La Testimonianza Del Dichiarante Coinvolto Nel Fatto 2009
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La testimonianza del dichiarante “coinvolto nel fatto”: ambito oggettivo ed analisi tipologica alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale
della Corte di Cassazione.
• chiamate in reità, in correità ed i riscontri individualizzanti; • il testimone assistito; • la raccolta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia e la formazione del
verbale illustrativo; • le dichiarazioni oltre il termine di 180 giorni rese dai collaboratori di giustizia.
Raffaele Cantone Magistrato applicato al massimario della
Corte di Cassazione
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PREMESSA
Fino all’entrata in vigore della l. 1 marzo 2001 n. 63, normativa di modifica del c.p.p.
in attuazione del nuovo testo dell’art.111 Cost., la tematica delle dichiarazioni del
soggetto “coinvolto nel fatto” trovava la sua regolamentazione quasi completa
nell’art. 210 c.p.p., riferibile all’esame di persona imputata di procedimento connesso
o collegato (1).
Nel corso degli anni, la disciplina normativa era fatta segno di numerosi interventi
“ortopedici” soprattutto della Corte Costituzionale che, anche attraverso il suo
snaturamento, avevano inciso in maniera profonda sull’intera struttura del rito
accusatorio, ammettendo la possibilità di utilizzare, con il meccanismo della lettura-
contestazione di cui all’art. 513 c.p.p., le dichiarazioni rese da tali soggetti in fase di
indagini preliminari (2).
Sarebbe impossibile, sia pure solo per cenni, in questa sede, ripercorrere le ragioni,
spesso contingenti, che avevano portato ad uno stravolgimento di un codice
evidentemente costruito molto più pensando alla teoria che non alla concreta
celebrazione di processi, soprattutto in un contesto con una fortissima presenza della
criminalità organizzata.
E’ inequivocabile, però, che un momento di svolta si verifica nel 1999, quando il
legislatore decide di costituzionalizzare alcuni di quei principi di fondo del codice
1. L’articolo in parola si applicava, infatti, anche all’esame dell’imputato nel medesimo procedimento su fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto di delle sue precedenti dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria e ciò a seguito di C. Cost. 26 ottobre 1998, n. 361, in Foro It. 1998, I, c. 3441. 2 Ci si riferisce, in particolare, oltre alla già cit. sent. n. 361/98, a C. Cost. 3 giugno 1992, n. 254, in Giur. Cost., 1992, 1932 che dichiarò l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 513 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice sentite le parti, potesse disporre la lettura dei verbali di dichiarazioni rese dalle persone indicate nell’art. 210 c.p.p., qualora queste si fossero avvalse della facoltà di non rispondere. Il parametro costituzionale che si ritenne violato era quello dell’art. 3 della Cost.; la palese irragionevolezza, secondo la Consulta, si sarebbe manifestata “ con particolare evidenza ove si consideri la diversità di disciplina cui sono assoggettate … le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato, a seconda che nei loro confronti si proceda in un unico processo cumulativo ovvero separatamente”.
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originario nell’art. 111 neutralizzando, di fatto, gli interventi manipolatori della
Consulta (3).
E’ con l’approvazione del nuovo principio costituzionale del giusto processo diventa
indispensabile una rivisitazione di molte norme codicistiche, cosa che avviene con la
già citata l. n. 63/01.
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Con riferimento specifico alle dichiarazioni del soggetto coinvolto nel fatto, le
modifiche normative perseguono l’obiettivo di rendere compatibili due diverse
esigenze, da un lato il rispetto dell’oralità e del contraddittorio nella formazione della
prova e dall’altro quello di evitare che attraverso l’abuso del diritto al silenzio da
parte dell’imputato e delle figure affini si possano perdere elementi di conoscenza
indispensabile per il raggiungimento della verità processuale.
In quest’ottica nasce la nuova figura, del testimone assistito (definito da più autori in
modo dispregiativo “impumone”, con una parola che è la crasi fra imputato e
testimone) prevista nell’art. 197 bis c.p.p., che ha attratto in sé gran parte della
regolamentazione di situazioni originariamente rientranti nella fattispecie di cui
all’art. 210 c.p.p.
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Nel medesimo 2001, pochi giorni prima dalla l. n. 63 più volte citata, il legislatore
approvava un importante riforma (quasi una totale riscrittura) della normativa sui
collaboratori e testimoni di giustizia (la l. 13 febbraio 2001, n. 45).
In essa, accanto a disposizioni riguardanti aspetti latu sensu amministrativi della
gestione dei collaboratori, sono contenute disposizioni che attengono al regime di
3. Secondo GREVI, Processo penale, <giusto processo> e revisione costituzionale, in Cass. Pen., 1999, 3318 è indubitabile il significato polemico della legge di revisione costituzionale rispetto alle sentenze della Corte Costituzionale n. 254/92 e 361/98.
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utilizzabilità delle dichiarazioni rese dai soggetti in discussione, che hanno sollevato
polemiche ed ingenerato non pochi problemi ermeneutici
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Nel prosieguo la breve trattazione partirà dall’esame della regolamentazione delle
figure del testimone cd assistito e dell’ imputato in procedimento connesso o collegato
e si soffermerà anche sul valore processuale delle dichiarazioni dai predetti resi.
Si concluderà, con alcune notazione sul nuovo istituto del verbale illustrativo e delle
conseguenze processuali delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia oltre il
termine entro il quale il predetto deve essere redatto.
Il testimone assistito.
a) Premessa; i rapporti fra art. 197 e 197 bis c.p.p.
La figura in esame viene regolata dall’ art. 197 bis c.p.p., destinato ad individuare
soprattutto modalità e limiti dell’assunzione della testimonianza delle persone
imputate o giudicate in un procedimento connesso o collegato che assumono l’ufficio
di testimone.
Esso, però, è strettamente collegato al precedente art. 197 c.p.p., pure emendato dalla
legge n. 63/01, riguardante la disciplina dell’incompatibilità a testimoniare.
Se in quello, infatti, viene riderminato l’an della possibile testimonianza, in questo ci
si occupa del quomodo.
Dalla lettura congiunta delle due disposizioni potrà comprendersi la novità.
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b) L’incompatibilità a testimoniare prevista dall’art. 197 c.p.p.
L’articolo 197 c.p.p. nella sua stesura originaria individuava quattro deroghe al
principio della generale capacità a testimoniare, esplicitato nell’articolo
immediatamente precedente, che, volendo semplificare, rispondevano a due
esigenze di tipo diverso.
Un gruppi di casi – quelli indicati nella lett. d) – erano stati previsti in ragione di
esigenze di efficienza del sistema; gli altri - lett. a), b) e c) – in funzione di garanzia
dei soggetti ivi indicati.
Limitando l’esame alle fattispecie di cui alle lett. a) e b), si prevedeva l’impossibilità
– in ossequio al brocardo nemo tenetur se detegere - di assumere come testimoni i
coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a
norma dell’articolo 12, anche se nei loro confronti era stata pronunciata sentenza di
non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, salvo che la sentenza di
proscioglimento fosse divenuta irrevocabile (4), nonché le persone imputate di un
reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2 lett. b) (5).
L’interpretazione giurisprudenziale aveva ulteriormente ampliato l’area dei soggetti
ai quali andava riconosciuta l’ incompatibilità; dopo, infatti, qualche sporadica presa
di posizione tendente a limitarla al solo imputato, stante l’eccezionalità della norma
che impediva un’estensione analogica (6), si era giunti a ritenere che le
incompatibilità di cui alle lett. a) e b) andassero estese alle persone sottoposte ad
indagini, anche se tale qualifica i predetti avessero assunto in procedimento connesso
o collegato (7) e seppure la loro posizione era stata archiviata (8).
4 . Nessun dubbio, in giurisprudenza, che il testo della norma – ed in particolare la lett. a) - escludesse dalla possibilità di testimoniare anche coloro che erano stati condannati con sentenza irrevocabile; in questo senso Cass. sez. III, 29 novembre 1995, Varsallona, in CED Cass. , n. 203496 5 . Nel testo originario l’ipotesi di cui alla lett. b) dell’art. 371 c.p.p. si riferiva al solo caso in cui la prova di un reato o di una sua circostanza influisse sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza. 6 . Così, Cass. 28 settembre 1992, Peruzza, in Cass. pen., 1994, 1618 7 . A titolo esemplificativo Cass. sez. VI, 3 maggio 1996, Di Gioia, in CED Cass.,n. 205674 8 . In questo senso C. Cost. 18 marzo 1992, n. 989, in Giur. cost., 1992, 989.
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Vi era, quindi, una fascia particolarmente ampia di soggetti da escutere con le
garanzie di cui all’art. 210 c.p.p. ai quali, di conseguenza, andava riconosciuta la
facoltà di non rispondere alle domande poste.
Poco prima dell’entrata in vigore della l. n. 63/01, la Corte Costituzionale sembrava
aver avviato una sorta di revirement; con una sentenza interpretativa di rigetto,
occupandosi dello specifico caso dell’imputato e/o indagato di reato collegato ex art.
371 lett. b) c.p.p. aveva affermato che “l’incompatibilità sussiste soltanto nei
confronti di coloro che, e per il tempo in cui, rivestono la qualità di persone imputate
o indagate” (9).
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Su questa normativa interviene la l. n. 63/01, scegliendo una soluzione all’esito di un
lungo dibattito parlamentare (10), imperniata su due punti:
• l’incompatibilità a testimoniare di alcune categorie soggettive rimane, ma
non come assoluta nel senso che si collega più alla veste processuale assunta:
opera soltanto in alcuni casi ed in presenza di certi presupposti;
• vi è un regime diversificato a seconda della forza del legame esistente tra
soggetto e procedimento nel quale potrebbe essere chiamato a deporre; un
legame maggiormente forte (lett. a) giustifica un’ampia incompatibilità; uno
debole una minore incompatibilità (lett. b).
Dalla limitazione dell’area dell’incompatibilità deriva un rafforzamento implicito, ma
non contrario al principio di legalità, del piano del punire; quando il soggetto non più
9. così, C. Cost. 24 maggio 2000, n. 294. La decisione era molto importante anche perché escludeva nel caso in esame l’applicabilità della regola di valutazione di cui al comma 3 dell’art. 192 c.p.p. 10. Nel testo precedente a quello poi definitivamente approvato, nella camera ne era passato uno, il 6 novembre 2000, che introduceva l’inedita figura dell’imputato che, pur non potendo essere sentito come teste, ne assumeva tuttavia gli obblighi con relative sanzioni, limitatamente ai fatti concernenti la responsabilità altrui sui quali avesse liberamente scelto di deporre. Esso constava soltanto di tre lettere; le prime due prevedevano l’incompatibilità per il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (lett. a) e di coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliari (lett. b); con la terza (lett. c) si indicavano come incompatibili a testimoniare “salvo quanto previsto nell’art. 64 comma 3 lett. c), le persone imputate di procedimento connesso a norma dell’articolo 12 o per un reato collegato a norma dell’art. 371 comma 2, lett. b9, prima che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444”.
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incompatibile viene sentito come teste – o nelle indagini come persona informata sui
fatti – nei suoi confronti saranno applicabili, senza bisogno di alcuna specificazione
normativa, le norme penali di cui all’art. 372 o 371 bis c.p..
Per i coimputati nel medesimo reato o per le persone imputate in un procedimento
connesso ai sensi della lett. a) dell’art. 12 c.p.p. (11) la regola rimane quella della
incompatibilità a testimoniare che viene, però, meno quando nei loro confronti sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, di proscioglimento o di
applicazione di pena.
Secondo Cass. sez. IV, 18 febbraio 2009, n. 10346, CED Cass. n. 242981 “L'imputato in un procedimento
connesso o collegato ha piena capacità di testimoniare, qualora nei suoi confronti sia stata nel frattempo pronunciata
sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena, anche se in precedenza ha reso
dichiarazioni senza aver prima ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen.”.
La ratio della norma è chiara; l’esigenza di garanzia collegata al principio nemo
tenetur se detegere non ha più ragione di permanere quando la posizione processuale
del dichiarante non può più essere messa in discussione per essere divenuta
irrevocabile la statuizione che lo riguarda.
Proprio in relazione a tale ragione sottostanti si spiega perché in tale categoria non
rientra il caso che sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere
irrevocabile, che non godendo, ex artt. 434 e ss c.p.p., della stessa stabilità delle
pronunce dibattimentali lascia intatte le esigenze di tutela del dichiarante.
Secondo Cass. sez. I, 17 gennaio 2004, n. 46966, CED Cass. n. 231184 “non può essere sentito quale testimone
l'imputato in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, o di reato collegato a norma dell'art. 371, comma secondo lett b),
del codice di procedura penale, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza non impugnabile di non luogo a procedere,
indipendentemente dalle ragioni del proscioglimento, posto che detta sentenza è sempre formalmente revocabile. (Fattispecie
in cui si era invocata, a sostegno dell'obbligo di testimonianza, una pretesa irrevocabilità "sostanziale" della sentenza di
non luogo a procedere pronunciata a favore degli imputati in procedimento connesso).”
