La Strada Interrotta - Testimonianza di Cesare Varetto

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AIVITER - PROGETTO SCUOLA - “LA STRADA INTERROTTA” – ed. 2014 1) CHI SONO OGGI Un pensionato di 70 anni in quiescenza dal 2003, sposato con Rita da oltre 40 anni, padre di un ragazzo e di una ragazza, nonno con due nipotini di 7 e 8 anni, con pochissimo tempo libero perché con gli impegni familiari devo conciliare i servizi come volontario in diverse istituzioni, residente da 60 anni nello stesso quartiere di Torino. Oggi sono qui non come storico, giornalista, sociologo, opinionista…. sono qui semplicemente come testimone di una stagione difficile, violenta che ha fatto del male a tanta gente del nostro paese negli anni 70-80. Vi chiedo un po’ di pazienza. Ascoltatemi per quello che sono oggi: un “normale” testimone/protagonista degli anni di piombo a Torino che un certo giorno si è trovato con la propria famiglia di fronte ad un cartello: “STRADA INTERROTTA”. 2) CHI ERO IN QUEGLI ANNI? Uno dei tanti che, al termine del servizio di leva, era stato assunto dalla Fiat come impiegato, inizialmente in produzione e poi alla Direzione del Personale. In quegli anni avevo un sogno: crescere in fretta, bruciare le tappe del miglioramento professionale per dare alla mia famiglia una parte importante di strumenti per vivere decorosamente e autonomamente. Chiedevo troppo? Penso proprio di no anche perché volevo costruire la vita con le mie mani, non avevo nessun zio in America da aspettare. In Fiat ho iniziato facendo i turni e trovavo particolarmente affascinante il risveglio della città quando poco dopo le 5 del mattino la percorrevo su una 500 d’occasione di cui ricordo ancora il numero di targa. Nel 72 Rita ed io ci siamo sposati e siamo andati ad abitare in un piccolo appartamento preso in affitto ed arredato un po’ per volta. Nel 77 è nato il primo figlio e nell’81 la figlia. Con la nascita del primo figlio mia moglie lascia il lavoro dipendente ed avvia un’attività commerciale che le lasciava tempo per la famiglia. Intanto io non facevo più i turni, non ero più in produzione perché ero stato trasferito alla Direzione del personale, in una mansione che già mi era stata presentata nel colloquio di assunzione. Non era un lavoro tranquillo, non avevo la certezza dell’orario (sapevo quando entravo ma quasi mai quando sarei uscito dall’azienda), non era routinario, gli imprevisti erano all’ordine del giorno, era fondato soprattutto sulle “relazioni con il personale” ed in particolare sulle relazioni sindacali. Era una posizione di sviluppo professionale e quindi, in buona sostanza, m’interessava per realizzare il mio sogno. Era anche un lavoro che mi poteva coinvolgere nel perseguimento degli obiettivi aziendali però in me prevaleva soprattutto il senso del dovere, il lavoro fatto bene di per sé, l’onestà professionale piuttosto che un’adesione alle scelte aziendali di natura ideologica. Era una posizione mercenaria? Non credo. Per me il lavoro era importantissimo ma non era tutta la mia vita, era soprattutto funzionale alla famiglia. 3) L’AMBIENTE DI LAVORO Vorrei ora descrivere sommariamente l’ambiente di lavoro in cui operavo negli anni 70. Fiat, Stabilimento Mirafiori Carrozzeria, quasi 18.000 persone. Un ambiente non tranquillo, anzi, decisamente perturbato per continui atti di indisciplina, di intolleranza, di violenza spicciola (minacce rivolte soprattutto ai capi, avvertimenti mafiosi, telefonate e lettere anonime, automobili incendiate), una ingovernabilità crescente, volantini intimidatori, sabotaggi agli impianti, distruzione con incendi dolosi di materiale per la produzione ecc. A metà degli anni 70 si è formata una specie di saldatura tra questo clima interno di conflittualità permanente e l’estremismo del terrore. La saldatura credo sia stata aiutata indirettamente dalla

