La tutela della professionalità del dirigente pubblico Barra/Resources/Tesi Laurea Francesca... ·...

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Facoltà di Giurisprudenza Cattedra di Diritto del Lavoro La tutela della professionalità del dirigente pubblico Relatore: Chiar.mo Prof. Roberto Pessi Candidato: Francesca Mastroberardino Correlatore: Matricola 080753 Chiar.mo Prof. Antonio Pileggi Anno Accademico 2010/2011

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Facoltà di Giurisprudenza

Cattedra di Diritto del Lavoro

La tutela della professionalità del

dirigente pubblico Relatore:

Chiar.mo Prof. Roberto Pessi Candidato:

Francesca Mastroberardino

Correlatore: Matricola 080753

Chiar.mo Prof. Antonio Pileggi

Anno Accademico 2010/2011

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1

INDICE

INTRODUZIONE………………………………………………..………………………….6

CAPITOLO I - LAVORO PUBBLICO E PRIVATO: LE RAGIONI STORI-

CHE DELLA DIVERSITA’……………………………………………………..………10

1. L’Amministrazione dell’Italia Unita e il “piemonti-

smo”…………………………………………………………………………………………….11

2. Il primo testo unico sul pubblico impiego e la locatio opera-

rum……………………………………………………………………………………………..16

3. Il periodo fascista: la fedeltà al partito e non allo Sta-

to………………………………………………………………………………………………...24

3.1. Le riforme De Stefani del biennio 1923 -

1924…………………………………………………………………………….…….32

4. Dal 1923 al 1948: la lunga stasi dell’Amministrazioni Italia-

na………………………………………………………………………………………………..37

5. L’art. 97 della Costituzione: i lavori preparatori e la “costituzionaliz-

zazione” della diversità tra lavoro pubblico e privato………………………..41

6. Il testo unico del 1957………………………………………………………………..51

7. Le leggi del 1968 e del 1970: l’ingresso dei diritti sindacali nella Pub-

blica Amministrazione……………………………………………………………..……56

2

8. Il “rapporto Giannini”, ovvero il manifesto della privatizzazio-

ne………………………………………………………………………………………………..61

9. La privatizzazione del pubblico impiego: dalla legge n. 421/1992 al

testo unico n. 165/2001…………………………………………………………………69

9.1. La prima fase della privatizzazione: il D.L.gs. n.

29/1993……...................................................................................70

9.2. La seconda fase della privatizzazione: il D.Lgs. n.

80/1998…………………………………………………………………………..…74

10. Dal testo unico n. 165/2001 alla “controriforma” Brunet-

ta………………………………………………………………..………………………………80

CAPITOLO II - SIMBOLOGIA E IRREALTA’ DI UN GEMELLAGGIO:

DIRIGENTE PRIVATO E DIRIGENTE PUBBLICO PRIVATIZZA-

TO……………………………………………………………………………………………….88

1. Una (non) definizione di “dirigente”……………………………………………88

2. Dirigenza pubblica privatizzata e dirigenza privata: un iniquo con-

fronto tra legislazioni…………………………………….………………………………92

3. Verso una ri - publicizzazione della dirigenza (ancora) “privatizza-

ta”?..........................................................................................................107

CAPITOLO III - IL DIRIGENTE PUBBLICO TRA TUTELA REALE E

TUTELA OBBLIGATORIA……………………………………………………………113

3

1. Dirigente pubblico privatizzato e dirigente privato: la fine del rappor-

to di lavoro………………………………………………………………………………….114

2. La responsabilità dirigenziale: le novità sostanziali e procedurali in-

trodotte dal D.Lgs. 150/2009………………………….…………………………….117

2.1. Il ciclo di gestione della performance: cenni……………..…..123

2.2. Il comitato dei Garanti………………………………………………..126

3. L’inapplicabilità dell’art. 2103, C.C. agli incarichi dirigenziali: un de-

mansionamento legalizzato.…………………………………………………………129

4. L’impossibilità di rinnovo e la revoca dell’incarico: le sanzioni “espul-

sive” del rapporto di servizio e “conservative” del rapporto di lavo-

ro……………………………………………………………………………………………….138

4.1. La tutela giurisdizionale tra diritto alla rassegnazione

dell’incarico e risarcimento del danno…………………………………140

4.2. Riorganizzazione degli uffici e revoca dell’incarico dirigen-

ziale. Quale tutela?......................................................................148

4.3. La tutela reale e la sua effettività………………………………….154

4.4. Gli incarichi dirigenziali e il fantasma “spoil

system”…………………………………………………………………………….160

5. Licenziamento del dirigente pubblico privatizzato e privato: tutele e

problemi a confronto……………………………………………………………………167

5.1. Il dirigente privato: la libera recedibilità e la nozione di giu-

stificatezza……………………………………………………………………..…172

5.2. Il dirigente pubblico privatizzato e l’applicazione della tutela

reale………………………………………………………………………………….177

4

6. Un caso particolare: se l’ambasciatore porta pena………………………181

CONCLUSIONI…………………………………………………………………………..190

BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………………….194

RINGRAZIAMENTI…………………………………………………………………….257

5

6

INTRODUZIONE

L’inizio di questa tesi è anche la sua fine. L’ispirazione per il suo contenuto,

infatti, è arrivata conoscendo il caso che da vita all’ultimo capitolo di questo

lavoro. E le domande che ne costituiscono la base sono: esiste una professiona-

lità del dirigente pubblico? Se si, chi la garantisce? Il legislatore? O la giuri-

sprudenza? Ed, infine, si è sviluppato in Italia quello che, nelle tradizioni an-

glossasoni, è definito New Public Management? In altre parole, si è finalmente

riusciti a compiere il salto da burocrate a manager dell’apparato pubblico?

La storia dell’Amministrazione Italiana, il contesto in cui si è sviluppata e il

modo in cui la classe politica si è sempre rapportata ad essa ne hanno determi-

nato il suo modo di essere fin dall’Unità d’Italia.

A differenza di quanto accaduto nei paesi europei a noi geograficamente più

vicini, l’apparato amministrativo italiano è sempre stato visto solo come uno

strumento per realizzare i fini della classe politica di volta in volta al potere,

senza coinvolgimento alcuno nella definizione degli obiettivi dello Stato.

D’altronde, l’amministrazione pubblica è cresciuta, numericamente, non per far

fronte alle nuove esigenze dell’Italia nascente, ma per permettere ai Governi

post-unitari di concentrare le loro risorse sul nord – Italia, senza che gli abitanti

7

delle regioni meridionali, i quali in 20 anni colonizzarono letteralmente gli ap-

parati burocratici, se ne lamentassero. Così, per metterli a tacere, si sviluppò un

modello di impiegato pubblico (che diede vita alla rappresentazione teatrale,

ma non troppo, di Monsù Travet), legato inesorabilmente al posto fisso a basso

stipendio, non partecipe delle sorti dello Stato, estraneo alla realizzazione

dell’efficienza e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Questo

approccio, che ancora oggi immobilizza l’apparato statale, fa diventare il buro-

crate un singolo tra molti, occupato e preoccupato di difendere esclusivamente

il posto di lavoro alle dipendenze dello Stato, e non una parte del tutto. Ne con-

segue che la sinfonia dell’ “orchestra amministrativa” risulta aritmica e stonata,

incapace di realizzare una melodia armoniosa, fuori tempo con le esigenze del-

la collettività.

In circa vent’anni si sono susseguite 4 macro-riforme del pubblico impiego.

L’ultima, in ordine di tempo ha, ancora, tra i suoi obiettivi quello di realizzare

il buon andamento e l’efficienza della Pubblica Amministrazione.

Qualcosa, evidentemente, non ha funzionato.

La dirigenza, che è stata individuata dal legislatore come la leva delle riforme,

come la categoria in grado di determinare l’ingresso nella Pubblica Ammini-

strazione delle “capacità e dei poteri del privato datore di lavoro”, si sente e-

8

stranea alle funzioni che le sono attribuite, finendo per subire un cambiamento

che non vuole, sottoposta a controlli e a sua volta controllore, imbrigliata nella

rigida gabbia di compiti e competenze predisposta dal legislatore, che poco ha

a che fare con la discrezionalità di cui gode il dirigente privato.

E allora ci si chiede: basta una mera formula legislativa a trasformare un buro-

crate in manager?1

1 Una risposta prova a darla F. CARINCI, Politica e tecnica della giurisprudenza costituzionale in tema di privatizzazione del pubblico impiego, Napoli, Esi, p. 1, 2006: “Come sempre una riformulazione delle regole del gioco non è in grado di camminare su gambe proprie, perché occorre che i giocatori vi si adeguino; il che richiede un difficile cambio di mentalità e di cul-tura; tanto più qui, nell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, caratterizza-to da un elevato conformismo burocratico, da un forte invecchiamento del personale, da un elevato condizionamento sindacale ed elettorale”.

9

10

CAPITOLO PRIMO

LAVORO PUBBLICO E PRIVATO: LE RAGIONI STORICHE DELLA

DIVERSITA’

SOMMARIO: 1. L’Amministrazione dell’Italia Unita e il “piemontismo”.

– 2. Il primo testo unico sul pubblico impiego e la locatio operarum. –

3. Il periodo fascista: la fedeltà al partito e non allo Stato. – 3.1. Le ri-

forme De Stefani del biennio 1923 -1924. – 4. Dal 1923 al 1948: la lunga

stasi dell’Amministrazioni Italiana. – 5. L’art. 97 della Costituzione: i

lavori preparatori e la “costituzionalizzazione” della diversità tra lavoro

pubblico e privato. – 6. Il testo unico del 1957. – 7. Le leggi del 1968 e

del 1970: l’ingresso dei diritti sindacali nella Pubblica Amministrazione.

– 8. Il “rapporto Giannini”, ovvero il manifesto della privatizzazione. –

9. La privatizzazione del pubblico impiego: dalla legge n. 421/1992 al

testo unico n. 165/2001. – 9.1. La prima fase della privatizzazione: il

11

D.L.gs. n. 29/1993. – 9.2. La seconda fase della privatizzazione: il

D.Lgs. n. 80/1998. – 10. Dal testo unico n. 165/2001 alla “controrifor-

ma” Brunetta.

1. – L’Amministrazione dell’Italia Unita e il “piemontismo”.

All’origine, nel 1861, l’unità d’Italia esisteva solo sulla carta. Nella neonata

penisola italiana non vi era traccia di istituzioni che avessero, quantomeno, sa-

pore nazionale: non una magistratura unitaria e coesa, convivendo ancora ben

quattro Corti di Cassazione disseminate lungo la penisola2; non un' unica ossa-

tura del credito, restando in vita sei istituti parapubblici, ereditati dagli antichi

Stati, dotati del privilegio dell’emissione della carta moneta;; non una legisla-

zione unitaria, rimanendo in vigore i codici preunitari e una serie di leggi a ba-

2 Corte di Cassazione di Napoli, Corte di Cassazione di Firenze, Corte di Cassazione di Torino, Corte di Cassazione di Roma. Sulle Corte di Cassazione, definitivamente riunificate nel 1923 a M. MECARELLI, Le Corti di Cassazione nell’Italia unita. Profili sistematici e costituzionali del-la giurisdizione in una prospettiva comparata (1865-1923), Milano, Giuffrè, 2005; G. FERRA-

RI, L’evocazione di un fantasma del passato: la pluralità delle Corti di Cassazione, in Scritti in memoria di Ugo Pioletti, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 253-258.

12

se ed applicazione locale; non un catasto nazionale; non un unico sistema me-

trico; non un sistema moderno e centralizzato di prelievo del credito.

L’apparato amministrativo e burocratico, che, negli altri paesi europei, aveva

svolto un ruolo fondamentale nella costruzione di uno Stato unito improntato a

logiche unitarie, in Italia “parlava”, almeno fino all’inizio del nuovo secolo, la

lingua piemontese. E non si tratta (solo) di metafora.

Negli anni sessanta dell’Ottocento, a unificazione avvenuta, un colto funziona-

rio di estrazione napoletana, Giuseppe Giannelli, pubblicò uno dei primi pam-

phlet3 contro il “piemontismo4”, denunciando il rigido formalismo dei regola-

menti, l’attitudine all’obbedienza cieca e assoluta degli impiegati di Torino, la

pretesa di esprimersi in francese, l’impoverimento della lingua italiana in for-

mulari e frasi fatte e l’abitudine ad attendere istruzioni dall’altro e dal centro.

Piemontese era tutta la burocrazia centrale. Come dimostrò uno studio5 di

Francesco Saverio Nitti pubblicato nel 1900, gli alti livelli della burocrazia ri-

masero piemontesi in tutti i settori chiave, almeno sino al primo decennio del

Novecento (quando, come si dirà, ci fu un drastico cambio di rotta). Piemontesi

3 G. GIANNELLI, Storia di un periodo dell’amministrazione italiana, Salerno, 1981. 4 G. MELIS, La nascita dell’amministrazione nell’Italia unita, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2010, 02, p 415. 5 F. S. NITTI, La burocrazia di Stato in Italia. Quali regioni danno un maggior numero d’impiegati?, in La riforma sociale, 1990, pp. 458 ss.

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erano i generali dell’esercito, piemontesi gran parte dei direttori generali dei

ministeri, gli ambasciatori, i capi divisione, la maggior parte dei prefetti. Nitti,

numeri alla mano, faceva notare come, fatto eguale a 100 l’intero “comparto”

degli alti funzionari (magistrati inclusi) il Piemonte fornisse ancora ben il 25,3

% dell’elite, e il Nord il 52,8 % (contro il 15,2 % del Sud e il 6,7 % delle due

isole maggiori)6.

Piemontese era il modello amministrativo di riferimento. Nel quadro di

un’unità solo territoriale, in una moderna Babele, non solo (ma anche) lingui-

stica, l’Italia appena unificata scelse – ma, nel contesto storico di riferimento,

si trattò davvero di “scelta”? – di ispirarsi ai principi, mutuati dalla tradizione

napoleonica, di uniformità e di centralizzazione, che avevano caratterizzato la

riforma cavouriana dell’amministrazione del Regno di Sardegna (legge 23

marzo 1853, n. 1483)7.

6 “Una vera grande burocrazia (almeno per quanto riguarda il numero) esisteva sopra tutto nel Piemonte. Nell’Italia meridionale era grandissimo il numero d’impiegati, ma così povera-mente retribuiti, in condizioni così precarie, che non vi era da formare da essi una vera ammi-nistrazione. Inoltre se l’amministrazione finanziaria, e fino ad un certo punto la magistratura, erano buone, il resto valeva poco. Il grandissimo numero di impiegati del Piemonte dovea formare il nucleo: doveano seguire per necessità di cose la Toscana, la Lombardia, la Liguria, il Veneto e le regioni dell’Italia centrale”, così F. S. NITTI, Quali regioni danno un maggior numero d’impiegati?, in La riforma sociale, 1990, pp. 458 ss. 7 La legge, ispirata al modello belga, si occupava dell’ “amministrazione dello Stato” nel Titolo I, composto di solo due articoli: “1. I Ministri provvederanno all’Amministrazione centrale dello Stato per mezzo di Uffizi posti sotto l’immediata loro direzione. Gli Uffizi relativi ad un medesimo ramo d’Amministrazione, e dipendenti da un solo Ministero, potranno venire riuniti in Direzioni generali, che faranno tuttavia parte integrante del Ministero. 2. L’ordinamento

14

Piemontesi erano la maggior parte dei prefetti, degli ambasciatori, dei generali

dell’esercito, dei direttori generali dei ministeri, dei capi divisione.

L’inversione di tendenza, in termini quantitativi8 e geografici, si colloca

all’inizio del nuovo secolo, a quarant’anni dall’unità d’Italia: gli storici del di-

ritto amministrativo9 collocano il big spurt dell’amministrazione italiana nei

primi anni del 1900, in “coincidenza” con il decollo industriale. Ma non si trat-

tò di semplice coincidenza. L’amministrazione italiana, infatti, crebbe e si svi-

luppò per far fronte ad una crescente richiesta di servizi pubblici connessa alle

nuove esigenze dettate dall’ industrializzazione e non, come accadde ad altri

paesi europei, con finalità di legittimazione delle istituzioni post-unitarie o di

politica di potenza dello Stato.

Oltre all’esplosione numerica, che, nell’arco di 15 anni portò il numero degli

impiegati pubblici ad essere tre volte superiore il dato di inizio secolo, il big

dei Ministeri e degli Uffizi, di cui all’articolo precedente, avrà luogo in modo uniforme quanto ai titoli, gradi e stipendi del personale. Tali titoli e gradi, come pure le altre basi di organizza-zione delle Direzioni generali e degli altri Uffizi interni dei Ministeri, saranno determinati da Regolamento deliberato in Consiglio dei Ministri ed approvato con Decreto Reale da pubbli-carsi ed inserirsi negli Atti del Governo. Non potranno esservi recate variazioni se non nello stesso modo. Gli stipendi annessi ai diversi gradi saranno stabiliti con legge.”. 8 Secondo un censimento i dipendenti dello Stato erano circa 11 mila nel 1876, nel 1882, solo sei anni dopo, il dato superava quota 98 mila. Nel 1914 erano 186.670, con una spesa pubblica pari a 567 milioni di lire. 9 S. CASSESE – G. MELIS, Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880 – 1920), in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1990, 2; G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana. 1861 – 1993, Bologna, Il Mulino, 1996. Ma, prima di tutti, S. CASSESE, Questione amministrativa e questione meridionale: dimensioni e reclutamento della burocrazia dall’unità ad oggi, Milano, Giuffrè, 1977.

15

spurt dell’amministrazione italiana determinò anche un mutamento drastico

della provenienza del corpo burocratico, che passò dall’ essere di origine geo-

grafica prevalentemente settentrionale a prevalentemente meridionale.

Questa “meridionalizzazione” può essere interpretata in un solo modo: fornire

occupazione ai ceti colti e medio-colti del sud-Italia lasciati fuori dal decollo

industriale. Stato e meridione strinsero un patto tacito e mai confessato garanti-

to dallo Stato attraverso quello che i travet, i piccoli impiegati a basso reddito

degli inizi del Novecento, chiamavano “il materasso di crine del 27 del mese10”

(ossia lo stipendio fisso: magari basso, ma in compenso sicuro). All’ “esercito”

dei piccoli impiegati, in gran parte meridionali, lo Stato assicurò la sopravvi-

venza, accontentandosi per lo più di prestazioni di lavoro modeste. Ne ebbe in

cambio la pacificazione sociale del Sud, l’astensione implicita di quelle regioni

ad una strategia dello sviluppo che puntava tutte le sue carte sul polo Torino -

Milano – Genova.

Questa scelta, nel breve periodo, si rivelò fruttuosa. Ma oggi l’amministrazione

italiana ne porta ancora i segni: “il sud, escluso dalla industrializzazione, indi-

rizzò sempre più i suoi giovani laureati e diplomati, verso gli impieghi di Stato,

10 Il 23 aprile 1864 una circolare dell’allora ministro delle Finanze, l’onorevole Marco Min-ghetti, stabilisce: “nel dì 27 maggio può cominciarsi il pagamento degli stipendi agli impiegati in attività di servizio per la mesata di maggio, e così nei mesi successivi”. Per gli impiegati ita-liani è il primo 27.

16

“colonizzando” gli uffici dello Stato, e trasferendovi, insieme al culto delle re-

gole, non solo un’ inflessione dialettale ma una intera concezione del mondo.

La burocrazia italiana ne ha tratto quelli che saranno i suoi tratti caratteristici

lungo tutto il XX secolo ed oltre: un certo fatalismo di fondo, lo scetticismo

verso il nuovo, un accentuato conservatorismo, soprattutto il familismo come

atteggiamento base nei confronti della vita stessa. Di qui una tipologia del bu-

rocrate italiano che si radicherà nel corso dei decenni e che resta tutt’oggi

largamente valida.”11

2. – Il primo testo unico sul pubblico impiego e la locatio opera-

rum.

L’origine del pubblico impiego, inteso come fenomeno giuridico, è piuttosto

recente. Gli interventi legislativi successivi12 all’unità d’Italia avevano avuto

11 G. MELIS, La nascita dell’amministrazione nell’Italia unita, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2010, 02, pp. 451 ss. 12 R.d. del 4 agosto 1861, n. 167: “Ordinamento degli uffici e del personale del Ministero della marina”;; 20 ottobre 1861: “Nuovo ordinamento interno del Ministero di grazia, giustizia e dei

17

culti”;; R.d. del 3 novembre 1861, n. 313: “Riorganizzazione del Ministero delle finanze”;; R.d. del 20 febbraio 1962, n. 477: “Nuovo ordinamento del Ministero della guerra”;; R.d. del 18 gennaio 1863, n. 1125: “Riorganizzazione del personale del Ministero di grazia, giustizia e dei culti”, cui seguirà l’ordinamento degli uffici (d. m. 20 gennaio);; R.d. del 26 luglio 1863, n. 1396: “Organizzazione del Ministero della marina”;; R.d. del 21 novembre 1865, n. 2608: “Ri-ordinamento del personale delle amministrazione centrali e periferiche del debito pubblico e della Cassa dei depositi e dei prestiti”;; R.d. del 29 agosto 1866, n. 3234: “Ordinamento del Ministero della marina”;; R.d. del 24 ottobre 1866, n. 3306: “Riordinamento degli uffici dell’amministrazione centrale”;; R.d. del 9 dicembre 1866, n. 3382: “Nuovo ordinamento del Ministero della pubblica istruzione”;; R. d. del 14 dicembre 1866, n. 3475: “Riorganizzazione del Ministero dell’interno”;; R.d. del 23 dicembre 1866, n. 3456: “Ordinamento del Ministero per gli affari esteri”;; R.d. del 30 dicembre 1866, n. 3479: “Riorganizzazione del Ministero del-la marina”;; R.d. del 23 gennaio 1867, n. 3505: “Riorganizzazione del Ministero di agricoltura, industria e commercio”;; R.d. del 17 febbraio 1867, n. 3537: “Riorganizzazione del Ministero della guerra”;; R. d. del 28 agosto 1867, n. 3909: “Riorganizzazione del Ministero delle finan-ze”;; R.d. del 22 settembre 1867, n. 3956: “Nuovo ordinamento dell’amministrazione centrale e periferica della Pubblica istruzione”;; R.d. del 30 dicembre 1867, n. 4160: “Nuova organizza-zione del Ministero per gli affari esteri”;; R.d. del 7 marzo 1870, n. 5530: “Modifiche alla or-ganizzazione del ministero della guerra”;; R.d. del 14 gennaio 1872, n. 656: “Riorganizzazione del Ministero della marina”;; R.d. del 3 novembre 1872, n. 1124: “Nuovo ordinamento e orga-nico del Ministero di grazia, giustizia e dei culti”;; R.d. del 26 marzo 1873, n. 1332: “Nuovo ordinamento del Ministero della pubblica istruzione”;; R.d. del 9 settembre 1873, n. 1556, n. 1556: “Riorganizzazione del Ministero dei lavori pubblici”;; R.d. del 14 dicembre 1873, n. 1725: “Riorganizzazione del Ministero della guerra”;; R.d. del 23 dicembre 1873, n. 1746: “Ri-ordinamento del personale dell’amministrazione periferica del Ministero dell’interno”;; R.d. del 26 marzo 1874, n. 1866: “Nuovo ordinamento del personale del Ministero delle finanze”;; R.d. del 26 ottobre 1875, n. 2791: “Riordinamento del personale dell’Amministrazione centrale della guerra”;; R.d. del 9 gennaio 1876, n. 2906: “Modifiche all’ordinamento del Ministero di grazia e giustizia”;; R.d. del 19 novembre 1876, n. 3512: “Riordinamento del personale dell’Amministrazione delle carceri”;; R.d. del 26 dicembre 1877, n. 4219: “Riorganizzazione del Ministero delle finanze”;; R.d. del 25 marzo 1880, n. 5373: “Riorganizzazione del personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza”;; R.d. del 20 novembre 1881, n. 581 ter: “Riordi-namento dell’Amministrazione centrale degli affari esteri”;; R.d. del 3 maggio 1883, n. 1314: “Approvazione del ruolo organico del Ministero della marina”;; D.m. del 9 luglio 1883: “Rior-ganizzazione del Ministero della guerra”;; R.d. del 25 dicembre 1887, n. 5148: “Ordinamento del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 22 aprile 1888, n. 5385: “Riordinamento dell’amministrazione centrale e nuovo ordinamento del personale del Ministero della guerra”;; R.d. del 18 agosto 1888, n. 5699: “Determinazione dell’organico del personale del Ministero dell’interno”;; D.m. del 5 giugno 1890: “Organizzazione del Ministero delle poste”;; R.d. del 6 luglio 1890, n. 7010: “Approvazione dell’ordinamento degli impiegati della amministrazione degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi e del personale ad essi aggregato”;; R.d. del 20 luglio 1890, n. 7002: “Nuovo ordinamento del Ministero dell’istruzione pubblica”;; R.d. del 19 febbraio 1891, n. 80: “Riordinamento dell’amministrazione del Ministero degli af-fari esteri”;; R.d. del 2 febbraio 1893, n. 29: “Modifiche al regolamento del 1853 sull’ordinamento dell’ amministrazione centrale”;; R.d. del 16 maggio 1895, n. 328: “Riordi-namento del Ministero della pubblica istruzione su quattro direzioni generali”;; R.d. del 15 marzo 1896, n. 73: “Riordinamento dell’amministrazione del Ministero degli affari esteri”;;

18

carattere esclusivamente organizzativo, erano stati emanati nell’ambito di sin-

gole amministrazioni e nulla disponevano, quasi a voler evitare uno spinoso

problema, circa la natura giuridica del rapporto tra l’impiegato e lo Stato. Il

nodo problematico della qualificazione del rapporto di lavoro del dipendente

pubblico non venne affrontato (rectius: risolto) neanche con il primo testo uni-

co delle leggi sullo stato degli impiegati civili dello Stato (r.d. 22 novembre

1908, n. 693)13. Luigi Amoroso, difatti, commentandone l’art. 1, notò come il

legislatore non si fosse voluto complicare la vita, decidendo di omettere la de-

R.d. del 16 marzo 1899, n. 102: “Ordinamento degli uffici del Ministero dei lavori pubblici”;; R.d. del 17 dicembre 1899, n. 491: “Riordinamento del Ministero della marina con effetto dall’1 gennaio 1900”;; R.d. del 1 aprile 1900, n. 171: “Regolamento per il personale dell’amministrazione centrale dei Lavori pubblici”;; R.d. dell’8 novembre 1901, n. 467: “Rior-dinamento del Ministero della pubblica istruzione”;; R.d. del 2 gennaio 1902, n. 2: “Riordina-mento dell’amministrazione centrale del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 6 marzo 1904, n. 127: “Modifiche all’ordinamento dell’amministrazione centrale del Ministero della guerra”;; R.d. del 23 aprile 1904: “Riordinamento del Ministero di grazia e giustizia”;; L. dell11 luglio 1904, n. 372: “Disposizioni sui ruoli organici delle amministrazioni dello Stato” (d’ora in poi gli organici potranno essere modificati solo per legge);; R.d. del 15 giugno 1905, n. 259: “Istitu-zione e organizzazione dell’Amministrazione delle ferrovie dello Stato”;; L. dell’8 luglio 1906, n. 317: “Approvazione del ruolo organico dell’amministrazione provinciale dell’Interno”;; L. dell’8 luglio 1906, n. 304: “Approvazione del ruolo organico del Genio civile”;; L. del 12 luglio 1906, n. 323: “Fissazione del ruolo organico dell’amministrazione centrale della Guerra”;; R.d. del 29 luglio 1906, n. 492: “Regolamento per il personale dell’amministrazione centrale dei Lavori pubblici”;; R.d. del 9 giugno 1907, n. 298: “Riordinamento del personale delle di-verse carriere del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 5 agosto 1907, n. 648: “Nuovo rego-lamento per la carriera degli impiegati dell’amministrazione centrale e provinciale dell’interno”;; R.d. del 9 aprile 1908, n. 241: “Riordinamento dell’amministrazione centrale del Ministero degli affari esteri”;; R.d. del 2 luglio 1908, n. 451: “Riordinamento del Ministero del-le finanze”. 13 Il 24 novembre sarà approvato il relativo regolamento di esecuzione (r.d. n. 808).

19

finizione del rapporto d’impiego14. In una situazione di volontario vuoto nor-

mativo, con il numero dei funzionari pubblici in crescente aumento e la nascita

del primo associazionismo sindacale degli impiegati15, stante la necessità di

abbandonare il riferimento monarchico fondato sul vincolo “procuratorio”16, il

primo modello utilizzato fu quello del “diritto privato speciale”17: la locatio

operarum (art. 1627, codice civile 1865)18.

14 L. AMOROSO, Lo stato degli impiegati civili, Napoli, 1910, p. 44: “quest’articolo […] attri-buisce al dato di fatto della nomina la qualità d’ impiegato dello Stato, omettendo qualsiasi definizione”. 15 Al fenomeno dell’associazionismo sindacale degli impiegati pubblici si guardò subito con terrore: “[…] il sindacalismo non si è impadronito solo delle associazioni operaie; esso ha e-sercitato un fascino potente anche su altre categorie, diversissime, quali gli impiegati pubblici, a cui, in verità, non era facile pensare. E abbiam veduto, anche da noi, gli impiegati dei gradi inferiori associarsi nel titolo del proletariato amministrativo e organizzarsi in sindacati contro quelli, che essi chiamano i loro padroni, contro l’alta burocrazia, contro il Governo, contro lo Stato medesimo, lo Stato padrone, come essi dicono […]. Così gli impiegati pubblici dei gradi inferiori, in specie delle categorie più umili […] hanno imitato i metodi di lotta del proletaria-to operaio organizzato e in specie del sindacalismo […]: riunioni pubbliche con votazioni di ordini del giorno infiammati; dimostrazioni rumorose e violente contro l’autorità amministra-tiva e politica;; ostruzionismo nel disimpegno degli affari d’ufficio;; sabotaggio e lo stesso scio-pero […]. Dalla mancanza del dovuto ossequio ai capi gerarchici, al Governo ed al Parlamen-to, alla opposizione e resistenza sistematica a quanto emana da un superiore, è tutto uno spiri-to di insofferenza, di insubordinazione, che agita buona parte della nostra Amministrazione […], che distrugge ogni disciplina, mina l’autorità, demolisce la gerarchia, disorganizza i ser-vizi pubblici.”: O. Ranelletti, Il sindacalismo nella pubblica amministrazione, in Riv. pubblic., 1920, I, p. 451. 16 G.W.F. HEGEL: “Il rapporto d’ impiego […] non è un rapporto contrattuale, sebbene vi sia un duplice consenso ed una prestazione da entrambi i lati. L’impiegato non è chiamato per una singola prestazione di servizio, come il mandatario, bensì pone l’interesse principale della sua esistenza spirituale e particolare in questo rapporto”, in Lineamenti della filosofia del di-ritto, Roma – Bari, Laterza, 1979. 17 M.S. GIANNINI, Impiego pubblico (profili storici e teorici), Enciclopedia del diritto, 1970. 18 Art. 1627, Codice Civile del 1865: “Vi sono tre principali specie di locazioni di opere e d’industria: I) quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio;; II) quella de’ vetturini sì per terra come per acqua, che si incaricano del trasporto delle persone o delle cose;; III) quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo.”

20

La stessa locatio operarum che venne utilizzata come base di partenza per il

contratto di lavoro privato. Gli operai, infatti, vivevano una situazione simile: il

decollo industriale incideva, infatti, anche sul rapporto di lavoro “privato”,

rendendo sempre più necessario l’abbandono delle regole del diritto comune

dei contratti in favore di una disciplina specifica del contratto di lavoro. In as-

senza di una specifica disciplina legislativa, tanto da far scrivere a successiva

dottrina che “nei primi due decenni del novecento l’impiego privato è il lavoro

privato che guarda al settore pubblico, è il lavoro privato che cerca di ridise-

gnare la propria subordinazione recependo tutto ciò che è recepibile

dall’ambito dell’impiego pubblico, onde fuggire dall’area del lavoro subordi-

nato […]. Rispetto a poco più di due norme codicistiche, il pubblico impiego è

regolato, infatti, da una copiosa, benché frammentaria, legislazione”19, la giu-

risprudenza applicò, per analogia, al fenomeno del rapporto subordinato le di-

sposizioni dettate per la locatio operarum.

Il solo dato dell’utilizzo della locatio operarum ai fini della qualificazione e

dell’inquadramento tanto del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica

amministrazione quanto di quello alle dipendenze delle imprese private farebbe

19 PAOLO PASSANITI, Le vicende dell’impiego pubblico e privato, in Storia del diritto del lavo-ro - La questione del contratto di lavoro nell’Italia liberale (1865 – 1920), Milano, Giuffrè, volume I, 2006, p. 233.

21

intravedere, ad un occhio poco attento, un unico diritto del lavoro, senza alcuna

distinzione tra pubblico e privato, quasi che ai nastri di partenza nessuna diffe-

renza esistesse.

Ma la realtà fu diversa. E non si trattò di diversità di poco conto: la “linea Ma-

ginot” che separa, ancora oggi, il diritto del lavoro pubblico da quello privato

ha origine profonde e viene in evidenza fin da subito.

La locatio operarum, che, in poco tempo, si rivelò del tutto inadeguata a ri-

spondere alle esigenze tanto degli impiegati che degli operai, venne corredata,

ad opera del legislatore, all’interno del rapporto di impiego pubblico, da una

serie di cautele e tratti distintivi che riguardarono nel tempo il diritto alla pen-

sione, la disciplina degli avanzamenti di carriera, la normativa dei congedi e

delle aspettative, la durata del rapporto, la disciplina dei concorsi.

Ne derivava una situazione particolare dell’impiegato dello Stato, di fatto mol-

to diversa dal dipendente privato, il cui rapporto venne regolato dalla legge so-

lo molti anni dopo20: da un lato si cominciavano ad affermare i primi diritti,

dall’altro si precisavano garanzie più generali, volte a limitare la assoluta liber-

tà dell’esecutivo di manipolare l’amministrazione a suo piacimento.

20 La disciplina sul contratto di impiego privato vide la luce per la prima volta solo nel 1919.

22

La teoria contrattualistica del rapporto di lavoro pubblico che, nei primi anni

del 1900, aveva trovato un accoglimento, seppur parziale, in dottrina21 e in giu-

risprudenza22 e che aveva portato all’ indicazione della locatio operarum come

modello di riferimento fu abbandonata in gran fretta ad opera tanto del diritto

positivo, mediante l’approvazione della legge 25 giugno 1908, n. 29023, quanto

della giurisprudenza amministrativa24, attraverso l’istituzione della V sezione

del Consiglio di Stato che in breve tempo avocò a se tutte le controversie in

21 Per Adeodato Bonasi la posizione giuridica dei funzionari rispetto allo Stato configura sicu-ramente un contratto. Un contratto che non è locazione, o una compravendita, che non è un mandato anche se vi sono elementi di contatto. Sposando la sentenza della Corte di Appello di Bologna del 4 dicembre 1869, il Bonasi risolve il problema ritenendo che l’impiego configuri un contratto “sui generis”, e quindi innominato regolato dall’art. 1103 del codice civile, cfr. A. BONASI, Della responsabilità penale e civile dei ministri e degli altri ufficiali pubblico secondo le leggi del Regno e la giurisprudenza, Bologna, 1874, pp. 602 – 608. 22 Cass. Roma, 26-7-1892, Pisilani c. Comune di Porto San Giorgio, in La legge, XXXII, pt. II, p.757, 1982: “La parola impiegato, sostanzialmente usata, sta a designare qualunque persona che, locando l’opera propria, assume un ufficio speciale e prende ad esercitare speciali fun-zioni con una retribuzione da corrispondersi a periodi determinati. La distinzione de-gli’impiegati tra pubblici e privati è fondata sulla intrinseca natura delle funzioni assegnate, secondo che pubbliche e private sono le funzioni ad essi commesse, e pubblico o privato è l’ufficio da essi assunto. Rientrano pertanto nella categoria dei pubblici impiegati tutti coloro, che assumendo l’esercizio di funzioni istituite nello interesse del pubblico per una veduta di pubblica utilità, locano l’opera loro ad uno di quegli Enti o Corpi Morali, come lo Stato, la Provincia ed il Comune, i quali oltre ad avere la qualità di persone giuridiche sono pure inve-stiti di autorità ed impero e possono compiere perciò atti di semplice gestione, atti di puro im-perio, e atti d’indole mista, perché partecipante dell’una qualità e dell’altra.” 23 La legge fu polemicamente definita dalle associazioni, che si sforzarono, invano, di osteg-giarla, “legge capestro”. Tuttavia il Parlamento la votò a larghissima maggioranza e l’opinione pubblica la recepì come una legge liberale, che finalmente interveniva a dettare regole certe sui diritti e sui doveri dei dipendenti pubblici. 24 Cfr. Cons. St. V, 10 giugno 1910, in Foro It., Rep. 1910, imp. pub., 20, secondo cui “il rap-porto di impiego è essenzialmente di diritto pubblico, anche quando precise norme siano detta-te a tutela degli interessi dell’impiegato;; in ordine alle controversie concernenti tale rapporto e tali norme (stabilità, promozione) è quindi sempre competente la giurisdizione amministrativa; ciò per la natura della controversia, per il carattere giurisdizionale di questi collegi, per la deli-mitazione della loro competenza fatta in ragione della materia ed infine per la regola che il giu-dice dell’azione è il giudice dell’eccezione”.

23

materia di pubblico impiego sul presupposto della natura pubblicista del rap-

porto di lavoro, che quindi venne epurato da qualsiasi “infezione” contrattuali-

stica e ricondotto, di contro, ad un atto d’imperio della Pubblica Amministra-

zione.

Sulla scia della concezione tedesca del diritto pubblico, il rapporto tra

l’Amministrazione e il dipendente venne ricostruito in termini di sottomissione,

in una logica non paritaria; un rapporto non conflittuale, ma di immedesima-

zione, costituito sulla base di un atto di nomina della Pubblica Amministrazio-

ne espressione di una forma speciale di supremazia dello Stato nei confronti dei

suoi funzionari.

L’impiegato pubblico diventa così un cittadino posto al servizio della comuni-

tà, che, al contrario del dipendente privato, non opera per la realizzazione di un

interesse della controparte, ma per la realizzazione di interessi generali, di cui

egli è, pro quota, titolare. L’amministrazione tende a creare, quindi, un corpo di

burocrati che sentano come proprio l’interesse dell’amministrazione stessa, co-

sì da eliminare in radice una conflittualità di esigenze che, sin dall’origine, ha

caratterizzato il rapporto di lavoro privato.

Il legislatore non riesce a dimenticare che nel caso del lavoro pubblico il datore

di lavoro è l’Ammistrazione dello Stato, mentre nel lavoro privato è un sogget-

24

to privato. Così, confrontando il testo unico del 1908 con la legge sull’impiego

privato del 1919, non è difficile cogliere le differenze. Le due leggi, seppur a-

naloghe nella loro ratio generatrice e negli istituti che le compongono (anziani-

tà, stabilità, carriera), disciplinano diversamente il modo di funzionare degli

stessi.

Nel cogliere la ragione dell’intervento legislativo del 1908, la quale non può

certamente essere quella di definire il rapporto di lavoro pubblico nel senso

privatistico o pubblicistico, deve necessariamente essere vista come un tentati-

vo della Pubblica Amministrazione di recuperare il vincolo autoritativo sul di-

pendente a fronte di piccole concessioni, che, da una parte, tacitassero il na-

scente associazionismo sindacale e che, dall’altra, instillassero l’idea che le ga-

ranzie nei confronti dello Stato non fossero frutto di un sano conflitto sindaca-

le, ma “gentile” concessione dello Stato mediante la legge.

3. – Il periodo fascista: la fedeltà al partito e non allo Stato.

25

Negli anni di Mussolini e prima della riforma De Stefani del 1923 si sussegui-

rono una serie di interventi legislativi con ambizioni organizzative che, in real-

tà, non erano affatto riconducibili a una logica unitaria e coerente, ma che ri-

spondevano solo alle esigenze momentanee della Pubblica Amministrazione,

cercando di riparare agli errori in maniera estemporanea solo dove, come e

quando si fossero presentati. Questo spiega perché non venne mai in luce il

problema della qualificazione del rapporto di pubblico impiego (a differenza,

invece, della nascita del diritto del lavoro dei dipendenti dell’impresa con

l’emanazione, nel 1919, della legge sull’impiego privato) e non venne mai

messa in discussione la ideologia che ne è alla base. La conseguenza fu che i

provvedimenti del legislatore fascista, intervenendo ora su un aspetto del rap-

porto e ora su un altro senza alcuna logica interna ed esterna, ne finirono per

rompere definitivamente la già instabile e frammentaria struttura.

Venne quindi mantenuto inalterato il modello di riferimento pre-bellico, il qua-

le risentì esclusivamente delle idee nazionaliste di chi era al Governo vedendo

accentuato il vincolo autoritativo con la Pubblica Amministrazione. Nel ven-

tennio fascista l’elemento della speciale sottomissione dell’impiegato pubblico,

legato allo Stato da un rapporto di natura “etica”, nell’ambito del quale il carat-

teristico vincolo di fedeltà allo Stato, anziché al partito politico al Governo, si

26

trasformò invece in un vincolo di fedeltà politica al partito-Stato, cioè al regi-

me25; tale vincolo investiva ogni aspetto del comportamento del dipendente,

compresa la vita privata, determinando una significativa compressione dei suoi

diritti di libertà. La relazione di accompagnamento del regio decreto n.

2960/1923, relativo allo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato, e-

spressamente qualificava l’impiego pubblico come “rapporto di fedeltà che so-

lo può contrarre colui che, per la sua mentalità e per la sua inclinazione, viva

ed agisca conformemente alle tendenze ideali e pratiche che sono proprie

dell’amministrazione nel ciclo storico in cui l’impiegato deve esplicare l’opera

sua”.

25 Pur senza riuscire a dar luogo ad una effettiva “fascistizzazione” della burocrazia, la legisla-zione successiva, da una parte, introdurrà l’istituto della dispensa dal servizio dell’impiegato che “per manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio […] si ponga in condizioni di in-compatibilità con le generali direttive politiche di governo”, dall’altra, attribuì all’iscrizione al partito fascista il valore di requisito per l’accesso ai pubblici impieghi, ovvero di titolo di pre-ferenza a fini di reclutamento e di carriera. Su questa linea si muovono numerose leggi succes-sive: con il decreto del Capo dello Stato del 17 dicembre 1932, dopo aver rimosso il divieto delle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, è stabilito che per partecipare ai nuovi con-corsi è richiesto, in aggiunta ai tradizionali requisiti, quello dell’iscrizione al partito nazionale fascista o ai fasci giovanili di combattimento (art. 2);; ed inoltre “per coloro che risultino rego-larmente iscritti al PNF prima del 28 ottobre 1922, è concessa, sul limite massimo di età, una proroga di durata pari al tempo per cui essi, anteriormente al 22 ottobre 1922, appartennero al partito” (art. 3, 2° comma);; nella stessa scia il r.d.l. 3 giugno 1938, n. 827 che previde, an-che per i salariati delle amministrazioni dello Stato, l’iscrizione al PNF o come requisito per l’assunzione o come titolo di preferenza nei passaggi di gruppo dei salariati permanenti. Bene-fici particolari vennero attribuiti ai dipendenti iscritti al PNF con la legge 9 maggio 1939, n. 700 secondo cui “ai dipendenti militari e civili, di ruolo e non di ruolo, delle amministrazioni statali, comprese quelle con ordinamento autonomo, iscritti ai fasci di combattimento, ai quali sia stata riconosciuta dal PNF la qualità di squadrista è concesso un premio straordinario di lire duemila” e dalla legge 25 settembre 1940, n. 1457, che estende al personale avente qualifi-ca di squadrista il beneficio del computo del periodo di iscrizione al PNF prima del 28 ottobre 1922, ai fini della liquidazione della pensione.

