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L’industria di guerra 1940-43 di Valerio Castronovo Fin dai primi giorni della guerra scatenata da Hitler con l’attacco alla Polonia, le operazio- ni militari dimostrarono quale ruolo decisivo avrebbe avuto, per le sorti del conflitto, l’im- piego delle divisioni blindate e dell’aviazio- ne, il collegamento strategico fra carri armati ed aerei. In Italia nel settembre 1939 di grandi unità corazzate autonome, da sfondamento, non c’era nemmeno l’ombra, nonostante i con- clamati programmi di una “campagna fulmi- ne” vagheggiati dal capo di Stato maggiore dell’esercito Pariani. Quanto all’aviazione, di fronte agli aeroplani d’assalto, che stava- no aprendo la strada alla spettacolare avan- zata tedesca in Polonia, e agli apparecchi in- glesi dotati di mitragliatrici di buon calibro, o capaci di lanciare parecchie tonnellate di bombe in un solo attacco, tutto ciò che si po- teva allineare da parte nostra erano i “Sa- voia-Marchetti S 79”, un bombardiere dota- to di bombe di piccolo calibro e parecchio in- stabile in aria agitata, e il biplano da caccia “CR 32”, un velivolo lento e armato in ma- niera sommaria; i primi esemplari di un mo- dello da caccia di maggiore potenza, costruiti a partire dal 1938, erano stati venduti all’e- stero e così pure numerosi aerosiluranti. Nel settore dei veicoli da combattimento e delle unità speciali, le autorità militari erano ferme alle concezioni della prima guerra mondiale o erano paghe dei risultati acquisiti nel 1935-36 nel corso di una guerra coloniale come quella condotta contro le bande tribali abissine con un largo uso di iprite e di altri aggressivi chimici. A sua volta la grande in- dustria, che dopo l’avventura in Etiopia e la guerra di Spagna aveva fatto pressioni sul governo fascista per continuare a beneficiare di ordinazioni statali, allo scoppio del con- flitto in Europa s’era tirata in disparte, pen- sando che avrebbe concluso migliori affari lavorando per l’esportazione verso i paesi belligeranti e smaltendo intanto le giacenze accumulate nei magazzini. D’altra parte quando si erano tratti i conti delle guerre del regime, gli industriali s’erano visti appioppare un’imposta del 10 per cento sui capitali delle società per azioni, e in più una serie di vincoli e di restrizioni alla loro attività che avevano reso ancor più pesante di quanto già non fosse la politica autarchi- ca varata da Mussolini dopo le sanzioni gine- vrine. In ogni caso il fatto che l’Italia non potes- se bastare a se stessa, priva com’era di mate- rie prime e di combustibile, le condizioni de- plorevoli in cui versava l’esercito a causa an- che dei salassi subiti nei due precedenti inter- venti militari, e non ultimi gli ingenti oneri che comportava la gestione dell’Impero ap- pena conquistato in Africa orientale, erano stati argomenti più che sufficienti per accre- ditare negli ambienti economici il convinci- mento che Mussolini non avrebbe corso il ri- schio di una guerra. Oltretutto il regime avrebbe dovuto guardarsi da una prova che poteva spazzarlo via dalla scena o, bene che Italia contemporanea”, settembre 1985, n. 160.

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  • L’industria di guerra 1940-43d i V a le r io C a s tr o n o v o

    Fin dai primi giorni della guerra scatenata da Hitler con l’attacco alla Polonia, le operazioni militari dimostrarono quale ruolo decisivo avrebbe avuto, per le sorti del conflitto, l’impiego delle divisioni blindate e dell’aviazione, il collegamento strategico fra carri armati ed aerei.

    In Italia nel settembre 1939 di grandi unità corazzate autonome, da sfondamento, non c’era nemmeno l’ombra, nonostante i conclamati programmi di una “campagna fulmine” vagheggiati dal capo di Stato maggiore dell’esercito Pariani. Quanto all’aviazione, di fronte agli aeroplani d’assalto, che stavano aprendo la strada alla spettacolare avanzata tedesca in Polonia, e agli apparecchi inglesi dotati di mitragliatrici di buon calibro, o capaci di lanciare parecchie tonnellate di bombe in un solo attacco, tutto ciò che si poteva allineare da parte nostra erano i “Sa- voia-Marchetti S 79”, un bombardiere dotato di bombe di piccolo calibro e parecchio instabile in aria agitata, e il biplano da caccia “CR 32”, un velivolo lento e armato in maniera sommaria; i primi esemplari di un modello da caccia di maggiore potenza, costruiti a partire dal 1938, erano stati venduti all’estero e così pure numerosi aerosiluranti.

    Nel settore dei veicoli da combattimento e delle unità speciali, le autorità militari erano ferme alle concezioni della prima guerra mondiale o erano paghe dei risultati acquisiti nel 1935-36 nel corso di una guerra coloniale come quella condotta contro le bande tribali

    abissine con un largo uso di iprite e di altri aggressivi chimici. A sua volta la grande industria, che dopo l’avventura in Etiopia e la guerra di Spagna aveva fatto pressioni sul governo fascista per continuare a beneficiare di ordinazioni statali, allo scoppio del conflitto in Europa s’era tirata in disparte, pensando che avrebbe concluso migliori affari lavorando per l’esportazione verso i paesi belligeranti e smaltendo intanto le giacenze accumulate nei magazzini.

    D’altra parte quando si erano tratti i conti delle guerre del regime, gli industriali s’erano visti appioppare un’imposta del 10 per cento sui capitali delle società per azioni, e in più una serie di vincoli e di restrizioni alla loro attività che avevano reso ancor più pesante di quanto già non fosse la politica autarchica varata da Mussolini dopo le sanzioni ginevrine.

    In ogni caso il fatto che l’Italia non potesse bastare a se stessa, priva com’era di materie prime e di combustibile, le condizioni deplorevoli in cui versava l’esercito a causa anche dei salassi subiti nei due precedenti interventi militari, e non ultimi gli ingenti oneri che comportava la gestione dell’Impero appena conquistato in Africa orientale, erano stati argomenti più che sufficienti per accreditare negli ambienti economici il convincimento che Mussolini non avrebbe corso il rischio di una guerra. Oltretutto il regime avrebbe dovuto guardarsi da una prova che poteva spazzarlo via dalla scena o, bene che

    Italia contemporanea”, settembre 1985, n. 160.

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    fosse andata, avrebbe asservito ancor più il paese al carro della Germania.

    Così la pensavano nel settembre 1939 i principali industriali italiani: chi, come Agnelli mandando Valletta a Roma per far sapere in alto che, in caso di una svolta interventista, ci sarebbero state gravi ripercussioni nell’ordine pubblico e non avrebbe potuto garantire comunque la disciplina nelle sue fabbriche; chi, come Donegani e Cini, richiamando l’attenzione di Mussolini sull’assoluta mancanza di scorte e sulla disastrosa situazione delle finanze statali; chi ancora, come Alberto Pirelli, ammiccando a Grandi, a Ciano, agli uomini della destra fascista animati da umori contrastanti o da ripensamenti filoccidentali1.

