L'abbandono e la rinuncia nell'adozione

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ADOTTIAMO L’ADOZIONE 1° Ciclo di Psicoaperitivi e proiezione di film in tema di Adozione ioconvoi.wordpress.com Ada Moscarella Psicologa, Mediatrice Familiare [email protected] www.ampsico.it http://mifacciobene.wordpress.com Abbandono o rinuncia? di Ada Moscarella Ho riflettuto molto sul significato di queste due parole, per capirne il senso. Ho pensato a quando nella mia vita ho abbandonato o rinunciato. E' stato per me inevitabile pensare a queste due parole nella mia esperienza di terapeuta. Mi è allora tornato alla mente il lungo periodo passato al Policlinico, con alcolisti e tossicodipendenti. Casi spesso complicati, doppie diagnosi, situazioni multiproblematiche, e spesso sentivo dire - Oh sì, per questo non c'è proprio niente da fare! - Non ho mai abbandonato questi pazienti, seppure la tentazione fosse forte. Ma col tempo ho capito che queste terapie potevano funzionare solo nel momento in cui fossi stata capace, io con i miei pazienti, di rinunciare. Rinunciare ad esempio che l'alcol sia qualcosa che si può gestire, rinunciare all'idea che una vita da alcolista possa d'incanto tornare la stessa, identica, a quella che c'era prima della dipendenza... Allora ho tolto il primo strato, e ho scoperto che c'è una profonda differenza tra l'abbandono e la rinuncia: LA SPERANZA.

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L'abbandono e la rinuncia nell'adozione. La rinuncia può essere fonte di speranza?

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Abbandono o rinuncia?

di Ada Moscarella

Ho riflettuto molto sul significato di queste due parole, per capirne il senso. Ho pensato

a quando nella mia vita ho abbandonato o rinunciato. E' stato per me inevitabile

pensare a queste due parole nella mia esperienza di terapeuta. Mi è allora tornato alla

mente il lungo periodo passato al Policlinico, con alcolisti e tossicodipendenti. Casi

spesso complicati, doppie diagnosi, situazioni multiproblematiche, e spesso sentivo dire

- Oh sì, per questo non c'è proprio niente da fare! -

Non ho mai abbandonato questi pazienti, seppure la tentazione fosse forte. Ma col

tempo ho capito che queste terapie potevano funzionare solo nel momento in cui fossi

stata capace, io con i miei pazienti, di rinunciare. Rinunciare ad esempio che l'alcol sia

qualcosa che si può gestire, rinunciare all'idea che una vita da alcolista possa d'incanto

tornare la stessa, identica, a quella che c'era prima della dipendenza...

Allora ho tolto il primo strato, e ho scoperto che c'è una profonda differenza tra

l'abbandono e la rinuncia: LA SPERANZA.

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Messa alle strette com'ero da questi pazienti per cui non c'era niente da fare, spinta da

quella lieve arroganza e oppositività che mi caratterizza..., ho fatto studi approfonditi

sulla speranza, perché diffidavo, in fondo, di quel "non c'è niente da fare"...

Così ho fatto una scoperta interessante. La speranza non ha a che fare con l'ottimismo o

i buoni sentimenti. L'origine della parola greca da cui deriva "speranza" è "elpizo", che

significa IO SUPPONGO, io ipotizzo che...

E possiamo fare tante più ipotesi quanto più siamo capaci di non affezionarci

ostinatamente ad esse: cioè abbiamo tanto più speranze quanto più sappiamo

rinunciare a un'ipotesi per un'altra.

Così l'adozione, da parte della famiglia, nasce da una rinuncia. Come tale di certo

dolorosa e carica di incertezze, ma generatrice di speranze.

E' importante che la coppia possa vivere questo aspetto, perché le sarà molto utile nel

momento dell'incontro col bambino, il quale, invece, viene da una profonda esperienza

di abbandono.

Al netto dei reali fatti che hanno portato quel bambino fuori dalla sua famiglia di

origine, dobbiamo ricordarci che per il bambino tutto il mondo è in ciò che gli accade:

lui non ha la possibilità di dire "io suppongo", non ha la possibilità di immaginare

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alternative. Il suo mondo è nell'abbandono ed è importante, quindi, che entri in

contatto con la capacità di sperare dei suoi due nuovi genitori, che hanno saputo

rinunciare.

La relazione genitori-bambino, in generale nella famiglia "naturale", in maniera più

amplificata nelle famiglie adottive, si caratterizza per una costante dialettica tra:

- IMMAGINARE L'ALTRO => ossia "colonizzarlo" con le proprie proiezioni e

aspettative

- INCONTRARE L'ALTRO => ossia riconoscere l'altro, le distanze e le inevitabili

quote di estraneità

La guida all'interno di questa costante dialettica deve essere la capacità dei genitori di

"pensare i pensieri del bambino" (ossia...supporli!). Perché se indugiamo

nell'immaginazione, abbandoniamo il bambino a se stesso di nuovo... solo quando lo

incontriamo, quando possiamo interessarci a quella quota di estraneità, quando

possiamo interessarci alla sua reale immagine, non restando affezionati alla nostra idea

di come vorremmo che fosse, utilizzando la nostra capacità di rinunciare, possiamo

stare autenticamente con lui e permettere a lui di essere autentico con noi.

I rischi maggiori che si corrono nell'incontro col bambino, infatti sono:

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- Sottovalutare il disorientamento traumatico del bambino, che nel caso

dell'adozione internazionale cambia Paese o addirittura Continente

- Distrarre l'attenzione dal processo di distacco che il bambino sta vivendo in

favore della concentrazione sul processo di attaccamento alla nuova famiglia (->

i segreti e le bugie) => "LUNA DI MIELE": il bambino pur di adattarsi alla nuova

condizione, consapevole che gli occorre per sopravvivere e che è irreversibile,

cerca un iperadattamento rapido => azzeramento dell'identità precedente (Il

caso di Sergio).

Vorrei allora concludere con un pensiero per le coppie che stanno affrontando questo

percorso. Vorrei dire loro che non devono avere paura della paura, che il timore è per la

speranza compagno inseparabile, e che c'è un modo formidabile per rimpicciolire i

timori e amplificare le speranze: non fare da soli. Le relazioni sono la più grande fonte

di ipotesi, supposizioni, possibilità. Sono quindi la migliore e praticamente inesauribile

fonte di speranza!