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Testimonianza di Cesare Varetto, vittima del terrorismo, ferito dalle Brigate Rosse a Torino il 04.10.1979

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AIVITER - PROGETTO SCUOLA - “LA STRADA INTERROTTA” – ed. 2014

1) CHI SONO OGGI Un pensionato di 70 anni in quiescenza dal 2003, sposato con Rita da oltre 40 anni, padre di un ragazzo e di una ragazza, nonno con due nipotini di 7 e 8 anni, con pochissimo tempo libero perché con gli impegni familiari devo conciliare i servizi come volontario in diverse istituzioni, residente da 60 anni nello stesso quartiere di Torino. Oggi sono qui non come storico, giornalista, sociologo, opinionista…. sono qui semplicemente come testimone di una stagione difficile, violenta che ha fatto del male a tanta gente del nostro paese negli anni 70-80. Vi chiedo un po’ di pazienza. Ascoltatemi per quello che sono oggi: un “normale” testimone/protagonista degli anni di piombo a Torino che un certo giorno si è trovato con la propria famiglia di fronte ad un cartello: “STRADA INTERROTTA”.

2) CHI ERO IN QUEGLI ANNI? Uno dei tanti che, al termine del servizio di leva, era stato assunto dalla Fiat come impiegato, inizialmente in produzione e poi alla Direzione del Personale. In quegli anni avevo un sogno: crescere in fretta, bruciare le tappe del miglioramento professionale per dare alla mia famiglia una parte importante di strumenti per vivere decorosamente e autonomamente. Chiedevo troppo? Penso proprio di no anche perché volevo costruire la vita con le mie mani, non avevo nessun zio in America da aspettare. In Fiat ho iniziato facendo i turni e trovavo particolarmente affascinante il risveglio della città quando poco dopo le 5 del mattino la percorrevo su una 500 d’occasione di cui ricordo ancora il numero di targa. Nel 72 Rita ed io ci siamo sposati e siamo andati ad abitare in un piccolo appartamento preso in affitto ed arredato un po’ per volta. Nel 77 è nato il primo figlio e nell’81 la figlia. Con la nascita del primo figlio mia moglie lascia il lavoro dipendente ed avvia un’attività commerciale che le lasciava tempo per la famiglia. Intanto io non facevo più i turni, non ero più in produzione perché ero stato trasferito alla Direzione del personale, in una mansione che già mi era stata presentata nel colloquio di assunzione. Non era un lavoro tranquillo, non avevo la certezza dell’orario (sapevo quando entravo ma quasi mai quando sarei uscito dall’azienda), non era routinario, gli imprevisti erano all’ordine del giorno, era fondato soprattutto sulle “relazioni con il personale” ed in particolare sulle relazioni sindacali. Era una posizione di sviluppo professionale e quindi, in buona sostanza, m’interessava per realizzare il mio sogno. Era anche un lavoro che mi poteva coinvolgere nel perseguimento degli obiettivi aziendali però in me prevaleva soprattutto il senso del dovere, il lavoro fatto bene di per sé, l’onestà professionale piuttosto che un’adesione alle scelte aziendali di natura ideologica. Era una posizione mercenaria? Non credo. Per me il lavoro era importantissimo ma non era tutta la mia vita, era soprattutto funzionale alla famiglia.