    Del resto si sapeva da tempo che non si sarebbe potuto far fronte alle spese di riarmo e continuare ad affrontare le sperimentazioni autarchiche e i problemi della colonizzazione interna, se non con il denaro contato, alla mano, dato che già il governo aveva attinto alle riserve della Banca d’Italia. Per non prosciugare tutte le fonti e scivolare fatalmente verso un dissesto finanziario, ci sarebbe voluto insomma un netto miglioramento della bilancia commerciale. E proprio su questa alternativa, sostenuta energicamente dall’ex dirigente della Confindustria Felice Guarneri2, responsabile agli scambi e alle valute, avevano puntato le loro carte i principali gruppi economici per esorcizzare l’idea della guerra, o di una sua scadenza ravvicinata, e per badare intanto ai loro affari.

    In effetti, il pessimismo di Guarneri era del tutto giustificato: alla fine del 1939 le riserve della Banca d’Italia si erano ridotte al

    lumicino, a meno di tre miliardi di lire rispetto ai venti miliardi e rotti che essa possedeva all’inizio degli anni trenta. E la valuta estera disponibile non bastava neppure per le spese correnti3. Le esportazioni — anche quelle di materiale strategico — erano perciò indispensabili tanto più se si voleva accumulare per le evenienze future qualche scorta di petrolio, di combustibili e di altre materie prime essenziali per il riarmo.

    Eppure, non si può dire — cifre alla mano — che la politica militare fascista si reggesse soltanto sulla propaganda bellicista e sulle illusioni mussoliniane di prestigio e di potenza. Secondo i dati elaborati da Knox, tra il 1935 e il 1938 l’Italia spese circa l’11,8 per cento del reddito nazionale per preparativi e operazioni militari di fronte al 12,9 per cento della Germania, al 6,9 per cento della Francia e al 5,5 per cento dell’Inghilterra. Successivamente nel biennio 1939-40, le spese militari salirono al 18,4 per cento del reddito nazionale. In termini assoluti le spese militari nel 1939- 40 ammontavano a una cifra più che doppia rispetto a quella del 1935-36, ai tempi della spedizione di Abissinia4. Sebbene questi dati siano suscettibili di alcune correzioni, essi non sono lontani dal vero in ordine di grandezza e in termini comparativi. D’altra parte è un fatto che proprio gli ingenti oneri del periodo 1935-1938 continuarono a pregiudicare negli anni successivi un più imponente sforzo di mobilitazione finanziaria.

    Quali furono i motivi dell’insufficienza bellica italiana all’atto dell’entrata in guerra? La risposta, a mio giudizio, va cercata negli errori di valutazione compiuti dal regi-

    1 Cfr. Valerio Castronovo, Potere economico e fascismo, in Aa. Vv., Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1972.2 Si veda Felice Guarneri, Battaglie economiche fra le due grandi guerre, Milano, Garzanti, 1953.3 Cfr. Franco Catalano, L ’economia italiana di guerra 1940-1943, Milano, quaderni de “Il movimento di liberazione in Italia”, 5, 1969.4 Me Gregor Knox, La guerra di Mussolini, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 23 e 457-458.

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    me fascista in ordine alle caratteristiche e ai tempi di una “guerra totale” , e non tanto nelle difficoltà (che pur non mancarono) del sistema industriale a sviluppare un adeguato potenziale bellico. Non è qui il caso di spendere molte parole sul dilettantismo militare del I duce. Che esso fosse dovuto a un segreto com-

    | plesso di inferiorità nei confronti dei generali 1 che “gli impediva — come è stato scritto — di H discutere a fondo i loro consigli tecnici”5, o § alla sua tendenza a servirsi dell’esercito più ■ come piedistallo per il mantenimento della 'i dittatura che come strumento di conquista I imperialistica6, sta di fatto, in ogni caso, che 1 la pretesa di Mussolini di dirigere fin nei mini- I mi particolari la politica militare italiana, e f poi di avocare a sé il ruolo di comandante su- ? premo (dopo avere già condotto personal- f mente le guerre di Etiopia e di Spagna), con- I tribuì in misura rilevante a imbrogliare le car

    te: a dare la precedenza alle iniziative che potessero assicurare dei momentanei successi di prestigio rispetto a quelle meno appariscenti e di più lunga lena, a confondere la potenza del

    S numero con la superiorità tecnologica, a confidare più in qualche gemale espediente diplomatico che in un metodico lavoro preparatorio che tenesse conto di tutte le circostanze, a premiare insomma più la forma che la sostanza.

    Tutto ciò non assolve, peraltro, i massimi responsabili dell’apparato militare. Fatta qualche eccezione essi non brillavano né per lungimiranza né per dinamismo. Basterà qui ricordare alcune circostanze significative: la rigidità del sistema gerarchico basato su avanzamenti di carriera per anzianità, la confusione di responsabilità esistente fra gli ufficiali superiori, la penuria di elementi qualificati nei quadri intermedi, gli intrighi e le

    gelosie che dividevano i rappresentanti delle varie armi e finivano per paralizzare spesso il funzionamento della macchina militare, l’assenza di un’opera sistematica di studio e di programmazione nei singoli settori tecnici7, la mancanza di un valido coordinamento delle forze armate, di un autentico Stato maggiore generale. Gli stretti legami tra esercito e monarchia, un certo spirito di corpo, e il fatto che i capi militari avessero un discreto grado di autonomia interna in cambio del loro appoggio al regime non valsero a creare, tra i più alti gradi delle forze armate, condizioni propizie all’elaborazione di una linea di condotta più avveduta ed efficiente. Se Mussolini continuava a ritenere che una futura guerra terrestre sarebbe stata più o meno simile a quella precedente — combattuta passo a passo, senza grandi azioni di sfondamento, al riparo delle rispettive fortificazioni —, i suoi generali non la pensavano in modo diverso. Ben pochi s’e- rano fatti un’idea precisa dell’importanza dei mezzi corazzati; e anche chi c’era arrivato come il capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Pariani — si limitava a predicare a tavolino l’opportunità di una “guerra di rapido corso” senza impegnarsi più di tanto per sostenere la sua causa in sede esecutiva, nella scelta degli armamenti e nella ripartizione degli stanziamenti. Le stesse considerazioni possono valere per la marina: il capo di Stato maggiore, ammiraglio Cavagnari, era convinto che le cose non sarebbero cambiate sensibilmente rispetto alle strategie navali in uso nella prima guerra mondiale: a suo giudizio, a decidere l’esito del conflitto sarebbero state pur sempre le corazzate, a capo di grosse flotte, l’una schierata contro l’altra in un reciproco tiro al bersaglio, e non già le portaerei e i sommergibili a

    5 /v ì.p . 13.6 Cfr. Giorgio Rochat, L ’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari, Laterza, 1967, pp. 571-575, 593- 594; Idem, L ’esercito e il fascismo, in Aa. Vv., Fascismo e società italiana, cit., pp. 105-107.7 Per tutto ciò si veda Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dai 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978.

