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Tesi di dottorato in Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche SSOAPP XXII° ciclo La sicurezza in costruzione. Etnografia di un cantiere Pratiche di controllo, mediazione e corpi al lavoro Silvia Doria Tutor: Prof.ssa Assunta Viteritti Facoltà di Scienze Politiche Sociologia, Comunicazione

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Tesi di dottorato in

Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche SSOAPP – XXII° ciclo

La sicurezza in costruzione. Etnografia di un cantiere

Pratiche di controllo, mediazione e corpi al lavoro

Silvia Doria

Tutor: Prof.ssa Assunta Viteritti

Facoltà di Scienze Politiche Sociologia, Comunicazione

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Indice Ringraziamenti 6

Introduzione 7

1 Sicurezza e lavoro: un cambio di prospettiva 25

1.1 Una misura degli infortuni sul lavoro 26

1.2 Livello istituzionale: la policy della sicurezza in Italia 35

1.3 Il dibattito sugli infortuni: discipline tecniche e sociali a confronto 42

1.3.1 Rischio: breve storia di un concetto attraente 46

1.3.2 Sicurezza sul lavoro: una costruzione sociale 51

1.3.3 Sicurezza come pratica situata. Un approccio prossimale 56

1.4 La rete degli attori istituzionali: tradurre i discorsi sulla sicurezza 58

1.4.1 Il discorso normativo: attori e artefatti 60

1.4.2 Il discorso tecnico-ingegneristico: attori e artefatti 66

1.4.3 Il discorso educativo/formativo: attori e artefatti 68

1.4.4 Il discorso economico: attori e artefatti 70

1.5 Riassumendo: le ragioni di un percorso 71

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2 Etnografia di un cantiere 75

2.1 Alla ricerca di un campo: 1, 2, 3 cantieri 80

2.1.1 Prima fase: “mettermi(si) al sicuro” 81

2.1.2 Seconda fase: “la scorta” 85

2.1.3 Terza fase: “finalmente in cantiere” 91

2.2 Alla ricerca di una teoria 94

2.2.1 Tradurre la sicurezza sul lavoro 95

2.2.2 La pratica in teoria 96

2.2.2.1 Il corpo al lavoro: dimensione estetica e conoscenza

tacita 100

2.2.2.2 L’azione situata 104

2.2.2.3 Etnometodologia e lo studio del lavoro 106

2.2.3 Lo studio dei “contesti di lavoro” 108

2.3 La metodologia di ricerca 111

2.3.1 L’etnografia 112

2.3.2 Lo shadowing e l’osservazione 117

2.3.3 Le interviste 121

2.4 Produrre note di campo 124

2.4.1 Etnografia e shadowing: la raccolta delle note di campo 126

2.4.2 Note di campo: una tipologia 128

2.4.3 Codifica del “materiale” 131

2.5 Il ruolo dell’etnografo: maschile vs femminile 133

2.5.1 Il cantiere non è un posto per donne! 135

2.5.2 Il posto delle donne 139

2.5.3 Costruire e “cercare cocci”: una questione di genere? 145

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3 Il campo d’indagine: rete istituzionale, organizzazione, attori locali 149

3.1 Il settore delle costruzioni: l’edilizia industrializzata 150

3.2 Il campo organizzativo e le reti d’azione 157

3.2.1 Prima fase: ottenere consenso e risorse per avviare una grande

opera 158

3.2.2 Seconda fase: chi avrà il compito di costruire la nuova linea di

trasporto pubblico urbano? 163

3.2.3 Terza fase: l’avvio dei cantieri 165

3.3 Un’istantanea dal cantiere 166

3.3.1 L’organizzazione 169

3.3.2 I cantieri 173

3.4 Dalla rete istituzionale all’action-net locale 177

3.4.1 Il “tessuto” della sicurezza 178

3.4.2 In cantiere: attori ed intermediari della sicurezza 182

3.4.2.1 Controlli interni 185

3.4.2.2 Controlli esterni 190

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4 Costruire la sicurezza: pratiche di controllo e mediazione 195

4.1 Una giornata in cantiere: il tessuto della sicurezza 198

4.1.1 Le prime luci del mattino: l’apertura del cantiere 200

4.1.2 Lo shadowing dei “padroni di casa”: il signor M. e il signor P. 204

4.1.3 Avviare l’attività di cantiere: accordarsi e gestire gli imprevisti 212

4.1.4 Gestire un cantiere: tessere relazioni 217

4.1.5 L’assistente di cantiere: il “contatto” con gli operai 223

4.1.6 Gli operai e il cantiere 224

4.2 La sicurezza in costruzione: pratiche di controllo e mediazione 227

4.2.1 Uno, nessuno, centomila … controlli in cantiere 229

4.2.2 L’attività di controllo come pratica situata 231

4.2.3 L'arte della negoziazione: costruire la sicurezza “ad ogni giro” 237

4.2.3.1 Lo stratagemma della vedetta 238

4.2.3.2 Un’alleanza: la soffiata da parte dei “capi” e il “gioco di specchi” 242

4.2.3.3 “Prendere le misure” … per farsi un’idea e lavorare in sicurezza 248

4.2.3.4 Il Coordinatore per la sicurezza: arriva l’ingegnere! 252

4.2.3.5 I collaboratori del Coordinatore: mediare per tradurre 256

4.2.3.6 Tradurre per tradire: il POS 266

4.2.3.7 Anche gli operai chiedono sicurezza 272

4.2.4 Controlli “esterni”: la messa in scena della sicurezza 277

4.2.4.1 Quando gli operai decidono di fermarsi 277

4.2.4.2 La “parata” 280

4.2.4.3 Il ruolo del Comitato Territoriale Paritetico (CTP) 284

4.3 Riassumendo 286

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5 La sicurezza in pratica: rispetto e non rispetto della normativa 289

5.1 Rispettare le norme: la sicurezza reificata 290

5.1.1 Esibire la sicurezza: l’immagine della CortemSpa 292

5.1.1.1 Metterci la faccia: la “cultura della sicurezza” al vertice 296

5.1.1.2 Tradurre l’immagine della CortemSpa in cantiere 301

5.1.2 Dall’immagine agli artefatti “sicuri” 304

5.1.2.1 La sicurezza “addosso”: i Dpi e il loro bricolage 307

5.1.2.2 Artefatti-in uso: la moda dei Dpi 314

5.2 Non rispetto della normativa: tre possibili chiavi di lettura 317

5.2.1 Sfida alle norme: pratiche di spavalderia 322

5.2.2 Pratiche di un mestiere: guanti di protezione e sapere pratico 332

5.2.3 Coordinamento e collaborazione: le cuffie di protezione 342

5.2.3.1 In questo mestiere bisogna “avere occhio” 351

5.3 Riassumendo 357

6 Ripensare la sicurezza sul lavoro 361

6.1 La sicurezza vista dal basso di un cantiere 362

6.2 La pratica ri-pensa l’organizzazione 366

6.3 La pratica della sicurezza ritorna (a riflettere) sul livello istituzionale 371

6.4 Per riflettere: il ruolo della sociologia 375

Bibliografia 381

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Ringraziamenti

Il lavoro che segue è il frutto del percorso di dottorato in Sistemi Sociali,

Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche del Dipartimento di Scienze Sociali

della Sapienza di Roma.

La persona che per prima ha creduto in me ed ha seguito, come tutor, questo

importante percorso nei primi due anni è stato il Prof. Fabrizio Battistelli, attuale

Direttore di Dipartimento, che ringrazio con affetto.

Nel prosieguo della storia, inoltre, sono intervenuti altri attori che hanno fatto

sì che il percorso potesse continuare: ringrazio l’INAIL che ha finanziato la borsa di

studio; l’organizzazione che, nella persona del signor L., mi ha ospitato e permesso di

osservare da vicino anche ciò che credeva io non dovessi vedere; ringrazio il signor M.

ed il signor P. per la disponibilità ad accogliermi nel loro cantiere e nel “raccontarmi” il

loro lavoro; ma anche gli operai che nonostante il caldo ed il freddo mi hanno concesso

qualche minuto del loro faticoso tempo.

Infine, ma solo come “ordine d’arrivo” nella storia del mio percorso di ricerca,

ringrazio la Prof. essa Assunta Viteritti che ha accettato la sfida di seguirmi, di prendere

il testimone e divenire mio nuovo tutor negli ultimi due anni di dottorato, rendendo

possibile la ricerca e, soprattutto, la traduzione sul campo delle difficoltà incontrate e

degli obiettivi che ero intenzionata a raggiungere, permettendomi di crederci anche in

pratica.

La mia nuova tutor, inoltre, mi ha permesso di conoscere la dott.ssa Barbara

Pentimalli la quale, con estrema pazienza e inesauribile entusiasmo, ha seguito più da

vicino il contatto con il campo e le prime stesure della tesi, rendendomi ancor più

consapevole di quanto appassionante sia l’attività di ricerca.

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Introduzione

La mente è come

un paracadute:

funziona solo se si apre

(Einstein)

La presente tesi di dottorato ‒ in Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle

Politiche Pubbliche del Dipartimento di Scienze Sociali (DiSS) della Sapienza di Roma ‒

si basa su una ricerca etnografica svolta tra la seconda metà del 2008 e la prima metà

del 2010 ed ha come oggetto la sicurezza sul lavoro nei cantieri della CortemSpa1.

La CortemSpa è la società responsabile della costruzione di una delle nuove

linee metropolitane della città di Roma. Realizza con propri operai la diretta

costruzione delle gallerie (§3.3) ed è responsabile della gestione di tutti i cantieri della

linea all’interno dei quali si avvicendano numerose ditte a cui affida i lavori di

costruzione, mentre queste, a loro volta, possono affidare parte dei lavori tramite

appalti e subappalti ad ulteriori ditte.

L’organizzazione mi ha anche dato la possibilità di svolgere una etnografia di

cantiere, concretizzatasi in particolare nello shadowing2 di un capocantiere e di un

assistente e in alcune interviste ad operai e a “figure della sicurezza”. Attraverso tale

pratica, inoltre, ho potuto osservare le loro interazioni con gli operai, il punto di vista di

quest’ultimi sulla pratica della sicurezza e le difficoltà che gli operai incontrano

soprattutto nell’uso di alcuni dispositivi di protezione (Dpi). L’obiettivo era osservare da

vicino il fare sicurezza in un concreto contesto di cantiere e le dinamiche di traduzione

1 Ricordo che la scelta della tematica oggetto di ricerca è conseguenza dell’ottenimento di una

delle due borse di studio messe a disposizione dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) all’inizio del XXII° ciclo di dottorato SSOAPP.

2 Lo shadowing è una modalità di osservazione non partecipante (Czarniawska, 2007; Sclavi,

1989) che consiste nel “fare da ombra” ad un attore organizzativo per raccogliere dati rilevanti sul fenomeno che s’intende studiare, sulle pratiche che l’attore svolge e le relazioni che tesse con gli altri attori organizzativi.

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della normativa in materia di sicurezza e prevenzione degli infortuni. Sono diversi gli

“intermediari” (Callon, 1992) che traducono in pratica la normativa sulla sicurezza sul

lavoro all’interno di un contesto di cantiere. In particolare, sono i responsabili del

cantiere (capocantiere ed assistente da me seguiti durante la loro attività di lavoro) a

svolgere un ruolo centrale di traduttori e intermediari della sicurezza sul campo-

cantiere.

Il percorso accidentato di accesso al campo (§ 2.1) ha rispecchiato in parte le

complessità di un fenomeno di cui “si preferisce non parlare”, come qualche attore

della ricerca ha osservato, ma che ancora poco si conosce, o se ne conosce solo

l’aspetto dominante, ovvero la dimensione normativa e tecnica dalla quale la presente

tesi cercherà di distanziarsi sostenendo che la sicurezza non è una questione

individuale di rispetto o meno delle norme e, dunque, relativa al singolo individuo, o

almeno non solo.

La sicurezza, al contrario, è eminentemente collettiva, è una competenza

pratica, tacita, estetica e profondamente incorporata nell’agire degli attori (Gherardi,

Nicolini Odella, 1997) e che si costruisce quotidianamente attraverso l’attività di

controllo e mediazione svolta dai responsabili di cantiere osservati. Sono loro che

costantemente negoziano (a volte alleandosi, altre confliggendo) con gli altri attori del

campo ‒ gli operai per primi ‒ su che cosa sia sicuro e che cosa non lo sia, dando luogo

ad una pratica della sicurezza che è negoziata, perché espressione di diverse culture

professionali che in cantiere operano, e situata (Conein, Jacopin, 1994; Suchman,

1987), in quanto emergente in situ dalle dinamiche del contesto materiale e sociale in

cui si svolge.

Dall’attività di shadowing da me svolta in cantiere, inoltre, ho potuto ri-

conoscere e delineare la presenza di due sistemi di pratica: da un lato quella dei

responsabili di cantiere e, dall’altro, quella degli operai. La funzione di snodo tra questi

due sistemi è giocata dalle figure del capocantiere e dell’assistente che ho seguito

come un’ombra per circa tre mesi e che svolgono, appunto, un ruolo di controllo e

mediazione rispetto alla sicurezza sul lavoro.

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Ma passiamo al contesto entro il quale la presente tesi, nel suo farsi, si è

collocata e si colloca a tutt’oggi.

Il 2007 ‒ anno in cui ha avuto inizio il percorso di dottorato ‒ è stato un anno

molto importante dal punto di vista della sicurezza sul lavoro: in agosto è stata

approvata la legge delega al Governo in carica per “il riassetto e la riforma della

normativa in materia”, come recita l’intestazione della stessa. La legge è stata

considerata di epocale importanza dal momento che si prefiggeva lo scopo di

ricomprendere in un Testo unico ‒ approvato nell’aprile 2008 ‒ le diverse disposizioni

in materia, tentando anche una eventuale chiarificazione nella giungla di leggi che con

gli anni si sono stratificate sull’argomento, creando difficoltà nella comprensione di

figure, di ruoli, di “regole” e competenze che cercano di governare un così complesso

fenomeno. In dicembre, infine, abbiamo assistito al disastro della ThyssenKrupp Acciai

Speciali di Torino in cui sette operai hanno perso la vita.

Da allora è parso assistere ad una escalation di fenomeni in cui la sicurezza sul

lavoro ha segnato bruscamente la sua “assenza” (sottolineando le difficili condizioni in

cui spesso molti lavoratori si trovano, per esempio) ed i media hanno a più riprese

“denunciato” altri incidenti gravi: è il caso degli operai di Molfetta, o di Capua nel

napoletano, guardando in casa nostra. Ma che dire degli undici operai morti e

diciassette feriti sulla piattaforma della BP nel Golfo del Messico dell’aprile 2010 (oltre

al disastro ambientale provocato dalla fuoriuscita in mare di chissà quante tonnellate di

petrolio grezzo)? O dei trentatré minatori rimasti intrappolati in una miniera cilena per

un paio di mesi; oppure dei due minatori morti, sempre nelle miniere cilene, qualche

settimana dopo la celebrazione della riuscita “risalita” dei minatori intrappolati, di cui

però solo in pochi hanno dato la notizia? Parlando di miniere, inoltre, occorre ricordare

le centinaia di vite umane perse nelle miniere cinesi.

Le parole che si rincorrono all’indomani di tali incidenti “più vistosi” ‒ non va

dimenticato infatti che ci sono anche operai clandestini che lavorano in nero e che

vengono abbandonati sul ciglio della strada, o all’ingresso di qualche ospedale, da

datori di lavoro senza scrupoli ‒ sembrano ripercorrere un cliché in cui si ricorda che

prima dell’incidente si erano avuti già degli episodi non ascoltati, come emerge per

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esempio dalle ricostruzioni di Diane Vaughan (2004), che da anni si occupa di “disastri

organizzativi” come quelli del Challenger. In retrospettiva, infatti, l’autrice ha colto le

dinamiche organizzative che hanno “prodotto” disastri non addebitabili solo

all’“incuranza” del singolo lavoratore (Catino, Albolino, 2008).

Occorre ri-conoscere la dimensione collettiva dell’attività lavorativa in cui

diversi attori entrano in gioco nel processo di “costruzione” della sicurezza (Gherardi,

Nicolini, Odella, 1997 a, b; Nicolini, 2001), ognuno con una propria specifica “visione

professionale” (Goodwin, 2003) di ciò che è o non è sicuro.

Non sempre, infatti, le pratiche che sono ritenute sicure da una comunità

occupazionale lo sono per un’altra, come ha evidenziato la ricerca sottolineando, al

contrario, che vi sono pratiche “progettate” dalla comunità professionale che presiede

alla formulazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro come sicure ‒ per

esempio l’uso obbligatorio durante lo svolgimento delle attività di lavoro dei Dispositivi

di protezione individuale (Dpi) come guanti e/o cuffie ‒ ma che non sempre sono

riconosciute come tali dalla comunità degli operai.

Gli operai ascoltati, infatti, hanno sottolineano come in determinate occasioni i

Dpi possano essere d’intralcio o addirittura rivelarsi non sicuri rispetto alle consuete

pratiche di lavoro, le cui modalità di svolgimento sono riconosciute ed approvate dai

membri competenti ‒ nel senso etnometodologico di esperti conoscitori “dal di

dentro” delle attività di lavoro ordinarie ‒ dello stesso gruppo (Garfinkel, 1967; Fele,

2002; Giglioli, Dal Lago, 1983).

Nel processo di costruzione della sicurezza sul lavoro, inoltre, un ruolo rilevante

è ricoperto dalla Comunicazione Istituzionale di cui il Governo di un Paese si avvale per

veicolare la propria idea di sicurezza che intende perseguire attraverso provvedimenti

o non-provvedimenti (ovvero non legiferando in materia, o congelando norme

adottate dal governo precedente di “colore” avverso, o non destinando risorse) utili a

sensibilizzare i diversi attori sociali.

Tale attività mira a sensibilizzare ciascun attore ‒ istituzionale, organizzativo

sino ai lavoratori ‒ al raggiungimento, attraverso uno sforzo comune, di traguardi che

fanno leva sulla diminuzione (numerica e percentuale) degli incidenti sul lavoro, ma

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anche, parallelamente e spesso con maggior enfasi, dei costi relativi alla sicurezza,

come quelli sostenuti dall’Italia per gli infortuni del 2008 e pari al 2,8% del PIL italiano

dello stesso anno (fonte Eurispes), per non parlare dei “costi” sociali di chi s’infortuna o

perde la vita lavorando.

Un esempio della forza della comunicazione nell’ambito delle politiche per la

sicurezza sul lavoro è testimoniato dall’ultimo spot pubblicitario lanciato ‒ a partire dal

mese di agosto 2010 ‒ dal Ministero del Lavoro italiano dal titolo “Sicurezza sul lavoro.

La pretende chi si vuole bene” e dove sono raccontate alcune storie attraverso brevi

frame. Uno degli spot inizia con la frase: “Quando lavori pensa a chi ti ama e attende il

tuo ritorno”. Poi compaiono le immagini di un agricoltore che solleva il figlio; un

capocantiere che torna a casa dalla famiglia; una giovane operaia che abbraccia il

fidanzato. La scritta finale è la stessa che dà il nome allo spot: “Sicurezza sul lavoro. La

pretende chi si vuole bene” 3.

Nessun riferimento però alle condizioni di precariato, o di lavoro nero, in cui

versano molti lavoratori, giovani e meno giovani, migranti o non, posti sotto il ricatto

della possibilità di perdere il lavoro e, per tale motivo, non in condizione di “esigere” il

rispetto di un loro diritto, quello alla sicurezza del posto di lavoro e sul lavoro.

A stridere con tali immagini sono le parole del Capo dello Stato, Napolitano,

che ha affermato che “l’incolumità e la salute dei lavoratori costituiscono valori primari

per la società e la loro tutela è interesse non solo del singolo lavoratore, ma di tutta la

collettività”4, sostenendo, dunque, una visione collettiva e di interesse sociale del

fenomeno.

In un momento storico in cui il lavoro sembra essere un “costo” più che un

diritto, in cui le condizioni dei lavoratori si contrattano “al ribasso” o si devono

accettare quelle che il datore di lavoro è “disposto” a concedere (più che essere

3 Sul Web sono diverse le testimonianze di coloro i quali lo hanno definito uno spot “vergogna”:

affermare, infatti, che la sicurezza sul lavoro sia principalmente un discorso basato sul “volersi bene” o come “un lusso che non possiamo permetterci” ‒ frase pronunciata dal ministro dell’economia Tremonti e tratta da un articolo del Corriere della Sera on line del 25 agosto 2010 ‒ esprime una dimensione privata e personale del fenomeno ‒ e non di “competenza sociale” ‒ che difficilmente può trovare riscontro nelle più disparate realtà lavorative, vanificando anni di lotta sindacale, politica, civile, per l’ottenimento di un diritto, la sicurezza sul lavoro, sancito dalla Costituzione italiana sin dal 1948.

4 www.ANSA.it del 10 ottobre 2010.

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l’espressione di un “compromesso” tra le parti sociali chiamate a contrattarle) anche la

sicurezza sul lavoro risente di un periodo di forte incertezza e precarietà delle

condizioni di lavoro.

Come si cercherà di sostenere nel corso della tesi, la sicurezza sul lavoro non

può essere demandata solo alle discipline che calcolano il rischio e le probabilità che

esso si verifichi per ottenere un modello formale che possa garantire un ambiente di

lavoro sicuro. Anche i contributi derivanti dall’ergonomia5 soffrono di una qualche

parzialità nella visione del fenomeno, basandosi anch’essi su calcoli e modelli formali il

cui perseguimento ‒ previsto e supportato dalla normativa ‒ non sempre tiene conto

né delle quotidiane modalità di lavoro ‒ le pratiche ‒ contestualmente situate, né della

dimensione collettiva dello stesso lavoro, puntando al contrario sulla scomposizione

delle mansioni in singole unità calcolabili in termini di secondi necessari per eseguirle e

di pause, espresse anch’esse in secondi, per alleviare i rischi di patologie, rievocando

una sorta di neo-taylorismo, come il caso dell’Accordo della Fiat di Pomigliano può

mettere in luce.

Il punto di partenza per affrontare il tema di ricerca sarà l’analisi critica degli

approcci “classici” ‒ quello normativo e quello tecnico ‒ alla questione della sicurezza

sul lavoro, al fine di proporre una diversa chiave di lettura della sicurezza, già affrontata

in altre ricerche sociologiche sull’apprendimento organizzativo (Gherardi, Nicolini,

Odella 1997; Gherardi, Nicolini, 2000; Nicolini, 2001; Gherardi, 2006).