11. Quando cioè il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento
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La preoccupazione del legislatore sul punto è, forse, eccessiva perché non tiene conto
del fatto che comunque le dichiarazioni rilasciate dal coimputato in qualità di teste
non potranno mai essere utilizzate contro di lui.
Pur in assenza di indicazioni legislative, che forse sul punto sarebbero state
opportune, anche il coindagato nel medesimo reato o in quello connesso ex lett. a) art.
12 c.p.p. la cui posizione sia stata archiviata conserva il privilegio
dell’incompatibilità a testimoniare.
Secondo Cass. sez. II, 10 aprile 10 aprile 2008, n. 26819, CED Cass. n. 240946 “L'indagato in un
procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen. o per un reato collegato ex art. 371, comma secondo, lettera b),
cod. proc. pen., la cui posizione sia stata definita con archiviazione, può assumere l'ufficio di testimone in ordine ai fatti
riguardanti l'altrui responsabilità, sempre che abbia ricevuto l'avvertimento preliminare alle dichiarazioni accusatorie circa
la conseguente doverosa assunzione dell'ufficio di testimone e sempre che non abbia ritenuto di avvalersi della facoltà di non
rispondere. (La Corte ha precisato che, in mancanza dell'avvertimento di cui all'art. 64, comma terzo, lettera c), cod. proc.
pen., le dichiarazioni eventualmente rese in ordine all'altrui responsabilità sono inutilizzabili nei confronti del soggetto
accusato)”
La nuova lettera b) dell’art. 197 c.p.p. restringe significativamente l’ambito
dell’incompatibilità delle altre figure di possibili dichiaranti, lasciandola per ipotesi
del tutto marginali, individuabili sostanzialmente per esclusione; in particolare per gli
imputati di procedimento connesso ex art. 12 lett. c) (12) o di procedimento collegato
ex art. 371 comma II lett. b) (13) non opera l’incompatibilità:
• quando le predette categorie soggettive, sottoposte ad interrogatorio - dal p.m,
dal Gip, dal Gup o dalla p.g. su delega del p.m. -, ed avvisate delle
conseguenze che potranno derivare se renderanno dichiarazioni su fatti
concernenti la responsabilità di terzi abbiano risposto alle domande;
12. Fattispecie che si verifica se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri. L’articolo 197 c.p.p. non cita affatto l’ipotesi della connessione di cui alla lett. b) dell’art. 12 che per riguardare il caso del reato commesso dalla medesima persona non ha incidenza per il tema in esame. 13. Fattispecie che si verifica se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza. La categoria del reato collegato, ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., si è notevolmente ampliata rispetto al passato; in essa sono stati inseriti quei casi di connessione che prima della l. n. 63/01 rientravano nell’art. 12 lett. c) c.p.p., ed è stato anche inserito ex novo il caso, prima regolato nella lett. a) del medesimo comma 2 dell’art. 371 c.p.p., dei reati commessi in danno reciproco gli uni degli altri.
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• quando, indipendentemente dal fatto di essere stati interrogati, nei loro
confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di
condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
Su come e da chi debbano essere valutati i presupposti per rivestire la qualifica di
imputato di procedimento connesso e/o collegato la giurisprudenza non appare aver
assunto una posizione conforme, apparendo però prevalente la posizione secondo cui
è solo il p.m. a poter attribuire la qualità in questione e non potendo il giudice farlo
autonomamente; così, esemplificativamente, Cass. sez. V. 4 novembre 2008, n. 43232, CED Cass.
n. 241942 secondo cui “Il divieto di utilizzazione nei confronti di terzi di dichiarazioni rese da persona che avrebbe
dovuto essere sentita in qualità di indagata, non attiene alle dichiarazioni rese al giudice da soggetto che mai abbia a ssunto
la qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini. (In motivazione, la S.C. ha rilevato che, a differenza del
pubblico ministero, il giudice non può attribuire ad alcuno, di propria iniziativa, la qualità di imputato o di persona
sottoposta ad indagini, dovendo solo verificare che essa non sia già stata formalmente assunta, sussistendo in tal caso
l'incompatibilità con l'ufficio di testimone; pertanto il riferimento alla posizione sostanziale del dichiarante non esaurisce la
verifica dei presupposti di applicabilità dell'art. 63 cod. proc. pen., verifica che si estende alla necessità della successiva
formale instaurazione del procedimento a suo carico).”( 14); a diverse conclusioni, però, Cass. sez. IV, 10
dicembre 2003, n. 4867, CED Cass. n. 229377, per la quale: “Le dichiarazioni della persona che fin dall'inizio
avrebbe dovuto essere sentita nella qualità di indagata sono inutilizzabili "erga omnes" e la verifica della sussistenza di
tale qualità va condotta non secondo un criterio formale (esistenza di "notizia criminis", iscrizione nel registro degli
indagati) ma secondo il criterio sostanziale della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto in base alla situazione
esistente nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese (affermazione resa in fattispecie nella quale la S.C. ha
annullato con rinvio la sentenza fondata sulle testimonianze rese da due vigili urbani nell'ambito di un procedimento ex
art. 590 cod. pen., successivamente rinviati a giudizio per cooperazione colposa nello stesso reato, ritenute utilizzabili dalla
Corte di appello in assenza di una previa imputazione formale)” (15).
La ratio dell’intervento normativo è chiara; nel primo caso l’interrogando viene
avvisato delle conseguenze del suo agire e se decide di rendere dichiarazioni erga
alios è come se rinunciasse alla facoltà riconosciutagli per legge di non rispondere
(applicazione del principio electa una via, non datur recursus ad alteram); nel
14. Negli stessi termini, si v. Cass. sez. II, 21 settembre 2007, n. 38858, CED Cass. n. 238218; Cass. sez. II, 14 ottobre 2003, n. 47088, CED Cass. n. 227730; Cass. sez. V, 28 gennaio 2003, n. 9079, CED Cass. n. 224151 15 . In termini anche Cass. sez, VI, 11 maggio 2000, n. 6605, CED Cass. n. 217556.
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secondo sono venute meno le esigenze di tutelare il suo diritto al silenzio essendo
stata pronunciata nei confronti della sua posizione processuale una decisione con
caratteri di irrevocabilità.
Alla luce delle considerazioni fatte con riferimento alla nuova lett. a) dell’art. 197
c.p.p., non potrebbe comunque acquisire la qualità di teste colui la cui regiudicanda
sia stata definita con sentenza di non luogo a procedere o con decreto di
archiviazione.
c) La figura del teste assistito nell’art. 197 bis c.p.p..
Il primo ed il secondo comma dell’articolo 197 bis non fanno che ribadire i principi
già espressi nelle lett. a) e b) dell’art. 197, indicando quando le persone imputate (o
indagate) di un procedimento connesso o collegato possano assumere la qualità di
testimone e cioè quando nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile
di proscioglimento, di condanna o di applicazione di pena o, pure prima di tale
momento – limitatamente, però, al caso dell’imputato di procedimento connesso ex
lett. c) dell’art. 12 o di reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) - quando abbiano
accettato di rispondere, in sede di interrogatorio in seguito all’avviso di cui all’art. 64
lett. c) c.p.p., alle domande sulla responsabilità di terzi.
Con riferimento al caso dell’imputato di processo collegato per ragioni probatorie si segnala Cass. sez.
V, 20 maggio 2009, n. 31170, CED Cass. n. 244491 secondo cui “In tema di incompatibilità a testimoniare, il
collegamento probatorio di cui all'art. 371, comma secondo, lett. b) cod. proc. pen., che determina l'incompatibilità con
l'ufficio di testimone di cui all'art. 197, comma primo, lett. b) cod. proc. pen., deve riferirsi ad elementi oggettivi di modo
che l'accertamento di un reato sia destinato ad influire su quello degli altri; essa, pertanto, non può discendere dal solo
stato di imputato di un reato in danno della persona nei confronti della quale si procede, essendo ravvisabile soltanto in
costanza di un diretto e concreto rapporto di connessione probatoria tra il processo in trattazione e il procedimento in cui il
dichiarante è stato o è sottoposto, ossia allorquando il collegamento probatorio tra i procedimenti sia oggettivamente fondato
sull'identità del fatto ovvero sull'identità o sulla diretta rilevanza di uno degli elementi di prova dei reati oggetto dei
procedimenti stessi.
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Malgrado la lettera dell’art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p., contenga il riferimento ai
reati commessi da più persone in danno reciproco, in giurisprudenza è controversa la
veste in cui escutere i soggetti che possano assumere in astratto la veste di imputati e
di parte offesa con riferimento allo stesso fatto criminoso.
Vi è, infatti, un orientamento numericamente maggioritario che continua a sostenere
che in tale situazione il soggetto debba escusso come teste ordinario e tale opzione
viene di fatto giustificata per evitare che denunce strumentali contro la persona
offesa, eventualmente per calunnia, possano far scattare il regime di utilizzazione
delle dichiarazioni di cui al comma 3 dell’art. 192 c.p.p..
Per la tesi secondo cui in questi casi il soggetto andrebbe sentito come testimone assistito si v. Cass.
sez. VI, 28 maggio 2009, n. 32841, CED Cass. n. 244448 secondo cui “È incompatibile con l'ufficio di
testimone la persona, già denunciata per la commissione di un fatto reato, che venga esaminata, su tale fatto, come persona
offesa nel procedimento di calunnia nei confronti del proprio accusatore dovendo essa assumere, in relazione al collegamento
probatorio tra i due reati, la veste di imputato di reato connesso o, ricorrendone le condizioni, di testimone assistito”.
Cass. sez. V, 25 settembre 2007, n. 39050, CED Cass. n. 238188 secondo cui «L'imputato di reato
"reciproco", non ancora definitivamente giudicato, che renda dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri,
assume, in base all'art. 197 bis cod. proc. pen., la veste di testimone assistito sicchè, qualora egli sia sentito come testimone
senza le garanzie previste da tale norma, dette dichiarazioni non sono utilizzabili ex art. 64 comma terzo bis c.p.p..”.
A diverse conclusioni, invece, giungono Cass. sez. VI, 29 ottobre 2008, n. 1871, CED Cass, n. 242638,
secondo cui “Quando in capo al soggetto che debba rendere dichiarazioni in qualità di persona offesa, tale condizione
concorra con quella di imputato dello stesso reato o di reato connesso o collegato, la qualità di testimone prevale per la sua
maggiore pregnanza, sicchè il soggetto deve essere esaminato in tale veste, con l'obbligo di rispondere secondo verità alle
domande che gli sono rivolte. (Fattispecie in tema di calunnia); Cass. sez. III, 15 ottobre 2007, n. 357, CED Cass.
n. 238696 secondo cui “Quando in capo al soggetto che debba rendere dichiarazioni in qualità di persona offesa, tale
condizione concorra con quella di imputato dello stesso reato o di reato connesso o collegato, la qualità di testimone prevale
per la sua maggiore pregnanza, sicché il soggetto deve essere esaminato in tale veste, con l'obbligo di rispondere secondo
verità alle domande che gli sono rivolte; Cass. sez. fer. 22 luglio 2004, n. 33312, CED Cass. n. 229953,
secondo cui “Quando in capo al soggetto che debba rendere dichiarazioni in qualità di persona offesa,tale condizione
concorra con quella di imputato dello stesso reato o di reato connesso o collegato, la qualità di testimone è destinata a
prevalere per la sua maggiore pregnanza, sicchè il soggetto deve essere esaminato in tale veste, con l'obbligo di rispondere
secondo verità alle domande che gli sono rivolte. (Fattispecie in cui la persona assunta come testimone nel processo per il
reato di lesioni ai propri danni, era anche imputata in procedimento per reato di lesioni consumato in danno reciproco col
12
denunciato. La Corte ha formulato il principio, precisando che deve essere fatto salvo il disposto dell'art. 197 comma
primo lett. a) cod. proc. pen.).
****
Con il comma terzo si introduce una prima peculiarità di questa forma di
testimonianza e cioè la necessità che il dichiarante sia assistito da difensore di
fiducia, o in mancanza da quello di ufficio, ciò perché il soggetto chiamato a rendere
dichiarazioni, comunque, ha una posizione sostanziale diversa da quella del testimone
pure, che può abbisognare dell’apporto tecnico del patrocinatore, apporto necessario,
in quanto, secondo il comma 4 del medesimo art. 197 bis c.p.p., esistono limiti al
contenuto del deporre, per interloquire eventualmente sui quali può essere necessaria
una specifica competenza tecnica. (16)
Nel 2006, la Corte Costituzione ha, però, ritenuto costituzionalmente illegittimo, per
contrasto con l’art. 3, l’art. 197 bis, commi 3 e 6 nella parte in cui prevedono
rispettivamente e l’assistenza del difensore e l’applicazione delle disposizioni di cui
all’art. 192 comma 3 del medesimo codice anche per le dichiarazioni rese dalle
persone indicate dal comma 1 dell’art. 197 bis c.p.p. nei confronti dei quali sia stata
pronunciata sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto irrevocabile (17).