3) L’AMBIENTE DI LAVORO Vorrei ora descrivere sommariamente l’ambiente di lavoro in cui operavo negli anni 70. Fiat, Stabilimento Mirafiori Carrozzeria, quasi 18.000 persone. Un ambiente non tranquillo, anzi, decisamente perturbato per continui atti di indisciplina, di intolleranza, di violenza spicciola (minacce rivolte soprattutto ai capi, avvertimenti mafiosi, telefonate e lettere anonime, automobili incendiate), una ingovernabilità crescente, volantini intimidatori, sabotaggi agli impianti, distruzione con incendi dolosi di materiale per la produzione ecc. A metà degli anni 70 si è formata una specie di saldatura tra questo clima interno di conflittualità permanente e l’estremismo del terrore. La saldatura credo sia stata aiutata indirettamente dalla

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copertura offerta da alcune organizzazioni demagogicamente indulgenti verso tutti i “ribellismi”. Se il clima della fabbrica poteva favorire l’infiltrazione di estremisti mi sembra comunque importante ricordare che il terrorismo non nasceva dalla emarginazione né dalla disperazione, perché una parte di terroristi aveva una cultura superiore o universitaria di estrazione medio-borghese. Io sono convinto che il terrorismo sia stato, e lo sia ancora oggi, un fatto politico che ha perseguito fini politici con il metodo della sopraffazione e dell’assassinio. Il terrorismo voleva la distruzione dello Stato democratico colpendone le strutture per spingere all’abdicazione progressiva le forze che dovevano difenderlo e sostenerlo. Ecco allora gli attacchi agli uomini che operano nelle Istituzioni (carceri, magistratura, avvocati, poliziotti); a quelli delle gerarchie aziendali (Fiat ed altri grandi gruppi industriali); e a quelli impegnati nel settore dell’informazione. In particolare in Fiat il tentativo dei terroristi mirava a provocare “il muro contro muro” tra dirigenza industriale e classe operaia, ad eliminare i tavoli di mediazione, le trattative, la ricerca di compromessi. Gli atti di violenza, le intimidazioni e gli attentati avevano spinto l’azienda ad organizzare un servizio di “accompagnamento” delle persone che rivestivano ruoli delicati. Al mattino prima di uscire controllavo che sotto casa ci fossero le persone che mi dovevano proteggere ed alla sera lasciavo l’azienda in loro compagnia. Non era un bel lavorare e mia moglie condivideva con me le preoccupazioni. Nonostante le cautele la violenza non poteva essere fermata. Una sera verso le 18,30, nell’estate del 1979, qualcuno aveva posto davanti alla porta di casa, sul pianerottolo, un mazzo di fiori che nascondeva una bomba incendiaria. Nella scala abitava un’altra persona con il mio stesso cognome e gli attentatori avevano scambiato la sua casa per la mia. Quando sono arrivato c’erano vigili del fuoco, polizia, ambulanza. Un disastro e gli inquirenti non ebbero alcun dubbio sull’errore nello scambio di persona.

4) L’ATTENTATO Per esperienza personale posso affermare che gli attentati sono stati politicamente pilotati e rivolti a persone che in fabbrica tentavano il dialogo con i lavoratori. E per portare avanti i loro disegni si erano attrezzati con una rete di informatori e fiancheggiatori che ci conoscevano molto bene sul lavoro ma anche negli ambiti familiari e sociali. Molto spesso è venuta nel mio ufficio una persona che è stata poi uccisa con altri terroristi in un conflitto a fuoco con i carabinieri e quando veniva da me aveva sulle spalle azioni terroristiche già concluse. La persona che mi ha sparato aveva un ruolo chiave nell’organizzazione delle Brigate Rosse, ed è stato uno dei lavoratori che una settimana dopo il mio attentato ricevette la lettera con cui la Fiat aveva assunto il provvedimento di sospensione verso 61 persone ritenute responsabili del grave clima creatosi in azienda. Quando mi hanno colpito con alcuni colpi di pistola, nell’ormai lontano ottobre 1979, avevano scelto il mio ambito familiare perché, uscito verso le 19 dal lavoro, ero passato nel negozio di mia moglie e qui mi hanno sparato, davanti ai famigliari, strappandomi dalle braccia il figlio di due anni. E’ stata una violenza doppiamente cattiva perché ha ferito profondamente anche la mia famiglia.Tra gli attentatori c’era anche Patrizio Peci, che nell’autobiografia del 1983 intitolata “Io l’infame” così descrive l’attentato (pagg. 165-166).