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    lunga autonomia. L’azione combinata fra mezzi navali e mezzi aerei non rientrava nei suoi calcoli e neppure nelle previsioni del ministero della Marina. L’unica arma che cercasse di tenersi al passo con i progressi della tecnologia militare era l’aeronautica. Ma le incertezze del governo sui modelli da adottare, la riluttanza dei responsabili dell’aviazione ad agire di concerto con l’esercito e la marina, lo scarso addestramento tattico a squadre e per operazioni di volo notturno, ritardarono fino al 1939 sia l’elaborazione di un piano intensivo di sviluppo, nella produzione di caccia e bombardieri, sia la preparazione di un maggior numero di piloti abilitati sotto ogni profilo al loro compito. Sin quasi alla vigilia della guerra l’aviazione continuò così ad appagarsi di alcuni successi conseguiti in gare di velocità e in altre competizioni del genere (ampiamente sfruttati dal regime in senso propagandistico) a scapito di una reale efficienzabellica8.

    Di fatto, soltanto tra il 1938 e il 1939 vennero messi a punto due piani organici per la marina e l’aviazione e alcuni progetti settoriali per il potenziamento delle forze di guerra. Il primo di questi piani contemplava l’aumento del potenziale navale da un programma “minimo” di 600.000 tonnellate a un programma “maggiore” di 700.000 tonnellate; il secondo aveva per scopo di portare la linea di volo a3.000 aerei perfettamente operativi. Quanto all’esercito, buon ultimo nella scala delle priorità stabilita da Mussolini, l’obiettivo principale, fissato definitivamente nel febbraio 1939, era di accrescere il parco delle artiglierie mediante una produzione mensile di 250 pezzi, dalla media di 65 che se ne fabbricavano in

    quel momento9. Qualche cosa si prevedeva pure per i carri armati, dal momento che nel 1939 erano in servizio soltanto 1.500 carri leggeri, da tre tonnellate e mezza, del tipo “L 3”, e qualche carro più pesante del tipo “M 11”, che potevano trovare un impiego limitato, quasi esclusivamente in zone di montagna e prealpine10. Ma la parte assegnata ai mezzi corazzati, nei piani di ammodernamento della fanteria, continuava ad essere, se non marginale, relativamente secondaria, dato lo scetticismo ancora prevalente nei vertici militari.

    In sostanza, l’Italia entrò in guerra senza aver elaborato un piano di sviluppo della produzione bellica tempestivo e organico, sia in relazione alle carenze da colmare, sia in relazione alle modalità e al teatro d’impiego delle varie armi. A quest’ultimo proposito vale la pena di sottolineare il fatto che l’impostazione più difensiva che offensiva della marina e la scarsa copertura aerea delle sue operazioni11 mal si prestavano alle aspirazioni medi- terranee e africane del regime fascista. Anche nel caso dell’aviazione c’era più di una sfasatura dal punto di vista tattico e organizzativo, giacché il suo compito principale non era di assicurare un adeguato appoggio alle forze terrestri e navali, ma piuttosto quello di svolgere una sorta di “guerra in proprio” contro i centri abitati e gli impianti industriali: anche se la cosa si presentava quanto mai ardua, dato che l’aeronautica italiana possedeva soprattutto dei bombardieri piccoli e medi, dotati di bombe di calibro modesto, che, volando ad alta quota, richiedevano una rosa di tiro molto ampia per avere la massima probabilità di colpire il bersaglio, senza tuttavia la sicurezza di distruggerlo12. Ancor più vistose

    8 Cfr. Me. Gregor Knox, La guerra di Mussolini, cit., p. 23 sgg.9 Fortunato Minniti, Aspetti della politica fascista degli armamenti dal 1935 a! 1943, in L'Italia fra tedeschi e Alleati, a cura di Renzo De Felice, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 133-35.10 Si vedano al riguardo i rapporti redatti dalla Fiat e inviati a più riprese a Mussolini in Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli,Torino, Einaudi, 1971, p. 560sgg.11 Cfr. Marc’AntonioBragadin, Il dramma della marina italiana, 1940-1945, Milano, Garzanti, 1972.12 Cfr. Sebastiano Licheri, L ’arma aerea italiana nella seconda guerra mondiale, Milano, Mursia, 1976.

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    erano le contraddizioni nel caso dell’esercito, giacché l’espansione nei Balcani e l’attacco ai possedimenti coloniali britannici, previsti nei piani strategici italiani, avrebbero richiesto lo spiegamento di forti mezzi corazzati e la dotazione di un buon equipaggiamento di supporto ad azioni fulminee e avvolgenti.

    Queste e altre incongruenze presenti nei piani militari del regime non mancarono di riflettersi negativamente sull’opera di mobilitazione. È innegabile che gli industriali aves-

    ! sero “utilizzato” l’incapacità dei comandi militari; in parecchie occasioni, per continuare a piazzare le loro merci senza impegnarsi e

    ; migliorarne la qualità. Per il resto essi temevano l’eventualità di un conflitto che avrebbe potuto segnare il crollo del sistema, o modificarlo radicalmente, e in ogni caso accrescere la dipendenza dell’Italia nei confronti della

    '< Germania nazista13. D’altra parte, gli interessi internazionali di alcuni grandi gruppi consigliavano, in modo più evidente che non ven-

    f ticinque anni prima (quando erano prevalse ; le ragioni favorevoli all’ ancoraggio ai mercati

    “ricchi” dell’Europa occidentale per il rifornimento di materie prime), il mantenimento di buoni rapporti con la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Inoltre — a differenza che nel 1915 — l’industria pesante, passata sotto la “mano pubblica” o ancora in fase di convalescenza, non soffiava più sul fuoco degli orientamenti bellicisti.

    Della scarsa propensione degli ambienti industriali italiani verso l’avventura bellica era a conoscenza anche il governo inglese. Tanto che da Londra si fece balenare a più riprese la prospettiva di vantaggiosi accordi economici e di un allentamento del blocco navale alle importazioni italiane14. Si spiega pertanto come i principali industriali avessero accolto con sollievo nel settembre 1939

    l’espediente mussoliniano della “non belligeranza” . Ciò aveva permesso ai maggiori potentati economici di continuare a tirare l’acqua ognuno al proprio mulino — chi esportando a destra e manca, chi badando più alla produzione civile che a quella militare. Del resto lo stesso governo fascista — come si è detto — aveva incoraggiato la diplomazia degli affari in mancanza di valute pregiate e di materie prime.