Da un lato, infatti, la sicurezza è stata appannaggio delle discipline

ingegneristiche che hanno fatto leva sul concetto di rischio e sulla sua calcolabilità per

offrire soluzioni “oggettive e neutre” al problema degli incidenti industriali: le misure di

prevenzione e gestione delle comunicazioni dei rischi hanno rappresentato una

metodologia di gestione “sicura” del fenomeno. Dall’altro, la dimensione normativa ‒

anch’essa attratta dal concetto di rischio ‒ ricorre ad interventi prescrittivi, come le

norme in materia di sicurezza sul lavoro, per la gestione del rischio che lasciano

5 Come per esempio la sperimentazione del sistema ErgoUas che la Fiat ha avviato a Mirafiori nel

settembre del 2008 (e poi esteso agli altri stabilimenti del gruppo) con l’obiettivo di “calcolare” e ridurre i “fattori di riposo” (comunicato Fiom, scaricato nel mese di novembre 2010 da www.fiom.cgil.it.).

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trasparire una logica che fa affidamento ad una razionalità di tipo tecnico-scientifico

alla quale si riconosce un ruolo di “super partes” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997a).

L’assunto di base della presente tesi è che i tradizionali sistemi di analisi degli

infortuni sul lavoro ‒ e di conseguenza l’idea di sicurezza come rispetto delle norme

che la regolano ‒ risultano inadeguati e insufficienti ad affrontate il problema.

Un’alternativa può essere rappresentata da una maggiore diffusione di ricerche

sociologiche qualitative che descrivano il lavoro nei diversi contesti “naturali” al fine di

valorizzare e ri-conoscere la dimensione collettiva, cooperativa e sociale dell’attività

lavorativa, per cogliere, inoltre, le dinamiche che presiedono alla ri-produzione di

pratiche di lavoro più o meno sicure.

Dopo l’analisi dei diversi contributi in materia di sicurezza sul lavoro

(normative, studi di settore …), però, sono stata colta da una certa insoddisfazione e mi

sono posta le seguenti domande: le norme e la valutazione dei rischi sono tutto quello

che occorre sapere per far sì che un contesto di lavoro sia sicuro? I lavoratori ai quali è

richiesto di “conformarsi” alle norme sulla sicurezza che posto occupano nel processo

di “implementazione” della normativa sulla sicurezza?

Espresso in maniera più sintetica: come si fa sicurezza in un concreto contesto

di lavoro come quello di cantiere? E cosa c’è dietro a situazioni in cui la norma non è

rispettata, o è negoziata o ancora tradotta o persino tradita?

A queste domande ho inteso rispondere invertendo il punto di vista

“tradizionale” ‒ la logica top-down che dall’alto fa discendere i provvedimenti (in

questo caso la normativa sulla sicurezza sul lavoro contenuta principalmente nel Testo

Unico 81/2008) verso il basso, ovvero i lavoratori e i loro contesti di lavoro, tipica anche

dei processi di implementazione delle politiche pubbliche di tipo non partecipativo ‒

per adottare un punto d’osservazione differente (in una logica bottom-up).

L’obiettivo è stato da subito quello di avvicinarmi al “campo”, di “sporcarmi le

mani” ‒ come invitava a fare uno dei fondatori e dei maggiori esponenti della Scuola di

Chicago Robert Park ‒ entrando in contatto con la realtà da osservare: il cantiere edile,

gli attori che lo abitano e i loro attrezzi del mestiere, seguendo il principio

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metodologico della Grounded Theory6 (Glaser, Strauss, 1967) del “what’s going on

here”, ovvero osservare cosa accade in un dato contesto lavorativo, ricordando la

“curiosa proprietà” ‒ evidenziata da Garfinkel (1990) ‒ circa gli studi sociologici classici

che hanno alla base lo studio del lavoro: l’aver poco analizzato “il lavoro come tale,

nella sua materiale specificità” (in Fele 2002: 145).

Non è stato semplice rintracciare i diversi contributi teorici che potessero

“reggere” una ricerca sulla sicurezza sul lavoro. Avrei potuto scegliere di analizzare

macro variabili come le statistiche sugli infortuni, la diffusione del lavoro nero, la quota

di immigrati impegnati nel settore edilizio7, ma la dimensione della pratica ‒ già

affrontata da Gherardi, Nicolini e Odella (1997) ‒ è sembrata più affine all’obiettivo

della presente ricerca: osservare come si fa sicurezza in un contesto di pratiche

quotidiane come quelle di un cantiere edile.

Il contributo teorico dal quale ho scelto di partire è la sociologia della

traslazione (Callon, 1986; Latour, 1986) che mi ha permesso di evidenziare la “catena di

traduzione” locale e “situata”, ovvero legata al contesto osservato, che pone in essere

il processo di “messa in pratica” di una normativa, come la policy della sicurezza sul

lavoro. Attraverso tale approccio, inoltre, ho potuto rintracciare l’action-net

istituzionale della sicurezza, ovvero quella rete di attori e relativi intermediari (Callon,

1992) che “normano” la sicurezza. Ma anche la rete locale e “situata” (Conein, Jacopin,

1994; Suchman, 1987) della sicurezza, che si costruisce ed emerge da un dato contesto

materiale, storico-istituzionale e sociale (Gherardi, 2006), dando luogo all’“ordine

negoziato” (Strauss, 1978) dei cantieri.

La pratica di controllo e di mediazione della sicurezza, svolta dai responsabili di

cantiere (capocantiere e assistente di cantiere) ‒ oggetto della presente ricerca ‒ è

anch’essa situata, legata al contesto/cantiere e negoziata, ovvero frutto di un

6 La Grounded Theory è una metodologia di ricerca qualitativa e un insieme di procedure in grado

di generare in modo sistematico una teoria “radicata” nei dati. Essa offre, inoltre, la possibilità di costruire categorie analitiche a partire dai dati empirici raccolti, per esempio, attraverso l’osservazione sul campo e di rispettare il fenomeno seguendo le indicazioni che da esso provengono (Tarozzi, 2008).

7 Per una simile analisi si rimanda allo studio di Savona, Di Nicola, Vettori, 2008. Si veda anche il

saggio di Perrotta, 2008.

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quotidiano confronto/scontro su che cosa sia la sicurezza, o meglio, su cosa sia sicuro e

cosa non lo sia rispetto al gruppo professionale di riferimento di ciascun attore.

Essenziale in una siffatta prospettiva sarà, quindi, considerare il lavoro come

una attività lavorativa, come una modalità socialmente sostenuta di fare le cose e di

farle in un certo modo (Gherardi, 2006), sottolineando ancora una volta la dimensione

“situata” dell’azione collettiva. In una prospettiva in cui il lavorare è analizzato come

sapere in pratica, ovvero come “fare” un mestiere o una professione, la sicurezza

emerge anch’essa quale modalità che gli operai hanno di svolgere il proprio mestiere,

quello edile in questo caso.

La sicurezza, inoltre, è concettualizzata come competenza, expertise che si

apprende lavorando, nella pratica, come parte di un sapere pratico, sensibile ed

estetico (Strati, 2000) che si acquisisce nel fare e per questo prevalentemente tacito

(Polanyi, 1990) ed incorporato (Yakhlef, 2010), che si apprende con tutto il corpo

(Viteritti, 2010), quale prima fonte di conoscenza e di mediazione con il mondo

esterno.

Un ulteriore contributo sarà rintracciato nei Workplace Studies e prima ancora

nell’approccio etnometodologico ai contesti di lavoro nel quale gli stessi Workplace

Studies affondano le proprie radici. Tale approccio permette, infatti, di far emergere,

da un lato, quel “dato per scontato” (Garfinkel, 1967) che può essere solamente

osservato attraverso un approccio “naturale” allo studio delle attività lavorative;

dall’altro, la dimensione collaborativa di tali attività e la loro relazione con i colleghi o i

responsabili di cantiere, ma anche con gli artefatti quotidiani (attrezzi da lavoro, Dpi,

norme e procedure che sono tenuti a rispettare), la tecnologia e i diversi strumenti che

divengono importanti quali strumenti-in-uso, ovvero che permettono la realizzazione

dell’attività stessa (Heath, Button, 2002).

L’interazione tra attori umani e non-umani (Latour, 1993), infatti, richiede un

allineamento che mette in risalto la natura situata e materiale della relazione al fine di

trovare un orientamento comune nei confronti dell’azione da svolgere. Nel caso in

esame, si tratta di problematizzare l’uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi)

che gli operai “devono” utilizzare “per legge”, ma che a volte non usano perché

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“interferiscono” con le abituali pratiche di lavoro, non “allineandosi” (i Dpi) con le

modalità di lavoro socialmente condivise ‒ e ritenute sicure ‒ dal proprio gruppo di

riferimento o da chi conosce le modalità di lavoro di questo gruppo, come i

responsabili di cantiere. Sono queste le situazioni in cui emerge la complessità delle

attività di mediazione e traduzione svolte dal capocantiere, e ancor più dal suo

assistente, che ho seguito “come un’ombra” per un certo periodo di tempo. È la

relazione tra i due sistemi di pratica (quello dei responsabili dei cantieri da un lato e

quello degli operai dall’altro) a rendere il cantiere più o meno sicuro e, dunque, a

costruire quotidianamente la sicurezza in esso.

In una realtà complessa come quella dei cantieri, inoltre, è più appropriato

parlare di “traslazioni multiple” (Star, Griesemer, 1989), dal momento che sono

coinvolti diversi attori appartenenti a diversi “mondi sociali”, come direbbe Schütz. Ad

essere rilevante, entro tale prospettiva “ecologica” del processo di traslazione, è il

riuscire ad interpretare come e cosa renda possibile l’azione collettiva attraverso sfere

d’azione che sono guidate da diverse visioni del mondo, da diversi sistemi di priorità

(ibidem) e da diverse professionalità.

Se i contribuiti appena ricordati mi permetteranno di osservare ed analizzare le

pratiche di controllo e mediazione della sicurezza (§ 4.2), con l’approccio estetico

(Strati, 2000; 2010) allo studio organizzativo e delle pratiche lavorative evidenzierò, in

particolare, la dimensione corporea delle pratiche e della conoscenza degli operai che

operano in cantiere, in particolare per rendere conto dei casi di “non rispetto della

normativa” (§ 5.2).

I Practice-based Studies (Gherardi, 2000, 2000a), si ricorda, hanno “radicato”

l’apprendere ed il conoscere nelle pratiche, nelle attività e nelle azioni ma, come

sottolinea Yakhlef (2010), lo stesso approccio ha poi posto poca attenzione al

significato di “incorporamento” (embodiment) e al corpo come prima entità che muove

ogni azione (o processo) e fare, come ogni apprendere e conoscere: “fino al punto che

apprendere/conoscere è una questione di fare, un fare che può solo essere performato

attraverso gli sforzi del corpo umano” (ibidem: 423; Viteritti, 2010).

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Ed è quanto emerge dalla ricerca: la dimensione corporea della pratica operaia

edile e della sicurezza è “sentita” ed appresa attraverso tutto il corpo, anche al di là

delle singole norme.

Per osservare come si fa sicurezza nella quotidianità di un contesto di lavoro,

ho ritenuto utile ricorrere alla pratica etnografica, quale metodologia in grado di

avvicinare il ricercatore al contesto che intende studiare, agli attori che tale contesto

abitano, ai processi, alle dinamiche e agli strumenti ‒ attori non-umani li chiamerebbe

Latour (1993) ‒ che entrano in gioco ogni giorno nello svolgimento delle attività

lavorative degli operai del cantiere e nelle pratiche di controllo e mediazione dei

responsabili della sicurezza. Sono proprio le attività lavorative ad assumere rilevanza in

uno studio rinnovato del lavoro all’interno degli studi organizzativi (Barley, Kunda,

2001). La dimensione micro-sociale, infatti, può esser meglio indagata attraverso

metodi qualitativi, come l’etnografia appunto, in grado di ricostruire il tessuto delle

pratiche quotidiane di lavoro anche relative alla sicurezza sul lavoro.

Il contatto con il campo, infatti, ha permesso di ricostruire l’action-net della

sicurezza nella sua configurazione locale e situata, relativa al contesto organizzativo dei

cantieri edili della CortemSpa, contesto entro il quale si avvicendano diversi macro-

attori, ognuno con la propria “visione professionale” (Goodwin, 2004) in merito alla

sicurezza. E sono queste visioni a guidare (condizionare) le “traduzioni multiple” della

sicurezza, portando gli attori a confrontarsi, scontrarsi, allearsi al fine di negoziare

l’idea di sicurezza da perseguire e “mettere in pratica” quotidianamente nel contesto di

lavoro del cantiere.

Una volta sul campo, l’attività di osservazione è stata performata dalle esigenze

degli attori del campo (orari, impegni di lavoro, disponibilità ad “essere seguiti”).

Infatti, se il proposito iniziale era quello di riuscire ad osservare da vicino gli operai

durante lo svolgimento delle loro pratiche, nel corso del lavoro sul campo, ho dovuto

“ri-modellare” il mio obiettivo, focalizzandomi sull’osservazione delle pratiche di

controllo e mediazione della sicurezza, grazie all’attività di shadowing delle “figure

della sicurezza” in ben tre diversi cantieri. Nel primo ho seguito come un’ombra il

capocantiere e l’assistente di cantiere; nel secondo cantiere ho osservato le pratiche di

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due assistenti e nel terzo uno dei Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione8

della CortemSpa.

L’impossibilità ad osservare direttamente gli operai, se in un primo momento

ha richiesto una rimodulazione degli obiettivi di ricerca, successivamente ha offerto la

possibilità di osservare le interazioni tra i membri di due diverse comunità

occupazionali: i responsabili di cantiere (capicantiere e assistenti, RSPP) da un lato; e gli

operai, dall’altro.

I due gruppi osservati, da un lato sono accomunati da un repertorio di

conoscenze sulle pratiche lavorative che porta un assistente di cantiere ad affermare

che “un bravo ferraiolo non usa mai i guanti”; dall’altro i ruoli che ricoprono all’interno

della gerarchia di cantiere li porta a “negoziare” quotidianamente tali pratiche ed il

rispetto della norme sulla sicurezza, dando luogo a raggiri, messe in scena, espedienti

in cui ognuno si ritaglia un margine di libertà di pratica che permette di costruire e ri-

costruire un contesto di lavoro il cui ordine è negoziato (Strauss, 1978) e la cui

configurazione ‒ quella di cantiere più o meno sicuro ‒ è sempre soggetta a modifiche

e variazioni, spesso conflittuali. La “sicurezza”, infine, non è posseduta da qualcuno, ma

costruita da tutti gli attori che, nelle loro interazioni quotidiane, prendono parte alla

rete locale della sicurezza, come vedremo.

L’attività di osservazione sul campo, dunque, ha consistito in uno shadowing

“flessibile” ‒ fare da ombra ad alcuni attori in maniera intermittente e adeguandomi

alle loro disponibilità ‒ seguendo il capocantiere o l’assistente nei loro “giri di

controllo” svolti durante la giornata lavorativa in cui mediano e costruiscono la

sicurezza in cantiere.

Grazie a ciò ho potuto osservare la reazione degli operai, le loro interazioni con

i responsabili (capicantiere, assistenti di cantiere, Coordinatori per la sicurezza, Tecnici

delle Asl o del Comitato territoriale paritetico) e ho potuto “scorgere” lo svolgimento di

alcune loro pratiche lavorative e l’esibizione di stratagemmi e raggiri, come la messa in

8 Anche se la permanenza dei tre mesi concessi nel primo cantiere, si è ridotta a quasi un mese

nel secondo e ad una settimana circa nel terzo.

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scena della sicurezza o il non uso dei Dpi perché ritenuti d’intralcio o scomodi nello

svolgimento dell’attività di lavoro.

Alla base del non rispetto delle norme, soprattutto di quelle che prescrivono

l’obbligatorietà dell’uso dei Dispositivi di protezione individuale, vi sono differenti

motivazioni. Esse afferiscono a diversi ambiti e processi, come per esempio la

dimensione corporea del sapere: il mestiere del carpentiere ‒ come molti degli operai

che ho incontrato durante la ricerca hanno fatto emergere ‒ è appreso attraverso il

proprio corpo, in primo luogo attraverso le mani. La richiesta di usare

“obbligatoriamente” i Dispositivi di protezione, come i guanti per esempio, crea

difficoltà nello svolgimento del lavoro, in quanto l’operaio non riesce ad avere un

contatto diretto (sensibilità) con il materiale che sta lavorando e questo gli impedisce di

svolgere un lavoro “fatto bene”, secondo le competenze dei membri che condividono e

costruiscono una tale modalità di svolgere il lavoro.

Tali difficoltà, inoltre, si traducono in un rallentamento del lavoro, ma anche in

condizioni ritenute di pericolo dagli stessi operai, evidenziando un paradosso: se l’uso

del Dispositivo di protezione dovrebbe garantire la sicurezza nello svolgimento delle

attività, in pratica può a volte richiedere l’esecuzione di modalità di lavoro che non

“mettono in sicurezza” l’operaio, anzi, danno luogo a pratiche non sicure ‒ non “sentire

il servizio” che si sta cercando con l’escavatore, per esempio ‒ come il caso dell’uso

obbligatorio delle cuffie di protezione ha messo in evidenza (§ 5.2.3).

Infine, occorre anticipare un’esigenza contraddittoria emersa dai racconti e

dalle esperienze raccolte sul campo: agli operai si chiede di rispettare le norme,

indossare i Dpi ‒ cosa non sempre condivisa perché ci sono situazioni in cui sono

ritenuti d’intralcio allo svolgimento di un lavoro sicuro come si è appena visto ‒ ma allo

stesso tempo si chiede loro di lavorare in fretta, velocemente, “in emergenza” (in

condizioni di lavoro, cioè, che spesso “derogano” al rispetto delle norme), perché ci

sono i tempi di costruzione dell’opera da rispettare e lo spettro delle sanzioni da

pagare in caso di slittamento delle date di consegna. Questi episodi fanno emergere

una predominanza del discorso economico che “concede” di “chiudere un occhio” sul

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rispetto delle misure di prevenzione perché gli interessi economici sono ben più forti,

evidenziando un trade off tra produzione e sicurezza che non regge il confronto.

Anche se questo paradosso è emerso più dai racconti di esperienze pregresse

degli operai e di alcuni responsabili di cantiere, e solo in minima parte dall’osservazione

diretta dei cantieri CortemSpa, è comunque un dato importante di cui tener conto, in

quanto contribuisce alla costruzione della sicurezza. Dall’osservazione dei due sistemi

di pratica, infatti, è emerso come “controllori” e operai partecipano ad un processo di

quotidiana negoziazione su cosa sia la sicurezza e su quali pratiche debbano essere

agite perché ritenute sicure, anche per far sì che non si perda la vita lavorando.

La tesi si apre in qualche modo rispettando la logica diffusa secondo la quale

parlare di sicurezza sul lavoro implica parlare della dimensione statistica del fenomeno

degli infortuni.

Nel primo capitolo ‒ Sicurezza e lavoro: un cambio di prospettiva ‒ sintetizzerò

i principali “numeri” del fenomeno: gli ambienti e i settori di lavoro più colpiti, come

quello delle costruzioni; la distribuzione per sesso e classi d’età.

Nel parlare di infortuni e sicurezza sul lavoro, una volta lette le statistiche, sarà

affrontata la politica pubblica in materia di salute e sicurezza sul lavoro, attraverso una

ricognizione dei principali contributi a livello internazionale, europeo sino al contesto

nazionale italiano con il Testo Unico 81/2008.

Proseguendo nell’analisi, presenterò una breve ricostruzione della storia del

concetto di rischio che ha da sempre avuto un forte appeal rispetto al fenomeno della

sicurezza, sino ad arrivare al contributo della sociologia che ha spostato il locus della

questione dal rischio alla sicurezza.

Il capitolo si conclude con la ricostruzione ‒ grazie alla teoria della traslazione

(Callon, 1986; Latour, 1986) nella sua variante “ecologica” (Star, Greisemer, 1989;

Czarniawska, Joerges, 1995) ‒ della rete degli attori istituzionali che si occupano di

sicurezza, classificandoli in base al “discorso” (Nicolini, 2001) di cui sono espressione:

normativo, tecnico, educativo ed economico. Ogni discorso si avvale, inoltre, di propri

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intermediari (Callon, 1992) e produce degli artefatti con cui veicola e trasla, nei diversi

contesti di lavoro, la propria visione della sicurezza.

Il secondo capitolo ‒ Etnografia di un cantiere ‒ ricostruisce la metodologia di

ricerca. Partendo dalla descrizione del faticoso momento in cui ho “cercato” il campo

d’indagine, sino alla sua individuazione.

L’accesso al campo, dunque, mi ha permesso di concretizzare l’obiettivo di

ricerca ‒ osservare come si fa sicurezza in un concreto contesto di cantiere ‒ attraverso

una etnografia delle pratiche di lavoro quotidiane e uno shadowing dei responsabili di

cantieri, in particolare un capocantiere ed il suo assistente.

Nel secondo capitolo, inoltre, proporrò i principali approcci teorici che hanno

“addensato lo sguardo” nella fase di accesso al campo e i concetti teorici per l’analisi

delle note di campo raccolte durante l’etnografia, lo shadowing e le interviste. Tali

pratiche di ricerca hanno avuto come oggetto/soggetto sia alcune “figure della

sicurezza”, impegnate nell’attività di controllo sulla sicurezza secondo le proprie visioni

professionali (Goodwin, 2003), che alcuni operai incontrati sul campo.

Il riferimento è alla teoria della traslazione (Callon, 1986; Latour, 1986), per

esempio, utile sia per leggere la normativa sulla sicurezza come processo di traduzione

in pratica, in cui sono coinvolti diversi attori umani e non umani (Latour, 1993), che per

rintracciare l’action-net locale della sicurezza, gli artefatti e gli intermediari ‒ umani,

materiali, testuali e monetari ‒ e le dinamiche che presiedono alla costruzione della

sicurezza all’interno dei cantieri osservati. Ma vi è anche l’etnometodologia (Garfinkel,

1967) applicata ai contesti di lavoro; i Practice-based Studies (Gherardi, 2000; 2000a)

con la loro attenzione alla dimensione pratica dell’attività lavorativa e i Workplace

Studies (Heath e Button, 2002; Heath, Knoblauch, Luff, 2000; Heath, Luff, 1992; 1994),

il cui intento è studiare il come si lavora, piuttosto che il come si dovrebbe lavorare,

mettendo in evidenza, inoltre, anche in un contesto di cantiere, la dimensione

“collettiva” del lavoro.

Questo bagaglio teorico ha permesso di osservare come le stesse norme sulla

sicurezza sul lavoro siano tradotte e tradite nella pratica in seguito alla partecipazione

di diversi attori. Accanto a tali approcci, inoltre, vi sono il contributo “estetico” (Strati,

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2000) all’analisi delle organizzazioni e, in particolare, alle pratiche di lavoro; e la

dimensione corporea ed incorporata, oltre che tacita (Polanyi, 1990), della conoscenza

agita nella pratica, dove la sicurezza è un fare pratico, tacito ed estetico.