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5) IL DOPO Incomincia subito con il ricovero in ospedale per le prime cure, poi l’intervento chirurgico, l’attesa della guarigione, la riabilitazione, le medicine. Sette mesi per recuperare un po’ di autonomia e rientrare in Fiat. Già, rientrare in Fiat ma per fare che cosa? Non nella stessa mansione perché non ero più nelle condizioni di mediare, di contrattare, di discutere, di cercare compromessi per risolvere le vertenze ed i contenziosi. Mi hanno assegnato ad un ente di staff perché la strada delle relazioni con il personale in fabbrica era irrimediabilmente interrotta. Per qualche tempo mi sono occupato di formazione dei Capi intermedi ma mi sentivo un pesce fuor d’acqua e davanti a me non vedevo più un futuro professionalmente interessante. Quel maledetto attentato condizionava tutto. Ho cambiato poi area di lavoro curando alcune iniziative legate alle grandi ristrutturazioni Fiat che comportavano la dismissione di impianti produttivi e siti (Vado ligure, Villar Perosa, Firenze, Lancia san Paolo, Lingotto, Milano Portello, Milano Rubattino, Arese, Livorno, Lancia Chivasso, l’ex Autobianchi di Desio, Rivalta, Stars Villastellone, la stessa Mirafiori ecc.), la collocazione degli scarti di lavorazione, l’acquisto di materiali ausiliari, ma, dal punto di vista economico e professionale nulla è più cambiato. Come ero nel 79 così sono rimasto fino alla pensione. Ma il “dopo” è anche qualche cosa di più intimo perché riguarda la mia reazione all’episodio di violenza, i miei sentimenti, la serenità familiare, il bagaglio di conoscenze ed esperienze che avrei dovuto lasciare ai figli. Non solo, ma il dopo vuol anche dire quali relazioni ho saputo/potuto coltivare con le persone al di fuori dell’ambito familiare. Gli sguardi curiosi della gente per capire quanto fossi rimasto menomato; le battute colte nel bar vicino a casa: “Se gli hanno sparato, qualcosa avrà pur fatto”! la lettera con cui uno del commando mi chiedeva perdono; il volantino con cui le BR rivendicando l’attentato tentavano di demolirmi descrivendomi come un nemico della classe operaia ecc. ecc. Nel dopo ci sono altri aspetti che mi ha dato grande sofferenza. Non potermi vantare per un atto di eroismo. Non è facile da spiegare perché è un tarlo che lavora molto in profondità e provo a spiegarlo con un paragone. Se una persona viene ferita o uccisa da un malfattore mentre sta tentando di difenderne la vittima, riceve stima e rispetto da parte di tutti ma nel caso mio e di chi è stato vittima di un attentato terroristico non è sempre così perché sono tantissimi i distinguo, i forse, i si potrebbe, i chissa’ qual è la verità, i sostenitori ancora oggi della lotta di classe. Il risultato qual è? Rischiare di starsene il più possibile in silenzio o parlando solo a se stessi o con pochi intimi. Un altro tarlo che si è fatto strada “dopo” è quello della paura, dell’insicurezza, dell’apprensione. Una brutta compagnia che ti tormenta di giorno e di notte, che condiziona le tue scelte, che ti fa sentire in colpa, che ti rende a volte molto debole. Nel “dopo” io metto anche il mio mutato atteggiamento nei confronti dell’azienda con cui ho mantenuto un forte senso di appartenenza ma di cui ho patito la mancanza di attenzione, un atteggiamento diverso anche nei confronti di alcune organizzazioni sindacali e movimenti politici, dei terroristi. Nel “dopo” mi è rimasta una luce: quella di mia moglie e della mia famiglia che con discrezione mi hanno accompagnato e sostenuto nel passaggio al buio.

Cesare Varetto