinergia tra quanto viene ricordato e quantoappartiene all’esperienza viva e presente della stessa comunità. E’ su questo terreno

11

che, con la luce dello Spirito, può germogliare l’ananghéllein, l’annuncio: il testo èdiventato Parola per me. Questa esperienza, è bene ripeterlo, si realizza nella liturgia, luogo privilegiato dovela parola esige la voce, impedendo che il testo sia trattenuto all’interno dell’astrattasfera semantica. La parola sacra vuole essere proclamata e quindi ascoltata, nonsemplicemente letta. Quale sarebbe altrimenti lo scopo dell’annuncio? E’ importante che la parola sacra, nella sua configurazione completa di realtà fisicae spirituale, acquisti corpo, voce e suono, si innalzi, si dispieghi, diventi gesto,percorra lo spazio e giunga all’ascoltatore, così che l’accolga e la faccia propria.Cristo non ha detto: “Chi ha occhi legga”, ma “Chi ha orecchi intenda (ascolti)”. L’attuale educazione libresca ha un po’ alterato le nostre abitudini: siamo portati aleggere anche quando si dovrebbe ascoltare. La fede può anche accendersi alla letturadi un testo, ma la parola di Dio acquista potenza ed efficacia solo quando vieneascoltata nella sua forma sonora di proclamazione solenne nella Liturgia: così laParola crea, risana, educa, fa’ risorgere, perdona, salva, persuade, conduceall’incontro con Lui, diventa esperienza di vita. Nella Liturgia la Parola è alimento e forza vitale pronta per essere ricevutadall’uomo credente: essa ha la forza di germinare la vita, perché è l’incontro conColui che è la vita: la si riceve “non come la mente assimila un concetto, ma come laterra accoglie un seme” (R. Guardini). Dio stesso, la parola eterna non si èmanifestata illuminando il pensiero o affidandosi a un libro: il Verbo si è fattouomo, si è incarnato. Infine, ciò che viene annunciato nella Liturgia, attraverso la mediazione dei testieucologici, dei canti e di tutto il linguaggio con cui la Chiesa celebra il suo Signore,ha un valore altamente catechetico poiché riflette una ricchezza teologica che penetrae si radica profondamente nella fede comunitaria, realizzando il classico assioma lexorandi, lex credendi (ciò che viene pregato nella liturgia indica ciò che si devecredere).

Ecco, l’episema, le lettere aggiuntive o la grafia liquescente vuol dire tutto questo.Sì, anche la grafia liquescente è dovuta, come gli episemi, all’iniziativa intelligente del notatore: il segno liquescente è una scelta intenzionale.Purtroppo gli studi su questo argomento sono “congelati” ad un articolo di J. B. Goeschlche risale a vent’anni fa, nel quale l’autore afferma delle tesi che sono state accettatepassivamente senza essere mai passate al vaglio di una attenta riflessione critica.In quel contributo si parla di ambivalenza di segni liquescenti, di liquescenze

12

condizionate dal procedimento melodico, di liquescenze diminutive con suono aggiunto,il tutto ricondotto quasi esclusivamente all’aspetto fonetico-vocale. Riporto una delleaffermazioni più oscure : “Tale suono aggiunto di una liquescenza aumentativa si eseguecon sonorità ridotta, smorzata, come se si trattasse di una liquescenza diminutiva di unneuma che ha un suono in più” (8).Il primo studioso a rendersi conto che era necessaria una revisione sull’argomentoè stato Fulvio Rampi, il quale, in un suo recente articolo sulla liquescenza, affermache nella composizione gregoriana il significato del testo non è reso dalla suamaterialità, anche se questo è il primo passo, ma è rivelato attraverso un percorsodi tipo retorico che è la chiave interpretativa per raggiungere il vero senso del cantogregoriano, cioè l’esegesi del testo.Quindi il significato del testo, di “quel testo”, non si realizza attraverso una “buona ecorretta” declamazione genericamente intesa, ma attraverso l’individuazione di unfraseggio che riveli le mete accentuative del discorso e che conduca al suo significatoesegetico. Il fenomeno della liquescenza risponde a pieno titolo a questa esigenza:non si riferisce soltanto alla qualità fonetica della parola ma ne svela la naturaespressiva. La liquescenza è la sublimazione del ritmo sillabico, dove l’esigenzamateriale di ordine fonetico può essere “utilizzata” o “trascurata” in funzione di una sottolineatura particolare del testo, qualificando in tal modo l’uso della liquescenza e garantendone la matrice ritmico-espressiva (9).