La Corte ha, in pratica, considerato irragionevole assoggettare alla regola della
corroboration e munire dell’assistenza difensiva le dichiarazioni rese da chi – già
imputato di reato connesso o collegato a quello per il quale si procede – è stato
assolto con sentenza irrevocabile, per non aver commesso il fatto, essendosi nei suoi
confronti acclarata in via definitiva l’inesistenza di qualsiasi correlazione con il fatto
oggetto della vicenda processuale oggetto della testimonianza.
16. Secondo Cass. sez. IV, 11 giugno 2008, n. 22139, CED Cass. n. 240898 il testimone assistito non potrà beneficiare del patrocinio a spese dello stato. 17. C. Cost. 8 novembre 2006, n. 381, Cass. pen. 2007, p. 486 con nota critica di Di Bitonto, La Corte Costituzionale riapre il dibattito sulla testimonianza assistita; secondo l’autrice la Corte avrebbe introdotto una nuova figura di dichiarante distinta sia dal testimone, in ragione dell’applicabilità del regime di cui all’art. 197 bis c.p.p., sia dal testimone assistito tradizionale, in ragione dell’inapplicabilità dell’assistenza difensiva e del criterio valutativo di cui all’art. 193 comma 3 c.p.p..
13
Nel quarto comma vengono indicate quelle situazioni nelle quali, pur mantenendosi
la qualifica di teste nel dichiarante, la posizione sostanziale sottostante di imputato in
altro procedimento impone correttivi che vanno ad incidere sui limiti della
deposizione, limiti che si aggiungono a quelli già previsti nell’art. 194
(l’impossibilità di deporre sulla moralità dell’imputato o sulle voci correnti nel
pubblico) o nell’art. 198 (l’impossibilità di deporre su fatti da cui potrebbe emergere
una responsabilità penale del dichiarante).
Nel caso in esame, però a differenza di quelle da ultimo ricordate non vi è
un’impossibilità oggettiva a deporre, ma un’impossibilità relativa nel senso che il
teste non può essere obbligato a rispondere (rectius sul punto si riespande il suo
diritto affievolito a tacere) ma ben potrebbe di farlo.
I limiti a deporre, inoltre, sono costruiti in modo diversificato a seconda della
tipologia del teste-già-imputato.
Se questi viene chiamato a testimoniare dopo che nei suoi confronti è stata
pronunciata una di quelle decisioni irrevocabili di cui si è detto, non può essere
obbligato a deporre su fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di
condanna - il riferimento testuale esclude che si possa tener conto di una pronuncia di
patteggiamento, in quanto non è pronunciata a seguito di giudizio, o di
proscioglimento - se nel procedimento aveva negato la propria responsabilità o non
aveva reso dichiarazioni.
La Corte Costituzionale è intervenuta sul punto dichiarando infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 197 bis, comma 4, c.p.p. sollevata, in riferimento
agli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non prevede che il testimone non possa essere
obbligato a deporre per fatti per i quali è stata pronunciata nei suoi confronti sentenza
di applicazione di pena, se nel procedimento egli aveva negato la propria
responsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione.
La Corte, dopo aver sottolineato le differenze che caratterizzano la posizione
dell’imputato dichiarante a seconda che si versi nel procedimento ordinario o in
14
quello di patteggiamento, ha rilevato che l’imputato, nell’optare per il rito alternativo,
è posto ex ante nella condizione di apprezzare le conseguenze che scaturiscono da
tale scelta, tra le quali, appunto, anche quella di non essere esonerato dal deporre
come teste in altri processi, anche se strettamente collegati a quello per il quale ha
subito l’applicazione di pena (18).
La ratio è della norma è che non si può imporre al soggetto una scelta contraria a
quella fatta nel proprio procedimento; l’indiscriminato riconoscimento della veste di
testimone avrebbe potuto comportare, in alcuni casi, persino una sorta di obbligo di
“confessare” le proprie responsabilità, in contrasto con il principio nemo tenetur se
detegere.
Se il soggetto, invece, viene sentito in quanto nel suo interrogatorio aveva accettato
di parlare della responsabilità dei terzi, non può essere, comunque, obbligato a riferire
fatti che concernono la propria responsabilità, in ordine al reato per cui si procede o si
è già proceduto (19).
Viene, quindi, riconosciuto al dichiarante un privilege against self-incrimination.
Se in astratto quest’ultima regola non appare creare particolari problemi ermeneutici
è fin troppo semplice pronosticare come nella pratica sarà, spesso, difficile discernere
quando la dichiarazione debba considerarsi in tutto o in parte contra se.
Il comma 5 dell’art. 197 bis contiene una regola di inutilizzabilità soggettiva: le
dichiarazioni non sono utilizzabili non solo nel procedimento a carico di chi le ha
rese ma anche in quello di revisione della sentenza di condanna e persino nei giudizi
civili o amministrativi relativi al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze
suddette.
18. C. cost. 13 dicembre 2007, n. 456, in Cass. pen. 2008, 1833, che 19. L’articolo 197 bis c.p.p. sembra costruito tenendo conto che la testimonianza davanti al giudice sia resa in un procedimento separato anche se connesso o collegato. Non è esclusa, però, la possibilità di una testimonianza nel medesimo procedimento, quando ne sia stata disposta la riunione ai sensi dell’articolo 17 c.p.p.. In tal caso il soggetto potrà rivestire nello stesso contesto la veste di imputato e di teste.
15
Il disposto completa la regola contenuta nel comma precedente; ogni dichiarazione
imposta al teste su temi in ordine ai quali aveva diritto di tacere è inutilizzabile,
mentre tutto ciò che egli abbia liberamente dichiarato sarà valutabile in chiave
probatoria nei riguardi di altro soggetto, ma inutilizzabile contra se.
Solo prima facie questa affermazione è inconciliabile con l’avvertimento, ex art. 64
comma 3 lett. a), c.p.p., fatto all’imputato secondo cui le sue dichiarazioni potranno
sempre essere utilizzate nei suoi confronti.
Le due previsioni hanno un diverso ambito operativo; la prima (quella del comma V
dell’art. 197 bis c.p.p.) riguarderà il caso dell’imputato assunto come teste su un reato
connesso o collegato; l’altra il medesimo soggetto, ma in quanto interrogato o
esaminato nella sua specifica veste di imputato (20).
Secondo la dottrina anche all’imputato assolto per non aver commesso il fatto, al
quale non si applicano per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 381/06
l’assistenza difensiva ed criterio valutativo di cui all’art. 192 comma 3 c.p.p.,
sarebbe, invece, applicabile la garanzia di cui all’art. 197 bis, comma 5, c.p.p. (21).
L’imputato in procedimento connesso.
Nel previgente primo comma dell’articolo 210 c.p.p. veniva genericamente stabilito
che le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12, nei
confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente, sono esaminate a
richiesta di parte, ovvero, nel caso indicato nell’articolo 195 c.p.p., anche di ufficio.
La disposizione, quindi, riguardava allo stesso modo tutti i soggetti imputati – e
grazie all’estensione di cui all’art. 61 c.p.p. anche quelli soltanto sottoposti ad
20 . Per questa considerazione, Ferrua, La dialettica Camera-Senato, cit., 82. 21. Cordì, Il regime delle dichiarazioni testimoniali rese dall’imputato in procedimento connesso o per reato collegato assolto per non aver commesso il fatto, in Foro it. 2007, I, c. 2025 e Conti, Imputato assolto per non aver commesso il fatto: deve essere equiparato al testimone comune, in Dir. pen. e proc., 2007, p. 321.
16
indagine (22) – in procedimento connesso, indipendentemente da quella che fosse la
ragione della connessione.
In virtù, poi, del comma 6 del medesimo art. 210 c.p.p. l’intera regolamentazione e le
connesse guarentigie erano estese anche alle persone imputate – e per la stessa
ragione di cui sopra anche a quelle soltanto sottoposte ad indagini – in procedimento
collegato ai sensi dell’art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p. che nel testo originario si
riferiva alla sola connessione probatoria.
Il nuovo testo chiarisce, con quello che è il nuovo comma 1, frutto di due
interpolazioni, che la disciplina in discussione si applica soltanto agli imputati - e/o
indagati – di procedimento connesso ai sensi della lett. a) dell’art. 12 c.p.p. e, sempre
che costoro non possano assumere l’ufficio di testimone (perché, ad esempio, è
intervenuta una di quelle decisioni irrevocabili che comportano il mutamento della
veste processuale).
Nel comma 6, integralmente riscritto, si regola il caso che deve essere escusso un
soggetto imputato e/o indagato di procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 comma
1, lett. c) c.p.p. o di procedimento collegato a norma dell’art. 371 comma 2 lett. b)
c.p.p., quando costui non ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la
responsabilità dell’imputato.
L’ipotesi si attaglia non soltanto al caso del soggetto mai sentito – nelle indagini o,
anche, in altro dibattimento - sulla responsabilità di terzi ma anche a quello di colui
che precedentemente escusso – ed evidentemente avvisato dei suoi obblighi ex art. 64
c. III lett. c) - non aveva voluto rendere dichiarazioni sulla responsabilità
dell’imputato e che, malgrado ciò, sia stato ricitato in dibattimento.
A questi soggetti viene preventivamente dato l’avviso previsto dall’articolo 64 c. 3
lett. c) c.p.p..
Se dichiarano di voler rispondere alle domande sull’altrui responsabilità muta, in
relazione a questa sola disponibilità, la loro veste giuridica.
22 . Pacifico in giurisprudenza che il regime dell’art. 210 c.p.p. dovesse applicarsi anche agli indagati; in questo senso, a titolo puramente esemplificativo, Cass. sez. III, 9 giugno 1995, Osmani, in Ced Cass., n. 202313.
17
Essi, infatti, diventano da quel momento testimoni, tanto che, vengono invitati – il
dato si comprende chiaramente dal richiamo nel nuovo sesto comma dell’art. 210
c.p.p. all’art. 497 c.p.p. - a leggere la formula del giuramento, tipica di ogni esame
testimoniale.
Ai predetti soggetti si applicano, però, le disposizioni previste dall’ art. 197 bis c.p.p..
Ne deriva che essi avranno facoltà di farsi assistere da difensore di fiducia o
in mancanza da quello designato di ufficio; non potranno essere obbligati a deporre
su fatti che concernono la propria responsabilità; godranno di quella garanzia
secondo cui le dichiarazioni eventualmente rese contra se saranno inutilizzabili.
Nessuna regola è dettata per il caso in cui, nel corso del medesimo dibattimento, gli
stessi imputati rendano o intendano rendere per la prima volta dichiarazioni erga
alios.
La lacuna deve essere colmata in via interpretativa con l’applicazione dell’articolo 64
c.p.p.; il giudice, prima che abbia inizio l’esame, provvederà ad avvertire l’imputato
che, se renderà dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, potrà
assumere nei limiti dell’art. 197 bis c.p.p., limitatamente a tali fatti, l’ufficio di
testimone (23).
Valore processuale della testimonianza assistita e delle dichiarazioni
dell’ imputato di procedimento connesso.
Le dichiarazioni rese sia dall’imputato di procedimento connesso che dal teste
assistito vanno valutate secondo il criterio indicato dall’art. 192, comma 3 c.p.p. e
quindi “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”; il
comma 6 dell’art. 197 bis c.p.p. è opportunamente esplicito a favore di questa
opzione
23. Si v. C. Cost. 23 maggio 2003, n. 191 che, con sentenza interpretativa di rigetto, ha ritenuto che anche nel caso dell’esame dell’imputato ex art. 208 c.p.p. debba applicarsi la disciplina degli avvisi prevista dall’art. 64 c. 3 c.p.p., e ciò in quanto sia l’interrogatorio che l’esame sono atti appartenenti ad un medesimo genus.
18
Il principio vale indiscriminatamente sia per l’ipotesi che nei confronti del soggetto
sia intervenuta sentenza irrevocabile – tranne che questa sia di assoluzione per non
aver commesso il fatto - sia nell’ipotesi contraria e sia nei confronti dell’imputato di
reato connesso che di quello collegato (24).
La qualità di testimone assunta dall’imputato, quindi, nulla aggiunge, sul piano dei
criteri legali, al valore delle sue dichiarazioni; naturalmente non si può escludere che,
nel rispetto di quei criteri, il giudice possa orientare la sua valutazione di attendibilità
anche in funzione della circostanza che la dichiarazione sia stata resa o meno nella
veste di testimone.
Secondo una parte della dottrina, però, l’equiparazione legislativa del valore delle
dichiarazioni del teste assistito e dell’imputato di procedimento connesso lascia
perplessi perché si tratta di una regola che limita il principio del libero convincimento
del giudice ed è fondata sulla presunzione di una minorata attendibilità del
dichiarante, presunzione discutibile rispetto a soggetti a cui formalmente viene
attribuita la qualifica di testimone25.
Sull’argomento, però, si è anche pronunciata la Corte Costituzionale che ha
dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale,
sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. dell'art. 197-bis, comma 6, del codice di
procedura penale, nella parte in cui prevede che alle dichiarazioni rese dalle persone
che assumono l'ufficio di testimone si applichi la disposizione di cui all'art. 192,
comma 3, c.p.p..