Prima di concludere il secondo capitolo, sarà affrontato il rapporto tra

l’etnografa e gli attori del campo, che ha assunto una connotazione di genere. Entro

una tale prospettiva, infatti, affronterò a latere della ricerca la questione del ruolo delle

donne ‒ sia come ricercatrici che come archeologhe, ingegneri, per esempio ‒

all’interno di un contesto come quello dei cantieri edili fortemente performati

(Garfinkel, 1967) come maschili.

Nel terzo capitolo ‒ Il campo d’indagine: reti istituzionali, organizzazione e

attori locali ‒ sarà ricostruito lo sfondo della sicurezza, ovvero il contesto organizzativo

entro il quale si situano i cantieri della CortemSpa. Una prima “istantanea” di cantiere

offrirà al lettore le coordinate con le quali affrontare la discesa sul campo: conoscere le

vicende che hanno portato alla costituzione della CortemSpa e la sua strutturazione

organizzativa; l’avvio dei primi cantieri e la descrizione delle tre principali tipologie di

cantiere, oltre che le fasi di lavorazione; fino all’individuazione dell’action-net locale

della sicurezza, suddivisa in due tipologie di controllo, quelli “interni” e quelli “esterni”.

I capitoli in cui analizzerò le note etnografiche raccolte sul campo sono il

quarto, dal titolo Costruire la sicurezza: pratiche di controllo e mediazione, ed il quinto,

La sicurezza in pratica: rispetto e non rispetto della normativa, distinguendo in qualche

modo, per comodità d’analisi, i due sistemi di pratica osservati sul campo.

La narrazione dell’esperienza di osservazione dei cantieri inizia con il racconto

di una “giornata tipo” che mi permetterà di ricostruire il tessuto (Gherardi, Strati, 1990;

1997) della sicurezza: gli attori e le azioni che danno forma ai cantieri osservati e che

costruiscono, negoziando quotidianamente, la sicurezza.

Nel quarto e quinto capitolo, infatti, saranno presentati i dati empirici raccolti

sul campo: situazioni in cui gli attori (le diverse figure della sicurezza e gli operai)

dialogano e interagiscono, negoziando, alcune situazioni critiche; scenette quotidiane

osservate durante i giri di controllo oggetto dello shadowing e stralci delle interviste

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sottoposte ad alcuni personaggi che hanno catturato la mia attenzione durante la

permanenza in cantiere.

È questo il materiale dal quale emergerà l’attività di controllo svolta dagli attori

a cui ho fatto da ombra e le interazioni che gli stessi hanno intrattenuto con gli altri

attori (gli operai e i “controllori” interni ed esterni) del cantiere, mettendo in evidenza

come la pratica del controllo sia situata, dunque legata al contesto materiale e sociale

in cui ha luogo, e negoziata, essendo cioè il frutto di incessanti interazioni quotidiane in

cui ogni attore, portatore di una propria visione della sicurezza, sostiene cosa sia sicuro

e cosa non lo sia, pur non trovando necessariamente un accordo9.

Le pratiche di controllo e mediazione della sicurezza, dunque, rappresentano

l’oggetto della ricerca. Attraverso lo shadowing, però, è stato possibile osservare le

interazione tra i responsabili di cantiere e gli operai. È nella relazione con questi ultimi,

infatti, che s’impone la natura negoziata della sicurezza che dà luogo, a sua volta, a

episodi di raggiro, ad un uso flessibile degli artefatti, a delle vere e proprie messe in

scena della sicurezza, a seconda del pubblico presente (Goffman, 1969).

Per chiudere con l’articolazione dei capitoli, occorre ricordare le tematiche

emerse dall’analisi delle note di campo raccolte durante l’etnografia, lo shadowing e le

interviste, ovvero le due macro-categorie che fanno riferimento a situazioni di “rispetto

della normativa” da un lato e di “non rispetto della normativa”, dall’altro.

Nel primo caso, si mette in evidenza come nel processo di “messa in pratica”

della sicurezza ci sia una tendenza ad identificare la sicurezza con “l’immagine” che

l’organizzazione dà di sé, da un lato; con “l’uso degli artefatti sicuri” (i Dispositivi di

protezione individuale, Dpi, in particolare), dall’altro. In questo caso, dunque, sicurezza

significa “perseguirla” pubblicamente e richiedere ai propri lavoratori di “indossare” i

Dpi a garanzia del rispetto delle norme e, in ottica normativa, della sicurezza stessa.

Nel secondo caso, invece, le note di campo raccolte durante l’osservazione mi

permetteranno di offrire tre chiavi di lettura alle pratiche di non rispetto delle norme di

sicurezza. La prima chiave fa riferimento alla pratica della spavalderia, ovvero ad una

9 Quello della negoziazione è un aspetto che caratterizza il lavoro nei cantieri edili, come emerge

anche dalla ricerca di Perrotta, 2008.

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modalità di svolgere il proprio mestiere con sprezzo del pericolo. La seconda, invece,

sottolinea la natura pratica, tacita ed estetica del sapere alla base del mestiere di

ferraiolo o carpentiere, per esempio. Tali mestieri, infatti, sono stati appresi lavorando

a “mani nude” e l’obbligatorietà “rinnovata” dell’uso dei Dpi come, per esempio i

guanti, rappresenta un ostacolo allo svolgimento di un lavoro “ben fatto” ed anche

sicuro.

La terza chiave, infine, fa riferimento alla dimensione collettiva dell’attività

lavorativa e all’interazione tra l’operatore e “gli artefatti” progettati per “proteggere” il

lavoratore dai rischi, come il caso delle cuffie mette in evidenza. L’operatore, infatti,

interagisce con gli attrezzi/mezzi del proprio mestiere e, in alcuni casi, l’uso delle cuffie

di protezione interferisce con lo svolgimento dell’attività di “ricerca sotto-servizi”

(servizi delle utenze), impedendo all’operatore di “sentire” il servizio che sta cercando,

o di ascoltare le grida di cooperazione dei compagni, o i rumori prodotti dagli strumenti

e dai macchinari usati dai colleghi di lavoro. Riconoscere i “suoni pertinenti” (Thibaud,

1991; Lan Hing Ting, Pentimalli, 2009) dai rumori tout court attraverso il non uso delle

cuffie, dunque, permette di lavorare in sicurezza.

Nel quinto capitolo, dunque, cercherò di ascoltare il “discorso degli operai”

osservati mentre lavorano, interagiscono e negoziano con i controllori per

comprendere il loro punto di vista sulla sicurezza tra gli altri punti di vista o discorsi,

spesso “urlati”, da altri attori. A tal fine, mi sono state d’aiuto le conversazioni informali

avute con alcuni operai durante lo shadowing dell’assistente di cantiere, come anche

alcune interviste che altri operai mi hanno concesso durante la loro pausa pranzo.

Per concludere, secondo Susan Leigh Star (1991), il nostro compito di interpreti

“è quello di fornire strumenti per comprendere che sebbene le cose hanno delle buone

ragioni per essere come sono, esse avrebbero potuto anche essere diverse (“it might

have been otherwise”, Star, 1991: 52)” (in Nicolini, 2001: 98).

E questa è la storia che la presente ricerca si propone di raccontare.

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1. Sicurezza e lavoro: un cambio di prospettiva

Conoscendo il martello,

tutti i problemi

hanno la forma di chiodi

(da una citazione di Mark Twain)

Se si escludono i casi fortuiti, la maggior parte delle volte che ascoltiamo, anche

distrattamente, la comunicazione di un incidente sul lavoro, soprattutto se mortale, la

frase di senso comune che la caratterizza è “si sarebbe potuto evitare!”.

A seguito di anni difficili, seppur relativamente in diminuzione, il fenomeno

degli incidenti sul lavoro e delle cosiddette “morti bianche” continua a mettere alla

prova l’impegno politico del policy maker e delle parti sociali e a scuotere (di tanto in

tanto e a seguito di eventi drammatici) l’opinione pubblica.

Viene da chiedersi, allora, se esista una via per uscire da questa impasse, se

“l’evitabilità ex post” di questi fenomeni sia davvero così inevitabile; se, cioè,

l’evitabilità del fenomeno sia solo una condizione asseribile a posteriori, a tragedia

ormai accaduta.

Un settore fortemente colpito dagli eventi infortunistici è quello delle

costruzioni: i cantieri edili, infatti, sono spesso al centro dei dibattiti sulla sicurezza sul

lavoro. Questa loro “vistosità” rispetto al problema mi ha spinto a sceglierli come

campo di ricerca. In particolare, sono i cantieri per la costruzione di un’importate opera

di trasporto pubblico ‒ una delle nuove linee metropolitane della città di Roma ‒ ad

essere il terreno per lo studio della sicurezza sul lavoro entro una prospettiva

prossimale non più basata sul concetto di rischio, ma piuttosto su quello “collettivo e

sociale” di sicurezza.

La sicurezza sul lavoro tende ad essere letta principalmente utilizzando il

linguaggio tecnico, attraverso i concetti di rischio e di pericolo, e il linguaggio

normativo, attraverso il concetto di norme e di responsabilità individuale (blame

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culture, Catino, Albolino, 2008). Di contro, anche il lavoro è stato per molto tempo

studiato prevalentemente o nella sua dimensione macro-sociale, ovvero come “fatto

sociale che mette in relazione l’individuo con la società” (Bruni, Gherardi; 2007: 9); o

nella sua accezione “prescrittiva”, legata ai compiti anch’essi individuali (task analysis)

svolti in contesti “perfettamente a norma” (ibidem).

Vedremo come i nuovi contributi provenienti dalle discipline sociali ci offrano

una chiave di lettura rinnovata di queste tematiche, i cui risvolti pratici di ricerca nei

singoli campi mi hanno permesso di svolgere una ricerca etnografica sulla sicurezza sul

lavoro.

Per giungere a parlare della sicurezza in pratica in un concreto contesto di

lavoro come quello dei cantieri edili, occorre prima dare la “misura” del fenomeno

degli infortuni sul lavoro in Italia e delineare le principali politiche sociali che hanno

regolato il fenomeno, sottolineando la portata e la “prevalenza” della dimensione

normativa e tecnica sulla questione della sicurezza sul lavoro.

1.1 Una misura degli infortuni sul lavoro

“Gli infortuni non sono intrinseci al lavoro. L’esperienza dimostra che la

maggior parte di essi si può evitare. C’è bisogno dell’impegno dei Governi, degli

imprenditori, e dei lavoratori per attuare sistematicamente le buone pratiche di

prevenzione a livello nazionale e a livello d’impresa”. Queste le parole pronunciate da

Sameera Maziadi Al-Tuwaijri, direttrice del programma dell’Organizzazione

Internazionale del Lavoro1 (ILO) per la sicurezza sul lavoro (in Savona, Di Nicola, Vettori,

2008).

I termini chiave sono diversi: infortuni sul lavoro, sicurezza sul lavoro, malattie

professionali, stress da lavoro correlato, incidente mortale sul luogo di lavoro, “morti

bianche”, indici infortunistici e serie storiche, e altro ancora. Questo vocabolario

sottende un orientamento di tipo numerico, statistico, con un’attenzione quasi

1 L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, costituita nel 1919, è l’agenzia delle Nazioni Unite

che si occupa di promuovere i diritti dei lavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni dignitose, migliorare la protezione sociale e rafforzare il dialogo sulle problematiche del lavoro. Una caratteristica di questa agenzia è la sua struttura tripartita: rappresentanti del governo, degli imprenditori e dei lavoratori determinano, in maniera congiunta, programmi e politiche.

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totalizzante verso la “quantificabilità” del fenomeno e, dunque, con una preminenza

delle discipline statistiche e ingegneristiche, ma anche economiche e giuridiche.

Quando si parla di infortuni sul lavoro, infatti, lo si fa dando delle stime della

sua entità, le si correla a determinati fattori (per esempio, base occupazionale, origini

del lavoratore, diffusione del lavoro nero nell’area geografica presa in considerazione2)

e si tende a tracciare una tendenza nell’arco di un determinato periodo. Spesso, si

tende anche a confrontare tali dati, rilevati a livello nazionale, con la dimensione del

fenomeno nel panorama internazionale, ma ben presto diventa una questione delicata

data la disomogeneità della nomenclatura di riferimento e delle modalità di calcolo

degli indici.

La presente ricerca non si esimerà dal partire da alcune cifre di riferimento,

ritenendole ormai un linguaggio condiviso e comune a tutte le più disparate situazioni

in cui si affronta il tema degli infortuni sul lavoro, certi che si possa cogliere uno spunto

di riflessione e di approfondimento per orientare il dibattito verso una dialettica che

ponga al centro dell’attenzione la “sicurezza sul lavoro” e, accanto ai numeri (non ci si

vuole sostituire ad essi), indicare una strada che tenga conto del “quotidiano lavoro di

alcuni lavoratori” per cogliere aspetti che possano evidenziare la dimensione sociale

che vive al di là del dato numerico.

Un primo valore di riferimento, in termini assoluti, è quello del numero di

incidenti e di casi mortali occorsi in Italia nell’ultimo anno. Ad oggi sono disponibili i

dati relativi al 2008, prodotti nel 2009 e sui quali ci si è confrontati nel 2010. La

procedura di raccolta di questi dati richiede alla banca dati dell’INAIL (l’Istituto

Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, ovvero dell’Istituto

deputato al recepimento ed alla gestione delle comunicazioni in materia di infortuni sul

lavoro) un arco di tempo utile a ricevere e analizzare i dati provenienti da tutto il

mondo del lavoro (Industria e Servizi, Agricoltura, secondo le definizioni Istat dei

2 Si rimanda ad un interessante lavoro a cura di E. U. Savona, A. Di Nicola, B. Vettori, (2008), Gli

infortuni sul lavoro. Dall’analisi delle cause alla loro prevenzione, Milano, Franco Angeli, in cui il tema degli infortuni sul lavoro è trattato come una componente del “Sistema integrato di sicurezza” della Provincia autonoma di Trento, ovvero nell’ambito di politiche di sicurezza urbana integrate.

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settori, e i Dipendenti dello Stato3). I dati, in valore assoluto, confermano il trend di

riduzione del numero di infortuni e dei casi mortali, dando adito a definire il 2008 come

l’anno del “calo “storico” dei morti sul lavoro”4. Il termine di riferimento principale per

stabilire le ultime tendenze è il 2006 un anno considerato molto negativo, sebbene nel

Rapporto Annuale 2008 dell’INAIL, la serie storica approntata faccia riferimento al

quasi decennio del nuovo millennio: 2001-2008. Il dato mostra una diminuzione degli

incidenti sul lavoro nell’Agricoltura e nell’Industria, mentre si dimostra positivo il saldo

relativo ai Servizi. Per quest’ultimo settore è interessante considerare il dato relativo

all’aumento occupazionale registrato dall’Istat: 11,4%; mentre gli altri due settori

hanno subito una contrazione, come nel caso dell’Agricoltura (-12,1%) e un leggero

aumento, come nel caso dell’Industria (+4,9%).

Diversi sono i dati utili per comprendere il fenomeno sotto il profilo

“quantitativo”, ovvero aggregato e rappresentativo del territorio nazionale5. In questa

sede, di seguito, si riportano alcuni esempi/tavole di riferimento al fine di dare una

visione d’insieme del fenomeno e di come esso venga presentato e analizzato nelle

diverse sedi istituzionali6.

Una prima “immagine” è quella che presenta il fenomeno nell’insieme,

attraverso i suoi valori assoluti e per modalità di evento. Ciò indica, contrariamente a

quanto il termine “modalità” porti a pensare, il luogo in cui si verifica tendenzialmente

un incidente sul lavoro: durante il lavoro e, dunque, sul luogo di lavoro (“ambiente di

lavoro ordinario”, secondo il linguaggio INAIL) e durante il percorso che porta alla sede

di lavoro e viceversa (“in itinere”)7.

3 I dipendenti dello Stato sono tutelati direttamente dalle Amministrazioni Centrali dello Stato,

ma la loro assicurazione è comunque gestita dall’INAIL. 4 Tratto da un articolo pubblicato sul sito “Agenziaradicale.com” del 24 giugno 2009. Si ricorda,

inoltre, che anche altri articoli apparsi su diversi siti web hanno avuto questa impronta stilistica. 5 Per un ulteriore approfondimento si rimanda a INAIL Rapporto Annuale 2008.

6 I dati sono tratti dal Rapporto annuale 2008 dell’INAIL. Si ricorda, infatti, che i dati prodotti

dall’Istituto godono di uno statuto di “ufficialità” essendo legittimati dalla stessa normativa antinfortunistica e che hanno, dunque, rappresentato la base dati di riferimento per la stesura di provvedimenti normativi finalizzati alla “prevenzione e sicurezza sul lavoro”, non ultimo il Testo Unico del 2008 e successive modifiche.

7 Questa è una categoria d’analisi rilevata da pochi anni a seguito dell’imporsi di sempre maggiori

eventi, ma tenuta comunque al di fuori delle stime generali degli infortuni sul lavoro.

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Un ulteriore dato di cui si deve tener conto nel leggere le tabelle sugli incidenti

sul lavoro è quello della relativa dimensione occupazionale dei singoli settori

economici. Le trasformazioni che hanno riguardato il sistema produttivo italiano hanno

visto, nel corso degli ultimi decenni, una rimodulazione del panorama nel quale, alla

crescente diminuzione degli impiegati nei settori più tradizionali dell’Agricoltura e

dell’Industria in senso stretto (escluse le Costruzioni, infatti, i valori sono

rispettivamente: -3,1 e -1,2), si è avuto un sensibile incremento nel settore dei Servizi e

delle Costruzioni, rispettivamente di 1,7 e 0,7 (le variazioni si riferiscono al dato del

2008 rispetto all’anno precedente).

Tavola n.7 – INFORTUNI avvenuti negli anni 2007-2008 per modalità di evento

Modalità di evento Infortuni in complesso Casi mortali

2007 2008 Var. %

2007 2008 Var. %

In occasione di lavoro 814.438 777.739 -4,5 903 844 -6,5

di cui: - Ambiente di lavoro ordinario (fabbrica, cantiere, terreno agricolo, ecc.)

762.224 726.878 -4,6 562 509 -9,4

Circolazione stradale (autotrasportatori merci/persone, commessi viaggiatori, addetti alla manutenzione stradale, ecc.)

52.214 50.861 -2,6 341 335 -1,8

In itinere (percorso casa-lavoro-casa)

97.972 97.201 -0,8 304 276 -9,2

Totale 912.410 874.940 -4,1 1.207 1.120 -7,2

Fonte: INAIL Rapporto Annuale 2008

Il dato che colpisce, e sul quale punta l’analisi INAIL, è il miglioramento del

generale andamento del fenomeno infortunistico. Si nota, infatti, una decisa

variazione: una diminuzione del 4,1% degli infortuni e il 7,2% in meno di infortuni

mortali rispetto all’anno precedente, ovvero il 2007. Va ricordato, però, che i dati

fanno riferimento alla rilevazione ufficiale pervenuta all’INAIL alla data del 30 aprile

2009, riguardanti le “denunce” di infortuni avvenuti nel corso del 2008 e, dunque,

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comunicati all’Istituto. Inoltre il valore riportato nel Rapporto, e relativo agli infortuni

mortali pari a 1.120, è una stima, ovvero il dato a tale data è 1.0788 casi.

Continuando nel dar conto dei dati più salienti esibiti, messi a confronto e su

cui discutono diversi professionisti e studiosi, arriviamo anche alla composizione per

settore e per genere. Nella prima sono compresi, come ricorda il Rapporto, oltre ai

lavoratori delle tradizionali gestioni INAIL (Industria e Servizi e Agricoltura) anche i

Dipendenti dello Stato. Ed è proprio tra questi ultimi che è registrabile un notevole

aumento del fenomeno in esame, soprattutto in relazione ai casi mortali, accanto al

settore dell’Agricoltura (i dati vanno anche correlati alla variazione del numero degli

occupati nei relativi settori: +11,4% riguardo ai servizi, -12,1% rilevato in Agricoltura e

un +4,9% nell’Industria. Fonte ISTAT).

Tavola n.8 – INFORTUNI avvenuti negli anni 2007-2008 per gestione

Gestioni Infortuni in complesso Casi mortali

2007 2008 Var. % 2007 2008 Var. %

Agricoltura 57.206 53.278 -6,9 105 121 15,2

Industria e servizi 825.981 790.214 -4,3 1.088 981 -9,8 Dipendenti Conto Stato 29.223 31.448 7,6 14 18 28,6 Totale 912.410 874.940 -4,1 1.207 1.120 -7,2 Fonte: INAIL Rapporto Annuale 2008

Per quanto attiene alla composizione di genere è riscontrabile una maggiore

incidenza del fenomeno all’interno dell’universo lavorativo femminile, benché la

presenza delle donne sia numericamente inferiore rispetto a quella degli uomini. I dati,

dunque, vanno sempre contestualizzati e riportati all’universo di riferimento, evitando

di incorrere in semplificazioni del fenomeno.

8 Il motivo è tecnico, ovvero dipende dai criteri di rilevazione adottati in conformità alle modalità

correnti, tanto in ambito nazionale (ISTAT) che europeo (EUROSTAT), che fanno sì che il dato relativo agli eventi mortali del 2008 non siano completi perché vanno considerati anche i decessi avvenuti entro 180 giorni dall’evento (fonte INAIL Rapporto 2008).

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31

Tavola n.9 – INFORTUNI avvenuti negli anni 2007-2008 per sesso

Sesso Infortuni in complesso Casi mortali

2007 2008 Var. % 2007 2008 Var. % Maschi 661.377 624.324 -5,6 1.110 1.035 -6,8 Femmine 251.033 250.616 -0,2 97 85 -12,4 Totale 912.410 874.940 -4,1 1.207 1.120 -7,2 Fonte: INAIL Rapporto Annuale 2008

Altri dati utili alla comprensione e alla discussione attorno al fenomeno degli

infortuni sul lavoro sono quelli relativi alla composizione per classi di età e la sua

articolazione all’interno del settore produttivo. Infatti, nel primo caso, sono i giovani ad

aver ricevuto un miglioramento delle stime relative ai casi di infortunio, mentre il calo

più consistente riguarda la riduzione di casi mortali nelle classi di età più anziane, come

si vede di seguito.

Tavola n.10 – INFORTUNI avvenuti negli anni 2007-2008 per classe d’età

Sesso Infortuni in complesso Casi mortali

2007 2008 Var. % 2007 2008 Var. % Fino a 34

349.441 320.490 -8,3 334 321 -3,9

35-49

381.472 366.769

-3,9 479 457

-4,6

50-64

167.628 167.438 -0,1 332 281 -15,4

65 e oltre

10.414 10.106 -3,0 46 38 -17,4

Totale 912.410 874.940 -4,1 1.207 1.120* -7,2 Fonte: INAIL Rapporto Annuale 2008 * Il totale comprende i casi non determinati

Relativamente all’articolazione all’interno del settore produttivo è interessante

il dato dell’Industria: è ancora il settore delle Costruzioni quello più colpito da casi di

infortunio, benché in calo insieme all’Industria Metalmeccanica (rispettivamente del -

12,4% e -10,6%); mentre il dato degli infortuni mortali registra una riduzione

nell’Industria e nei Servizi (poco meno del 10%) e un aumento in Agricoltura: 15,2% in

termini relativi.