Liquescenze espresse o inespresse collocate secondo una logica apparentementecontradditoria rappresentano un presupposto retorico per giungere all’esegesi.Graficamente si traducono nell’arricciamento del tratto grafico del neuma nella sua parte conclusiva, in corrispondenza dell’articolazione sillabica. Ebbene, in molti casi, il notatore tralascia volutamente di tracciare la liquescenza per non travisare il senso autentico del testo.

E’ l’antifona che si canta al Magnificat dei secondi Vesperi di Natale A causa del carattere musicale dell’accento latino, il movimento oratorio del primo

13

inciso “redemptionem misit Dominus” inizia dal grave, si eleva progressivamente sino alla sillaba accentata di “redemptionem”, poi gradatamente ridiscende sulla sillaba finale di “Dominus” nella fase della sua distensione. E’ una semplice linea oratoria “ad arco” al cui vertice sta la sillaba d’accento di “redemptionem”. Se l’inciso verbale terminasse a “Dominus”, “redemptionem” sarebbe la parola che porta l’accento fraseologico. Ma l’assenza di liquescenza su “redemptionem”, totalmente priva di ogni sottolineatura enfatica, e la “x” collocata al termine dell’inciso cambia radicalmente la logica della frase. Non è una “x” che chiude un arco di frase (faccio notare che Dominus è un’aggiunta del compilatore), ma crea tensione e sospensione del discorso, la cui conclusione viene rimandata a “populo suo”, dotato di episema su sillaba tonica e, quindi, vero punto di mira del fraseggio di questo primo inciso. Non è un popolo qualsiasi, è il popolo eletto, è il suo popolo. Il celeriter stabilisce uno stretto legame con “suo” e quindi richiede una declamazione stringente. In questo testo, sapientemente amministrato dal punto di vista retorico, si avverte l’amorosa iniziativa del Padre nei confronti del popolo di Israele, iniziativa di salvezza sempre immutabile nella sua fedeltà.

Quindi non “Re dem ptio nem misit Dominus populo suo” ma

“Redemptionem misit Dominus’ populo suo”.

Il secondo inciso non è meno interessante del primo: infatti viene adombrata una liberazione più grande di quella di Israele dalla schiavitù di Egitto. Fissiamo l’attenzione sulla parola “testamentum”. Il termine greco della versione della LXX diathéke traduce sia alleanza che testamento. Dove c’è testamento, è necessario che sia avvenuta la morte del testatore. In filigrana si può scorgere quindi, come documenta la scelta della Vulgata, la figura di Cristo, che con la sua incarnazione e la sua morte redentrice, regala l’eredità promessa al suo popolo. E’ possibile stabilire un parallelismo, una simmetria incrociata tra le due entità verbali che concludono i due emistichi (populo e testamentum) e tra la prima e l’ultima parola del brano (redemptionem e testamentum). Quindi populo suo si richiama a testamentum suum: l’alleanza che Dio ha stipulato con il popolo eletto non viene mai meno; e il termine iniziale “redemptionem”, trattato in modo quasi anonimo, velato, ordinario, si carica di significato e prorompe con tutta la sua forza enfatica nella parola “testamentum”, dilatata da due liquescenze intense e ravvicinate. Quella redenzione che Dio inviò (misit) al suo popolo, che per gli Ebrei era la liberazione dall’Egitto e l’eredità della terra promessa, si compie in modo totale e definitivo con la venuta di Cristo che libera tutta l’umanità e le concede in eredità (testamentum) la vita eterna con Dio: il verbo mandavit, più pregnante di misit, segnala non più l’invio di un messo o la consegna di una promessa, ma l’affidamento all’uomo del Figlio Unigenito, Cristo, il testamento di Dio.

14

Secondo lo schema biblico figura-compimento, la liberazione dalla schiavitù del popolo eletto è figura della redenzione di tutta l’umanità. Agostino afferma che la mancata conoscenza del linguaggio tipologico o traslato delle Scritture porta alla incomprensione del messaggio; le locuzioni bibliche così come le profezie sono da cogliere secondo la loro vera accezione, cioè nel trasferimento di significato. Noi abbiamo perduto il senso dell’efficacia del simbolo, una delle dimensioni più radicate nell’uomo dell’epoca antica e medioevale. Per gli antichi il simbolo orientava lo spirito là dove il linguaggio comune non riusciva a penetrare direttamente. E’ opportuno ribadire che per la tradizione esegetica antica e il mondo monastico tutta la Sacra Scrittura parlava del Cristo e il Cristo bisognava avvertire nell’Antico oltre che nel Nuovo Testamento.Testamentum non è dunque una semplice alleanza ma è Cristo stesso.