Secondo la Consulta, infatti, non è ravvisabile un’equivalenza di posizione tra il
"testimone assistito" e quello cd ordinario, essendo, il primo, una figura
significativamente differenziata sul piano del trattamento normativo, per cui
l'assoggettamento delle dichiarazioni del "teste assistito" alla regola della necessaria
"corroborazione" con riscontri esterni, di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. si risolve in
24 . Sul punto va ricordato che secondo C. Cost. 25 maggio 2000 n. 249 cit. - pronuncia da ritenersi ormai superata - nel caso di imputato o indagato di procedimento collegato la cui posizione era stata definita con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere irrevocabile non doveva ritenersi applicabile l’art. 192 comma 3 c.p.p. 25. Così, CONSO-GREVI,Compendio di procedura penale, Padova, 2008, p. 331
19
un esercizio della discrezionalità che compete al legislatore nella conformazione
degli istituti processuali (26).
Il vaglio delle dichiarazioni rese dal soggetto coinvolto nel fatto.
Si è già accennato come sia alle dichiarazioni rese dal testimone assistito sia a quelle
rese dall’imputato in procedimento connesso risulti applicabile la regola prevista
nell’art. 192 c. III c.p.p. .
Ha soprattutto rilevanza teorica la disputa sulla qualificazione delle dichiarazioni in
parola come indizio o come prova; la giurisprudenza dominante propende èper la
qualificazione in termini di prova; così Cass. sez. un. 6 dicembre 1991, n. 1048, Scala, CED
Cass. n. 189182 secondo cui “L'art 192, comma 3 e 4, del Codice di procedura penale non ha svalutato sul piano
probatorio le dichiarazioni rese dal coimputato di un medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso
ex art. 12 Cod. proc. pen. o di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall'art. 371, comma 2,
lett.B) Cod. proc. pen. perché ha riconosciuto a tali dichiarazioni valore di prova e non di mero indizio e ha stabilito che
esse debbano trovare riscontro in altri elementi o dati probatori che possono essere di qualsiasi tipo o natura” (27) per la
qualificazione in termini di indizio si v., invece, Cass. sez. V, 9 ottobre 1996, n. 4144, CED Cass. n.
206338 secondo cui “Per la chiamata in correità, che è per se stessa un indizio e che acquista il connotato di gravità
attraverso il giudizio di affidabilità, è sufficiente che l'attendibilità intrinseca sia apprezzata con riferimento alla
personalità delinquenziale del soggetto ed alla completezza, precisione coerenza interna, ragionevolezza dell'accusa e grado
di interesse alla stessa, e che l'attendibilità estrinseca sia verificata, nella prospettazione positiva, con elementi logici o
rappresentativi e non necessariamente oggettivi e individualizzanti e, per la prospettazione negativa, con l'accertamento
dell'inesistenza di elementi processuali incompatibili o soltanto contrastanti con l'accusa. Per la dichiarazione indiretta,
invece, che indizio diventa soltanto con il giudizio di attendibilità, è necessaria, per la sua composita natura, una duplice
rigorosa verifica, intrinseca ed estrinseca, una relativa alla credibilità della fonte primaria - il confidente - l'altra relativa
alla fonte secondaria - il dichiarante. L'accusa "de relato" abbisogna, quindi, non di un riscontro generico ma di un "quid
pluris" più specifico e qualificante, più incisivo ed esterno, che, per qualità e quantità, specificità e correttezza, rappresenti,
se non un inizio di prova individualizzante, almeno una verifica certa ed esterna dell'effettività, se non veridicità
sostanziale della confidenza”.
Il punto realmente importante riguarda la natura e l’oggetto dei riscontri.
26 . C. cost. 8 luglio 2004, n. 265, in Arch. n. proc. pen., 2005, p. 135. 27. Alle stesse conclusioni, ex plurimis, Cass. sez. I, 13 ottobre 1995, n. 11265, CED Cass. n. 202851 e Cass. sez. V, 15 giugno 2000, n. 9001, CED Cass. n. 217728.
20
La Cassazione ha nel corso degli anni elaborato un vero e proprio vademecum per il
giudice di merito a cui spetta il compito del vaglio delle dichiarazioni dei soggetti in
esame; lo ha fatto, soprattutto, riferendosi alle propalazioni dei collaboratori di
giustizia ma con affermazioni suscettibili di valere per ogni genere di dichiarazioni
per le quali sia applicabile il secondo cpv dell’art. 192 c.p.p..
****
La giurisprudenza ha individuato una serie di passaggi da effettuarsi da parte del
giudice secondo una logica scansione temporale.
Il primo aspetto da affrontare è quello della credibilità del dichiarante, che va
vagliata in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-
economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla
genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei
coautori e complici.
Superato questo primo “scoglio”, dovrà essere testata l'intrinseca consistenza e le
caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali quelli
della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità.
Infine, dovrà esaminare i riscontri cosiddetti esterni.
Si tratta di un ordine logico che deve essere rispettato, perché non si può procedere ad
una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli "altri elementi di prova che
ne confermano l'attendibilità" se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si
addensano sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni
ad essa.
In questo senso si v., ex plurimis, Cass. sez. V, 18 gennaio 2000, Orlando, n. 4888, CED Cass n. 216047
secondo cui “In tema di valutazione della prova, la chiamata di correo ha valore di prova diretta contro l'accusato, in
presenza di tre requisiti, che devono in concreto essere accertati dal giudice di merito e che consistono: a) nell'attendibilità
del dichiarante (confitente e accusatore), valutata in base a dati e circostanze attinenti direttamente alla sua persona, quali
il carattere, il temperamento, la vita anteatta, i rapporti con l'accusato, la genesi e i motivi della chiamata di correo; b)
nell'attendibilità intrinseca della chiamata di correo, desunta da dati specifici e non esterni ad essa, quali la spontaneità, la
21
verosimiglianza, la precisione, la completezza della narrazione dei fatti, la concordanza tra le dichiarazioni rese in tempi
diversi, ed altri dello stesso tenore; c) nell'esistenza di riscontri esterni, ovvero di elementi di prova estrinseci, da valutare
congiuntamente alla chiamata di correo, per confermare l'attendibilità, al cui esame, peraltro non si può procedere, se
persistono dubbi sulla credibilità del dichiarante o sull'attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. (In ordine al
riscontro esterno la Corte ha precisato che esso ha solo la funzione di confermare l'attendibilità intrinseca e la credibilità
soggettiva del dichiarante, per cui gli elementi di prova utilizzati a questo scopo possono essere di qualsiasi tipo e natura,
sia rappresentativi che logici, purché idonei a quella funzione, e non è necessario che concernano in modo diretto il "thema
probandum", e tanto meno che consistono in prove autonome della colpevolezza).” (28).
****
Sul tema del vaglio di attendibilità del chiamante in correità, la giurisprudenza ha
affermato che il giudice senza abdicare a tale sua funzione, può però giovarsi
dell’analoga operazione effettuata in altri procedimenti. E’ un’affermazione
importante ed utile soprattutto per i processi in materia di criminalità organizzata,
dove i collaboratori di giustizia vengono escussi fisiologicamente in molte occasioni;
in questo senso Cass. sez. V, 2 ottobre 1995, n. 11084, Alfano, CED Cass. n. 203048 ha affermato che
“In tema di chiamata in correità, allorquando il giudice del merito è chiamato a valutare l'attendibilità intrinseca di un
collaborante, già ritenuto attendibile in altro procedimento definito con provvedimento irrevocabile, tale apprezzamento, pur
rimesso alla libera determinazione del giudicante, non può prescindere dagli elementi di prova già utilizzati nel
procedimento esaurito. (Fattispecie relativa al delitto ex art 416 bis cod. pen.).
****
Ma è soprattutto sul tema “incandescente” dei riscontri che si è formata una
significativa ed utile casistica, che si riporterà senza alcuna pretesa di completezza,
perché la materia è in continuo divenire.
E’ affermazione pacifica che il riscontro necessario può essere desunto da elementi
di qualsiasi tipo o natura, sia rappresentativi che logici i quali – è bene ricordarlo -
non devono consistere in una prova autonoma di colpevolezza. 28. Negli stessi termini anche Cass. sez. Un. 21 ottobre 1992, n. 1653, Marino, in Cass. pen. 1993, 1939 e Cass. sez. II, 12 dicembre 2002, Contrada, CED Cass. n. 225565.
22
Secondo Cass. sez. VI, 17 febbraio 1996, Carboni, CED Cass. n. 204439, “ I riscontri esterni possono essere
sia rappresentativi che logici, purché dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente
dedotti dall'imputato. Si è inoltre chiarito che essi non debbono consistere ne' in una prova autonoma della colpevolezza
del chiamato, il che renderebbe superflua la chiamata in correità, ne' necessariamente concernere in modo diretto il "thema
probandum", essendo invece sufficiente che gli stessi si risolvano in una conferma anche indiretta delle dichiarazioni
accusatorie, la quale però consenta, per la sua consistenza di dedurre in via logica, a mente dell'art. 192/3 cod. proc. pen.
l'attendibilità di tali fonti di prova. In base a questo principio - applicato all'ipotesi di coesistenza di più chiamate in
correità - deve desumersi che qualora un coimputato od un imputato per reati connessi rendano dichiarazioni plurime,
l'integrazione probatoria di una di esse può anche derivare dalla sussistenza di elementi di conferma riguardanti
direttamente le altre, purché sussistano ragioni idonee a giustificare siffatto giudizio. E tali ragioni possono individuarsi
nella stretta connessione risultante tra i fatti oggetto delle dichiarazioni direttamente riscontrate ed i fatti di cui alle
ulteriori accuse, per essere, ad es., gli uni prodromi degli altri.”
Secondo Cass. sez. IV, 10 dicembre 2004, Alfieri, CED Cass. n. 231301 “La chiamata in correità, perché
possa assurgere al rango di prova posta a fondamento di un'affermazione di responsabilità, necessita, oltre che di un
positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, di "riscontri estrinseci". Questi, dal punto di vista
oggettivo, possono consistere in qualsiasi elemento o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e quindi
avente qualsiasi natura, sicchè questi possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, ed anche in
un'altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma ed avulsa rispetto alla prima. Per
converso, non è invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova "autosufficiente", perchè, in caso contrario,
la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in
correità.
In questa prospettiva sono stati considerati elementi idonei a fungere da riscontro:
• un riconoscimento fotografico operato dallo stesso giudice: così, Cass. sez. II, 8
ottobre 1997, Stratigopaulos, CED Cass., n. 209925 secondo cui “ In tema di prova, se il giudice del
dibattimento non può operare direttamente il riconoscimento di persone in quanto, se ciò gli fosse consentito,
sarebbe impedito il controllo sull'adeguatezza dei criteri da lui adottati nella valutazione della prova, tale diretto
riconoscimento può avere tuttavia valore di riscontro probatorio esterno ad una chiamata in correità, potendo il
riscontro stesso essere di varia natura, e persino di carattere logico, purché riconducibile a fatti esterni alla
chiamata. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che il giudice di merito avesse correttamente
utilizzato, ai fini della conferma dell'attendibilità della chiamata in correità, l'esame diretto delle riprese delle
rapine e dei relativi fotogrammi, riscontrando direttamente la corrispondenza delle immagini registrate dei
rapinatori con gli imputati accusati dal chiamante) ;
23
• la causale del delitto; così, Cass. sez. II; 17 dicembre 2004, n. 1545, Romito CED Cass.
231028 secondo cui “La causale del delitto rigorosamente argomentata può costituire elemento di fatto
suscettibile di riscontro individualizzante ad una chiamata in correità intrinsecamente attendibile” (29);
• dichiarazioni in cui si riferisce di confidenze ricevute dallo stesso imputato;
così, Cass. sez. I, 11 dicembre 2008, Pesce, n. 25, CED Cass. n. 242369, secondo cui “Le
dichiarazioni "de relato" aventi ad oggetto le confidenze ricevute dall'imputato sono idonee a costituire un
riscontro alla chiamata in correità del medesimo (30);
• l’avere l’imputato fornito un alibi falso, concetto quest’ultimo da distinguere
nettamente dall’”alibi fallito”; così Cass. sez. II, 15 febbraio 2005, n. 5060, Solimando,
CED Cass. n. 233230, secondo cui “In tema di valutazione della prova, l'alibi falso, in quanto
sintomatico, a differenza di quello non provato, del tentativo dell'imputato di sottrarsi all'accertamento della
verità, deve essere considerato come un indizio a carico il quale, pur di per sé inidoneo, in applicazione della
regola dell'art. 192 cod. proc. pen., a fondare il giudizio di colpevolezza, costituisce tuttavia un riscontro munito
di elevata valenza dimostrativa dell'attendibilità delle dichiarazioni del chiamante in correità, ai sensi del terzo
comma dell'art. 192 cod. proc. pen.” (31)
• le registrazioni di conversazioni telefoniche; così, Cass. sez. I, 24 settembre 2003, n.
39330, Callipari, CED Cass. n. 225999 secondo cui “Il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie
registrate nel corso di conversazioni legittimamente intercettate può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni
rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando le une e le altre provengano dal medesimo soggetto.
Soprattutto il riscontro può provenire da altre dichiarazioni rese da soggetti pure
coinvolti nel fatto.