27

Certo è che la crisi finanziaria del dopoguerra impose politiche di contenimen-

to della spesa pubblica, che influenzarono le riforme amministrative degli anni

a seguire. Le leggi del ventennio fascista furono ispirate alla realizzazione

dell’obiettivo di epurazione del corpo burocratico dello Stato al fine di riorga-

nizzare la Pubblica Amministrazione in termini di semplificazione dei servizi e

di riduzione del personale.

Finita la prima guerra mondiale venne emanato il r.d. 23 ottobre 1919, n. 1971,

sullo stato giuridico ed economico del personale delle amministrazioni centrali

dello Stato, che, sulla scia delle indicazioni fornite dalla Commissione Villa26,

ridusse i gradi gerarchici e introdusse il sistema dei “ruoli aperti”27, attraverso

il quale la possibilità di progressione retributiva era parzialmente sganciata

dall’ascensione nella scala gerarchica e basata, invece, sull’anzianità28. Il regio

26 Negli ultimi anni della guerra e poi nell’immediato dopoguerra si erano succedute una serie di commissioni e gruppi di studio, sia di origine parlamentare che burocratica, che avevano ac-cumulato una serie di analisi e proposte. Nel 1918 una Commissione di impiegati romani aveva tenuto a un convegno concluso con le proposte dell’abolizione dei ruoli chiusi, della riduzione dei gradi gerarchici, della razionalizzazione dei servizi in grandi unità organizzative. Si era poi insediata la Commissione per il dopoguerra (1918-19), incaricata di studiare i provvedimenti necessari al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace e, contemporaneamente a quest’ultima, aveva lavorato la Commissione Villa “per lo studio della riforma dell’amministrazione dello Stato” (febbraio – novembre 1918), che aveva indirizzato la sua at-tenzione soprattutto verso la semplificazione dei controlli e lo stato giuridico del personale. 27 Il legislatore non riuscì completamente nel suo intento, giungendo al paradossale risultato per cui, sulla base del nuovo sistema dei “ruoli aperti” alcuni impiegati arrivarono a percepire, per il solo fatto dell’anzianità, uno stipendio uguale o superiore a quello dei funzionari di grado superiore. 28 Cfr. art. 15, r.d. 23 ottobre 1919, n. 1971: “l’impiegato consegue un aumento periodico di stipendio per anzianità nel grado” (art. 15).

28

decreto 1971/1919, si segnalò, tuttavia, soprattutto per l’istituto della “riserva

di servizio” la quale prevedeva la dispensa e il collocamento a riposo degli im-

piegati “privi della capacità, diligenza, assiduità o condotta necessarie” (art.

55)29, di quelli che avessero raggiunto i limiti di età o di servizio (art. 59)30 e di

quelli che ne avessero fatto domanda (art. 62)31.

Si tratta dell’inizio di quella epurazione di cui si è già detto e i cui effetti più

rilevanti si avvertiranno a partire dal 1923, anno in cui il Governo, attraverso il

regio decreto 25 gennaio 1923, n. 87, intensifica pesantemente la riduzione del

personale iniziata con la riforma del 1919. La dispensa di servizio venne attua-

ta, quindi, non solo nei confronti degli impiegati anziani per età o servizio, di

quelli inabili per motivi di salute o per incapacità e di quelli che dessero scarso

29 Art. 55, r.d. 1971/1919: “1. Entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente decreto saranno dispensati dal servizio gli impiegati che, a giudizio del comitato, di cui all'art. 57, non corrispondano per capacità, diligenza, assiduità o condotta alle esigenze dell'ufficio. 2. Saranno in ogni caso sottoposti al giudizio del comitato gli impiegati di cui all'art. 41.” 30 Art. 59, r.d. 1971/1919: “1. Fino a due anni dalla pubblicazione del presente decreto, saranno collocati a riposo gli impiegati di grado inferiore a direttore generale, che abbiano compiuto i 65 anni di età e almeno 20 anni di servizio o abbiano compiuto 40 anni di servizio, quando, a giudizio del consiglio di amministrazione, non siano più in grado di continuare utilmente le lo-ro funzioni. 2. Saranno in ogni caso collocati a riposo gli impiegati che abbiano attualmente grado non superiore a quello di direttore capo di divisione o equiparato e che abbiano compiuto 65 anni di età e 40 anni di servizio. 3. Agli impiegati, di cui ai comma precedenti, sarà corri-sposta una indennità a norma del secondo comma dell'articolo 58.” 31 Art. 62, r.d. 1971/1919: “1. Gli impiegati, che ne facciano domanda nel termine di un anno dalla pubblicazione del presente decreto, sono collocati a riposo o dispensati dal servizio, quando concorra il consenso dell'amministrazione da cui dipendono, e l'adesione del ministero del tesoro. 2.Ad essi, quando non abbiano gli anni di servizio richiesti per conseguire la pen-sione o l'indennità stabilita dalle disposizioni vigenti, sarà corrisposta una indennità pari ad un anno di stipendio.”

29

rendimento di lavoro, ma anche nei confronti del personale che non si trovasse

nelle suindicate condizioni, al solo spasmodico fine di raggiungere l’obbiettivo

della “eliminazione dell’eccedenza” (art. 4). Una epurazione alla quale si diede

corso ancora prima che venissero approvate le tabelle numeriche del personale

di ciascuna amministrazione e che non coinvolse i gradi dirigenziali delle am-

ministrazioni, i quali, al contrario, fecero parte della grande macchina

dell’epurazione, venendo chiamati a gestire la riduzione dell’ eccedenza, o en-

trando a far parte di apposite commissioni o esprimendo pareri sulle capacità e

sulle attitudini degli impiegati.

Dal canto suo la giurisprudenza amministrativa del periodo si allineò con gli

obbiettivi del legislatore, dimostrando tutta la fragilità della sua funzione ga-

rantistica nei confronti degli impiegati e giungendo quasi a mettere in dubbio la

principale caratteristica del pubblico impiego: la stabilità del posto. Le pronun-

ce del Consiglio di Stato si mossero su due linee guida: da una parte si affermò

che: “il giudizio sul rendimento di un impiegato può e deve desumersi da una

valutazione complessiva, che tenga conto insieme della maggiore o minore as-

siduità all’ufficio e del modo con cui il servizio è stato disimpegnato. In sede di

applicazione di una legge eccezionale, che mira alla riforma

dell’amministrazione ed alla epurazione del personale, il giudizio delle specia-

30

li commissioni, alle quali è attribuita la delicata funzione di formulare le pro-

poste di esonero, pur dovendo tener conto delle annuali qualifiche degli impie-

gati, non deve essere ad esso pedissequo, avendo un diverso e più ampio con-

tenuto e potendo anche investire l’apprezzamento che i capi degli uffici hanno

dato dei loro dipendenti”32;; dall’altra che “la sfera dei diritti acquisiti, che so-

no dalla legge dichiarati intangibili, non si estende oltre lo stato economico

dell’impiegato, cioè la determinazione del corrispettivo dovuto per la presta-

zione d’opera, restando escluso tutto quanto concerne l’ordinamento degli uf-

fici, i rapporti gerarchici e disciplinari e le aspirazioni del funzionario a suc-

cessivi avanzamenti di carriera”, e quindi tutta quella parte che “deve necessa-

riamente ritenersi rimessa all’insindacabile e discrezionale criterio delle pub-

bliche amministrazioni, alle quali non può disconoscersi di introdurre negli

ordinamenti dei pubblici uffici tutte quelle riforme e quelle innovazioni che

siano richieste nell’interesse generale”33. Il Consiglio di Stato, aderì perfetta-

mente agli intenti legislativi dimostrando la chiara volontà di rispondere oltre-

modo alla attese del Governo, interpretando le leggi sulla riduzione delle ecce-

denze in maniera anche più dura di quanto il dato legislativo sembrasse sugge-

32 Cons. St., IV, 2 febbraio 1923, in “Riv. pubbl.”, 1923, p. 110. 33 Cons. St., IV, 27 novembre 1922, in “Giust. amm.”, 1922, p. 402.

31

rire34 sulla base dell’assunto che “il diritto pubblico amministrativo non è solo

formato dalle leggi e dai regolamenti scritti, ma anche da norme generali,

prima fra tutte quella che l’interesse generale non deve essere subordinato o

sacrificato ad interessi singoli o di classe”35.

34 Cons. St., IV, 16 gennaio 1923, in “Riv. pubbl.”, 1923, p. 98: “L’obbligo di comunicare all’impiegato i motivi specifici del suo esonero a’ termini dell’art. 1 del r.d. 20 ottobre 192, n. 1411 (contenente le norme esecutive delle legge 13 agosto 1921, n. 1080) deve ritenersi assolto mediante indicazione di una delle tre categorie per le quali la proposta di esonero è dalla legge autorizzata per motivi di salute, per incapacità, per scarso rendimento di lavoro. Poiché la pro-posta di esonero deve farsi in base ai precedenti di servizio e ai rapporti scritti dei superiori de-ve ritenersi legittima la proposta quando abbia luogo in seguito ad una speciale inchiesta che accerti l’incapacità dell’impiegato. Il vizio di eccesso di potere in un provvedimento di esonero potrebbe sussistere solo se risultasse una manifesta ingiustizia o una aperta e palese contraddi-zione tra il provvedimento stesso e le risultante degli atti”;; Cons. St. IV, 15 dicembre 1922, in “Giust. amm.”, 1922, p. 477: “Il procedimento per l’esonero dal servizio di un impiegato per scarso rendimento è qualche cosa di essenzialmente diverso dal procedimento disciplinare e non richiede, quindi, l’applicazione delle garanzie procedurali stabilite per questo ultimo a fa-vore degli interessati;; non è possibile, però, l’indicazione dei fatti concreti da cui risulti lo scar-so rendimento, ma basta la semplice motivazione, ai sensi dell’art. 1, reg. 22 ottobre 1921, n. 1411, per l’esecuzione della legge 13 agosto 1921, n. 1080, sulla riforma dell’amministrazione dello Stato”;; Cons. St., IV, 21 aprile 1923, in “Giust. amm.”, 1923, p. 338: “Quando l’esonero sia motivato da scarso rendimento, si può e si deve aver riguardo soltanto all’effettivo ed utile lavoro prestato, prescindendo dalle cause, che non è necessario siano ascrivibili a colpa dell’esonerato;; e quindi valutabili agli effetti dell’esonero sono pure le assenze per malattia o per serie ragioni di famiglia”;; Cons. St., IV, 2 febbraio 1923, in “Giust. amm.”, 1923, p. 69: “Il fatto che le assenze dal servizio di un’impiegata telefonica si siano verificate per causa di ge-stazione, benché per regolamento sia stabilito in un primo tempo sia da considerarsi l’impiegata in congedo straordinario, e in un secondo sia collocata in aspettativa per infermità, non esclude che tali assenze possano essere valutate come un elemento per determinare il mi-nore rendimento dell’impiegata stessa. I motivi di salute in base ai quali l’impiegata fu esone-rata, non è necessario sussistano al momento dell’esonero, ma solo al momento in cui fu atte-stata dalla visita medica la inidoneità a prestare servizio”. 35 Cons. St., IV, 12 maggio 1923, in “Riv. pubbl.”, 1924, p. 10.

32

3.1 – Le riforme De Stefani del biennio 1923 – 1924.

Il punto di svolta del periodo fascista in materia di pubblico impiego è rappre-

sentato dal biennio 1923-1924.

Per prima cosa, con pedissequa fedeltà rispetto alle teorizzazioni del movimen-

to fascista, nel 1923 il Ministro De Stefani emanò due provvedimenti legislativi

con i quali venne definitivamente sistema la materia dell’organizzazione dei

pubblici uffici: il r.d. 11 novembre 1923, sull’ordinamento gerarchico del per-

sonale civile e militare dello Stato e il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960, riguar-

dante lo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato; inoltre con i rr.dd. 26

giugno 1924, n. 1054 e 26 giugno 1924, n. 1058 venne affidata al giudice am-

ministrativo (Consiglio di Stato e Giunta Provinciale Amministrativa) la giuri-

sdizione esclusiva in materia di impiego pubblico.

L’intento delle riforme del 1923 di “attuare la coordinazione della struttura

amministrativa con la struttura politica del Regime”36 non rimase certo nasco-

sto, ma anzi trovò esplicazione nella Relazione al Re che accompagnò il r.d.

2960 del 1923: “il rapporto di pubblico impiego non si concretizza in una or-

dinaria prestazione d’opera alla quale corrisponde un semplice e materiale 36 A. DE STEFANI, Prefazione a R. Spaventa, “Burocrazia, ordinamenti amministrativi e fasci-smo”, p. 5.

33

corrispettivo economico, ma bensì in un rapporto etico per cui l’impiegato è

ammesso, normalmente per tutta la vita, nella compagine amministrativa affin-

ché dedichi ad esse tutte le proprie forze d’ingegno e di cultura, nell’ambito

degli scopi politici e sociali che sono proprio dello Stato. Si tratta, pertanto, di

un rapporto di fedeltà che solo può contrarre colui che, per la sua mentalità e

per le sue inclinazioni, viva ed agisca conformemente alle tendenze ideali e

pratiche che sono proprie dell’amministrazione nel ciclo storico in cui

l’impiegato deve esplicare l’opera sua. Non è quindi ammissibile che

l’impiegato si introduca nella compagine amministrativa con spirito che dis-

senta da quelle tendenze e portando in sé la restrizione mentale di prestare

l’opera propria apparentemente a favore degli scopi che inspirano la condotta

dell’amministrazione, ma, segretamente e simultaneamente, con l’intento di

contribuire a distruggere l’ordinamento, del quale egli dovrebbe essere per

ragioni etiche e giuridiche, il leale custode e il cosciente fautore” 37.

La disciplina dei due regi decreti del 1923 si caratterizzò per la massima gerar-

chizzazione dell’apparato, sia per quanto riguarda i gradi38, sia per quanto ri-

37 Testo integrale della Relazione al Re, allegata al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960 38 Il personale viene diviso in tre gruppi – A, B e C – a seconda del diploma richiesto per l’accesso in carriera;; all’interno di ciascun gruppo vi è una distinzione in gradi, con l’aggiunta di due gradi iniziali per la carriera del gruppo C e per quella di talune categorie di funzionari degli altri due gruppi (art. 2, r.d. 2395/1923).

34

guarda le retribuzioni39, venendo sconfessati i capisaldi della riforma del 1919:

venne infatti re-introdotto il sistema del “ruolo chiuso” e quello della gerarchia

dei gradi negli scatti retributivi. Il modello gerarchico di riferimento fu, sostan-

zialmente, quello militare; con un significato che va al di là della semplice ado-

zione di un modello organizzativo e che vuole, in realtà, mutuarne lo spirito.

Complessivamente la riforma De Stefani accentua, notevolmente, lo spirito au-

toritativo del rapporto con la Pubblica Amministrazione allo scopo di assicura-

re “una disciplinata e solerte prestazione d’opera” 40.

Alle riforme del 1923 si affianca, in poco meno di un anno, la cristallizzazione

legislativa della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia

di pubblico impiego. Tale scelta non giunse certo inaspettata, sia perché frutto

di un folto dibattito dottrinale che aveva animato gli anni precedenti, sia perché

lo stesso Consiglio di Stato aveva già più volte dimostrato la chiara propensio-

ne ad attrarre nella sua sfera di competenza il maggior numero possibile di con-

flitti relativi al personale dipendente dalla Pubblica Amministrazione.

39 Per quanto riguarda l’aspetto retributivo, viene introdotto il carattere fisso dello stipendio per i primi quattro gradi e il carattere variabile, in rapporto al gruppo e al grado, per gli altri. Gli scatti di retribuzione vengono fatti dipendere dall’anzianità e vengono calcolati in modo pro-porzionale all’interno di ciascun grado. Il meccanismo è strutturato, però, in modo tale che il limite massimo dello stipendio di un grado non possa superare quello minimo del grado supe-riore. Questo al fine di evitare l’inconveniente che aveva caratterizzato la legislazione prece-dente e che aveva suscitato malumori e critiche nel corpo impiegatizio (art. 4, r.d. 2395/1923). 40 Relazione al Re, allegata al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2960.

35

In realtà la riforma del 1924, che arrivò anche su una spinta tecnico – giuridica

basata sull’estrema difficoltà di differenziare, in un rapporto di pubblico im-

piego, gli interessi legittima dai diritti soggettivi, con la conseguente difficoltà

di individuare, di volta in volta, il giudice competente, non fu scevra da consi-

derazioni di carattere politico. Credere che il motore della riforma del 1924 sia

esclusivamente quello giuridico sarebbe mera illusione. D’altronde già nella

Relazione al Re relativa al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840 si affermava chiara-

mente che nelle materie demandate alla competenza esclusiva è “così connatu-

rato col diritto l’interesse pubblico che è impossibile, o assai difficile, separare

l’uno dall’altro, mentre l’interesse suddetto è così prevalente ed assorbente da

far scomparire o affievolire la portata effettiva della questione patrimoniale di

diritto privato” 41.

E’ sicuramente vero e fuori da ogni dubbio che l’introduzione della giurisdi-

zione esclusiva del giudice amministrativo per le controversie in materia di

pubblico impiego comportò una razionalizzazione ed una semplificazione del

sistema della tutela, venendo vista con assoluto favore dai giuristi del tempo i

quali rivendicavano la maggiore preparazione in materia dei giudici ammini-

strativi, essendo questi ultimi dotati di “quella speciale sensibilità giuridica che

41 Relazione al Re, allegata al r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840.

36

occorre avere per conoscere delle controversie nascenti dai rapporti giuridici

pubblici, che non si acquista col solo studio degli istituti di diritto pubblico so-

stanziali e processuali, ma conoscendo a fondo l’atmosfera in cui vivono, ac-

quistandone particolare fisionomia, quei rapporti medesimi” 42. E’ altrettanto

vero, tuttavia, che tale scelta sottolineò che la competenza del giudice ammini-

strativo conseguì all’esigenza di privilegiare, all’interno del complesso rappor-

to che l’impiegato intrattiene con la Pubblica Amministrazione, il momento

della pubblica funzione su quello della prestazione di lavoro, di impronta priva-

tistico – contrattuale. E tale privilegio per la funzione pubblica poté essere as-

sicurato, in linea con la tradizione, solo attraverso la devoluzione della contro-

versie in materia di pubblico impiego al giudice amministrativo, che, per natura

e funzioni, è tradizionalmente più vicino alle ragioni del pubblico interesse.

La riforma del 1924, che finirà per influenzare tutto il rapporto di pubblico im-

piego successivo, comportò lo scaturire di tre conseguenze: “1) l’unità e la

compattezza della materia attraverso l’elaborazione di principi rigidi ricondu-

cibili ad un unico modello di rapporto, qualificato come pubblico per la natura

dell’ente assuntore;; 2) la maggiore ed ulteriore profondità del distacco esi-

stente tra rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione e rapporto di la- 42 S. LESSONA, Gli sviluppi necessari della giurisdizione amministrativa, in Riv. pubbl., 1931, I, pp. 466 ss..

37

voro nell’impresa; 3) la definitiva individuazione e delimitazione di una cate-

goria di prestatori d’opera legittimamente sottoprotetti quanto all’esercizio dei

propri diritti soggettivi” 43.

4. – Dal 1923 al 1948: la lunga stati dell’amministrazione ita-

liana.

Negli anni 30 e 40 l’assetto legislativo dell’amministrazione italiana rimase

immutato. Approvate le riforme De Stefani, che saranno sostitute, e il dato è

significativo, solo dal testo unico del 1957, l’apparato amministrativo non ven-

ne più sottoposto a interventi da parte del legislatore.

Certo, i numeri dell’epurazione annunciati da Mussolini non vennero affatto

raggiunti e, certo, il sistema del collocamento a riposto mostrò tutta la sua inef-

ficacia a raggiungere gli obbiettivi sperati.

Vero è, però, che negli anni trenta furono approvate una serie di normative di

settore44, fortemente innovative, che intervennero ad organizzare competenze

43 M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il mulino, 1978, p. 100.

38

inedite del potere pubblico, a creare rapporti nuovi tra lo Stato e gli interessi, a

sviluppare funzioni economiche e sociali sino ad allora sconosciute.

L’amministrazione, quindi, nella sua struttura rimasta immutata dal 1923, vide

un cambiamento drastico delle sue funzioni: emerse in quegli anni, con violen-

za ma poca coscienza nell’esterno, un’amministrazione legislatrice, capace di

incidere, attraverso la specifica competenza tecnica di riferimento, sui contenu-

ti delle nuove leggi (ad esempio, tra le tante esperienze del periodo, si può cita-

re la riforma del 1933 sulla previdenza, che vide la luce grazie all’apporto

fondamentale degli enti di settore e, per essi, dei dirigenti e dei funzionari di

maggiore esperienza) e un’amministrazione regolatrice di nuovi interessi, la cui

determinazione comportò una crescita esponenziale della sua discrezionalità

attraverso l’esplicarsi di quello che un giovanissimo Massimo Severo Giannini,

nel 1939, definì come il “potere di apprezzare in un margine determinato

44 Ci si riferisce in particolare ai testi unici sulla pubblica sicurezza, sulla finanza locale, sulla pesca, sul catasto (1931), a quelli sulle acque ed impianti elettrici, sull’istruzione superiore, sulla strada (1933), a quelli su comuni e provincie, sulla Corte dei Conti, sui consigli provin-ciali dell’economia corporativa (1934), sulla previdenza (1935), sull’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia, sulla tubercolosi, sulla mutualità scolastica, sulla maternità, sulle casse rurali ed artigiane (1937), sull’edilizia popolare ed economica (1938), sulla prote-zione della selvaggina e l’esercizio della caccia (1939), sull’istituzione della scuola (1940) e sulla legge urbanistica (1942).

39

l’opportunità di soluzioni possibili rispetto alla norma amministrativa da attu-

are” 45.

L’amministrazione italiana, nonostante un organizzazione arcaica, basata sul

modello gerarchico e su una stretta dipendenza dal Ministro di riferimento (fi-

gura che, nel periodo fascista, venne sostituita dall’accentratore Mussolini),

negli anni che precedono la secondo guerra mondiale, inizia a sviluppare quelle

funzioni che le saranno proprie nei decenni successivi. Si tratta di una fase em-

brionale, che risente della morsa del fascismo, tanto come ideologia politica

quanto come strumento di controllo, nella quale, tuttavia, per la prima volta

nella storia amministrativa italiana l’apparato burocratico è visto non solo co-

me mero mezzo di attuazione della linea di governo, supino ed inerme di fronte

alla volontà del partito al comando, ma anche come strumento di gestione di-

screzionale degli interessi pubblici, anche se nell’ ambito di movimento deter-

minato dalla legge.

Certo, siamo molto lontani dal poter dire che l’amministrazione è indipendente

dal vertice politico (ma, d’altronde, nel 2011, lo si può dire?), anche se, para-

dossalmente, i dirigenti apicali hanno più autonomia di quanta ne avessero ne-

gli anni precedenti al fascismo; e certo ci troviamo di fronte ad un corpo di 45 S. CASSESE, L’opera di Massimo Severo Giannini negli anni Trenta, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XX, n. 2, dicembre 1990, pp. 419 ss.

40

funzionari che, sia qualitativamente che quantitativamente, è incapace di far

fronte alle nuove funzioni che gli sono attribuite. Da una parte pecca

d’inesperienza, dall’altra soffre un’ assetto arcaico che non è in grado di met-

terla al passo con i tempi. A questo si deve aggiungere che il nodo della quali-

ficazione del rapporto che lega il dipendente alla Pubblica Amministrazione

rimane irrisolto per volontà esplicita del lavoratore che, nel ritoccare la materia

del pubblico impiego, abbandona scientemente il problema.

La seconda guerra mondiale e la conseguente caduta del fascismo non compor-

tano la rottura del passato, ma, piuttosto, il recupero della continuità con il pe-

riodo precedente. Le norme regolatrici rimangono quelle del periodo mussoli-

niano, seppur liberate dalle infezioni fasciste.

Una riforma dell’apparato burocratico veniva sentita come necessaria 46, ma

doveva fare i conti con la diffidenza che la stessa burocrazia dimostrava nei

confronti dei fini di razionalizzazione della materia. Alla fine del 1948

un’indagine promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri sui temi della

ristrutturazione amministrativa si risolse in una serie di riposte generiche e

formule vuote, le quali ebbero l’unico merito di evidenziare la sostanziale e-

46 Nel 1946, nell’articolo Bisogna produrre pubblicato su “Il tempo”, l’allora Ministro del Te-soro Epicarmo Corbino sosteneva che il rendimento del personale pubblico dopo la guerra era nettamente calato, che lo stesso orario di lavoro dalle 7-8 ore normali si era ridotto a 4 ore ef-fettive e che l’inerzia dei dipendenti pubblici rallentava la ripresa economica del paese.

41

straneità delle burocrazie ministeriali ai temi della riforma (e, a guardare questo

dato oggi, si intravede l’inizio di una tendenza che ancora oggi caratterizza la

nostra amministrazione e, in particolar modo, i suoi ruoli gerarchici, i quali fi-

niscono per subire le riforme senza condividerne le finalità).

Tutte le speranze di riforma e di adeguamento della Pubblica Amministrazione

vengono, quindi, riposte nell’Assemblea Costituente, la quale, però, non dedica

ai problemi dell’amministrazione tutta la necessaria attenzione.

5. – L’art. 97, Cost.: i lavori preparatori e la “costituzionalizza-

zione” della diversità tra lavoro pubblico e privato.

Il dibattito della Costituente fu, sul tema del rapporto di lavoro con la Pubblica

Amministrazione, piuttosto scarno. Nel dibattito attorno all’ art. 54 l’attenzione

maggiore fu dedicata a problemi minori ed aspetti secondari, quali, ad esempio,

l’opportunità che i funzionari, se eletti membri del Parlamento, potessero o

meno, e in quale misura, progredire nella carriera per tutta la durata del manda-

to e davvero poco si disse sulle problematicità del rapporto di lavoro pubblico.

42

Diversamente, leggendo la discussione che precedette la stesura definitiva

dell’art. 97 47, appare chiara, oltremodo cristallina, l’ideologia che mosse

l’Assemblea Costituente nella formulazione della sezione II del Titolo III dedi-

cata alla Pubblica Amministrazione.

47 Questa l’evoluzione dell'articolo 97, Cost. nei lavori preparatori: Il 20 settembre 1946 la ter-za Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente testo: “1. La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi. 2. L'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica. 3. A tali impieghi si accede mediante concorso. 4. Per l'insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri”. Il 26 ottobre 1946 nella terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione il Presidente Ghidini dà lettura degli articoli approvati. “Il seguente articolo sostituisce quello approvato nel-la seduta del 20 settembre 1946: “Art. 7- Attività professionale: “1. La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale. 2. L'accesso agli impieghi nelle pubbliche Amministrazioni e negli Enti di diritto pubblico è libera ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica. 3. A tali impieghi si accede mediante concorso. 4. Per l'insegnamento universitario i concorsi pos-sono essere aperti anche a cittadini stranieri”. Il 14 gennaio 1947 la prima Sezione della secon-da Sottocommissione della Commissione per la Costituzione approva il seguente articolo: “Ai pubblici impieghi si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Il testo defini-tivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione fu il seguente: Art. 91: “1. I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determina-te le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. 2. Agli im-pieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico si accede mediante con-corso, salvo i casi stabiliti dalla legge. 3. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. 4. I pubblici impiegati membri del Parlamento non possono conseguire promozioni se non per anzianità”. Il 24 ottobre 1947, nella seduta pomeridiana, l'Assemblea Costituente ap-prova il seguente articolo: “1. I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamen-to degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità pro-prie dei funzionari. 2. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante con-corso, salvo i casi stabiliti dalla legge. 3. I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. 4. I pubblici impiegati membri del Parlamento non possono conseguire promozioni se non per anzianità”. Il testo così elaborato venne portato in Assemblea generale ed approvato nella seguente formulazione: “1. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di leg-ge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. 2. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le re-sponsabilità proprie dei funzionari. 3. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

43

Il dibattito si sviluppò su piani diversi che, nel corso delle varie sedute, finiran-

no inevitabilmente per intersecarsi: in Commissione di discusse se costituzio-

nalizzare l’accesso ai pubblici uffici mediante concorso; se, di contro, lasciare

il legislatore ordinario libero di scegliere; se e come disciplinare la responsabi-

lità dei pubblici funzionari; in che modo codificare una formula che riuscisse a

garantire il pubblico dipendente di fronte alle influenze politiche. La preoccu-

pazione che muove il dibattito costituzionale non riguarda mai i diritti del pub-

blico dipendente come lavoratore e il punto focale è sempre la natura pubblica

del suo datore di lavoro.

Il primo nodo problematico affrontato in Assemblea fu quello dell’accesso alla

Pubblica Amministrazione per il tramite del concorso pubblico. Einaudi, a tal

proposito, nella seduta del 14 gennaio 1947, fece presente “di essere assai

dubbioso sull'opportunità di inserire nella Costituzione il primo articolo pro-

posto dall'onorevole Bozzi, con cui in sostanza si stabilisce che si può accedere

ai pubblici impieghi soltanto per concorso o per elezione del popolo o per libe-

ra scelta della pubblica Amministrazione, e ciò perché possono aversi anche

altre forme di accesso alle cariche pubbliche. Così, per quanto riguarda l'in-

segnamento universitario, la chiamata diretta da parte della Facoltà non è un

concorso, né un'elezione, né una libera scelta della pubblica Amministrazione.

44

Non v'è ragione, inoltre, perché a certi gradi della Magistratura non si possa

consentire l'accesso per vie diverse da quelle previste nell'articolo proposto

dall'onorevole Bozzi: ad esempio, i magistrati di un certo grado potrebbero

benissimo essere scelti tra avvocati che abbiano dato ottima prova della loro

capacità. Tutta la magistratura inglese è scelta con questo sistema ed ha sem-

pre dato prove di un notevole spirito di indipendenza, il che deriva anche dal

fatto che i magistrati inglesi non hanno una carriera. Comunque, il progresso

finora conseguito in Inghilterra nel campo della magistratura e dell'insegna-

mento superiore è dipeso proprio dal fatto che ai ministri è stata tolta ogni fa-

coltà di nominare magistrati e professori universitari”48. L’On. Fuschini, in li-

nea con l’idea di Einaudi, affermò l’opinione che “la Costituzione debba con-

tenere soltanto principi di carattere generale sullo stato giuridico degli impie-

gati: è al legislatore ordinario poi che deve essere affidato il compito di svi-

luppare tali principi. È inutile, quindi, fissare norme di carattere costituziona-

le, per stabilire se ai pubblici impieghi si possa accedere per concorso o chia-

mata diretta o elezione: vi possono essere, infatti, altri modi per reclutare gli

impiegati, come ad esempio quello mediante contratto. Sarebbe inopportuno

fissare nella Costituzione i sistemi di reclutamento dei pubblici impiegati, per- 48 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.

45

ché ciò riguarda il processo di organizzazione dello Stato a seconda delle va-

rie esigenze del momento” 49. A loro si accodò anche l’Onorevole Fabbri, il

quale ritenne che “le norme riguardanti il pubblico impiego da inserire nella

Costituzione abbiano la loro sede normale nella legge sullo stato giuridico de-

gli impiegati” 50 51.

Dalla parte opposta del dibattito l’Onorevole Tosato, il quale ritenne che, “af-

finché possa essere garantito il rispetto del principio dell'eguaglianza di tutti i

cittadini, per la parte della Costituzione relativa ai rapporti di pubblico impie-

go, sarebbe necessario adottare una norma costituzionale, in cui fosse affer-

mato che ai pubblici uffici non si può accedere che per concorso, salvo i casi

49 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 50 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 51 L’Onorevole Corbino, in totale controtendenza rispetto al resto della Commissione, fu l’unico a sostenere la necessità di eliminare dal testo Costituzionale qualsiasi riferimento alla Pubblica Amministrazione, proponendo la soppressione dell’intero art. 97, Cost.. Tosato, a nome della intera Commissione, respinse tale proposta “radicale” con il seguente intervento: “questo articolo contiene disposizioni aventi grande importanza costituzionale: si fissa il prin-cipio che l'organizzazione dei pubblici uffici deve essere fatta per legge; si fissa quello che nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza al fine di precisare la re-sponsabilità personale dei funzionari; si stabilisce il principio fondamentale dell'obbligo del concorso per coprire i pubblici uffici, ed infine quelli che i pubblici impiegati sono esclusiva-mente al servizio dell'Amministrazione e non possono, quando sono membri del Parlamento, conseguire promozioni se non per anzianità. Sono tutti principî di carattere fondamentale, di importanza costituzionale, che la Commissione ritiene opportuno vengano fissati nella Costitu-zione. Si vedrà poi, in sede di coordinamento, se sia opportuno togliere qualche sovrabbon-danza verbale: ma la sostanza dell'articolo dovrebbe rimanere”.

46

in cui la legge non disponga altrimenti” 52, proponendo di inserire nella Costi-

tuzione il seguente principio: “Ai pubblici impieghi si accede mediante concor-

so, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Il Presidente Terracini, preoccupato di

salvaguardare la meritocrazia nell’accesso alla Pubblica Amministrazione, si

mostrò d'accordo con l'onorevole Tosato circa “l’opportunità di affermare nel-

la Costituzione che ai pubblici impieghi si debba accedere per concorso.

Un'affermazione di tal genere starebbe a precisare in forma solenne che non si

può entrare a far parte di una pubblica Amministrazione per tramite di favori-

tismi” 53.

Nel dibattito sull’opportunità di inserire nella Costituzione il principio

dell’accesso alla Pubblica Amministrazione mediante concorso pubblico si in-

serirono alcune considerazioni, quasi fossero solo degli incider tantum, intorno

alla necessità di affermare l’indipendenza del pubblico impiegato rispetto al

potere politico. Mortati, nell’esprimere la volontà di inserire un corpo di norme

che riguardino specificamente la Pubblica Amministrazione, affrontò a viso

aperto il problema sostenendo la necessità “di assicurare ai funzionari alcune

garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costitu-

52 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 53 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.

47

zione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a ga-

rantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un'ammini-

strazione obiettiva della cosa pubblica e non un'amministrazione dei partiti. A

tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a ser-

vizio della collettività e non dei singoli partiti”54.

Il Presidente Terracini, in posizione adiacente a quella dell’Onorevole Mortati,

portò in Assemblea Costituente la concezione pubblicistica del rapporto di la-

voro del pubblico impiegato, il quale svolge le sue funzioni “al servizio della

collettività” 55, esplicitando che “i pubblici impiegati sono subordinati a un de-

terminato impegno, a differenza di coloro che si dedicano al commercio, alle

professioni liberali e in genere a qualsiasi altro lavoro; ed è appunto l'impe-

gno di compiere la propria opera al servizio della collettività, che giustifica

poi l'idea di non riconoscere il diritto di sciopero a questa categoria di lavora-

tori, cosa che invece a nessuno mai è venuto in mente di contestare agli impie-

gati privati” 56. Fuschini, ritenne che “si debba dire che i funzionari sono al

servizio dello Stato e non già della collettività, perché la collettività è un con-

54 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 55 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 56 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.

48

cetto generico, mentre lo Stato rappresenta sempre qualcosa di concreto” 57. Il

Presidente Terracini, nel mettere in discussione la proposta dell'onorevole Mor-

tati, la quale recitava “I pubblici impiegati sono al servizio della Nazione ed è

garantita la loro piena indipendenza da influenze politiche” e rispetto alla qua-

le lo stesso Mortati, dichiarò che la formula da lui proposta “tende a completa-

re la disposizione contenuta in altra parte del progetto della Costituzione, con

cui si stabilisce che tutti i cittadini sono ammessi ai pubblici impieghi senza di-

stinzione di fede politica. Difatti, anche durante lo svolgimento della carriera,

l'impiegato dev'essere garantito da influenze politiche” 58, sottolineò che “ri-

spetto all'idea di garantire agli impiegati l'indipendenza da influenze politiche,

essa è già affermata in altra parte del progetto della Costituzione, in cui è e-

spressamente stabilito che tutti i cittadini sono ammessi ai pubblici impieghi

senza distinzione di sesso, di razza, di religione o di fede politica. La fede poli-

tica degli impiegati quindi non può essere ragione di un loro allontanamento

dal pubblico impiego o di misure di carattere disciplinare” 59.

57 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 58 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 59 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego.

49

L’Onorevole Nobile, nel dichiararsi d’accordo con la proposta dell’Onorevole

Mortati affermò l’esigenza di “garantire l'indipendenza del funzionario da in-

fluenze politiche, perché, ad esempio, è sempre possibile il caso di un Ministro

che voglia perseguitare un funzionario per le sue idee politiche” 60 61.

Quello che chiaramente emerge dagli interventi dei Costituenti è che essi mo-

strarono chiaramente di privilegiare la veste di “funzionario” del pubblico di-

pendente, aderendo ad una concezione pubblicista del rapporto di lavoro e mi-

rando a salvaguardare l’interesse della pubblica amministrazione piuttosto che

quello del prestatore di lavoro. D’altronde la preoccupazione di garantire

l’indipendenza del funzionario non muove dalla tutela del dipendente di fronte

alla possibilità che quest’ultimo si trovi succube della volontà politica del mo-

mento, ma nasce esclusivamente dall’esigenza di assicurare l’imparzialità e il

buon funzionamento della Pubblica Amministrazione, in modo che questi non

vengano sacrificati sull’altare degli interessi di parte o dei capricci politici dei

Ministri di riferimento. E’ chiarissima l’inversione di tendenza rispetto agli ar-

ticoli sul lavoro nell’impresa, attraverso i quali, ad opera della legge, costitu-

zionale e non, e della contrattazione collettiva, si costruisce un sistema di tutela

60 Seduta del 14 gennaio 1947, prima Sezione, seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione discute sui rapporti di pubblico impiego. 61 E se si crede che le preoccupazioni dell’On. Nobile siano eccesive, soprattutto nel 2011, si rimanda al cap. III, par. 6.

50

del dipendente, il quale viene difeso dalla posizione di debolezza contrattuale

in cui si viene naturalmente a trovare rispetto al datore di lavoro e dalla supre-

mazia che, di fatto, quest’ultimo esercita su di lui. Tutela che rimane del tutto

sconosciuta al dipendente pubblico, al quale il costituente non riesce a “perdo-

nare” la natura pubblica del datore di lavoro 62.

62 Emblematica, in tal senso, fu la proposta dell’On. Bozzi che prevedeva il riconoscimento co-stituzionale del divieto di sciopero per i dipendenti pubblici (Prima sezione, Seconda Sotto-commissione, seduta del 14 gennaio 1947). Il dibattito sul tema, al di fuori dell’assemblea e dopo l’approvazione della Costituzione, si fa infuocato. Gli ostacoli che vengono opposti al riconoscimento del diritto di sciopero per i dipendenti pubblici si fondano da un lato sull’affermata necessità di attendere le leggi regolatrici dello sciopero, secondo la previsione dell’art. 40, Cost.;; dall’altro sull’indiscussa sopravvivenza, allo stesso art. 40, delle norme del codice penale, le quali si accordano molto bene con le disposizioni costituzionali che impon-gono l’adempimento della funzione pubblica con disciplina ed onore, al servizio esclusivo del-la nazione. In primo luogo gli artt. 330 e 333 c.p. che puniscono, rispettivamente, i reati di “ab-bandono collettivo” e di “abbandono individuale” di “pubblici uffici, impieghi, servizi o lavo-ri”, e poi anche l’art. 504 che punisce il reato di “coazione della pubblica autorità mediante […] sciopero”. La questione di costituzionalità si pone a partire dal 1958: con la sentenza 2 lu-glio 1958, n. 45 (in Giur. cost., 1958, p. 569, con nota di C. ESPOSITO) la Corte Costituzionale, nel dichiarare la legittimità costituzionale dell’art. 333 c.p. afferma che “tale norma […] non può trovare applicazione allorché l’abbandono dell’ufficio, servizio o lavoro costituisca sem-plicemente partecipazione ad uno sciopero, se ed in quanto questo possa essere considerato legittimo”. La Corte non si pronuncia su cosa debba intendersi per “sciopero legittimo”;; tutta-via, adottando un criterio che sarà poi alla base delle sue successive decisioni, accenna a quei “preminenti interressi dell’organizzazione sociale e giuridica che non potrebbero essere su-bordinati ad un incondizionato ed illimitato esercizio dello sciopero”. Coerentemente con que-sta sua prima pronuncia, nel 1962 la Corte, pur ritenendo infondata la questione di legittimità degli artt. 330 e 504 c.p., ritiene ammissibile lo loro applicabilità solo “entro limiti in cui la perseguibilità sello sciopero appare necessitata dal bisogno di salvaguardare dal danno, dal medesimo derivante, il nucleo degli interessi generale assolutamente preminenti rispetto agli altri collegati all’autotutela di categoria” (Corte cost., 28 dicembre 1962, n. 123, in Giur. cost., 1962, p. 1506, con nota di V. CRISAFULLI, Incostituzionalità parziale dell’art. 330 c.p. o esi-mente dell’esercizio di un diritto?). Infine, con la sentenza 17 marzo 1969, n. 31 (in Giur. cost., 1969, p. 410, con nota di G. NEPPI MODONA, Sciopero nei pubblici servizi, ordinamento corpo-rativo e politica costituzionale e di R. ZACCARIA, Illegittimità dell’art. 330 c.p.: un’altra sen-tenza difficile della Corte Costituzionale) la Corte dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 330 c.p. “limitatamente all’applicabilità allo sciopero economico, che non comprometta fun-zioni o servizi pubblici essenziali aventi carattere di preminente interesse generale ai sensi del-la Costituzione”.

51

Così, per quanto riguarda l’amministrazione pubblica, a parte lo smantellamen-

to dell’organizzazione di vertice più immediatamente espressiva del regime fa-

scista, si lascia praticamente immutato tutto il resto della struttura. Si dice, in-

cisivamente che “la Costituzione passò sopra gli apparati statali senza toccar-

li”63.