Si tratta di un frammento del primo versetto del salmo 74:Confitebimur tibi Deus, confitebimur et invocabimus nomen tuum : * narrabimus mirabilia tua. Non è la confessione-penitenza, ma la celebrazione della lode e della gloria del nome di Dio, quello di Padre, che gli uomini conosceranno attraverso la rivelazione di Gesù. La dilatazione della sillaba invocare è interessante, dal punto di vista retorico, poiché si tratta di una preposizione (in) che cambia sostanzialmente il significato del verbo: una cosa è vocare = chiamare e un’altra è invocare, che è un verbo che descrive il

15

tipico atteggiamento dell’uomo che rivolge a Dio la propria supplica. Il notatore interviene volutamente proprio su questa sillaba con il tracciato liquescente, ancora più forte, dal punto di vista retorico, di uno scontato pes quadrato su sillaba tonica; così come non sarebbe la stessa cosa se avesse trascritto su quella sillaba una semplice clivis, omettendo il segno liquescente. La scelta della liquescenza collocata in posizione elevata è posta al servizio della semantica. Solo con il segno liquescente, che provoca la dilatazione della sillaba interessata posta sulla sommità melodica, si riesce a percepire la necessità dell’invocazione contenuta nel concetto: l’invocazione del nome di Dio è necessaria per la salvezza, nulla conta senza la confessione del nome di Dio: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Ioe 2,32, ripreso da At 2,21 e Rm 10,13). Questa frase in Gioele precede il raduno di tutte le popolazioni nella valle di Giosafat nell’attesa del giudizio di Dio. A questa immagine si sovrappone l’altra immagine apocalittica di Giovanni (Ap 1,7): “Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto”. La vera lode di Dio e la proclamazione della grandezza del suo nome include il riconoscimento dei peccati e quindi la salvezza. E’ ciò che suggerisce anche il notatore di Einsiedeln quando, all’incipit dell’Introito della prima domenica di Quaresima, traccia una grande liquescenza sulla prima sillaba di invocabit, a conferma che l’invocazione dell’uomo a Dio, riconosciuto unico liberatore, assicura l’intervento in prima persona di Dio stesso e della sua potenza salvifica: “Invocabit me, et ego exaudiam eum” (GT, 71).

Quest’antifona, che si canta alla Feria VI della quarta settimana di Avvento, è probabilmente una parafrasi di Mt 1,22 e Lc 1,45, che bene esprime la fedeltà di Dio al suo piano di salvezza e alle sue promesse, le quali ora, nella pienezza dei tempi, trovano la loro realizzazione nella disponibilità della Vergine Maria. E’ lo stesso incipit dell’antifona precedente, con la differenza che qui la liquescenza su completa, ha lo scopo di intensificare il successivo accento verbale: anche in questo caso il concetto del compimento è ben evidenziato. Tuttavia la liquescenza su sillaba pretonica di completa ha lo scopo di rimandare l’accentuazione oltre la parola stessa

16

verso una meta accentuativa più importante. Inoltre l’utilizzo di un’altra liquescenza sulla copula sunt non chiude l’arco di frase, come sarebbe logico per la nostra mentalità di lettori impigriti, ma, mantenendo forte la carica di tensione sul monosillabo sunt, consente di spostare il punto focale dell’accentuazione su “omnia”, dove si conclude il primo arco di frase configurato dalla x (exspectate) sulla sillaba finale. Questo punto rappresenta il primo chiaro segno di interpunzione e lì dovrebbe essere collocato il quarto di stanghetta della Vaticana. La liquescenza sulla sillaba finale di Angelum (anche qui la posizione del quarto di stanghetta è inopportuna) crea quella tensione utile per aprire a virgine Maria, oggetto del compimento della profezia. Se dovessimo tradurre graficamente il valore agogico delle parole del brano, scriveremmo:

Ecco si sono com piute tutte le parole, / dette dall’Angelo sulla Vergine Maria.