Si tratta di un principio ormai consolidato e divenuto vero e proprio diritto vivente,
che la Corte ha arricchito di significato, richiedendo un accertamento particolarmente
approfondito e cauto da parte del giudice di merito ed individuando una serie di
condizioni – in particolare la convergenza sul fatto materiale, la indipendenza e la
specificità - perché altre chiamate in correità assumano il valore di riscontro.
Secondo Cass. sez. II, 4 marzo 2008, n. 13473, Lucchese, CED Cass. n. 239744, “In tema di valutazione
della prova, i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie,
le quali devono tuttavia caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b)
29 . in termini Cass. sez. VI, 31 gennaio 1996, n. 7627, Alleruzzo, CED Cass. n. 206586. 30. negli stessi termini Cass. sez. I, 25 febbraio 2004, n. 24249, Casentino, CED Cass. n. 228550. 31 . in termini Cass. sez. II, 4 febbraio 2004, n. 11840, Gallazzi, CED Cass. n. 228386.
24
per la loro indipendenza - intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente - da suggestioni o condizionamenti che
potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la c.d. convergenza del molteplice
deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell'incolpato sia le imputazioni a lui ascritte,
fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d'accusa forniti dai dichiaranti, ma
deve privilegiarsi l'aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da
decidere. (32).
Sul concetto di “convergenza sul fatto materiale”, secondo la Cassazione è richiesto
semplicemente che l’oggetto del narrato sia identico – secondo Cass. sez. VI, 20 aprile
2005, n. 6221, Aglieri, CED Cass. n. 233085 “In tema di chiamata di correo, v'è reciproco riscontro in caso di
pluralità di chiamate se si ha convergenza in ordine allo specifico fatto materiale oggetto del narrato. (La Corte ha
precisato che non si ha riscontro reciproco se l'una dichiarazione indichi l'imputato come compartecipe di un fatto
omicidiario, attribuendogli un determinato ruolo esecutivo, e l'altra dichiarazione lo menzioni invece come compartecipe
esecutivo in occasione di un precedente tentativo d'omicidio in danno della stessa vittima, a meno che non si dimostri che il
tentativo prima e l'omicidio consumato poi siano stati compiuti, nel medesimo contesto organizzativo e cronologico, dallo
stesso gruppo) - ma non che ci sia totale sovrapponibilità fra le diverse chiamate, che anzi,
di per sé potrebbe persino dare adito a sospetti di accordi e collusioni fra i chiamanti;
in questi termini Cass. sez. V, 15 giugno 2000, n. 9001, Madonna, CED Cass. n. 217729 secondo cui “I
riscontri esterni della chiamata in correità possono essere ricavati anche da una pluralità di chiamate convergenti; il
requisito della convergenza tuttavia non va inteso come piena sovrapponibilità delle diverse chiamate (che sarebbe,
oltretutto, sospetta), ma come concordanza dei nuclei essenziali delle dichiarazioni, in relazione al "thema decidendum",
dovendo piuttosto il giudice verificare che tale consonanza non sia frutto di condizionamenti, collusioni e reciproche
influenze; v. pure Cass. sez. I, 20 febbraio 1996, n. 3070, Emnanuello, CED Cass. n. 204294, secondo cui
“L'esigenza che le plurime dichiarazioni accusatorie di cui all'art. 192 comma terzo cod. proc. pen., per costituire
riscontro l'una dell'altra, siano convergenti, non può implicare la necessità di una loro totale e perfetta sovrapponibilità (la
quale, anzi, a ben vedere, potrebbe essa stessa costituire motivo, talvolta, di sospetto), dovendosi al contrario ritenere
necessaria solo la concordanza sugli elementi essenziali del "thema probandum", fermo restando il potere-dovere del giudice
di esaminare criticamente gli eventuali elementi di discrasia, onde verificare se gli stessi siano o meno da considerare
rivelatori di intese fraudolente o, quanto meno, di suggestioni o condizionamenti di qualsivoglia natura, suscettibili di
inficiare il valore della suddetta concordanza.”
32. Negli stessi termini, Cass. sez. II, 17 dicembre 1999, Calscibetta, CED Cass., n. 215558 e Cass. sez. II, 30 aprile 1999, Castaldi, CED Cass. n. 213845;
25
Il riscontro che proviene da altra dichiarazione potrebbe, inoltre, non riguardare
l’intero fatto delittuoso ma solo un suo frammento; secondo Cass. sez. I, 10 ottobre 2007, n.
40237, Cacisi, CED Cass. n. 237867 “Le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel medesimo
reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato ai sensi dell'art. 371, comma secondo, lett.
b), cod.proc.pen. sono idonee a fornirsi reciproco riscontro qualora siano attendibili e, anche in relazione a distinti
frammenti dell'attività criminosa, colleghino l'indagato o l'imputato al fatto .
****
L’altro aspetto su cui la giurisprudenza si è particolarmente soffermata è quello della
necessità dei riscontri cd individualizzanti; c’è bisogno, infatti, che il riscontro
esterno oltre che finalizzato a consentire il vaglio generale dell’attendibilità della
dichiarazione fornisca elementi che confermino la partecipazione al reato di ogni
singolo soggetto.
In questi termini Cass. sez. II, 22 marzo 1996, Arena, n. 10469, CED Cass. n. 206489 secondo cui “Ai
fini della valutazione della prova in ordine al giudizio di responsabilità, le dichiarazioni rese dal coimputato o da persona
imputata in un procedimento connesso, abbiano esse natura accusatoria nei confronti del giudicabile ovvero siano a lui
favorevoli, necessitano di riscontri di conferma della loro attendibilità - come richiesto dal terzo comma dell'art. 192 cod.
proc. pen. - non solo sul dato oggettivo della sussistenza del fatto con le modalità ipotizzate dall'accusa, ma anche sulla
persona cui esse si riferiscono.”
Il riscontro individualizzante può consistere in un qualunque elemento di prova che
provenendo da una fonte diversa dal dichiarante si concentri sulla posizione
processuale dell’accusato; così Cass. sez. V, 24 giugno 2004, n. 36451, Vullo, CED Cass. n.
230240. secondo cui “Ai fini della valutazione della chiamata di correo, nel giudizio sul merito dell'imputazione,
costituisce riscontro individualizzante un qualunque elemento di prova che provenga da fonte diversa, che riguardi la sfera
personale dell'accusato e che sia riconducibile al fatto da provare, o perché direttamente lo rappresenta o perché ne fornisce
conferma, in via indiretta, attraverso un procedimento logico-deduttivo. Ove nel caso concreto gli elementi di riscontro
corrispondano a tale nozione, la loro valenza confermativa costituisce oggetto di una valutazione in fatto, che sfugge al
sindacato di legittimità, sempre che il giudice dia conto con motivazione congrua e completa del proprio apprezzamento.
(Nella specie la Corte ha ritenuto insindacabile la valutazione di adeguatezza, quale riscontro dell'accusa concernente un
omicidio riconducibile ad una determinata organizzazione, della comprovata appartenenza dell'imputato al relativo
"gruppo di fuoco", sul presupposto che le fonti ulteriori rappresentavano tale "gruppo" come formazione composta da
pochissime persone e stabilmente utilizzata per le azioni omicidiarie di interesse del clan).
26
****
La giurisprudenza ha anche chiarito che può essere utilizzata non solo una una
dichiarazione in cui il soggetto riferisce nelle quali egli stesso ha avuto un ruolo ma
anche quanto racconta di cose da non lui direttamente conosciute ma apprese da terzi
(cd chiamata de relato).
In tal caso, però, è necessario un vaglio molto più penetrante e rigoroso che deve
riguardare non solo la credibilità del dichiarante ma anche di colui che ha fornito la
notizia; in questo Cass. sez. un. 30 ottobre 2003, n. 45276, Andreotti, CED Cass. n. 226090 secondo
cui “La chiamata in reità fondata su dichiarazioni "de relato", per poter assurgere al rango di prova pienamente valida a
carico del chiamato ed essere posta a fondamento di una pronuncia di condanna, necessita del positivo apprezzamento in
ordine alla intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma anche delle persone che hanno fornito le notizie, oltre che dei
riscontri esterni alla chiamata stessa, i quali devono avere carattere individualizzante, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche
circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, essendo
necessario, per la natura indiretta dell'accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e
della sua efficacia dimostrativa.
La Cassazione ha anche evidenziato i casi nei quali non sia applicabile alla
dichiarazione de relato la possibilità di sentire il teste di riferimento; in particolare:
• quando il soggetto le cui dichiarazioni si riferiscono sia un imputato nello
stesso procedimento; in questo senso Cass. sez. VI, 15 ottobre 2008, n. 1085, CED Cass.
n. 243186 secondo cui “In tema di testimonianza indiretta, il disposto dell'art. 195, comma settimo, cod.
proc. pen., secondo il quale non può essere utilizzata la dichiarazione di chi si rifiuta o non è in grado di indicare
la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame, deve essere interpretata nel senso che
l'inutilizzabilità si ricollega alla volontà, diretta o indiretta, della fonte primaria di non consentire la verifica di
quella secondaria. Ne consegue che il predetto divieto non opera allorché il soggetto dichiarante abbia precisamente
indicato la sua fonte immediata e quest'ultima non possa essere oggetto di ulteriore verifica perché imputata nello
stesso processo.
• quando le stesse provengono da un patrimonio cognitivo comune a tutti gli
appartenenti ad un sodalizio; così Cass. sez. I, 26 gennaio 2006, n, 11097, CED Cass. n.
233648 secondo cui “In tema di dichiarazioni provenienti da collaboratore di giustizia che abbia militato
all'interno di un'associazione mafiosa, occorre tenere distinte le informazioni che lo stesso sia in grado di rendere
27
in quanto riconducibili ad un patrimonio cognitivo comune a tutti gli associati di quel determinato sodalizio dalle
ordinarie dichiarazioni "de relato", che non sono utilizzabili se non attraverso la particolare procedura prevista
dall'art. 195 cod.proc.pen., in quanto l'impossibilità di esperire, nel primo caso, l'anzidetta procedura rende le
stesse propalazioni meno affidabili e, come tali, inidonee di per sé a giustificare un'affermazione di colpevolezza;
nondimeno, le stesse possono assumere rilievo probatorio a condizione che siano supportate da validi elementi di
verifica in ordine al fatto che la notizia riferita costituisca, davvero, oggetto di patrimonio conoscitivo comune,
derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, in aggiunta
ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei collaboratori di giustizia.”
• quando provengono da un esponente di vertice del sodalizio che ha appreso le
circostanze riferite in relazione proprio al suo ruolo; così, Cass. sez. V. 8 ottobre
2009, n. 4977, CED Cass. n. 245579 secondo cui “Sono direttamente utilizzabili le dichiarazioni rese
da collaboratore di giustizia su circostanze apprese in relazione al ruolo di vertice del sodalizio criminoso di
appartenenza e derivanti da patrimonio conoscitivo costituito da un flusso circolare di informazioni relative a fatti
di interesse comune degli associati, in quanto non assimilabili né a dichiarazioni "de relato", utilizzabili solo
attraverso la particolare procedura di cui all'art. 195 cod. proc. pen., né alle cosiddette "voci correnti nel
pubblico" delle quali la legge prevede l'inutilizzabilità.”
****
L’art. 273 comma 1 bis c.p.p., introdotto sempre dalla legge n. 63/01, ha stabilito che
“nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli
artt. 192, commi 3 e 4, 197 comma 7, 203 e 271, comma 1”
Per la parte che qui interessa, la norma introduce il principio secondo cui il giudice
nell’adottare una misura cautelare personale potrà considerare avente carattere
indiziario ex art. 273 c.p.p. le dichiarazioni rese da persone imputate del medesimo
reato, di procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. o di procedimento collegato ex art.
371 c.p.p. soltanto se le medesime siano accompagnate da altri elementi di prova che
ne confermano l’attendibilità.
Con l’intervento normativo di fatto si è voluto porre fine ad una interminabile
querelle giurisprudenziale relativa, in particolare, al valore della chiamata di correo e
se essa da sola potesse giustificare l’emissione di un’ordinanza cautelare o se, invece,
28
fossero indispensabili i riscontri richiesti dall’art. 192 c.p.p., atteso che nella fase
cautelare si discute di gravi indizi e non di prove certe di colpevolezza.
Se la dottrina dominante (33) era orientata nel senso dell’applicazione dei principi di
cui all’art. 192 c.p.p., la posizione della giurisprudenza era apparsa oscillante;
accanto a posizioni minoritarie che si allineavano alle tesi dottrinarie (34), quella
maggioritaria, confermata anche dalle sezioni unite (35), aveva espressamente
escluso che nella valutazione della chiamata di correo si dovesse far ricorso ai
commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p..
Secondo le sezioni unite, però, non era da considerarsi sufficiente la mera chiamata
di correo considerata attendibile intrinsecamente, ritenendosi, comunque, necessaria
che questa fosse corredata da riscontri esterni o quanto meno da un principio di
riscontro di tale natura, idoneo a confortarne la portata accusatoria.
L’entrata in vigore della disposizione non ha sopito il dibattito che si è spostato dalla
necessità di individuare i riscontri alla tipologia degli stessi; ci si è chiesti, in
particolare, se anche nella fase cautelare fossero necessari i riscontri cd
individualizzanti.