6. – Il testo unico del 1957.

Gli anni immediatamente successivi all’emanazione della Carta Costituzionale

si caratterizzarono per il consolidamento del modello pubblicistico e per il co-

stante ed inesorabile allontanamento dal diritto del lavoro privato. La dottrina,

alla luce delle norme approvate dall’Assemblea, trovò argomenti di rango co-

stituzionale a sostegno della diversità che intercorreva tra i due rapporti di im-

piego, quello privato e quello pubblico. L’applicabilità delle norme costituzio-

nali si risolse in un ulteriore affermazione della specialità del rapporto di pub-

63 S. CASSESE, Immunità ed “inefficienza” della burocrazia, in La formazione dello Stato am-ministrativo, Milano, Giuffrè, p. 227, 1974.

52

blico impiego: ne è un esempio eclatante la riserva di legge in materia di orga-

nizzazione degli uffici stabilita dall’art. 97, Cost.64. Alla luce della tradizionale

concezione per cui il rapporto pubblico veniva attratto nella sfera

dell’organizzazione, tale norma fu interpretata come un ostacolo alla piena

ammissibilità della contrattazione collettiva nel settore pubblico, divenendo in

tal modo ulteriore strumento di allontanamento tra impiego pubblico e privato.

Una riforma del pubblico impiego, che, tra le altre cose, recepisse le novità in-

trodotte dal dettato costituzionale, era avvertita come necessaria65. Venne, a tal

fine, costituito l’Ufficio per la riforma amministrativa66, che, con varie deno-

minazioni, sarebbe sopravvissuto fino a divenire l’attuale Dipartimento della

funzione pubblica e che agì fin dal 1950. L’ufficio conobbe il suo periodo più

felice nei suoi primi 5 anni di vita, quando elaborò una serie di linee guida che,

solo parzialmente, sarebbero confluite nel testo unico del 10 gennaio del 1957,

64 Si veda, in proposito, P. CARETTI, C. PINELLI, U. POTOTCHINIG, G. LONG, G. BORRÈ, La pub-blica amministrazione (art. 97 e 98 della Costituzione), Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Ita-liano, 1994. 65 D’altronde un’indicazione in tal senso era arrivata proprio dalla Costituente. Il Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini, nella relazione che accompagnò il Pro-getto di Costituzione della Repubblica italiana indicò come fosse avvertito da tutti “il bisogno che il Paese sia bene amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia. E si sente la tacita invocazione ad una riforma profonda e semplificatrice”. 66 Per un’analisi approfondita dell’attività e della funzione dell’ufficio si rimanda a G. MELIS, L’ufficio per la riforma: l’illusione della razionalità, in Lavoro e diritto, X, 2, pp. 213 ss, 1996.

53

n. 367. Alla base del disegno riformatore elaborato dall’ufficio per la riforma

amministrativa fu posto il principio cardine del grado funzionale, vera e propria

rivoluzione rispetto alle riforme De Stefani del 1923: si sarebbe trattato, se la

riforma fosse andata in porto così come era stata progettata, di introdurre

un’articolazione organizzativa tale che a ciascun grado corrispondesse una fun-

zione. Un principio evidentemente in grado di sovvertire tutta la filosofia ge-

rarchica che sino ad allora aveva dominato l’ordinamento.

Il grado funzionale subì, all’atto della trasformazione in legge, un totale ribal-

tamento e il testo unico del 1957 non fece altro che consolidare i principi tradi-

zionali di rigidità, gerarchismo e verticismo, impressi nel sistema dei ruoli

chiusi, che da sempre caratterizzavano l’amministrazione italiana.

L’idea centrale del passato, secondo cui il rapporto vive nell’esclusivo ambito

dell’istituzione amministrativa (dove prevalgono sempre “gli interessi generali

dell’organizzazione dei pubblici uffici, anche se il funzionario è un cittadino

con una sua personalità”68) rimane una pietra angolare del sistema normativo.

Le trionfalistiche affermazioni con le qual il Governo si compiaceva di aver in-

67 Esso raccoglie organicamente la normativa dei decreti delegati nn. 4, 16, 17, 19 e 20 dell’11 gennaio 1956, emanati dal Governo in base alla delega avuta dal Parlamento con la legge 20 dicembre 1954, n. 1181. 68 PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, L’attuazione della riforma della pubblica ammi-nistrazione, Relazione del Ministro segretario di Stato G. Gonnella al Presidente della Repub-blica sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, Roma, 1957.

54

trodotto, per il tramite del testo unico, una legislazione più rispondente ai biso-

gni dell’amministrazione e adeguata al dettato costituzionale, risultano davvero

poco fondate;; in realtà non si è fatto altro che “riverniciare con tinte più sfuma-

te lo stato giuridico del 1923, utilizzando la giurisprudenza del Consiglio di

Stato creatasi, ovviamente, proprio su quel testo-base”69. Ciò è tanto più evi-

dente soprattutto se si pensa che la legge delega lascia intravedere qualche ten-

tativo del Parlamento di incidere sensibilmente su qualcuno dei profili tradizio-

nali del pubblico impiego. Il divario, facilmente rintracciabile70, tra i contenuti

della legge delega e quelli delle leggi delegate, rende chiara l’intenzione del

Governo di non toccare la spina dorsale del potere burocratico. Intenzione che

si realizzò anche attraverso l’assenso dell’alta burocrazia, che venne tacitata

mediante la concessione di vantaggi retributivi e di carriera a fronte di scarse

aperture a nuove ed autonome responsabilità, e del potere sindacale. Il sindaca-

69 M. RUSCIANO, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il mulino, 1978. 70 A titolo esemplificativo, l’art. 2, nn. 15 e 16 della legge delega disponeva che il nuovo statu-to dovesse contenere disposizioni relative al “diritto e dovere di ogni impiegato di adempiere le funzioni di ufficio al servizio esclusivo della Nazione e nel pieno godimento dei diritti e delle libertà costituzionali”. Tali disposizioni dovevano garantire ai pubblici dipendenti “la massima tutela delle loro esigenze di ordine individuale, familiare e sociale, nel quadro della più ampia considerazione della loro personalità”. Questi principi vennero sostanzialmente disattesi nella stesura del testo unico: seppure venne stabilito che l’ammissione ai pubblici impieghi non po-tesse essere più rifiutata a “giudizio insindacabile dell’amministrazione”, seppure venisse del tutto modificata l’antica formula del giuramento, restò ferma, tra i requisiti necessari di ammis-sione ai concorsi “la buona condotta”;; essa, certo, non fu più quella “civile, morale e politica”, ma poteva comunque essere valutata discrezionalmente dall’amministrazione. Inoltre fra i do-veri dell’impiegato rimane quello di mantenere, sia in ufficio che fuori, una condotta conforme alla dignità delle proprie funzioni.

55

lismo pubblico, infatti, nel quindicennio successivo all’entrata in vigore della

Costituzione, si distinse nettamente da quello privato: per prima cosa, sotto il

profilo strutturale, perché fu prevalentemente sindacalismo autonomo, espres-

sione di interessi di singole categorie di dipendenti, risultando del tutto scolle-

gato dal mondo del lavoro subordinato nell’impresa;; poi, sotto il profilo delle

strategie e delle forme di lotta, perché l’azione dei sindacati pubblici, non di-

sponendo delle strumento tipico del contratto collettivo, si diresse, da un lato,

verso la conquista di forme di “partecipazione” intesa come presenza di rappre-

sentanti del personale degli organi amministrativi (cd. cogestione), e, dall’altro,

si espresse in forme di pressione sul Parlamento e sul Governo, volte non

all’introduzione di riforme complessive dell’organizzazione del lavoro e degli

uffici, ma alla concessione di vantaggi economici per questa o quella categoria

di dipendenti71; vantaggi che non vennero certo negati da una classe politica

propensa ad una gestione clientelare del potere72.

71 Al Congresso della CGIL del 1949 Di Vittorio parlò dei pubblici dipendenti come di una “zona depressa nella generale situazione dei lavoratori italiani” (G. DI VITTORIO, Rapporto sull’attività e le lotte della CGIL al 2° congresso nazionale unitario (Genova, 4-9 ottobre 1949), in I Congressi della CGIL, Roma, 1970 (rist.), vol. III, pp. 46-47); e nel successivo Congresso del 1952 venne annunciato come un successo il raggiungimento di un accordo tra la federazione degli statali, aderente alla CGIL, la Dirstat e i sindacati autonomi sulla richieste da avanzare al Governo per l’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita (Cfr. Relazione al 3° Congresso della CGIL (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952) in I congressi della CGIL, cit., vol. IV-V, p. 149). Alle richieste di carattere economico si accompagnò sempre la richiesta di una profonda riforma dell’amministrazione pubblica. Tuttavia si nota subito il modo diverso con cui vengo portate avanti le due rivendicazioni: quella di miglioramenti economici venne

56

7. – Le leggi del 1968 e del 1970: l’ ingresso dei diritti sindacali

nelle Pubbliche Amministrazioni.

Il punto di svolta del pubblico impiego si colloca nella seconda metà degli anni

sessanta.

A concorrere furono diversi fattori: il salto di qualità della politica sindacale,

tanto nel pubblico impiego quanto (e forse anche di più) nel settore privato,

l’ingresso del sindacalismo di tipo confederale nel settore pubblico73,

l’approvazione di una disciplina legislativa limitativa del licenziamenti indivi-

duali (l. n.604/1966), l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori (l. n.

300/1970) e l’introduzione del processo del lavoro (l. n. 533/1973).

L’insieme di questi eventi comportò, in un chiasmo che rappresenta il primo

germe delle istanze di privatizzazione che verranno, un ribaltamento del rap-

porto tra impiego pubblico e privato rispetto a quanto accaduto quarant’anni

prima: si affermò il problema della estensione delle garanzie riconosciute ai di-

pendenti privati nel settore del pubblico impiego. D’ora in avanti, in altre paro-

sostenuta da un’ondata di scioperi; mentre quella della riforma degli apparati pubblici viene espressa soltanto in mozioni e risoluzioni assembleari. 72 Si sviluppò in questo modo la prassi di interventi legislativi “microsezionali” (cd. leggine), che non fecero altro che creare una situazione di estrema frammentazione normativa. 73 Più diffusamente, si veda L. ZOPPOLI, Contrattazione e delegificazione nel pubblico impiego. Dalla legge quadro alle politiche di privatizzazione, Napoli, Jovene, 1990.

57

le, la separazione del diritto del lavoro privato dal diritto del lavoro pubblico

non costituì più un vantaggio per i funzionari dell’amministrazione, per la cui

tutela si iniziò a guardare al sistema privatistico.

Il rapporto di pubblico impiego, che sino ad allora aveva trovato integrale di-

sciplina in atti unilaterali del potere pubblico, iniziò ad aprirsi al sistema dei

sindacati sperimentato nel lavoro alle dipendenze dell’impresa. La prima brec-

cia si aprì a Palazzo Vidoni, nel 1966 in occasione di un vertice tra CGIL,

CISL, UIL e Governo da cui scaturirono due leggi-delega74 nelle quali, per la

prima volta75, la contrattazione sindacale fece il suo ingresso ufficiale nel setto-

re del pubblico impiego76. Venne, in particolare, stabilito che mansioni e trat-

tamento economico e di quiescenza di operai e impiegati delle carriere esecuti-

ve, di concetto e ausiliari (fatta eccezioni, quindi, per i dirigenti) potessero es-

sere disciplinati con regolamento, in attuazione di accordi tra Governo e sinda-

cati77.

74 LL. 18 marzo 1968, n. 249 e 28 ottobre 1970, n. 775. 75 Il metodo della contrattazione collettiva ottenne riconoscimento legislativo, per la prima vol-ta, con la l. 12 febbraio 1968, n. 132, per il personale ospedaliero; poi venne esteso anche al personale statale (l. 28 ottobre 1970, n. 775, successivamente modificata dalla l. 22 luglio 1975), degli enti pubblici non economici (l. n. 70/1975), nonché degli enti locali (l. 27 febbraio 1978, n. 43) e del servizio sanitario nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833). 76 C. D’ORTA, Legge quadro sul pubblico impiego e qualifiche funzionali sette anni dopo: una riforma “strabica”, in Riv. trim. dir. pub., 3, p. 771, 1990 parla dell’evento come “formale sanzione in un settore centrale del pubblico impiego come quello statale”. 77 Art. 24, l. 28 ottobre 1970, n. 775: “1. Le mansioni ed il trattamento economico e di quie-scenza degli operai e degli impiegati delle carriere esecutive, di concetto e ausiliarie delle

58

Con le già citate ll. nn. 249/1968 e 775/1970 fecero, inoltre, il loro ingresso sul

palcoscenico del rapporto di lavoro pubblico i diritti sindacali (permessi retri-

buiti, aspettativa per chi è impegnato in attività sindacale, diritto di affissione e

uso gratuito di locali da adibire ad uffici sindacali, riscossione, mediante tratte-

nuta sullo stipendio, dei contributi sindacali, diritto di assemblea nei luoghi di

lavoro nei limiti di dieci ore annue retribuite). L’innovazione, a guardare il solo

sistema del diritto del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione è

storica. Ma, in un impietoso confronto con lo Statuto dei Lavoratori, da cui,

anche solo sulla base della coincidenza temporale, non ci si può esimere, torna

a fare capolino la diversità di atteggiamento del legislatore di fronte ai lavora-

tori privati e ai dipendenti pubblici.

Così, senza troppe difficoltà, ci si accorge che le lacune normative che caratte-

rizzano la disciplina elaborata per il pubblico impiego sono molte e investono

Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, oltre che con legge, possono essere disciplinati anche con regolamento in attuazione di accordi stipulati tra il Governo ed i sindacati rappresentanti nei consigli di amministrazione o le confederazioni sindacali di cui es-si facciano parte. 2. Il regolamento previsto dal precedente comma è emanato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro od i Ministri competenti e con il Ministro per il tesoro. 3. Resta ferma la necessità dell'approvazione con legge dell'eventuale copertura finanziaria. 4. Debbono in ogni caso essere disciplinati con legge lo stato giuridico, le mansioni, il trattamento economico e di quiescenza del personale delle carriere direttive dell'Amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo. 5. La procedura prevista dal primo e dal secondo comma si applica anche alla modifica, abrogazione o sostituzione delle disposizioni vigenti ancorché contenute in leggi od in atti aventi valore di legge”.

59

profili significativi78: va innanzitutto sottolineata l’assenza di una disposizione

che, in qualche modo, corrisponda a quella dell’art. 19 dello Statuto dei Lavo-

ratori, seconda la quale in ogni unità produttiva i lavoratori posso costituire

“rappresentanze sindacali aziendali” nell’ambito “delle associazioni aderenti

alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” o “delle

associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano fir-

matarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'uni-

tà produttiva”;; manca una tutela, analoga a quella prevista per il lavoro privato,

contro la “discriminazione” (art. 15 e 16 dello Statuto), contro i “sindacati di

comodo” (art. 17 dello Statuto) e, soprattutto, contro la “condotta antisindaca-

le” (art. 28 dello Statuto) del datore di lavoro79.

La contraddizione di fondo che pervade le ll. nn. 249/1968 e 775/1970 fu de-

terminata dalla volontà del legislatore di concedere senza esagerare, in modo

da evitare che il sindacalismo pubblico una volta avuta la mano riuscisse a

78 Nelle leggi del 1968 e del 1970 non si riesce quasi mai ad individuare con chiarezza il sog-getto dell’autonomia collettiva: si usano indistintamente le espressioni “organizzazioni sinda-cali a carattere nazionale maggiormente rappresentative”, “organizzazioni sindacali dei lavo-ratori”, “sindacati rappresentati nei consigli di amministrazione”. 79 La Corte di Cassazione, dopo alcune pronunce (tra cui, Cass, SS. UU., 6 maggio 1972, n. 1380, in Giust. civ., I, p. 1408, 1973) in cui si limitava ad escludere i soli dipendenti statali dal-la possibilità di fruire del procedimento ex art. 28, l. 300/1970, si è orientata verso la tesi dell’inapplicabilità dell’art. 28 a tutto il settore del pubblico impiego (v. Cass., SS. UU., 9 no-vembre 1974, n. 3477, in Riv. giur. lav., II, p. 215, 1975; Cass., SS.UU., 19 novembre 1974, n. 3700, in Mass. giur. lav., p. 688, 1975; Cass., SS. UU., 11 novembre 1974, n. 3504, in Mass. giur. lav., p. 648, 1975).

60

prendersi anche il braccio. La possibilità che la contrattazione collettiva potes-

se invadere gli spazi fino ad allora riservati alla determinazione unilaterale del

potere politico spaventava, e non poco. Così da un lato la classe politica volle

giovarsi dell’apporto delle maggiori organizzazione dei lavoratori, dall’altro

non era disposta a perdere i benefici dati dalla presenza dei sindacati autonomi;

così finse di prendere atto della immanente realtà sindacale nel rapporto di

pubblico impiego, per poterne controllare l’operato e limitarla nell’erosione

delle materie da disciplinare.

L’espandersi delle materie attratte nella competenza della contrattazione collet-

tiva nel pubblico impiego, che, nonostante l’opposizione strenua della classe

politica, lenta ma inesorabile ha caratterizzato tutti gli anni a venire (fino alla

battuta d’arresto determinata dalla riforma Brunetta) ha segnato profondamente

la materia del diritto del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazio-

ne ed è diventata il punto di origine del fenomeno contrattuale, determinandone

la conformazione morfologica.

61

8. – Il rapporto Giannini, ovvero il manifesto della privatizza-

zione.

Il vento di cambiamento che da un decennio soffiava sulla Pubblica Ammini-

strazione trovò la sua massima espressione il 16 novembre 1979, giorno in cui

il Ministro della Funzione pubblica Massimo Severo Giannini80 trasmise alle

Camere il Rapporto sui principali problemi dell’Amministrazione dello Stato81.

Organizzato in cinque capitoli (Introduzione, Tecniche di Amministrazione,

Tecnologia delle Amministrazioni, Personale e Riordinamento

dell’Amministrazione dello Stato) il rapporto Giannini, come fin da subito

venne chiamato, avvertiva che occorreva ripensare completamente

l’organizzazione della Pubblica Amministrazione la quale, a seguito dello svi-

luppo industriale degli ultimi decenni, era passata da essere un ente autoritativo

80 MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto sui principale problemi dell’Amministrazione dello Stato (trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979), in Riv. trim. dir. pub., 3, pp. 722 ss., 1982. 81 Allievo di Santi Romano e Guido Zanobini, diventa professore ordinario di diritto ammini-strativo a 24 anni, nel 1939. Capo di gabinetto del ministro per la Costituente Pietro Nenni dal 12 agosto 1945 al 2 agosto 1946. Nel 1976 presiede la commissione ministeriale che redigerà i decreti del Presidente della Repubblica che trasferiscono le funzioni alle Regioni. Come tecni-co di area socialista è ministro per la funzione pubblica nel primo governo Cossiga (4 aprile 1979 - 4 agosto 1980) e dei rapporti con il Parlamento nel secondo governo Cossiga (4 agosto 1980 - 18 ottobre 1980).

62

a un gestore di trasferimenti di ricchezza82. Occorreva, quindi, una riforma in-

cisiva, un ripensamento globale dell’Amministrazione che la ponesse in grado

di soddisfare la domanda che le si rivolgeva: uno sforzo enorme di moderniz-

zazione e di razionalizzazione dello Stato.

Modernizzazione che, per Giannini, diventa sinonimo di “privatizzazione”83.

Questa è l’idea di fondo che pervade tutto il rapporto del Ministro. Egli, per

primo, in assoluto controtendenza rispetto alla dottrina e alla giurisprudenza

del tempo, si era accorto che “se, guardando oltre le attuali incertezze, si cer-

chino le ragioni del travaglio, ci si avvede che esse stanno nel processo di

82 MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto sui principale problemi dell’Amministrazione dello Stato (trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979), in Riv. trim. dir. pub., 3, pp. 723-724, 1982: “Il dramma organizzativo degli Stati industriali avanzati, o-vunque nei medesimi termini, è troppo noto affinché occorra illustrarlo: nel giro di pochi de-cenni, essi, partiti come enti di funzioni di ordine e di base, tipicamente autoritativi, sono dive-nuti anche enti gestori di servizi, ed infine anche enti gestori di trasferimenti di ricchezza. Cia-scun tipo dei nuovi gruppi di funzioni si è aggiunto al precedente, peraltro modificandolo in alcuni contenuti, in senso riduttivo di quantità, comunque sempre diminutivo dell’area autori-tativa. Le amministrazioni statali che hanno saputo adeguarsi al rapido mutamento hanno ret-to; le altre no, e tra esse è la nostra. Anche in ordine a questo accadimento, il Rapporto si astiene dal discutere sulle cause. Basti la constatazione che da noi le amministrazioni d’ordine, le amministrazioni di servizi e le ammi-nistrazioni di finanza convivono in regimi di giustapposizione. Ripensare la posizione delle amministrazioni dello Stato significa rendersi conto che, per la dominanza assunta da quelle del secondo e del terzo tipo, lo Stato ha accentuato il carattere, che prima aveva solo in parte, di azienda di attività terziaria, sia pure in alcuni casi anche munita delle leggi di potestà auto-ritativa per poter imporre le proprie decisioni mediante comandi unilaterali. Questo concetto deve servire come guida, nell’analisi dei problemi che si passa ad esporre”. 83 Prima di Giannini a teorizzare il disegno di una costruzione unitaria del contratto di impiego fu Pietro Cogliolo nel ventennio a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nel 1991 questi scriveva: “il contratto di impiego ha diritto di essere un contratto a sé stante e […] può essere definito il contratto per il quale una persona destina la propria attività profes-sionale in favore di privati, di industrie, di enti pubblici, con intendimento continuativo e scopi di carriera e col divieto di dare ad altri la stessa attività”.

63

pubblicizzazione forzosa che i rapporti di pubblico impiego e di lavoro con gli

enti pubblici hanno subito nel corso di mezzo secolo. L’aver attribuito al giu-

dice amministrativo la giurisdizione esclusiva per le controversie di impiego

pubblico fece scattare il meccanismo derivante dalla centralità del processo

per ogni esperienza giuridica, onde il giudice amministrativo non esitò a dire

pubblico ogni sorta di rapporto di lavoro sol che corresse con un ente pubbli-

co, ed inventò, forzando le norme, il rapporto di impiego retto dalle norme

sull’impiego privato, il rapporto di impiego pubblico a contratto, piegando co-

sì delle realtà che erano nate come rapporti di diritto privato. Successivamente

intervenne la Corte dei Conti, che, per dare ordine alla spesa per il personale

degli enti pubblici, fece accentuare ulteriormente gli aspetti pubblicistici del

rapporto. L’inversione di tendenza si è avuta man mano che i rapporti di im-

piego privato acquistavano la semistabilità del regime assistenziale e previ-

denziale già propri dell’impiego pubblico;; la contrattazione collettiva

nell’impiego pubblico è stata introdotta in nome di un “avvicinamento” tra i

due rapporti, ma senza aver visto i problemi di fondo (e francamente neppure

la convenzione 151 del B.I.T. del giugno 1978, ne ha piena consapevolezza). I

rapporti di servizio, nell’impiego pubblico e in quello privato sono gli stessi: i

funzionari, i tecnici, gli operai delle Ferrovie dello Stato – dipendenti pubblici

64

– rendono prestazioni non dissimili rispetto a quelle dei corrispondenti lavora-

tori dell’ENEL – dipendenti privati –; gli ingegneri, i ragionieri, gli archivisti

dello Stato svolgono le stesse attività che svolgerebbero presso una impresa

privata. La differenza sta in ciò: che alcuni dei dipendenti pubblici aggiungono

al rapporto di servizio un rapporto d’ufficio quando divengono titolari di un

organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con atti autoritativi di pubblico

potere: sono le persone attraverso le quali si esprimono le potestà pubbliche.

Vi è dunque una fascia di pubblici dipendenti che hanno uno status speciale,

per essere, in atto o in potenza, i portatori delle potestà pubbliche. C’è allora

da chiedersi se un’altra strada percorribile non sia quella di privatizzare i

rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio della potestà pubbli-

ca, conservando come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai

quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti.

Non avrebbero rilievo le obiezioni che in tal modo salterebbero le piante orga-

niche e il reclutamento per concorso, poiché le une e le altre esistono oramai

anche in imprese private” 84.

I problemi dell’amministrazione italiana erano analizzati con lucidità scientifi-

ca, le soluzioni proposte erano dettagliate e si inserivano in un quadro politico

84 Ibidem, p. 738-739.

65

che, per la prima volta, sembrava disponibile a prestare la sua attenzione ai

problemi del corpo burocratico italiano, il dilemma amletico della qualificazio-

ne del rapporto di pubblico impiego era affrontato dopo decenni di colpevole

non curanza.

Il Rapporto Giannini, alla sua comparsa sulla scena85, non poté che suscitare

molto scalpore. Più dei singoli progetti di riforma proposti, quello che più con-

tava era il rovesciamento della concezione del rapporto di pubblico impiego ri-

spetto alla tradizionale impostazione gerarchico – burocratica. Con un solo

colpo, e sulla base di inconfutabili argomentazioni, veniva messa in discussio-

ne la più radicata concezione della scienza giuridica pubblicistica e, con tono

perentorio, la supremazia del Consiglio di Stato in materia di giurisdizione e-

85 Il Rapporto fu seguito dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri del 1 febbraio 1980, che istituì gli uffici di organizzazione e metodo e dall’ordine del giorno approvato il 10 luglio dal Senato, che ripropose i punti essenziali del documento. Seguì la costituzione di una serie di commissioni che avrebbero dovuto sviluppare i temi messi a fuoco dal Rapporto e ne avrebbe-ro dovuto rendere operative le principali proposte. Le “commissioni Giannini” furono una quindicina: quella per la ristrutturazione dello Stato presieduta da Pototsching; quella per lo studio dei problemi inerenti alla misurazione della produttività presieduta da Alessandro Tara-del; la sottocommissione per il riordinamento delle aziende autonome presieduta da Enzo Ca-paccioli; quella per i controlli presieduta da Luigi Petriccione; quella per la revisione strutturale ed organizzativa degli enti pubblici e di ricerca dello Stato presieduta da Fabio Merusi; quella per il riordinamento della Presidenza del Consiglio presieduta da Giuliano Amato; quella per la semplificazione delle procedure e la fattibilità e applicabilità delle leggi presieduta da Alberto Barettoni; quella per la ristrutturazione dei poteri centrali presieduta da Franco Piga; quella per la pubblicità degli atti amministrativi presieduta da Giuseppe Santaniello; quella per l’omogeneizzazione dei trattamenti di quiescenza e di previdenza dei dipendenti pubblici e per la perequazione dei trattamenti pensionistici presieduta da Vincenzo Colletti; quella per i rap-porti Stato-regioni presieduta da Franco Bassanini; quella sul difensore civico presieduta da Riccardo Chieppa; quella per la disciplina del diritto di sciopero nei pubblici servizi presieduta da Guido Zangari.

66

sclusiva relativamente al rapporto di impiego pubblico86, che non fece certo at-

tendere la sua risposta. In occasione del parere richiesto dalla Presidenza del

Consiglio dei Ministri, infatti, il Consiglio di Stato, nella composizione

dell’Adunanza generale, ribadì l’esigenza che fosse garantito “al Consiglio di

Stato il suo ruolo, il suo prestigio, e la sua autonomia, mediante la salvaguar-

dia della sua peculiare e tradizionale fisionomia caratterizzata dalla moltepli-

cità delle fonti e dalla contemporanea rigorosa selezione della provvista dei

suoi membri, nonché da quella osmosi di funzioni e di esperienze che ne fanno

un organo vitalmente collegato all’Amministrazione piuttosto che un “corpo

separato” ripiegato su se stesso”87, e nell’affermare la propria adesione

all’impostazione gerarchica del rapporto di impiego pubblico in riferimento al

quale “le scelte relative all’organizzazione dei pubblici uffici non coinvolgono

soltanto gli interessi dello Stato – persona – datore di lavoro e quelle di fun-

zionari – lavoratori, ma incidono su interessi dello Stato – comunità in quanto

si risolvono in scelte relative agli strumenti per perseguire i fini dello Stato –

86 “Non si può chiudere, senza dire anche della giustizia amministrativa, non, si badi, per i suoi contenuti giurisdizionali – che pur ormai richiederebbero nuovi radicali ripensamenti -, ma per i suoi contenuti amministrativi”, MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto, cit., p. 754. 87 CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, Parere 10 aprile 1980, n. 8 Gab – Pres. L. Le-vi Sandri, in Riv. trim. dir. pub., 3, pp. 757 ss., 1982.

67

comunità, e dunque condizionano il perseguimento di quei fini”88, ne richiamò

a sé tutto l’apparato di tutele perché tale “coinvolgimento di interessi è la vera

ratio (e il fondamento della permanente validità) della attribuzione del relativo

contenzioso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”89.

Non che Giannini non avesse chiaro quanto fosse difficile il percorso che si

prospettava (“non si possono attendere risultati a tempo breve”90 scriveva in

un passaggio del Rapporto) e quanta ostilità avrebbe incontrato91, ma di certo

non si aspettava che, per vedere tradotto in norme il suo progetto di riforma del

pubblico impiego, avrebbe dovuto aspettare ben 15 anni e che, nel frattempo, si

88 Ibidem, p. 763. 89 Ibidem, p. 763. 90 Ibidem, p. 729: “Il tempo del recupero di soglie minime di efficienza si può calcolare in un quinquennio, a condizione che l’azione sia diuturna e perseverante, appoggiata da politici, funzionari e sindacalisti che s’impegnino in una cammino di spine senza attendere ricompen-se.” 91 “Con la formazione del Governo Cossiga si stabilì di affrontare frontalmente la questione dell’impiego pubblico. Fu modificato il vecchio ufficio per la riforma amministrativa in ufficio (poi dipartimento) per la funzione pubblica, e si incaricò il Ministro ad esso preposto di studia-re l’intero problema, e di sentire il Parlamento;; fu così che il 16 novembre 1979 il Ministro ad-detto presentava al Parlamento un “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione del-lo Stato”. Il Rapporto prospettava come alternativa al mantenimento delle qualifiche funziona-li, all’idea della legge quadro, alla conservazione dei profili pubblicistici dell’impiego pubblico quella della completa privatizzazione della materia, ossia dei rapporti di lavoro non collegati all’esercizio di potestà pubbliche. Nel primo incontro che il Ministro della Funzione Pubblica ebbe con la Camera dei Deputati, questa espresse subito la sua avversione all’idea della priva-tizzazione. Altrettanto avvenne in Senato, che era stato officiato di esaminare e discutere il Rapporto nella sua interezza (cosa che il Senato fece, dopo lunga discussione, giungendo ad una precisa conclusione finale, invero poi disattesa dai governi successivi al Governo Cossig-ga). Per cui non rimaneva altra stra possibile se non quella della legge quadro”, così lo stesso M.S. GIANNINI, Per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in AA.VV., Scritti per Mario Nigro, Vol. II, Milano, Giuffrè, pp. 165-166, 1991.

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approvasse una legge92 che ignorasse completamente l’idea della privatizzazio-

ne, ma che decretò la fortuna della privatizzazione del pubblico impiego.

La legge-quadro del 29 marzo 1983, n. 93, che ebbe il merito di essere applica-

ta per la prima volta in modo unitario a tutte le pubbliche amministrazioni e

che introdusse la fondamentale distinzione tra materie soggette ad essere rego-

late attraverso atti normativi e materie soggette ad essere regolate attraverso

accordo collettivo, recependo gli elementi di novità affermatisi nella legisla-

zione del precedente quindicennio, dimostrò, in pochi anni, tutta la sua incapa-

cità di realizzare gli obiettivi che ne erano alla base: numerose amministrazioni

si sottrassero all’applicazione della legge (cd. fuga dalla legge-quadro)93, la di-

stinzione tra aree regolate dalla legge e aree regolate dagli accordi non resse,

essendosi verificate incursioni legislative in materie contrattualizzate, si verifi-

carono, infine, ritardi nella stipulazione degli accordi. Divenne, così, evidente

il carattere compromissorio dell’impianto della legge, fondato sulla contamina-

zione del modello tradizionale del pubblico impiego con elementi privatistici

all’esito del quale l’intero sistema dell’autonomia collettiva non poggiava

sull’autonomia privata, che era categoricamente esclusa dalla natura (rimasta)

92 L. 29 marzo 1983, n. 93. 93 C. D’ORTA, La fuga dalla legge quadro sul pubblico impiego: deroghe per enti o per cate-goria di personale?, in S. CASSESE, C. DELL’ARRINGA, M. SALVEMINI, Pubblico impiego. Le ragioni di una riforma, Roma, Sipi, 1991.

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pubblica del rapporto, ma trovava il proprio fondamento nella legge e, quindi,

nell’autorità dello Stato.

Il fallimento della legge-quadro e le contraddizioni che ne minavano il disegno

legislativo che ne era alla base diedero il colpo di grazia al tradizionale model-

lo pubblicistico del rapporto di pubblico impiego, nei confronti del quale ci si

impegnò a realizzare un’ autentica “privatizzazione”94.

9.- La privatizzazione del pubblico impiego: dalla l. 421/1992 al

t.u. 165/2001.

“Secondo una scansione divenuta classica, la vicenda si articola su una dupli-

ca fase, iniziata l’una dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421;; aperta l’altra dalla

legge 15 marzo 1997, n. 59. Ma essa rivela la sua continuità “fisica”

94 A. GRANDI, L’unificazione del rapporto di lavoro pubblico e privato: problemi e prospettive, in ISTITUTO DI STUDI SULL’AMMINISTRAZIONE, Riforma del rapporto di pubblico impiego. Con-trattazione, democrazia, diritti. Un’ipotesi per nuove regole comuni del lavoro, Milano, Franco Angeli, p. 17, 1990: “Certo la legge quadro è stata un passo avanti. Non neghiamo la positivi-tà di alcuni risultati e tuttavia l’assetto previsto da quella legge non regge proprio perché si è fermato a metà del percorso. Anziché una piena contrattualizzazione come era nei disegni ori-ginari di molti, ci si è fermati ad un impasto di riserva di legge e contratto che, alla prova dei fatti, non ha retto”.

70

nell’unicità del corpus di riferimento, il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, figliato

dalla delega del 1992 e, poi, corretto ed integrato dalla successiva decretazio-

ne delegata della stessa delega del 1992 (dd.lgss. 19 luglio 1993, n. 247; 18

novembre 1993, n. 470; 23 dicembre 1993, n. 546) e della delega del 1997

(dd.lgss. 4 novembre 1997, n. 396; 31 marzo 1998, n. 80; 29 ottobre 1998, n.

387)”95

9.1.- La prima fase della privatizzazione: il d.lgs. 29/1993.

Fu la legge delega 23 ottobre 1992, n. 42196 a porre fine al “secolo breve”97 del

pubblico impiego e a determinare il “trasloco” del rapporto di lavoro con le

pubbliche amministrazioni dal diritto pubblico al diritto privato, e dalla legge al

95 F. CARINCI, Politica e tecnica della giurisprudenza costituzionale in tema di privatizzazione del pubblico impiego, in R. SCOGNAMIGLIO (a cura di), Diritto del lavoro e Corte costituziona-le, Napoli, ESI, p. 5. 96 In attuazione della legge delega 421/1992 viene emanato il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, suc-cessivamente modificato, nello stesso anno, con due decreti “correttivi” (d.lgs. 10 novembre 1993, n. 470 e d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546.). 97 L’espressione è di M. D’ANTONA: Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatiz-zazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in Lav. pubb. amm., 1, 1998.

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contratto, provocando quello che è stato definito “il più importante cambia-

mento amministrativo di questo secolo”98.

La legge 421/1992, che prevedeva la riforma di quattro macroaree99, per realiz-

zare il controllo e la razionalizzazione della spesa pubblica, dedicava al pubbli-

co impiego l’art. 2, nel quale delegava il Governo “a emanare entro novanta

giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge uno o più decreti le-

gislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della

spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell'efficienza e

della produttività, nonché alla sua riorganizzazione” e a tal fine lo autorizzava

a “prevedere, con uno o più decreti, salvi i limiti collegati al perseguimento

degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche ammini-

strazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti

delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti di cui agli articoli 1, primo

comma, e 26, primo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, siano ricondotti

sotto la disciplina del diritto civile e siano regolati mediante contratti indivi-

duali e collettivi; prevedere una disciplina transitoria idonea ad assicurare la

graduale sostituzione del regime attualmente in vigore nel settore pubblico con

98 S. CASSESE, Le ambiguità della privatizzazione del pubblico impiego, in S. BATTINI, S. CAS-

SESE (a cura di), Dall’impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazio-ni, Milano, Giuffrè, p. 77, 1997. 99 Art. 1: sanità, art. 2: pubblico impiego, art. 3: previdenza, art. 4: finanza pubblica.

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quello stabilito in base al presente articolo; prevedere nuove forme di parteci-

pazione delle rappresentanze del personale ai fini dell'organizzazione del lavo-

ro nelle amministrazioni”, a “prevedere criteri di rappresentatività ai fini dei

diritti sindacali e della contrattazione compatibili con le norme costituzionali”

e a “prevedere l'affidamento delle controversie di lavoro riguardanti i pubblici

dipendenti, cui si applica la disciplina di cui al presente articolo […] alla giu-

risdizione del giudice ordinario secondo le disposizioni che regolano il proces-

so del lavoro”.

Alla legge delega 421/1992, che non si era limitata a chiedere al Governo la re-

alizzazione della parificazione normativa del diritto del lavoro pubblico con

quello privato, ma che aveva disegnato una bozza di riforma che investiva di-

versi aspetti della disciplina del (nuovo) pubblico impiego, tra cui la materia

della contrattazione collettiva e quella della tutela giurisdizionale, venne data

attuazione per il tramite del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29100, con il quale per la

100 L’art. 1 fissa le finalità e l’ambito di applicazione del decreto: “Le disposizioni del presente decreto legislativo disciplinano l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, tenuto conto delle autonomie locali e di quel-le delle regioni e delle provincie autonome, nel rispetto dell'articolo 97, comma primo, della Costituzione, al fine di: a) accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi della Comunità Europea, anche mediante il coordinato sviluppo dei sistemi informativi pubblici; b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico, conte-nendo la spesa complessiva per il personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza pub-blica; c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazio-ni, curando la formazione e lo sviluppo professionale dei dipendenti, garantendo pari opportu-

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prima volta nella storia del diritto del lavoro, il legislatore italiano si assume la

responsabilità, dalla quale fino ad allora era sempre fuggito a gambe levate, di

definire normativamente il rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica

Amministrazione. L’art. 36 del citato d.lgs., rubricato “reclutamento del perso-

nale”, stabilisce, infatti, che “l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche av-

viene con contratto individuale di lavoro” e in un colpo solo ha reso inservibili

tutte le teorie dottrinali che per oltre un secolo avevano cercato di dare una de-

finizione, ostinatamente pubblicistica, del rapporto di lavoro101 alle dipendenze

della Pubblica Amministrazione.

L’art. 36, d.lgs. 29/1993 segna lo spartiacque tra la concezione tradizionale del

rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni (che d’ora

in avanti verrà definito “privatizzato”102) e l’affermazione della “nuova” disci-

plina dello stesso e, nello stesso tempo, determina una storica transazione: la

Pubblica Amministrazione è costretta a scendere dal trono della titolarità esclu-

nità alle lavoratrici ed ai lavoratori e applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavo-ro privato”. 101 Negli anni si sono succedute diverse ricostruzioni del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione: la teoria unilateralista, sostenuta, fra gli altri, da O. Ranelletti, qualificava la nomina del pubblico impiegato in termini di provvedimento amministrativo con-dizionato nell’efficacia dall’accettazione del singolo;; la teoria contrattualistica, formulata da U. Forti, individuava l’atto di nomina in un contratto di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico);; infine la teoria mediana tra le due che, ricostruita da M. Petrozziello, si sostanziava nel ricono-scere nell’atto di nomina un atto amministrativo bilaterale. 102 Per un’analisi completa della lotta intestina tra le espressioni “privatizzazione” e “contrat-tualizzazione” si veda la nota n. 1 di A. PILEGGI, Efficienza della Pubblica Amministrazione e Diritto del lavoro, Roma, Aracne, 2004.

74

siva della gestione del rapporto di lavoro, perdendo la sua immagine di deus ex

machina della vita lavorativa del dipendente, e a condividere con quest’ultimo

la titolarità dell’autonomia privata di cui entrambi sono divenuti titolari. Il con-

tratto di lavoro, cui si riferisce l’art. 36 del d.lgs. 29/1993, determina la nascita

di una relazione con effetti obbligatori e paritaria rispetto all’Amministrazione,

che assume la funzione di datore di lavoro, e non diviene, invece, parte di una

relazione fra singolo e collettività.

9.2.- La seconda fase della privatizzazione: il d.lgs. 80/1998.

La riforma del 1993 si presentava, in un certo senso, incompleta. Non tanto per

le categorie che rimanevano estranee al processo di privatizzazione (magistrati,

avvocati dello Stato, militari, personale delle forze di polizia, diplomatici, per-

sonale della carriera prefettizia), quanto per il fatto che veniva conservata la di-

sciplina pubblicistica (e la giurisdizione amministrativa) in un numero cospi-

cuo di materie (la responsabilità dei pubblici impiegati, il regime della incom-

patibilità, gli organi, gli uffici ed i modi di conferimento della titolarità dei me-

75

desimi, i principi fondamentali di organizzazione degli uffici, i procedimenti di

selezione per l’accesso al lavoro, i ruoli e le dotazioni organiche, nonché la lo-

ro consistenza complessiva). L’essere, per questi versi, una riforma a metà ha

fomentato le fila dei detrattori della privatizzazione, che si trovavano in com-

pagnia di tutta la giurisprudenza amministrativa, e in particolare del Consiglio

di Stato, il quale nel parere espresso sulla legge delega103 denunciava

l’illegittimità costituzionale della riforma in base alla incompatibilità tra il

pubblico impiego (strumentale al perseguimento di finalità pubbliche di inte-

resse generale) e il modello del lavoro privato, improntato a logiche di mercato.

Tuttavia la Corte Costituzionale è subito intervenuta a dissipare tutti i dubbi e

le incertezze sulla riforma “Bassanini” con le sentenze n. 313/1996 e

309/1997104, con le quali ha chiarito che l’art. 97 Cost. non impone alcun parti-

colare stato giuridico per i dipendenti pubblici e dunque non impedisce

l’abbandono della tradizionale impostazione pubblicistica: “Vero è invece che

la scelta tra l'uno e l'altro regime resta affidata alla discrezionalità del legislato-

re, da esercitarsi in vista della più efficace ed armonica realizzazione dei fini e

dei principi che concernono l'attività e l'organizzazione della pubblica ammini-

strazione. In particolare, il corretto bilanciamento tra i due termini dell'art. 97 103 Cons. St., Ad. gen., 31 agosto 1992, n. 146, in Foro it., III, 4, 1993. 104 In entrambi i casi il giudice relatore era Ruperto.