La sottolineatura grafica della sillaba pretonica con il segno liquescente, ove sussistano i presupposti fonetici (completa), è una delle possibilità di evidenziare la particolare qualità di un accento. Lo stesso fenomeno si verifica quando il notatore, in assenza di complessità fonetica, aggiunge l’episema su sillaba pretonica: in questo modo conferisce un’espressività ancora maggiore rispetto all’utilizzo di un eventuale episema tonico, poiché, anche in questo caso, “provoca” la sillaba d’accento per sottolinearne l’importanza. Il risultato retorico è particolarmente efficace.

17

Oltre alla brevitas, principio essenziale nello stringere l’argomentazione, un’altra caratteristica dell’arte oratoria è la varietas: se un discorso si dilunga su uno stesso stile non può fare molta presa sull’uditorio, ma se passa da uno all’altro stile la declamazione appare molto più gradita. E siamo ai tre stili dell’eloquenza: lo stile semplice, lo stile moderato e lo stile solenne. Compito di tutti e tre i generi è la persuasione. Non si deve pensare che un oratore raggiunga il suo scopo solo con lo stile solenne: lo stesso risultato si può ottenere con la finezza dello stile dimesso. Questi stili sono rintracciabili nella nostra antifona attraverso uno stretto e indovinatorapporto tra testo e procedimento melodico, tra ritmo verbale che attiene alla compositio verborum e il melos realizzato con la declamazione modulata delle sillabe: non a caso il testo proviene dai Sermoni di S. Leone Magno, profondo e raffinato autore di orazioni, sermoni, prefazi e commentari della Sacra Scrittura. Il tono moderato, sebbene molto intenso, del primo inciso verbale (mirabile mysterium) conduce verso un’affermazione pronunciata in tono solenne: quell’hodie, che è risuonato durante tutto il periodo dell’Avvento, che è cantato nella festività del Natale, viene ora confermato nell’ottava di Natale: è dunque la prima elevazione melodica, il punto di arrivo di questa prima frase, sottolineata da un ritardando enfatico (le tre sillabe di hodie sono tutte a valori larghi), che trova fondamento nella ricorrenza liturgica. Ma il pes quassus, tracciato sulla sillaba finale di “hodie” ci avverte che il senso della frase è rimandato oltre: si procede verso “innovantur naturae”, dove il tractulus con episema, il primo punto fermo dell’inciso, apre ad un enunciato di grande rilievo:

18

Deus homo factus est. E’ questo il mirabile mysterium enunciato all’inizio, ma ciò che è singolare è che la frase centrale “Deus homo factus est” è priva di qualsiasi segno aggiuntivo, non presenta alcuna enfasi particolare, è quasi un sussurro pronunciato in stile dimesso ma ben preparato dalla frase precedente: anche questa è una modalità che muove efficacemente alla persuasione. Segue poi una spiegazione teologica, dove si mescolano lo stile moderato (id quod fuit permansit) e lo stile solenne, cattedratico (e un po’ petulante) del maestro che vuole inculcare nella mente del discepolo un concetto che non dovrà dimenticare (non commixtionem passus…). Con la prima spiegazione l’autore vuole far capire che Cristo “ciò che era rimase” (mantenne la sua divinità): osserviamo l’indugiare del notatore sulle sillabe della parola, il cui valore fonetico si coniuga con il valore espressivo. Anche qui è un indugiare al servizio della semantica: non c’èalcun dubbio che Cristo, diventando uomo, conservò la sua natura divina (permansit). Allo stesso modo (ed è la seconda spiegazione) Egli non è il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano; né c’è divisione di persone ma una sola persona in due nature: Egli è in una unica persona vero uomo e vero Dio. E’ possibile vedere in questa antifona un piccolo saggio della teologia del primitivo pensiero cristiano, che, già con Ireneo (II secolo), affermava la bontà di tutto il creatocontro le teorie degli gnostici i quali, considerando la materia corruttibile, non riuscivano ad accettare la dottrina dell’incarnazione del Figlio di Dio. Qui si ribadisceche Dio si è fatto uomo, vero uomo in carne e ossa. La materia, quindi, è buona perché viene dalle mani di Dio e Dio stesso l’ha assunta facendosi uomo.

Riporto un altro esempio significativo dell’impiego dell’episema quando esso, strumento retorico di rara eleganza, ha lo scopo di evidenziare una delle due parti di una parola composta, più che l’accento tonico della stessa. Non si tratta di uno spostamento dell’accentuazione quasi a segnalare l’accento secondario, ma di una sottolineatura, attraverso un forte rallentamento della declamazione sulla sillaba interessata, del senso della radice semantica più significativa del termine.