Nella giurisprudenza si sono immediatamente tre filoni giurisprudenziali.
Secondo un primo, la novella legislativa non rendeva indispensabili i riscontri
individualizzanti, risultando sufficienti quelli estrinseci e cioè sul fatto; in questo senso,
Cass. sez. V, 11 maggio 2004, n. 33903, CED Cass. n. 229552 secondo cui “In tema di misure cautelari
personali, e con riferimento alla condizione costituita dall'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, deve ritenersi che
l'inserimento del comma primo bis nel corpo dell'art. 273 cod. proc. pen. abbia avuto il solo effetto di render chiaro che, nel
caso di dichiarazioni rese da soggetti ricompresi nell'ambito dell'art. 210 cod. proc. pen. (imputati dello stesso reato ovvero
di reati connessi o interprobatoriamente collegati), la loro valutazione, diversamente da quanto affermato in passato da
taluni arresti giurisprudenziali, dev'essere effettuata "unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano
33. A titolo puramente esemplificativo Lorusso, Brevi considerazioni sull’applicabilità dell’art. 192 commi 3 e 4 c.p.p. nella valutazione dei <gravi indizi di colpevolezza> ex art. 273 c.p.p., in Cass. pen., 1995, 2950. 34 . In questi termini Cass. sez. III, 24 aprile 1993, Cancemi, in Cass. pen., 1993, 2316. 35 . Cass. sez. un., 21 aprile 1995, Costantino, in Giust. Pen.,1996, III, 321 con nota di Puleio, Gravi indizi di colpevolezza in materia di misure cautelari e dichiarazioni accusatorie del coimputato. La posizione giurisprudenziale risulta indirettamente confermata da C. Cost., 25 luglio 1996, n. 314, in Cass. pen., 1997, 328.
29
l'attendibilità", senza che però ciò comporti la necessità che tali elementi siano costituiti da riscontri "individualizzanti",
cioè specificamente riferibili alla posizione del soggetto destinatario della misura cautelare (36).
Secondo un orientamento opposto, invece, erano da considerarsi necessari i riscontri
individualizzanti, che tenendo conto del contesto incidentale in cui si ponevano,
consentissero una prognosi di elevata probabilità di colpevolezza del soggetto
sottoposto a misura; in questo senso Cass. sez. VI, 3 dicembre 2004, n. 1894, CED Cass. n. 230763
secondo cui “Al fine della valutazione dei gravi indizi necessari per l'adozione di misure cautelari personali, il
combinato disposto del comma primo bis dell'art. 273 e dei commi terzo e quarto dell'art. 192 cod. proc. pen. impone che
le dichiarazioni accusatorie del correo (o della persona perseguita per reati connessi o collegati) siano verificate attraverso
riscontri esterni che attengano alla persona accusata in specifica relazione al fatto che le viene attribuito, e che assumano
dunque portata individualizzante (37).
Infine, tra le due tesi era emersa anche una intermedia che aveva descritto il riscontro
necessario come “parzialmente individualizzante”; così Cass. sez. fer. 21 agosto 2002, n.
31986, CED Cass. n. 222736 secondo cui “In tema di valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, richiesti per
l'adozione di misure cautelari personali, la disposizione dell'art. 273 comma 1-bis cod. proc. pen. (introdotta dall'art. 11
della legge 1 marzo 2001, n. 63), che rinvia ai criteri di valutazione della prova di cui all'art. 192 commi 3 e 4 cod.
proc. pen., impone che le dichiarazioni accusatorie del chiamante in correità siano sottoposte oltre che all'esame circa la
credibilità intrinseca del dichiarante e la oggettiva attendibilità di ogni singola dichiarazione, ad una verifica attraverso
riscontri che, in quanto collocati nell'ambito di un giudizio limitato all'apprezzamento dei presupposti indispensabili per
la cautela personale e quindi non diretto all'affermazione della responsabilità penale come nel caso del giudizio di
cognizione, possono assumere il connotato della parziale individualizzazione, in maniera che consentano di collocare la
condotta dell'accusato nello specifico fatto dell'imputazione provvisoriamente elevata.” (38).
Il contrasto dovrebbe sopirsi con l’intervento delle le Sezioni unite che hanno optato
per la tesi più garantista, secondo cui sono indispensabili i riscontri cd
individualizzanti; Cass. sez. Un. 30 maggio 2006, Spennato, n. 36267, CED Cass. n. 234598,
secondo cui “In tema di valutazione della chiamata in reità o correità in sede cautelare, le dichiarazioni accusatorie
rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o
collegato, integrano i gravi indizi di colpevolezza di cui all'art. 273, comma primo, cod. proc. pen. - in virtù dell'estensione
applicativa dell'art. 192, commi terzo e quarto, ad opera dell'art. 273, comma primo bis, cod. proc. pen., introdotto
36. Negli stessi termini, ex plurimis, Cass. sez. I, 24 aprile 2003, n. 29403, CED Cass. n. 226191; Cass. sez. II, 16 ottobre 2003, n. 43419, CED Cass. n. 228423 37. In termini, ex plurimis, Cass. sez. I, 5 maggio 2005, n. 19867, Cass. pen. 2006, 1491; Cass. sez. I, 26 febbraio 2003, n. 14426, CED Cass. 223804 38. Alle stesse conclusioni Cass. sez. VI, 21 luglio 2001, n. 34534, CED Cass. n. 220175; Cass. sez. VI; 2 ottobre 2001, n. 43721, CED Cass. n. 220449
30
dall'art. 11 L. n. 63 del 2001 - soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da
riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da assumere idoneità dimostrativa in ordine all'attribuzione del fatto-reato
al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell'oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un
giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito,
orientata invece all'acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell'imputato.
IL VERBALE ILLUSTRATIVO DEI CONTENUTI
DELLA COLLABORAZIONE
Il “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” è regolato nell’art. 16
quater della l. n. 82 del 1991, norma introdotta dall’art. 14 della l. 13 febbraio 2001,
n. 45, nata in funzione di individuare un sistema che potesse ridurre al minimo il
rischio di inaffidabilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori (39).
L’obiettivo più o meno esplicitamente perseguito era quello di evitare che i pentiti di
mafia potesse egli scegliere, in relazione a sue valutazioni di opportunità, il momento
in cui raccontare i fatti a propria conoscenza (le cd dichiarazioni a rate).
Per tale motivo nella disposizione vengono indicate scansioni temporali e cautele
formali che devono caratterizzare l’acquisizione delle dichiarazioni del propalante, e
previste conseguenze sanzionatorie per le inosservanze delle forme e dei tempi, tali
da incidere sui benefici di cui potrebbe godere il propalante e sul valore processuale
delle dichiarazioni.
Senonchè la tecnica legislativa utilizzata nella scrittura della norma, non
particolarmente accurata, ha ingenerato numerosi problemi ermeneutici che hanno
reso indispensabile, almeno su di uno specifico aspetto, un intervento dirimente delle
sezioni Unite, comunque ritenuto non del tutto soddisfacente.
****
39. In termini analoghi, ARDITA, nuova legge sui collaboratori e sui testimoni di giustizia, in Cass. pen. 2001, p. 1708.
31
L’istituto del verbale illustrativo trova un suo antesignano in altro analogo previsto
nell’art. 2 del decreto interministeriale dei Ministri dell’Interno e della Giustizia del
24 novembre 1994 n. 687.
In quel caso era denominato “verbale delle dichiarazioni preliminari alla
collaborazione”, se reso da un collaboratore di giustizia o “verbale di informazione
ai fini delle indagini” se reso da soggetto estraneo alla criminalità organizzata, cioè
da un cd testimone di giustizia.
In esso, da rendersi con le forme e le modalità previste dal codice di rito penale per
gli atti del p.m., il propalante doveva riferire le informazioni a sua conoscenza ed
esporre, sia pure sommariamente i dati utili alla ricostruzione dei fatti di maggiore
gravità ed allarme sociale di cui era a conoscenza e quelli utili all’individuazione ed
alla cattura dei loro autori.
Il verbale avrebbe dovuto essere allegato alla proposta di ammissione al programma
di protezione e finire, quindi, agli atti della Commissione ministeriale, prevista
dall’art. 10 della l. n. 82 del 1991, in funzione di adottare i programmi medesimi.
L’istituto fu oggetto di un conflitto di attribuzione sollevato dalla Procura della
Repubblica di Napoli all’esito del quale la Corte Costituzionale, con sentenza 8
settembre 1995, n. 420, dichiarò che non spettava ai ministri emittenti il potere di
imporre, con atto regolamentare, l’adozione di tale provvedimento, anche nei casi in
cui il Procuratore della Repubblica ritenesse che tale redazione potesse recare
pregiudizio per le indagini (40).
Dopo l’intervento della Consulta, gli uffici inquirenti in maggioranza optarono per
non redigere il verbale in questione, che si trasformò, quindi, in uno strumento
desueto.
***
40 C. Cost., 8 settembre 1995, n. 420, in Cass. pen. 1995, p. 3273.
32
L’istituto riproposto nel 2001 in via legislativa è abbastanza diverso dal predente; ad
esso viene dedicata una disposizione ad hoc che ha l’obiettivo di regolamentarlo in
modo tendenzialmente completo, in funzione dei suoi diversi aspetti
L’incipit della disposizione indica con chiarezza le ragioni e finalità per le quali
deve essere redatto; è indispensabile perché al collaboratore possano essere concesse
le speciali misure di protezione ed i benefic i sia di natura sanzionatoria che
penitenziari.
Nello stesso primo comma viene individuato il tempo entro il quale deve essere
stilato: 180 giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare.
Siccome il mancato rispetto del termine è sanzionato anche dal punto di vista
processuale, è importante individuare il dies a quo.
Secondo la dottrina, il termine comincia a decorrere dal momento in cui il
collaboratore dichiari in un atto processualmente utilizzabile la sua volontà di iniziare
il percorso collaborativo (41); non è certo necessaria una formale dichiarazione,
potendo la volontà essere manifestata anche con facta concludentia, purchè essa
emerga in modo inequivoco, non risultando sufficiente, ad esempio, una semplice
ammissione di responsabilità, magari accompagnata ad un vago riferimento
all’esistenza ed all’operatività di una organizzazione delinquenziale (42).
La giurisprudenza, invece, sul punto non si è espresso in modo molto chiaro; collega,
infatti, il dies a quo alla redazione del verbale illustrativo, rischiando di confondere le
idee sia perché il verbale in questione è strutturalmente un adempimento necessario
per formalizzare la già manifestata volontà di collaborare sia perché il verbale può
essere redatto anche in un momento successivo all’inizio della collaborazione,
purchè entro 180 dalla manifestazione di volontà; in questo senso Cass. sez. I, 13 novembre
2002, n. 41028, CED Cass. n. 222712 secondo cui “Il momento del tempo dal quale comincia a decorrere il
termine di centottanta giorni entro cui, a norma dell'art. 16-quater, comma 1, d.l. 15 gennaio 1991 n. 8, convertito nella
41. Così, LAUDATI, La collaborazione con la giustizia ed il verbale illustrativo dei contenuti. Un “oggetto misterioso” introdotto dalla legge 45/2001, in dir. e giust. 2003, 10, 34. 42. In questi termini, FUMO, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, tra velleità di riforma e resistenze del sistema, in Cass. pen. 2003, p. 2914
33
legge 15 marzo 1991 n. 82, introdotto dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001 n. 45, la persona che abbia manifestato
la volontà di collaborare deve rendere note al Procuratore della Repubblica tutte le notizie di cui è in possesso, è
rappresentato dalla avvenuta redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione.”.
Per quanto attiene al contenuto del verbale, la disposizione in esame dissemina in più
commi l’indicazione di quali dati debbano necessariamente essere inseriti nell’atto.
Nel comma 1 si stabilisce che il collaboratore deve riferire al procuratore della
Repubblica tutte le notizie in suo possesso, che siano utili alla ricostruzione dei fatti
su cui è interrogato e tutti gli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è
a conoscenza. Deve, inoltre, fornire notizie utilizzabili per la individuazione e la
cattura degli autori dei reati di cui ha parlato e le informazioni necessarie perché
possa procedersi alla individuazione, al sequestro e alla confisca dei beni dei quali
dispone egli stesso o, dispongono direttamente o indirettamente, altri appartenenti ai
gruppi criminali.
Della completezza delle informazioni il propalante deve anche dare una sorta di
attestazione che serve anche a richiamare l’attenzione sull’importanza dell’atto posto
in essere; secondo quanto previsto dal comma 4, deve, infatti, dichiarare -
evidentemente, pur nel silenzio della norma, in conclusione del verbale illustrativo -
di non essere in possesso di notizie ed informazioni processualmente utilizzabili su
altri fatti o situazioni, anche non connessi o collegati a quelli riferiti, di particolare
gravità o comunque tali da evidenziare la pericolosità sociale di singoli soggetti o di
gruppi criminali.
Nel verbale illustrativo il propalante deve anche dichiarare – così come
espressamente imposto dal comma 5 - i colloqui investigativi eventualmente
intrattenuti.