    Insomma, alla vigilia della guerra, nonostante gli slogans propagandistici del regime, la preparazione della macchina bellica era ancora sulla carta. E per il resto, al di là di certe furberie mercantilistiche, circolavano una serie di presunzioni infondate, quasi che la buona stella e gli errori degli altri, i quali avevano giocato in altri tempi a favore di Mussolini, dovessero continuare a ripetersi all’infinito, e come se il Patto d’acciaio non fosse stato firmato e l’intesa con la Germania nazista non si fosse trasformata in alleanza di guerra.

    Ma, una volta entrati nel conflitto, come funzionò la macchina industriale e quale fu la sua effettiva rispondenza ai piani militari?

    Sulla carta esistevano tutte le premesse per un efficace coordinamento fra l’apparato politico-militare e quello produttivo. Nel 1939 lo Stato, attraverso Tiri, controllava il 75 per cento della produzione di ghisa e il 45 per cento di quella dell’acciaio; i più grossi complessi siderurgici — dall’Uva all’Ansal- do, alla Terni, dalla Cogne alla Dalmine — facevano capo alla “mano pubblica” e fin dal 1937 la Finsider aveva elaborato un piano di sviluppo della produzione d’acciaio sino a due milioni e mezzo di tonnellate, di cui la metà avrebbe dovuto essere coperta dagli impianti a ciclo integrale delle imprese facenti capo all Tri. Ancor più marcata era la pre

    13 Cfr. Piero Melograni, Gli industriali e Mussolini, Milano, Longanesi, 1972.14 Cfr. J. Stuart Woolf, Inghilterra, Francia e Italia, settembre 1939 - giugno 1940, in “Rivista di storia contemporanea”, 1972, n. 4.

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    senza dello Stato nel settore cantieristico: al 75-80 per cento del naviglio provvedevano diversi cantieri a partecipazione statale. A loro volta l’Ansaldo e l’Oto detenevano forti posizioni nella grossa meccanica d’interesse bellico, tanto che nel 1939 Tiri controllava la quasi totalità della produzione di artiglierie e la metà di quella dei mezzi corazzati, mentre l’Alfa Romeo fabbricava quasi il 30 per cento dei motori aerei. Massiccia era pure la presenza della mano pubblica nel settore delle munizioni e degli equipaggiamenti15.

    Va aggiunto che, ove si fossero fatte valere con la dovuta energia, quanto mai ampie erano le possibilità d’intervento del governo e delle alte sfere militari sugli indirizzi dell’industria privata: le commesse pubbliche varate al tempo della guerra d’Abissinia avevano contribuito in misura rilevante al rilancio dei principali gruppi dopo la “grande crisi” del 1929, e continuavano a rappresentare una voce tutt’altro che trascurabile nel bilancio di numerose imprese.

    Il fatto è che i piani militari italiani furono mal concepiti o subirono continue oscillazioni. Innanzittutto, il piano di decentramento industriale, di cui si occupava fin dal 1936 la Commissione suprema di difesa, non fu mai portato a compimento. Imprenditori e dirigenti industriali continuarono a sollevare un’obiezione dopo l’altra nei confronti del trasferimento, per ragioni di sicurezza, di una parte degli impianti o di una localizzazione dei nuovi impianti diversa da quella che avevano progettato. E alla fine anche gli Stati maggiori finirono per convenire sull’opportunità di lasciare le cose come stavano per non ridurre neanche per breve tempo la potenzialità industriale del paese, col risultato che nel 1939 la produzione bellica era concentrata nell’Italia settentrionale, e in particolare

    nel “triangolo industriale” , per il 100 per cento dei mezzi corazzati, per il 94 per cento del tonnellaggio delle navi e il 100 per cento dei motori marini, e per P85 per cento delle costruzioni di aerei. Solo per la fabbricazione di artiglierie la ripartizione degli impianti era più equilibrata, con il 50 per cento al Nord e l’altra metà nel resto della penisola16. Così concentrato, l’apparato industriale si presentava perciò particolarmente vulnerabile agli attacchi nemici, come risultò evidente fin dai primi bombardamenti alleati che già nella seconda metà del 1942 distrussero o paralizzarono gran parte delle attrezzature esistenti.

    In secondo luogo, non era stata perseguita una adeguata politica in fatto di scorte. Nel settembre 1939 le provviste di materie prime industriali e di combustibili erano esigue o del tutto insussistenti. Solo la marina aveva riserve sufficienti, l’esercito aveva benzina e nafta per un mese di guerra, e l’aviazione non si trovava in una situazione gran che migliore. Per giunta, le nuove cisterne di calce- struzzo, rivestite di latta, che avevano preso il posto di quelle in acciaio, non erano in grado di assicurare la conservazione della benzina immagazzinata, perché soggette a frequenti erosioni e quindi a perdite di materiale17. Inoltre non si era provveduto a un metodico rinnovamento del macchinario, in seguito alle restrizioni autarchiche: di macchine utensili attive ce n’erano poche nel 1939. Soltanto nell’industria meccanica circa un quarto del macchinario era stato compieta- mente rinnovato negli ultimi cinque anni. Le stesse considerazioni si possono fare quanto al livello di qualificazione delle maestranze, salvo che per alcuni grandi complessi. In queste condizioni la dispendenza strutturale dall’estero in fatto di materie prime e di im-

    15 Cfr. F. Minniti, Aspetti della politica fascista, cit., p. 132.16 Ivi, p. 133.

    Per un profilo d’insieme di queste e altre insufficienze, cfr. Giuseppe Santoro, L ’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, vol. I, Milano-Roma, Esse ed., 1957.

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    In un’altra relazione, quella di Massimo Legnani, verranno esaminati i costi e le modalità di finanziamento della guerra. Per quanto riguarda il tema del mio intervento, mi limiterò a osservare che la forma di finanziamento prevalente, quella dei sovra- prezzi (fino a un massimo del 25 per cento per le corazzate) non era la soluzione ideale, in quanto fonte di accesi contrasti e di un estenuante contenzioso fra aziende e autorità centrali. E questa circostanza costituì un ulteriore inconveniente nel funzionamento della macchina bellica italiana.

    Detto questo, vorrei portare tre esempi concreti che meglio di ogni altra considerazione valgono a illustrare le condizioni di insufficienza e di precarietà in cui si trovò ad operare il sistema industriale italiano adibito alla produzione militare, che nell’estate del 1943 giungerà a comprendere quasi 1.800 stabilimenti ausiliari con 1.200.000 addetti sotto il controllo del Fabbriguerra (rispetto agli 870 complessi con 600.000 dipendenti registrati alla vigilia del conflitto)19. I tre esempi si riferiscono alla Fiat, alla Cmasa (Costruzioni meccaniche aeronautiche di Marina di Pisa) e alla Whitehead di Fiume, il più importante silurificio italiano.