Il brano è un centone ben riuscito che deriva dal capitolo 10 del I libro dei Re che narra della magnificenza del re Salomone, venerato da tutti i sovrani della terra per le sue ricchezze e la sua sapienza: Magnificatus est ergo rex Salomon super omnes reges terrae divitiis et sapientia. Et universa terra desiderabat vultum Salomonis ut audiret sapientiam eius…(1 Re 23-24).

19

L’antifona, collocata al Magnificat dei Vespri di Natale, non parla di un re magnificato per le sue ricchezze o la sua sapienza, ma presenta un re pacifico, un re che porta pace, un re mansueto che cavalca un puledro di asina (Mt 21,5), che non spezza una canna incrinata, che non spegne un lucignolo fumigante (Is 42,2-3); per questo è magnificato, è reso grande (come dice l’etimologia della parola composta magnus facere), è glorificato. La x in questo caso separa i due termini proprio per stabilire tra essi una dipendenza, una relazione: il re è glorificato (l’episema è collocato sull’accento di “magnus”, è reso grande) poiché è pacifico, cioè portatore di pace. In questo rex pacificus, che rimanda al princeps pacis dell’Introito della Messa dell’aurora di Natale Lux fulgebit (GT 44), non è azzardato vedere l’immagine babilonese dell’araldo del gran Re. Secondo la prassi giudiziaria orientale, dopo che il Re aveva emanato una condanna a morte, il suo araldo, munito di bastone e lanterna, percorreva tutte le città del regno per proclamare a gran voce la notizia e verificare se ci fosse qualcuno che potesse testimoniare a favore del condannato. Al termine del suo viaggio, se nessuno si era presentato a difesa del poveretto, si recava nella casa di quest’ultimo, dove spegneva la lanterna e spezzava il bastone per dire simbolicamente che il giudizio di condanna era inappellabile. In Isaia, al cap. 42, l’immagine dell’araldo è rovesciata: il Servo non griderà sulle piazze, non spezzerà il bastone, non spegnerà la lucerna: il giudizio che verrà a proclamare con fermezza su tutta la terra non è un giudizio di condanna, ma di salvezza. Non solo, ma prenderà il posto del condannato, sarà un re piagato e crocifisso e così si presenterà ai discepoli dopo la resurrezione donando loro la pace. E al volto di questo re condannato a morte (il volto di Salomone ne è una prefigurazione) guarderà tutta la terra: cuius vultum desiderat universa terra.

20

Sia pure in maniera ancora velata e misteriosa, questo brano della liturgia del Nataleci apre alla visione di un Messia che, per giungere alla gloria (magnificatus), dovrà passare attraverso il giudizio e la morte: questo principe della pace o questo messia disarmato è il servo sofferente, descritto da Isaia nel terzo Canto del servo (Is 53), che, in San Paolo (Fil 2, 8-9), si fa obbediente fino alla morte e alla morte di croce: Christus factus est oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exsaltavit illum... Credo non sia troppo audace rintracciare una concordanza, pur nella differenza dello stile, tra l’antifona appena descritta e il Graduale della Domenica delle Palme (GT 148), collegando idealmente il termine pacificus a mortem autem crucis e l’enunciato magnificatus est alla locuzione propter quod et Deus exsaltavit illum, seguendo lo schema abbassamento/glorificazione tanto caro alla chiesa primitiva: l’umiliazione di Gesù fino alla morte porta alla sua glorificazione da parte del Padre e alla proclamazione universale della sua signoria.

I capitoli 51 e 52 diIsaia sonodominati da un bellissimodialogo tra Dio e

Gerusalemme, in cui risuona l’invito reciproco, quasi una preghiera insistente, a svegliarsi dal sonno. Dapprima è Gerusalemme a rivolgersi a Dio per chiedergli di non ritardare oltre il suo intervento: “Svegliati, svegliati, rivestiti di forza, o braccio del Signore!” (Is 51,9). Poi è il Signore a sollecitare la risposta di fede del suo popolo disperato: “svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, sciogli il giogo del tuo collo” (Is 51,17). L’invito pressante è strutturato su tre piani melodici progressivamente più acuti nei quali si può cogliere lo schema della gradatio, il climax dei greci. Sono tre unità verbo-melodiche ben definite, sempre più intense dal punto di vista dell’eloquenza, i cui membri restano come sospesi nella declamazione finché non si arrivi alla clausola finale (captiva filia Sion). Anche questa è una modalità della retorica estremamente efficace e capace di piegare gli animi alla persuasione.