Con una norma (il comma 6) la cui utilità è scarsamente comprensibile e che
potrebbe considerarsi nient’altro che una pedante precisazione (43), si stabilisce,
infine, che le notizie e le informazioni da riferirsi sono quelle processualmente
43. Circa la possibilità di far leva sul comma in esame per sostenere che le notizie e le informazioni conosciute dal collaboratore, ma non riportate nel verbale illustrativo, debbano considerarsi inutilizzabili si v., sia pure criticamente, SCAGLIONE, Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia: aspetti problematici in Foro It. 2003, II, c. 290
34
utilizzabili che, a norma dell’art. 194 c.p.p., possono formare oggetto di
testimonianza; da esse sono escluse le informazioni assunte da voci correnti o da
situazioni ad esse assimilabili, concetto quest’ultimo di difficile comprensione che
potrebbe essere letto come riferito a tutte quelle conoscenze riconducibili a fonti non
precise e, quindi, incontrollate ed incontrollabili, ovvero prive di specificità e di
determinatezza (44).
Il punto centrale è comprendere quali “fatti” debbano essere raccontati dal
collaboratore; si tratta di un problema non teorico, atteso che l’omissione comporta
conseguenze pregiudizievoli per il propalante (in questo senso espressamente comma
7) e per il processo.
Dalla lettura congiunta, soprattutto dei commi 1 e 4, la dottrina è giunta a ritenere che
nel verbale illustrativo il collaboratore debba dire tutto quanto a sua conoscenza e ciò
indipendentemente dalle domande formulategli dal p.m., con un limite che si può
ricavare dal riferimento testuale ai “fatti di maggiore gravità ed allarme sociale”.
Questi ultimi sarebbero i cosiddetti fatti indimenticabili, quelli cioè che per la loro
rilevanza non possono sfuggire al propalante e che, quindi, debbono necessariamente
essere riferiti.
Per tale ragione in dottrina si è proposta una sorta di tripartizione fra le dichiarazioni
dei collaboratori; in particolare: 1) le dichiarazioni intrinsecamente attendibili e
complete aventi ad oggetto fatti indimenticabili, delle quali sarebbe consentita
l’utilizzazione entro i rigidi confini del verbale illustrativo e la valutazione piena del
dato probatorio in esse contenuto, ovviamente ex art. 192 c.p.p.; 2) le dichiarazioni
aventi ad oggetti “fatti dimenticabili” rese dopo la redazione del verbale illustrativo e
sottoposte all’ordinario modello di valutazione di questi elementi probatori; 3) le
dichiarazioni relative a fatti indimenticabili rese oltre il termine semestrale,
utilizzabili solo contra se, salvi i casi di irripetibilità sopravvenuta (45).
44. In questo senso GIORDANO, Il verbale illustrativo a garanzia del rapporto, in Guida al dir. 2001, 11, 57. 45. Così RUGGIERO, Le dichiarazioni del <collaborante>tra utilizzabilità e valutazione in Giust. pen. 2003, III, c. 85.
35
Senonchè il concetto di “fatto indimenticabile” resta particolarmente sfuggente; esso,
infatti, può essere inteso in senso oggettivo (cioè è tale quello che secondo l’uomo
medio non potrà dimenticarsi) o soggettivo, tenendo conto della psicologia, del
livello culturale e del vissuto del pentito; in questo senso ciò che potrebbe essere
rilevante ed indimenticabile per un gregario non necessariamente lo sarà per uno dei
vertici del sodalizio (46).
Dal canto suo la giurisprudenza sembra avere completamente eliminato in radice il
problema; in un unico caso in cui se ne è occupata, ha ritenuto che ai fini
dell’utilizzabilità delle dichiarazioni non avesse rilievo alcuno il carattere
indimenticabile o meno del fatto riferito; così Cass. sez. II, 26 giugno 2003, La Mantia, n.
30451, in Cass. pen. 2004, 4148 secondo cui “Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di
centottanta giorni previsto per la redazione del verbale illustrativo non possono essere utilizzate ai fini dell’emissione del
provvedimento cautelare, nonostante la pretesa indimenticabilità del fatto narrato dal collaboratore”(47)
Sembra, però, fuori discussione che i fatti da raccontare nel verbale non si
cristallizzino in via definitiva, nel senso che anche dopo lo spirare del termine di 180
giorni il collaboratore possa sempre precisarli e/o specificarli e/o meglio
circostanziarli; in questo senso, Cass. sez. I, 8 marzo 2007, n. 13697, CED Cass. n. 236263 secondo
cui “La disposizione prevista dall'art. 16, comma quarto, D.L. n. 8 del 1991, come modificato dalla legge n. 45 del
2001, che sanciscono l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaborante decorsi i centottanta giorni dalla
manifestazione della volontà di collaborare, non si applica a quelle dichiarazioni rese come precisazione ed integrazione,
che siano state sollecitate dagli organi inquirenti a chiarimento ulteriore degli episodi già riferiti nei termini di legge, purché
non conducano ad individuare episodi criminosi nuovi e diversi o ulteriori soggetti responsabili degli episodi già denunciati.”
Quanto, invece, ai criteri ed alle modalità con cui deve essere redatto il verbale, la
norma vi ci dedica tutto il suo comma 3.
Il capoverso stabilisce in primo luogo le regole sulla documentazione e la
conservazione dell’atto.
46. Così FUMO, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, cit., p. 2921 47. La sentenza è annotata da P. MAGGIO, Ancora incertezze giurisprudenziali sulle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine semestrale di redazione del verbale illustrativo.
36
Esso andrà redatto secondo le modalità previste dall’art. 141 bis c.p.p. (e quindi è
necessaria la riproduzione fonografica o audiovisiva integrale accompagnata dalla
verbalizzazione in forma riassuntiva) in funzione di garantire il massimo della
genuinità delle propalazioni.
L’atto dovrà poi essere inserito in un apposito fascicolo tenuto dal Procuratore della
Repubblica, al quale le dichiarazioni stesse sono state rese.
Si elimina uno degli aspetti più problematici della precedente normativa e cioè la
necessità di invio alla Commissione Centrale; il verbale dovrà essere conservato in
un fascicolo, presumibilmente un mod. cd 45 (cioè un fascicolo “atti relativi”), che
dovrebbe essere quello in cui confluiscono anche tutti gli atti amministrativi
riguardanti la protezione del collaboratore.
In considerazione del complesso contenuto del verbale de quo, riguardante una
pluralità di fatti criminosi e, quindi, della sua possibile utilizzazione in diversi
procedimenti si aggiunge, poi, che stralci dello stesso verbale siano inseriti nel
fascicolo contenente gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari,
disposizione quest’ultima che mira a consentire la verifica da parte di giudice e delle
parti private del rispetto nell’adempimento del verbale illustrativo delle forme e dei
termini imposti.
E’ proprio la previsione dell’inserimento degli stralci nel fascicolo processuale che
dimostra che l’atto di cui si discute oltre ad essere un momento indispensabile della
procedura amministrativa relativa all’ammissione del collaboratore allo speciale
programma di protezione è altresì considerato dal legislatore un vero e proprio atto di
indagine.
La norma non dice specificamente che il verbale debba essere redatto dal pubblico
ministero e che non sia attività delegabile alla polizia giudiziaria ma, a parte le
valutazioni di opportunità, il riferimento contenuto al primo comma al Procuratore
della Repubblica come il soggetto a cui il collaboratore rende le dichiarazioni, fanno
propendere per la tesi che l’attività debba essere posta in essere personalmente dal
p.m..
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Nulla pure viene specificato su come e quando debba essere redatto il verbale
illustrativo; il legislatore, in questo senso opportunamente, non ha voluto
eccessivamente vincolare gli operatori, lasciando ad essi un margine di scelta nel
necessario rispetto delle indicazioni già esplicitate.
Così il verbale potrà essere autonomo rispetto agli interrogatori del collaboratore ed
in questo caso potrà essere redatto subito dopo l’inizio della collaborazione o alla fine
dei centottanta giorni e dovrà necessariamente avere un contenuto sintetico ma nello
stesso tempo abbastanza completo da consentire di verificare in esso tutti gli elementi
dei singolo fatto.
Non è assolutamente detto (anzi sembrerebbe scontato il contrario, attesa la
molteplicità delle notizie normalmente dichiarate dai pentiti) che il verbale venga
redatto in unica occasione, ben potendo essere distinto in più momenti.
Non è però da escludere – e l’esperienza pratica di alcuni uffici giudiziari milita in
tal senso - che contestualmente possano essere redatti sia il verbale di interrogatorio
che quello illustrativo, per cui all’interno del medesimo atto siano contenuti tutte le
indicazioni previste dall’art. 16 quater ( ad es. in materia di colloqui investigativi e
disponibilità dei beni) nonché gli avvisi di cui all’art. 64 c.p.p..
Tale opzione, infatti, appare opportuna perché ha l’indubbio vantaggio di evitare
duplicazioni di dichiarazioni e di rendere il verbale illustrativo il più completo
possibile, escludendo che si creino contenziosi sul rispetto dei termini rispetto ai fatti
riferiti.
La norma non prevede nemmeno in termini espliciti se anche i testimoni di giustizia
debbano redigere il verbale illustrativo.
A favore della tesi positiva sembrerebbe militare il contenuto del comma 2 dell’art.
16 quater in esame quando stabilisce che “le informazioni di cui al comma 1 relative
all’individuazione del denaro, dei beni e delle altre utilità non sono richieste quando
la volontà di collaborare è stata manifestata dai testimoni di giustizia”.
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Per la tesi opposta, però, oltre alla mancanza di un’indicazione ad hoc vi è anche un
argomento di carattere sistematico; siccome il riconoscimento del ruolo di testimone
di giustizia, a differenza del collaboratore, non è legato alla commissione di
specifiche ipotesi di reato ma solo al rischio per la propria incolumità, si potrebbe
giungere alla paradossale conclusione di ritenere che qualunque testimone – anche
quello presente ad un semplice furto – dovrebbe essere richiesto di sottoscrivere un
verbale illustrativo; in tal modo si introdurrebbe surrettiziamente una nuova regola
generalizzata di documentazione delle dichiarazioni dei testi, in deroga ai principi del
c.p.p., ed una pericolosa sanzione di inutilizzabilità incongruente rispetto alla figura
del teste qualsiasi.
La Cassazione è ormai pacificamente giunta alla conclusione di ritenere inapplicabile
alla figura del testimone di giustizia il verbale illustrativo; in questo senso Cass. sez. II, 21
novembre 2002, n. 46966, CED Cass. n. 231184, secondo cui “Non è applicabile ai "testimoni di giustizia" la
nuova disciplina prevista dall'art. 16 quater del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito nella legge 15 marzo 1981, n.
82), come modificata dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45, prevista per i collaboratori di giustizia, che
stabilisce a pena di inutilizzabilità, precisi limiti temporali (180 giorni) per la raccolta delle dichiarazioni
eteroaccusatorie. (Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato la netta distinzione esistente tra le figure del "collaboratore di
giustizia" e quella del "testimone di giustizia", in base alla complessiva normativa di riferimento prevista per i secondi, in
modo esplicito, nel capo II bis del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, nonché dalla specifica previsione di cui all'art. 16 bis ,
comma 1 l.c.).” (48).
Senza dubbio, nella disposizione, la parte che ha ingenerato perplessità e dubbi
interpretativi maggiori è il comma 9 che, in chiusura, individua la sanzione per le
dichiarazioni rese oltre il termine di 180 giorni.
In una disposizione già scritta male, questo comma, se è possibile, è quello scritto
peggio; esso, infatti, così statuisce: “le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 4 rese al
pubblico ministero o alla polizia giudiziaria oltre il termine previsto dallo stesso
comma 1 non possono essere valutate ai fini della prova dei fatti in essa affermati
contro le persone diverse dal dichiarante, salvo i casi di irripetibilità”
48. Negli stessi termini più di recente Cass. sez. VI, 22 gennaio 2008, n. 27040, CED Cass. n. 241006
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La norma ha anche ingenerato sospetti di incostituzionalità.
Si è detto, infatti, che essa contrasta con il principio di obbligatorietà dell’azione
penale (art. 112 Cost.) nella parte in cui impedisce al p.m. di esercitare l’azione
penale, in relazione ai fatti dichiarati dal propalante oltre il termine e con il principio
di ragionevolezza, per la sua drasticità ed astrattezza, impedendo l’acquisizione di
informazioni che potrebbero essere state soltanto dimenticate dal collaboratore (49).
I possibili profili di incostituzionalità della norma, pur non essendo mai stati vagliati
dalla Consulta, sono stati in più occasioni presi in considerazione anche dalla
Cassazione, che si è rifatta proprio al parametro costituzionale dell’art. 112 per
giustificare interpretazioni meno rigoriste (50).
In realtà, i dubbi di incostituzionalità appaiono infondati perché, come è stato
evidenziato da altra parte della dottrina, “a seguire tale orientamento … si
rischierebbe di dover tacciare di incostituzionalità tutte quelle previsioni che
consentano di selezionare il materiale utilizzabile ai fini del procedimento”; del resto
“la Consulta non ha mai accolto questioni di legittimità dei divieti probatori fondate
su un presunto contrasto con l’art. 112 Cost. chiarendo che non vi può essere lesione
del principio di obbligatorietà dell’azione penale in ogni regola di esclusione della
prova stabilita dal legislatore”(51).