    Nel primo caso, quello della Fiat, quanto emerge dalla documentazione risulta estremamente illuminante per farsi un’idea dell’imprevidenza dello Stato maggiore dell’esercito in fatto di mezzi corazzati. Per cominciare, i tecnici della Fiat avevano segnalato più volte come i carri d’esplorazione, presi in esame dal ministero della Guerra nel lontano 1928 e modificati nel 1935, dovessero considerarsi superati sotto tutti gli aspetti; quanto ai carri di rottura e di accompagnamento per la fanteria, il materiale era meno

    18 Si veda, in particolare, Carlo Favagrossa, Come perdemmo la guerra, Milano, Rizzoli, 1946; e F. Catalano, L ’economia italiana italiana di guerra, cit.19 Cfr. Fortunato Minniti, Idem, Due anni di attività del “Fabbriguerra” per la produzione bellica (1939-1941), in “Storia contemporanea”, 1975, n. 6; e Idem, Aspetti organizzativi del controllo sulla produzione bellica in Italia (1923-1943), in “Clio” ott.-dic. 1977, pp. 305-340.

    pianti finirà per assumere un peso determinante.

    Insieme al mancato decentramento industriale e alla penuria di scorte, un altro punto debole stava nella eccessiva dispersione della struttura produttiva. Molte lavorazioni ausi- liarie erano disseminate in una miriade di piccolissime officine e di esercizi artigianali, modestamente attrezzati e non sempre coordinati alla strategia aziendale dei maggiori stabilimenti. E ciò provocherà, nel corso del conflitto, gravi sfasature e vari inconvenienti di non poco conto nel funzionamento del ciclo produttivo.

    Ciò nonostante, si può supporre che l’industria italiana sarebbe stata in grado di provvedere ai piani di sviluppo stabiliti per la marina e per l’aviazione e di rifornire un esercito meccanizzato di dieci-quindici divisioni. Se ciò non avvenne, la causa va ricercata principalmente nella mancanza di un indirizzo coerente da parte delle autorità centrali, sia alla vigilia che nel corso della guerra, più che nel comportamento dell’industria (pur non esente, in alcuni settori come quello aeronautico, di calcolati ritardi o di rigidità nella progettazione di nuovi modelli).

    A giudicare dai carteggi ministeriali e dai numerosi documenti aziendali, la mobilitazione industriale fu afflitta da frequenti conflitti di competenza, tali da ingenerare una notevole dose di confusione amministrativa e una endemica dispersione di mezzi e di risorse18. Al confronto l’organizzazione della produzione bellica nella prima guerra mondiale (che pur venne allestita su due piedi e fu afflitta da non poche “guerre parallele” fra alcuni grandi gruppi d’interesse) fu un modello di singolare efficienza.

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    decrepito (i capitolati d’appalto risalivano al 1937), e tuttavia si era dovuto faticare molto per far accettare allo Stato maggiore una modifica di peso sino a otto tonnellate. Oltretutto, i reparti che li avevano avuti in dotazione non erano motorizzati che in minima parte e le commesse passate alla Fiat non erano andate più in là di un centinaio di unità, ripartite in dieci esemplari al mese. In sostituzione del carro leggero da tre tonnellate, armato di due mitragliatrici e difeso da una corazza che arrestava solo il tiro della fucileria, la famosa “scatoletta di sardine”, la Fiat-Ansaldo aveva proposto nel settembre 1938 un carro da cinque tonnellate, meglio munito e protetto; ma il progetto era stato respinto, e poiché le due aziende avevano continuato a proprie spese a costruirne dei campioni, il ministero della Guerra era intervenuto per autorizzarne la fabbricazione soltanto per la richiesta dei governi esteri. Quanto ai carri medi, l’andamento delle operazioni belliche in Spagna aveva dimostrato — secondo i dirigenti della Fiat — la necessità di aumentare tonnellaggio, velocità e protezione dei carri. Ragion per cui la società torinese aveva pensato di accantonare il carro “M 11” per proporne un altro, l’“M 13” da 14 tonnellate e mezzo. Ma come era avvenuto per il carro “L 6”, così anche per quest’ultimo modello non era stata presa alcuna decisione da parte dell’autorità militare, che aveva preferito risparmiare soldi e scorte di benzina. D’altra parte continuò a prevalere l’idea che non si dovesse superare un certo tonnellaggio per via — così si legge nel documento della Fiat — dell’“ossessione del ponte militare in dotazione al Genio Pontieri” .

    Ferma era rimasta anche la produzione di autoblindo-mitragliatrici, i cui campioni erano stati allestiti nel secondo semestre del 1937: alcuni esemplari erano finiti alla polizia coloniale, ma l’iniziativa non aveva avu

    to altri sviluppi. In conclusione, al settembre 1939 la Fiat aveva in corso di produzione per l’esercito italiano un solo tipo di carro armato, l’“M 11” , che peraltro sarebbe uscito dalle officine soltanto nella tarda primavera del 194020.

    Quanto all’autotrasporto militare, la situazione non era meno arretrata, dato che decine di milioni continuavano ad essere spesi a foraggiare e custodire un vastissimo parco di “trazione animale” . Soltanto dopo ripetute pressioni di Balbo si era evitato di imbarcare per la “quarta sponda” vecchi automezzi, buoni tutt’al più per le strade alpine, con motori che si usuravano dopo 2.000 km e con ruote che si insabbiavano appena fuori dalla strada litoranea. Scarse e pressoché insignificanti erano le novità pure nei trattori d’artiglieria. L’assioma che le artiglierie divisionali dovessero rimanere ippotrainate era duro a morire. Soltanto nel 1937 s’era deciso di adottare un nuovo modello, il “Fiat Spa TL”. Ma lo Stato maggiore ne aveva poi limitato la velocità e il peso quando pur s’era- no aumentate le bocche da fuoco da trasportare. Quanto all’artiglieria campale, soltanto nel giugno 1939 s’era deciso di sostituire con un mezzo più veloce il trattore Fiat-Pavesi, che portava la data del 1930, e di cui erano disponibili comunque un migliaio di esemplari.

    Di fatto, nel settembre 1939, erano in lavorazione alla Fiat non più di nove veicoli da combattimento al mese, tra carri armati e mezzi cingolati, e 39 “unità speciali motorizzate” . Tutto sommato, le ordinazioni per l’esercito, come risulta dalle tabelle interne di “assegnazione”, erano state di sole 2.821 unità contro le 1.852 del 1938, quando venticinque anni prima alla vigilia di un’altra guerra, fra il 1914 e il 1915, le commesse avevano superato la cifra di 4.200 unità. Il quantitativo complessivo della produzione

    20 Per tutto ciò cfr. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, cit., p. 561 sgg.

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    era anzi sceso dopo il 1938 da 48.000 a44.000 tonnellate. E, se pur la Spa aveva allestito 3.090 autocarri militari, non si era andati in pratica molto più in là, in due anni, di quanto era stato approntato fra l’autunno 1935 e l’estate del 1936 per una guerra coloniale come quella abissina; mentre s’era costruito soltanto il doppio dei mezzi che nel 1937 erano finiti in Spagna al seguito dei “volontari” della milizia fascista o alla fanteria di Franco.