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32

Tabella 12 – INFORTUNI avvenuti negli anni 2007-2008 per rami e i principali settore di attività economica

Ramo/Settore di attività Infortuni in complesso Casi mortali

2007 2008 Var. % 2007 2008 Var. %

Agricoltura 57.206 53.278 -6,9 105 121 15,2

Industria 400.103 367.132 -8,2 611 554 -9,3 di cui:

- Costruzioni 101.898 89.254 -12,4 275 235 -14,5 - Metalmeccanica

89.324 79.848 -10,6 105 100 -4,8

Servizi *

455.101 454.530 -0,1 491 445 -9,4 di cui:

- Trasporti 70.403 66.716 -5,2 153 145 -5,2 - Commercio 77.623 73.460 -5,4 119 104 -12,6 - Personale domestico 2.938 3.576 21,7 2 2 -

Totale 912.410 874.940 -4,1 1.207 1.120 -7,2 Fonte: INAIL Rapporto Annuale 2008; * comprende anche i Dipendenti della gestione “per Conto Stato”

La tendenza del fenomeno9 è in diminuzione, anche se i valori restano ben

lontani da quello che potrebbe essere definito un “dato accettabile”. Infatti, anche per

il fenomeno degli infortuni sul lavoro è valido quanto si sostiene per i valori relativi ai

crimini commessi in Italia negli ultimi anni: il dato è in diminuzione, ma si percepisce

come socialmente rilevante e non accettabile. Per quanto riguarda gli infortuni, però,

va sempre tenuto presente che il dato indica le “denunce” del fenomeno all’Istituto

Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro e, dunque, si può ipotizzare

una zona di “buio” relativa a quegli incidenti sul lavoro che riguardano lavoratori non in

regola con i contratti, per esempio.

Rivolgendo lo sguardo al passato, infine, il Rapporto INAIL ricorda come, quella

dei nostri giorni, sia una situazione relativamente più positiva di quella avuta in anni

passati. Si fa riferimento, per esempio, al 1963 (periodo del boom economico), quando

si raggiunse il “tragico record storico di 4.664 morti in un anno” (401). È dunque a

seguito di costi umani e sociali così alti e dell’impegno dei legislatori che, con lentezza,

recepiscono anche le sollecitazioni provenienti dal contesto europeo (si veda oltre) che

si arriverà a poco più di 1500 morti all’inizio del Duemila.

9 Per l’analisi tendenziale di medio periodo, ovvero la serie storica relativa agli anni che vanno dal

2001 al 2008, si rimanda al già citato Rapporto INAIL (come ad esso si rimanda per altre tabelle relative alle caratteristiche del fenomeno).

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Il fenomeno è, dunque, in calo, ma è ancora una ferita che segna il nostro

Paese e alla quale non ci si può “abituare” o indignarsi solo dinanzi ad eventi

drammatici che con una certa regolarità si presentano ai nostri occhi e colpiscono la

nostra attenzione per una frazione di tempo a volte troppo breve.

Ancora una riflessione meritano i dati relativi alla frequenza infortunistica10 per

singoli settori di attività economica e, se ci si riferisce al numero degli infortuni

indennizzati dall’INAIL (quelli con assenza da lavoro superiore a tre giorni), si nota

come i settori maggiormente colpiti sono quelli della “Lavorazione dei Metalli”

(siderurgia, metallurgia) con una media superiore a quella dell’intero settore di

riferimento (Industria e Servizi), seguito dalla Lavorazione dei Minerali non metalliferi

(materiale per l’edilizia, vetro, ceramica), la Lavorazione del Legno e le Costruzioni. I

settori che riportano importanti percentuali di infortunio sono, dunque, settori a

prevalenza “manuale” (nella dicotomia classica manuale/intellettuale), ovvero lavori

dal basso contenuto tecnologico nei quali l’intervento del lavoratore e di un suo diretto

contatto con le operazioni da eseguire con il proprio corpo, implicano anche un alto

“fattore di rischio” che è proprio dell’ambiente di lavoro (strumenti, materiali,

macchinari, polveri e schegge, alte temperature, scarti della lavorazione e altro ancora,

come ricordato nel rapporto INAIL 2008). “Tale rischio porta il settore della Lavorazione

dei Metalli addirittura all’89% al di sopra della media dell’Industria e Servizi e la

Lavorazione dei Minerali non metalliferi all’80% in più” (412).

Il settore delle Costruzioni, infine, si distingue negativamente anche per quanto

riguarda la graduatoria degli infortuni con “postumi di inabilità permanente”, il cui

indice di frequenza è superiore a 4, rispetto ad una media di tutti i settori (raggruppati

in “Industria e Servizi”) che è pari a 1,77 ed è secondo anche relativamente agli

infortuni mortali, con un livello di rischiosità pari a 0,20 (primo il settore dell’Estrazione

dei Metalli, 0,42, e terzo il settore di Trasporti, con lo 0,19), contro una media di

settore pari a 0,07.

10

L’indice preso in considerazione è “la frequenza infortunistica per settore di attività economica e tipo di conseguenza” fa riferimento agli infortuni indennizzati per 1.000 addetti, esclusi i casi in itinere - Media triennio consolidato (2004 - 2006); Base: Industria e Servizi = 100. Tabella n. 22 (INAIL, 2008).

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34

Sono questi i dati che hanno portato a scegliere il settore delle costruzioni

come campo d’osservazione e, in particolare, la realtà del cantiere edile. Infatti,

nonostante il progresso tecnologico abbia introdotto rilevanti innovazioni anche in

questo settore, il cantiere resta ancora nel 2010 uno dei luoghi in cui si perde la propria

vita lavorando.

Pionieristici studi sociologici, condotti nel settore dell’edilizia (Campelli 1981,

Cipollini 1982, prima ed. 1979), benché non specificamente sul tema della sicurezza sul

lavoro, ci ricordano come il settore abbia subìto un processo di “riorganizzazione” che

ha permesso il passaggio “dal sistema produttivo tradizionale all’edilizia

industrializzata” (Campelli, 1981: 9)11 con alcuni vantaggi anche dal punto di vista della

sicurezza sul lavoro. Nell’indagine conoscitiva sulla forza lavoro in edilizia, condotta da

Campelli (1981), inoltre, la sicurezza sul lavoro figura come uno “degli aspetti più duri

del lavoro”. Nella graduatoria stilata in base alle risposte date dagli operai, ripartite per

qualifica degli stessi ‒ operaio specializzato (O.S), operaio qualificato (O.Q), manovali

specializzati (M.S) (Campelli, 1981) ‒ il fenomeno degli “infortuni” è al terzo posto per

le prime due categorie, mentre è al quarto per la restante categoria. Infatti,

dall’indagine emerse come gli operai intervistati privilegiassero, tra gli aspetti più duri,

soprattutto quelli attinenti alle condizioni di lavoro, mentre erano meno significativi

quelli relativi ai contenuti e all’organizzazione del lavoro (Campelli, 1981). La “scarsa

protezione contro gli infortuni” e la “frequenza di malattie professionali” (ibidem: 154)

erano tra le preoccupazioni degli operai intervistati. Fin dalla fine degli anni Settanta

emerge, quindi, una preoccupazione di base: il settore edilizio è tra i più colpiti dal

fenomeno degli infortuni sul lavoro, mortali e con conseguenze di invalidità

permanente12.

A definire il concetto di sicurezza sul lavoro concorre anche la dimensione di

policy messa in campo dalle istituzioni nazionali, europee ed internazionali. Tali

11

Si rimanda al Cap. 3. 12

Anche il lavoro di Cipollini (1979, 1982) sottolinea i pochi sforzi fatti nel settore delle costruzioni per quanto riguarda la prevenzione degli infortuni sul lavoro nella prima metà degli anni Sessanta e nell’ultima metà, consegnando al settore delle costruzioni un terribile primato. I primi anni ‘60 sono caratterizzati dal boom economico e da una conseguente espansione dell’occupazione, mentre la fine degli anni Sessanta hanno visto una contrazione dell’occupazione a fronte di un numero elevato di infortuni che ne esaltò la rilevanza.

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35

politiche, inoltre, sono spesso legate all’andamento infortunistico ‒ a livello nazionale,

europeo ed internazionale ‒ e puntano a regolare il fenomeno delle morti sul lavoro

attraverso l’emanazione di leggi, regolamenti, convenzioni che le organizzazioni e gli

individui sono tenuti a seguire al fine di prevenire l’accadere di incidenti e limitarne la

portata.

1.2 Livello istituzionale: la policy della sicurezza in Italia

Analizzando i diversi interventi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, è

possibile rilevare una sorta di spartiacque negli anni Ottanta anche a seguito del

recepimento, seppur tardivo, di direttive europee in merito.

Prima degli anni Ottanta. La prima iniziativa legislativa relativa alla sicurezza sul

lavoro in Italia risale al 189813, anno in cui fu emanata la legge n. 80 che introdusse

l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro14. Dopo di essa, la materia è

stata oggetto di disciplinamento da parte del codice penale e di quello civile: nel 1930 il

codice penale pone l’accento sulla dimensione sanzionatoria degli interventi che

comportano la “rimozione o l’omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”

(art. 437 c.p.); nel 1942, anche il codice civile prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro,

di adottare misure adeguate alla tutela dell’integrità fisica dei lavoratori.

Tra i tentativi di disciplinare una così delicata materia di notevole rilevanza

ritroviamo, in questi stessi anni, il dettato costituzionale in materia. La Costituzione

italiana ha arricchito, nel 1948, le prime disposizioni sulla sicurezza sul lavoro, con

principi di intervento sociale (artt. 35, 36, 38, 41). Infatti, “prima della Costituzione

repubblicana, la salute e la sicurezza dei lavoratori subordinati, ovvero le iniziative

volte a salvaguardarle entrambe, erano lasciate alla discrezione del datore di lavoro,

fatte salve le sanzioni civili e penali in caso di infortunio grave” (Grassani, 2006: 42). Il

13

Nel 1883, invece, era nata la Cassa Nazionale Infortuni, un organismo di previdenza a carattere individuale e facoltativo (il futuro INAIL).

14 Come ricordano Kazepov e Carbone (2007), “La prima forma assicurativa venne introdotta in

Germania nel periodo compreso nella prima legislazione bismarckiana (1871) e la Grande guerra. I programmi assicurativi in questa fase riguardavano, prevalentemente, la copertura dei rischi contro gli infortuni. La novità insita nelle leggi istitutive delle assicurazioni operaie fu il riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro” (42), anche se il numero dei rischi e delle categorie interessate erano piuttosto limitati. Questa iniziativa legislativa avrebbe inciso sullo sviluppo dei moderni sistemi di welfare state.

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Testo Costituzionale, invece, pone l’accento su una dimensione morale dalla quale il

datore dovrebbe lasciarsi guidare.

L’industrializzazione consistente della metà del 1900 portò con sé molte

vittime. Sono gli anni Cinquanta, con due D.P.R15, a dare un input a questa attenzione,

parlando di infortuni sul lavoro e di igiene sul lavoro. “In anni in cui la legge è ancora

lontana dall’affermare l’esistenza di un diritto soggettivo del lavoratore alla sicurezza,

questi due decreti segnano il passaggio da una tutela di tipo riparatorio ad una di tipo

preventivo dell’integrità psicofisica dei lavoratori” (Savona, Di Nicola, Vettori, 2008:

157). All’Ispettorato del Lavoro viene affidato il compito di controllare, presso le

aziende, l’effettivo rispetto delle disposizioni. “Il DPR 547 fu redatto in un periodo

storico, la metà degli anni ’50 quando la tecnologia inerente la sicurezza sul lavoro era

pressoché inesistente. Occorreva crearla e prevederne l’integrazione in quella ideata e

realizzata esclusivamente a fini produttivi” (Grassani: 43). Tale decreto, inoltre,

contiene indicazioni molto innovative e attente alle modalità di lavoro e di utilizzo dei

macchinari16. Oltre a questi decreti furono emanati anche il D.P.R. n. 164 del 1956 e il

12 settembre 1958 fu istituita, con DM, l’obbligatorietà del “registro infortuni”.

Inoltre, nel 1965, si aggiunge il D.P.R. n. 1124 che dà delle prime definizioni di

infortunio e di malattie professionali.

Successivamente, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, c’è

stato un notevole fermento legislativo: lo Statuto dei lavoratori (1970) “afferma

l’esistenza di un interesse “collettivo” ad un ambiente di lavoro salubre e sicuro,

qualificabile come interesse comune ad una pluralità di soggetti che operano nello

stesso ambiente di lavoro e sono esposti agli stessi rischi” (Savona, Di Nicola, Vettori,

2008: 157).

A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta si assiste ad un’importante

riforma che, seppur non proprio in maniera diretta, interessa il tema in esame: la

15

D.P.R. n. 547 del 27 aprile 1955 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” e il D.P.R. n. 303 del 18 marzo 1956 “Regolamento generale di igiene sul lavoro”.

16 Come per esempio l’uso accorto delle protezioni e dei dispositivi di sicurezza, attenzione che

viene riposta anche nel caso in cui ci sia la necessità di rimuovere temporaneamente un dispositivo, fermo restando l’obbligo di segnalare la momentanea mancanza (Grassani, 2006). L’autore, inoltre, definisce questo decreto come precursore e come un atto di notevole sensibilità, sebbene nella vita quotidiana delle organizzazioni non sia stato poi tanto seguito.

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Riforma Sanitaria (23 dicembre 1978, n. 833) che inserì la sicurezza sul lavoro tra gli

obiettivi principali dell’appena costituito Servizio Sanitario Nazionale (SSN). A ciò seguì

uno scorporamento dell’attività di vigilanza: quella sulla legislazione sociale fu

attribuita all’Ispettorato del Lavoro; la vigilanza relativa alla sicurezza sul lavoro, invece,

fu assegnata, a partire dal 1 gennaio 1980, alle Unità Sanitarie Locali (USL). La legge,

inoltre, attribuiva al governo la delega per l’emanazione di un Testo Unico che

riordinasse la materia, Testo che alla fine è stato prodotto solo nel 2008 e a seguito di

gravissimi incidenti sul lavoro17. “La delega cadde nel nulla * … +. Iniziò con gli anni ’80

un periodo di generale torpore nei confronti della sicurezza sul lavoro. Fatti salvi alcuni

casi di encomiabile impegno in materia di prevenzione, la stragrande maggioranza degli

italiani, compresi i governanti e gli organi di controllo, finirono col metabolizzare gli

obblighi nei confronti della salute e sicurezza sul lavoro entro una routine

produttivistica in cui la permissività nei confronti delle inadempienze divenne la regola”

(Grassani, 2006: 47).

Se questo è quello che accade in Italia, brevemente, si ricorda che nel resto del

mondo c’è stato un notevole fermento attorno a questa materia già a partire dal 1919,

anno in cui l’ILO inizia la sua attività per definire e garantire i diritti dei lavoratori e

migliorarne le condizioni. Attraverso le convenzioni, le raccomandazioni e i codici di

condotta, l’ILO ha da sempre legiferato in materia di salute e sicurezza sul lavoro ed è

proprio nel 1981 che si attua una svolta nell’approccio ai problemi della sicurezza nei

luoghi di lavoro. Infatti, si affronta “per la prima volta il problema con un approccio

globale” e si promuove “il concetto più generale di “benessere sul luogo di lavoro”, sia

esso fisico, morale e sociale” (Savona, Di Nicola, Vettori, 2008: 53).

Dopo gli anni Ottanta. Lo scarto che si è manifestato tra le politiche di

prevenzione e di sicurezza sul lavoro adottate in Italia e quelle adottate in Europa e nel

resto del mondo può essere un esempio di quanto affermato dalla teoria

17

A seguito del disastro allo stabilimento ThyssenKrupp Acciai Speciali di Torino avvenuto il 6 dicembre del 2007, l’opinione pubblica, la Chiesa cattolica e alcune parti politiche hanno sollecitato la trasformazione della legge quadro in materia di salute e sicurezza nell’emanazione del Testo Unico che armonizzasse le diverse leggi in materia. Il tutto è avvenuto ben trent’anni dopo la prima legge che ne richiedeva l’emanazione. Il Testo Unico è stato approvato dal governo Prodi pochi giorni prima delle nuove elezioni politiche (causate dalla caduta dello stesso). Per una ricostruzione del caso si rimanda a Galantino, 2010.

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dell’embeddedness (Polany, 1974; Granovetter, 1992; Mingione, 1997 citati in Kazepov,

Carbone, 2007) “la quale assume che i meccanismi di regolazione sociale ‒ compresi

quelli alla base dei sistemi di welfare ‒ sono sempre generati, secondo modalità

storiche differenziate, da fattori sociali e culturali in un gioco complesso di persistenze

e cambiamenti” (Kazepov, Carbone, 2007: 92-93). Questo approccio permette di

chiarire come i sistemi differenziati di welfare siano il risultato di particolari circostanze

storiche e contestuali e, dunque, generalizzabili solo con cautela e relativamente a certi

aspetti. Pertanto, nonostante tutti i paesi abbiano seguito un uguale modello ideale di

regolazione dei rischi sociali (compresi quelli infortunistici), gli esiti dei processi che

hanno portato al consolidamento dei rispettivi sistemi di welfare risultano

significativamente diversi (Kazepov, Carbone, 2007).

Come testimoniano le stesse iniziative dell’ILO e gli atti da esso emanati, il

sistema produttivo diviene sempre più complesso e con esso divengono complessi

anche i rapporti tra la sfera economica, politica e sociale, tanto da richiedere un nuovo

modello di politica della sicurezza che sostituisse quello predominante basato

sull’introduzione, nei sistemi di welfare nazionali, di normative sugli aspetti sanitari del

lavoro e di misure di prevenzione sociale dei lavoratori dai rischi (la cui individuazione e

classificazione è cresciuta nel tempo). Accanto a ciò, si ricorda la presenza di agenzie di

controllo sulla sicurezza negli ambienti di lavoro, il tutto caratterizzato da un

orientamento di controllo limitato nei confronti delle attività industriali.

Questo tipo di policy si era ispirato ad una logica che riteneva che “il rischio

potesse essere affrontato attraverso interventi prescrittivi in quanto fondati su una

base di razionalità tecnico-scientifica che poteva, proprio perché tale, porsi «super

partes»” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 a: 92; corsivo mio). Una tale policy ha avuto

un duplice effetto: da un lato non ha posto in discussione la cosiddetta potestà

imprenditoriale di scelta e di indirizzo strategico in capo alle imprese; dall’altro,

risponde alle richieste di protezione sociale da parte dei lavoratori, da un punto di vista

amministrativo. “In questo modo esso veicola però una interpretazione «neutralistica»

della sicurezza sul lavoro, che incentiva forme stereotipate di risposta organizzativa

verso problemi legati al rischio industriale, da attuare poi nella pratica del lavoro

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essenzialmente attraverso modalità di tipo burocratico (Dwyer, 1991; Tombs, 1993)”

(ibidem).

Il contributo dell’ILO e di altre organizzazioni internazionali hanno permesso

un’ulteriore riflessione sul tipo di approccio in materia di sicurezza ed hanno prodotto

una sorta di svolta che ha portato ad interpretare i fenomeni legati ai disastri

organizzativi e agli incidenti sul lavoro, sotto una nuova lente che portasse ad un nuovo

modello di gestione delle imprese centrato sul concetto di sostenibilità ecologica18, ma

anche di “approccio globale”, ovvero di benessere sul luogo di lavoro, sia esso fisico,

morale e sociale (Savona, Di Nicola, Vettori, 2008). Certo, se questo è l’orientamento e

la direzione presa dal modello ideale ed “idealtipico” di gestione della sicurezza,

diversa è la sua traduzione sul piano delle politiche pubbliche in grado di orientare le

organizzazioni verso criteri di gestione diversi dal passato.

Quello che diviene auspicabile, quindi, è l’affermazione del concetto di

sicurezza come valore da perseguire e preservare, piuttosto che come costo

economico. In un panorama che cerca di rinnovarsi diviene importante istaurare nuovi

rapporti tra Stato e organizzazioni, tra agenzie regolatrici e imprese regolate, che

promuovano la sicurezza come un obiettivo organizzativo da perseguire. “Il concepire

la sicurezza come obiettivo organizzativo pone pertanto alle istituzioni la necessità di

avviare processi di acquisizione di riflessività sul loro stesso operato, ma anche di

conoscere quale sia la cultura della sicurezza delle imprese e quali siano i principi

organizzativi che la sottendono” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 a: 94).

Se ricordiamo i principali interventi legislativi promossi e realizzati più di

recenti, si notano gli sforzi “prodotti” nel campo della promozione della sicurezza sul

lavoro. A tale riguardo non si può non partire dalla convenzione quadro n. 187 e dalla

raccomandazione quadro n. 196 adottata dalla Conferenza generale dell’ILO nel 2006. I

suoi punti centrali sono: la necessità di inserire la salute e la sicurezza dei lavoratori

all’interno dell’agenda delle politiche nazionali; la promozione di un ambiente di lavoro

sano e sicuro mediante programmi nazionali che prendano a riferimento le linee guida

18

“Il modello del’ecocentric management proposto da Shrivastava (1995) * … + cerca di minimizzare l’impatto dell’attività produttiva conciliandolo con l’ambiente naturale e sociale, ovvero l’ecosistema, in cui l’impresa è chiamata ad inserirsi” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 a: 93).

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promosse dall’ILO; una crescente partecipazione e cooperazione dei lavoratori alla

pianificazione e realizzazione di ambienti di lavoro che siano più sicuri e sani (Savona,

Di Nicola, Vettori, 2008).

Per quanto riguarda, invece, le direttive europee in materia di sicurezza è la

“direttiva quadro” 89/391/CEE ad aver modificato l’approccio al tema della salute e

della sicurezza sui luoghi di lavoro anche in Italia a seguito del recepimento di 8 di esse

nel decreto legislativo 626 del 1994, con un ritardo di circa 6 anni rispetto alla loro

promulgazione.

La direttiva quadro europea poneva l’accento sull’organizzazione aziendale,

vale a dire “su quell’insieme di volontà dell’alta direzione e di efficienza delle relazioni

umane (qualificate dalla professionalità degli individui) da cui dipende essenzialmente

qualsiasi orientamento esecutivo” (Grassani, 2006: 49) e, di conseguenza, anche su

tutto ciò che ha ricadute nell’ambito della prevenzione degli infortuni19. Richiedeva,

cioè, una “gestione aziendale rinnovata” e attenta alla problematica della sicurezza da

includere nell’intero processo organizzativo (richiamando “l’approccio sistemico”

sottolineato anche dalla normativa italiana in occasione del nuovo Testo Unico che

verrà in seguito realizzato) e non inteso solo come “attrezzature” per la sicurezza.