Della norma sono vari i punti su cui incentrare una breve riflessione.
Un primo riguarda la tipologia di dichiarazioni che possono essere attinte dalla
sanzione processuale; nella disposizione, infatti, si fa riferimento non genericamente
alle dichiarazioni del collaboratore ma a quelle rese al p.m. o alla polizia giudiziaria.
Ne deriva che nessuna sanzione potrà applicarsi quando le dichiarazioni oltre il
termine semestrale siano state rese al giudice, ad esempio, nel corso del dibattimento; 49. Così, FUMO, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione,cit., 2918. 50. All’art. 112 Cost. fa riferimento, ad esempio, nella motivazione Cass. sez. I, 20 settembre 2006, n. 35710, Cass. pen. 2008, 1479 con nota di RUGGIERO, Dichiarazioni “spontanee” e dichiarazioni “sollecitate” rese dai collaboratori di giustizia . Alla disposizione costituzionale fanno pure riferimento le Sezioni Unite come appresso si dirà 51. Così, RUGGIERO, Dichiarazioni “spontanee” e dichiarazioni “sollecitate” rese dai collaboratori di giustizia, cit. p. 1488. A sostegno dell’affermazione ricorda come la corte costituzionale con sentenza 7 maggio 1992, n. 222, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 407, comma 3, c.p.p., con riguardo alla pretesa violazione dell’art. 112 Cost, ritenendo, quindi, che l’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo il decorso del termine massimo di durata delle indagini non pregiudica l’obbligatorietà dell’azione penale.
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così Cass. sez. VI, 22 gennaio 2008, n. 27040, CED Cass. n. 241007 secondo cui “La sanzione di
inutilizzabilità che, ai sensi dell'art. 16-quater, comma nono, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella L. 15 marzo
1991, n. 82, come modificata dall'art. 14 L. 13 febbraio 2001, n. 45, colpisce le dichiarazioni del collaboratore di
giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della
collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori del contraddittorio e non a quelle rese
nel corso del dibattimento.” (52).
Secondo la giurisprudenza, inoltre, la previsione del termine di 180 giorni e la
conseguente sanzione prevista non precludono al p.m. di effettuare indagini e di
contestare autonomamente al collaboratore di giustizia elementi probatori emersi
aliunde e di compiere accertamenti in ordine agli stessi ed alla loro attribuibilità
soggettiva; così Cass. sez. I, 20 settembre 2006, n. 35170, cit. secondo cui “Le dichiarazioni rese da un
collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni dall'inizio della collaborazione sono inutilizzabili e
inidonee, sotto l'aspetto probatorio, non solo nella fase dibattimentale di valutazione della prova ai fini della deliberazione
di colpevolezza dell'imputato, ma anche nel contesto procedimentale delle indagini preliminari e, ancor più, nell'ambito del
procedimento cautelare, anche se la loro inutilizzabilità non spiega alcun effetto sul potere-dovere del P.M., in quanto
titolare dell'azione penale, il cui esercizio è obbligatorio in presenza di una "notitia criminis", di compiere accertamenti in
ordine al loro contenuto”
In base a tale principio, la Cassazione ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rese da
un collaboratore oltre i 180 giorni, in quanto essere erano state riferite a seguito di
specifica contestazione del p.m..
Sebbene si tratti di un’unica pronuncia, quindi inidonea a consolidare un principio di
diritto, la distinzione proposta tra dichiarazioni spontanee, non utilizzabili se rese
oltre il termine, e dichiarazioni sollecitate, utilizzabili anche se rese oltre il termine di
legge, appare discutibile e difficilmente giustificabile alla luce della lettera della
norma (53).
52 . Negli stessi termini Cass. sez. V, 6 novembre 2007, n. 463328, CED Cass. n. 237979; Cass. sez. I, 13 giugno 2007, n. 35368, CED Cass. n. 237616; Cass. sez. V, 13 marzo 2002, n. 18061, CED Cass. n. 221912; nella giurisprudenza di merito si segnalano Ass. Palemo 28 gennaio 2003 e Trib. Palermo 20 gennaio 2003, in Foro It. 2003, II, c. 288 con nota di SCAGLIONE, Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia: aspetti problematici. 53 . In senso critico rispetto alla conclusione, RUGGIERO, Dichiarazioni “spontanee” e dichiarazioni “sollecitate”, cit, p. 1486, secondo cui, però, sarebbe legittima una distinzione di tipo diverso tra dichiarazioni spontaneamente rese dal collaboratore e quelle rese a seguito di contestazione; mentre con riferimento alle prime il collaboratore sarebbe tenuto a riferire entro il termine di 180 giorni solo i fatti di maggiore allarme sociale, con riferimento alle seconde egli sarebbe tenuto nel termine a riferire tutto ciò che è a sua conoscenza.
41
Ma il problema certamente più significativo riguarda la tipologia di sanzione
processuale ed soprattutto il suo ambito di applicabilità.
Dottrina e giurisprudenza concordano sia nell’incasellarla nel genus “inutilizzabilità”,
sia nel ritenere tale patologia come non assoluta ma relativa, in quanto, in base alla
chiara lettera della legge, essa non opera contro il dichiarante e nei casi di
sopravvenuta irripetibilità.
Secondo gran parte della dottrina, inoltre, il riferimento testuale “prova dei fatti in
essa affermati contro le persone diverse dal dichiarante” renderebbe pienamente
utilizzabile una dichiarazioni di un pentito, anche fuori termine, “a favore” di un
imputato.
Il dubbio principale si incentra sull’estensione dell’inutilizzabilità ed in particolare se
le dichiarazioni rese oltre il termine perdano ogni valore nella fase delle indagini
preliminari e/o nel dibattimento.
Secondo una prima posizione, siccome il comma 9 dell’art. 16 quater più volte citato
si riferisce espressamente alla prova dei fatti affermati, l’inutilizzabilità opera solo in
funzione dibattimentale e, quindi, non con riferimento alla fase delle indagini
preliminari.
Le dichiarazioni dei collaboratori ben potrebbero essere poste a fondamento, quindi,
di un provvedimento cautelare; in questo senso Cass. sez. IV, 15 novembre 2007, n. 83, CED
Cass. n. 23571 secondo cui “Ai fini dell'applicazione di una misura cautelare personale possono essere utilizzate le
dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia dopo il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà
di collaborare, giacchè l'inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive riguarda esclusivamente il giudizio di merito e non
anche la fase cautelare.” (54).
Secondo l’opposto orientamento, però, l’ inutilizzabilità non può essere circoscritta al
solo giudizio ma opera anche nel contesto procedimentale, trattandosi di regola di
esclusione probatoria delle dichiarazioni rese contra alios; così Cass. sez. I, 21 dicembre
2005, n. 7258, CED Cass. n. 234079 secondo cui “In tema di misure cautelari reali (nella specie un provvedimento
54. In termini anche Cass. sez. I, 15 dicembre 2005, n. 5241, CED Cass. n. 234078 e Cass. sez. V, 23 settembre 2003, n. 38638, CED Cass. n. 226213.
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di sequestro preventivo), le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni (previsto
dall'art. 16 quater, comma primo, D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con modif. in L. 15 marzo 1991 n. 82, introdotto
dall'art. 14 L. 13 febbraio 2001 n. 45), decorrente dall'inizio della collaborazione, sono inutilizzabili non solo nella fase
dibattimentale di valutazione della prova ai fini della deliberazione della colpevolezza dell'imputato, ma anche in quella
delle indagini preliminari e, in particolare, nell'ambito del procedimento cautelare.” (55)
Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite che non si sono, in verità, limitate a
dirimere il contrasto ma hanno operato una più vasta ricognizione interpretativa della
norma, individuando una sorta di statuto generale delle dichiarazioni rese dai pentiti
oltre il termine.
In primo luogo, la Suprema Nomifilichia penale individua la tipologia sanzionatoria
stabilendo che
• la sanzione prevista per le dichiarazioni tardive non può essere qualificata
come inutilizzabilità patologica ma come relativa e soggettivamente orientata,
nel senso che riguarda soltanto alcuni destinatari e soltanto alcune fasi del
procedimento; tale opzione sarebbe costituzionalmente imposta, perché una
opzione in termini di inutilizzabilità assoluta contrasterebbe con il principio di
obbligatorietà dell’azione penale tutelato dall’art. 112 Cost;
• la inutilizzabilità, inoltre, sarebbe normativamente delimitata sul piano
oggettivo sotto tre profili; perché deve trattarsi di dichiarazioni rese oltre il
termine di 180 giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare con la
giustizia, non deve trattarsi di dichiarazioni irripetibili ed, infine, perché la
valutazione preclusa deve essere finalizzata alla prova dei fatti in essa
affermata;
• sul piano soggettivo, infine, la limitazione all’utilizzabilità si manifesta sotto
due profili; riguarda le sole dichiarazioni rese al p.m. o alla polizia giudiziaria,
con la conseguenza quindi che quelle rese oltre il termine al giudice, in sede di
interrogatorio di garanzia a seguito di provvedimento cautelare, in sede di
incidente probatorio, di udienza preliminare, di giudizio abbreviato e di
55. Negli stessi termini Cass. sez. I, 20 settembre 2006, n. 35170 cit.
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dibattimento sono perfettamente utilizzabili; il limite soggettivo è costituito dal
fatto che la prova deve valere contro le persone diverse dal dichiarante.
Le sezioni Unite aggiungono, altresì, che nel momento in cui la norma ha utilizzato il
termine “prova” ha evidentemente pensato alla prospettiva del dibattimento e non
certo alle indagini preliminari, dove di prove non si discute.
Ne deriva di conseguenza l’opzione a favore della tesi secondo cui l’inutilizzabilità
riguarda il solo dibattimento e non la fase delle indagini.
Ma la Corte si spinge ben oltre, aggiungendo che se l’inutilizzabilità è nella sola
prospettiva del dibattimento, le dichiarazioni dei collaboratori rese fuori termine
possono ben essere pienamente valide per l’udienza preliminare e per il giudizio
abbreviato
Così Cass. sez. un. 25 settembre 2008, n. 1149, CED Cass. n. 221882 secondo cui “Le dichiarazioni rese
dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare sono
utilizzabili nella fase delle indagini preliminari, in particolare ai fini della emissione delle misure cautelari personali e
reali, oltre che nell'udienza preliminare e nel giudizio abbreviato.”
Le conseguenze sul piano pratico della decisione sono evidenti; la sanzione prevista
dall’ultimo comma dell’art. 16 quater citato viene ridotta ad ambiti decisamente
marginali (56).
Se, infatti, l’inutilizzabilità si applica al dibattimento e riguarda le sole dichiarazioni
rese al p.m. ed alla p.g. (con salvezza, quindi, di quelle che nel processo il pentito
potrebbe rendere, anche se esse fossero meramente ripetitive di quelle già rese in
indagini, fuori termine) l’unico spazio nel quale essa resta applicabile è quello
dell’utilizzo del verbale per contestazioni ex art. 503 e 503 c.p.p.
Con una scelta ermeneutica così radicale, dalla Corte forse ci si sarebbe potuto
attendere un qualche bilanciamento circa la necessità, quantomeno, di una
56. In termini molto critici verso la sentenza è apparsa la dottrina; in questo senso RUGGIERO, I discutibili confini dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive dei collaboratori di giustizia, in Cass. pen. 2009, 2287 e ROMANO, Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia rese oltre i 180 giorni dall’inizio della collaborazione, in Dir. pen e proc. 2009, 1403
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valutazione in termini di maggiore cautela delle dichiarazioni rese oltre il termine di
180 giorni; invece sull’argomento nemmeno un passaggio.
Di questa esigenza sembra, però, essersi fatto portatrice la giurisprudenza successiva
che, pur ribadendo il principio dell’utilizzabilità delle dichiarazioni tardive, ritiene
indispensabile da parte del giudice di merito un esame critico mirato sulle ragioni
della intempestività della dichiarazione, implicitamente ritenendo che le propalazioni
fuori termine, se non caratterizzate da una presunzione di inattendibilità, debbano
essere considerate quantomeno sospette; così Cass. sez. I, 13 gennaio 2009, n. 7454,
CED Cass. n. 242845 secondo cui “L'utilizzazione, ai fini dell'emissione di misure cautelari
personali, delle dichiarazioni accusatorie di un pentito che si esternino con carattere di novità oltre il
centottantesimo giorno dall'inizio della collaborazione e siano ritenute dal giudice meritevoli di
apprezzamento nell'ambito del quadro indiziario di riferimento, richiede adeguata motivazione la quale
dia conto del legittimo sospetto che la propalazione, in conseguenza della sua intempestività, sia nata per
ragioni strumentali e possa quindi non essere veritiera.” (57).
57 La sentenza è pubblicata anche in Cass. pen. 2009, p. 4753, con nota di RUGGIERO, Dichiarazioni tardive dei collaboratori di giustizia e surplus motivazionale del giudice: un inedito rapporto