    Altrettanto modesto era il carnet di ordinativi passati alla Fiat dalla marina e dall’aeronautica. La sezione Grandi Motori, dopo aver costruito nei primi mesi del 1938 sei apparati di propulsione per nuovi sommergibili, aveva finito per ripiegare sulle lavorazioni per la marina mercantile (che continuavano pertanto a coprire il 60 per cento della sua produzione) vendendo gran parte dei suoi articoli all’estero e appoggiandosi per il resto alle compagnie di navigazione ad essa collegate. Quanto all’aviazione, non essendo arrivate nuove disposizioni da Roma, sino a metà del 1939 si era continuato a sperimentare un nuovo motore da corsa di 16 cilindri ad acqua raffreddata (avrebbe dovuto battere il record sportivo di Agello del 1932) e a costruire il caccia “CR 32”. Solo dalla seconda metà del 1938 era andato in lavorazione il “CR 42” i cui primi dieci esemplari erano finiti l’anno dopo in Ungheria e altri quaranta in Belgio, per tacere della grossa commessa di settantadue velivoli forniti alla Svezia ancora nei primi mesi del 1940. Per fabbricare nuovi aerei a struttura portante sarebbero state indispensabili, in ogni caso, presse di stampaggio e frese più moderne, impianti di cui la Fiat era sprovvista e che il ministero dell’Aeronautica non aveva intenzione di acquistare. I bombardieri erano ancora quelli costruiti per la guerra di Spagna nel 1936. Per di più, nelle commesse statali non aveva trovato posto il ri- fornimento di un adeguato stock di pezzi di ricambio.

    Soltanto il 24 ottobre 1940, a quattro mesi e più dall’inizio della guerra, venne stabilito in un incontro a Roma fra Agnelli e Mussolini un piano di sviluppo della produzione bellica. Questo piano prevedeva la trasformazione per usi bellici o la produzione ex novo di 10.000 autocarri entro la fine dell’anno, l’allestimento di 583 carri leggeri “L 6” e di un centinaio di carri medi “M 13/40”, oltre alla progettazione di un carro pesante. Sarebbe stata elevata, nel frattempo, la quota di fabbricazione dei velivoli da combattimento e dei motori d’aviazione, spingendo al massimo la costruzione del caccia “CR 42” . Anche le acciaierie avrebbero aumentato il loro lavoro con nuovi impianti per la produzione di ghisa dal minerale e di acciai di lega e di qualità, così da superare le difficoltà di rifornimento alle sezioni meccaniche, che “altrimenti — si riconosceva — sarebbero state gravissime”.

    Di fatto soltanto nel corso del 1942, proprio quando le sorti della guerra stavano mutando e le forze italiane erano ridotte sulla difensiva o tagliate fuori da canali sicuri di rifornimento, si raggiunsero gli obiettivi fissati. Nel marzo 1942 la potenzialità mensile della Fiat nella produzione di autocarri, carri armati e unità speciali motorizzate, si presentava infatti più che quintuplicata rispetto alla media dell’inverno 1939 e superiore di quasi cinquecento unità al confronto degli indici mensili del 1941. Ancor più elevati erano stati i risultati raggiunti nei motori d’aviazione con una media mensile di 230 unità contro i 75 del 1939 e i 185 del 1941. In sostanza, soltanto alla fine del primo trimestre del 1942 si stavano raggiungendo quei livelli di produzione bellica che avrebbero consentito in qualche modo di allestire a suo tempo un esercito modernamente attrezzato, e si venivano pianificando anche, con miglior cognizione di causa, alcune cadenze “ottimali” per il prosieguo della produzione bellica: 3.000 fra autocarri e camionette ogni mese, 420 carri armati, 400 unità motorizzate, 100-apparecchi, 400 motori d’aviazione.

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    Ma è anche vero che si continuava a produrre, in alcuni settori, modelli che l’esperienza bellica aveva ormai definitivamente condannato: così per il carro medio “M 11”, male armato e meno veloce dei mezzi similari inglesi impiegati in Libia: o ancora (l’elenco completo sarebbe assai lungo) per gli automezzi speciali “Dovunque 35”, impantanatisi tra il fango e la neve in Russia per la mancanza di ruote motrici anteriori e l’insufficienza dei cingoli. Per altre produzioni belliche, pur essendosene riscontrate da tempo le manchevolezze, si continuava a indugiare in merito alle soluzioni da adottare: ragion per cui mentre la Wehrmacht disponeva di grossi “Panzer” da 35 tonnellate e “l’Armata rossa — faceva notare la direzione della Fiat — aveva già vinto una offensiva invernale con il T 34 da 26 tonnellate”, i comandi militari rimanevano incerti sull’impiego di un carro da 16 tonnellate e rimandavano la riproduzione di un carro armato tedesco da 18 tonnellate, di cui la Fiat s’era assicurata la licenza di fabbricazione.

    Di fatto, un programma più aggiornato di produzioni belliche — predisposto dalla Fiat nel 1942 — in concomitanza con l’attivismo del nuovo capo di Stato maggiore Cavallero e la disponibilità dei tedeschi a fornire brevetti, macchine utensili e materie prime — venne presto arenandosi in seguito al convulso andamento delle operazioni militari. Il crollo di un fronte o l’apertura di un altro valsero infatti a scompaginare qualsiasi piano di produzione industriale, necessariamente a lunga scadenza o di natura troppo specialistica per coprire, tutte insieme, le più svariate esigenze tattiche e operative del momento. Così, per esempio, il semovente 90/53, destinato inizialmente al fronte russo, si troverà dirottato su quello africano per finire poi in Sicilia; l’autocarro “sahariano”, prodotto per la guerra nel deserto, verrà inviato

    di rinforzo ai reparti alpini sulle montagne della Croazia; mentre s’erano persi quasi due anni, tra studi e sperimentazioni, per allestire la produzione di nuovi mezzi cingolati da cinque tonnellate, proprio quando queste unità, che avrebbero dovuto infine entrare in lavorazione nel 1943, non erano più ritenute necessarie dagli enti di impiego21.