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della Costituzione, imparzialità e buon andamento, può attuarsi - e tanto è av-

venuto con la normativa in esame - riservando alla legge una serie di profili or-

dinamentali; sì che, per converso, risultino sottratti alla contrattazione tutti

quegli aspetti in cui il rapporto di ufficio implica lo svolgimento di compiti che

partecipano del momento organizzativo della pubblica amministrazione”105.

Nonostante l’autorevole avallo della riforma del 1993 rimaneva di fondo

l’incompletezza della disciplina del pubblico impiego, che faceva navigare a

105 Corte Cost., 18 luglio 1996, n. 313. E nello stesso senso Corte Cost., 14 ottobre 1997, n. 309: “L'evoluzione legislativa tuttora in atto si realizza dunque intorno all'accentuazione pro-gressiva della distinzione tra aspetto organizzativo della pubblica amministrazione e rapporto di lavoro con i suoi dipendenti. L'organizzazione, nel suo nucleo essenziale, resta necessaria-mente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge nonché alla potestà ammini-strativa nell' ambito di regole che la stessa pubblica amministrazione previamente pone; mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell'orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell'azione ammini-strativa”. Attraverso un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici si è potuto così abbandonare il tradizio-nale statuto integralmente pubblicistico del pubblico impiego, non imposto dall'art. 97 Cost., a favore del diverso modello che scaturisce appunto dal nuovo assetto delle fonti. In proposito, la Corte ha osservato come per questa via il legislatore abbia inteso garantire, senza pregiudizio dell'imparzialità, anche il valore dell'efficienza contenuto nel precetto costituzionale, grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della pre-stazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione. Dati, questi ultimi, dei quali la Corte ha sottolineato il carattere strumentale rispetto al perseguimento della finalità del buon andamento della pubblica amministrazione. 2.1.3. - La sostanziale conformità a Costituzione del mutamento operato nella natura giuridica del rapporto dei dipendenti pubblici può quindi essere affermata, non solo seguendo le linee argomentative presenti nella sentenza n. 313 del 1996 ed in quelle precedenti (cfr. sentenze n. 359 del 1993 e n. 88 del 1996), ma anche avuto riguardo alle finalità di decentramento, snelli-mento e semplificazione di apparati e procedure, espresse dalla più recente legislazione. E ciò, in quanto quel rapporto sempre più si va configurando nella sua propria essenza di erogazione di energie lavorative, che, assunta tra le diverse componenti necessarie dell'organizzazione del-la pubblica amministrazione, deve essere funzionalizzata al raggiungimento delle finalità isti-tuzionali di questa.

77

vele spiegate il rischio di una sostanziale conservazione della logica pubblici-

stica nella concreta attuazione della riforma.

In questa situazione nasce la “seconda privatizzazione”, la quale trae origine

nella legge delega 15 marzo 1997, n. 59, che intensifica, in numero e quantità, i

modelli privatistici. Ne scaturisce un nuovo confine tra regime privatistico e

regime pubblicistico, non più fondato sulla distinzione tra organizzazione-

lavoro, ma sulla distinzione tra macro-organizzazione e (pubblicistica) e micro-

organizzazione (privatistica)106.

La differenza che intercorre tra la due fasi della privatizzazione è notevole: la

prima era ispirata soprattutto dalla necessità di risanamento finanziario dello

Stato; la seconda, invece, si inserisce in una generale riforma del sistema am-

ministrativo sulla base dei principi dell’autonomia, del decentramento delle

funzioni, della semplificazione e della diretta finalizzazione dell’azione ammi-

nistrativa a risultati e obiettivi.

Alla L. 59/1997107 si è dato attuazione per il tramite del D.Lgs. 31 marzo 1998,

n. 80, che ha profondamente modificato il D.Lgs. n. 29/1993 (completamente

106 Cfr. art. 2, co. 1, D.Lgs. 165/2001. 107 Art. 11, co. 4, L. 59/1997: “4. Il Governo è delegato ad emanare, entro dodici mesi dalla da-ta di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi diretti a: anche al fine di conformare le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modifi-cazioni, alle disposizioni della presente legge e di coordinarle con i decreti legislativi emanati ai sensi del presente capo, ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 3

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febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, possono essere emanate entro il 31 dicembre 1997. A tal fine il Governo, in sede di adozione dei decreti legislativi, si attiene ai principi con-tenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui all'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni, nonché, ad in-tegrazione, sostituzione o modifica degli stessi ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) completare l'integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell'impresa; estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche, mantenendo ferme le altre esclusioni di cui all'articolo 2, commi 4 e 5, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29; b) prevedere per i dirigenti, compresi quelli di cui alla lettera a), l'istituzione di un ruolo unico interministeriale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, articolato in modo da garantire la necessaria specificità tecnica; c) semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva; riordinare e potenziare l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) cui è conferita la rappresentanza negoziale delle amministrazioni interessate ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, anche consentendo forme di associazione tra amministrazioni, ai fini dell'esercizio del potere di indi-rizzo e direttiva all'ARAN per i contratti dei rispettivi comparti; d) prevedere che i decreti legi-slativi e la contrattazione possano distinguere la disciplina relativa ai dirigenti da quella con-cernente le specifiche tipologie professionali, fatto salvo quanto previsto per la dirigenza del ruolo sanitario di cui all'articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e succes-sive modificazioni, e stabiliscano altresì una distinta disciplina per gli altri dipendenti pubblici che svolgano qualificate attività professionali, implicanti l'iscrizione ad albi, oppure tecnico-scientifiche e di ricerca; e) garantire a tutte le amministrazioni pubbliche autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa nel rispetto dei vincoli di bilancio di ciascuna amministra-zione; prevedere che per ciascun ambito di contrattazione collettiva le pubbliche amministra-zioni, attraverso loro istanze associative o rappresentative, possano costituire un comitato di settore; f) prevedere che, prima della definitiva sottoscrizione del contratto collettivo, la quanti-ficazione dei costi contrattuali sia dall'ARAN sottoposta, limitatamente alla certificazione delle compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio di cui all'articolo 1-bis della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, alla Corte dei conti, che può richiede-re elementi istruttori e di valutazione ad un nucleo di tre esperti, designati, per ciascuna certifi-cazione contrattuale, con provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro del tesoro; prevedere che la Corte dei conti si pronunci entro il termine di quin-dici giorni, decorso il quale la certificazione si intende effettuata; prevedere che la certificazio-ne e il testo dell'accordo siano trasmessi al comitato di settore e, nel caso di amministrazioni statali, al Governo; prevedere che, decorsi quindici giorni dalla trasmissione senza rilievi, il presidente del consiglio direttivo dell'ARAN abbia mandato di sottoscrivere il contratto collet-tivo il quale produce effetti dalla sottoscrizione definitiva; prevedere che, in ogni caso, tutte le procedure necessarie per consentire all'ARAN la sottoscrizione definitiva debbano essere com-pletate entro il termine di quaranta giorni dalla data di sottoscrizione iniziale dell'ipotesi di ac-cordo; g) devolvere, entro il 30 giugno 1998, al giudice ordinario, tenuto conto di quanto previ-sto dalla lettera a), tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pub-bliche amministrazioni, ancorché concernenti in via incidentale atti amministrativi presupposti, ai fini della disapplicazione, prevedendo: misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso; procedure stra-

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riscritto per oltre due terzi) realizzando un ulteriore avvicinamento del regime

giuridico del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministra-

zioni a quello proprio del lavoro alla dipendenze delle imprese private. Avvici-

namento realizzato anche (e soprattutto) mediante la devoluzione della contro-

versie in materia di pubblico impiego al giudice ordinario, incluse quelle relati-

ve l’assunzione, il conferimento e la revoca di incarichi dirigenziali, le indenni-

tà di fine rapporto, i comportamenti antisindacali e le procedure relative alla

contrattazione collettiva108.

La riforma del 1998 ha istituito un procedimento di contrattazione collettiva

semplificato rispetto alle previsioni contenute nel D.Lgs. del 1993, attraverso il

giudiziali di conciliazione e arbitrato; infine, la contestuale estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di ser-vizi pubblici, prevedendo altresì un regime processuale transitorio per i procedimenti pendenti; h) prevedere procedure di consultazione delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi dei relativi comparti prima dell'adozione degli atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro; i) prevedere la definizione da parte della Presidenza del Consi-glio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica di un codice di comportamento dei di-pendenti della pubblica amministrazione e le modalità di raccordo con la disciplina contrattuale delle sanzioni disciplinari, nonché l'adozione di codici di comportamento da parte delle singole amministrazioni pubbliche; prevedere la costituzione da parte delle singole amministrazioni di organismi di controllo e consulenza sull'applicazione dei codici e le modalità di raccordo degli organismi stessi con il Dipartimento della funzione pubblica. 108 Art. 45, comma 17, del D.Lgs. n. 80/1998: “Sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all’articolo 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, relativamente a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo di rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e debbono essere proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”. Residuano nella competenza del giudice amministrativo le controversie relative alle procedure concorsuali precedenti l’assunzione.

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quale si giunge alla sottoscrizione di un contratto collettivo che acquisti effica-

cia per tutte le amministrazioni del comporto e per tutti i lavoratori interessati.

10.- Dal testo unico n. 165/2001 alla “controriforma Brunetta”.

Tutta la normativa concernete il rapporto di lavoro con la Pubblica Ammini-

strazione è confluita nel testo unico n. 165/2001, che costituisce, insieme ai

contratti collettivi, il testo normativo di riferimento per il pubblico impiego e

che, prima delle modifiche apportate dalla L. n. 150/2009109, ha subito corretti-

109 Questa la presentazione della L. 15/2009 fatta dal Ministro per la funzione pubblica, in http://www.riformabrunetta.it/sites/default/files/u3/PRESENTAZIONE%20DELLA%20LEGGE%2015.pdf: “Con 154 voti favorevoli e un voto contrario, l’Aula del Senato ha approvato de-finitivamente il disegno di legge recante “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione del-la produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministra-zioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti” (AS 847/B). Se si esclude il lodo Alfano, si tratta del primo disegno di legge approvato dal Parlamento dall’inizio della legislatura. Per meglio comprenderne la portata, si propone di seguito un’analisi dei suoi principali contenuti. RAPPORTO TEMPORALE TRA LEGGE E CONTRATTO: La Camera dei deputati ha intro-dotto l’articolo 1 con il quale viene regolato il rapporto di successione temporale tra legge e contratto collettivo, al fine di evitare che la presente riforma venga vanificata da un intervento contrattuale successivo. OBIETTIVI: L’articolo 2 definisce i seguenti obiettivi del disegno di legge: convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato, con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali;; miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle procedure della contrattazione collettiva; introduzione di sistemi interni ed esterni di valutazione del personale e delle strutture amministrative, finalizzati ad assicurare l’offerta di servizi conformi agli standard internazionali di qualità; valorizzazione del merito e

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conseguente riconoscimento di meccanismi premiali; definizione di un sistema più rigoroso di responsabilità dei dipendenti pubblici; introduzione di strumenti che assicurino una più effica-ce organizzazione delle procedure concorsuali su base territoriale; valorizzazione del requisi-to della residenza dei partecipanti ai concorsi pubblici, qualora ciò sia strumentale al migliore svolgimento del servizio. Al riguardo, era stato approvato un emendamento per cui i vincitori delle procedure di progressione verticale dovranno permanere per almeno un quinquennio nella sede della prima destinazione e sarà considerato titolo preferenziale la permanenza nelle sedi carenti di organico. CONTRATTAZIONE COLLETTIVA E RIFORMA ARAN: L’articolo 3 è stato migliorato nei suoi contenuti recependo le utili proposte avanzate anche dall’opposizione, in particolare prevedendo decreti legislativi attuativi in materia di contratta-zione collettiva e integrativa. Esso prevede che verranno precisati gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla legge, ferma restando la riserva in favore della contrattazione collettiva sulla determinazione dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di lavoro; che saranno rior-dinate le procedure di contrattazione collettiva nazionale ed integrativa, in coerenza con il set-tore privato e nella salvaguardia delle specificità sussistenti nel settore pubblico; che sarà ri-formata l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), con particolare riguardo alle competenze, alla struttura ed agli organi della medesima Agen-zia;; che sarà semplificato il procedimento di contrattazione anche attraverso l’eliminazione di quei controlli che non sono strettamente funzionali a verificare la compatibilità dei costi degli accordi collettivi. Inoltre, al fine di ridurre il ricorso a contratti di lavoro a termine, a consu-lenze e a collaborazioni, i decreti delegati dovranno contenere disposizioni dirette ad agevola-re i processi di mobilità, anche volontaria, finalizzati a garantire lo svolgimento delle funzioni pubbliche di competenza da parte delle amministrazioni che presentino carenza di organico. Ciò permette di perseguire una più razionale distribuzione delle risorse umane utilizzando il personale appartenente ai ruoli di altre amministrazioni ed evitando nel contempo ulteriori spese e la formazione di precariato. VALUTAZIONE DELLE STRUTTURE E DEL PERSO-NALE: L’articolo 4 prevede che saranno predisposti preventivamente gli obiettivi che l'ammi-nistrazione si pone per ciascun anno e che sarà rilevata, in via consuntiva, quanta parte degli obiettivi è stata effettivamente conseguita, anche con riferimento alle diverse sedi territoriali, assicurandone la pubblicità ai cittadini;; che sarà prevista l’organizzazione di confronti pub-blici annuali sul funzionamento e sugli obiettivi di miglioramento di ciascuna amministrazione, con la partecipazione di associazioni di consumatori e utenti, organizzazioni sindacali, studio-si e organi di informazione e la diffusione dei relativi contenuti mediante adeguate forme di pubblicità, anche in modalità telematica; che saranno previsti mezzi di tutela giurisdizionale degli interessati nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati o che violano le norme preposte al loro operato, con esclusione del risarcimento del danno per il quale resta ferma la disciplina vigente;; che sarà istituito, nell’ambito del riordino dell’ARAN e in posizione autonoma e indi-pendente (la nomina dei membri dell'organismo è subordinata al parere favorevole dei due terzi dei componenti delle Commissioni parlamentari competenti), un organismo centrale di valutazione con il compito di: a) indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipen-dente delle funzioni di valutazione; b) garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione; c) assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale, informando annualmente il Ministro per l’attuazione del programma di Governo sull'attività svolta. Sarà infine assicurata la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica ammini-strazione tramite la pubblicità e la trasparenza degli indicatori e delle valutazioni operate da

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vi e modifiche, tra le quali, particolarmente significativa è stata la l. 15 luglio

2002, n. 145 sul riordino della dirigenza statale.

ciascuna pubblica amministrazione. In tema di azione collettiva nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, la Camera ha ribadito che si tratta di azione volta al ripristino del servizio e del rispetto degli standard, con esclusione del risarci-mento del danno per il quale resta ferma la disciplina vigente; inoltre saranno introdotti stru-menti e procedure al fine di evitare duplicazioni e sovrapposizioni con le azioni che si possono proporre alle autorità indipendenti o agli organismi con funzioni di vigilanza e controllo nel settore. Infine, l’articolo 4 è stato integrato dalla Camera dei deputati che ha deciso di desti-nare 4 milioni di euro alla realizzazione di progetti sperimentali ed innovativi volti a diffonde-re e raccordare le metodologie della valutazione tra le amministrazioni centrali e gli enti terri-toriali (anche tramite la fissazione di standard da pubblicare on-line). Inoltre verranno svilup-pati i processi di formazione del personale preposto alle funzioni di controllo e valutazione e sarà migliorata la trasparenza delle procedure di valutazione mediante lo sviluppo di un appo-sito sito web. MERITO, INCENTIVI E PREMI: L’articolo 5 prevede che saranno introdotti nell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni concreti strumenti di valorizzazione del merito e metodi di incentivazione della produttività e della qualità della prestazione lavorati-va, secondo le modalità attuative stabilite dalla contrattazione collettiva, e che saranno stabili-te percentuali minime di risorse da destinare al merito e alla produttività, previa misurazione secondo criteri oggettivi del contributo e del rendimento del singolo dipendente pubblico. RI-FORMA DELLA DIRIGENZA PUBBLICA: L’articolo 6 prevede il divieto di corrispondere il trattamento economico accessorio nell’ipotesi di responsabilità del dirigente che abbia omesso di vigilare sulla effettiva produttività delle risorse umane allo stesso assegnate e sull'efficienza della struttura che dirige. Saranno previsti concorsi per l’accesso alla prima fascia dirigenzia-le e saranno ridotti gli incarichi conferiti ai dirigenti non appartenenti ai ruoli e ai soggetti estranei alla pubblica amministrazione. Verrà favorita la mobilità nazionale - che, come speci-ficato in un emendamento approvato, potrà avvenire anche tra comparti amministrativi diversi - e internazionale dei dirigenti. La retribuzione dei dirigenti legata al risultato non dovrà esse-re inferiore al 30 per cento della retribuzione complessiva. Al riguardo era stato approvato dalla Camera un emendamento che esclude l’applicabilità della precedente disposizione alla dirigenza sanitaria. Inoltre l’Aula di Montecitorio ha stabilito che il conferimento dell’incarico dirigenziale generale ai vincitori di concorso sia subordinato a un periodo di formazione, non inferiore a sei mesi, presso uffici amministrativi di uno Stato dell’Unione eu-ropea o di un organismo comunitario o internazionale. SANZIONI DISCIPLINARI E RE-SPONSABILITA' DEI PUBBLICI DIPENDENTI: L’articolo 7 prevede che saranno razionaliz-zati i tempi di conclusione dei procedimenti disciplinari e che verranno previsti meccanismi rigorosi per l’esercizio dei controlli medici durante il periodo di assenza per malattia del di-pendente. Al fine di favorire la massima conoscibilità del codice disciplinare è prevista “l’equipollenza tra la affissione del codice disciplinare all’ingresso della sede di lavoro e la sua pubblicazione nel sito web dell'amministrazione”. Si prevede inoltre la definizione della tipologia delle infrazioni più gravi che comportano la sanzione del licenziamento. Infine, una modifica introdotta dalla Camera prevede che il dipendente pubblico, ad eccezione di determi-nate categorie, in relazione alla specificità di compiti ad esse attribuiti, sarà identificabile tramite un cartellino di riconoscimento; ciò garantirà maggiore trasparenza nei rapporti fra amministrazione e cittadino-utente”.

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Ma è la riforma del 2009 che torna, ancora una volta, ad incidere in maniera

determinante sulla disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pub-

bliche Amministrazioni.

Il D.Lgs. 150/2009 può essere definito, senza offesa per i padri delle fasi pre-

cedenti, come la terza privatizzazione. Sulla base di altisonanti definizione dal

sapore americano ed espressioni evocative della gestione dell’impresa privata,

le linee guida della riforma, preceduta dalla pubblicazione del cd. piano indu-

striale, sono espressive di una evidente (e contraddittoria) “ripubblicizzazione”

e “decontrattualizzazione” del rapporto di lavoro con la Pubblica Amministra-

zione. Si prevede, infatti, un inversione del meccanismo che, fino ad allora, a-

veva regolato i rapporti tra legge e contratto collettivo: prima della riforma la

deroga era sempre possibile, tranne che la legge qualificasse le sue disposizioni

inderogabili, mentre a seguito dell’intervento legislativo del 2009 la deroga è

ammessa solo se la legge dispone espressamente in tal senso. Tale intervento è

espressione della sfiducia del legislatore nei confronti delle capacità della con-

trattazione collettiva110 di garantire gli interessi pubblici coinvolti dalla gestio-

ne del personale. In quest’ottica vengono drasticamente ridotte le materie attri-

buite alla contrattazione collettiva, alla quale rimane la sola previsione della in- 110 Potrebbe obiettarsi che la contrattazione collettiva ha dato prova di sé solo in due tornate contrattuali dal 1998 al 2009.

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formazione quale forma di partecipazione sindacale alle determinazioni diri-

genziali che vanno dall’organizzazione degli uffici alla gestione dei rapporti di

lavoro. Ne è conseguita lo smantellamento del sistema di relazioni sindacali e

la scomparsa di istituti come la concertazione e la consultazione111.

111 Art. 3, legge delega 15/2009: “1. L’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo è finalizzato a modificare la disciplina della contrattazione collettiva nel settore pub-blico al fine di conseguire una migliore organizzazione del lavoro e ad assicurare il rispetto della ripartizione tra le materie sottoposte alla legge, nonché, sulla base di questa, ad atti orga-nizzativi e all’autonoma determinazione dei dirigenti, e quelle sottoposte alla contrattazione collettiva. 2. Nell’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) precisare, ai sensi dell’articolo 2 del decreto le-gislativo 30 marzo 2001, n. 165, come modificato, da ultimo, dall’articolo 1 della presente leg-ge, gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla con-trattazione collettiva e alla legge, fermo restando che è riservata alla contrattazione collettiva la determinazione dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di lavoro; b) fare in ogni caso salvo quanto previsto dagli articoli 2, comma 2, secondo periodo, e 3 del de-creto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni; c) prevedere meccanismi di monitoraggio sull’effettività e congruenza della ripartizione delle materie attribuite alla re-golazione della legge o dei contratti collettivi; d) prevedere l’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, in caso di nullità delle clausole contrattuali per violazione di norme imperative e dei limiti fissati alla contrattazione collettiva; e) individuare criteri per la fissazione di vincoli alla contrattazione collettiva al fine di assicura-re il rispetto dei vincoli di bilancio, anche mediante limiti massimi di spesa ovvero limiti mi-nimi e massimi di spesa; f) prevedere, ai fini dell’accertamento dei costi della contrattazione integrativa, uno schema standardizzato di relazione tecnica recante i contenuti minimi necessari per la valutazione degli organi di controllo sulla compatibilità economico-finanziaria, nonchè adeguate forme di pubblicizzazione ai fini della valutazione, da parte dell’utenza, dell’impatto della contrattazione integrativa sul funzionamento evidenziando le richieste e le previsioni di interesse per la collettività; g) potenziare le amministrazioni interessate al controllo attraverso il trasferimento di personale in mobilità ai sensi dell’articolo 17, comma 14, della legge 15 maggio 1997, n. 127; h) riordinare le procedure di contrattazione collettiva nazionale, in coe-renza con il settore privato e nella salvaguardia delle specificità sussistenti nel settore pubblico, nonchè quelle della contrattazione integrativa e riformare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), con particolare riguardo alle competenze, alla struttura ed agli organi della medesima Agenzia, secondo i seguenti criteri: 1) rafforzamento dell’indipendenza dell’ARAN dalle orga-nizzazioni sindacali anche attraverso la revisione dei requisiti soggettivi e delle incompatibilità dei componenti dei relativi organi, con particolare riferimento ai periodi antecedenti e succes-sivi allo svolgimento dell’incarico, e del personale dell’Agenzia;; 2) potenziamento del potere di rappresentanza delle regioni e degli enti locali; 3) ridefinizione della struttura e delle compe-tenze dei comitati di settore, rafforzandone il potere direttivo nei confronti dell’ARAN;;

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La riforma dimostra tutta la sua sfiducia non solo nei confronti della contratta-

zione collettiva, ma anche della dirigenza, che, nonostante i proclami di indi-

pendenza e di autonomia, finisce per essere imbrigliata nel sistema

dell’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore, che, in questo modo, ne

controlla l’operato.

La Riforma Brunetta rappresenta il terzo intervento in materia di pubblico im-

piego nell’arco di venti anni, ponendosi, tuttavia, in netta disconuità rispetto al

4) riduzione del numero dei comparti e delle aree di contrattazione, ferma restando la compe-tenza della contrattazione collettiva per l’individuazione della relativa composizione, anche con riferimento alle aziende ed enti di cui all’articolo 70, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e successive modificazioni; 5) modificazione, in coerenza con il settore privato, della durata dei contratti al fine di ridurre i tempi e i ritardi dei rinnovi e di far coincidere il pe-riodo di regolamentazione giuridica con quello di regolamentazione economica; 6) rafforza-mento del regime dei vigenti controlli sui contratti collettivi integrativi, in particolare preve-dendo specifiche responsabilità della parte contraente pubblica e degli organismi deputati al controllo sulla compatibilità dei costi; 7) semplificazione del procedimento di contrattazione anche attraverso l’eliminazione di quei controlli che non sono strettamente funzionali a verifi-care la compatibilità dei costi degli accordi collettivi; i) introdurre norme di raccordo per ar-monizzare con gli interventi di cui alla lettera h) i procedimenti negoziali, di contrattazione e di concertazione di cui all’articolo 112 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, e ai decreti legislativi 12 maggio 1995, n. 195, 19 maggio 2000, n. 139, 13 ottobre 2005, n. 217, e 15 febbraio 2006, n. 63; l) prevedere che le pubbliche amministrazioni attivino autonomi livelli di contrattazione collettiva integrativa, nel rispetto dei vincoli di bilancio risul-tanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione, sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le proce-dure negoziali che questi ultimi prevedono, con possibilità di ambito territoriale e di riferimen-to a più amministrazioni; m) prevedere l’imputabilità della spesa per il personale rispetto ai servizi erogati e definire le modalità di pubblicità degli atti riguardanti la spesa per il personale e dei contratti attraverso gli istituti e gli strumenti previsti dal codice dell’amministrazione di-gitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82; n) prevedere, al fine di ridurre il ricorso a contratti di lavoro a termine, a consulenze e a collaborazioni, disposizioni dirette ad agevola-re i processi di mobilità, anche volontaria, finalizzati a garantire lo svolgimento delle funzioni pubbliche di competenza da parte delle amministrazioni che presentino carenza di organico; o) prevedere, al fine di favorire i processi di mobilità intercompartimentale del personale delle pubbliche amministrazioni, criteri per la definizione mediante regolamento di una tabella di comparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione”.

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passato più prossimo. Eppure, a guardare gli obiettivi delle privatizzazioni che

si sono susseguiti questi appaiono più o meno simili, senza rilevanti differenze,

che, inspiegabilmente, si colgono nei testi delle riforme.

Il pubblico impiego, purtroppo, non ha ancora trovato il suo eden legislativo e

rimarrà ancora a lungo un “cantiere a cielo aperto”112.

Il legislatore manca infatti di occuparsi di problemi non secondari nella gestio-

ne del rapporto113, pensando di ignorare il problema che dei dipendenti pubblici

italiani prima vada modificata la mentalità da burocrati legati all’idea del posto

fisso come garanzia intangibile, e si trova a dover fare i conti con il fronte dei

“ri-pubblicisti” che cresce giorno dopo giorno.

112 L’espressione è di A. PILEGGI, Efficienza della Pubblica Amministrazione e Diritto del La-voro, Roma, Aracne, p. 83, 2004. 113 E la tutela della professionalità del dirigente, le cui soluzioni vengono affidate da anni all’opera, pure discontinua, della giurisprudenza, ne è un esempio.

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CAPITOLO SECONDO

SIMBOLOGIA E IRREALTA’ DI UN GEMELLAGGIO: DIRIGENTE

PRIVATO E DIRIGENTE PUBBLICO PRIVATIZZATO114

SOMMARIO: 1. Una (non) definizione di “dirigente”. – 2. Dirigenza

pubblica privatizzata e dirigenza privata: un iniquo confronto tra

legislazioni – 3. Verso una ri - publicizzazione della dirigenza (ancora)

“privatizzata”?

1. – Una (non) definizione di “dirigente”.

114 Il titolo del capitolo è (fatta eccezione per la modifica evidenziata in corsivo) di FRANCO

CARINCI, Simbologia e realtà di un gemellaggio: dirigente privato e dirigente pubblico priva-tizzato, in FRANCO CARINCI – RAFFAELE DE LUCA TAMAJO - PAOLO TOSI – TIZIANO TREU (di-retto da), La Dirigenza, Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, Torino, U-TET, 2009.

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Una definizione di “dirigente”, sia esso pubblico, privato o privatizzato, è una

nota mancante della nostra legislazione, che ne ha sempre dato un inquadra-

mento in negativo: al dirigente privato non si applicano le limitazioni all’orario

di lavoro (R.d. n. 1955 del 1923), il riposo domenicale e settimanale (L. n.

270/34), l’obbligatorietà del libretto di lavoro (L. n. 112/35), la disciplina del

collocamento (L. n. 2641/49), la normativa sul licenziamento (L. 604/1966).

In positivo la definizione del dirigente (privato) – a cui il legislatore della diri-

genza privatizzata ha, disperatamente, cercato di ispirarsi – si deve alla Corte

Costituzionale, che, con la sentenza n. 121/1972115, ha individuato i tratti tipici

115 La sentenza citata, prima di giungere ad una definizione del dirigente, compie una ricostru-zione storica della disciplina in materia: “anteriormente al 1942 i dirigenti avevano trovato una prima, anche se non specifica, considerazione nella legge 15 giugno 1893, n. 295, art. 14, comma secondo, in cui sia pure ai limitati effetti di essa, i direttori e gli amministratori di fab-briche o imprese industriali che davano abitualmente lavoro a non meno di 50 operai, erano posti sullo stesso piano degli industriali. Al personale direttivo delle aziende, poi, si erano rife-riti il r.d.l. n. 692 del 1923 sull'orario di lavoro e i relativi regolamenti approvati con i rr.dd. nn. 1955 e 1956 del 1923. Ancora, la legge sull'impiego privato (r.d.l. n. 1825 del 1924, convertito nella legge n. 562 del 1926) aveva riservato agli impiegati di grado più elevato un trattamento di maggior favore in caso di licenziamento. Inoltre, il r.d.l. 1 luglio 1926, n. 1130, aveva pre-scritto che il personale dirigente dovesse far parte di associazioni sindacali autonome distinte da tutte le altre, ma inserite nell'organizzazione degli imprenditori. Ed infine al personale aven-te funzioni direttive con responsabilità dell'andamento dell'azienda o dei servizi, non erano sta-te applicate le norme di cui alla legge n. 370 del 1934 sul riposo domenicale e settimanale e neppure quelle poste con la legge 10 gennaio 1935, n. 112, sull'istituzione del libretto di lavoro. Il legislatore del 1942, con le sopracitate norme, quindi ha preso atto di una realtà giuridica e normativa già esistente ed ha tenuto altresì conto della specifica e distinta regolamentazione collettiva. Successivamente a quella data e fino ad oggi, sul piano legislativo e su quello della contrattazione collettiva, ha avuto conferma e sviluppo il precedente orientamento volto a fare dei dirigenti una categoria a sé stante di prestatori di lavoro subordinato. Di codesto indirizzo sono sicuri segni l'esclusione dei dirigenti dalla disciplina del cosiddetto blocco dei licenzia-menti (d.lg.lgt. 21 agosto 1945, n. 523; d.lg.lgt. 9 novembre 1945, n. 788, e d.lg.lgt. 8 febbraio 1946, n. 50) e dall'obbligo della assunzione tramite gli uffici di collocamento (art. 11, terzo comma, n. 2, della legge 29 aprile 1949, n 264); nonché la possibilità di richiesta nominativa

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del ruolo nella “collaborazione immediata con l'imprenditore per il coordina-

mento aziendale nel suo complesso od in un ramo importante di esso; nel ca-

rattere fiduciario della prestazione; l'ampio potere di autonomia nell'attività

direttiva; nella supremazia gerarchica su tutto il personale dell'azienda o di un

ramo importante di essa, anche senza poteri disciplinari, ma sempre con poteri

organizzativi; nella subordinazione esclusiva all'imprenditore o ad un dirigen-

te superiore; e nell'esistenza di un potere di rappresentanza extra o infrazien-

dale”. Continua la Corte, ulteriormente specificando: “Al dirigente, in sostan-

za, che occupa il posto più elevato nella scala gerarchica dei prestatori di la-

voro subordinato, è assicurata nell'impresa una posizione che trova nel potere

direttivo la sua più vera qualificazione. L'imprenditore, singolo o collettivo, ha

nel dirigente il collaboratore che lo sostituisce o lo assiste nello svolgimento

delle funzioni che gli sono proprie, e l'esecutore, con discrezionale responsabi-

lità, delle sue direttive. Appare per ciò essenziale che in tal caso tra l'impren-

per l'assunzione di impiegati amministrativi e tecnici con mansioni direttive in agricoltura (art. 11, comma secondo, lett. a, del d.l. 3 febbraio 1970, n. 7, convertito nella legge 11 marzo 1970, n. 83); ed infine, la mancata applicazione delle forme di previdenza previste per gli altri dipen-denti; e così pure delle limitazioni poste dalla legge n. 230 del 1962. In sede sindacale, poi, i dirigenti godono di un inquadramento autonomo; e gli atti di autodisciplina collettiva (sino al contratto collettivo nazionale del 29 luglio 1970 per i dirigenti di aziende industriali) pongono del pari discipline autonome (ed in quanto assoggettate al regime della legge n. 741 del 1959, operanti erga omnes con la valorizzazione della categoria sul piano normativo). Tutto ciò con-duce a ritenere che la categoria dei dirigenti presenta peculiari caratteristiche che sono oggetto di una disciplina particolare e trova riscontro nella definizione che del dirigente viene offerta in giurisprudenza ed in termini, nella sostanza, sufficientemente costanti”.

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ditore ed il dirigente s'instauri e si mantenga un rapporto di reciproca fiducia

e di positiva valutazione, ed è in armonia con codesta esigenza che il rapporto

possa venir meno per determinazione unilaterale solo che soggettivamente

vengano considerate cessate le condizioni idonee a soddisfare la detta esigen-

za. Si può pertanto ritenere, senza bisogno di far ricorso a formule o qualità

che non sempre rispecchiano la realtà effettuale del fenomeno colto nel suo

complessivo accadere, che la situazione dei dirigenti non è di per sé eguale o

assimilabile a quella degli impiegati ed operai”116.

116 Nello stesso senso, C.Cost., 309/1992: “Il rapporto di lavoro dei dirigenti si differenzia net-tamente da quello dei lavoratori subordinati (impiegati ed operai) per il diverso grado di colla-borazione esistente con l'imprenditore, del quale il dirigente - cui spettano autonomia e discre-zionalità delle decisioni - deve godere sempre la fiducia, costituendone un vero e proprio "alter ego". Giustamente quindi, il rapporto stesso cade nell'area della libera recedibilità, salvo le ga-ranzie derivanti dai contratti collettivi della categoria di appartenenza - che, in via generale, prevedono la possibilità di adire un collegio arbitrale ai fini dell'accertamento della mancanza di una idonea giustificazione dell'intimato licenziamento - nonché dalla legge, contro fatti che ledono la dignità di uomo e di lavoratore del dirigente medesimo (licenziamenti senza l'atto scritto, discriminatori o disciplinari senza osservanza di norme di garanzia procedimentale)” e, più di recente, Corte Cass., SS. UU., 6041/1995: “Gli obblighi della preventiva contestazione e dell'attribuzione di un termine a difesa, previsti dall'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300, non ri-guardano il licenziamento del dirigente di aziende industriali - e cioè del prestatore di lavoro che, collocato al vertice dell'organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la vita dell'azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fidu-ciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale per la cui realizzazione si avvale di ampia autonomia, ed anzi esercita i poteri propri dell'imprendito-re (del quale è un "alter ego") assumendone, anche se non sempre, la rappresentanza esterna (per cui la suddetta esclusione non si estende anche al cosiddetto pseudo-dirigente o dirigente meramente convenzionale, relativamente al quale le mansioni concretamente attribuite ed eser-citate non hanno le caratteristiche tipiche del rapporto propriamente dirigenziale) - ove il con-tratto collettivo ad esso applicabile non preveda procedimento e sanzioni disciplinari ma ri-chieda la motivazione del recesso soltanto ai fini del procedimento arbitrale, dovendosi appli-care a tale licenziamento, oltre che alle norme contrattuali, la disciplina di cui agli art. 2118 e 2119 c.c.”.

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La figura del dirigente viene, quindi, definita alla luce del suo ruolo, i cui tratti

distintivi possono essere identificati nella collaborazione immediata con

l’imprenditore, nel carattere fiduciario, nella supremazia gerarchica con o sen-

za poteri disciplinari, ma con poteri organizzativi, nel potere di rappresentanza

all’interno e all’esterno dell’azienda.

Ed è questo il modello a cui il legislatore si è ispirato nel modellare e plasmare

la dirigenza statale117, la quale, nell’ottica delle riforme che si sono succedute,

sarebbe dovuta assurgere a diventare la classe manageriale della Pubblica

Amministrazione, con compiti di gestione del personale, di contenimento della

spesa e di organizzazione del lavoro.

2.– Dirigenza pubblica privatizzata e dirigenza privata: un

iniquo confronto tra legislazioni.

Ma così non è stato. E non è ancora.

117 Tuttavia una prima differenza è subito evidente. Nel settore privato i dirigente hanno sinda-cati e contratti completamente autonomi; mentre nella dirigenza pubblica privatizzata i dirigen-ti di base sono rappresentati ai tavoli negoziali anche da sindacati aderenti alle confederazioni degli altri lavoratori.

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La dirigenza ha sempre rappresentato la spina nel fianco nella convivenza sotto

lo stesso tetto della disciplina del lavoro pubblico e privato, tale da condannare

la privatizzazione a rimanere a metà del suo percorso118.

La dirigenza privata vive di vita propria a partire dal 1926, anno in cui viene

approvata la L. n. 562 che, agli artt. 4 e 10, introduce il concetto di “institori,

procuratori, direttori tecnici ed amministrativi”, seppure non per dettare una

normativa specifica della categoria, ma per disciplinare, rispettivamente, le par-

ticolarità della materia del periodo di prova e della risoluzione del contratto di

impiego a tempo indeterminato. Manca una definizione, come si è già detto,

ma il ruolo è già avvertito in tutta la sua specificità119. Lo dimostra chiaramen-

te, semmai ce ne fosse bisogno, il legislatore del 1942 che all’art. 2095 espres-

samente distingue i prestatori di lavoro subordinato in “dirigenti, quadri, im-

piegati e operai”.

118 In proposito si veda F. CARINCI, Simbologia e realtà di un gemellaggio: il dirigente privato ed il dirigente pubblico privatizzato, in F. CARINCI, R. DE LUCA TAMAJO, P. TOSI, T. TREU (di-retto da), La dirigenza, in Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, Torino, UTET, p. 7, 2009 119 Specificità di cui il legislatore continua a tenere conto, come dimostrano il r.d.l. 1 luglio 1926, n. 1130, il quale aveva prescritto che il personale dirigente dovesse far parte di associa-zioni sindacali autonome distinte da tutte le altre, ma inserite nell'organizzazione degli impren-ditori; la L. n. 370 del 1934 che non applicava al personale con funzioni direttive con respon-sabilità dell'andamento dell'azienda o dei servizi le norme sul riposo domenicale e settimanale; la l. n. 112 del 10 gennaio 1935 che escludeva dall’ambito di applicazione delle norme sull'isti-tuzione del libretto di lavoro il personale dirigente.

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Diversamente, invece, la dirigenza pubblica. Senza voler risalire ai tempi di

Cavour e Giolitti, i cui Ministri, come si è visto, non lasciavano nessun margi-

ne di autonomia ai dirigenti, la disciplina normativa dedicata alla classe diri-

genziale era pressoché nulla. I testi normativi si occupavano della figura del di-

rigente pubblico al solo fine di determinarne le retribuzioni e gli scatti di car-

riera, così da tacitarlo evitando pretese di autonomia, senza delinearne una di-

sciplina di concetto e senza preoccuparsi di delimitarne la dipendenza rispetto

al potere politico. Il dirigente pubblico rappresentava eslusivamente la longa

manus del Ministro, il suo gregario nella terra straniera delle Amministrazioni

Pubbliche.

Perché, in un testo legislativo che si occupi di Pubblica Amministrazione, si usi

l’espressione “dirigenza” bisogna pazientemente attendere il 1972 (e, rispetto

al 1926, sono passati ben 46 anni), anno nel quale il legislatore ha il merito di

aver introdotto – finalmente – la figura del dirigente nel pubblico impiego (at-

traverso un frazionamento della carriera direttiva) articolandone la struttura su

tre qualifiche120 (dirigente generale, dirigente superiore e primo dirigente). A

120 Art. 1, D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748: “Qualifiche: 1. Nell'ambito delle carriere direttive delle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le qualifiche dei dirigenti sono articolate come segue: dirigente generale; dirigente superiore; primo dirigente. 2. In rela-zione a funzioni dirigenziali particolari, proprie di talune Amministrazioni, nelle annesse tabel-le relative ai ruoli organici dei dirigenti sono previste qualifiche superiori”.

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ciascun livello dirigenziale furono attribuiti non solo compiti di direzione di uf-

fici (oltre a quelli ispettivi, di studio e di ricerca), ma anche, e soprattutto, effet-

tivi ed autonomi poteri di decisione nel quadro delle direttive generali e delle

priorità stabilite da ciascun Ministro121. A questi poteri veniva fatta corrispon-

dere, in conformità ai principi fissati dalla legge di delega, una precisa respon-

sabilità dirigenziale collegata sia all’osservanza degli indirizzi emanati dal Go-

verno e dal Ministro competente, sia al conseguimento dei risultati dell’azione

degli uffici a cui sono preposti i dirigenti stessi122. In sede di controllo gerar-

chico dell’intera attività dirigenziale, venne previsto, infine, che i provvedi-

menti adottati dai dirigente nell’ambito delle rispettive competenze possano es-

121 Cfr. artt. 2 e 3, comma 1, D.P.R. n. 748 del 1972. 122 In particolare, la suddetta disciplina era contenuta nell’art. 19 del D.P.R. n. 748 del 1972, rubricato “Responsabilità per l'esercizio delle funzioni dirigenziali”. I primi due commi dispo-nevano: “1. Ferma restando la responsabilità penale, civile, amministrativa, contabile e disci-plinare prevista per tutti gli impiegati civili dello Stato, i dirigenti delle diverse qualifiche so-no responsabili, nell'esercizio delle rispettive funzioni, del buon andamento, dell'imparzialità e della legittimità dell'azione degli uffici cui sono preposti. 2. I dirigenti medesimi sono spe-cialmente responsabili sia dell'osservanza degli indirizzi generali dell'azione amministrativa emanati dal Consiglio dei Ministri, e dal Ministro per il dicastero di competenza, sia della ri-gorosa osservanza dei termini e delle altre norme di procedimento previsti dalle disposizioni di legge o di regolamento, sia del conseguimento dei risultati dell'azione degli uffici cui sono preposti”. Sulla responsabilità dirigenziale per il mancato raggiungimento del risultato nel D.P.R. n. 748 del 1972, cfr. M. U. FRANCESE, La responsabilità dei dirigenti statali nell’esercizio delle funzioni dirigenziali. Rassegna di giurisprudenza – Profili di riforma, in Foro amm., pp. 280 ss., 1991; F. LONGO, Considerazioni sulla responsabilità dirigenziale, in Foro amm., p. 973, 1987.