Il primo inciso verbo-melodico comprende le parole “elevare elevare” con due elementi singolari che si illuminano a vicenda: il ritmo verbale, trattenuto sulla prima sillaba da un episema in corrispondenza della preposizione e-levare (“ex-levare”) che

21

modifica radicalmente il senso del verbo e attribuisce alla parola un significato più denso del semplice “levare” come fosse un destarsi e quindi un alzarsi dal letto, non si conclude sull’ultima sillaba del primo verbo, collocata all’interno di una salita melodica, ma è orientato dall’oriscus s sulla sillaba d’accento del secondo “elevare”, quasi fosse unica locuzione verbale, che ben traduce l’invito pressante di Dio al suo popolo. Il secondo inciso riguarda le parole consurge Ierusalem, collocate su un grado più alto della scala rispetto al primo inciso: è un invito reiterato a risorgere, tutta Gerusalemme deve risorgere. Il terzo inciso, alle parole solve vincla colli tui, tocca le corde più acute della scala (abbastanza singolare per una modalità di tetrardus plagale) e raggiunge una forte accentuazione su “colli tui”. Perché su “colli” e non su “solve” o “vincla”, che del resto sono prive di liquescenza o di altro segno aggiuntivo? Perché il collo, appesantito dal giogo, è il simbolo della sottomissione e della schiavitù. Ciò prelude ad una accentuazione ancora più forte su “captiva” (ridotta in schiavitù), dove la grande forza dell’accento viene trasmessa anche sulla sillaba finale con conseguente interruzione del flusso ritmico della frase. Tale relazione è ulteriormente rafforzata dall’aggiunta di “c” sulla parola successiva: il celeriter si comprende se ci riferiamo proprio alla declamazione dilatata della locuzione precedente che “ferma” e invita a raccogliere il significato di captiva.

La dilatazione e il prolungamento della sillaba d’accento e della sillaba finale (captiva) intendono sottolineare il peso della deportazione e della schiavitù di Israele e in particolare dell’esilio babilonese. In questo terzo esilio, dopo l’esilio in Egitto e quello in Assiria, si verifica qualcosa di profondamente diverso rispetto ai due casi precedenti: si tratta di una sofferenza immotivata, senza ragione, del tutto gratuita; è una oppressione senza misura che nasconde un mistero che sarà appunto rivelato nel terzo Canto del Servo di Isaia: le sofferenze di Israele tra i pagani hanno un significato espiatorio dei peccati del mondo. E’ chiaro che, dietro la figura collettiva di Israele, è presente la figura del Messia che volontariamente si offre alla sofferenza, alla schiavitù, alla morte per la giustificazione delle genti: la libera obbedienza del Servo al sacrificio muove finalmente Dio ad intervenire per riscattare il suo popolo.

Questa è una delle

numerose formule di intonazione utilizzate per le antifone

22

dell’ufficio. E’ una tipica formula di primo modo ed essendo introduttiva, è una formula destinata ad introdurre il canto, non può certamente stare al centro del brano o concluderlo. Abbiamo sovente affermato che la melodia ha una relazione inscindibile con il testo, nel senso che ogni inciso, ogni frase ha il suo disegno melodico speciale in un fecondo rapporto di dipendenza con l’accentuazione grammaticale delle singole parole. Tuttavia, l’insieme della composizione è anche il risultato di un certo numero di formule musicali prese qua e là dal “deposito formulare” e sapientemente cucite insieme. La centonizzazione musicale gregoriana è un’operazione assai più frequente di quanto non sembri e richiede una grande conoscenza del repertorio, del linguaggio musicale, non disgiunto da un gusto finissimo per i delicati interventi di cucitura tra un centone e l’altro. Questo fa sì che si possano applicare ad una stessa melodia parole differenti non in modo meccanico ma con una grande sapienza compositiva. La formula in questione si muove dal grave e attraverso una progressione melodica ascendente raggiunge una sommità, una meta accentuativa, dove viene collocata la parola privilegiata. In pratica questa parola “speciale” è messa in rilievo dall’oratore mediante un tono di voce più elevato rispetto alle parole che precedono e seguono. E’ ciò che viene definita la prima significativa elevazione della voce nella proclamazione solenne di un testo.