    E veniamo alla Cmasa. Quest’azienda, sorta nel 1921 da un’intesa fra il gruppo O- dero-Piaggio e la casa tedesca Dornier per la costruzione di idrovolanti e poi di apparecchi d’impiego militare, aveva messo a punto nel 1936, di concerto con la Fiat, il “G 50”, un apparecchio da caccia monoposto, interamente metallico ad ala bassa, con un motore stellare da 840 HP, dalla velocità massima di quasi 500 km all’ora. Di questo velivolo, progettato dall’ingegner Giuseppe Gabrielli, furono costruiti dal 1937 parecchie centinaia di esemplari, che assorbirono fino allo scoppio della guerra quasi tutta la produzione del cantiere di Marina di Pisa. In quel periodo la Cmasa annoverava 1.500 dipendenti, tre volte tanti quelli dell’inizio degli anni trenta. E il governo le aveva commissionato la costruzione di una squadriglia da bombardamento, da lancio e da ricognizione rapida (cosa che stava particolarmente a cuore a Mussolini e a Balbo). Ma in fatto di modelli l’azienda continuava a risentire di forti sbalzi nell’indicazione delle caratteristiche e delle finalità della produzione. E queste oscillazioni risultavano tanto più gravi per il fatto che la Cmasa aveva provveduto dopo il 1934 a un notevole aumento delle sue potenzialità acquistando nuovi macchinari e costruendo nuovi capannoni di lavorazione (in effetti, il parco macchine si sarebbe più che triplicato entro il 1940 sino a richiedere l’ampliamento degli stabili su un’area di oltre 37.000 mq).

    Di fatto, nonostante il notevole impegno profuso in questi investimenti, la Cmasa s’e-

    Ivi. I documenti dell’archivio Fiat recano la dizione “Fiat. Andamento del lavoro Fiat dopo gli avvenimenti dell’ago- sto-settembre 1939. Novembre 1939-XVIII”, e “Fiat-Spa Motorizzazione militare 1939-1943, Torino, 5 gennaio 1944”.

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    a dovuta accontentare, sino al 1935, di ap- rontare solo una ventina di apparecchi, a ausa di varie divergenze insorte fra i respon- abili della marina in merito alla definizione ei requisiti di alcuni idrovolanti. Le lavora- ioni erano poi riprese con una certa lena agli nizi del 1936 intorno alla costruzione di un pparecchio-scuola e di un monoplano da ombardamento. Ma presto, all’indomani ella guerra in Etiopia, era sopraggiunta una uova marcata flessione dell’attività per ancanza di ulteriori ordinativi e di precise

    disposizioni ministeriali. In pratica soltanto alla vigilia della guerra la Cmasa potè far affidamento su commesse regolari e su progetti meno frammentari.

    Questa discontinuità nelle direttive del governo creò notevoli problemi anche in ordine al reclutamento e all’addestramento del personale. Un buon operaio qualificato non lo si poteva formare su due piedi. La Cmasa aveva organizzato dei corsi interni di preparazione professionale sotto la guida tecnica di ingegneri e capi reparto. Ma nel 1939, in seguito all’ondata di commesse riversatasi improvvisamente sulle sue officine, si trovò a dover far fronte, dall’oggi al domani, all’addestramento di un migliaio di operai, a cui se ne aggiunsero altrettanti tra la fine del 1939 e i primi mesi del 1940. Per coprire il fabbisogno di manodopera si ricorse anche a gente che non aveva alcuna dimestichezza col lavoro in fabbrica reclutando numerose persone nelle campagne, mentre per la formazione di nuovi quadri intermedi si dovette creare una scuola tecnico-pratica e attendere il compimento del relativo corso triennale, col risultato che i primi venti elementi furono disponibili soltanto nel luglio 1943, poco prima della sospensione delle lavorazioni.

    In queste condizioni fu una fortuna per la Cmasa che i suoi progettisti avessero messo a punto fin dal 1937 un apparecchio da caccia

    come il “G 50” e un idrovolante da ricognizione come l’“RS 14”. Di fatto sul primo tipo di apparecchio, nella sua versione originaria, si concentrarono nel 1940 le richieste dei comandi militari, onde ne vennero costruiti in quell’anno ben 153 (ma intanto 35 erano già andati alla Finlandia), mentre si dovettero allestire in tutta fretta altri 60 velivoli dello stesso genere con alcuni perfezionamenti (i motori stellari adottati in un primo tempo dai responsabili dell’aviazione non erano infatti abbastanza potenti per far volare a oltre 650 km all’ora apparecchi di duralluminio carichi di cannoncini e mitragliatrici pesanti). L’aeronautica avrebbe voluto disporre a tambur battente di una produzione mensile di almeno 90 esemplari di quest’ultimo modello. Quanto al secondo tipo di apparecchio, I’“RS 14”, esso non potè essere costruito in grande serie se non molto tardi, nel corso del 1942, e soltanto l’anno dopo venne iniziata (per esser subito sospesa col sopraggiungere dell’armistizio) la costruzione dell’ultimo modello di caccia, il “G 55” progettato dalla Fiat, di cui il ministero della Marina aveva chiesto ben un migliaio di esemplari22.

    Anche l’esperienza della Whitehead è particolarmente significativa. Lo stabilimento di Fiume, passato nel 1924 sotto la gestione del gruppo Orlando, era uno dei principali produttori di siluri su scala mondiale e vantava in questo campo una specializzazione tecnica di prim’ordine. Alla vigilia della guerra la Whitehead marciava a pieno regime: la produzione mensile di siluri, giunta nel 1939 a una media di 35 pezzi, si accrebbe ulteriormente nel corso dell’anno successivo. In questo settore, a differenza che in altri, il ministero della Marina non aveva lesinato né le commesse né le anticipazioni finanziarie. Fin dal 1935 era stato impostato infatti un piano governativo per la costruzione di un gran nu

    22 Cfr. in Archivio della Cmasa, Marina di Pisa, Bilanci e relazioni 1935-1943', e fase. Dati di produzione e varie.

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    mero di sommergibili e di piccole unità di superficie che, se pur subì in seguito varie interruzioni, portò l’Italia nel giugno 1940 a possedere una delle più numerose flotte sottomarine nel mondo. In particolare, lo stabilimento di Fiume era giunto a dotare i suoi siluri con una carica di esplosivo pari a 270 kg, in grado di scardinare anche le migliori reti di protezione subacquea. Inoltre esso aveva conseguito notevoli progressi nel lancio di siluri dagli aerei, specialità che fino a qualche anno prima era appannaggio pressoché esclusivo della industria inglese.

    Di fatto la produzione crebbe a vista d’occhio fin dai primi mesi del 1940 per raggiungere l’anno dopo, con 3.000 dipendenti, la media mensile di 300 siluri, quasi otto volte tanti quanti se ne producevano nel 1938; alcuni di essi erano dotati di motore elettrico, per rendere invisibile la scia dovuta all’emissione d’aria, o erano muniti di congegni rivelatori di rumori che modificavano la rotta del siluro orientandola verso la provenienza dei rumori prodotti dalle eliche della nave nemica.