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sere rimossi dal Ministro mediante esercizio discrezionale del potere di annul-

lamento, revoca o riforma dei provvedimenti stessi123.

Il D.P.R. 748/1972, ambiziosamente, credette di poter determinare la separa-

zione, o addirittura, come è stata definita, la “separatezza”124, tra politica e

amministrazione così che si abbandonasse il modello cavouriano di stretta di-

pendenza del dirigente, che spesso proveniva dai ranghi della politica, dal Mi-

nistero o dal diverso organo politico di vertice, al quale veniva, nel contempo,

attribuita la responsabilità amministrativa e gestionale della conduzione degli

uffici dell’amministrazione. La realizzazione di quest’obiettivo fallì misera-

mente: a remare contro la realizzazione degli intenti del legislatore del D.P.R.

1972/748125, che comunque si muoveva nell’acqua torbida dell’ambiguità126,

123 Cfr. art. 3, comma 3, D.P.R. n. 748 del 1972. 124 L’espressione è di I. VOLPE, in O. FORLENZA, G. TERRACCIANO, I. VOLPE, La riforma del pubblico impiego, Il sole 24 ore, 1999, p. 19. 125 Il D.P.R., venuto alla luce nell’ultimo giorno prima della scadenza della delega n. 775, ad opera del governo Andreotti – Malagodi, di centro-destra, non tenne assolutamente conto dei criteri sostenuti dalle confederazioni sindacali, secondo i quali l’adozione di provvedimento sulla dirigenza, alla luce di quanto disposto nella legge delega, andava subordinata all’attuazione del decentramento regionale e alla conseguente revisione del numero e delle fun-zioni dei Ministeri e, quindi, dei funzionari direttivi. Trasmesso il D.P.R. 748/1972 alla Corte dei Conti, questa ne negava il visto e la registrazione sulla base di numerosi rilievi riguardanti la non conformità ai criteri direttivi contenuti nella legge delega (Corte conti, sez. contr., 25 agosto 1972, n. 493, in Foro amm., 1972, I, 3, p. 253). Ma il Consiglio dei Ministri deliberava di “dare corso” al decreto delegato, nonostante il rifiuto della registrazione, accogliendo le ri-chieste espresse dalla Dirstat, pur di guadagnarsi il consenso dell’alta burocrazia, sicché le Se-zioni Unite della Corte ne ordinavano la registrazione con riserva. (Corte conti., sez. riun., 6 dicembre 1972, n. 14, in Foro amm., 1972, I, 3, p. 423). Sul D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, cfr. in dottrina LORENZA CARLASSARE, Amministrazione e potere politico, Padova, CEDAM, p. 238 ss., 1974; L. ARCIDIAGONO, La gerarchia nelle recenti leggi di riforma dell’amministrazione, in Jus, 1, pp. 45 ss. 1975; G. BACHELET, Responsabilità del ministro e

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furono proprio coloro i quali la legge individuava come protagonisti della ri-

forma: i Ministri, da una parte, che, preoccupati di vedersi minacciati nella loro

azione politica, continuavano ad esercitare una eccessiva ingerenza negli affari

di diretta competenza dei dirigenti; i dirigenti stessi, dall’altra che non vedeva-

no di buon occhio l’attribuzione di una serie di responsabilità a fronte di un ca-

rico di lavoro maggiore e che, con preoccupazione, intravedevano nel D.P.R. il

riconoscimento legislativo della perdita dei privilegi e dello status acquisiti nel

corso dei decenni precedenti127.

D’altronde che, tra politica e dirigenti pubblici, ci fosse un tacito accordo, che

il D.P.R. avrebbe potuto smantellare, era cosa notoria: il modello clientelare,

competenza esterna degli uffici direttivi dei Ministeri, in La riorganizzazione dei ministeri nel quadro della riforma dell’Amministrazione, Atti del Convegno organizzato a Catania (29.30 giugno 1974) dal Centro italiano di studi amministrativi, Padova, CEDAM, pp. 28 ss, 1975; M. D’ALBERTI, L’alta burocrazia in Italia, in MARCO D’ALBERTI (a cura di), L’alta burocra-zia: studi su Gran Bretagna, Stati Uniti d'America, Spagna, Francia, Italia, Bologna, Il Muli-no, 1994, pp. 150 ss.. 126 Per una legge che venne presentata come l’apice del progetto di indipendenza dell’Amministrazione dalla politica, si leggono con troppa frequenza espressioni come “elabo-rano progetti per attuare le direttive del Ministro”, “coadiuvare il Ministro nello svol-gimento della azione amministrativa”, “in attuazione dei programmi stabiliti dal Ministro”, “salva in ogni caso la facoltà del Ministro di avocare i singoli affari”. 127 In tal senso, cfr. F. CALÀ, in Il dirigente della pubblica amministrazione, Roma, Libreria Forense, p. 24, 2006 per il quale “le intenzioni della riforma sono state tradite nell’attuazione pratica dal comportamento della classe dirigente, che non ha avuto la capacità o la volontà di sottrarre alla classe politica quei poteri che essa deteneva e che il D.P.R. del 1972 ha ad essa sottratto. Si può dire che la dirigenza ha preferito un atteggiamento di mera esecuzione di or-dini o indicazioni puntuali dei vertici politici delle amministrazioni. In sostanza, la classe diri-gente ha accettato lo “scambio sicurezza-potere”, cioè essa ha di fatto rinunziato ad esercita-re gli autonomi poteri amministrativi e di gestione ad essa attribuiti dalla normativa contenuta nel D.P.R. 748/1972 “in cambio della esenzione da responsabilità (ossia, della “copertura” del loro operato da parte dei vertici politici) e della non eccessiva interferenza degli organi politici sullo loro carriera e sicurezza di status”.

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che ancora oggi si fatica ad estirpare dalla cultura della Pubblica Amministra-

zione italiana prevedeva, quasi fosse una prassi, avanzamenti di carriera e be-

nefici economici in cambio della totale adesione al programma del partito

maggioritario di turno. Il motore che muoveva l’azione dirigenziale nella Pub-

blica Amministrazione, di conseguenza, non era il soddisfacimento della do-

manda dell’utenza dei servizi pubblici, così da realizzarne il buon andamento e

l’efficienza, ma la volontà di rispondere ai desiderata degli organi politici.

Il primo passo verso un più marcato modello di responsabilità dirigenziale fu

compiuto con la legge n. 142 del 1990, che, seppur solo in relazione alla diri-

genza locale, affermava il principio in base al quale i poteri di indirizzo e con-

trollo politico appartengono ad una fase nettamente distinta da quella relativa

all’esercizio dei compiti gestionali. Tale principio venne definitivamente sanci-

to, per tutte le Amministrazioni Pubbliche, dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.

Eliminato il presupposto gerarchico, il nuovo assetto del D.Lgs. n. 29/93,

all’insegna del principio di distinzione tra politica e amministrazione, stabilì

due blocchi di competenze, riservate ed esclusive, caratterizzate dalla reciproca

infungibilità: l’uno afferente l’attività di indirizzo, di definizione degli obietti-

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vi e di controllo, propria degli organi di governo;; l’altro la sfera della gestione

amministrativa, attribuita alla competenza dirigenziale128.

La seconda fase della privatizzazione129, che istituisce per i dirigenti un unico

ruolo interministeriale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, estende

128 Cfr. artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 29 del 1993. L’art. 3 stabilisce: “Gli organi di governo esercita-no le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la ri-spondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti”;; l’art. 4, invece, sancisce “1. le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione orga-nizzativa al fine di assicurare l'attuazione dei principi di cui all'articolo 2, comma 1, e la ri-spondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa. 2. Nell'ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all'articolo 2, comma 1, le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. 129 Al riguardo, gli artt. da 8 a 17 del D.Lgs. n. 80 del 1998 hanno ad oggetto la ridefinizione della disciplina concernente i dirigenti delle amministrazioni statali, secondo quanto indicato, in particolare, dai criteri di delega di cui all’art. 11, comma 4, lett. a), b) e d), della legge n. 59 del 1997. Viene, quindi, introdotta la contrattualizzazione dei dirigenti generali, che risultano in tal modo equiparati al restante personale dirigenziale, per i quali il regime privatistico era stato già introdotto dal D.Lgs. n. 29 del 1993. Tra le maggiori novità apportate dal decreto in esame si segnalano: la previsione del limite di sette anni per tutti gli incarichi dirigenziali e la possibilità di revoca, da parte del Governo che entra in carica, dei cosiddetti incarichi di vertice (segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate in uffici dirigen-ziali generali). Tale facoltà può essere esercitata nei primi novanta giorni dall’insediamento del nuovo Governo che ha ottenuto la fiducia del Parlamento. In tema di trattamento economico, si stabilisce che quello fondamentale viene definito in sede di contrattazione collettiva per l’area dirigenziale, mentre il trattamento accessorio, correlato alle responsabilità attribuite ed ai risul-tati conseguiti, viene regolato dai contratti individuali. La separazione di funzioni tra organi di direzione politica e dirigenti viene perseguita attraverso la messa al bando dei poteri del Mini-stro concernenti l’avocazione e l’annullamento degli atti dirigenziali;; nei casi in cui tali atti possano arrecare pregiudizio all’interesse pubblico, si prevede la nomina di un commissario ad acta. Analoga finalità è sottesa alla norma per la quale gli atti e i provvedimenti dei dirigenti posti al vertice dell’amministrazione sono sottratti al regime dell’impugnabilità con ricorso ge-rarchico. Nel nuovo assetto assume particolare rilievo l’assegnazione ad uffici dirigenziali ge-nerali. Tale incarico comporta per il dirigente l’attribuzione di specifiche funzioni che tendono a realizzare un modello in larga misura assimilabile a quello privatistico. Con particolare riferimento all’attribuzione degli incarichi dirigenziali, l’art 13 del D.Lgs. n. 80 del 1998 stabilisce, al comma 1, che i criteri generali per il conferimento degli incarichi devono tenere conto delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e capacità profes-sionali del soggetto, anche in relazione ai risultati da questo conseguiti in precedenza. Il com-ma 2 dispone che tutti gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, per la dura-

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il regime di diritto privato anche ai dirigenti generali, che erano rimasti esclusi

dalla riforma del 1993. Il modello che ne emerge è caratterizzato da una distin-

zione molto netta e marcata tra funzione politica ed attività dirigenziale per

quel che concerne la responsabilità, ma molto più sfumata per quanto attiene

alla gestione. Anche se i rispettivi compiti sono tassativamente individuati,

l’ampiezza dei poteri riconosciuta agli organi politici in ordine alla nomina e

alla revoca dei dirigenti lascia intravedere, infatti, una figura dirigenziale poco

autonoma nell’esercizio della propria attività di gestione. La riforma del 1998

eleva a sistema il principio della temporaneità degli incarichi dirigenziali, sia di

livello generale che di livello non generale, rendendo il rapporto tra Ammini-

strazione e singoli Ministri, i quali rispondono solo in sede di responsabilità

politica, più “politicizzato”. Manca, infatti, la garanzia del buon andamento e

dell’imparzialità dell’Amministrazione, la quale non può che risiedere nella

ta compresa fra due e sette anni, con possibilità di rinnovo. Per quanto, invece, attiene alla re-voca degli incarichi dirigenziali, l’art. 21 distingue due fattispecie di responsabilità dirigenzia-le, cui si ricollegano conseguenze differenti: a) responsabilità (generica) per i risultati negativi dell’attività amministrativa o della gestione, nonché per il mancato raggiungimento degli obiet-tivi (comma 1); b) responsabilità per grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente e responsabilità specifica per i risultati negativi dell’attività e della gestione (com-ma 2). Nel primo caso, viene disposta la revoca dall’incarico affidato al dirigente stesso e l’assegnazione ad altro incarico;; nel secondo caso, viene effettuata la contestazione degli adde-biti al dirigente interessato, che è sentito in contraddittorio. A seguito di tali procedure, può es-sere disposta l’esclusione dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corri-spondente a quello revocato, per un periodo di almeno due anni e, nei casi di maggiore gravità, è previsto il recesso dal rapporto di lavoro, secondo le norme del codice civile e dei contratti collettivi. I provvedimenti in questione devono essere adottati previo parere conforme del “Comitato dei Garanti” di cui al comma 3 dell’art. 21.

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continuità delle funzioni esercitate da coloro che, come recita l’art. 98, Cost.,

“sono al servizio esclusivo della Nazione”.

A seguito della riforma degli anni Novanta, nel rapporto dirigenziale, si distin-

guono un rapporto di servizio, retto da un contratto privatistico di lavoro, di

norma a tempo determinato, e un rapporto di ufficio, che consente il concreto

espletamento delle funzioni dirigenziali. Distinzione che rimane valida

tutt’oggi e sulla quale si innesta la distinzione tra politica ed amministrazione.

Il rapporto dirigenziale viene “precarizzato”130 con la L. 145 del 2002131, con la

quale vengono modificate le disposizioni in materia di accesso alla qualifica

dirigenziale, di ruolo unico della dirigenza, di conferimento e revoca degli in-

carichi dirigenziali. Viene stabilito, infatti, che l’accesso alla dirigenza avviene

non solo per il tramite del concorso pubblico, ma anche mediante corso-

concorso selettivo di formazione; viene abolito il ruolo unico e ristabilito il

ruolo dei dirigenti per ogni singola amministrazione;; viene disciplinato l’atto di

130 Sulla “precarizzazione” della dirigenza pubblica all’esito del nuovo regime: SABINO CASSE-

SE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Lav. P.A., p. 1231 ss., 2003, in cui l’Autore afferma che “la precarizzazione dei dirigenti pubblici, la cui sorte è ora legata doppiamente ai politici, ha rimesso nella mani di questi ultimi la gestione amministrativa. Qual è il dirigente amministrativo che non piegherà il capo dinnanzi alle in-terferenze politiche nell’attività di gesitione, se sa che, dopo pochi mesi o un anno, le sue sorti sono decise, senza controlli e senza doverne motivare, dal politico di turno?” e ID., Il nuovo regime dei dipendenti pubblici italiani: una modifica costituzionale, in Giornale dir. amm., p. 1341 ss., 2002. 131 Si veda anche la Circ. Pres. Cons. min. – Dip. Fun. Pub. 31 luglio 2002 “Modalità applicati-ve della legge sulla dirigenza”, in G.U. 5 agosto 2002, n. 182.

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conferimento dell’incarico, che avviene mediante “provvedimento” cui accede

un contratto che definisce il solo trattamento economico. L’oggetto

dell’incarico, gli obiettivi da conseguire e la durata del medesimo sono invece

stabiliti unilateralmente dall’amministrazione con il provvedimento di confe-

rimento.

Viene, inoltre, introdotta una disciplina transitoria degli incarichi dirigenziali

già conferiti, che immette nel nostro ordinamento il temuto spoil system (reso

inoperante, come si vedrà, dalle pronunce della Corte Costituzionale).

L’ultimo intervento (solo in ordine di tempo) è la legge delega n. 15 del 2009,

che ha introdotto una serie di principi volti a rendere effettivo l’esercizio dei

poteri datoriali della dirigenza sul presupposto che la dirigenza, a seguito delle

precedenti riforme, non fosse stata messa nelle condizioni di disporre a pieno

dei poteri e degli strumenti necessari a governare il personale e a garantire il

funzionamento degli uffici. Sono stati quindi introdotti una serie di correttivi

volti ad aumentare le prerogative datoriali dei dirigenti, accompagnati dal do-

vere (pena la decurtazione della retribuzione) di esercitare una specie di “pote-

re disciplinare” sui dipendenti132. La riforma Brunetta, accompagnata dalla vo-

132 Nelle parole di Umberto Carabelli, La riforma “Brunetta”: un breve quadro sistematico delle novità legislative e alcune considerazioni critiche, in W. P. C. S. D. L. E. “Massimo D’Antona”.IT, 101/2010: “Centralità assoluta assumono, nell'ambito del provvedimento ri-

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formatore, anche le previsioni in materia di poteri dirigenziali. Al riguardo, si è detto che tra gli obiettivi del D. Lgs. n. 150/2009 si colloca il riconoscimento, in capo al dirigente, di una maggiore autonomia nei confronti tanto della politica quanto del 'contropotere' sindacale, ed un rafforzamento delle sue prerogative manageriali (peraltro rigorosamente individuate e vin-colate nell'esercizio); ma anche la sua sottoposizione ad un più efficace sistema di valutazione e la sua esposizione alle conseguenze di quest'ultima sul piano della responsabilità dirigenzia-le e su quello retributivo. Per quanto attiene all'autonomia dalla politica, gli obiettivi del legi-slatore si sono tradotti in una serie di previsioni in materia di incarichi (tra cui merita segna-lazione la riformulazione dei criteri su cui deve fondarsi l'attribuzione dell'incarico - al fine di assegnare maggiore rilievo al complessivo profilo professionale del soggetto interessato - e la riduzione dello spoils system ai soli incarichi di Segretario generale di Ministeri o di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali, ovvero agli incarichi di livello equivalen-te), di progressione di carriera (viene introdotto - entro il limite del 50% dei posti disponibili - il concorso per l'accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia), di responsabilità dirigen-ziale (rispetto alla quale la legge collega, ancora più chiaramente del passato, l'accertamento del mancato raggiungimento degli obiettivi «alle risultanze del sistema di valutazione» previ-sto dal D. lgs. n. 150/2009) e di incompatibilità (si prevede che non possano essere attribuiti incarichi di direzione di strutture abilitate alla gestione del personale a soggetti che rivestano, o che nei due anni precedenti abbiano rivestito cariche in - ovvero abbiano avuto rapporti di collaborazione o consulenza con - partiti politici o organizzazioni sindacali). In merito, invece, alla difesa dell'autonomia dirigenziale dall' 'invadenza' del sindacato, si è detto più sopra che il legislatore ha esclusola disponibilità negoziale dei poteri dirigenziali in materia organizza-zione degli uffici e del lavoro (nell'ambito degli uffici). Al riguardo va detto che, prima della riforma del 2009, in materia di disciplina dei rapporti di lavoro la legge era chiara nel preve-dere la loro regolazione su base contrattuale (intendendosi con tale espressione riferirsi tanto al contratto individuale che a quello collettivo), ferma restando la possibilità, per la contratta-zione integrativa, di intervenire a disciplinare gli istituti del rapporto (o anche solo alcuni a-spetti di essi) solo nei limiti previsti dalle c.d. clausole di rinvio della contrattazione nazionale. E tale regime era stato tacitamente ritenuto applicabile, in assenza di un esplicito riferimento legislativo, pure all'esercizio del potere dirigenziale di organizzazione del lavoro, ammetten-dosi la possibilità di una regolazione contrattuale dei vari aspetti dello stesso da parte di clau-sole del contratto nazionale, o anche di quello integrativo (sempre nei limiti della relativa clausola di rinvio). In merito, invece, alla negoziabilità di un altro potere dirigente, quello di micro-organizzazione, o di organizzazione degli uffici, nonostante l'incertezza del dato legisla-tivo, si era comunque ritenuto, alla luce del disposto dell'art. 9 (in combinato disposto con gli artt. 5, co. 2 e 40, co. 1) (tutti vecchia formulazione), del D. Lgs. n. 165/2001, che, ferma re-stando la totale esclusione di una negoziabilità del potere di organizzazione degli uffici, vi era peraltro spazio, per quanto riguardava gli «atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro», per un intervento della contrattazione collettiva nazionale che li assogget-tasse solo ed esclusivamente agli istituti della partecipazione. Orbene, i risultati emergenti da numerose ricerche degli scorsi anni in materia di contrattazione collettiva del settore pubblico attestano con evidenza che, nei fatti, si è assistito ad una progressiva espansione della contrat-tazione verso le molteplici aree dell'organizzazione di uffici e strutture. E questo 'straripamento' della contrattazione integrativa non ha riguardato solo la materia dell'orga-nizzazione degli uffici, ma anche quella dell'organizzazione del lavoro: se è vero, infatti, che per quest'ultima materia, la legge - come si è detto - non impediva alla contrattazione di inter-venire a fissarne regole e limiti, è pur vero che anche per essa valeva il principio della vinco-

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latività delle clausole di rinvio, onde risultava illegittimo trasformare una procedura di parte-cipazione sindacale (prevista dal contratto di comparto riguardo ad un aspetto del potere di organizzazione del lavoro) in una procedura negoziale. Proprio la preoccupazione per questa progressiva 'invasione', ad opera della contrattazione collettiva, dell'area delle prerogative riguardanti l'organizzazione degli uffici e del lavoro, e la ferma intenzione di restituire al diri-gente la piena autonomia decisionale anche rispetto all'interlocutore sindacale, sono state all'origine di un forte ripensamento da parte del legislatore del 2009 dell'assetto regolativo dei poteri dirigenziali. Di qui la decisione di sgombrare il campo da ogni incertezza normativa e di 'immunizzare' in toto i poteri dirigenziali di organizzazione degli uffici e del lavoro da una forte incidenza sindacale. Le tre norme rilevanti continuano ad essere gli artt. 5, co. 2, 9 e 40, co,1, D. Lgs. n. 165/2001; solo che, nelle loro nuove formulazioni esse non sembrano lasciare più adito ad interpretazioni estensive. Ai sensi del nuovo art. 5, co. 2, «le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono as-sunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove prevista nei contratti di cui all'art. 9»; con l'aggiunta, poi, del chiarimento che «rientrano, in particolare, nell'esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del princi-pio di pari opportunità, nonché la direzione, l'organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffi-ci». Il nuovo art. 9, poi, stabilisce «fermo restando quanto previsto dall'art. 5, co. 2, i contratti collettivi nazionali disciplinano le modalità e gli istituti della partecipazione». Ed infine, in forza del nuovo art. 40, co. 1, «la contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi di-rettamente pertinenti al rapporto di lavoro. Sono in particolare escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all'organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17». Al di là della formulazione talvolta insicura e della presenza di affermazioni forse ultronee, il combinato disposto di queste norme non sembra lasciare dare adito a dubbi: i poteri dirigenziali di organizzazione degli uffici e del lavoro continuano ad essere di natura rigorosamente privatistica - in quanto le relative determinazioni sono assunte, appunto, «con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» - ma, a differenza di quanto avviene nel settore privato, non è ammessa la loro disponibilità in sede di contrattazione col-lettiva, e tanto meno è ammesso, rispetto ad essi, che la contrattazione nazionale possa preve-dere forme partecipative più evolute della mera informazione. Quest'ultima, dunque, costitui-sce - solo se espressamente prevista dai CCNL - l'unico strumento di 'interlocuzione sindacale' ammesso nei confronti del dirigente, al quale, viene in tal modo imposto di assumere, alla fine, unilateralmente - se si vuole, in responsabile solitudine - le proprie decisioni organizzative. La disciplina appena riassunta è assistita da un apparato sanzionatorio di particolare robustezza. Infatti, ai sensi del nuovo art. 2, co. 3-bis, D. Lgs. n. 165/2001, “nel caso di nullità delle dispo-sizioni contrattuali per violazione di norme imperative o dei limiti fissati alla contrattazione collettiva, si applicano gli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile». Il legisla-tore richiama, dunque, la nullità relativa, accompagnata dalla inserzione di clausole legali; anche se, in realtà, è da notare che, nel caso di clausole contrattuali che violano il limite della non negoziabilità delle decisioni in materia di organizzazione degli uffici e del lavoro, alla lo-ro nullità corrisponderà piuttosto la riespansione dell'originario potere dirigenziale, che potrà essere esercitato nuovamente scevro da vincoli. Accanto a queste previsioni, si collocano, poi, altre rilevanti. La previsione, di portata generale, si rispecchia in quella dell’art. 40, co. 3-quinquies, quinto periodo, D. Lgs. n. 165/2001, secondo cui «nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge, le

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lontà del Ministro di cui porta il nome di combattere il lassismo, la mancanza

clausole [dei contratti integrativi: n.d.a.] sono nulle, non possono essere applicate, e sono so-stituite ai sensi degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile». Merita di essere ricordato che l’art. 65, D. Lgs. n. 150/2009 ha dettato una disciplina transitoria prevedendo che «entro il 31 dicembre 2010, le parti adeguano i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto alle disposizioni riguardanti la definizione degli ambiti riservati, rispettivamente, alla contrattazione collettiva e alla legge, nonché a quanto previsto dalle disposizioni del Titolo III del presente decreto» (co. 1) (queste ultime sono quel-le in materia di merito e di premi); e che «in caso di mancato adeguamento ai sensi del comma 1 i contratti integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto cessano la loro efficacia a decorrere dal 1° gennaio 2011 e non sono ulteriormente applicabili» (co. 2). Come si vede, la disciplina transitoria offre alle parti la possibilità di eliminare autonomamen-te le norme in contrasto con il nuovo regime; ma decorso il periodo massimo concesso scatta la sanzione non più della nullità parziale, ma della nullità totale del contratto integrativo. Di-sposizioni che attribuiscono formalmente al dirigente specifici poteri manageriali, ma anche responsabilità 'corrispettive'. Così, le prerogative dirigenziali sono anzitutto arricchite dell'importante aspetto relativo alla partecipazione alla determinazione delle risorse e dei pro-fili professionali necessari per lo svolgimento dei compiti istituzionali delle strutture di appar-tenenza; a fronte di ciò viene, peraltro, introdotto, a carico del dirigente, un obbligo di rileva-re la presenza di eccedenze di personale negli uffici di propria competenza, la cui violazione è valutabile ai fini della responsabilità per danno erariale. Anche se va detto che, in verità, l'ef-fettivo rispetto di tale obbligo appare poco probabile, sia per l'obiettiva difficoltà di accerta-mento della sua violazione, sia per la resistenza quasi istintiva che, almeno nel breve periodo, prevedibilmente opporranno i dirigenti, tenuto conto della tradizionale concezione - che appa-re tuttora dominante nelle pubbliche amministrazioni - secondo cui all'autorevolezza di una posizione dirigenziale non è estraneo il numero di dipendenti assegnati alla relativa struttura. Soprattutto, di fondamentale importanza appare il riconoscimento al dirigente del pote-re/dovere di valutare il personale assegnato ai propri uffici, nonché la conseguente erogazione di incentivi e premi; potere al quale fa riscontro la previsione di una sua diretta responsabilità nel caso di «colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazio-ne». Forti perplessità solleva, infine, dal punto di vista delle strategie di governo del persona-le, l'obbligo, posto a carico del dirigente, di esercitare effettivamente e nei termini dovuti il po-tere disciplinare – a pena di esporsi a sua volta a sanzioni disciplinari, salvo che l'omissione o il ritardo non dipenda da giustificato motivo, o da non manifestamente infondate o non irra-gionevoli valutazioni sull'insussistenza dell'illecito (pur a fronte di «condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare») –, incentivandolo in questo anche attraverso un depotenzia-mento della sua responsabilità in relazione «a profili di illiceità nelle determinazioni concer-nenti lo svolgimento del procedimento disciplinare» (responsabilità che viene limitata per leg-ge ai casi di dolo o colpa grave). L'imposizione di questo vincolo, a ben vedere, fornisce ulte-riore conferma di come il disegno riformatore del legislatore si sia ispirato ad una concezione neo-autoritaria della gestione del personale, nel convincimento che solo attraverso il ripristino di un rigoroso rispetto delle regole che disciplinano i rapporti di lavoro siano possibili recu-peri significativi di efficienza. Tuttavia è indubbio che siffatta scelta legislativa sottrae al diri-gente significativi spazi di discrezionalità che, nel settore privato, risultano essenziali dal pun-to di vista delle strategie manageriali di governo del personale”.

106

di meritocrazia e la presenza dei cd. “fannulloni” all’interno delle Pubbliche

Amministrazioni, ha trasformato il dirigente pubblico in controllore facendolo

diventare a sua volta controllato, cadendo nella trappola latina del “quis custo-

diet ipsos custodes?133” costringendolo a subire, ancora una volta, una riforma

di cui non si sente partecipe134 e privandolo di spazi di discrezionalità135, nono-

stante i proclami della riforma.

133 Cfr. VI Satira di Giovenale. Anche Platone, La Repubblica, lib. III, cap. XIII, “Nempe ridi-culum esset, custode indigere custodem”. 134 Cfr. STEFANO SEPE, Burocrazia e apparati amministrativi: evoluzione storica e prospettive di riforma, Milano, Giuffrè, p. 225, 1996: “lo sforzo di immaginare una amministrazione del tutto estranea alle lotte e alle pressioni politiche […] non era più ipotizzabile sia per la scelta di “partecipazione” voluta dal Costituente, sia per la stessa complessità e rilevanza quantita-tiva delle pubbliche amministrazioni. Il vero problema non è stato più quello della contrappo-sizione/esclusione tra politica e amministrazione, ma della ricerca delle forme di integrazio-ne”. 135 Emblematico il tal senso è l’art. 21, co. 1-bis, che configura una sorta di culpa in vigilando: “Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previ-ste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilan-za sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commis-sione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità della violazione di una quota fino all'ottanta per cento”.

107

3.- Verso una ri - publicizzazione della dirigenza (anco-

ra)“privatizzata”?

Dal 1972 ad oggi la dirigenza pubblica (poi privatizzata) è stata la categoria più

martellata dalle riforme, riuscendo a guadagnarsi (e, in un confronto con la

“dimenticata” dirigenza privata, sarebbe il caso di aggiungere “addirittura”) in-

tere leggi tutte per sé.

Di contro, la dirigenza privata è rimasta estranea all’evoluzione del diritto del

lavoro privato, continuando ad essere presa in considerazione a fini negativi,

per essere esclusa dall’applicazione di questa o di quella disciplina.

La differenza è evidente se si aprono i manuali di diritto del lavoro (privato e

privatizzato). Alla dirigenza pubblica sono dedicati interi paragrafi; la dirigen-

za privata non appare neppure nell’indice.

D’altronde, a scavare più in profondità, non si può non notare che la dirigenza

pubblica è la categoria di lavoratori alla quale, nel vigente testo unico, è dedi-

cato un intero capo, il secondo, e il maggior numero di norme (ben 20 articoli,

disposti su due sezioni).

Il legislatore ha visto, sin dal 1993, nella categoria dirigenziale la vera leva del-

la privatizzazione, lo strumento attraverso il quale attuare la realizzazione del

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suo programma riformatore136. E così, paradossalmente, rispetto alla dirigenza

privata che, in quanto categoria non afflitta da debolezza contrattuale, è quasi

ignorata dal legislatore, la dirigenza pubblica privatizzata diventa il vero teatro

della riforma del pubblico impiego, in una congierge di norme e articoli che

l’hanno trasformata, almeno sulla carta, nel “privato datore di lavoro”

nell’accezione più malvagia, facendola diventare, agli occhi dei dipendenti, il

cane da guardia del padrone e che, più che occuparsi della disciplina del rap-

porto, si preoccupa di determinarne le funzioni alla luce dell’organizzazione

delle strutture137. E l’ultima riforma del pubblico impiego ha continuato a

bombardare la categoria dei dirigenti, imbrigliati nella aspirazione “genitoria-

le” di diventare ad immagine e somiglianza di quella privata, dimenticando di

136 FRANCO CARINCI, Simbologia cit., p. 9: “L’art. 4, D.Lgs 165/2001 nella sua formula origi-naria recitava: “Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione per l’organizzazione degli uffici al fine di assicurare la economicità e rispondenza al pubblico in-teresse dell’azione amministrativa. Nelle materie soggette alla disciplina del codice civile, del-le leggi sul lavoro e dei contratti collettivi esse operano con i poteri del privato datore di lavo-ro, adottando tutte le misure inerenti all’organizzazione ed alla gestione dei rapporti di lavo-ro”. Ma nella sua stesura definitiva lo stesso articolo dispone: “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, comma 2, D.Lgs 165/2001). L’evoluzione della formula è evidente, perché sconta la distinzione, operata nel passaggio dalla prima alla seconda privatizzazione, tra ma-cro-organizzazione tenuta sotto la riserva amministrativa e micro-organizzazione ricondotta alla disciplina civilistica e perché ha come destinatari non più le “amministrazioni”, ma speci-ficatamente gli “organi di gestione”;; ed ha come contenuti non più “i poteri del privato datore di lavoro”, ma “la capacità e i poteri del privato datore di lavoro””. 137 Significativo a tal proposito il fatto che il capo sulla dirigenza sia inserito nel Titolo II ru-bricato “Organizzazione” e che venga immediatamente dopo le norme che disciplinano le “Re-lazioni con il pubblico”.

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chiedersi se nel nostro ordinamento il dirigente pubblico ha smesso di essere un

burocrate fino a diventare manager.

E così alla fine di un ventennio in cui le riforme si sono susseguite come tappe

di una corsa affannosa e senza respiro, iniziano a farsi sempre più insistenti le

voci di una “ri-pubblicizzazione” della disciplina e del rapporto dirigenziale,

mosse dall’idea (non certo originale) che l’attuale assento della dirigenza “vada

criticato non perché non abbia garantito l’assoluta indipendenza

dell’amministrazione rispetto al momento dell’indirizzo politico, […] quanto,

piuttosto perché non ha tenuto conto delle varie tipologie di posizioni in ordine

alle diverse strutture ed attività cui i dirigenti sono preposti”138.

Si ritorna, quindi, al passato e a quanto Giannini aveva espresso con il suo rap-

porto in tema di (non) privatizzazione della dirigenza: “[…] alcuni dei dipen-

denti pubblici aggiungono al rapporto di servizio un rapporto di ufficio, quan-

do divengono titolari di un organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con

atti autoritativi di pubblico potere: sono le persone attraverso le quali si e-

sprimono le potestà pubbliche. Vi è dunque una fascia di pubblici dipendenti

che hanno uno status speciale, per essere, in atto o in potenza, i portatori delle

138 ROBERTO ALESSE, La dirigenza dello Stato tra politica e amministrazione, Torino, Giappi-chelli, p. 130, 2006.

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potestà pubbliche”139. Ed ancora lo stesso Giannini in un saggio del 1991 tor-

nava a ribadire l’eslusione dei dirigenti dalla privatizzazione: “In presenza di

questa realtà giuridica, le soluzioni possibili sono due: o il vecchio strumento

del munus pubblico, ossia si considerano coloro che svolgono tali attività dei

dipendenti retribuiti legati da contratti d’opera di diritto comune, ma in una

particolare posizione giuridica pubblicistica di titolare di un munus; oppure si

utilizza la categoria moderna del rapporto d’impiego pubblico”140. Continua

ancora Giannini menzionando le esperienze dei paesi europei e le pronunce

della Corte di Giustizia: “La tendenza delle legislazioni contemporanee è verso

la seconda soluzione, quella del rapporto di lavoro pubblico, come specie au-

tonoma di rapporto di lavoro. Del resto in tal senso è la tendenza del diritto

comunitario, per ora espressa solo in decisioni della Corte di Giustizia, ma ri-

spondente alla formazione positiva di alcuni dei diritti europei dominanti, nei

quali è disciplinato dal diritto privato il rapporto di lavoro con le pubbliche

amministrazioni, salvo i casi indicati. Nella misura in cui le tendenze di diritto

139 MINISTERO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, Rapporto cit., pp. 738-739. 140 MASSIMO SEVERO GIANNINI, Per la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, in Scritti per Mario Nigro, Milano, Giuffrè, pp. 171-172, 1991.

111

comunitario sono anticipazioni di un diritto comune degli Stati europei, la ten-

denza in questione non è un accadimento secondario”141.

A Giannini fa eco, pochi anni più tardi e a privatizzazione avvenuta, Rusciano:

“Vorrei però premettere, a proposito delle riforme in materia dell’ultimo de-

cennio, che sono molto colpito dalla scarsa capacità, dimostrata dai riforma-

tori, di mantenere una linea coerente di politica del diritto: tanto da far pensa-

re all’interprete malizioso che non manchi la volontà di strumentalizzare le ri-

forme, piegandole all’esigenza del momento e degli interessi politici contin-

genti. Ciò vale sia per il governo di centro sinistra, sia per il governo di cen-

tro-destra”142. Si chiede Rusciano: “E’ coerente, ad esempio, per garantire

una equilibrata relazione orizzontale fra “politica” e “amministrazione”, vero

fulcro della riforma della dirigenza, utilizzare lo strumento contrattuale, intro-

dotto nel 1997? Non occorre, invece, a tal fine, una legittimazione ex lege

dell’alto dirigente, cioè una relazione verticale, grazie alla quale lo status de-

riva direttamente dalla legge, senza alcuna mediazione politica personalizza-

ta?”143.

141 Ibidem, p. 172. 142 MARIO RUSCIANO, Contro la privatizzazione della dirigenza pubblica, in Studi in onore di Giorgio Ghezzi, Bologna, CEDAM, II, pp. 1553 ss., 2005. 143 Ibidem, p. 1559.

112

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CAPITOLO TERZO

IL DIRIGENTE PUBBLICO TRA TUTELA REALE E TUTELA OB-

BLIGATORIA

SOMMARIO: 1. Dirigente pubblico privatizzato e dirigente privato: la

fine del rapporto di lavoro. – 2. La responsabilità dirigenziale: le novi-

tà sostanziali e procedurali introdotte dal D.Lgs. 150/2009. – 2.1. Il

ciclo di gestione della performance: cenni. – 2.2.- Il comitato dei Ga-

ranti – 3. L’inapplicabilità dell’art. 2103, C.C. agli incarichi dirigenzia-

li: un demansionamento autorizzato. – 4. L’impossibilità di rinnovo e

la revoca dell’incarico: le sanzioni “espulsive” del rapporto di servizio e

“conservative” del rapporto di lavoro. – 4.1. La tutela giurisdizionale

tra diritto alla rassegnazione dell’incarico e risarcimento del danno. –

4.2. Riorganizzazione degli uffici e revoca dell’incarico dirigenziale.

Quale tutela? – 4.3. La tutela reale e la sua effettività. – 4.4. Gli inca-

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richi dirigenziali e il fantasma “spoil system”. – 5. Licenziamento del

dirigente pubblico privatizzato e privato: tutele e problemi a confronto

– 5.1. Il dirigente privato: la libera recedibilità e la nozione di giustifi-

catezza – 5.2. Il dirigente pubblico privatizzato e l’applicazione della

tutela reale. – 6. Un caso particolare: se l’ambasciatore porta pena.

1.– Dirigente pubblico privatizzato e dirigente privato: la fine del

rapporto di lavoro.

La differenza tra dirigenza pubblica privatizzata e dirigenza privata risalta in

tutta la sua evidenza con riferimento alla regolazione della fine del rapporto.

Tale differenza è determinata dalla convivenza, in capo al solo dirigente pub-

blico privatizzato, di due rapporti diversi: quello, a tempo indeterminato, ac-

quisito per concorso o corso selettivo e quello, di natura temporanea, di attribu-

zione dell’incarico.

Di conseguenza nella disciplina che regola il rapporto del dirigente pubblico

privatizzato con la Pubblica Amministrazione, a differenza di quanto accade

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per il dirigente privato, corrisponde, a fronte di una pressoché assoluta stabilità

del rapporto di base del dirigente pubblico (messa in discussione soltanto nei

casi più gravi di responsabilità dirigenziale o disciplinare previsti dalla contrat-

tazione collettiva, a norma dell'art. 21, D. Lgs. 165/2001), una maggiore incer-

tezza per quel che concerne il rapporto di incarico, circa cioè la pretesa alla

permanenza nell'incarico fino alla scadenza del periodo minimo concordato o

anche al conferimento di un nuovo incarico.

La problematica sottesa a tale “sdoppiamento” del rapporto è evidente, essa è

costituita dalla duplice ratio della tutela che viene in evidenza solo con riguar-

do alla Pubblica Amministrazione: quella pubblicistica del dirigente come fun-

zionario, ispirata al principio di legalità di chi svolge la propria attività lavora-

tiva in funzione dell’efficienza e del buon andamento della Pubblica Ammini-

strazione e al quale deve, quindi, essere garantita una netta distinzione tra il po-

tere di indirizzo attribuito al vertice politico e il potere di gestione riservata al

dirigente; e quella privatistica del dirigente come lavoratore subordinato.

Per il dirigente privato tutto è più semplice. Esiste un solo rapporto: quello di

lavoro che si connota per lo stretto vincolo di fiduciarietà e che, in ragione di

ciò, è regolato da una diversa disciplina rispetto a quella delle altre categorie di

prestatori di lavoro.

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E così, sebbene le recentissime riforme del pubblico impiego si esprimano nel

senso di individuare nel dirigente pubblico privatizzato “i poteri e le responsa-

bilità del privato datore di lavoro”, per cui, i dirigenti sarebbero equiparabili a

veri e propri imprenditori con riguardo alle unità amministrative dirette, viste

come imprese e i politici e i vertici costituzionali sarebbero comparabili agli

imprenditori e i dirigenti ai datori di lavoro, cercando, con un’espressione lin-

guistica che avrebbe dovuto realizzare l’intento del legislatore come una for-

mula magica, di occultare la differenza che intercorre tra i due rapporti e che è

chiaramente espressa dai principi costituzionali sanciti, da una parte dall’art.

41, Cost., e, dall’altra, dall’art. 97, Cost., i due capisaldi delle pronunce giuri-

sprudenziali che regolano i rapporti del dirigente pubblico privatizzato e del di-

rigente privato si fondano proprio su queste due norme costituzionali.

Entrambi i dirigenti sono dei lavoratori subordinati, ma in termini e con moda-

lità ben diverse. Per i dirigenti pubblici privatizzati esiste una disciplina del tut-

to eccezionale con riguardo al contratto di lavoro, quale risultato non tanto e

non solo della previa procedura concorsuale, quanto della conclusione in bian-

co dello stesso contratto, con l’individuazione dell’oggetto rinviata ad una suc-

cessiva determinazione unilaterale, qual è il conferimento dell’incarico. E, coe-

rentemente esiste una disciplina del tutto peculiare dello svolgimento del rap-

117

porto, configurato come il passaggio da un incarico all’altro, con un unico rap-

porto di lavoro che viene a far da supporto ad un continuum di rapporti di ser-

vizio rispetto agli uffici volta a volta ricoperti.

2.- La responsabilità dirigenziale: le novità sostanziali e proce-

durali introdotte dal D.Lgs. 150/2009.