In Italia, dunque, il recepimento delle direttive europee e delle stesse

indicazioni emanate dall’ILO, è avvenuto in maniera molto tardiva, frammentaria e,

viste le cifre ancora troppo alte (seppur il fenomeno sia in calo nel suo complesso),

poco incisiva.

In Italia a tener banco è stato per molti anni il decreto legislativo 626 del 1994:

un linguaggio rinnovato e adattato alle nuove direttive comunitarie; l’individuazione

dei soggetti responsabili in materia e di nuove strutture per il conseguimento della

sicurezza (entro le imprese e fuori di esse); una più dettagliata individuazione delle

19

Si rimanda a Grassani (2006) per ulteriori commenti a sostegno di una “differente” interpretazione ‒ in fase di recepimento della direttiva europea ‒ scelta dal legislatore italiano per smussare (l’autore dice “censurare”) l’orientamento della direttiva e “salvaguardare dall’ingerenza della sicurezza i meccanismi organizzativi aziendali” (49). La Corte di Giustizia europea ha intentato una causa contro l’Italia ottenendo un notevole esborso di denaro per le “scorrettezze” commesse nel recepire il testo europeo. Tali scorrettezze, però, hanno permesso di interpretare l’obbligo di prevenzione limitato alle attrezzature e non come prerogativa di tutta l’organizzazione aziendale come invece era previsto. Le correzioni al testo sono state apportate, ma la differente interpretazione resta, soprattutto nella loro messa in pratica.

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41

misure atte a garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori; l’attenzione al ruolo della

formazione e dell’informazione dei lavoratori in materia di sicurezza sul lavoro e dei

rischi che essi corrono nel loro ambiente di lavoro.

Un ultimo step legislativo affrontato dal nostro Paese è rappresentato dal

tentativo di unificare la diversa normativa in materia sotto un unico testo, il Testo

Unico sulla sicurezza sul lavoro (decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 8120). Anche in

questo caso prevalgono alcuni caratteri: quello del linguaggio, sempre più orientato ad

una dimensione più globale, la promozione di “una cultura della sicurezza”21;

l’estensione delle tutele in modo svincolato dalla tipologia contrattuale, siano essi

subordinati o autonomi, in settori pubblici e privati, e relativamente a tutte le tipologie

di rischio (chimico, acustico, elettrico …); un rinnovato ruolo riconosciuto all’INAIL22;

una disciplina relativa ad appalti e subappalti nel settore pubblico vincolata

all’esplicitazione dei costi per la sicurezza e ad una loro esclusione dalle regole del

massimo ribasso nelle gare d’appalto pubbliche23.

Da un punto di vista più strettamente organizzativo, inoltre, ci sono alcuni

elementi piuttosto innovativi come, per esempio, la promozione in linea di principio di

“un modello di organizzazione e di gestione” (art. 30) in grado di conseguire diversi

obiettivi espressamente stabiliti nel Testo Unico e tutti relativi alla predisposizione di

strutture organizzative, appunto, che si occupino di adempiere alle attività di

valutazione dei rischi, attività di natura organizzativa quali il primo soccorso, la

consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, attività di vigilanza, di

verifiche ed altro ancora. Altro concetto, come poco sopra ricordato, è quello di salute

20

Attuazione della legge delega n. 123 del 3 agosto 2007 “Misure in tema di tutele della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”. Si ricorda anche il D.lgs. 106 del 2009 correttivo del D.lgs. 81. Un elemento molto controverso, e fonte di critiche, emanato dal decreto correttivo è la diminuzione notevole delle sanzioni alternative all’arresto o all’ammenda (dimensione che aveva trovato contrari la categoria degli imprenditori nel momento in cui fu approvato il D.lgs. 81).

21 Questo concetto è divenuto un vero e proprio artefatto linguistico che ha il potere di

oggettivare l’idea che veicola e, in questo senso, è divenuta una etichetta (Czarniawska, Joerges, 1995). Infatti, “l’etichettamento a livello locale, per esempio, è particolarmente importante quando le idee devono essere adattate a modelli d’azione già esistenti” (ibidem: 232).

22 Il ruolo dell’INAIL sarà analizzato nel paragrafo dedicato all’analisi degli attori istituzionali della

sicurezza (§ 1.4.1). 23

Per una maggiore e dettagliata analisi del Testo Unico si rimanda a “Sicurezza sul lavoro”, Documenti de Il Sole 24Ore, 5 maggio 2008.

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42

definito come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente

solo in un’assenza di malattia o d’infermità” (art. 2). Una visione non più limitata ad

una dimensione “negativa”, ovvero di assenza dell’infortunio, ma “positiva”, ovvero

attiva e, dunque, di promozione di un concetto di benessere che va al di là del

fenomeno invalidante e si estende al riconoscimento di un principio che in qualche

modo riconosce al lavoratore un diritto a lavorare “in salute e sicurezza”, certi che

questo obiettivo si debba perseguire a diversi livelli, con la creazione di un network (di

attori ed anche di azioni) e con la collaborazione delle diverse figure, compreso lo

stesso lavoratore.

Ma quello che poi, però, accade nella vita lavorativa e nella pratica quotidiana

è, molto spesso, un’altra storia dove la pratica si discosta dalle normative.

Il concetto sul quale poggia gran parte dell’attività normativa in tema di

sicurezza sul lavoro è quindi quello di rischio e della sua calcolabilità. Attraverso di

esso, infatti, le decisioni in condizioni di incertezza che caratterizzano i diversi contesti

di lavoro, la responsabilità ed il potere di “quantificare” i rischi sono demandate ‒

attraverso le norme ‒ alla comunità tecnico-scientifica degli esperti, al fine di

assicurare un’azione di pianificazione e controllo dei fattori ritenuti “inaffidabili”,

compresi gli stessi attori umani.

1.3 Il dibattito sugli infortuni: discipline tecniche e sociali a confronto

In Storia del pensiero organizzativo, Giuseppe Bonazzi (2002; 2008; ed. or.

1989) ripercorre i principali contributi allo studio delle organizzazioni e suddivide il

periodo considerato in tre tappe: la questione industriale; quella burocratica e la

questione organizzativa.

La prima questione, che qui più interessa, si caratterizza principalmente per

due temi portanti: la tecnologia ed il consenso24. La tecnologia, infatti, ha da subito

rappresentato un tema di centrale importanza soprattutto per quanto riguarda i suoi

“effetti” sul lavoro umano (ibidem). La stessa inoltre è tradizionalmente vista come

“un’impresa che sorge da qualità e logiche che prescindono dal contesto sociale”

24

La questione burocratica, invece, si caratterizza per la centralità delle funzioni delle norme e le strategie dei soggetti. La questione organizzativa, infine, per i temi delle decisioni e delle risorse.

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43

(Mongili, 2007: 7) e ha da sempre rappresentato una sorta di approdo sicuro per

dirimere diverse questioni, prima fra tutte quelle del consenso e dell’efficienza a cui

Taylor tenne molto e che ai nostri giorni si tenta di riproporre spesso non curanti delle

diverse critiche mosse al suo Scientific Management25.

La tecnologia, dunque, gode di una certa fiducia positivistica nella capacità di

“controllare” le diverse variabili di un processo produttivo e di “calcolare” i rischi che

minacciano i singoli individui, oltre che di ridurre le “interferenze” ‒ compresa la non

totale gestibilità dell’attore umano ‒ che produrrebbero possibili incidenti. Se la

massiccia introduzione della tecnologia negli ambienti di lavoro è stata motivata, oltre

che con il progresso, anche con la necessità di alleggerire il carico per i lavoratori

impiegati in lavori pericolosi ed usuranti, non si può non evidenziare come essa stessa

sia stata anche considerata fonte di pericolo, richiamando la retorica del “fallimento

della tecnologia” soprattutto nel momento in cui bisognava dare spiegazione

dell’evento infortunistico. Implicitamente, il discorso si contestualizza all’interno di

organizzazioni a carattere industriale, o ci viene in mente un cantiere edile, o ancora un

sito di estrazione delle materie prime. In effetti questo è un modo parziale, o quello più

evidente, di prendere in considerazione il fenomeno degli incidenti sul lavoro. Quello

che le scienze sociali mettono in evidenza, infatti, è che gli stessi concetti di rischio e

pericolo sono socialmente costruiti e che ogni ambiente di lavoro (intendendo con esso

tanto l’aspetto strutturale che relazionale) è generatore, in un suo modo specifico, di

situazioni che possono portare al verificarsi di fenomeni infortunistici. Nella loro

diversa fenomenologia, incidenti e disastri sono sempre socialmente organizzati,

prodotti e riprodotti dalle strutture sociali presenti nelle organizzazione e tra

organizzazioni (Catino, 2002).

Queste affermazioni, però, sono acquisizioni piuttosto recenti. Lo studio del

fenomeno infortunistico, infatti, negli anni Sessanta e Settanta, era esclusivo

appannaggio delle discipline ingegneristiche. Successivamente, negli anni Ottanta e a

seguito di gravi incidenti (tra cui il caso di Three Mile Island del 197926), l’attenzione è

25

Il riferimento è alle vicende della Fiat che stanno tenendo banco dalla metà del 2010. 26

L’incidente nucleare di Three Mile Island (TMI) è accaduto il 28 marzo del 1979 in Pennsylvania ed ha rappresentato il disastro industriale nucleare, americano e mondiale, più drammatico accaduto

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44

andata spostandosi dai fattori tecnici, quale causa dei fallimenti tecnologici alla base

degli incidenti, ai fattori umani, riconoscendo, quindi, la componente umana quale

base degli errori27.

Il tema della sicurezza industriale, infatti, è da sempre stato affrontato

settorialmente da diverse discipline - l’ingegneria, la medicina del lavoro, l’ergonomia -

fino alla fine degli anni ’70. A partire da allora, però, negli Stati Uniti, si è sviluppato un

approccio ‒ conosciuto come Risk Analysis (RA) ‒ che analizza i rischi industriali

ricercando soluzioni organizzative e tecniche per la gestione del rischio negli ambienti

produttivi (Krimsky, Golding, 1992). Tale approccio tecnico-ingegneristico cerca,

inoltre, di riunire i contributi offerti dalle diverse discipline, ricorrendo largamente a

modelli formalizzati ritenuti i soli in grado di garantire “obiettività” di giudizio e non

tenendo nel giusto conto le dinamiche politiche, economiche e sociali che pure

sottendono un così complesso fenomeno.

È la conoscenza “teorica” del rischio a risultare inadeguata a dar conto delle

dinamiche quotidiane con le quali nei contesti di lavoro si prendono decisioni o si

valutano gli eventi relativi al rischio; attività queste basate, piuttosto, sull’esperienza

pratica e sociale (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 a).

Da più di un Ventennio, infatti, anche le scienze sociali ed organizzative hanno

mostrato interesse per lo studio di questi fenomeni: parafrasando Bauman, come già

ricordato da Catino (2002), gli incidenti hanno da dire sullo stato della sociologia delle

organizzazioni, nella sua forma attuale, più di quanto la sociologia delle organizzazioni

sia in grado di contribuire alla comprensione e prevenzione degli incidenti.

Seppur con ritardo, dunque, l’approccio organizzativo mira a guardare al

fenomeno degli incidenti sul lavoro prendendo in considerazione, in maniera

congiunta, sia gli aspetti umani, che tecnologici, organizzativi e culturali. Sono i fattori

prima di Chernobyl. Quel giorno, infatti, si verificò il blocco di una delle pompe d’acqua che ne impedì l’afflusso ai generatori di vapore della centrale, il conseguente funzionamento della turbina e, l’ancor più grave raffreddamento del nocciolo del reattore. Il rapporto della commissione Kenneny evidenziò “una cultura della sicurezza a TMI centrata prevalentemente sugli aspetti tecnologici e normativi * … +. Vi era un mindset, una mentalità, che escludeva le persone dalla possibilità di essere portatori di maggior sicurezza all'interno della centrale” (Catino, 2002: 61).

27 Si rimanda all’articolo di Catino e Albolino (2008) per una discussione sulla blame culture

(cultura della colpa) e di quanto il sostenerla o, al contrario, affermare una no blame culture all’interno dei contesti organizzativi, abbia effetti sull’apprendimento organizzativo basato sugli incidenti.

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45

socio-tecnici e i fallimenti organizzativi a divenire variabili di non trascurabile

importanza. A seguito di disastri di notevole portata come quello di Chernobyl o quello

del Challenger28 avvenuti nel 1986 e grazie ai primi studi di Turner (1976) e di Perrow

(1984), è emersa la rilevanza di questi aspetti socio-tecnici e organizzativi

nell’analizzare i diversi incidenti tragici avvenuti in quegli anni. Diviene necessario,

dunque, porre attenzione alla genesi e alla dinamica incidentale prendendo in

considerazione quanto gli aspetti organizzativi contribuiscono al verificarsi degli

incidenti: le decisioni, i processi di comunicazione, l’integrazione e lo scambio di

informazione, la conoscenza e la sua circolazione all’interno del sistema organizzativo,

la formazione degli operatori, nonché le culture della sicurezza di ogni organizzazione

(Catino, 2002, 2009).

Lo spostamento di attenzione dai fattori tecnici ai fattori socio-tecnici ed

organizzativi, ha avuto ripercussioni significative anche sul concetto di responsabilità.

In questa nuova ottica, la responsabilità personale di chi compie l’errore è vista come il

frutto di una eredità di difetti che appartengono al sistema tutto, dunque si tratterebbe

di una responsabilità organizzativa e collettiva. In effetti, l’analisi delle responsabilità, e

con essa la necessità di trovare il “colpevole”29, è coerente con un approccio

ingegneristico o “del fattore umano” che riconoscono all’ultimo anello degli eventi

incidentali, l’operatore di front line, la responsabilità dell’evento infortunistico (Catino,

2002). In questo modo, però, si dimentica che il suo lavoro è, nella maggior parte delle

28

Il 28 gennaio del 1986 la navetta spaziale Challenger, lanciata dalla Nasa, esplose solo dopo 72 secondi dal lancio. La commissione d’inchiesta decretò che i vertici della Nasa “si erano piegati alle pressioni della produttività e avevano effettuato, consapevolmente, un lancio in condizioni rischiose per essere al passo con il programma prestabilito” (ricostruzione in Catino, 2009: 38). Diane Vaughan (2004) ha studiato questo incidente già nella seconda metà degli anni ’90 ed ha messo in evidenza come, al di là delle figure rimosse, delle procedure e processi decisionali parzialmente rivisti, ciò che ha comportato il verificarsi di questo “disastro organizzativo” non sia stato per nulla modificato, anzi, nemmeno riconosciuto. La studiosa, infatti, ha messo in evidenza come le condizioni strutturali e dell’ambiente esterno alla Nasa, relativamente al campo organizzativo, non abbiano subito alcuna modifica. Per di più ciò ha comportato il verificarsi di un secondo incidente, a distanza di diciassette anni, quello del Columbia, che ha subito un danneggiamento a soli 81 secondi dal lancio al quale non è stato dato alcun peso. A seguito di ciò, però, al rientro dello Space Shuttle dopo 16 giorni, l’impatto con l’atmosfera ha provocato la disintegrazione dello stesso, compresa, ovviamente, la morte dell’intero equipaggio (per un ulteriore approfondimento Vaughan, 1996; 2004; Catino, 2002; 2009).

29 È un’accezione giuridico-formale delle organizzazioni e della sicurezza quella alla base della

ricerca del responsabile e della colpa individuale, per molti versi più congeniale alla logica di causa-effetto dell’istituzione giuridica. Questa logica, però, rischia di bloccare l’apprendimento organizzativo che dovrebbe scaturire a seguito degli incidenti (Catino, 2002; Catino, Albolino, 2008).

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situazioni, anche il frutto di decisioni organizzative e progettuali, si tratta cioè di

pratiche legate tra loro a vari livelli. Non va dimenticato, inoltre, che la complessità

organizzativa rende difficile l’individuazione di precise responsabilità. “La divisione del

lavoro (anche quello che deriva dalla semplice gerarchia dell’autorità) crea sempre una

distanza tra la maggior parte di coloro che contribuiscono al risultato finale dell’attività

collettiva e il risultato stesso” (Bauman, 1992: 143), e questo vale anche nel caso degli

incidenti sul lavoro.

Tante e diverse sono le variabili che intervengono nel processo di accadimento

di un incidente. Tra queste variabili vanno prese in considerazione quelle sociali, la

“cultura della sicurezza” di ciascuna organizzazione, la formazione e l’informazione dei

lavoratori e dei loro responsabili e altro ancora.

Diviene importante, dunque, promuovere un approccio proattivo alla sicurezza

e affidabilità di un’organizzazione che monitori costantemente il suo “stato di salute”.

Con Catino (2002) si può affermare che “la sicurezza di un sistema dipende in primo

luogo dalle specifiche culture della sicurezza e del rischio che sono presenti” (139).

Nei prossimi paragrafi sarà affrontato il “viaggio” tra le diverse accezioni del

concetto di rischio, passando dalla prospettiva tecnica a quella culturale, fino a

giungere alla presa in considerazione del concetto di sicurezza come competenza

sociale.

1.3.1 Rischio: breve storia di un concetto attraente

Per comprendere le dinamiche alla base del cambio di prospettiva che ha

permesso il passaggio dal “rischio alla sicurezza”, è opportuno partire dal contributo

delle scienze sociali al concetto di rischio per evidenziare le ragioni di una tale forza

attrattiva all’interno del dibattito e dello studio della sicurezza sul lavoro.

A proposito del concetto di rischio, infatti, possiamo trovare interessanti

contributi nel campo della sociologia e dell’antropologia: in Mary Douglas (1991), in

Niklas Luhmann (1996), in Ulrich Beck (2000) e in Antony Giddens (1994). Questi autori,

in maniera diversa e privilegiando dimensioni differenti, hanno posto in risalto i

contesti sociali e culturali all’interno dei quali le persone interpretano e discutono sui

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rischi. Essi, quindi, sarebbero socialmente costruiti e percepiti e sarebbe la società a

selezionare, di volta in volta, i rischi ritenuti rilevanti. Parafrasando Giddens (1994),

occorre assumere i rischi, la prevenzione e la sicurezza sul lavoro come un “impegno

radicale”.

Prima di addentrarsi nella specifica tematica della sicurezza sul lavoro e della

prevenzione degli infortuni, è utile, oltre che interessante, volgere lo sguardo ai

contributi teorici offerti dagli scienziati sociali in merito ai concetti di rischio e di

pericolo, cercando di tener presente, come afferma Luhmann (1996) che “ciò che la

sociologia riconosce come condizionamenti di ogni esperienza e di ogni azione vale,

mutatis mutandis, anche per lei stessa” (13-14), ovvero che la selezione dei rischi,

socialmente condizionata, avviene anche all’interno della stessa sociologia, benché

essa debba studiarne i processi nella società ed offrire piuttosto una teoria della

selettività30.

Ciò che emerge con fermezza dal dibattito pubblico e politico, nonché dal

contributo di alcuni sociologi (per esempio Beck, 2000), è che la condizione costitutiva

dell’esistenza umana nella nostra società ‒ la società postmoderna, fluida, complessa ‒

è quella del rischio. Oggi si parla sempre più in termini di rischio: il rischio ambientale, i

rischi sanitari, il rischio AIDS, il rischio attentati; su di esso sono state proiettate tutte le

minacce sul futuro della società a cui apparteniamo. In effetti, il concetto di rischio ha

finito con il canalizzare su di sé l’angoscia per la perdita della certezza nei confronti del

futuro tipica della società contemporanea.

La società del rischio (Beck, 2000) è tale per cui, a differenza delle società pre-

industriali, i disastri sono l’esito di processi decisionali attuatisi a livello politico o

organizzativo. Come sostiene Luhmann (1996), “si parla di rischio soltanto quando può

essere presa una decisione, senza la quale non potrebbe sorgere alcun danno * … +, è

decisivo soltanto il fatto che i danni contingenti vengono causati a loro volta in modo

contingente, cioè in un modo che si può evitare” (ibidem: 26).

30

A tal proposito l’autore afferma anche che per la sociologia “il tema del rischio rientrerebbe dunque in una teoria della società moderna e verrebbe coniato a partire dal suo apparato concettuale”. Egli prosegue affermando che “una teoria del genere non c’è, e le tradizioni classiche, alle quali si orienta ancora la maggioranza dei teorici della sociologia, offrono pochi punti di aggancio per temi come l’ecologia, la tecnologia, il rischio, per non parlare dei temi dell’autoreferenza” (Luhmann, 1996: 14).

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Mutuando da Battistelli (2004; 2008) la distinzione (cruciale in ambito

strategico) tra pericolo, minaccia e rischio, quali eventi che possono interferire con una

condizione di sicurezza, emerge chiara la rilevanza assunta dal concetto di

intenzionalità. Al capo dell’intenzionalità minima troviamo il pericolo, “concetto che si

applica a uno stato di crisi che interviene a perturbare la normalità per cause

esclusivamente naturali, ad esempio un terremoto” (Battistelli, 2004: 141). Sul

versante opposto, ossia quello di massima intenzionalità, troviamo la minaccia, “uno

stato di crisi intenzionalmente indotto da un attore dotato di intelligenza, di volontà e

di risorse, finalizzato al conseguimento di determinati scopi”, come il terrorismo

(ibidem). Tra i due concetti si colloca quello di rischio, ovvero “uno stato di crisi attuale

o potenziale che condivide con il primo polo la mancanza dell’intenzionalità diretta

nell’indurre una crisi, ma condivide con il secondo l’intenzionalità indiretta, insita

nell’aver creato le circostanze da cui la crisi può scaturire” (ibidem: 141-142).

La distinzione tra rischio e pericolo può anche essere intesa in termini di

incertezza in riferimento ai futuri danni: se l’eventuale danno è conseguenza di una

decisione, si parla di rischio; se il danno è conseguenza di fattori esterni, ovvero è

attribuibile all’ambiente, allora si parla di pericolo, al pericolo si è esposti (Luhmann,

1996).

Luhmann (1996) fa risalire l’utilizzo del termine “rischio” alla fase di passaggio

dal Medioevo all’inizio dell’età moderna. Si è soliti ricondurre la comparsa del termine

e del concetto di rischio alle prime imprese marittime dell’epoca premoderna. Tale

nozione indicava i diversi pericoli che potevano compromettere un viaggio. Questo non

infrequente scambio di termini, in realtà, denota una confusione di non poca rilevanza

in quanto, usare il termine rischio in luogo di pericolo, esclude l’idea di un errore o di

una responsabilità umana.

Il significato di rischio è mutato con il passaggio alla cosiddetta modernità

(Giddens, 1991) ed ha portato ad un ridimensionamento della confusione con il

concetto di pericolo. L’idea di fondo della modernità è che una conoscenza oggettiva

del mondo porti progresso e ordine sociale. Dunque, tanto il mondo naturale quanto

quello sociale seguono leggi costanti e, perciò stesso, calcolabili e prevedibili. Nel loro

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stadio iniziale, sia i rischi che la loro percezione sono “conseguenze non volute” della

logica di controllo che pervade la modernità (Beck, 2000).