    Senonché l’opposizione dell’aeronautica ad operazioni congiunte con la marina, e in particolare i suoi ripetuti rifiuti alle proposte di formare speciali reparti di aerosiluranti, vanificarono gli sforzi compiuti dalla White- head nel campo degli avio siluri. Essa era giunta a produrre in questo campo un’arma micidiale per potenza ed efficacia, l’“S 79” talmente superiore che la Luftwaffe ne aveva ordinati subito nel giugno 1940 circa 300 esemplari. Soltanto nel 1941 l’aeronautica si ricredette ma quando ormai il grosso della produzione della Whitehead si stava concentrando sulle officine consociate della Motofi- des a Livorno che, non possedendo ancora un proprio pontile di lancio, era costretta a

    inviare a Fiume i singoli pezzi per il loro collaudo23.

    Si potrebbe fare un lungo elenco di vicende analoghe a dimostrazione del fatto che non furono soltanto la penuria di materie prime, o il loro irregolare rifornimento, e nemmeno le difficoltà del bilancio statale a far quadrare i conti delle spese di riarmo, le uniche cause dell’inferiorità militare dell’Italia fascista. Un peso decisivo ebbero pure la scarsa intraprendenza o il conservatorismo delle alte gerarchie militari, i loro mutevoli atteggiamenti in merito ai tipi di armamento da adottare e, non ultima, l’incapacità del regime fascista di scegliere tra guerra difensiva e guerra di movimento, fra numero ed efficienza. Va aggiunto che il sistema industriale — sebbene annoverasse impianti non ancora pienamente attrezzati e quindi potenzialmente in grado di raggiungere indici di produzione più elevati24 — accusava alcuni squilibri di ordine strutturale, sia per l’estrema varietà di prodotti sia per la notevole dispersione di attività in piccoli esercizi. Ciò che pregiudicò nel lungo periodo — al di là degli interessi di bottega che pur non mancarono — la possibilità di concentrarsi su produzioni standardizzate e per grandi stock.

    Di fatto l’industria italiana, dopo l’entrata in guerra, sino all’8 settembre 1943, non riuscì a fornire alla marina che un sesto del tonnellaggio stabilito nei piani originari, mentre gli aerei costruiti nello stesso periodo — in numero di 10.500 — superarono di sole3.000 unità quelli costruiti fra il 1935 e il 1939. Quanto all’artiglieria, al confronto delle 250 bocche da fuoco mensili previste nel 1939, se ne costruirono appena la metà nel periodo di massima produzione, ossia nel 1942. E ciò non tanto per l’inadeguatezza de-

    23 Cfr. in Archivio della Motofides — Whitehead, Livorno, Bilanci e relazioni 1932-1943; e cart. Documenti vari.24 Cfr. Renato Covino, Giampaolo Gallo, Enrico Mantovani, Aspetti delle trasformazioni della base industriale italiana (1937-1947), in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche di Perugia”, 1973-1976; n. 13, nonché Valerio Castronovo, L ’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Milano, Mondadori, 1980.

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    gli impianti ma per la presunzione dei comandi militari di poter disporre entro scadenze estremamente compresse non solo di ingenti quantità di materiali, ma anche di prodotti continuamente modificati e perfezionati in nuove versioni, con ben scarsa considerazione sia dei tempi di progettazione e lavorazione, sia dei costi di produzione e di altri oneri finanziari connessi all’approvvigionamento di materie prime o surrogati.

    In verità, sino al marzo 1942, sull’onda dell’ultimo slancio offensivo del Tripartito, alcuni imprenditori nutrirono ancora qualche speranza di successo, grazie alle nuove prospettive di sfruttamento delle risorse locali apertesi in Jugoslavia e in altre regioni balcaniche, e ai progetti tedeschi di dirottamento verso il Mediterraneo del petrolio dai ricchi bacini iraniani e irakeni25. Inoltre l’industria pesante, malgrado i modesti mezzi del Fabbriguerra, riteneva di poter trattare e predisporre — in concomitanza con l’attivismo del nuovo capo di Stato maggiore Cavallero26 e le disponibilità dell’Okw di Berlino — un programma più aggiornato di produzioni belliche assumendo a modello i nuovi investimenti governativi tedeschi. In realtà non c’erano in Italia risorse sufficienti per un processo continuativo di formazione del capitale

    analogo a quello che caratterizzava le economie di guerra della Germania e dell’Inghilterra27. Era invece chiaro da anni (gli stessi industriali più avveduti lo avevano in altri tempi rilevato) che la separazione dell’Italia dal mercato mondiale aveva arrecato gravi disfunzioni nell’approvvigionamento di scorte e non meno pesanti motivi di debolezza al sistema produttivo. Sicché, già all’inizio del conflitto, sarebbe stato difficile pensare di poter alimentare una robusta economia di guerra, se non per un periodo di tempo molto limitato28.

    Di fatto l’andamento decrescente del settore industriale segnò in maniera inequivocabile le tappe del fallimento della guerra fascista. L’indice generale della produzione industriale che, fatto il 1938 uguale a 100, era cresciuto di 10 punti nel 1940, s’abbassò a 89 nel 1942 e precipitò quindi a poco meno di 70 nel 1943. Ma fin dai primi mesi di quell’anno sotto i bombardamenti a tappeto degli Alleati sui grandi centri industriali, erano andati in fumo gli ultimi propositi del regime di ridar fiato alla “guerra parallela” accanto all’alleato nazista. Cominciarono da allora altre “grandi manovre”: quelle della classe industriale per divorziare dal regime, per separare in tempo le proprie responsabilità da quelle del fascismo.

    Valerio Castronovo

    25 Sui tentativi compiuti prima del conflitto dall’Italia e dalla Germania per assicurarsi una certa area d’influenza politica in Medio Oriente in funzione dei rifornimenti petroliferi, cfr. Josef Schroder, I rapporti fra le potenze dell ’Asse e il mondo arabo, in “Storia contemporanea”, 1971, n. 1.26 Su cui si veda ora Lucio Ceva, La condotta italiana delta guerra, Cavallero e il Comando Supremo (1941-1942), Milano, Feltrinelli, 1975.27 Si veda per il passaggio dell’apparato produttivo tedesco dalle potenzialità iniziali (commisurate al “Blitzkrieg”) a un impegno bellico di lunga durata, Alan S. Milward, L ’economia di guerra della Germania, Milano, Angeli, 1972; per il resto, cfr. E.P. Hargreaves e M.M. Gowing, History o f the Second World War: Civil Industry and Trade, London, Her Majesty’s Stationery Office, 1952; oltre a W. Ashworth, History o f the Second World War: Contracts and Finance, London, Her Majesty’s Stationery Office, 1953.28 Cfr. C. Favagrossa, Perché perdemmo ta guerra, cit.; ma si veda anche l’incisivo profilo di Giorgio Bocca, Storia dell’Italia nella guerra fascista, Bari, Laterza, 1970.