L’art. 21, D.Lgs. 165/2001144, rubricato “responsabilità dirigenziale”, recita:

“Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze

144 Per una ricostruzione storica delle vicende normative dell’art. 21, T.U. 165/2001, cfr. PA-

SQUALE CERBO, La responsabilità dirigenziale tra rigore e garanzia, in Il lav. nelle P. A., 3-4, 2002: “L'art. 2 l. 23 ottobre 1992, n. 421 aveva conferito al Governo la delega per la riforma del lavoro alle dipendenze dell'amministrazione pubblica e dell'organizzazione amministrativa, ponendo fra i principi della delega medesima "la mobilità, anche temporanea, dei dirigenti, nonché la rimozione dalle funzioni e il collocamento a disposizione in caso di mancato conse-guimento degli obiettivi prestabiliti dalla gestione" (lettera g, n. 3); non vi era dunque alcun riferimento alla rimozione dall'impiego o al collocamento a riposo per ragioni di servizio. Di conseguenza l'art. 20, comma 4, ultimo periodo, d.lgs. 29/1993 (emanato in attuazione della delega) aveva disposto che "l'inosservanza delle direttive generali o il risultato negativo della gestione possono comportare, previe controdeduzioni degli interessati, il collocamento a di-sposizione per la durata massima di un anno, con conseguente perdita del trattamento econo-mico accessorio connesso alle funzioni". Successivamente, però, un decreto legislativo “cor-rettivo” - precisamente, l'art. 6 d.lgs. n. 470/1993, emanato sempre sulla base della delega contenuta nell'art. 2 l. n. 421/1992 - aveva sostituito il testo dell'art. 20 d.lgs. n. 29/1993, pre-vedendo (comma 9, ultimo periodo) la possibilità - in caso di responsabilità particolarmente grave o reiterata - di disporre nei confronti dei dirigenti generali "il collocamento a riposo per ragioni di servizio". L'art. 11, comma 4, l. 15 marzo 1997, n. 59 aveva nuovamente delegato il Governo a introdurre disposizione integrative e correttive del d.lgs. n. 29/1993: in punto di

118

del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazio-

ne della legge 4 marzo 2009, n.15, in materia di ottimizzazione della produtti-

vità del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche ammini-

strazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente compor-

tano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità discipli-

responsabilità dirigenziale , tuttavia, la delega non affermava nulla di nuovo; per giunta la de-lega si richiamava in generale ai criteri direttivi di cui all'art. 2 l. n. 421/1992. Neppure in tale contesto era dunque contemplato il collocamento a riposo e la rimozione dall'incarico. Né traccia di una simile previsione si riscontra nell'art. 11, comma 1, lett.c, l. n. 59/199, col quale il Governo era stato delegato a riordinare e potenziare i meccanismi e gli strumenti di monito-raggio e di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta dalle ammini-strazioni pubbliche. Sulla base di queste deleghe, si era proceduto ad un ulteriore riassetto del quadro normativo: l'art. 43, comma 1, d.lgs. 30 marzo 1998, n. 80 aveva abrogato l'art. 20, comma 9, d.lgs. n. 29/1993 (l'articolo era stato poi integralmente abrogato dall'art. 10, comma 1, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286), mentre l'art. 7 d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387aveva modificato l'art. 21, commi 1 e 2, d.lgs. n. 29/1993, reintroducendo la previsione del recesso dal rapporto di lavoro nei casi di responsabilità dirigenziale di "maggiore gravità". In tale formulazione le norme erano confluite nel testo unico (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Il Consiglio di Stato già in precedenza aveva sollevato la questione di costituzionalità dell'art. 20, comma 9, d.lgs. n. 29/1993, ma la Corte gli aveva rimesso gli atti chiedendo un nuovo esame di rilevanza della questione a seguito dell'abrogazione della norma impugnata. Il Consiglio di Stato aveva però riproposto la questione, ritenendo che ne perdurasse la rilevanza, in ragione del fatto che la normativa applicabile ratione temporis al caso in esame fosse proprio l'art. 20, comma 9, d.lgs. n. 29/1993 nella versione anteriore alle modifiche del 1998-99. Reinvestita della que-stione, la Corte ha rilevato con la sentenza in commento il vizio di eccesso di delega per la normativa impugnata (sebbene ormai abrogata). Non è mancato un “monito” al legislatore: a questo proposito è molto significativo il passo in cui la Corte esclude la rilevanza della disci-plina sopravvenuta (d.lgs. n. 80/1998) ai fini del giudizio, segnalando però che essa deriva da un "successivo decreto legislativo...emanato sulla base di una successiva legge di delega (an-che se in parte coincidente per contenuto)". Poco dopo la decisione della Corte costituzionale, la questione ha comunque trovato una sua sistemazione pro futuro per effetto dell'art. 3, com-ma 2, l. 15 luglio 2002, n. 145, che - sostituendo l'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 165/2001 - ha e-spressamente previsto che "in relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può, inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione..., ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo". Dopo questo intervento con legge “formale”, è evidente che la normativa vigente non può andare incontro a problemi di costitu-zionalità per eccesso di delega. Ciò nondimeno, la sentenza si rivela molto importante: infatti la Corte ha inteso fissare alcuni principi `sostanziali' in materia di responsabilità dirigenziale . Su questi aspetti pare opportuno soffermarsi nei paragrafi che seguono.

119

nare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di

rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi,

l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio

del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione

dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo

le disposizioni del contratto collettivo”.

La responsabilità dirigenziale consegue, quindi, non tanto ad un inadempimen-

to da parte del dirigente, e quindi al fatto che egli sia venuto meno ad un obbli-

go al quale era tenuto in forza di una specifica disposizione, ma al mancato

raggiungimento degli obbiettivi che gli erano stati assegnati e alle direttive che

gli erano state impartite. Tale responsabilità esprime un’inidoneità alla funzio-

ne di dirigente, che può verificarsi anche se il comportamento del medesimo

non abbia violato specifiche disposizioni. Al contrario, infatti, laddove egli si

renda inadempiente rispetto ad un obbligo che discenda da una previsione di

legge o del contratto, individuale o collettivo, il comportamento sarà rilevante

sul piano disciplinare145.

145 Alla responsabilità dirigenziale si aggiunge la responsabilità disciplinare, che, alcuni hanno considerato autonoma e distinta, altri una specie rispetto alla prima. A questo proposito in dot-trina sono state prospettate almeno tre diverse tesi: una prima volta ad affermare che la respon-sabilità dirigenziale è nettamente diversa e distinta da quella disciplinare;; un’altra, di segno op-posto, secondo la quale la responsabilità dirigenziale sarebbe una sottospecie della responsabi-lità disciplinare; una terza secondo la quale i due tipi di responsabilità possono talvolta coinci-

120

dere, talvolta divergere. In relazione alla varietà di tesi sostenute la Corte di Cassazione, con la sentenza Cass. civ. sez. lav. 20 febbraio 2007, n. 3929, ha ritenuto preferibile quest’ultima tesi, avendo affermato che la responsabilità dirigenziale può prescindere da ogni rilevanza dell’elemento soggettivo per quanto riguarda il mancato raggiungimento degli obiettivi, e quindi configurarsi come una sorta di responsabilità oggettiva del tutto distinta dalla responsa-bilità disciplinare, la quale, invece, presuppone sempre quantomeno la negligenza colpevole del lavoratore. Tuttavia, sostiene la Cassazione, quando il mancato raggiungimento degli obiet-tivi dipende da negligenza o inerzia del dirigente, la responsabilità dirigenziale è tutt’uno con quella disciplinare. Successivamente la Cassazione è tornata sui suoi passi con le recentissime sentenze nn.14628/2010 e 8329/2010 ribadendo la netta distinzione tra responsabilità discipli-nare e responsabilità dirigenziale. Tali conclusioni non hanno trovato accoglimento unanime nella dottrina. Contra ALESSANDRO BOSCATI, Disciplina speciale del rapporto di lavoro del dirigente pubblico e tutela applicabile in caso di illegittimo recesso dell’amministrazione, in ADL, 3, pp. 716 ss, 2007, il quale ha osservato come la responsabilità dirigenziale non possa essere qualificata responsabilità oggettiva perché essa si basa sulla professionalità del dirigente e quindi sulla componente soggettiva; solo nel caso in cui il mancato raggiungimento degli o-biettivi e delle direttive sia da ricollegare ad un fattore estraneo alla disponibilità del dirigente può essere esclusa la responsabilità dirigenziale. Ancora in dottrina, SANDRO MAINARDI, La responsabilità dirigenziale e il ruolo del Comitato dei Garanti, in Il Lav. nelle P.A., 6, pp. 1078-1106, 2002: “Mentre la responsabilità disciplinare presuppone un comportamento illeci-to e colposo del dipendente, il quale viene meno al rispetto di regole giuridiche poste a tutela della propria attività, la responsabilità dirigenziale per risultato prescinde dal comportamento del soggetto per ricollegarsi direttamente “ai risultati complessivi prodotti dall’organizzazione cui il dirigente è preposto”, determinando, “in caso di giudizio negativo, più che una colpa del dirigente, la sua inidoneità alla funzione”. Ancora, sula rapporto intercorrente tra responsabili-tà amministrativa e responsabilità dirigenziale, TOMMASO MIELE, Commento all’art. 21. Re-sponsabilità dirigenziale, in L’impiego pubblico. Commento al d.lgs 30 marzo 2001, n. 165, (mod. con l. 15 luglio 2002, n. 145), Milano, Giuffrè, pp. 428-458, 2003: “Quanto ai rapporti fra responsabilità dirigenziale, o per mancato raggiungimento degli obiettivi, e responsabilità amministrativa del dirigente, si ritiene che il mancato raggiungimento degli obiettivi o dei ri-sultati prefissati dagli organi di governo non può ritenersi, di per sé solo, un evento dannoso di carattere patrimoniale causato dal dirigente, con la conseguenza che esso non assume rilie-vo ai fini della affermazione della responsabilità amministrativa dello stesso dirigente pubbli-co, se non ricorrono gli ulteriori elementi necessari ai fini della configurazione della stessa responsabilità amministrativa, e segnatamente, se non ricorre, nella fattispecie un danno pa-trimoniale per le finanze dell’amministrazione pubblica autonomamente configurabile, conno-tato da quei requisiti di attualità e di certezza elaborati dalla giurisprudenza della Corte dei Conti”. Peraltro, il testo dell’art. 21 del D.Lgs. 165/2001, pur riconoscendo che uno stesso comportamento può astrattamente rilevare sul piano della responsabilità dirigenziale, in quanto riferibile al mancato raggiungimento degli obiettivi o alla inosservanza delle direttive, ma può anche concretizzare una forma di responsabilità disciplinare, afferma in maniera inequivocabile che le due forme di responsabilità sono distinte. Ciò che qualifica la responsabilità dirigenziale è il risultato che il dirigente è riuscito a raggiungere in un certo arco di tempo rispetto agli standard fissati in sede di programmazione ed organizzazione; in definitiva, la responsabilità dirigenziale concerne la valutazione della capacità manageriale e delle competenze organizza-tive del dirigente.

121

Proprio perché connessa ad una inadeguatezza al ruolo e non a specifici ina-

dempimenti, la responsabilità dirigenziale prescinde dalla sussistenza di uno

specifico profilo di colpa, nel senso che il mancato conseguimento degli ob-

biettivi assume di per sé rilevanza esprimendo in sé una negligenza sufficiente

ai fini della sussistenza della responsabilità dirigenziale146.

La responsabilità dirigenziale può essere, dunque, configurata come una re-

sponsabilità di risultato, che attiene specificatamente al contenuto dell’incarico

conferito, agli obiettivi che il dirigente deve conseguire in esito

all’assegnazione del medesimo e alle direttive che egli deve seguire ai fini del

suo raggiungimento.

Il nuovo testo dell’art. 21, D.Lgs. 165/2001 si segnala per l’introduzione, ac-

canto alle previsioni tradizionali (mancato raggiungimento degli obbiettivi e/o

inosservanza delle direttive) e in perfetta coerenza con lo spirito della riforma,

146 In tal senso, il caso di un dirigente medico al quale era stato revocato l’incarico, sulla base di una valutazione negativa per aver costui mostrato carenza di dinamismo ed eccessiva lentez-za, provocando eccessive attese dei pazienti e disagio organizzativo, per aver creato inconve-nienti alla funzionalità del reparto, per non aver partecipato alle riunioni nelle quali venivano impartite direttive operative, per aver avuto un contegno ottimale con il dirigente sovraordinato e il personale infermieristico. Il Giudice ha ritenuto che le giustificazioni del dipendente, volte a dimostrare la insussistenza di una colpa da parte sua, e ad addurre esimenti quali, ad esempio, i ricorrenti periodi di assenza per malattia ai quali il dirigente era stato costretto, non potessero consentire al medesimo l’esonero dalla responsabilità. L’accertamento di tale responsabilità, ha sottolineato il Giudice, “involge soltanto l’efficienza e le capacità direttive di un dipendente”;; la natura non disciplinare di tale responsabilità “prescinde”, “dalla ricostruzione del giudizio negativo in rigorosi termini di colpa a carico del dirigente”. Sulla base di tali argomentazioni, è stato ritenuto legittimo il provvedimento di revoca dell’incarico disposto nei confronti del dirigente medico. (Cfr. Trib. Firenze, 16 dicembre 2002, n. 1499, inedita a quanto costa).

122

di una specifica ipotesi di responsabilità dirigenziale, conseguente al mancato

esercizio di prerogative manageriali che contraddistinguono l’operato del diri-

gente.

Il comma 1 bis dell’art. 21, D.Lgs. 165/2001 infatti prevede: “Al di fuori dei

casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata,

previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le

procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole

violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegna-

to ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'ammini-

strazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commissione di cui

all'articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009,

n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di

efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di ri-

sultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità

della violazione di una quota fino all'ottanta per cento”.

La responsabilità prevista al comma 1-bis implica una negligenza colpevole da

parte del dirigente, mentre quella prevista dal primo comma si può far valere

anche a prescindere da una specifica colpa.

123

Il problema che si pone, in riferimento a tale norma, riguarda il rapporto con la

responsabilità conseguente al mancato raggiungimento degli obiettivi e

all’osservanza delle direttive imputabili al dirigente previsto dal comma 1 del

medesimo articolo. Tale conflitto sembra essere risolto dallo stesso art. 21,

comma 1-bis in termini di reciproca esclusione, in quanto l’applicazione di tale

disposizione è prevista “al di fuori dei casi di cui al comma 1”. Sembra, dun-

que, che il legislatore abbia voluto prevedere che, anche laddove il dirigente

abbia conseguito gli obiettivi e rispettato le direttive, e per questo non gli siano

state applicate le misure previste dal comma 1 dell’art. 21, sia comunque passi-

bile di altra forma di sanzione, ossia della decurtazione della sua retribuzione

di risultato, nell’ipotesi in cui egli non abbia svolto la sua funzione di garante

dell’efficienza e della produttività dei dipendenti preposti al suo ufficio.

2.1.- Il ciclo di gestione della performance: cenni.

124

Al fine di una corretta applicazione delle norme in materia di responsabilità di-

rigenziale, il D.Lgs. n. 150/2009147 ha introdotto significativi elementi di novità

in tema di meccanismi di misurazione e di valutazione della performance, rite-

nendo che uno dei motivi di scarsa effettività del sistema di responsabilità diri-

genziale si annidasse a monte dell’intero procedimento e consistesse nel fatto

che gli obbiettivi assegnati con l’incarico fossero alquanto generici.

147 In attuazione dell’art. 4, comma 2, Legge delega 15/2009: “2. Nell’esercizio della delega nella materia di cui al presente articolo il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri diret-tivi: a) individuare sistemi di valutazione delle amministrazioni pubbliche diretti a rilevare, an-che mediante ricognizione e utilizzo delle fonti informative anche interattive esistenti in mate-ria, nonchè con il coinvolgimento degli utenti, la corrispondenza dei servizi e dei prodotti resi ad oggettivi standard di qualità, rilevati anche a livello internazionale; b) prevedere l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di predisporre, in via preventiva, gli obiettivi che l’amministrazione si pone per ciascun anno e di rilevare, in via consuntiva, quanta parte degli obiettivi dell’anno precedente è stata effettivamente conseguita, assicurandone la pubblicità per i cittadini, anche al fine di realizzare un sistema di indicatori di produttività e di misuratori del-la qualità del rendimento del personale, correlato al rendimento individuale ed al risultato con-seguito dalla struttura; c) prevedere l’organizzazione di confronti pubblici annuali sul funzio-namento e sugli obiettivi di miglioramento di ciascuna amministrazione, con la partecipazione di associazioni di consumatori e utenti, organizzazioni sindacali, studiosi e organi di informa-zione, e la diffusione dei relativi contenuti mediante adeguate forme di pubblicità, anche in modalità telematica; d) promuovere la confrontabilità tra le prestazioni omogenee delle pubbli-che amministrazioni anche al fine di consentire la comparazione delle attività e dell’andamento gestionale nelle diverse sedi territoriali ove si esercita la pubblica funzione, stabilendo annual-mente a tal fine indicatori di andamento gestionale, comuni alle diverse amministrazioni pub-bliche o stabiliti per gruppi omogenei di esse, da adottare all’interno degli strumenti di pro-grammazione, gestione e controllo e negli strumenti di valutazione dei risultati; e) riordinare gli organismi che svolgono funzioni di controllo e valutazione del personale delle amministra-zioni pubbliche secondo i seguenti criteri: 1) estensione della valutazione a tutto il personale dipendente; 2) estensione della valutazione anche ai comportamenti organizzativi dei dirigenti; 3) definizione di requisiti di elevata professionalità ed esperienza dei componenti degli organi-smi di valutazione; 4) assicurazione della piena indipendenza e autonomia del processo di valu-tazione, nel rispetto delle metodologie e degli standard definiti dall’organismo di cui alla lette-ra f); 5) assicurazione della piena autonomia della valutazione, svolta dal dirigente nell’esercizio delle proprie funzioni e responsabilità”.

125

Per tale ragione è stato previsto un ciclo di gestione della performance148 arti-

colato su varie fasi, comprendenti la definizione e l’assegnazione degli obietti-

vi, dei valori attesi di risultato e dei rispetti indicatori, il collegamento tra gli

obiettivi e l’allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso di esercizio e

l’attivazione di eventuali interventi correttivi, la misurazione e la valutazione

della performance, organizzativa ed individuale, l’utilizzo di sistemi premianti,

la rendicontazione dei risultati agli organi di indirizzo amministrativo, ai vertici

delle amministrazioni, nonché ai competenti organi esterni, ai cittadini, ai sog-

getti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi. E’ previsto, inoltre, che il

piano della perfomance, redatto su base triennale, contenente l’individuazione

degli indirizzi e degli obiettivi strategici e la definizione, rispetto agli obiettivi

finali e intermedi delle risorse, degli indicatori per la misurazione e la valuta-

zione della performance dell’amministrazione nonché degli obiettivi assegnati

al personale dirigenziale ed i relativi indicatori, sia redatto entro il 31 gennaio

di ogni anno. Entro il 30 giungo dovrà essere predisposta la relazione sulla per-

fomance che attesti, in relazione all’anno precedente, i risultati organizzativi e

individuali rispetto ai singoli obiettivi programmati e alle risorse, con rileva-

zione degli eventuali scostamenti e il bilancio di genere realizzato.

148 “Performance” è la parola che, con le sue 98 volte, è la più utilizzata nel D.Lgs. 150/2009.

126

All’individuazione di una tempistica precisa nell’individuazione e

nell’assegnazione degli obiettivi nonché della verifica del grado del loro con-

seguimento, si aggiunge una esplicita previsione che indica le necessarie carat-

teristiche dei medesimi: tra queste, si precisa che gli obiettivi devono essere

“specifici e misurabili in termini concreti e chiari” e che devono essere “riferi-

bili ad un arco temporale determinato, di norma corrispondente ad un anno”.

2.2.- Il comitato dei Garanti.

La riforma “Brunetta” è intervenuta a modificare la disciplina prevista per il

Comitato dei Garanti, la cui funzione, almeno astrattamente, è quella di evitare

che l’istituto della responsabilità dirigenziale possa essere utilizzato per eserci-

tare un’illegittima influenza sull’autonomia del dirigente.

Prima della riforma del 2009 il Comitato dei Garanti si configurava come or-

gano ausiliario dell’amministrazione e i cui componenti erano caratterizzati da

specifica capacità professionale e da una tendenziale terzietà rispetto all’organo

politico.

127

L’autonomia e il funzionamento del Comitato era tuttavia messa in discussione

dai meccanismi di nomina dei suoi componenti, di esclusiva estrazione gover-

nativa, e dalla possibilità di prescindere dal parere qualora emesso oltre il ter-

mine (peraltro molto breve) previsto. L’art. 42, D.Lgs. 150/2009 ha riscritto

l’art. 22 del D.Lgs. n. 165/2001149, disciplinando nuovamente il Comitato dei

Garanti, modificandone la composizione e attribuendogli nuove competenze.

Il nuovo testo dell’art. 22, D.Lgs. 165/2001 prevede, infatti, che il Comitato sia

composto da un consigliere della Corte dei Conti, designato dal suo Presidente,

un componente designato dal Presidente della Commissione per la valutazione,

un altro designato dal Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione

scelto tra esperti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori

149 Il nuovo testo dell’art. 22 è così formulato: “1. I provvedimenti di cui all'articolo 21, commi 1 e 1-bis, sono adottati sentito il Comitato dei garanti, i cui componenti, nel rispetto del princi-pio di genere, sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Comitato dura in carica tre anni e l'incarico non è rinnovabile. 2. Il Comitato dei garanti è composto da un consigliere della Corte dei conti, designato dal suo Presidente, e da quattro componenti de-signati rispettivamente, uno dal Presidente della Commissione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, uno dal Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, scelto tra un esperto scelto tra soggetti con specifica qualificazione ed esperienza nei settori dell'organizzazione ammini-strativa e del lavoro pubblico, e due scelti tra dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui al-meno uno appartenente agli Organismi indipendenti di valutazione, estratti a sorte fra coloro che hanno presentato la propria candidatura. I componenti sono collocati fuori ruolo e il posto corrispondente nella dotazione organica dell'amministrazione di appartenenza è reso indisponi-bile per tutta la durata del mandato. Per la partecipazione al Comitato non è prevista la corre-sponsione di emolumenti o rimborsi spese. 3. Il parere del Comitato dei garanti viene reso en-tro il termine di quarantacinque giorni dalla richiesta; decorso inutilmente tale termine si pre-scinde dal parere”.

128

dell’organizzazione amministrativa e del lavoro pubblico; gli ultimi due estratti

a sorte fra i dirigenti degli uffici dirigenziali che hanno presentato la propria

candidatura e che debba essere necessariamente sentito prima dell’adozione dei

provvedimenti di revoca e di mancata conferma nell’incarico, nonché nelle ipo-

tesi di decurtazione dell’indennità di risultato a seguito della mancata vigilanza

sulla attività del personale.

Il legislatore del 2009, furbescamente, con l’intento di dare un colpo al cerchio

e uno alla botte, ha modificato la composizione dell’organo così da “spoliticiz-

zarlo” rendendo l’illusione di un controllo esterno e terzo sulle determinazioni

in merito agli incarichi dirigenziali, ma ne ha poi degradato il parere a semplice

visto, peraltro non obbligatorio. Rispetto alla precedente formulazione, infatti,

in base alla quale le misure sanzionatorie dovevano essere adottate “previo pa-

rere conforme del Comitato dei Garanti”, l’art. 22, D.Lgs. 165/2001 oggi reci-

ta: “I provvedimenti di cui all’art. 21, commi 1 e 1-bis sono adottati sentito il

Comitato dei Garanti”, facendo scomparire la formalizzazione del procedimen-

to attraverso l’ “eliminazione fisica” del “parere”.

129

3.- L’inapplicabilità dell’art. 2103, C.C. agli incarichi dirigenzia-

li: un demansionamento legalizzato.

La giurisprudenza di legittimità150, in relazione alla fine del rapporto dirigen-

ziale, aveva avuto modo di precisare le differenze tra la dirigenza privata e

quella pubblica privatizzata: “mentre nel rapporto dirigenziale privato vale il

principio della recedibilità ad nutum, a norma dell’art. 2118 cod. civ. (e salva

la disciplina risarcitoria in caso di recesso ingiustificato), nel pubblico impie-

go il mancato raggiungimento degli obiettivi non comporta la possibilità di ri-

soluzione ad nutum del rapporto con il dirigente, ma tre sbocchi graduati a se-

conda della gravità del caso, tutti causali: l’impossibilità di rinnovo

dell’incarico, la revoca dello stesso, il recesso dal rapporto di lavoro (D.Lgs.

30 marzo 2001, n. 165, art. 21, comma 5, ora comma 1, come sostituito dalla

L. 15 luglio 2002, n. 145, art. 2)”.

Nel caso di impossibilità di rinnovo dell’incarico e di revoca dello stesso non

viene mai in discussione il rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazio-

ne;; nell’ipotesi più grave di recesso, invece, si configura un vero e proprio li-

cenziamento, in ragione del quale il dirigente perde l’incarico e lo “status”.

150 Cass., sez. lav., 1 febbraio 2007, n. 2233.

130

Ed è proprio sulla disciplina del mancato rinnovo, della revoca e del recesso

che si innesta il problema della tutela della professionalità del dirigente pubbli-

co.

Al di là delle problematiche patologiche che scaturiscono dalla disciplina legi-

slativa, due sono i dati costanti e intoccabili che, come fiumi sotterranei, hanno

sempre modellato la “terra di mezzo” della disciplina del dirigente pubblico

privatizzato.

In primo luogo, la negazione ferma e costante ad opera della giurisprudenza

che spetti al dirigente pubblico privatizzato il diritto a vedersi riassegnato

l’incarico già espletato151.

151 Ex multis, Cass. civ. Sez. lavoro, 02/03/2009, n. 5025, rigetta App. Trento, 23/05/2005: “In tema di dirigenza medica, non è configurabile un diritto soggettivo a conservare un determinato incarico dirigenziale, risolvendosi il controllo giudiziale circa il mancato rinnovo dell'incarico in un'indagine sul rispetto delle garanzie procedimentali previste, nonché sull'osservanza delle regole di correttezza e buona fede. (Nella specie, relativa al mancato rinnovo dell'incarico di dirigente dell'unità operatoria di anestesia e rianimazione, la S.C., nell'enunciare il principio anzidetto, ha confermato la decisione della Corte territoriale, che aveva escluso l'ammissibilità della domanda di riesame della procedura valutativa, di per sé indenne da vizi procedurali, in quanto rimessa alla discrezionalità dell'ente)”;; Cass. civ. Sez. lavoro, 22/12/2004, n. 23760: “Il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso da ultimo nell'art. 109 del D. Lgs. n. 267 del 2000) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale (ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e ante-riormente alla cosiddetta "privatizzazione"). Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò - anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 D. Lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le amministrazioni statali - di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica”;; Rigetta, App. Napoli, 21 Agosto 2004 Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 23/02/2007, n. 4275: “Il personale iscritto nel ruo-

131

Anche a seguito dell’eliminazione del principio di rotazione degli incarichi,

che ha determinato il passaggio dalla “temporaneità” alla “precarizzazione”

degli incarichi, rimane un dato immanente alla intera regolamentazione della

lo unico della dirigenza delle amministrazioni statali risulta, bensì, in possesso dell'idoneità professionale a svolgere le mansioni corrispondenti, ma acquista la qualifica dirigenziale sol-tanto mediante il contratto individuale di lavoro - per la stessa qualifica - con l'amministrazio-ne, mentre l'ordinamento non riconosce alcun diritto alla stipulazione del contratto di lavoro (e non è, perciò, ammissibile una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.), né in esito all'espletamen-to di procedure concorsuali, né per effetto del conferimento, con atto unilaterale e non recetti-zio, dell'incarico dirigenziale, né come conseguenza di ogni altro atto preliminare che, pari-menti, preceda la stipulazione del contratto (nella specie, la suprema corte ha negato il diritto del lavoratore ad ottenere, dopo che era cessata la sua sospensione cautelare dal servizio, la sti-pula di un contratto di lavoro per un incarico dirigenziale corrispondente a quello precedente-mente ricoperto)” e ancora “In tema di impiego pubblico privatizzato, il personale iscritto nel ruolo unico della dirigenza delle amministrazioni statali acquista la qualifica dirigenziale sol-tanto mediante contratto individuale di lavoro con l'amministrazione, senza che costituisca tito-lo per l'insorgenza del diritto e del corrispondente obbligo né l'esito di procedure concorsuali né l'atto, unilaterale e non recettizio, di conferimento dell'incarico dirigenziale, ovvero ogni al-tro atto preliminare che preceda la stipulazione del contratto. Ne consegue che per il dipenden-te pubblico l'inserimento - a seguito di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio perché assoggettato a misura restrittiva della libertà personale - nel ruolo unico della dirigenza delle amministrazioni statali ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, come sostituito dall'art. 15 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 40, non costituisce titolo per l'insorgenza del diritto alla stipulazione con l'amministrazione pubblica del contratto dal quale dipende - in via esclusiva - l'acquisizione della qualifica dirigenziale. Né il contratto può essere surrogato dalla sentenza costitutiva di cui all'art. 2932 cod. civ. che ne produca gli effetti, atteso che il giudice non può, sostituendosi alla stessa fonte, determinare i contenuti essenziali del contratto non concluso. (Nella specie la S.C. ha confermato, correggendone la motivazione, la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di un Soprintendente per i beni ambientali volta ad ottenere, una volta cessate la restrizione della libertà personale e la sospensione dal servizio, il conferimento dello stesso incarico in altra sede)”;; Rigetta, App. Genova, 31 Marzo 2004, Cass. civ. Sez. la-voro, 12/02/2007, n. 3003: “A seguito della privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipen-denze delle pubbliche amministrazioni, il personale iscritto nel ruolo unico della dirigenza del-le amministrazioni statali risulta in possesso dell'idoneità professionale a svolgere le mansioni corrispondenti, ma acquista la qualifica dirigenziale solamente con la stipula di apposito con-tratto individuale di lavoro con l'amministrazione, senza che l'iscrizione nel ruolo costituisca titolo per l'insorgenza del diritto alla stipulazione del contratto in questione”. Conformi anche Cass. civ. Sez. lavoro, 15/02/2010, n. 3451; Cass. civ. Sez. lavoro, 02/03/2009, n. 5025; Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 19/12/2008, n. 29817; Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 26/11/2008, n. 28276; Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 22/08/2007, n. 17888; Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 22/06/2007, n. 14624; Cass. civ. Sez. lavoro, 23/02/2007, n. 4275; Cass. civ. Sez. lavoro, 25/09/2006, n. 20801, Cass. civ. Sez. lavoro, 10/10/2005, n. 19677.

132

disciplina della dirigenza la facoltà, per l’ente, di evitare la cristallizzazione del

personale dirigenziale in un determinato incarico.

E poi, la previsione dell’art. 19, comma 1, D.Lgs. 165/2001, che sancisce

l’inapplicabilità dell’art. 2103, c.c. agli incarichi dirigenziali: “Al conferimento

degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'articolo

2103 del codice civile”. Mentre, infatti, per il personale non dirigenziale lo ius

variandi del datore di lavoro può essere esercitato nel rispetto dell’equivalenza

delle mansioni, nel caso degli incarichi dirigenziali tale principio non è operan-

te.

La giurisprudenza152 ha ormai delineato con precisione l'inapplicabilità delle

garanzie del lavoro privato nei confronti del mutamento delle mansioni che

152 Cassazione civile sez. lav., 15 febbraio 2010, n. 3451: “Il sistema normativo del lavoro pub-blico dirigenziale negli enti locali (trasfuso da ultimo nell'art. 109 d.lg. n. 267 del 2000), nell'e-scludere la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare in ogni caso determinate tipolo-gie di incarico dirigenziale (ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e anteriormente alla cosiddetta "priva-tizzazione"), conferma peraltro il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica di-rigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e non consente perciò - anche in difetto dell'espressa previsione di cui all'art. 19 d.lg. n. 165 del 2001 stabilita per le amministrazioni statali - di ritenere applicabile l'art. 2103 c.c., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della diri-genza tecnica, la quale va tuttavia interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comun-que svolgere mansioni tecniche”;; Cassazione civile, sez. lav., 2 marzo 2009 n. 5025: “In tema di dirigenza medica, non è configurabile un diritto soggettivo a conservare un determinato in-carico dirigenziale, risolvendosi il controllo giudiziale circa il mancato rinnovo dell'incarico in un'indagine sul rispetto delle garanzie procedimentali previste, nonché sull'osservanza delle regole di correttezza e buona fede. (Nella specie, relativa al mancato rinnovo dell'incarico di dirigente dell'unità operatoria di anestesia e rianimazione, la S.C., nell'enunciare il principio

133

anzidetto, ha confermato la decisione della Corte territoriale, che aveva escluso l'ammissibilità della domanda di riesame della procedura valutativa, di per sé indenne da vizi procedurali, in quanto rimessa alla discrezionalità dell'ente)”;; Cassazione civile sez. lav., 19 dicembre 2008, n. 29817 (Cassa App. Torino 3 agosto 2004 e decide nel merito): “Agli incarichi dirigenziali con-feriti ai dirigenti del servizio sanitario anche in epoca antecedente all'entrata in vigore delle modifiche introdotte dal d.lg. n. 80 del 1998 all'art. 19 d.lg. n. 29 del 1993, non è applicabile l'art. 2103 c.c., avendo la legge previsto il principio di rotazione che costituisce fondamento dell'assegnazione delle mansioni dirigenziali, in quanto l'incarico identifica la funzione diri-genziale e, quindi, le attività concrete assegnate al dirigente che fondano l'immedesimazione organica con l'amministrazione. Nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico privatizzato, la re-gola della rotazione degli incarichi dirigenziali - con il quale il legislatore ha inteso perseguire, nel preminente interesse generale al raggiungimento degli obiettivi fissati all'organizzazione dei pubblici uffici dall'art. 97 cost., il fine di evitare la cristallizzazione degli incarichi anzidetti e, nel contempo, di arricchire le doti culturali e professionali dei dirigenti interessati mediante lo scambio di esperienze e attività - è incompatibile con il sistema caratterizzato dal principio, ex art. 2103 c.c., di equivalenza delle mansioni, proprio del lavoro subordinato privato”;; Cas-sazione civile sez. lav., 26 novembre 2008, n. 28276: “In tema di reggenza, allorché il dirigente dell'ufficio sia provvisoriamente sostituito da personale in possesso, a sua volta, di qualifica dirigenziale, non sorge il diritto alla tutela prevista dall'art. 2103 c.c. - espressamente esclusa dagli articoli 16 e 19 del d.lg. n. 165 del 2001 - venendo comunque in rilievo lo svolgimento di mansioni riconducibili alla qualifica ricoperta, né può fondarsi, dall'eventuale omissione della stipulazione del contratto di diritto privato per l'assunzione della dirigenza , la pretesa a perce-pire ulteriori compensi, la cui esistenza è ricollegabile solo all'avvenuta stipula dell'atto. (Nella specie, relativa alla sostituzione del Direttore dell'Agenzia regionale per l'impiego da parte di un altro dirigente dell'ufficio, durata, quasi senza soluzioni di continuità, dal 1991 al 1999, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha comunque escluso lo svolgimento di mansioni superiori non potendosi qualificare l'Agenzia regionale per l'impiego quale ufficio dirigenziale generale)”;; Cass. 22 febbraio 2006 n. 3880: “Con la istituzione del ruolo unico dei dirigenti - previsto dall'art. 15 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, che ha sostituito l'art. 23 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, e le cui modalità di costituzione e tenuta sono disciplinate dal d.P.R. 26 febbraio 1999 n. 150 - il legislatore ha riconosciuto al datore di lavoro pubblico ampia potestà discrezionale sia nel rite-nere di non avvalersi di un determinato dipendente mettendolo così a disposizione del ruolo unico, sia nella scelta dei soggetti ai quali conferire incarichi dirigenziali; rispetto a tale potestà discrezionale la posizione soggettiva del dirigente aspirante all'incarico non può atteggiarsi come diritto soggettivo pieno, bensì come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei "diritti" di cui all'art. 2907 c.c. La tutela di tale posizione giuridica soggettiva, affidata al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, non è dissimile da quella già riconosciuta al partecipante ad una procedura di sele-zione concorsuale adottata dal datore di lavoro privato ed è estesa a tutte le garanzie procedi-mentali di selezione previste dalla legge e dai contratti collettivi”, Cass. 6 aprile 2005 n. 7131: “Nelle amministrazioni dello Stato, dopo che il d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 ha prodotto la cessa-zione automatica degli incarichi dirigenziali a tempo indeterminato e introdotto il principio di temporaneità dei nuovi incarichi; il dirigente non ha alcun diritto soggettivo all'assegnazione di un incarico di funzione dirigenziale, essendo in facoltà dell'amministrazione di confermare il dirigente nel precedente incarico o di attribuirgli un diverso incarico, o di porlo a disposizione del ruolo unico costituito presso la presidenza del consiglio dei ministri”;; Cass. 20 marzo 2004 n. 5659: “Nelle amministrazioni dello Stato, dopo che il d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 ha prodotto

134

possa comportare dequalificazione professionale del dirigente. Tale previsione

è considerata immanente al nuovo assetto della dirigenza pubblica contrattua-

lizzata, nel quale la qualifica dirigenziale non esprime più una posizione lavo-

rativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di

determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del dipen-

dente, che tale qualifica ha acquisito mediante il contratto di lavoro stipulato

all'esito della prevista procedura concorsuale, a svolgerle concretamente per ef-

fetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale. Dalla scissione

tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento dell'incari-

co si fa discendere l'insussistenza di un diritto soggettivo del dirigente pubblico

al conferimento di un incarico dirigenziale, determinando quello che nel settore

privato sarebbe considerato un vero e proprio demansionamento, “per giunta

la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali a tempo indeterminato e introdotto il prin-cipio di temporaneità dei nuovi incarichi; il dirigente non ha alcun diritto soggettivo all'asse-gnazione di un incarico di funzione dirigenziale, essendo in facoltà dell'amministrazione di confermare il dirigente nel precedente incarico o di attribuirgli un diverso incarico, o di porlo a disposizione del ruolo unico costituito presso la presidenza del consiglio dei ministri”;; Cass. 22 dicembre 2004 n. 23760: “Il sistema normativo del lavoro dirigenziale negli enti locali esclude la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare determinate tipologie di incarico diri-genziale (ancorché assunte a seguito di concorso ed anteriormente alla c.d. "privatizzazione") e non consente - anche in difetto dell'espressa previsione di cui all'art. 19 d.lg. n. 165, cit., stabi-lita per le amministrazioni statali, e del previsto adeguamento dell'ordinamento ai principi della dirigenza statale - di ritenere applicabile l'art. 2103 c.c., risultando la regola del rispetto delle specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico loca-le, con la sola eccezione della dirigenza tecnica”.

135

punitivo, senza che a ciò siano di ostacolo i fondamentali principi di tutela del-

la professionalità e di irriducibilità della retribuzione propri di quelli che pure

dovrebbe essere il diritto “comune” del lavoro: principi applicabili senza ri-

serve ai dirigenti privati (pur privi di garanzie legali di stabilità del rapporto,

e dunque certamente licenziabili per inefficienza della gestione), che vengono

invece espressamente accantonati nei confronti dei dirigenti pubblici, con una

doppia deroga espressa all’art. 2103 cod. civ., che riguarda sia il profilo nega-

tivo della tutela della professionalità, e cioè il divieto di adibizionea funzioni

inferiori, sia il profilo positivo inerente alla corrispondenza tra funzioni ed in-

quadramento ”153.

Tale consolidato indirizzo ha trovato alcuni temperamenti sulla base del rico-

noscimento giurisprudenziale che la mancata attribuzione di compiti lavorativi

al dirigente integri comunque un demansionamento professionale154, che ca-

153 Cfr. A. PILEGGI, Efficienza cit., p. 90. 154 La Cassazione, inoltre, tornando sul punto, ha specificato che il risarcimento del danno può essere riconosciuto solo a seguito di un’ allegazione, a carico del lavoratore che voglia accede-re alla tutela risarcitoria, che “ad esempio deduca l'esercizio di un'attività soggetta a continua evoluzione e caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venir meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo, o provi in concreto le aspettative conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto. Il danno da dequalificazione, proprio perché può assumere diversa natura, richiede che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi in concreto scaturiti, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, ed tal fine possono, ad esempio, essere valutati quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalifica-

136

giona al dirigente un danno alla professionalità, da determinarsi anche in via

equitativa, secondo i criteri utilizzati dalla giurisprudenza nel lavoro privato155.

Tuttavia la massima tutela riconosciuta, in linea con la tradizione, non è la ga-

ranzia dell’incarico al dirigente, ma un mero risarcimento del danno che, a

fronte di un’eventuale messa in mobilità e di una conseguente perdita di pro-

fessionalità, non può certo costituire una misura adeguata a tutela del lavoro.

In tendenza opposta, ma ancora minoritaria, probabilmente isolata, è il princi-

pio affermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 24738/2008156, che ha ri-

conosciuto il demansionamento come un fatto duraturo e foriero di perdita di

professionalità, che non può configurarsi ove la sottoutilizzazione professiona-

le abbia carattere meramente temporaneo e provvisorio e sia conseguente

all'immediato avvio di una struttura, purché seguita dalla pronta assegnazione zione”: Cass. 26 febbraio 2009 n. 4652; Cass. 19 dicembre 2008 n. 29832; Cass., sez. un., 24 marzo 2006 n. 6572; Cass. 26 giugno 2006 n. 14729. 155 Cass. 26 novembre 2008 n. 28274. 156 In materia di pubblico impiego privatizzato, la sottoutilizzazione professionale di un diri-gente a seguito di trasferimento ad un ente di nuova istituzione - nella specie, Agenzia regiona-le per l'ambiente - non integra i presupposti del demansionamento, quale fatto duraturo e forie-ro di perdita di professionalità, ove l'attività lavorativa svolta abbia carattere meramente tempo-raneo e provvisorio e sia conseguente all'immediato avvio della nuova struttura operativa, sem-preché sia seguita dalla pronta assegnazione di mansioni equivalenti a quelle di provenienza rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed al patrimonio profes-sionale acquisito dal dipendente (nella fattispecie, la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità risarcitoria sul rilievo che il demansionamento e la priva-zione delle funzioni erano diretta conseguenza delle difficoltà operative collegate alla fase d'avvio della nuova struttura, avevano riguardato la generalità dei dipendenti di fascia dirigen-ziale, ed erano state di breve durata, essendo seguite dall'attribuzione di nuove mansioni di ca-rattere dirigenziale del massimo livello riconosciuto presso il nuovo ente).

137

di mansioni equivalenti a quelle di provenienza rispetto alla competenza richie-

sta, al livello professionale raggiunto ed al patrimonio professionale acquisito

dal dipendente.

Di conseguenza, non soltanto il dirigente non ha diritto a vedersi riassegnare

l’incarico già espletato, ma neppure ha diritto ad ottenere un incarico ad esso

equivalente.