È la nascita della statistica e del calcolo delle probabilità a dare un contributo

rilevante alla necessità di porre sotto controllo il disordine e, con esso, a dare una veste

tecnica e modernista al concetto di rischio. Nel diciannovesimo secolo questa nozione

è stata estesa: “i fattori di rischio non si nascondevano più esclusivamente nella natura,

ma «anche negli esseri umani, nella loro condotta, nella loro libertà, nelle relazioni che

intrattengono, nel loro associarsi, nella società» *Ewald 1993, 226+” (in Lupton, 2003:

12).

Ciò testimonia il fatto che da non molto tempo la semantica del concetto di

rischio ha trovato spazio nella riflessione sociologica contemporanea. “Il rischio e la

calcolabilità del rischio sono «invenzioni» moderne che hanno consentito di sostituire

con calcoli probabilistici giudizi etici” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997a: 80). Il concetto

nacque nel momento in cui si capì che, in certi casi, i risultati imprevisti possono essere

una conseguenza delle nostre azioni o decisioni, non essendo, quindi, l’espressione di

significati nascosti nella natura o in azioni divine. “Il «rischio» si sostituisce a quello che

prima si attribuiva alla fortuna (o al fato) e rompe ogni legame con le cosiddette

cosmologie” (Giddens, 1994: 40). Lupton (2003) ci ricorda con Reddy (1996), che

l’invenzione del rischio ha permesso ai moderni di eliminare la naturale incertezza o

indeterminatezza di talune cose o situazioni. Il mito della calcolabilità ha permesso di

rendere il mondo più maneggevole.

È soprattutto in ambito economico-bancario che il termine trova il suo maggior

successo, ambito in cui si procede alla sua calcolabilità. Infatti, “tutta la prima analitica

del rischio è costruita sulla base del modello economico di decisione razionale in

condizione di incertezza e su parametri di valutazione propri del settore dell’economia”

(Zorzoli, 1986: 15). Quello che prevale è un’accezione neutrale del termine rischio: la

probabilità che un certo evento accada moltiplicata l’entità delle perdite e/o dei

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guadagni che se ne possono ricavare31: R= P x D. Il rischio, dunque, come evento

prevedibile, calcolabile probabilisticamente e indennizzabile.

Le grandi assicurazioni hanno rappresentato la tecnologia in grado di

controllare i rischi, distribuendo i loro effetti nei collettivi di individui che, dinanzi a

diverse minacce prevedibili, sono stati resi solidali. Attraverso la generalizzazione

dell’obbligo di assicurazione ‒ che implica la garanzia dello Stato ‒ si è realizzata la

costituzione della “società assicurante” (Castel, 2004): una società nella quale tutti gli

individui sono tutelati, in quanto assicurati, sulla base della loro appartenenza a gruppi,

i cui membri pagano la loro quota “per suddividere il costo dei rischi” (ibidem). Alla

base della copertura dei rischi sociali vi è, dunque, un modello mutualistico o

solidaristico.

Fino ai primi anni dell’Ottocento era pensabile una distinzione tra rischi

“buoni” e rischi “cattivi” (Douglas, 1991), oggi, invece, l’uso del termine rischio “non ha

molto a che vedere con i calcoli della probabilità. Il legame originale è segnalato

soltanto da qualche accenno nella direzione di una scienza possibile: adesso la parola

rischio significa pericolo, grande rischio significa molto pericolo” (Douglas, 1991: 199).

Sono, dunque, gli esiti negativi o indesiderabili a prendere il sopravvento quando si

parla di rischi.

Lupton (2003) sottolinea, inoltre, che sono diversi sia i significati che le

strategie costruite attorno al rischio: “I significati e le strategie del rischio sono tentativi

di domare l’incertezza. E tuttavia, la stessa intensità di tali tentativi ha spesso l’effetto

paradossale, non di placare le ansie, ma di eccitarle”, inoltre, “ciascuno di noi identifica

i «rischi» dall’interno del particolare contesto culturale e storico in cui si trova. Definire

qualcosa un «rischio» significa riconoscere la sua rilevanza per la nostra soggettività e il

nostro benessere” (ibidem: 19). I meccanismi di selezione ed identificazione dei rischi

sono fondamentali per le società, per il loro ordine e per l’identità tanto degli individui

che delle culture. Tutto ciò è veicolato attraverso la pratica di discorsi: attraverso di

essi siamo in grado di percepire ed interpretare il mondo sociale, culturale e materiale.

31

Espressa, come misura quantitativa, nella formula: R = P x D, dove R è il rischio associato ad un certo evento X; P è la misura della possibilità/probabilità che un danno si verifichi, ovvero diventi reale; D è l’entità del danno conseguente al verificarsi dell’evento X. Si veda anche Beato (1998).

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“I discorsi sui rischi servono ad organizzare i modi in cui li percepiamo e li affrontiamo”

(Lupton, 2003: 21).

Come afferma Beck (2000) “sono la percezione e la definizione culturale che

costituiscono il rischio. Il “rischio” e la “definizione pubblica del rischio” rappresentano

un tutt’uno” (328).

Anche il discorso attorno al rischio infortuni sul luogo di lavoro può essere letto

entro questa prospettiva. L’attenzione al tema della sicurezza sul lavoro testimonia di

questo spostamento di interesse e del modo in cui una data società ponga questa

tematica al centro del dibattito sociale e politico, considerandola di volta in volta una

tematica degna di rilevanza e su cui la società debba riflettere (in senso giddesiano, di

società riflessiva che produce conoscenza su se stessa), come è avvenuto dal 2007,

quando, a seguito di frequenti e gravi incidenti, il Governo italiano ha attuato, prima

del periodo programmato e dopo quindici anni di discussioni, il Testo Unico sulla

sicurezza32.

Sul versante opposto, la sicurezza può essere considerata un argomento

dolente al quale è difficile porre rimedio e dal quale non si ricava remunerazione

alcuna, leit motive che continua a fare da sfondo al dibattito. I discorsi sulla

prevenzione degli infortuni e delle morti sul lavoro, spesso, infatti, vengono messi sulla

bilancia accanto al piatto dei costi che una azienda deve sostenere per “mettere in

sicurezza” i propri dipendenti, dimenticando, nella stessa logica economicistica, quanto

costi allo Stato, in termini economici, ma soprattutto umani e sociali, la lunga serie di

infortuni e morti sul lavoro.

1.3.2 Sicurezza sul lavoro: una costruzione sociale

Il concetto di rischio, dunque, richiama un fenomeno costantemente costruito

e negoziato, proprio perché parte di una rete di relazioni ed interazioni sociali in cui si

produce senso. Quello che nel dibattito delle scienze sociali va emergendo, dunque, è

uno spostamento del focus, dallo studio del rischio, soprattutto nella sua accezione

“oggettiva”, tecnica e calcolabile, allo studio della sicurezza. Studiare la sicurezza di

32

Decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 (§ 1.2).

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un’organizzazione significa, in questa nuova prospettiva, studiare la sua “costruzione

sociale”, come il concetto sia costruito e ricostruito all’interno della comunità di

riferimento e sottolinea la responsabilità di tutti gli attori partecipi di questo processo

di costruzione sociale.

Ad aver fatto oggetto di studio un tale spostamento d’attenzione è stato

l’approccio culturale, fornendo di fatto un’alternativa allo studio “tecnico-

ingegneristico” del fenomeno del rischio, degli incidenti e degli infortuni sul lavoro

proposto dalla Risk Analysis33. Diversamente da quest’ultimo, infatti, l’approccio

culturale si sviluppa proprio a partire dalla considerazione dell’interdipendenza di

aspetti tecnici, organizzativi e sociali che ruotano attorno al concetto di rischio. È a

partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che inizia ad affermarsi questa nuova

prospettiva e con essa il termine “cultura della sicurezza”. Elemento distintivo di tale

approccio è quello di “considerare il problema del rischio secondo una chiave di lettura

di tipo metaforico (Rayner, 1992). Il modo in cui la società vede le fonti di rischio *…+

possono essere considerate quali espressioni simboliche del confronto con le forme di

incertezza presenti nella realtà fenomenica e non soltanto manifestazioni immediate e

dirette di pericolo” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997a: 85).

Esistono diverse “culture del pericolo” sia nella società che all’interno delle

organizzazioni ed è proprio il contesto sociale da cui si originano che contribuisce a

distinguerne le caratteristiche. Tale approccio ritiene importante descrivere gli esiti di

un evento negativo ma, al tempo stesso, indaga sulle precondizioni locali e sulle

dinamiche sociali che hanno portato all’insorgere di una condizione di pericolo,

attivandola. Il punto di vista scelto dagli studiosi di questa prospettiva porta la loro

attenzione, come è già stato ricordato, dallo studio del rischio allo studio della

sicurezza. Tale spostamento non è un mero artificio concettuale, ma implica “uno

spostamento nelle regole dell’attenzione di una comunità di attori sociali che, sia a

livello istituzionale che organizzativo, gestiscono le relazioni fra società e fonti di

incertezza e producono conoscenza teorica sulla conoscenza” (ibidem: 89).

33

Per un confronto sintetico si rimanda alla Tab. 1, in conclusione del paragrafo.

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La “sicurezza sociale” è ormai “un diritto per la stragrande maggioranza della

popolazione e ha dato origine a una moltitudine di istituzioni sanitarie e sociali che si

fanno carico della salute, dell’educazione, delle incapacità connesse all’età” (Castel,

2004: 3-4). Negli anni sono stati fatti passi in avanti per garantire la sicurezza del

lavoratore, ma forse qualcosa non ha funzionato e viene da chiedersi, allora:

Come è possibile che ci sia ancora un numero consistente di infortuni sul lavoro?

Che cosa accade lungo il tragitto che dalla definizione delle norme di sicurezza porta

al luogo di lavoro?

Come si fa sicurezza sul posto di lavoro?

Fondamentale, a questo punto, definire il concetto di “sicurezza” a cui si fa

riferimento in questo contesto. Esso oscilla tra due differenti accezioni relative:

ad una dimensione individuale, lato percettivo ed emozionale, che si riferisce al

modo in cui i soggetti vivono il loro senso di certezza, ovvero la sicurezza personale

o security;

ad una dimensione oggettiva, di conformità rispetto a regole definite socialmente ‒

relativa alla possibilità di ricevere un danno a seguito di un comportamento agito in

talune condizioni ‒ ovvero la sicurezza come bene collettivo o safety (Bisio, 2003;

Gherardi, Nicolini, Odella, 1997a).

È la dimensione della sicurezza come safety, come bene collettivo ad assumere

rilevanza per l’ambito organizzativo. Il termine, dunque, “richiama la necessaria

partecipazione di tutte le componenti dell’organizzazione alla ricerca delle azioni

sistematiche e collettive necessarie ad evitare incidenti e infortuni” (Gherardi, Nicolini,

2001: 234).

Diviene discutibile la predominanza degli aspetti tecnici e normativi e si

sottolinea implicitamente il ruolo di quelli collettivi e relazionali (ad esempio, la fiducia

tra gli individui) nella costruzione della sicurezza nei contesti sociali.

La cultura della sicurezza, quindi, è considerata come l’insieme di assunti e di

pratiche ad essa associate che “permette alle credenze sulla sicurezza e sui pericoli di

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realizzarsi all’interno di un certo contesto organizzativo” (Gherardi, Nicolini, Odella,

1997a: 90).

Indagare la sicurezza sul lavoro in una prospettiva culturale implica, dunque, il

“considerarla una componente sociale, una capacità collettiva, di dar luogo a pratiche

lavorative, organizzative, interorganizzative e sociali che tutelino il benessere

individuale quanto l’equilibrio ecologico” (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997b: 16). Si

tratta, pertanto, di una competenza che si realizza nella pratica, che è socialmente

costruita ed innovata, che diviene un elemento da trasmettere ai nuovi membri di una

organizzazione e che viene istituzionalizzata in valori, norme ed istituzioni sociali.

“Sicurezza è allora sapere-in-azione e conoscenza oggettificata e codificata in saperi

disciplinari” (ibidem).

Al di là della tecnologia, la sicurezza si presenta come una variabile costruita

socialmente che si mantiene attraverso interazioni attive e costanti tra i membri che ne

condividono l’esperienza in uno stesso sistema organizzativo. Il carattere sociale

connota la sicurezza come una forma di “expertise organizzativa” (Gherardi, Nicolini,

Odella, 1997a) e attraverso l’individuazione dei processi e degli attori è possibile

comprendere i meccanismi di produzione di tale sicurezza.

Indagare la costruzione sociale della sicurezza implica, inoltre, analizzare le

modalità attraverso le quali tale capacità si realizza nei tre livelli tra loro interagenti

(bidem):

il livello istituzionale, i cui attori definiscono l’aspetto normativo e le modalità di

implementazione della sicurezza sul lavoro all’interno della società;

il livello organizzativo, i cui attori implementano e prendono decisioni in linea con la

propria cultura della sicurezza;

il livello dei gruppi occupazionali, dove gli attori “mettono in pratica” la sicurezza e si

relazionano con il proprio contesto di lavoro caratterizzato da attori eterogenei e

artefatti vari che esprimono diverse “visioni” della sicurezza.

Questi i tre livelli ai quali è possibile condurre una analisi della sicurezza sul

lavoro, individuando un contesto macro nel livello istituzionale già esaminato (§ 1.2),

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dove cioè si decide la policy della sicurezza e il come si dovrebbe lavorare; ed un

contesto micro nei restanti livelli organizzativo e delle pratiche (Cap 4; Cap. 5), dove le

norme sono tradotte nei concreti contesti di lavoro interagendo con, e modellandosi

su, le quotidiane attività di lavoro, finendo spesso con l’essere tradite proprio per

lavorare in sicurezza (Cap. 5).

È la dimensione micro-sociologica delle pratiche a rappresentare il centro

d’interesse del presente lavoro, in quanto “la dimensione della pratica consente il

sedimentarsi nel tempo di regole e culture inconoscibili dal punto di vista degli

organigrammi e della corporate culture ufficiale” (Tomassini, Bonaretti, 2002: 270), il

cui studio può dar modo di cogliere il quotidiano processo di costruzione di tali regole e

culture sedimentate e, dunque, date per scontate (Garfinkel, 1967) dagli attori che a

tale processo prendono parte.

Parlare della dimensione socialmente costruita della sicurezza permette, da un

lato, di cogliere la sua natura collettiva, l’essere il frutto dell’azione di più attori che

operano entro ambiti artificiosamente separati, ma caratterizzati da una propria

“visione professionale” (Goodwin, 2003); dall’altro, di interpretarla come il prodotto di

un comune contesto istituzionalizzato che definisce cosa sia il pericolo e cosa sia la

sicurezza.

All’interno di ciascuna organizzazione, quindi, “un’affidabile cultura della

sicurezza richiede un impegno del management nella sicurezza, una preoccupazione e

attenzione condivisa per i pericoli realistica e flessibile, una continua riflessione sulle

pratiche attraverso monitoraggio, analisi e sistemi di feedback” (Turner, Pidgeon, 1997

in Catino, 2002: 143).

Cercare di comprendere il senso conferito alle azioni dagli attori che

quotidianamente s’imbattono nel problema della sicurezza offre l’opportunità di

cogliere quale sia la “costruzione della sicurezza” prevalente e permette di offrire al

policy maker un quadro, ancorché parziale, di come il concetto di sicurezza sul lavoro ‒

e la relativa azione di prevenzione degli infortuni sul lavoro ‒ non sia qualcosa di

astratto o esterno agli attori sociali, ma proprio attraverso l’azione di questi ultimi

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Tab. 1 Sintesi degli approcci

Approccio Tecnico Approccio Culturale

Concezione del rischio Oggettivo Relazionale e situato

Atteggiamento verso il

rischio

Il rischio può essere scientificamente

identificato, misurato e previsto

I membri di ogni contesto sociale e

organizzativo definiscono rischio e

sicurezza in base alla cultura locale

della sicurezza

Chi riguarda Gli esperti Ogni membro del gruppo sociale

Enfasi dell’approccio su Pianificazione, definizione di regole,

training

Processi di costruzione sociale della

sicurezza e caratteristiche delle

pratiche quotidiane di lavoro

Fonte: Gherardi, Nicolini, Odella, 1997b

1.3.3 Sicurezza come pratica situata. Un approccio prossimale

Alcuni studi sulla sicurezza sul lavoro, come anche le stesse fonti statistiche,

mettono in evidenzia un approccio al tema “sicurezza” visto più come un dato che

come un processo delle organizzazioni che la generano34, come effetti prodotti da un

network di azioni. Uno studio, invece, che ha adottato una prospettiva differente è

quello di Davide Nicolini (2001)35, il quale ha affrontato la questione della sicurezza sul

lavoro adottando un approccio prossimale e non distale ad essa (Cooper, Law, 1995),

ponendo l’attenzione sul processo dell’organizzare e l’importanza della relazione con il

contesto entro il quale l’agire organizzativo è situato, piuttosto che sull’organizzazione

come entità data (visione distale) 36.

34

Ad esempio si citano: Avallone F., Paplomatas A., (2005); Bisio, C. (2003); De Cesare, Virdia, Fioravanti, (2007); Savona, Di Nicola, Vettori, (2008).

35 L’articolo di Davide Nicolini (2001) è il frutto di una lunga ricerca nel settore dell’edilizia

condotta nella provincia di Trento, durata 5 anni e svolta insieme a Silvia Gherardi (2006) e Francesca Odella (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 a, b).

36 “ … il pensiero distale privilegia i risultati e le conseguenze, i prodotti o gli oggetti «finiti» del

pensiero e dell’azione, tutto ciò che è preconfezionato * … +. Il pensiero prossimale coglie invece ciò che è continuo e «incompiuto»: ciò a cui si tende ininterrottamente ma che non si raggiunge mai, ciò a cui ci si avvicina sempre di più ma che non viene mai realizzato completamente”(Cooper, Law, 1995: 287). Dal pensiero si passa, per così dire, “all’oggetto” di studio, ovvero il campo organizzativo: “l’organizzazione distale appare un sistema definito e circoscritto da linee di confine definite. La tradizionale distinzione fra organizzazione e ambiente è quindi un concetto distale, così come l’idea secondo cui le organizzazioni sono «cose» misurabili. Diversamente, il pensiero prossimale concepisce le organizzazioni come reti di mediazione, come circuiti di contatto e movimenti continui * … +, il pensiero prossimale ci ricorda che le organizzazioni sono in realtà effetti creati da una serie di strumenti di mediazione” (287-288). Il distale, inoltre, parla di organizzazioni (al plurale), mentre il prossimale parla di organizzazione (al singolare), puntando l’attenzione, nella seconda accezione, alla dimensione generale e relativa all’atto dell’organizzare.

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Anche la presente ricerca si è proposta di osservare le attività quotidiane e la

pratica della sicurezza nei cantieri edili ‒ in particolare quelli per la costruzione di una

delle nuove linee metropolitane della città di Roma ‒ e di analizzare i “dati” raccolti

durante la mia permanenza sul campo, adottando appunto una visione prossimale

dell’organizzazione e della sicurezza sul lavoro.

Ciò che nella mia ricerca mi propongo di mettere in luce è la dimensione

processuale del fare organizzazione e, dunque, del fare sicurezza all’interno del

cantiere. Una prima considerazione che ne deriva riguarda le implicazioni

metodologiche che conseguono l’adottare una visione prossimale dell’organizzazione

e, nello specifico, della sicurezza sul lavoro e del cantiere come luogo privilegiato di

ricerca37. Tale implicazione, dunque, riguarda la necessità di non dare nulla per

scontato, ribadendo il cosiddetto principio di simmetria “secondo cui le distinzioni nel

mondo dei fenomeni umani non sono naturalmente date ma sono prodotti o effetti di

attività ordinative e di organizzazione” (Cooper, Law, 1995: 288).

Lo studio della sicurezza sul lavoro si presta per la sua natura complessa

(molteplicità degli attori coinvolti, per esempio), e anche controversa, ad essere

esaminato da un punto di vista prossimale (Nicolini, 2001). Secondo tale visione, infatti,

la sicurezza è descritta non in maniera individualistica, ma “come pratica sociale e

forma di “expertise organizzativa”38, ovvero una forma emergente di competenza

collettiva sostenuta a livello organizzativo dalla interazione di diversi attori collettivi”

(Nicolini, 2001: 95).

Considerata in questi termini, la sicurezza sul lavoro può essere indagata con

occhi differenti, nel suo “praticarsi”, ovvero nel processo attraverso il quale è

quotidianamente prodotta e ri-prodotta, negoziata ed “esibita”. Quello che si presenta

ai nostri occhi, dunque, non è un ordine stabilito a priori, una volta per tutte, ma è un

“ordine negoziato” (Strauss, 1978), in cui diversi soggetti ed artefatti si incontrano, si

confrontano, si allineano e, spesso, si scontrano. Alla base di queste relazioni

materialmente diverse vi è un processo definito “ingegneria dell’eterogeneo” (Law, 37

Le ragioni della scelta del cantiere come ambito di ricerca sono esposte nel secondo capitolo. 38

Gli autori che hanno sostenuto la dimensione “collettiva” della sicurezza ricordati da Nicolini sono: Turner e Pidgeon, 1997; Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 a; Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 b; Gherardi, 2006, (Cap.1).

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1987) che, almeno in parte, “ignora le distinzioni tra persone, tecnologie, testi e oggetti

naturali, e combina questi elementi dando vita ad un effetto” (Cooper, Law, 1995: 299),

che nel caso della presente ricerca è l’effetto di cantieri più o meno sicuri. Il

presupposto, inoltre, è che le relazioni che costituiscono il sociale siano continue,

oltrepassino le barriere e forniscano “una rete senza punti di giuntura (Hughes, 1986)”

(ibidem), ovvero un’unica rete socio-tecnica.

Prima di addentrarci in alcuni cantieri edili per osservare come si fa

quotidianamente sicurezza39 (Cap. 4; Cap. 5), è opportuno indagare come si traduce in

pratica quanto stabilito a livello istituzionale, ovvero come la policy che disciplina la

materia della prevenzione degli infortuni e della sicurezza sul lavoro sia tradotta

all’interno dei contesti organizzativi e di lavoro. Un primo “livello” che qui sarà

esaminato, prima di arrivare sin dentro i cantieri, è quello della mappatura degli attori

preposti all’“implementazione” di tale policy e la rete istituzionale da essi tessuta.

1.4 La rete degli attori istituzionali: tradurre i discorsi sulla sicurezza

Prima di presentare i principali attori locali che concorrono a fare sicurezza

all’interno dei diversi contesti di lavoro (Cap. 3), occorre delineare brevemente

l’approccio che ha permesso di rintracciare, in questa sede, la rete entro cui gli attori

istituzionali e i loro discorsi sulla sicurezza prendono forma e legittimazione, a partire

dalla definizione delle norme in sede istituzionale, centrale per la comprensione della

mappa degli attori locali che sarà affrontata nel terzo capitolo.