Nel casodi “ecce veniet

desideratus” l’accento fraseologico, la meta accentuativa viene volutamente ritardata e fatta precedere da un breve recitativo sulla corda di Re e compare soltanto su “desideratus”, cioè colui che è desiderato da tutte le genti.Era possibile una intonazione conforme al modello precedente solo se si fosse voluto mettere in risalto il termine “veniet”. Ma qui, più che la venuta in sé, il compositore vuole sottolineare l’attesa piena di desiderio del Salvatore da parte di tutte le genti. Il testo originale di Aggeo 2,8 recita “movebo omnes gentes et veniet desideratus cunctis gentibus et implebo domum istam gloria”. E’ lo stesso Gerolamo che forza la versione ebraica di questo passo in cui il profeta annuncia che Dio “scuoterà tutte le nazioni e affluiranno le ricchezze di tutte le genti” a Gerusalemmme per lo splendore del tempio che il popolo d’Israele è impegnato a ricostruire dopo l’esilio in Babilonia. Le ricchezze che affluiscono per il tempio che risorge è il segno dell’approssimarsi dell’era messianica e per Girolamo diventano “l’atteso” “il desiderato”, il Messia. Credo che Gerolamo, per questa geniale trovata allegorica, così come i nostri compilatori, nel collocare questa antifona nella IV domenica d’Avvento, avessero ben presente l’etimo della parola desideratus=de sidera, dalle stelle: secondo gli antichi la soddisfazione di un grande desiderio può venire soltanto dalle stelle e desideratus è colui che scende dalle stelle e appaga definitivamente la brama di

23

attesa di tutte le genti (11).

Angelo Corno

NOTE

Le abbreviazioni contenute in questo contributo si riferiscono ai seguenti manoscritti e alle seguenti edizioni di canto:

AM Antiphonale Monasticum (Solesmes, 1934)*C S. Gallo, Stiftsbibl. 359 (Paléographie Musicale II/2)E Einsiedeln, Stiftsbibl. 121 (Pal. Mus. I/4)H Antifonario di Hartker, S. Gallo Stiftsbibl 390-391 (Pal. Mus II/1)GT Graduale Triplex (Solesmes, 1979)

* E’ la pubblicazione da cui sono stati ricavati i brani corredati della notazione quadrata e dei neumi sangallesi del codice di Hartker trascritti dall’autore.

(1) Questo paragrafo rappresenta sostanzialmente la versione italiana della prima parte dell’Introduzione redatta dai monaci di Solesmes in lingua francese premessa all’edizione anastatica dell’Antifonario di Hartker pubblicata dalla Pal. Mus. II/1.(2) Anàmnesis: 5° La liturgia delle ore, 109 e segg., ed. Marietti. (3) Anàmnesis: 5° La liturgia delle ore, 113 e segg., ed. Marietti (4) Introduzione al codice sangallese 339 (Pal. Mus. I/1,1889).(5) I Padri commentano il Salterio della Tradizione, pag 691 e segg., ed. Gribaudi. (6) Il primo studioso a chiarire la funzione retorica dei segni aggiuntivi della notazione sangallese fu il prof. Godehard Joppich, il quale accettò nel 1990 di tenere ai “Cantori Gregoriani” un seminario di studi sull’aspetto retorico del canto gregoriano.(7) I riferimenti alla retorica antica rivisitata dal messaggio cristiano sono attinti dall’opera agostiniana “De doctrina christiana”, Città Nuova, vol.VIII. (8) Johannes Berchmans Goeschl: “Il fenomeno semiologico ed estetico delle note liquescenti” dagli Atti del Convegno Internazionale di Canto Gregoriano, Arezzo, 1983. (9) Fulvio Rampi: ”La liquescenza” in Polifonie III 1-2003, Arezzo. (10) Quest’ultimo esempio e buona parte del commento deriva da “Il canto gregoriano non è canto: appunti per un paradosso” di Massimo Lattanzi, a cui devo altri spunti nella prima parte del 4° capitolo del presente contributo. (11) Gran parte di questo contributo è stato impiegato per il seminario di approfondimento tenuto dall’autore a Rovigo nell’ambito dell’8° Corso di Canto Gregoriano “Il suono della Parola” (12-17 luglio 2004).

24