L’esigenza di tutelare l’interesse del dirigente al conferimento di un incarico di

medesimo livello a quello espletato, ignorata dal legislatore, è stata ascoltata

dalla contrattazione collettiva, trovando riconoscimento nell’art. 13, comma 4

del CCNL della dirigenza dei Ministeri per il quadriennio 1998/2001157, il qua-

le disponeva che, in assenza di una valutazione negativa, qualora

l’amministrazione non avesse inteso confermare il medesimo nell’incarico già

ricoperto avrebbe dovuto assicurare al medesimo un incarico “almeno equiva- 157 L’art. 13, CCNL per il Quadriennio 1998 - 2001 ed il primo Biennio economico 1998 – 1999 del Personale Dirigente dell'Area I che al primo comma sanciva, quasi come un coman-damento “tutti i dirigenti hanno diritto ad un incarico”, al successivo comma 4 stabiliva: “1. Le singole amministrazioni effettueranno con le procedure di cui all'art. 35, entro tre mesi dalla scadenza naturale del contratto individuale, una valutazione complessiva dell'incarico svolto; qualora non intendano confermare lo stesso incarico precedentemente ricoperto e non vi sia una espressa valutazione negativa ai sensi del citato art. 35, sono tenute ad assicurare al diri-gente un incarico almeno equivalente. 2. Per incarico equivalente si intende l'incarico cui corri-sponde una retribuzione di posizione complessiva di pari fascia ovvero una retribuzione di po-sizione il cui importo non sia inferiore del 10% rispetto a quello precedentemente percepito. Nelle ipotesi di ristrutturazione e riorganizzazione che comportano la modifica o la soppressio-ne delle competenze affidate all'ufficio o una loro diversa valutazione, si provvede ad una nuo-va stipulazione dell'atto di incarico, assicurando al dirigente l'attribuzione di un incarico equi-valente”.

138

lente”, intendendosi per tale l’incarico cui corrispondeva una retribuzione

complessiva di pari fascia ovvero una retribuzione di posizione il cui importo

non fosse inferiore al 10 per cento rispetto a quello precedentemente percepito.

Al di là delle critiche che possono essere mosse alla scelta del criterio di equi-

valenza valutato su base retributiva, la L. 145/2002 ha disposto l’introduzione

del comma 12 bis dell’art. 19, D.Lgs. 165/2001, il quale, proprio in ragione

della disciplina derogatoria introdotta con il contratto collettivo ed al fine di

bypissarla, sancisce la non derogabilità da parte della contrattazione collettiva

delle disposizioni in materia di incarichi dirigenziali. Di conseguenza le citate

norme della contrattazione collettiva, essendo stata stipulate in deroga al prin-

cipio di legge, sono state espunte dal successivo CCNL.

4.- L’impossibilità di rinnovo e la revoca dell’incarico: le san-

zioni “espulsive” del rapporto di servizio e “conservative” del rapporto

di lavoro.

139

Ai sensi dell’art. 21, D.Lgs. 165/2001, le sanzioni che determinano il caduca-

mento dall’incarico e al contempo la conservazione del rapporto di lavoro sono

l’impossibilità di rinnovo dell’incarico a seguito del mancato raggiungimento

degli obiettivi da parte del dirigente all’esito delle risultanze del sistema di va-

lutazione e la revoca dal’incarico con il collocamento del dirigente a disposi-

zione nei ruoli a fronte del mancato raggiungimento degli obiettivi o di una i-

nosservanza delle direttive imputabili al dirigente connotati da una rilevante

gravità. In relazione a quest’ultima ipotesi, stante la genericità del disposto

normativo, l’opinione dominante è che alla revoca dall’incarico dirigenziale

segua una sostanziale inutilizzazione del dirigente, alimentando i dubbi di chi

valuta difficilmente giustificabile rispetto ai principi costituzionali di buon an-

damento ed economicità la permanenza nell'amministrazione di dirigenti retri-

buiti, ma concretamente inerti in quanto privi di incarico e, a causa della loro

inutilizzazione, demotivati e frustrati dalla mancanza di una prestazione lavora-

tiva da svolgere e dalla perdita del bagaglio professionale acquisito.

Alla disciplina legislativa si aggiunge quella della contrattazione collettiva: i

CCNL 2006-2009, che hanno fissato il limite massimo del collocamento a di-

sposizione in due anni, prevedono che, durante tale periodo, in cui il dirigente

ha diritto al solo trattamento economico stipendiale, è tenuto ad accettare even-

140

tuali incarichi dirigenziali (anche se non equivalenti al precedente) proposti

dall’Amministrazione di appartenenza e che l’ingiustificata mancata accetta-

zione dell’incarico comporta il recesso dal rapporto di lavoro. I contratti inoltre

dispongono che, prima della scadenza del periodo massimo di due anni del col-

locamento a disposizione, possa trovare applicazione la disciplina della risolu-

zione consensuale secondo le disposizioni dei previgenti CCNL.

4.1.- La tutela giurisdizionale tra diritto alla rassegnazione

dell’incarico e risarcimento del danno.

Il dirigente pubblico non può essere arbitrariamente rimosso dal suo incari-

co158. A tutela della sua indipendenza è stato infatti previsto un sistema di valu-

158 L’accesso alla qualifica dirigenziale avviene, per la seconda fascia, mediante due procedure diverse: concorso o corso-concorso; per la prima fascia attraverso un concorso pubblico, per titoli ed esami relativamente alla copertura della metà dei posti che si rendono annualmente di-sponibili a seguito delle cessazioni dal servizio, per la copertura di singoli posti dirigenziali di prima fascia che richiedano specifica esperienza e peculiare professionalità, si potrà provvedere tramite un apposito concorso pubblico destinato a soggetti in possesso dei predetti requisiti e delle attitudini manageriali corrispondenti ai posti di funzione da coprire, i quali stipuleranno un contratto a tempo determinato di durata non superiore a 3 anni. Gli incarichi dirigenziali si classificano in tre categorie: incarichi di vertice, cioè quelli di Se-gretario generale, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali e altri equivalenti. Tali incarichi sono conferiti a dirigenti di prima fascia o a persone in possesso del-

141

tazione del suo operato, all’esito del quale si fa discendere la conferma o meno

nell’incarico svolto.

Tuttavia il sistema, che comunque presenta delle criticità, può dare luogo ad

aspetti patologici che non possono lasciare il dirigente pubblico sfornito di tu-

tele.

Il legislatore, anche quello del 2009, ha sempre ignorato il problema, nulla di-

sponendo circa le conseguenze dell’illegittimità dell’atto di revoca della Pub-

blica Amministrazione. E la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimi-

tà, da anni dibatte sull’opportunità di garantire il solo risarcimento del danno o

di disporre in via giudiziale (anche) la riassegnazione nell’incarico.

le specifiche qualità professionali richieste dal comma 6, dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri su pro-posta del ministro competente. Trattasi di incarichi di carattere prevalentemente fiduciario che implicano compiti di collaborazione con il Ministro e cessano comunque di diritto decorsi no-vanta giorni dal voto sulla fiducia al nuovo Governo; incarichi di uffici dirigenziali generali, che concernono la direzione di strutture ministeriali della dimensione di direzione generale o strutture equiparate. Essi sono conferiti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente a dirigenti iscritti nella prima fascia di ruolo di cui all’art. 23 del D.Lgs. 165/2001, o in misura non superiore al settanta per cento della relativa dotazione, agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato ed esperti particolarmente qualificati (art. 19, co. 4, 5-bis, del D.Lgs. 165/2001); incarichi di fun-zioni dirigenziali non generali, i quali consistono in incarichi di direzione di strutture minori, quali divisioni o sezioni, ovvero di uffici periferici. Essi sono conferiti dal dirigente dell’ufficio dirigenziale generale ai dirigenti della seconda fascia assegnati al suo ufficio dagli organi di governo, possono essere conferiti anche a dirigenti di amministrazioni non statali, compresi gli organi costituzionali, nel limite del cinque per cento della dotazione organica dei dirigenti di seconda fascia e ad esperti particolarmente qualificati, esterni o anche interni a ciascuna ammi-nistrazione, entro il limite dell’otto per cento della medesima dotazione (art. 19, co. 5, 5-bis, e 6 del D.Lgs. 165/2001).

142

Nel caso in cui il giudice ordinario riconosca l'invalidità della revoca, potrà di-

chiararne la nullità. Occorre però interrogarsi se da una simile pronuncia di-

scenda anche il diritto del dirigente alla reintegrazione nelle funzioni dirigen-

ziali svolte sulla base dell'originario provvedimento di conferimento dell'inca-

rico

I giudici di merito continuano ad oscillare tra posizioni discordanti, dichiaran-

do, alcuni il diritto al solo risarcimento del danno159, altri la riassegnazione

nell’incarico precedentemente svolto160.

159 Trib. Roma, 23 gennaio 2003, in GC, I, 2278, 2003, Trib. Firenze 15 gennaio 2004, in Lav. Pubbl. Amm., p. 194, 2004; Trib Firenze 6 dicembre 2002, in Riv. Crit. Dir. Lav., 759, 2003, Trib. Avezzano, 31 gennaio 2006, in Lav. giur. 9, 898, 2006, nota di Filì. 160 Tra le ultime Trib. Verona 14 novembre 2007, in Banca Dati Utet Giuridica, 2007; Cass. 1 febbraio 2007, n. 2233, in Arg. Dir. Lav., 2007, 3, 686, con nota di Boscati; in Foro It., 2007, 6, 1, 1719 nota di D’Auria;; in questa Lav. giur., 2007, 889, con nota di Menghini, il quale ha sottolineato come i giudici abbiano riconosciuto la reintegra del dirigente perché nulla dispo-neva il contratto collettivo riguardo alle conseguenze del recesso ingiustificato, sottolineando come fuori da casi così marginali trovi applicazione la previsione negoziale in deroga alla leg-ge. Nel vigore della versione dell'art. 19 d.lgs. n. 165 antecedente alla modifica apportata con la L. 145/2002, la giurisprudenza aveva in più di un'occasione disposto la reintegrazione nell'incarico: Trib. Catanzaro, 27 febbraio 2002, in GC, I, 2630, 2002; Trib. Napoli, 20 giugno 2000, in FI, I, 718, 2001; Trib. Venezia, 8 giugno 2000, ibidem, 719; Trib. Firenze, 13 ottobre 1999, in FI, I, 1302, 2000; Trib. Firenze, 20 luglio 1999, ibidem, 1303; Trib. Potenza, 16 no-vembre 1999, in GC, I, 916, 2000; Trib. Belluno, 3 ottobre 2002, in GA, 1172, 2002 ha con-fermato l'ordinanza con la quale era stato ordinato all'amministrazione di reintegrare nell'inca-rico precedentemente ricoperto un dirigente che era stato soggetto ad un provvedimento di ro-tazione. una simile possibilità per il giudice ordinario è stata affermata anche dopo la novella del 2002. Trib. Roma, 21 aprile 2005, in www.lavoropubblico.formez; Trib. Benevento, 17 no-vembre 2004, in ENNIO APICELLA – FILIPPO CURCURUTO – PAOLO SORDI – VITO TENORE, Il pubblico impiego “privatizzato” nella giurisprudenza, Milano, Giuffrè, p. 512, 2005; Trib. Roma, 5 febbraio 2003, in GC, I, 2277, 2003. Ancora sul tema in favore della riassegnazione: Trib. Napoli, 27 settembre 2006, in Lav. Pubbl.Amm., 1211; Trib. Voghera, 15 gennaio 2004, in Riv. Critica Dir. Lav., p. 98, 2004, nel caso dell’illegittima revoca dell’incarico, successiva alla conferma, del segretario comunale, con diritto dello stesso alla reintegrazione in forma specifica nelle precedenti funzioni; Trib. Napoli 7 gennaio 2003, in Dir. Lav. Merc., p. 505,

143

La Corte di Cassazione161, a sezioni unite, dopo una serie di pronunce discor-

danti condizionate dai continui ritocchi alla materia operati dal legislatore, ha

da ultimo dichiarato il diritto alla rassegnazione dell’incarico illegittimamente

revocato162: “Il d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, art. 21 dopo aver definito la fatti-

specie della "responsabilità dirigenziale", prevede la revoca dell' incarico di-

rigenziale solo "in relazione alla gravità dei casi"; sicché occorre che sussi-

stano i presupposti di fatto della responsabilità dirigenziale (mancato rag-

giungimento degli obiettivi, inosservanze di direttive, illeciti disciplinari) e che

questi raggiungano una soglia di apprezzabile gravità tale da essere propor-

zionale alla più radicale misura della revoca dell' incarico . In ogni caso, a

garanzia del dirigente , gli incarichi dirigenziali possono essere revocati e-

2003; Trib. Piacenza 30 ottobre 2003 e Trib. Roma 6 dicembre 2001, entrambe in www.lavoropubblico.formez.it.. Le corti di merito, però, hanno in alcuni casi distinto dalla re-voca in toto dell’incarico il caso in cui la revoca fosse strumentale all’attribuzione di altre mansioni: sotto il profilo della salvaguardia della professionalità acquisita, oltre al ri-sarcimento del danno veniva assicurata anche la rimozione degli effetti mediante “reintegra-zione” nella precedente posizione di lavoro: Trib. Ariano Irpino, 15 ottobre 2002, in Risorse umane, p. 279, 2003; Trib. Firenze, 13 ottobre 1999, in Foro It., I, p. 1302, 2000; Trib. Firenze, 20 luglio 1999, ibidem, p. 1303. 161 Cass. civ. SS. UU., 01 dicembre 2009, n. 25254 162 Cfr. Cass. civ., sez. lav. 01 febbraio 2007, n. 2233: “Nel rapporto dirigenziale pubblico esi-ste una scissione, ignota al diritto privato, tra l'acquisto della qualifica di dirigente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato e il successivo conferimento, a tempo determinato, delle fun-zioni dirigenziali, sicché la disciplina propria del settore privato - e in particolare l'esclusione del dirigente , ex art. 10 l. 15 luglio 1966 n. 604, dal regime di stabilità reale - non può essere automaticamente trasposta nel settore pubblico; conseguentemente deve affermarsi che l'illegit-timità del recesso di una p.a. dal rapporto di lavoro con un dirigente comporta l'applicazione al rapporto fondamentale sottostante della disciplina di cui all'art. 18 st. lav., a norma dell'art. 51, comma 2, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, mentre all' incarico dirigenziale si applica la disciplina del rapporto a termine sua propria”.

144

sclusivamente nei casi e con le modalità dell'art. 21, comma 1, secondo perio-

do, cit. Quanto poi alle conseguenze della revoca illegittima dell' incarico di-

rigenziale la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici

non è quella dell'art. 2118 c.c., propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni

del rapporto di lavoro dei dipendenti con qualifica impiegatizia. Pertanto, in

caso di revoca illegittima dell' incarico dirigenziale ne consegue che l'Ammini-

strazione è tenuta a ripristinare l' incarico dirigenziale illegittimamente revo-

cato ed a corrispondere le differenze retributive”.163

163 A conclusione diversa è giunta la stessa Corte di Cassazione (Cass. sez. lav. 19 giugno 2007, n. 14186) in relazione alla pretesa del dirigente legittimamente rimosso di ottenere un risarcimento dei danni in ragione della mancata percezione delle mensilità residue; pretesa re-spinta in primo grado, ma accolta in sede di appello, sul presupposto che, non essendo il limite di durata minima dell'incarico dirigenziale suscettibile di riduzione convenzionale tra le parti, la revoca intervenuta prima dello scadere del termine minimo di durata (biennale, nel caso in esame), benché legittima e fondata, radicherebbe, in ogni caso, il diritto del dirigente al risar-cimento del danno, da quantificarsi nella misura delle retribuzioni che gli sarebbero spettate fino allo scadere del biennio. Al giudizio della Corte viene quindi sottoposto l'effetto giuridico della cessazione anticipata del rapporto di incarico dirigenziale a termine, e in particolare l'ipo-tizzata stabilità del dirigente pubblico nel periodo di durata minima dell'incarico, che, laddove asserita, configurerebbe in capo a questi, anche in caso di dedotta legittimità della revoca per giusta causa ex art. 21, d. lgs. n. 165/2001, una ragione di danno risarcibile per tutto il restante periodo completante l'incarico. La decisione si fonda sul rilievo sistematico occupato dall'art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 nel contesto ordinamentale di riferimento. La Corte, infatti, dopo aver richiamato l'allora vigente disciplina secondo cui gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tem-po determinato e hanno una durata non inferiore a due anni e non superiore a sette, con facoltà di rinnovo (art. 19, secondo comma, d. lgs. n. 165/2001), la pone in relazione con l'art. 21 dello stesso testo legislativo, che contempla le ipotesi di responsabilità dirigenziale connesse al man-cato raggiungimento degli obiettivi e all'inosservanza delle direttive generali, quali fattispecie legittimanti la revoca dell'incarico dirigenziale e la destinazione del dirigente ad altro incarico. In tale contesto sembra inverosimile che, a fronte di un provvedimento di revoca pienamente legittimo, sia sul piano delle motivazioni sostanziali sia su quello dei vincoli procedurali, l'amministrazione si veda poi impegnata a riconoscere al dirigente giustamente destituito un rimedio risarcitorio, realizzando così un tipo di sanzione non contemplata dall'art. 21, cit., che si risolverebbe in un ingiustificato mantenimento in vita degli effetti giuridici dell'incarico diri-

145

Per quanto riguarda, poi, i rimedi risarcitori, la prima circostanza di fatto da te-

ner presente è quella relativa all'affidamento o meno di altro incarico al diri-

gente cui sia stato illegittimamente revocato quello inizialmente assegnato. In

caso negativo, il provvedimento di revoca determina sicuramente una lesione

del diritto soggettivo del dirigente di eseguire mansioni di livello dirigenziale

(diritto che trova fonte nel contratto di lavoro); in questo caso, quindi, il diri-

gente ha diritto al risarcimento del danno alla professionalità, al pari di qualsia-

si altro dirigente al quale non sia stato assegnato alcun incarico. Tale danno an-

drà liquidato sulla base della durata del periodo di tempo in cui il dirigente è

rimasto privo di incarico.

Ma la tutela risarcitoria configurabile a favore del dirigente che si sia visto re-

vocare in maniera illegittima un incarico in precedenza legittimamente asse-

gnatogli non si arresta a questo unico profilo. Infatti deve riconoscersi che, a

seguito del provvedimento di conferimento dell'incarico, il precedente interesse

all'attribuzione di un determinato incarico aveva ormai acquisito lo spessore

genziale revocato, fino alla scadenza del termine di durata minima, difficilmente tollerabile dal punto di vista dei principi costituzionali del buon andamento e dell'economicità della pubblica amministrazione. Diversamente, la pretesa risarcitoria da parte del dirigente destituito rileva nei soli casi in cui l'incarico sia stato revocato illegittimamente, per carenza di responsabilità dirigenziale o anche disciplinare; fattispecie, quest'ultima, che determina sicuramente una le-sione del diritto del dirigente di eseguire mansioni di livello dirigenziale e, quindi, un diritto al risarcimento del danno alla professionalità «che andrà liquidato sulla base della durata del pe-riodo di tempo in cui il dirigente è rimasto privo di incarico».

146

del diritto soggettivo (appunto allo svolgimento, non più solamente di un qual-

siasi incarico dirigenziale, ma proprio di quello specifico incarico dirigenziale

oggetto del provvedimento di conferimento) e pertanto nulla osta alla piena ri-

sarcibilità di qualsiasi profilo di pregiudizio derivante dall'illegittima revoca.

Ne consegue che il dirigente avrà diritto al risarcimento anche dei pregiudizi

economici connessi, non già semplicemente al mancato espletamento di fun-

zioni dirigenziali in assoluto, ma al mancato svolgimento proprio delle funzioni

dirigenziali oggetto dell'incarico illegittimamente revocatogli. Pertanto il giu-

dice dovrà tener conto, ai fini della quantificazione, anche del trattamento eco-

nomico accessorio collegato al particolare incarico dirigenziale di cui si tratta.

Quest'ultima precisazione rende evidente che anche nella diversa ipotesi in cui

al dirigente, contestualmente all'illegittima revoca del primo incarico, sia asse-

gnato altro incarico dirigenziale, potrà apprezzarsi un danno risarcibile tutte le

volte in cui il secondo incarico non sia equivalente al primo.

Ciò, in primo luogo, sul piano del trattamento economico complessivo: infatti,

in virtù dell'originario provvedimento di conferimento dell'incarico, il dirigente

aveva acquisito il diritto a svolgere quell'incarico per tutta la durata prefissata

e, conseguentemente, anche a percepire il relativo trattamento economico ac-

147

cessorio per il medesimo lasso di tempo; se il trattamento accessorio proprio

del successivo incarico è inferiore, il dirigente avrà diritto alla differenza.

Si deve ammettere, inoltre, la possibilità per il dirigente di far valere, in simili

eventualità, anche un danno alla professionalità. Infatti, se è vero che, ai sensi

dell'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001, il contratto di lavoro di dirigente statale deve

intendersi pienamente rispettato dall'Amministrazione quale che sia il tipo di

incarico che assegna al dipendente e se pure è vero che, in caso di passaggio

(legittimamente attuato) da un incarico all'altro, il dirigente non ha un interesse

tutelato a vedersi affidato un incarico del medesimo livello di quello ricoperto

in precedenza, è però altrettanto vero che non può sostenersi che un incarico di

direzione, ad esempio, di un dipartimento ministeriale determini l'esplicazione

della medesima professionalità di un incarico di direzione di un qualsiasi uffi-

cio dirigenziale di livello non generale; pertanto, nel momento in cui il primo

venga illegittimamente revocato ante tempus ed al dirigente sia assegnato il se-

condo, sembra inevitabile riconoscere una lesione del diritto alla professionali-

tà, anche se, in sede di liquidazione di tale danno, il giudice deve tener conto

necessariamente del fatto che l'incarico sarebbe comunque cessato per scaden-

za del termine originariamente stabilito nel provvedimento di conferimento e,

quindi, anche l'entità del risarcimento sarà diversa a seconda del tempo che, al

148

momento della revoca, residuava prima della scadenza naturale dell'incarico;

ciò in quanto, alla scadenza naturale del primo incarico, l'Amministrazione a-

vrebbe potuto del tutto legittimamente assegnare al dirigente un incarico di li-

vello inferiore.

Quanto al diritto al risarcimento del danno all'immagine ed alla dignità del di-

rigente, esso sussisterà non automaticamente in ogni caso di revoca illegittima,

ma solamente nei casi in cui una simile vicenda sia caratterizzata da condotte

e/o atti della P.A. gratuitamente lesivi di quei beni del lavoratore.

4.2.- Riorganizzazione degli uffici e revoca dell’incarico diri-

genziale. Quale tutela?

Il dirigente amministrativo ed il dirigente dei servizi alla persona del Comune

di Limbiate avevano adito il giudice ordinario lamentando l’illegittimità del

provvedimento di sospensione cautelare e poi di revoca dell’incarico dirigen-

ziale, adottato dal Sindaco, e l’illegittimità della delibera della Giunta comuna-

le di dichiarazione di eccedenza e poi di collocamento in disponibilità. Con atto

149

particolarmente articolato, i ricorrenti avevano eccepito la mancata individua-

zione dei motivi della revoca dell’incarico ed il mancato rispetto della relativa

procedura, nonché la nullità della procedura di modifica della dotazione orga-

nica e della connessa procedura di mobilità, cui erano stati sottoposti, per la

mancata osservanza dell’iter previsto sia dalla legge sia dalla contrattazione

collettiva. Alla base della

vertenza, i dirigenti avevano comunque posto il carattere discriminatorio dei

provvedimenti presi nei loro confronti, per divergenza politica con la giunta en-

trante, e avevano chiesto, una volta dichiarata l’illegittimità degli atti di gestio-

ne, previa disapplicazione degli atti amministrativi presupposti, la reintegra nel

posto di lavoro ed il risarcimento dei danni patrimoniali, esistenziali,

all’immagine e del danno morale. Entrambi i gradi di merito, confermata la

giurisdizione della magistratura ordinaria, avevano accolto la questione

dell’illegittimità della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché della illegit-

timità del collocamento in disponibilità, riconoscendo tutela risarcitoria, ma so-

lo per le voci di danno patrimoniale, all’immagine ed alla professionalità -

quest’ultimo ridotto in appello – disattendendo invece la domanda di reintegra-

zione o di riammissione in servizio nelle precedenti mansioni dirigenziali. La

150

Corte di Cassazione164, invece, si è pronunciata a favore della riassegnazione

dell’incarico, precedentemente revocato con atto di riforma della pianta organi-

ca a sua volta giudicato illegittimo per contrarietà alla legge. La questione del

diritto al ripristino delle funzioni dirigenziali si dimostra di indubbio interesse.

Ciò che viene in rilievo nel caso di specie è proprio la soppressione delle posi-

zioni dirigenziali, a cui aveva fatto seguito il recesso ante tempus dall’incarico:

quest’ultimo atto, giudicato privo di giusta causa, determina il diritto del diri-

gente a riprendere servizio nella propria posizione e per il tempo residuo di du-

rata, detratto il periodo d’illegittima revoca dell’incarico. Pronunciata

l’illegittimità della delibera di soppressione delle posizioni dirigenziali, per

violazione di legge, e disapplicato quindi l’atto, il vizio si è proiettato a cascata

anche sulla revoca degli incarichi, sul collocamento in posizione di staff ed an-

cora sulla messa in disponibilità. Tuttavia, i giudici di merito non vi avevano

ravvisato alcuna nullità per motivi discriminatori e quindi non ammisero la

reintegra nell’incarico dirigenziale, come la legge stessa prevedrebbe in circo-

stanze simili. Le Sezioni Unite affermano che la riammissione nell’incarico di-

rigenziale non sarebbe limitata alla sola esistenza del motivo discriminatorio:

allo stesso risultato si perviene dalla dichiarata disapplicazione dell’atto pre-

164 Cassazione civile, Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677

151

supposto per violazione di legge, che travolge tutti gli effetti della revoca ante

tempus dell’incarico dirigenziale. Il ragionamento prende le mosse dalla consi-

derazione che, nella specie l’amministrazione avrebbe meramente applicato un

atto di organizzazione carente dei presupposti legali. Rilevato ciò, non potrebbe

che derivare la perdita di efficacia di ogni atto successivo con la reviviscenza

della situazione quo ante.

Non potrebbe, invece, ammettersi la sola tutela risarcitoria165: allo stesso modo

che per la reintegra del settore privato, quand’anche essa avvenisse a distanza

165 Dalla sentenza citata: “Si trae conferma della possibilità di rassegnazione dell’incarico di-rigenziale illecitamente revocato dai principi enunciati in molteplici pronunzie della Corte Co-stituzionale in materia del cd. spoil system (Corte Cost. n. 233/2006, n. 104 del 2007, n. 103/2007) e quindi in casi che, benché innegabilmente diversi da quello in esame, fanno tutta-via comprendere i parametri entro i quali va collocata la tutela riservata al dirigente pubblico, in termini di effettività. Nell’ultima pronunzia citata il Giudice delle leggi ha affermato che la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione ab-bia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che quest’ultimo, sul quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la ten-denziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico - amministrativo e quelli di gestione, affinché il dirigente possa esplicare la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost.. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabi-lità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all’esito di un procedimento di ga-ranzia puntualmente disciplinato. Inoltre, con la sentenza n. 381 del 2008, la medesima Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L.R. Lazio n. 8 del 2007, con la quale, in caso di decadenza dalla carica conseguente a pronunzie della Corte Costituzionale, si dava alla Giunta regionale la facoltà alternativa o di procedere al reintegro nelle cariche, con ripristino dei relativi rapporti di lavoro, oppure di procedere ad un’offerta di equo indennizzo. In detta pronunzia la Corte ha affermato che in questi casi «forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti ammini-strativi...».”

152

di tempo senza che sia più disponibile la posizione precedentemente ricoperta,

“non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto

di lavoro, giacché una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emet-

tere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica. Si tratta

invero dei consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono

non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non

può escludersi l’adempimento spontaneo da parte del datore”166.

Il paragone con il settore privato, invero, si esaurisce qui. La Cassazione nega,

infatti, un collegamento anche solo in termini di parallelismo tra i dirigenti

pubblici e quelli privati: questi ultimi non beneficiano della tutela ripristinato-

ria; al contrario, per il dirigente pubblico, il cui incarico è esclusivamente tem-

poraneo, il ripristino del rapporto a seguito della pronuncia di illegittimità della

revoca non farebbe che riportare la situazione al momento precedente il recesso

166Ancora dalla sentenza: “Nel caso in esame, l’attribuzione del solo risarcimento non costitui-rebbe effettiva “disapplicazione” dell’illegittimo provvedimento presupposto, perché questo continuerebbe a giustificare la revoca dell’incarico dirigenziale e i conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto riguarda il F., con il licenziamento a seguito del decorso dei ventiquattro mesi di collocazione in disponibilità. Invero, in tal caso, la situazione che si viene a creare non sembra dissimile rispetto a quanto avviene nel lavoro privato, in relazione alle pronunzie di reintegra nel posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità del licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi casi la posizione la-vorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte possono non esistere più, eppure non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacché una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui pe-raltro non può escludersi l’adempimento spontaneo da parte del datore”.

153

ed avrebbe in ogni caso effetti circoscritti alla scadenza prefissata. Il meccani-

smo giuridico che porta alla disapplicazione dell’atto illegittimo, scrivono i

giudici, consente una situazione “dissociata”: il provvedimento non viene an-

nullato e resta pertanto operativo in via generale; al tempo stesso, essendo pri-

vato dei propri effetti nei confronti del destinatario per via della disapplicazio-

ne, non giustifica più l’atto di gestione che, si potrebbe dire, cade e comporta il

pieno ripristino della situazione precedente. In altre parole, ritenuta illegittima

la revoca, riacquista efficacia l’originario atto di conferimento dell’incarico di-

rigenziale e si deve pertanto procedere alla riassegnazione alle mansioni, che in

ogni caso è limitata alla durata residua indicata nell’atto di attribuzione. Se si

riconoscesse il solo risarcimento, invece, si continuerebbe “a giustificare la re-

voca dell’incarico dirigenziale ed i conseguenti provvedimenti che sono culmi-

nati con il licenziamento” dopo il collocamento in disponibilità.

Le Sezioni Unite si sono, allora, interrogate sui poteri del giudice nei confronti

della pubblica amministrazione quale datore di lavoro, in particolare per i

provvedimenti di accertamento, quelli costitutivi e di condanna ritenuti neces-

sari o richiesti dalla natura delle posizioni del dipendente. Sul punto è opinione

della Corte che, ove venga richiesta la tutela di un diritto soggettivo, sia con-

sentito condannare l’ente di appartenenza ad un facere preciso, anche se ciò

154

possa far seguito alla mera disapplicazione dell’atto amministrativo. In linea

con le pronunce della Consulta, n. 103 e n. 104 del 2007, la Cassazione ribadi-

sce quindi l’esigenza che la tutela riservata al dirigente pubblico si esprima in

termini di effettività. La posizione fa il paio così con l’esclusione della libera

recedibilità dal rapporto dirigenziale pubblico: quest’ultimo, pur se caratteriz-

zato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere ugualmente connotato da

specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità

dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di

indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. La disapplicazione

dell’atto presupposto, quindi, non può limitarsi a generare una pretesa risarcito-

ria: privando di effetti disapplicato dal giudice ordinario, la precedente situa-

zione giuridica, compromessa dall’atto datoriale, riacquista esistenza e legitti-

mità.

4.3.- La tutela reale e la sua effettività.

155

Il problema che qui si pone è l’effettiva tutela del lavoratore pubblico dinanzi

alla possibilità concreta di mettere in esecuzione gli ordini del giudice in forma

specifica ed in particolare le modalità di attuazione dell’ordinanza cautelare da

parte dell’autorità giudicante.

Bisogna in primo luogo premettere che a seguito della riforma non sorgono

dubbi circa l’ammissibilità dei procedimenti di urgenza ex artt. 700 c.p.c. e

669-duodecies c.p.c nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, data

l’ampiezza dei poteri attribuiti al giudice ordinario dall’art. 63, secondo comma

del d.lgs. 165/2001 (“il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche ammini-

strazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, ri-

chiesti dalla natura dei diritti tutelati”). E, in tal senso, si è chiaramente espres-

sa la Corte di Cassazione sostenendo che “Nelle controversie relative ai rap-

porti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'art. 63,

comma 2, del d.lg. n. 165 del 2001, nel prevedere espressamente che «Il giudi-

ce adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti,

di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tu-

telati», attribuisce al giudice del lavoro il potere di adottare qualsiasi tipo di

sentenza, ivi compresa la sentenza di condanna ad un facere, dovendosi ritene-

re irrilevante il carattere infungibile dell'obbligo in quanto la relativa decisio-

156

ne non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conse-

guenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è al-

tresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti

dall'inosservanza dell'ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è

autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile successiva

domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un fa-

cere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento. (Nel-

la specie, la S.C., in applicazione del principio enunziato, ha cassato la senten-

za di merito che aveva escluso l'ammissibilità della domanda di condanna del

Ministero dell'economia e delle finanze all'adempimento dell'obbligo di valuta-

re la posizione del dirigente, lasciato in inattività forzosa, ai fini del conferi-

mento di un incarico corrispondente alle sue qualifiche)”167.

Inoltre, data la natura dei provvedimenti in esame, il cui carattere fondamentale

è l’urgenza della tutela, sarebbe assurdo arrivare, in questa materia, al risultato

per cui l’inottemperanza dell’obbligato non sia coercibile a causa

dell’impossibilità di agire del giudice (basata sulla dicotomia tra condotte fun-

gibili e condotte infungibili).

167 Cassazione civ., sez. lav. 26 novembre 2008, n. 28274

157

Questa conclusione può essere idonea nel rapporto di lavoro privato dove

l’assunzione è effettuata su caratteri esclusivamente fiduciari ( e non certo tra-

mite concorso pubblico) e nel quale il datore di lavoro gestisce un impresa pri-

vata.

E’ invece da ritenersi pregiudizievole nell’ambito del pubblico impiego.

In primo luogo occorre fare riferimento all’art. 1, comma 1 del d. lgs.

165/2001, il quale fissando le finalità della privatizzazione, evidenzia il bino-

mio tra “organizzazione degli uffici” e “i rapporti di lavoro e di impiego alle

dipendenze delle pubbliche amministrazioni”. Ed è proprio sulla scorta di que-

sto binomio che va ricercata la differenziazione di tutela rispetto al rapporto di

lavoro privato. D’altronde la stessa Corte Costituzionale nella sentenza n.

146/2008 ha affermato: “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto

di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle di-

pendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali

che rendono le due situazioni non omogenee. Per tale motivo è da ritenere

ammissibile una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispet-

to a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite

della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi

generali. La pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre – anche in

158

presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione

peculiare, essendo tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, im-

parzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa.”

Ed è proprio sulla scia di questa parziale omogeneizzazione che non si deve ri-

tenere esistente nel pubblico impiego la dicotomia comportamenti fungibili -

comportamenti infungibili a causa della connotazione pubblica del datore di la-

voro, delle particolari finalità che la P.A. persegue e dei principi costituzionali

in materia.

Il giudice quindi non solo può ordinare l’assegnazione del ricorrente ad incari-

co dirigenziale di pari livello rispetto a quello svolto in precedenza, ma può, a

seguito di inottemperanza della Pubblica Amministrazione, anche determinare

quale siano le modalità pratiche del reinserimento168. In particolare

nell’ordinanza del 1 dicembre 2006 del Tribunale di Reggio Calabria, emessa

sulla scorta di un’istanza ex art. 669 duodecies c.p.c per l’attuazione di un

provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. e il giudice osserva che “neppure

teoricamente accettabile appare la deduzione dell’”infungibilità” del compor-

tamento richiesto all’intimato, sul parallelismo della condizione del privato

datore di lavoro; infatti la natura privatistica della gestione del rapporto di la- 168 In questo senso si sono espressi: Tribunale di Catania, ordinanza 13 ottobre 2000; Tribunale di Trani, sez. appello lavoro, ordinanza 21 novembre 2000.

159

voro dei dipendenti dell’ente pubblico non assimila in toto la Pubblica ammi-

nistrazione al privato datore di lavoro, restando sostanzialmente divergenti e

differenziate le posizioni di autonomia del primo, tutelato nella libertà di ini-

ziativa economica dall’art. 41 Cost. (e che comunque sopporta direttamente le

conseguenze negative, non solo risarcitorie, causate dalla propria condotta);

laddove la pubblica amministrazione deve funzionalizzare la propria azione al

perseguimento dell’interesse pubblico ex art. 97 Cost., interesse che coincide

con quello del rispetto della legalità nel caso in cui sia stata affermata la rego-

la di condotta del caso singolo dall’ordine del giudice” .

Sulla base di questa argomentazione non sorgono dubbi circa il potere del giu-

dice di determinare in maniera concreta e puntuale le modalità di reintegro del

pubblico dipendente qualora l’Amministrazione risultasse inottemperante.

Dall’altra parte, se così non fosse, il dipendente pubblico si vedrebbe sottratta

una tutela che, fino alla novella del 1998, con la quale tutte le controversie rela-

tive ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sono

state devolute al giudice ordinario, gli era garantita dal giudizio di ottemperan-

za. E comunque, a questo proposito, si osserva che lo stesso articolo 669-

duodecies c.p.c. offre una testuale conferma all’attuazione delle misure cautela-

160

ri da parte dell’autorità giudiziaria nel momento in cui le stesse sono rimesse

allo stesso giudice dell’esecuzione.

4.4.- Gli incarichi dirigenziali e il fantasma “spoil system”.

La legge n. 145 del 2002 introdusse diverse forme di spoils system169, preve-

dendo che gli incarichi di segretario generale o di capo dipartimento cessassero

decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo (art. 19, co.8,d.lgs. n.

165 del 2001) e, inoltre, che le nomine degli organi di vertice e dei componenti

dei consigli di amministrazione o degli organi equiparati degli enti pubblici,

delle società controllate o partecipate dello Stato, delle agenzie o di altri orga-

nismi comunque denominati, conferite dal Governo o dai Ministri nei sei mesi

antecedenti la scadenza naturale della legislatura, potessero essere confermate,

169 Il sistema delle spoglie, mutuato dalla tradizione americana, senza fare i conti con la duplice struttura del rapporto di lavoro dirigenziale (rapporto di ufficio – rapporto di servizio) e dimen-ticandosi della diversa struttura costituzionale degli Stati Uniti, basata sul sistema dei “checks and balances”.

161

revocate, modificate o rinnovate entro sei mesi dal voto di fiducia del Gover-

no170.

In via transitoria introdusse, poi, uno spoils system operativo solo per il Gover-

no in carica al momento dell’entrata in vigore dellla legge n. 145 del 2002, in

base al quale, nel caso in cui, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigo-

re della legge stessa, non si fosse proceduto all’attribuzione di incarichi di fun-

zione dirigenziale di livello non generale secondo le disposizioni introdotte e

secondo il criterio di rotazione, gli incarichi in essere si intendevano conferma-

ti, mentre gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale cessavano au-

tomaticamente allo spirare del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della

legge n. 145 del 2002171.

L’introduzione del sistema dello spoil system scatenò immediatamente la rea-

zione dell’opinione pubblica e della dottrina giuridica, che vedevano, dopo an-

ni di battaglia per l’autonomia, nel sistema introdotto con la L. 145 del 2002, il

riconoscimento della dipendenza della dirigenza dalla classe politica.

In realtà il legislatore finse di dimenticare che la Corte Costituzionale già si era

espressa in relazione alle ipotesi di cessazione ope legis dell’incarico dirigen-

170 Art. 6 della legge n. 145 del 2002 171 Art. 3, co. 7, della legge n. 145 del 2002.

162

ziale con la ordinanza n. 11 del 2002172, affermando che “la disciplina del rap-

porto di lavoro dirigenziale nei suoi aspetti qualificanti, in particolare il confe-

rimento degli incarichi dirigenziali (assegnati tenendo conto, tra l’altro, delle

attitudine e della capacità professionali del dirigente), nonché la procedimen-

talizzazione dell’accertamento di tale responsabilità (artt. 19 e 20 del d.lgs. n.

29 del 2003, ed ora arti. 19, 21 e 22 del d.lgs. n. 165 del 2011), è connotata da

specifiche garanzie, mirate a presiedere il rapporto di impiego dei dirigenti

generali, la cui stabilità non implica necessariamente anche stabilità

dell’incarico, che, proprio al fine di assicurare il buon andamento e

l’efficienza dell’amministrazione pubblica, può essere soggetto ala verifica

dell’azione svolta e dei risultati perseguiti”.

E la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sull’art. 3, co. 7, della legge

n. 145 del 2002, con la sentenza n. 103 del 23 marzo 2007173, non si smentì, di-

172 C. cost. ord. 30 gennaio 2002, n. 11, in Giur. cost., 2002, 68. 173 C. cost., 23 marzo 2007 n. 103; in pari data, con la decisione n. 104, la Corte costituzionale, ha dichiarato la illegittimità del combinato disposto dell’art. 71, co. 1, 3 e 4, lett. a), della legge della regione Lazio 17 febbraio 2005 n. 9 (legge finanziaria regionale per l’anno 2005) e dell’art. 55, co. 4, della legge regione Lazio 11 novembre 2004 n. 1 (Nuovo Statuto della re-gione Lazio), nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dell’incarico;; non-ché dell’art. 96 della legge della regione siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni program-matiche e finanziarie per l’anno 2002), nella parte i cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati entro novanta giorni

163

chiarando la illegittimità costituzionale, in quanto la norma impugnata, preve-

dendo un meccanismo generalizzato e automatico di cessazione ex lege degli

incarichi dirigenziali in corso, si poneva in contrasto con gli artt. 97 e 98 della

Costituzione: “E' costituzionalmente illegittimo l'art. 3, comma 7, della legge

15 luglio 2002, n. 145 nella parte in cui dispone che gli incarichi dirigenziali

di livello generale "cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vi-

gore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo e-

sclusivamente le attività di ordinaria amministrazione". La norma, prevedendo

un meccanismo - cosiddetto spoil system una tantum - di cessazione automati-

ca, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale si po-

ne in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost.: infatti, le recenti leggi di riforma

della pubblica amministrazione hanno disegnato un nuovo modulo d'azione,

che misura il rispetto del canone dell'efficienza alla luce dei risultati che il di-

rigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico.

Pertanto, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può es-

sere conseguenza soltanto di un'accertata responsabilità, all'esito di un proce-

dimento di garanzia puntualmente disciplinato. E' necessario che sia comun-

que garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialetti- dall’insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto. Entrambe in Guida al Diritto, 2007, 14, 74 ss, con nota di FORLENZA.

164

co tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione esterni le

ragioni per cui ritiene di non consentire la prosecuzione sino alla scadenza

contrattualmente prevista e, dall'altro, sia assicurata al dirigente la possibilità

di far valere il diritto di difesa, nel rispetto dei principi del giusto procedimen-

to, finalizzati a garantire scelte trasparenti e verificabili, in ossequio al precet-

to dell'imparzialità dell'azione amministrativa”. La norma dichiarata illegitti-

ma, infatti, secondo la Consulta, non assicurava una adeguata tutela del rappor-

to di ufficio in corso dei dirigenti, non prevedendo essa una previa fase di valu-

tazione del dirigente idonea a giustificare la revoca dell’incarico non ancora

scaduto. Per non incorrere nella censura in incostituzionalità, il legislatore a-

vrebbe dovuto garantire il rispetto del c.d. giusto procedimento, nel senso che

egli avrebbe dovuto prevedere una previa fase valutativa della posizione del di-

rigente alla luce dell’attività da questi svolta e dei nuovi obiettivi politico-

amministrativi della compagine governativa. Tale fase avrebbe dovuto assicu-

rare un momento dialettico tra le parti, sì da consentire al dirigente di far valere

il diritto di difesa.