Il frame teorico che permette di esplicitare, anche attraverso un adeguato

linguaggio, l’approccio prossimale alla sicurezza sul lavoro dunque è la sociologia della

traslazione40 che, nello stile cosiddetto “ecologico”41 (Star, Greisemer, 1989;

39

Argomento dei capitoli 4 e 5 della presente tesi in cui sarà analizzato il materiale raccolto attraverso l’osservazione diretta di una realtà lavorativa come quella di alcuni cantieri edili della città di Roma.

40 La sociologia della traslazione, o l’Actor Network Theory (ANT), è nata nell’ambito della

sociologia della scienza e della tecnologia e da diversi anni applicata anche in ambito amministrativo e organizzativo. Fa la sua prima comparsa nella sociologia della scienza, in ambito francese sotto il nome di acteur réseau, “traducendosi” nel mondo anglosassone come Actor-Network Theory (Latour, 1986; Callon, 1986). La sua duplice fondazione ha radici sia nell’ambito linguistico che geometrico. Il primo richiama il processo di traduzione da una lingua ad un’altra, attività che richiede molto di più che trovare la parola “corrispondente” ed implica, invece, tutta una serie di espressioni e significati in grado di esprimere la

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Czarniawska, Joerges, 1995), incentra il suo focus sul costituirsi ed il consolidarsi di un

“sistema” (action-net) di compatibilità fra azioni e punti di vista (Nicolini, 2001).

La teoria della traslazione permette, infatti, di descrivere l’ordine osservato

come il risultato di un lavoro collettivo di un “soggetto” eterogeneo costituito da

intermediari ‒ l’“attante reticolare” o actor-network (Callon, 1986b) ‒ attivamente in

cerca del loro posto all’interno di una configurazione emergente (Nicolini, 2001). Altro

concetto rilevante è quello di action-net o “rete di azioni” che rappresenta una arena, o

campo di forze, in cui i diversi soggetti (con i propri discorsi, le proprie voci, e propri

saperi) operano a livello locale, coesistono e negoziano tra loro, ma possono originarsi

e avere sostegno anche al di fuori del tessuto locale a cui hanno dato origine. L’action-

net “contiene” e produce l’actor-network.

Il concetto di action-net, accanto a quello più generale di traslazione, permette

di analizzare la tematica della sicurezza sul lavoro in una dimensione diversa da quella

legata all’implementazione di una riforma ‒ intesa come l’applicazione di modelli

predefiniti resi operativi attraverso mezzi predefiniti e per questo divenuta discutibile

almeno per lo studio della sicurezza sul lavoro (Nicolini, 2001) ‒ e più aderente alla

realtà della traslazione in pratica, la cui natura è tutt’altro che lineare e, soprattutto,

soggetta alle innumerevoli dinamiche dell’action-net locale (Gherardi, Lippi, 2000).

Quello che si osserva, dunque, non è dato una volta per tutte e tanto meno è il

risultato di un aprioristico ordine naturale, essendo solo un effetto momentaneo

(Callon, 1980; Latour, 1987). Una certa linearità implicita nel processo di

implementazione è qui messa in discussione dall’osservazione di azioni, “connessioni di

azione” e “reti di attività” (Blackler, Crump, McDonald, 2003) che rendono il processo

carica simbolica e i concetti di un determinato popolo: “tradurre è un po’ tradire”. Il secondo richiama l’ambito geometrico, ovvero quello del trasferimento/spostamento “spaziale” di un oggetto. Il ricorso al concetto di traslazione ha avuto l’intento di porre attenzione a ciò che le teorie sociali classiche trascuravano: “l’insieme dei processi trasformativi, di trasferimento, di traduzione o di espansione spazio-temporale” (Gherardi, Lippi, 2002: 172)

41 La letteratura sulla sociologia della traslazione è caratterizzata da due “stili” principali: quello

“imprenditoriale” e quello “ecologico”. Il primo (Callon, 1986; Latour, 1987; Gherardi, Nicolini, 2000) si basa sul racconto di storie di innovazione e sottolineano lo sforzo di alcuni imprenditori/traslatori nell’operare controlli a distanza (Nicolini, 2001). Lo stile “ecologico” (Star, Greisemer, 1989; Star, 1991; Czarniawska, Jorges, 1995), invece, mira a descrivere “l’affermarsi e il persistere di assetti e regimi di ordine” (Nicolini, 2001: 97). Mentre nel primo stile l’attenzione è più sull’attore reticolare, nello stile “ecologico”, invece, è l’action-net (ibidem).

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di “messa in pratica” di una normativa complesso e tortuoso. Quello normativo, quindi,

è riconosciuto come uno dei diversi discorsi e dei saperi sulla sicurezza, ma non l’unico.

Nel ricostruire le rete degli attori che si occupano di sicurezza sul lavoro, anche

nel settore delle costruzioni, si nota come la mappa si sia arricchita nel corso degli anni,

a seguito delle diverse leggi prodotte, e si sia sempre più articolata, con il sorgere di

nuovi organismi, l’affidamento di nuove funzioni ad istituzioni già esistenti e la

formazione di nuove rappresentanze per la difesa e la promozione della sicurezza sul

lavoro.

Al fine di ricostruire tale mappa, inoltre, si farà riferimento ai quattro discorsi

attraverso i quali ricostruire l’action-net della sicurezza in edilizia: il discorso tecnico, il

discorso normativo, quello economico e quello educativo (Nicolini, 2001). L’idea del

“discorso” ben esprime le diverse visioni che ciascun attore sociale ha in merito alla

sicurezza sul lavoro, a partire dalla sua definizione fino alle modalità di traduzione in

pratica delle proprie posizioni42.

I quattro discorsi, dunque, corrispondono ad un action-net consolidato. A

sostenere e dar forma ai rispettivi discorsi vi sono quattro grandi categorie di

intermediari (Callon, 1992): le persone fisiche; gli artefatti tecnologici e l’attrezzatura

lavorativa più o meno sicura; i testi, le norme e le diverse forme testuali che da esse

derivano (interpretazioni normative, circolari, rapporti, certificazioni, standard tecnici);

i soldi (Cap. 3).

1.4.1 Il discorso normativo: attori e artefatti

Il discorso normativo esprime la convinzione che la sicurezza sul lavoro sia il

prodotto della regolare applicazione della normativa di riferimento, ovvero di quanto

sin qui esplicitato. Le attività espressione di tale discorso sono sia quelle propriamente

normative che quelle di controllo e vigilanza, oltre che di informazione.

42

“Con la nozione di “discorso” ci riferiamo a un insieme di produzioni testuali in grado di dare forma sufficientemente stabile a un oggetto o a una serie di oggetti, nonché alle strutture e pratiche coinvolte nella loro produzione, riproduzione e circolazione. Ogni discorso si costituisce come pratica testuale e allo stesso tempo come “mondo” sociale e tecnico, risultato contingente di relazioni e processi resi stabili nel tempo e nello spazio; esso corrisponde a un processo “intenzionale” che tuttavia non discende necessariamente dalla progettualità di un soggetto ben definito” (Foucault, 1981; Law, 1995, in Nicolini, 2001: 99).

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Gli intermediari umani e quelli testuali che rendono possibile, rappresentano,

veicolano e traducono tale discorso sono diversi. Procedendo a cascata ‒ sempre per

comodità espositiva ‒ abbiamo i diversi ordini legislativi: internazionale, europeo,

nazionale. Quest’ultimo, a sua volta, condivide la sua potestà legislativa con le Regioni

che, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, attribuisce ad esse

potestà concorrente in materia di “tutela e sicurezza sul lavoro” (ovviamente i loro

margini di intervento devono muoversi entro i limiti dei “principi fondamentali” definiti

dallo Stato). Lo Stato, dunque, individua gli obiettivi generali e le priorità di intervento

in materia di salute e sicurezza sul lavoro attraverso il Ministero della Salute e

l’artefatto testuale adottato è il Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) che diviene

Piano Regionale per la Previdenza nel momento in cui ciascuna Regione e Provincia

autonoma ne recepisce le direttive. Per quanto riguarda, invece, la loro esecuzione,

questa spetta ai Servizi dei Dipartimenti di prevenzione delle Asl che svolgono anche

attività di controllo e vigilanza, formazione ed informazione nelle realtà locali (Savona,

Di Nicola, Vettori, 2008). A testimonianza di ciò, un Tecnico della Prevenzione di un’Asl

della Regione Lazio (nonché intermediario del discorso normativo) ha affermato che

oltre all’attività amministrativa ed ispettiva, svolge anche attività di formazione:

“.. di recente sono stati fatti, da parte della Asl, anche dei corsi di formazione ai

datori di lavori, alle varie figure: ai preposti e ai coordinatori, e sul cantiere, nel

momento in cui vai sul cantiere, c’è un programma della Regione Lazio, noi facciamo ..

la formazione sul posto: raggruppando gli operai e gli spieghiamo [ … ] … quindi

raggruppando gli operai, facendo una formazione spicciola perché si svolge in mezzora,

in un’ora, a seconda .. però anche per capire dalle varie maestranze se effettivamente

conoscono quello che stanno facendo, se conoscono il tipo di lavoro, poi ho degli

opuscoli …” (Tecnico della Prevenzione - Asl).

Diversi sono i comitati istituiti presso il Ministero della Salute: vi è il Comitato

per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale

delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza; la Commissione consultiva

permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro; i Comitati regionali di

coordinamento istituiti presso ogni Regione e Provincia autonoma. Infine, è istituito il

Sistema informativo nazionale per la prevenzione (Sinp) nei luoghi di lavoro. Il Sinp

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nasce con l’obiettivo di fornire dati utili alla programmazione, alla pianificazione e alla

valutazione dell’efficacia delle attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie

professionali rivolte ai lavoratori. Si propone poi di rendere più efficaci le azioni di

sorveglianza mediante la condivisione di dati tra più istituzioni, il loro utilizzo integrato

e la creazione di apposite banche dati unificate (art. 8 D.lgs. 81/08 – Capo II, Sistema

istituzionale)43.

Accanto al Ministero della Salute e alle sue strutture, vi è anche il Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali44 che si occupa di tutela delle condizioni di lavoro, di

promozione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e di gestione del Fondo

Speciale per gli Infortuni. Due, infatti, le direzioni che si occupano di sicurezza sul

lavoro: la Direzione generale per l’attività ispettiva, basata principalmente sulla

dimensione di vigilanza e controllo, da parte degli organi periferici dello Stato,

dell’applicazione della normativa in materia, oltre a definire la direzione ed il

coordinamento di tali organi; la Direzione generale della tutela delle condizioni di

lavoro che si occupa dell’applicazione della legislazione attinente la sicurezza e la salute

sui luoghi di lavoro, della disciplina dei profili di sicurezza dei macchinari adottati sul

lavoro.

Va ricordato anche l’Istituto Italiano di Medicina Sociale (IIMS), un ente

pubblico dedito alla ricerca e formazione, che studia gli aspetti medico-sociali del

lavoro; l’Istituto Superiore per la Previdenza e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL) che

svolge attività di documentazione, ricerca, formazione ed informazione, consulenza,

controllo e assistenza. Questo istituto, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario

nazionale, è il focal point italiano dell’Agenzia europea. EU-OSHA (European Agency for

Safety and Health at Work) è stata costituita nel 1996 dall'Unione europea con sede a

Bilbao, in Spagna, ed è il principale punto di riferimento per la sicurezza e la salute sul

43

Un articolo di Daria De Nesi ricorda come, negli ultimi mesi del 2010, il Sinp sia ancora al vaglio del Garante della Privacy, una delle ultime tappe per la realizzazione “concreta” del sistema (su www.questionesicurezza.it del 12 novembre 2010).

44 Il Ministero del Lavoro è sovente oggetto di accorpamento e scorporamento dal Ministero

della Salute. L’ultima divisione è stata prodotta con legge n. 172 del 13 novembre del 2009 che ha attribuito al ministero funzioni e compiti “in materia di politica del lavoro e sviluppo dell'occupazione, di tutela del lavoro e dell'adeguatezza del sistema previdenziale e di politiche sociali, con particolare riferimento alla prevenzione e riduzione delle condizioni di bisogno e disagio delle persone e delle famiglie” (dal sito ufficiale www.lavoro.gov.it).

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lavoro. Si tratta un organismo tripartito che collabora con governi, rappresentanti dei

datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori e che svolge il ruolo di attore chiave

nella strategia comunitaria sulla salute e la sicurezza sul lavoro 2007-2012, con

l’obiettivo di ridurre gli incidenti sul lavoro di un quarto in seno all’UE, comprese le

malattie professionali45.

Accanto a queste istituzioni, inoltre, vi è l’IPSEMA, Istituto di Previdenza per il

Settore Marittimo, nato nel 1994 quando un decreto legislativo ricompose in un unico

ente le attività per i lavoratori del mare fino ad allora svolte dalle Casse Marittime.

L’IPSEMA assicura contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il personale

della navigazione marittima, accerta e riscuote contributi dai datori di lavoro, ed eroga

le prestazioni previdenziali per gli eventi di malattia e maternità nei confronti dello

stesso personale e di quello della navigazione aerea46.

L’INAIL, infine, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul

Lavoro, ha riformulato il suo ruolo: oltre che ente competente in materia (al quale

pervengono le comunicazioni circa gli infortuni e che dispone di una notevole banca

dati) ha acquisito, negli ultimi anni, una funzione più attiva, di promozione di quella che

è definita “cultura della sicurezza”, soprattutto nella dimensione della prevenzione

degli eventi infortunistici, attraverso, per esempio, il finanziamento di progetti

presentati dalle (o elaborati insieme alle) imprese che ne fanno domanda. Compito

specifico dell’INAIL, dunque, è quello di fornire informazione, assistenza e consulenza a

sostegno della piena attuazione della normativa in materia di sicurezza e salute nei

luoghi di lavoro, principalmente nei confronti delle imprese artigiane, delle piccole e

medie imprese e delle rispettive associazioni di categoria47.

45

“Ogni anno nell’Unione europea ci sono 5.720 incidenti sul lavoro fatali e milioni di persone sono ferite o subiscono seri danni alla propria salute nel luogo di lavoro. E' necessario comunicare ai lavoratori ed ai datori di lavoro i rischi che devono affrontare e come gestirli”. Questi gli intenti dichiarati dall’Agenzia in uno dei suoi comunicati presenti sul sito ufficiale (www.ispesl.it), a testimonianza dell’obiettivo prefissato e riconosciuto alla stessa Agenzia.

46 Tratto dal sito ufficiale www.ipsema.gov.it.

47 A seguito della manovra economica varata dal Governo Berlusconi è stata approvata la legge

30 luglio 2010, n. 122, di conversione con modificazione del D.L. 78/2010, che attribuisce all'INAIL le funzioni svolte in passato da parte dell'ISPESL e dell'IPSEMA. Questo quanto si afferma in una news pubblicata sul sito dell’ente: “Per effetto della manovra correttiva alla Finanziaria 2010 (decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), viene disposta al comma 1 dell'articolo 7 la soppressione di ISPESL (Istituto Superiore

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L’impegno fondamentale dell’Ente, sia nella logica della “tutela integrale” dei

lavoratori, sia nel quadro del contenimento dei “costi sociali” derivanti dagli infortuni, è

rivolto a promuovere ed incentivare in maniera incisiva la cultura della prevenzione sul

lavoro48. Sono diverse, dunque, le aree d’intervento dell’Istituto: l’informazione, con i

suoi artefatti tipici (opuscoli, prodotti multimediali, convegni); la formazione, con

artefatti quali corsi, testi dedicati, convegni e seminari; l’area diffusione della cultura

della prevenzione sul lavoro; il sostegno finanziario alle imprese (programmi di

adeguamento delle strutture organizzative alle norme sulla sicurezza e progetti per

favorire l’implementazione degli obblighi formativi49); lo sviluppo del “patrimonio

informativo” o “flusso informativo” e la gestione tecnica del Sinp (De Cesare, Virdia,

Fiorentini, 2007). Importante, infine, anche la collaborazione che l’Istituto intrattiene

con diverse figure che sul territorio si occupano di sicurezza in stretto contatto con le

imprese (diversi sono infatti i protocolli che l’Istituto ha stipulato con grandi imprese al

fine di attuare sinergicamente un piano di sicurezza).

Questo, dunque, il sistema istituzionale del nostro Paese, ma accanto ad esso vi

sono anche le diverse organizzazioni che contribuiscono ad arricchire il tessuto

interorganizzativo della sicurezza. Brevemente si ricorda l’Associazione Nazionale

Mutilati e Invalidi del Lavoro (ANMIL) che, attiva dal 1943, rappresenta tutte le vittime

di infortuni sul lavoro, le vedove e gli orfani. Una sua rappresentanza è attiva presso

l’INAIL nel Consiglio di indirizzo e Vigilanza (CIV). Parte della sua attività, inoltre, è

dedicata alla promozione e sensibilizzazione verso i temi della prevenzione degli

infortuni.

Prevenzione E Sicurezza sul Lavoro) e di IPSEMA (Istituto di Previdenza per il Settore Marittimo) e la loro incorporazione nell'INAIL. Sottoposto alla vigilanza dei ministeri del Lavoro e della Salute comincia, dunque, a prendere forma quello che viene definito il Polo della salute e della sicurezza” (www.inail.it).

48 Il testo si riferisce alla “Presentazione” che l’ente fa di se stesso nell’omonima pagina del sito

ufficiale: www.inail.it. Anche la banca dati è consultabile presso lo stesso sito. 49

Questi termini linguistici, purtroppo, danno anche il senso di come molto spesso, sul campo, la formazione si risolva in una forma di assolvimento delle disposizioni normative, affinché “le carte siano a posto” (voci dal campo), piuttosto che verificare la reale richiesta formativa da parte dei lavoratori (si rimanda ai dati della ricerca nella seconda parte della tesi).

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Anche la magistratura e gli organi di polizia giudiziaria50 fanno parte di questo

discorso, rappresentando la dimensione di “sorveglianza e controllo” (Nicolini, 2001)

del discorso normativo, ma anche una dimensione interpretativa dello stesso.

Presenti, infine, anche le associazioni di imprenditori e quelle sindacali

(compresi i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, RLS) che, rispettivamente

con le proprie visioni, mettono in atto attività di informazione e promozione della

sicurezza nei luoghi di lavoro. Inoltre, una sintesi dell’impegno di questi due mondi

differenti è rappresentato dalla costituzione dei cosiddetti “organismi paritetici”,

costituiti su iniziativa delle rispettive categorie e che si dedicano ad attività di

formazione, informazione e controllo nelle diverse realtà locali, oltre alla promozione

della sicurezza sul lavoro a livello nazionale.

Copiosa è la produzione di artefatti testuali da parte di tutti questi attori: dagli

atti normativi, agli atti attuativi delle norme, ad indicazioni, fino a tutta la numerosa

produzione di libretti, volantini, dépliant informativi ed altro ancora. Per non

dimenticare tutte le attività promosse, per esempio, presso le scuole di diverso ordine

e grado, le campagne di sensibilizzazione o di ricordo dei più delicati avvenimenti

infortunistici (calendari, carte da gioco, concorsi, testi teatrali, canzoni, solo per citare i

principali artefatti).

Quella sin qui raccontata è la storia (Czarniawska, 2000; Poggio, 2004) relativa

al “dire la sicurezza”, il luogo in cui “si parla” di sicurezza, si decide cosa è giusto, come

sanzionare l’atto lesivo che contravviene alle norme predisposte. O ancora, è il luogo

del “viaggio delle idee” (Czarniawska, Joerges, 1995), del network in cui il discorso

pubblico attorno agli incidenti sul lavoro e sulla sicurezza prende corpo in artefatti

testuali che testimoniano di un cambiamento che ha avuto luogo negli ultimi anni (si è

fatto riferimento, per esempio, a quello linguistico, ma anche di una attenzione più

matura che però fatica ancora a trovare il suo posto nella pratica lavorativa

quotidiana), soprattutto a partire da gravi incidenti (il caso ThyssenKrupp) che hanno

reso non più rimandabile l’intervento legislativo.

50

Vanno anche ricordati i reparti dei Carabinieri che hanno funzioni in materia di sicurezza sul lavoro, oltre che di lotta al lavoro nero; accanto ai reparti della Guardia di Finanza.

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1.4.2 Il discorso tecnico-ingegneristico: attori e artefatti

Occuparsi del discorso tecnico significa avvicinarsi a quella parte di “mondo”,

nel senso proposto da Schütz (1979), che ha da sempre ricevuto uno sguardo

privilegiato ed ha da tempo “imposto” la propria lettura degli eventi infortunistici.

Accanto al discorso sostenuto, non vanno dimenticati i diversi attori che ne sono

sostenitori, consapevoli o meno, come gli ingegneri, i fisici, i pianificatori e gli ideatori

delle diverse attrezzature per la sicurezza che promuovono una visione della sicurezza

come risultato di pianificazione e controllo (Gherardi, Nicolini, Odella, 1997 b). Infatti,

come ricordato poco sopra, l’assunto di base di questo “gruppo professionale” è che le

situazioni problematiche derivano dalla presenza nell’ambiente di lavoro di rischi che

possono, quindi, essere “misurati” attraverso l’attività di pianificazione, valutazione,

monitoraggio e controllo. Alla base, ancora, vi è la convinzione che l’incertezza possa

essere eliminata se si applica la razionalità scientifica in fase progettuale (Nicolini,

2001).

Gli artefatti che permettono la traslazione di questo approccio tecnico-

ingegneristico sul campo lavorativo sono diversi. Molto importante e centrale nella vita

dei cantieri, e di altre attività, è il Documento di Valutazione dei Rischi, ma ancor di più

il Piano Operativo per la Sicurezza (POS)51. Quest’ultimo, infatti, è un interessante

esempio di intermediario testuale del discorso tecnico della sicurezza e rappresenta

uno sforzo codificato e formalizzato di ordinare e vincolare le azioni di diversi elementi

fra loro eterogenei (le persone, i materiali, i macchinari) attraverso l’utilizzo di un

documento come veicolo di effetti a distanza, ovvero in un luogo diverso dal quale è

stato creato (Nicolini, 2001). È nel momento in cui i lavoratori seguono le indicazioni

previste dal piano operativo predisposto dai tecnici e dagli addetti della sicurezza che il

“discorso tecnico della sicurezza e il sapere di cui è portatore sono traslati in pratica

senza bisogno di un rappresentante umano”52 (ibidem: 100).

51

Si rimanda al Cap. 4 dove sarà messo in luce il ruolo di questo documento e le controversie ad esso legate come, per esempio, il fatto che sia spesso il frutto di una attività di “copia e incolla” (§ 4.2.3.6).