La norma annullata anche sotto altro profilo si poneva in contrasto con il prin-

cipio di buon andamento dell’azione amministrativa;; essa infatti compromette-

va la continuità dell’azione amministrativa, che del principio di buon andamen-

165

to costituisce corollario, in relazione alla “originaria” durata dell’incarico, mo-

dulata, tra l’altro, in considerazione della peculiarità della singola posizione di-

rigenziale e degli specifici risultati che quel dirigente avrebbe dovuto persegui-

re174.

Ancora in materia di spoil system, la Corte Costituzionale175 ha dichiarato, nel

2010, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, non ritenendo

sussistente la contrarietà alla Costituzione lo spoil system attuato negli uffici di

diretta collaborazione con il Ministro, sollevata in riferimento agli articoli 97 e

98 della Costituzione, dell’articolo 1, co. 24-bis, del decreto-legge 18 maggio

2006, n.181176 il quale, modificando il secondo comma dell’art. 14 del decreto

legislativo 30 marzo 2001, n. 165, prevede che “all’atto del giuramento del

Ministro, tutte le assegnazioni di personale, ivi compresi gli incarichi anche di

174 Con sentenze n. 161 del 2008 e n. 81 del 2010 la Corte Costituzionale ha dichiarato per gli stessi motivi la illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 161, del d.l. n. 261 del 2006, converti-to in L.n. 286 del 2006, nella parte in cui prevede che in sede di prima applicazione dell’art. 19, co. 8, del D.Lgs. n. 165 del 2001 (come modificato dai commi 159 e 11 dello stesso d.l. n. 286 del 2006), gli incarichi ivi previsti, conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non con-fermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto. L’art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 ha abrogato la parte contenuta nel comma 8 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, che, per effetto del comma 159, del decreto legge n. 262 del 2006, aveva esteso il si-stema di spoil system a regime anche “al personale di cui al comma 5-bis, limitatamente al per-sonale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23, e al comma 6”. Ne consegue che ili predetto comma 8, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede attualmente una sola ipotesi di spoil system a regime, stabilendo che gli incarichi di funzione dirigenziale “di cui al comma 3 cessa-no decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo”. 175 C. cost., 28 ottobre 2010, n. 304, in www.lexitalia.it, 11/2010. 176 Recante “Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri”, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233.

166

livello dirigenziale e le consulenze e i contratti anche a termine», conferiti

nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, «decadono automaticamente

ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro”. Il

giudice costituzionale nell’occasione ha precisato che nell’ordinamento della

Pubblica Amministrazione deve essere assicurata una chiara distinzione tra

funzioni politiche e funzioni amministrative di tipo dirigenziale, al fine di assi-

curare, in particolare, la piena attuazione dei principi costituzionali di buon an-

damento e di imparzialità dell’azione della pubblica amministrazione. Perché

possa in concreto operare tale differenziazione di compiti è necessario, altresì,

che il rapporto di ufficio, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico,

sia connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia rego-

lato in modo tale da assicurare l’effettivo rispetto dei principi consacrati dal ci-

tato art. 97 Cost.

I meccanismi di decadenza automatica dei rapporti dirigenziali in corso si pon-

gono in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto pregiudicano la continuità

dell’azione amministrativa, introducono in quest’ultima un elemento di parzia-

lità, sottraggono al soggetto dichiarato decaduto dall’incarico le garanzie del

giusto procedimento e svincolano la rimozione del dirigente dall’accertamento

oggettivo dei risultati conseguiti.

167

Gli uffici di diretta collaborazione con il Ministro (cosiddetti uffici di staff),

nella collaborazione che di essi ha dato la normativa vigente, svolgono

un’attività di supporto strettamente correlata all’esercizio delle predette funzio-

ni in un ambito organizzativo riservato all’attività politica con compiti di sup-

porto delle stesse funzioni di governo e di raccordo tra queste e quelle ammini-

strative di competenza dei dirigenti. Pertanto deve ritenersi che, così come la

nomina del personale, compreso quello dirigenziale, può avvenire, in base alla

normativa vigente, intuitu personae, senza predeterminazione di alcun rigido

creterio che debba essere osservato nell’adozione dell’atto di assegnazione

all’ufficio, allo stesso modo, - e simmetricamente – è possibile in qualunque

momento interrompere il rapporto in corso, qualora sia venuta meno la fiducia

che deve caratterizzare in maniera costante lo svolgimento del rapporto stesso.

5.- Licenziamento del dirigente pubblico privatizzato e privato:

tutele e problemi a confronto.

168

Il licenziamento del dirigente pubblico privatizzato rappresenta il punto di con-

fronto più elevato con la disciplina del dirigente privato.

Prima di soffermarsi sul tipo di tutela che la giurisprudenza riconosce al diri-

gente pubblico privatizzato illegittimamente licenziato si deve far presente che

due sono in giurisprudenza le posizioni circa il tema della libera recedibilità.

Una prima tesi è espressa dalla sentenza emessa il 31 dicembre 2004 dalla Cor-

te di Appello di Napoli177, la quale ritiene che, così come per la dirigenza pri-

vata, anche per la dirigenza pubblica, in materia di licenziamento, il principio

generale è quello della recedibilità ad nutum178.

Si arriva a tale conclusione sulla base dell’assunto della completa privatizza-

zione realizzata dal D.Lgs. 80/1998. La Corte subito aggiunge che il principio è

“temperato, tuttavia, dall’espresso rinvio anche alla contrattazione collettiva

di settore che già nella prima tornata aveva introdotto il concetto di recesso

“giustificato”. Si avrebbe, quindi, “una struttura causale del licenziamento del

dirigente che si realizza nell’obbligo contrattualmente previsto di contestuale

motivazione da parte dell’amministrazione e di previo esperimento di una pro-

177 Inedita a quanto consta. 178 Affermano la libera recedibilità anche Trib. Piacenza, 17 febbraio 2004, in lavoropubbli-co.formez.it e Trib. Roma, 5 giugno 2000, in GI, 2000, 49. Applicano invece la tutela risarcito-ria prevista dal contratto collettivo senza porsi il problema della sussistenza del libero recesso, Trib. Firenze, 15 gennaio 2004, in Lav. P.A., p. 194, 2004; Trib. Firenze, 6 dicembre 2002, in Riv. crit. dir. lav., p. 759, 2003.

169

cedura di contestazione e di audizione”. Pertanto la tutela apprestata sarebbe

quella “garantita dallo stesso contratto collettivo – id est la corresponsione di

un indennizzo – salvi i casi di nullità o giuridica inesistenza del recesso che ri-

cadono nella disciplina generale del contratto”.

La Corte d’Appello sottolinea che l’esigenza di garanzia del dirigente, e quindi

la separazione tra funzione tecnica e funzione politica, troverebbe “attuazione

proprio in virtù della completa assimilazione tra dirigente pubblico e dirigente

privato, nella tutela forte per il caso di licenziamento discriminatorio come

prevista dall’art. 3 della L. 108/1990”.

Di diversissimo avviso la Corte di Cassazione che, con la sentenza dell’1 feb-

braio 2007, n. 2233179, afferma, dopo che “la disciplina della dirigenza privata

179 Questo il fatto così come riportato dalla stessa Corte di Cassazione: “Con ricorso depositato il 21 gennaio 2004 il Dott. A. P. ha convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Torino, giudi-ce del lavoro, l'Agenzia delle Dogane esponendo: -che era risultato tra i vincitori del corso-concorso di formazione dirigenziale promosso dalla scuola superiore di pubblica amministra-zione (S.S.P.A.) per il reclutamento di 165 impiegati civili nella qualifica di dirigente; -che con provvedimento del dipartimento funzione pubblica del 13.2.2002 era stato assegnato all'Agen-zia delle Dogane; -che in data 29.4.2002 aveva sottoscritto un contratto individuale di lavoro con l'Agenzia delle Dogane, con inquadramento quale dirigente di seconda fascia ai sensi del CCNL comparto ministeri area dirigenti e con l'incarico di assistente di direzione presso la direzione regionale del Piemonte e della Valle d'Aosta dell'Agenzia delle Dogane, a far tempo dal 2.5.02; - che nel contratto, della durata di 2 anni, era previsto un periodo di prova di 6 mesi di effettivo servizio che andava contrattualmente a scadere il 12.11.02; - che in data 28.3.03 gli era stata comunicata la risoluzione del rapporto di lavoro per mancato superamen-to del periodo di prova; -che tale decisione era stata confermata con comunicazione scritta del 10.4.2003 con la quale si affermava che gli effetti della risoluzione del rapporto sarebbero de-corsi dal 13.4.2003; che il provvedimento datoriale era stato impugnato con raccomandata del 2 6.5.03. Sulla base di queste premesse, il ricorrente, ritenuta illegittima la risoluzione del rapporto perchè intervenuta dopo la scadenza del periodo di prova, chiedeva la condanna del-la convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro, al pagamento delle retribuzioni maturate

170

non è perciò sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica. La diversità di

disciplina del recesso nel rapporto dirigenziale privato e pubblico è conferma-

ta dalla giurisprudenza costituzionale. La Corte (sent. 25 luglio 1996 n. 313) -

nel dichiarare infondata la questione proposta dal Tar Lazio, che aveva so-

spettato di illegittimità costituzionale le norme in esame per violazione

dell'articolo 97 Cost., perché la libera recedibilità dal rapporto dirigenziale

avrebbe inciso sulla sfera di autonomia e di responsabilità dei dirigenti, presi-

dio del buon andamento e imparzialità dell'amministrazione - ha rilevato che

dalla data del licenziamento a quella della reintegra e al risarcimento dei danni subiti in con-seguenza dell'illegittimo licenziamento. Con sentenza in data 9.6.2004 il giudice adito, nella resistenza della convenuta, accoglieva il ricorso, condannando l'Agenzia delle Dogane alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra. Il primo giudice, ritenuta la illegittimità del licenziamento, rilevava in particolare che le conseguenze che ne scaturivano erano quelle di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, considerato che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, prevede espressamente l'applicazione della L. n. 300 del 1970 alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti. La Corte di Appello di Torino, con sentenza depositata il 26 aprile 2005, ha respinto il primo motivo di appello della Agenzia delle Dogane, volto a far dichiarare tempestivo il recesso, e, in accoglimento del secondo motivo, ha respinto la domanda di reintegra nel posto di lavoro e ridotto la condanna al risarcimento del danno al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quel-lo di scadenza del contratto. Il giudice d'appello ha basato la propria decisione di accoglimen-to sulla equiparazione di disciplina, anche negli aspetti risolutori, tra dirigente dell'impiego privato (cui non è applicabile la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18) e dirigente pubblico con-trattualizzato; anzi ha ritenuto che questa soluzione fosse tanto più obbligata, per il rilievo che nella dirigenza pubblica l'incarico dirigenziale è per espressa disposizione di legge di caratte-re temporaneo (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, come modificato dalla L. n. 145 del 2002, art. 3). La Corte di merito riteneva altresì che anche gli effetti dell'illegittimità del licenziamento devono essere necessariamente circoscritti alla durata biennale dell'incarico dirigenziale, es-sendo il rapporto regolato dal contratto di diritto privato stipulato il 29.4.2002 che prevede appunto che l'incarico abbia durata biennale, per cui il risarcimento del danno deve essere circoscritto al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della sca-denza del contratto. Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l' A. con un unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. L'Agenzia delle Dogane si è costituita con controricorso, resistendo”.

171

l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni

previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione

possa liberamente recedere dal rapporto stesso ma semplicemente che la valu-

tazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e procedure

di carattere oggettivo assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del

contraddittorio a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il re-

cesso”. Continua ancora la Corte sostenendo che “la disciplina del recesso dal

rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici non è dunque quella dell'art. 2118

cod. civ, propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni del rapporto di lavoro

dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, in coerenza con la tradiziona-

le stabilità del rapporto di pubblico impiego”180. E aggiunge che “anche la di-

sciplina contrattuale del procedimento sanzionatorio, cui il contratto collettivo

è facilitato dal rinvio dell'art. 21, è articolata sul modello della L. 20 maggio

180 Nello stesso senso si era già espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1996: “D'altronde, è appena il caso di rammentare che l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica am-ministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valuta-zione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere og-gettivo - assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio -, a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.

172

1970, n. 300, art. 7, nel rispetto del principio costituzionale del contraddittorio

(Corte cost. n. 313/1996 cit.), proprio del recesso causale”181.

Oggi la tesi dominante e largamente accettata in dottrina è l’assoluta non con-

figurabilità del recesso ad nutum del dirigente pubblico privatizzato, anche sul-

la scorta del dato legislativo che, come visto, riconette il provvedimento di e-

spulsione al mancato raggiungimento degli obiettivi e all’inosservanza delle di-

rettive la cui gravità sia tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di

lavoro per una categoria, quella dirigenziale, che è comunque connotata da uno

stretto vincolo di fiduciarietà.

5.1.- Il dirigente privato: la libera recedibilità e la nozione di

giustificatezza.

181 Più precisamente la Corte sostiene: “ Infatti l'art. 27 del contratto collettivo nazionale di la-voro del personale con qualifica dirigenziale del comparto ministeri prevede due ipotesi di re-cesso dell'amministrazione, una con preavviso, e l'altra senza preavviso. In entrambi i casi prima di formalizzare il recesso l'amministrazione deve contestare per iscritto l'addebito con-vocando l'interessato per una data non anteriore al quinto giorno dal ricevimento della conte-stazione per essere sentito a sua difesa. Il dirigente può farsi assistere da un rappresentante di associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un legale di sua fiducia. In en-trambi i casi l'amministrazione deve indicare per iscritto i motivi del recesso. Solo queste due ipotesi di recesso previste dall'art. 27 possono condurre alla risoluzione del rapporto fonda-mentale”.

173

Anche a voler guardare al rapporto di lavoro del dirigente privato, che oggi non

è affatto assimilabile a quello del dirigente pubblico privatizzato anche sulla

base della solo presenza in capo a quest’ultimo di due rapporti diversi e distinti,

si deve sottolineare che non risulta certo sfornito di tutele.

Come noto, il rapporto di lavoro dirigenziale privato è sottratto ex art. 10 L. n.

604/1966182 alla generale disciplina legale limitativa del licenziamento, in ra-

gione del particolare vincolo fiduciario che lega le parti.

Ma anche il rapporto di lavoro dirigenziale non è insensibile alla valutazione

dei risultati conseguiti dal lavoratore, dal momento che la posizione del diri-

gente in seno all’organizzazione si qualifica per la particolare responsabilità

connessa alle scelte affidategli, oltre che per la relativa più elevata retribuzione;

il che giustifica la libertà di recesso del datore di lavoro, il quale, nel caso di

mala gestione dell’impresa, paga, letteralmente, in prima persona.

È altrettanto noto, tuttavia, che la facoltà del datore di lavoro di recedere libe-

ramente dal contratto, riconosciutagli dalla legge attraverso l’art. 2118 c.c.,

182 Articolo 10, L. 604/1966: “Le norme della presente legge si applicano nei confronti dei pre-statori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell'articolo 2095 del Codice civile e, per quelli assunti in prova, si applicano dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavo-ro”.

174

deve in realtà misurarsi, e finisce per scontrarsi, con le previsioni contrattuali183

che restituiscono ai motivi del recesso la rilevanza che la legge ha inteso, ap-

punto, escludere.

La protezione negata dalla legge viene infatti garantita per via negoziale (pur,

ovviamente, con minore intensità e con contenuti diversi da quelli valevoli nei

confronti degli altri lavoratori per effetto degli artt. 3 e 8 legge n. 604/1966, ol-

tre che dell’art. 18 St. lav.) attraverso i contratti collettivi dei dirigenti, i quali

hanno introdotto, con previsioni sostanzialmente analoghe nei vari settori184, il

presupposto della “giustificatezza”185 quale condizione di legittimità del licen-

ziamento. Ove il licenziamento risulti non giustificato (pur essendo, comunque,

idoneo ad estinguere il vincolo contrattuale), il dirigente avrà diritto ad una tu-

tela indennitaria di misura variabile, compresa tra un minimo ed un massimo

indicati dal contratto collettivo. 183 La sanzione prevista dai contratti colletti per il licenziamento ingiustificato del dirigente privato consiste nell’obbligo del datore di lavoro di parare una indennità cd. supplementare, di cui è fissata la misura minima, di norma rapportata all’indennità di preavviso, e quella massima (tale indennità si aggiunge all’indennità sostitutiva del preavviso non lavorato e al trattamento di fine rapporto). 184 Solo per citarne alcuni, tra gli altri c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali del 23 maggio 2000; quello per i dirigenti di aziende del commercio del 27 maggio 2004; quello per i dirigenti del settore del credito del 19 aprile 2005; quello per i dirigenti delle imprese di assicurazione del 15 ottobre 2007. 185 Al vizio di ingiustificatezza è equiparato quello di omessa motivazione contestuale, sanzio-nato anch’esso con l’obbligo di pagamento dell’indennità supplementare. Anche la violazione del procedimento disciplinare (ma, su questo punto, la giurisprudenza è ancora divisa) è equi-parata al vizio di ingiustificatezza, non potendosi far valere il motivo disciplinare senza la rela-tiva procedura, con la conseguente spettanza dell’indennità di fine supplementare. Diversamen-te si applica la tutela reale anche al dirigente nel caso di licenziamento discriminatorio.

175

Invero, l’introduzione di limiti convenzionali alla facoltà datoriale di recesso,

proprio perché trova sede nella definizione di un assetto di interessi liberamen-

te stabilito dai contraenti collettivi nell’esercizio della loro autonomia, nulla

toglie alla persistente sussistenza, dal punto di vista dell’ordinamento giuridico

statale, delle ragioni di fondo dell’esenzione dall’applicazione della legge n.

604/1966, che continua a rimanere assolutamente valida.

La nozione di giustificatezza del licenziamento, introdotta dai contratti colletti-

vi, mal si presta, peraltro, ad essere definita una volta per tutte nei suoi conte-

nuti. E ciò non solo perché essa possiede natura di clausola a precetto generico

(o a fattispecie aperta), pronta ad adattarsi ai mutamenti della realtà materiale

che essa intende regolare e idonea ad essere riempita di contenuto ad opera

dell’interprete anche con riguardo alle peculiarità del caso concreto. Il dato in

cui ci si imbatte più frequentemente è che la nozione contrattuale di giustifica-

tezza non coincide con quella legale di giusta causa o giustificato motivo di li-

cenziamento di cui agli artt. 2119 c.c. e 3 legge n. 604/1966. Tuttavia, tale no-

zione in negativo di giustificatezza poco aiuta. La giurisprudenza aggiunge

(provando a darne una definizione in positivo) che essa riguarda piuttosto vi-

cende o comportamenti del dirigente oggettivamente idonei a incidere irrever-

sibilmente sul peculiare rapporto fiduciario intercorrente tra le parti. La giusti-

176

ficatezza del licenziamento dipenderebbe semplicemente dalla ragionevolezza

e dalla serietà del motivo del recesso, da accertarsi secondo un equo contempe-

ramento dei contrapposti interessi.

Risulta invero consolidata, nella giurisprudenza della Suprema corte, la massi-

ma in base alla quale “fatti o condotte non integranti una giusta causa o un

giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro

subordinato, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, per cui, ai

fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, perché

apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il

datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza della fiducia e uno spazio più ampio

ai fatti idonei a scuoterla”186.

Pertanto, il licenziamento può essere adeguatamente supportato da qualsiasi

motivo, perché giustificato, vale a dire costituente la base di una decisione coe-

186 Così, Cass. 7 agosto 2004, n. 15322; negli stessi termini Cass. 11 giugno 2008, n. 15496; Cass. 19 agosto 2005, n. 17039; Cass. 17 gennaio 2005, n. 775; Cass. 20 giugno 2003, n. 9896; Cass. 13 gennaio 2003, n. 322; Cass. 8 novembre 2002, n. 15749; Cass. 8 novembre 2001, n. 13839; Cass. 12 febbraio 2000, n. 1591; Cass. 4 gennaio 2000, n. 22; Cass. 1 luglio 1999, n. 6729; Cass. 19 giugno 1999, n. 6169; Cass. 20 novembre 1998, n. 11765. In senso contrario e isolato, Cass. 3 gennaio 2005, n. 370 secondo la quale “in tema di licenziamento dei dirigenti, per quanto non possa affermarsi la che nozione di giustificato motivo di cui all’art. 3 della leg-ge n. 604 del 1966, gli elementi di tale nozione devono essere ricostruiti dal giudice di merito – sulla scorta delle specifiche espressioni letterali delle clausole contrattuali – attraverso il rife-rimento alle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo di licenziamento; in linea di princi-pio, infatti, una tale operazione ermeneutica potrebbe avere successo ove nessuna censura sia stata formulata nei confronti dell’adottata interpretazione ovvero in quanto supportata da ade-guata motivazione”.

177

rente e sorretta da motivi apprezzabili, i quali non richiedono l’analitica verifi-

ca di specifiche condizioni, ma una globale valutazione che escluda

l’arbitrarietà del licenziamento187.

5.2.- Il dirigente pubblico privatizzato e l’applicazione della tu-

tela reale.

In materia di reintegrazione del dirigente pubblico illegittimamente licenziato i

precedenti delle corti di merito sono abbastanza numerosi, e, per lo più, tendo-

no ad escludere l'applicabilità della tutela reale188.

187 Alla stregua di tale ampia nozione, la Corte di Cassazione, 3 aprile 2002, n. 4729, ha ritenu-to giustificato, in base al contratto collettivo dei dirigenti di imprese industriali, il licenziamen-to motivato con il mancato raggiungimento degli obiettivi prefigurati al momento del conferi-mento dell’incarico. Infatti, “trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale, la in-terpretazione della disposizione che prevede il canone della giustificatezza del recesso va compiuta – nell’ambito di una valutazione che, ovviamente, escluda l’arbitrarietà del licen-ziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso del datore di lavoro – attraverso la ricostruzione della volontà delle parti, le quali, in relazione al carattere fiduciario assegnato al dirigente, nonché all’ampiezza dei poteri conferitegli, ben possono attribuire rilievo decisivo, ai fini del mantenimento del rapporto, e nei limiti delle competenze affidategli, al raggiungimento di determinanti risultati minimi di produttività ovve-ro all’esito positivo di determinate operazioni finanziarie in vista delle quali il dirigente sia stato assunto, o all’attuazione di un programma di riorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione dell’impresa, o del ramo di essa, affidato al dirigente”. 188 Si vedano, ex multis, Trib. Firenze, 15 gennaio 2004, in Dir. Lav. II, 84, 2005, con nota di BOTTINO, Trib. Trapani, 26 novembre 2003, in GM, 774, 2004; Trib. Roma, 23 gennaio 2003,

178

L’ultima parola (definitiva?)189 è spettata alla Corte di Casssazione che, con la

già citata sentenza n. 2233/2007 ha esteso la tutela reale al dirigente pubblico

privatizzato illegittimamente licenziato. La Cassazione sostiene, infatti, che

l'interrogativo circa le conseguenze di un eventuale licenziamento illegittimo

vada sciolto nel senso di individuarle nel carattere reintegratorio della tutela.

A sostegno di tale conclusione, la sentenza invoca il secondo comma dell'art.

51 D.Lgs. 165/2001, che estende al pubblico impiego le norme della legge n.

300/1970, incluso l'art. 18, concernente la tutela reale del posto di lavoro: è ve-

ro che la norma non si applica ai dirigenti (privati), ma l'esclusione non può

concernere quelli pubblici, poiché, per la Corte, “il rapporto fondamentale sta-

bile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall'art. 21

D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, a quello della categoria impiegatizia”. In senso

contrario, non possono valere nemmeno le disposizioni del contratto colletti-

in GC, I, 2278, 2003; Trib. Firenze, 6 dicembre 2002, in RCDL, 759, 2003, con nota di GIAPPI-

CHELLI. Anche la giurisprudenza amministrativa ha espresso, in prevalenza, la stessa posizione: cfr. Cons. Stato, VI, 26 aprile 2000, n. 2493, in Lav. P.A., 639, 2000, con nota di MONTINI. Applicano invece la tutela reale anche ai dirigenti pubblici: Trib. Reggio Calabria, 8 novembre 2002, in Giurisprudenza di merito, 913, 2003, e, più recentemente, Trib. Napoli, Ord. 27 set-tembre 2006, in questa Lav. P.A., 1211, 2006, con nota di BOSCATI. 189 Alla sentenza n. 2233 del 2007 è subito seguita, nello stesso senso, Cass. SS.UU., 1 dicem-bre 2009, n. 25254. Da ultima Cassazione civile sez. lav., 05 gennaio 2011, n. 190: “In tema di lavoro pubblico privatizzato nel caso di licenziamento illegittimo, ai fini della liquidazione del danno, si applica l'art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300, con la conseguenza che il risarcimento del danno non incon-tra il limite delle sei mensilità retributive previste dall'art. 8 l. 15 luglio 1966 n. 604, come so-stituito dall'art. 2, comma 5, l. 11 maggio 1990 n. 108, che riguarda i soli rapporti di lavoro privato con tutela obbligatoria”

179

vo190 - che pure sembrano presupporre l'impraticabilità della tutela reale - pro-

prio perché esse non potrebbero comunque contraddire il disposto dell'art. 51

D.Lgs. n. 165/2001.

Nello stesso senso anche la Corte Costituzionale191, che ha affermato: “A diffe-

renza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento

del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore

pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente dall' incarico

e di risolvere il relativo rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti

che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere,

ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi: in par-

ticolare, ai sensi dell'art. 97 cost. contrasta con l'imparzialità amministrativa,

un regime di automatica cessazione dell' incarico che non rispetti il giusto

procedimento, mentre contrasta con il buon andamento, un sistema di automa-

tica sostituzione dei dirigenti che prescinda dall'accertamento dei risultati

conseguiti. Ne deriva, sul piano degli strumenti di tutela, che forme di ripara- 190 In dottrina, contrario ALESSANDRO BOSCATI, Licenziamento del dirigente pubblico tra dirit-to vigente e prospettive di riforma, in Lav. P.A, 6, pp. 1211 ss., 2006: ”La circostanza che la fonte collettiva disponga espressamente una tutela risarcitoria per l'ipotesi di licenziamento ingiustificato è emblematica della non applicabilità della tutela reintegratoria. Diversamente non sarebbe spiegabile in maniera ragionevole perché in presenza di un regime di tutela reale le organizzazioni sindacali rappresentative e l'Aran abbiano disciplinato una più tenue tutela risarcitoria. Né può essere considerata irrilevante la circostanza che le parti negoziali abbia-no espressamente limitato l'applicabilità della tutela reintegratoria alla prima fase di applica-zione del contratto collettivo”. 191 Corte Cost., 24 ottobre 2008, n. 351

180

zione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità

riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustifica-

tamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti

efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di

dirigenti amministrativi”.

In dottrina, invece, non si è riscontrata unanimità sulla ricostruzione operata

dalla giurisprudenza delle Magistrature Superiori, ritenendo che siano infonda-

ti, in particolare, gli argomenti su cui si fonda la pronuncia della Corte di Cas-

sazione. In primo luogo, quello fondato sull’art. 51, D.Lgs. 165/2001, “poiché

questa disposizione estende ai dipendenti pubblici la disciplina del lavoro pri-

vato, con il relativo campo di applicazione eccettuando soltanto i limiti dimen-

sionali (“numero dei dipendenti”) previsti per l’applicazione dello statuto dei

lavoratori e, quindi, tenendo fermi i limiti categoriali ovunque previsti e sul cui

presupposto indiscusso si è non a caso sviluppata tutta la contrattazione collet-

tiva per la tutela obbligatoria negoziale del dirigente pubblico ingiustificata-

mente licenziato” 192. E poi quello fondato sulla diversità della dirigenza pub-

192 ANTONIO VALLEBONA, Il licenziamento del dirigente pubblico, in Giur. It., pp. 2723-2725, 2010.

181

blica rispetto alla dirigenza privata “poiché insufficiente ad una interpretazione

creativa, consentendo soltanto la remissione alla Corte Costituzionale”193.

6.- Un caso particolare: se l’ambasciatore porta pena.

Il comma 6 dell’art. 19, D.Lgs. 165/2001 consente il conferimento di incarichi

dirigenziali, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei diri-

genti appartenenti alla prima fascia e dell’8 per cento della dotazione organica

di quelli appartenenti alla seconda fascia, a persone in possesso di particolare e

comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organi-

smi ed enti pubblici privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza

acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali o che abbiano

conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifi-

ca desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblica-

zioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso

amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in

193 Ibidem

182

posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza o che provengono da

settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli

degli avvocati e procuratori dello Stato. Per gli incarichi di segretario generale,

capo di dipartimento e di funzioni di livello generale è previsto un termine di

durata di tre anni, mentre per gli altri incarichi la durata massima è fissata in un

quinquennio194.

Proprio sulla base dell’art. 19, co. 6, D.Lgs 165/2001, il Ministro per la Pubbli-

ca Amministrazione e l’Innovazione ha conferito, in data 23 giugno 2008, ad

un soggetto esterno alla Pubblica Amministrazione l’incarico di Capo del Di-

partimento per l’innovazione e le tecnologie. Il dirigente, come risulta dalla 194 Art. 19, comma 6, D.Lgs. 165/2001, come modificato dall'articolo 40, comma 1, lettera e), del D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150: “Gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere con-feriti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della do-tazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti in-dicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli in-carichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri inca-richi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni. Tali incarichi sono conferiti, fornendo-ne esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversita-ria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai set-tori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato. Il trattamento economico può essere integrato da una indennità commi-surata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rappor-to e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze”. professionali. Per il peri-odo di durata dell'incarico, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono collocati in a-spettativa senza assegni, con riconoscimento dell'anzianità di servizio.

183

narrativa in fatto del ricorso ex art. 700 c.p.c., “ha dunque svolto l’incarico di

Capo del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie con risultati eccellen-

ti, conseguendo pienamente gli obiettivi assegnatigli, come accertato all’esito

delle procedure di “verifica e valutazione dei risultati”, di cui all’art. 21 del

CCNL dell’Area VIII per la dirigenza della Presidenza del Consiglio dei Mini-

stri in data 13 aprile 2006, anche ai fini del riconoscimento della retribuzione

di risultato”.

Tuttavia, “in data 26 marzo 2009 il quotidiano “La nuova Venezia” pubblica-

va un articolo dal titolo (“Il Centro del restauro rimane al palo”) nel quale si

alludeva a ritardi del Ministro e dei suoi uffici nella realizzazione del suddetto

Centro, ed in particolare a ritardi nell’erogazione di una somma di €

50.000,00 alla Società Arsenale di Venezia S.p.A. per la realizzazione di uno

studio di fattibilità. Lo stesso giorno, il ricorrente, alla sola presenza del Prof.

Mario Dal Co e del Dott. Vittorio Pezzuto, aveva l’ardire di mostrare il sud-

detto articolo al Ministro, il quale veniva repentinamente colto da

un’irrefrenabile irritazione che sfogava pubblicamente, e senza troppo riguar-

di, nei confronti del Dott. Torda, accusato, con toni alterati, di non averlo tem-

pestivamente informato su questione alla quale teneva moltissimo trattandosi

della sua città natale. Il malcapitato Dott. Torda tentava di spiegare al Mini-

184

stro come i presunti ritardi dipendessero unicamente dalla impossibilità giuri-

dica – originariamente non considerata affatto dal Ministro, nelle esternazioni

e promesse pubbliche, ma accertata dai tecnici del Dipartimento – di erogare

direttamente ed immediatamente una somma di € 50.00,00 ad una società per

azioni, senza espletare procedure ad evidenza pubblica. Il Ministro – interes-

sato soltanto ad una immediata smentita sul giornale - non voleva sentire ra-

gioni e troncava bruscamente la conversazione “licenziando” (nel vero senso

della parola, purtroppo) il Dott. Torda. Da quel preciso istante il Ministro non

ha considerato più il Dott. Torda come Capo del Dipartimento, pretendendone

reiteratamente le immediate dimissioni (sia pure per interposta persona), ed

ignorandolo platealmente, come se non esistesse, incurante delle conseguenze

in termini di efficienza e di immagine (anche per la stessa Amministrazione). In

particolare, da quel fatidico 26 marzo il ricorrente non è stato più invitato ai

briefing quotidiani con il Ministro e con tutti i collaboratori, convocati a Pa-

lazzo Vidoni, essendogli stato fatto pervenire il messaggio che la sua presenza

non sarebbe stata gradita. […] E così in data 10 aprile 2009 il Segretario Ge-

nerale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha trasmesso alle O-

O.SS. rappresentative, la proposta di modifica degli artt. 2l e 22 del dpcm 23

luglio 2002 (“Ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Con-

185

siglio dei Ministri”), cioè delle disposizioni relative, rispettivamente, al Dipar-

timento della Funzione Pubblica ed al Dipartimento per l’innovazione e le tec-

nologie, avviando così le procedure di consultazione sindacale previste dalla

contrattazione collettiva. Le suddette modifiche consistono nell’individuazione

di un nuovo nome per il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie (che si

chiamerà “Dipartimento per la digitalizzazione della pubblica amministrazio-

ne e l’innovazione tecnologica”) ed in una diversa articolazione delle compe-

tenze del Dipartimento stesso, rimaste sostanzialmente immutate, pur con gli

adeguamenti derivanti dal coordinamento con il d.lgs. n. 82 del 2005 (Codice

dell’amministrazione digitale), e salva l’attribuzione di funzioni di vigilanza

sull’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione istituita

dall’art. 1, comma 368, lett. d) l. n. 266 del 2005. Le “modifiche” in questione

riflettono dunque, attraverso un mero aggiornamento formale, un maquillage,

della declaratoria normativa relativa alle competenze del Dipartimento, adat-

tamenti già da tempo messi in pratica nell’attività concreta del Dipartimento

medesimo, che, ovviamente, ha tenuto conto, e si è conformato spontaneamen-

te, al quadro normativo in evoluzione (il d.lgs. n. 82 del 2005 e la l. n. 266 del

2005 erano in vigore ben prima che al ricorrente venisse conferito l’incarico

di Capo del Dipartimento!). […] Con lettera in data 14 maggio 2009 il Mini-

186

stro in persona ha comunicato al Dott. Torda che “a seguito della recente ri-

organizzazione” sarebbero “mutate in modo sostanziale” le competenze per il

Dipartimento per le innovazioni e le tecnologie e, pertanto, ai sensi dell’art.

62, comma 1 e 3 del contratto collettivo per i dirigenti della Presidenza del

Consiglio, “l’incarico di Capo del dipartimento […] deve intendersi cessato,

in conseguenza delle suddette rilevanti modifiche del suo oggetto”. Nella lette-

ra si asserisce che le “accresciute competenze” del Dipartimento includereb-

bero “specifici compiti di pianificazione, progettazione, elaborazione ed attua-

zione di interventi relativi all’innovazione” e che “tali nuovi compiti” impor-

rebbero di avvalersi “di una figura dal profilo professionale – diverso da quel-

lo della S.V. – maggiormente in possesso di specifiche competenze ed esperien-

ze professionali nel campo della programmazione economica e della valuta-

zione dei progetti di investimenti pubblici”. Il Ministro conclude dunque con

l’affermare che “l’esigenza di acquisire tale diversa professionalità mi impedi-

sce, pertanto, di confermarLa nel nuovo incarico”.

Con la memoria difensiva l’Amministrazione evidenziava che la rimozione del

dirigente dall’incarico era causata dalla sola riorganizzazione e non da un in-

tento persecutorio del Ministro e che, in ogni caso, trovandosi in presenza di un

187

incarico di natura apicale non si applicavano le garanzie previste per i dirigente

superiori.

Il Tribunale di Roma195, riconoscendo, in via preliminare, che “i provvedimenti

di revoca e di cessazione degli incarichi sono atti unilaterali che

l’Amministrazione adotta nella sua capacità di diritto privato di datore di la-

voro e, quindi soggetti al controllo del giudice ordinario”, ha ordinato la rein-

tegrazione nell’incarico dirigenziale in favore del dirigente con riferimento al

“Dipartimento per la digitalizzazione della pubblica amministrazione” sulla ba-

se dell’assunto che si deve escludere la sussistenza, in capo

all’Amministrazione Pubblica, di un potere di disporre la revoca o la cessazio-

ne dell’incarico dirigenziale sganciato da qualsivoglia procedimentalizzazione.

Nel caso di specie, Il Tribunale ha rilevato, inoltre, che “dal confronto tra le

attribuzione del “Dipartimento per la digitalizzazione della Pubblica Ammini-

strazione e l’innovazione tecnologica” e il preesistente “Dipartimento per

l’innovazione e le tecnologie” non appare dirimente, posto che il nucleo duro

delle attribuzioni del ridenominato dipartimento è comunque l’innovazione

tecnologica della Pubblica Amministrazione a mezzo dell’informatica” ed ag-

giunge che “a fronte di una valutazione assolutamente positiva da parte del

195 Tribunale di Roma, ordinanza del 15 giugno 2009, inedita a quanto consta.

188

capo del dicastero in ordine all’attività dell’odierno ricorrente per il semestre

giugno – dicembre 2008 risulta del tutto stridente l’individuazione di altro

soggetto estraneo alla Pubblica Amministrazione quale dirigente del rideno-

minato dipartimento, senza che sia in alcun modo esplicitato quali sarebbero

le note connotanti in senso sfavorevole la posizione del ricorrente con riferi-

mento ai nuovi compiti attribuiti al dipartimento”.

Nonostante la pronuncia del Tribunale, ad oggi, dopo l’ordinanza ex art. 700

c.p.c. e altre due statuizioni del giudice in procedimenti cautelari ex artt. 669

duodecies c.p.c. e 669 terdecies c.p.c., il dirigente protagonista di questa vicen-

da non è ancora rientrato in possesso del suo incarico e si trova, dopo due anni,

ad attendere la prima udienza del giudizio di merito, che ha intrapreso, pur ri-

nunciando, oramai, alla richiesta di reintegrazione nell’incarico, limitandosi al

solo profilo risarcitorio.

189

190

CONCLUSIONI

All’ultima pagina di questa tesi possiamo provare a dare, in ordine sparso, delle

risposte alle domande dell’introduzione.

Rusciano ha scritto196: “Per ora mi pare che i dati dell’esperienza dimostrino

soltanto una cosa: intorno alla dirigenza di vertice si è mosso tutto, ma sembra

continuare a stare ferma, grazie alle proverbiali resistenze al cambiamento

della burocrazia”.

E’ indubbiamente vero che la disciplina della dirigenza sia la più “ritoccata”

dalle riforme. Ma è altrettanto vero che allo spinoso problema della professio-

nalità del dirigente pubblico (che, a dirla tutta, per il legislatore italiano non e-

siste) non si è data una risposta legislativa. A “sbrogliare la matassa” ci ha pen-

sato la giurisprudenza che, dopo le prime incertezze iniziali, ha deciso per il di-

ritto alla reintegrazione a seguito di accertato provvedimento illegittimo di ri-

mozione. Anche se, quando interviene un giudice a dirimere la questione, il

rapporto di lavoro è oramai sfociato nella sua fase patologica.

Certo, alla corti italiane il merito di aver riconosciuto che il solo risarcimento

del danno non è misura adeguata a rifondere il pregiudizio subito da un diri-

196 Mario Rusciano, Contro cit.

191

genze pubblico privatizzato colpito da un provvedimento dal contenuto illegit-

timo. E di aver aperto, di conseguenza, la strada della tutela reale.

La giurisprudenza ha svolto il ruolo di garante della professionalità del dirigen-

te pubblico privatizzato (che, invece, esiste); ruolo che, nel rapporto di lavoro

tra il dirigente privato e l’imprenditore, è svolto dalle regole del libero mercato.

Oggi le conseguenze di un’attività politica che gestisca la Pubblica Ammini-

strazione in maniera spregiudicata, che ne sperperi le risorse umane (che, no-

nostante le denuncie sulla presenza dei cd. “fannulloni”, ci sono)197 ed econo-

miche non possono essere sopportate da una classe dirigenziale sfornita, per

legge, di tutele.

E anche a voler uscire dalla logica del singolo, riconducendo tutto alla colletti-

vità, si arriva alle medesime conclusioni.

Traendo ispirazione dal dettato dell’art. 97 della Costituzione, non si può fare a

meno di chiedersi come possano essere garantite l’efficienza e il buon anda-

mento della Pubblica Amministrazione se si avalla l’esistenza di un sistema

che lascia i dirigenti (colpiti da un provvedimento illegittimo e in attesa di una

pronuncia giurisdizionale) immotivati, sfiduciati, costretti ad una perdita del

bagaglio di conoscenze acquisite. 197 Per una breve elencazione si veda VITO TENORE, Noi non siamo fannulloni. Ritratti di 100 dipendenti che onorano la P.A., Dike, 2010.

192

A pagare il prezzo di una siffatta situazione non è il Ministro o l’organo politi-

co di vertice (i quali, oggi, non rispondono neanche in sede di responsabilità

politica) ma la collettività, che paga due volte: il danno emergente del risarci-

mento costretto a versare ove non si proceda alla reintegrazione e il lucro ces-

sante derivante dalla perdita di una professionalità, che, grazie al suo lavoro

migliori il funzionamento dell’apparato pubblico.

193

194

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RINGRAZIAMENTI

Sperando che nessuno se ne vergogni, perché “sono una parte di tutto ciò che ho incontrato sulla mia strada”.

Al Prof. Antonio Pileggi, per l’impegno, la dedizione e la generosità con cui interpreta il mestiere di insegnante; per il privilegio di vederlo all’opera ogni giorno. E per essere un idealista (come me!).

A Salvatore e Francesco, per avermi introdotto nel gruppo dei “carbona-ri”, così da farmi sentire accolta.

A Matteo, comunque sia finita, per gli anni che abbiamo passato assie-me.

A Silvia, per essere diventata un’amica.

A Elisa, la mia tenutaria di segreti. E un’attenta ascoltatrice.

A Marta, che mi conosce davvero.

A Francesca, mia “moglie”. Per tutti i giorni (e le notti) di studio assie-me. Per avermi preso per mano quando ne avevo bisogno. Senza di lei non sarei qui.

Ad Elena, che c’è sempre, ovunque si trovi nel mondo.

A Mattia, per avermi perdonata.

A Giuseppe e Andrea, per la sicurezza che ci saremo gli uni per gli altri.

A L., per avermi seguito da lontano così da non farmi sentire sola. Mai.

A mio Zio Silvano, che mi ha sempre (fatto sentire) protetta.

A mio padre, per avermi insegnato che si può ricominciare, sempre. A Katia, per esserci. E ad entrambi, per Matteo.

A me.