52 È interessante l’esempio che Nicolini (2001) riporta in merito ad un artefatto, o meglio

all’innovazione di un artefatto come il manubrio di una betoniera. Quella di nuova generazione, infatti, è stata realizzata con un manubrio con un grande disco centrale pieno (il vecchio manubrio, invece, era fatto a raggiera). Questo ha permesso, nell’ottica dei progettisti, di impedire che l’arto dell’operatore potesse impigliarsi involontariamente tra i raggi.

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Ma è anche vero che nel momento in cui una innovazione tecnica viene

introdotta, per esempio, non c’è solo un adeguamento ad essa, anzi, nella pratica è

possibile assistere ad una reinterpretazione, a un bricolage, fino al raggiro e al non uso

dell’artefatto in base alle proprie pratiche consolidate. Un esempio di ciò è offerto da

un caso raccontato da un ingegnere53:

“.. in questo complesso c’erano le macchine ausiliarie, dove si perforava, sì …

perforatrici, taglierina … c’era un dipendente, in camice nero perché lavoravano e,

rumore da paura, e gli mancavano tre dita su una mano e io mi accorsi che lui aveva

eliminato i dispositivi di protezione sulla taglierina, non è che gli era capitato ieri,

perché si era cicatrizzato, avrà avuto una sessantina di anni, e gli dissi “mah! E gli hai

tolto … i dispositivi di sicurezza, considera che è penale togliere i dispositivi di

sicurezza …”, “noh, ingegnè! Ma che problemi ci sono? Non mi è mai successo niente”,

“ma come, ti mancano tre dita!” ribatte l’ingegnere” (intervista ad un ingegnere).

Analizzando brevemente lo stralcio riportato ‒ e rimandando ai Capitoli 4 e 5

per l’etnografia di cantiere ‒ non si può non essere colpiti dalla “tranquillità” espressa

dall’operaio, dalla sua “sicurezza e spavalderia” nell’affermare che a lui non servono le

protezioni di sicurezza perché “non gli è mai successo niente”. Non solo, c’è anche una

sorta di “rimozione” (non solo fisica del dispositivo di sicurezza) e negligenza profonda

di quanto gli è già accaduto, ma che viene considerato ‒ o meglio, non considerato

affatto ‒ una cosa mai accaduta. L’età adulta dell’operaio ‒ anziana in termini di lavoro

‒ lascia trasparire un modo di lavorare, ovvero delle pratiche che hanno privilegiato un

certo “sprezzo del pericolo”, un’affermazione di “mascolinità” che lo porta a negare

“banali incidenti”. Tali incidenti al contrario, sono fonte di vergogna e occorre

rimuoverli affinché non intacchino l’immagine di “lavoratore coraggioso” che non ha

bisogno di protezione, tipica di una cultura di genere quale quella del settore delle

costruzioni, una cultura di classe operaia affermativa (Collinson, 1992).

Considerazioni e casi di questo tipo, hanno portato ad evidenziare come

l’artefatto, attrezzo o macchina che dir si voglia, ha delle sue caratteristiche di

“flessibilità d’uso” che possono essere più o meno modificabili rispetto all’originario

53

L’ingegnere intervistato ha ricoperto molti ruoli nella sua carriera e l’episodio che mi ha raccontato è accaduto mentre faceva il Responsabile di stabilimento (intervista del 25 giugno 2008).

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intento del suo progettista e costruttore. Più l’artefatto è poco flessibile ai consueti usi

‒ ovvero meno è adattabile alle pratiche tradizionali e consolidate d’uso, che possono

essere più o meno sicure ‒ e meno è modificabile, tanto più ha la possibilità di incidere,

nel senso di realizzare l’intento per cui è stato progettato (come il caso del manubrio

della betoniera), sulle quotidiane pratiche di lavoro (Nicolini, 2001; Gherardi, Lippi,

2000).

Questo va tenuto presente ogni qual volta s’introduce un qualsiasi artefatto

progettato in un dato ambiente (per esempio nelle sedi istituzionali o di progettazione)

per svolgere specifiche “funzioni” in un altro contesto, molto spesso diverso da quello

di partenza. Data proprio questa diversità di contesti che entrano in contatto tra loro

grazie ad alcuni artefatti, diventa sempre più necessario conoscere l’ambiente in cui gli

artefatti saranno adoperati, come si vedrà nei capitoli 4 e 5 della presente tesi.

1.4.3 Il discorso educativo/formativo: attori e artefatti

Alla base del discorso educativo vi è la convinzione che la sicurezza si ottenga

attraverso un processo di formazione e di informazione circa i rischi, le norme da

rispettare e le competenze professionali da maturare.

Da chi si occupa di controllare, ma anche di formare sul campo, proviene

un’interessante testimonianza relativa al fatto che, a seguito della presenza in edilizia,

o nelle fabbriche, di operai non italiani (e che spesso non conoscono bene l’italiano) la

sua prima preoccupazione circa la formazione è:

“.. tu cerchi di capire “ma questo operaio che viene da un’altra realtà, che cosa

conosce della sicurezza” …” (Tecnico della Prevenzione - Asl).

E quando si trova a verificare se gli operai hanno seguito dei corsi, spiega:

“ … io chiedo, leggo che corso ha fatto e poi parlando a voce con l’operatore,

chiedo che cosa sa di questo, ma poi lo vedo come lavora. Perché se lui ha firmato un

foglio e gli hanno detto “questo è un corso, firma questo foglio” e poi vedo fare, mentre

opera, tutto l’opposto di quello che lui .., te ne rendi conto subito. Te l’ho già detto, poi,

chi più chi meno, c’è quello che magari .. non lo fa al 100%, però lo capisci se uno ... Se

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esiste una procedura che lui ha letto, perché lo vedi da come opera all’interno

dell’attività” (Tecnico della Prevenzione - Asl).

Quando gli chiedo che cosa vuol dire per lui “fare sicurezza”, risponde ponendo

l’accento proprio sulla formazione, benché la sua principale attività sia quella di

controllo e vigilanza ‒ tipica del discorso normativo di cui è intermediario, mentre i

verbali prodotti durante le ispezioni sono gli artefatti. Dalle parole del Tecnico della

Prevenzione ‒ Asl:

“Fare sicurezza, secondo me, .. vuol dire fare a monte una grossa operazione di

prevenzione, quindi formazione e informazione, dal datore di lavoro all’ultima

maestranza all’interno dell’azienda. Nel momento in cui hai fatto e ripeti questa

formazione/informazione con tempi … prestabiliti, tu ti trovi in una realtà che nell’arco

di qualche anno .. difficilmente … trovi l’operatore che non partecipa .. chi più chi meno

[ … ] ma poi lui viene coinvolto, cioè, l’operatore, secondo me, deve essere coinvolto,

non deve andar lì perché a fine settimana o a fine mese, prende lo stipendio. Deve andar

lì perché prima cosa prende lo stipendio, seconda cosa deve essere tutelato, ma si deve

tutelare .. perché il piccolo apporto [ … ] lo deve dare anche il collega, solamente così,

secondo me, riesci ad avere un discorso … perlomeno ad entrare nella mentalità ..

Lavorare, perfetto!, ma cercare di lavorare senza farsi male!”.

In questi ultimi anni, infine, lo sforzo formativo ed educativo nei confronti della

sicurezza sul lavoro si sta concentrando sempre più verso le giovani generazioni. Molti i

progetti che l’INAIL, alcune imprese private e tante altre organizzazioni hanno messo in

piedi coinvolgendo gli studenti di ogni ordine e grado, senza dimenticare coloro che

escono dai corsi di formazione professionale.

Oltre agli intermediari, come consulenti, formatori e gli stessi lavoratori, vi

sono gli artefatti che vengono utilizzati: manuali, opuscoli, prodotti video e altro.

“I manuali derivano da un complesso lavoro di traslazione basato sulla

trasformazione del sapere in azione in qualcosa d’altro che può essere mandato per il

mondo e possono essere concepiti sia come progetto di trasferimento della

conoscenza da un luogo all’altro, sia come tentativo di condizionamento delle pratiche

di lavoro esistenti e costituzione di nuove. I due aspetti catturano le due dimensioni

dell’idea stessa di traslazione” (Nicolini, 2001: 104).

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L’immagine della traduzione di un testo da una lingua ad un’altra ‒ espressione

della metafora linguistica del concetto di traslazione ‒ permette di cogliere la

complessità del processo di “traduzione” delle norme dal linguaggio normativo a quello

di cantiere al fine di “educare” alla sicurezza. Non basta, dunque, far conoscere un

elenco di norme, obblighi e misure da adottare per “rispettare la legge” sulla sicurezza

sul lavoro (come è emerso da alcuni racconti relativi alla formazione raccolti sul campo)

e non incorrere in sanzioni, ma bisogna soprattutto trovare un punto di incontro tra i

diversi linguaggi, o discorsi, della sicurezza, cosa che richiede spesso una vera e propria

traduzione.

1.4.4 Il discorso economico: attori e artefatti

Il discorso economico della sicurezza è incentrato attorno alle categorie

economiche del profitto, dei costi e del trade off tra costo e sicurezza. Infatti, in

quest’ottica, la sicurezza viene calcolata come un costo che l’impresa deve sostenere,

senza considerarne nessun altro aspetto. La percezione comune è “i costi della

sicurezza sono troppo alti” (voci dal campo), occorre fornire i Dispositivi di protezione

individuale (Dpi) ai lavoratori, anche se almeno quest’ultimo aspetto è quello

maggiormente acquisito. “La sicurezza viene, quindi, costituita come rischio, diventa

oggetto di “scommessa”: scommessa economica (rischio di contravvenzioni, rischio nel

dare una risposta cosmetica) o scommessa di incidenti (bypassare le precauzioni e le

pratiche sicure)” (Nicolini, 2001: 104).

“Infortuni sul lavoro: un conto da più di 40 miliardi di euro l’anno. Nel 2008, gli

infortuni sul lavoro sono stati 874.940 (37 ogni 1.000 occupati). Considerando un costo

per singolo infortunio di 50.000 di euro, i costi economici e sociali hanno superato i

43,8 miliardi di euro, pari al 2,8 % del PIL italiano dello stesso anno”. Questo è un

esempio di artefatto che veicola il discorso economico, prodotto dall’Eurispes

presentando i dati del Rapporto INAIL 2010.

Gli intermediari di questo discorso sono le stesse imprese ed organizzazioni, i

loro manager, ma anche le organizzazioni dei lavoratori e i loro rappresentanti che si

fanno portatori di una visone alternativa a quella dei “proprietari” delle aziende. Le

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organizzazioni, infatti, sottolineano come la sicurezza sia un diritto del lavoratore e un

dovere da parte dell’impresa di garantirla sul luogo di lavoro, non come un costo o

comunque non solo. La loro collaborazione, non va dimenticato, ha dato origine ai

Comitati Paritetici Territoriali54 che sempre più cercano di porsi come interlocutore

privilegiato tra le imprese, i lavoratori e gli intermediari del discorso normativo (si veda

oltre nella ricerca).

I quattro discorsi sommariamente descritti sin qui non sono monadi a sé stanti,

ma s’intersecano, interagiscono tra loro come per esempio il discorso normativo che

tende ad operare, spesso, in accordo con il discorso tecnico, condividendone

l’approccio razionale e normativo. Ma anche il discorso educativo si pone come alleato

del discorso normativo della sicurezza, almeno per quanto riguarda la dimensione

relativa alla conoscenza delle norme e, dunque, il contenuto prevalente della

formazione e dell’informazione.

1.5 Riassumendo: le ragioni di un percorso

L’intento del presente capitolo è stato quello di ricostruire il principale dibattito

sulla sicurezza sul lavoro che ha avuto luogo e ha tuttora luogo in Italia. Il “viaggio”

proposto è stato caratterizzato dalla necessità di mettere in evidenza il percorso che,

da un lato, ho affrontato in prima persona nell’avvicinarmi al tema della sicurezza sul

lavoro55; dall’altro l’iter più consueto di affrontare la questione sia dal punto di vista

delle politiche che di sicurezza si occupano che da parte delle diverse discipline,

tecniche e sociali, che tale fenomeno analizzano.

Parlare di sicurezza, infatti, richiama in maniera “immediata” le norme e il loro

controllo, la quantificazione del fenomeno espressa in frasi come “in Italia c’è una

media di 3/4 morti al giorno” o “valutazione dei rischi”, dimensioni che concentrano su

di loro quasi tutto il dibattito sulla sicurezza sul lavoro. Significa parlare degli attori

istituzionali deputati alla regolazione di una materia complessa e delicata; ma anche di

54

È degli anni Ottanta la loro costituzione a livello nazionale e la cui implementazione sul piano territoriale segue le diverse vicende locali. Il termine paritetico si riferisce alla equa presenza delle parti sociali. Il compito principale che si propongono è quello della promozione e diffusione della sicurezza sul lavoro, oltre che di formazione, informazione e consulenza.

55 Per una ricostruzione puntuale di tale percorso si rimanda al prossimo capitolo (Cap. 2).

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quelli che sono chiamati ad “implementare” le leggi sulla sicurezza, lasciando

intravedere già un primo spunto di riflessione circa la pertinenza o meno del concetto e

della logica dell’implementazione dinanzi ad un fenomeno che coinvolge sempre più

attori, siano essi istituzionali che organizzativi e professionali.

Il senso di inadeguatezza che è emerso circa la possibilità di implementare la

normativa sulla sicurezza sul lavoro (Nicolini, 2001) ha posto le basi per la ricerca di una

nuova “logica” che permettesse di cogliere il processo di traduzione che è alla base

della messa in pratica di tale normativa: la traslazione di norme, idee e discorsi sulla

sicurezza sul lavoro da un contesto istituzionale ai concreti contesti di lavoro.

Per cogliere tale processo di traduzione è stato utile ricorrere ad una

metodologia di ricerca che permettesse di osservare da vicino cosa accade in un

concreto contesto di lavoro nel momento in cui la normativa in materia di sicurezza sul

lavoro da norma scritta diviene pratica situata, ovvero modalità di lavoro più o meno

sicura, come l’etnografia organizzativa permette di fare.

L’oggetto alla base della presente ricerca etnografica, infatti, è la sicurezza sul

lavoro osservata nel suo farsi e divenire, ed è proprio la natura di costruzione

quotidiana che è emersa attraverso l’attività di shadowing svolta nei cantieri della

CortemSpa, la società che mi ha ospitato per circa un paio d’anni in periodi alterni (Cap.

2).

Partire da queste questioni, che hanno avuto un riscontro durante la pratica

della ricerca sul campo, mi ha permesso di delineare una sorta di linea immaginaria di

confine tra i discorsi consolidati e la prospettiva che la ricerca ha messo in luce,

soprattutto quella di considerare la sicurezza come pratica sociale situata frutto della

rete di attori locali che di sicurezza si occupano quotidianamente in concreti contesti di

lavoro.

La prima cosa ad emergere, dunque, è la mancanza (o quasi) da parte delle

discipline sociologiche di studi dedicati a tale fenomeno. Interessanti contributi

provengono dagli studi prodotti nell’ambito delle ricerche sui disastri organizzativi,

condotti da Turner (1976) e dalla sua collaborazione con Pidgeon (1997), a seguito di

tragici incidenti come quello di Chernobyl, ma anche da Diane Vaughan (2004). È la

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dimensione socio-tecnica ad essere messa in risalto, ovvero come tali disastri siano

costruiti socialmente da tutti coloro che sono coinvolti nei processi decisionali

dell’organizzazione, a tutti i livelli, e che producono una stratificazione di “segnali” non

considerati o “normalizzati” (Vaughan, 2004) che in una ricostruzione ex-post ‒ come si

fa in simili casi ‒ sono alla base dei grandi disastri organizzativi consegnati alla Storia.

Un passo in avanti è stato compiuto, in ambito italiano ma anche europeo, da

uno studio condotto da Silvia Gherardi, Davide Nicolini e Francesca Odella nell’ambito

della sicurezza nei cantieri edili della provincia di Trento, alla fine degli anni ’90. La

ricerca durata cinque anni, infatti, ha prodotto interessante materiale relativo

soprattutto all’apprendimento della sicurezza come pratica situata (Gherardi, Nicolini,

2001; Gherardi, 2006) e dell’action net locale della sicurezza caratterizzata dai suoi

quattro discorsi principali: normativo, tecnico, educativo, economico (Gherardi,

Nicolini, 2000; Nicolini, 2001).

Questi i primi contributi “sociologici” utili ad affrontare l’accesso al campo (i

cantieri per la costruzione di una grande opera di trasporto pubblico urbano nella città

di Roma). Prima di essi però, si è resa necessaria una analisi della normativa italiana di

riferimento, che più che essere una risposta al pesante e persistente problema degli

incidenti sul lavoro che caratterizza il nostro Paese, è troppo spesso il frutto dei

recepimenti di Convenzioni e Direttive ‒ seppur molto tardive, frammentarie e, a volte,

lacunose ‒ di origine rispettivamente internazionale (ILO) ed europea.

Il capitolo si chiude con l’analisi della rete degli attori che nel nostro Paese sono

chiamati ad assumere un ruolo nei confronti della sicurezza ‒ di promozione, di

controllo, di formazione, di indennizzo ‒ offrendo una prima cartina di tornasole

rispetto alla collocazione di questi attori nell’ambito dei propri discorsi e visioni di

appartenenza: normativo, tecnico, educativo ed economico; rimandando la loro

ulteriore “contestualizzazione” (all’interno dei cantieri edili osservati) ai prossimi

capitoli.

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2. Etnografia di un cantiere

Segui l'attore e le sue azioni

(Hughes, 1971)

"It might have been otherwise"

(Star, 1991: 52)

Difficoltà, durezza e negoziazione incessante. Pensando a dei termini che

rappresentassero il mio dottorato di ricerca ed il campo che ho osservato, questi mi

sembrano in grado di racchiudere l’intensità di un percorso. Alla fine delle lezioni del

corso di dottorato, presentando i progetti di ricerca che io ed i miei colleghi

intendevamo svolgere, Barbara Czarniawska (una delle docenti del corso) pose una

questione rispetto alla mia ricerca: dovevo cercare di liberarmi di qualsiasi concezione

io avessi del tema che mi apprestavo a studiare. Ma di cosa si sta parlando? È il caso di

ripercorrere la storia della e sulla mia ricerca.

“Il modo in cui ci si accosta ad un’idea dipende da ciò che già si conosce; questo

incontro talora conferma le proprie credenze e finalità, talaltra le ristruttura; l’atto della

scoperta produce una nuova idea e un nuovo attore. È questo il significato del

cambiamento sul piano fenomenologico” (Czarniawska, Joerges, 1995: 228).

Ed è proprio questo il mio punto di partenza: conoscevo già la complessità del

mondo dei cantieri edili, la problematica del lavoro nero, delle norme non rispettate,

dei controlli ritenuti sempre più esigui, del sistema degli appalti. Ma solo “dal di fuori”.

Un contesto organizzativo e lavorativo in cui vi è un tale intreccio di attori e

relazioni andava osservato da vicino ed è il motivo principale per cui l’ho scelto come

contesto privilegiato in cui affrontare una ricerca sulla sicurezza che puntasse a

mettere in luce la complessità, ma anche le modalità “situate” del fare sicurezza.

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“Non c’è nessuna analisi scientifica assolutamente “oggettiva” della vita culturale

o * … + dei “fenomeni sociali”, indipendentemente da punti di vista specifici e “unilaterali”,

in base a cui essi sono * … + scelti come oggetto di ricerca, analizzati, e organizzati

nell’esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifico del fine conoscitivo di ogni

lavoro di scienza sociale che voglia procedere oltre una considerazione puramente formale

delle norme ‒ giuridiche o convenzionali ‒ della coesistenza sociale.

La scienza sociale, quale noi intendiamo svilupparla, è una scienza di realtà. Noi

vogliamo comprendere la realtà della vita che ci circonda, e in cui noi siamo collocati, nella

sua specificità; noi vogliamo cioè comprendere da un lato la connessione e il significato

culturale dei suoi fenomeni particolari nella loro configurazione presente, dall’altro i motivi

del suo interesse storicamente divenuto così-e-non-altrimenti” (Weber, 2003: 35-36).

La frase di Weber ci ricorda che le nostre ricerche non sono prive di un

orientamento valoriale, ovvero che alla base di ogni ricerca vi sono sempre dei valori

che orientano la scelta, per esempio, del problema da affrontare. È lo stesso

ricercatore ad orientare la propria azione in base a propri valori di riferimento. Il punto

è che esso deve essere reso esplicito, non celato dietro una pretesa “oggettività”.

Il criterio che guiderà la presente ricerca non è quello di verità (che dunque

presuppone l’esistenza di una realtà oggettiva), bensì quello della “fedeltà” legata “alla

costruzione intersoggettiva della realtà e alla consonanza tra la storia raccontata e il

contesto sociale e culturale di riferimento (Riessman, 1993; Blumenfeld - Jones, 1995)”

(in Poggio, 2004: 125).

La seconda parte della citazione di Weber, invece, ci ricorda come ogni ricerca

sia carica dello sguardo particolare del ricercatore e della sua “visione del mondo”. Per

non rendere una ricerca una “monade”, allora, occorre esplicitare (e un capitolo

metodologico serve a questo) tutto il percorso che il ricercatore ha compiuto, le sue

visioni particolari, ma anche le modalità attraverso le quali ha “interpretato” il

materiale raccolto sul campo certi che, se ogni esperienza di ricerca è unica, la

condivisione ed articolazione della sua esperienza possono renderla più o meno

condivisibile.

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La prima questione che va esplicitata è la scelta dell’oggetto di ricerca. La borsa

di studio a sostegno del dottorato ‒ finanziata dall’Istituto Nazionale per

l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) ‒ ha portato con sè anche la

proposta di scegliere tra due temi: la riabilitazione/reinserimento post infortuni e la

sicurezza sul lavoro. Un ente previdenziale che propone due tematiche di forte

interesse è inevitabilmente una situazione carica di valori e proprie visioni del mondo

con le quali il ricercatore deve fare i conti.

La scelta della tematica relativa alla sicurezza sul lavoro è da attribuirsi a due

ordini di motivi: l’elevata attenzione che in quello stesso periodo l’argomento stava

catalizzando su di sè e il forte senso di ingiustizia che, chi scrive, avverte ogni volta che

si verificano episodi di infortuni o morti sul lavoro. Dunque, vi è la volontà di offrire un

contributo alla comprensione di un fenomeno che riceve le più svariate

“giustificazioni”: “gli operai lo fanno apposta!”; “sono gli imprenditori che non pagano

per mettere in sicurezza gli operai!”; “gli operai non rispettano le norme sulla

sicurezza!”. Sono alcune delle voci e delle frasi a cui ho “prestato attenzione” nel primo

periodo in cui ho deciso di occuparmi di sicurezza sul lavoro. Infatti, da quel momento,

era come sentir parlare solo e soltanto di problematiche legate agli infortuni sul luogo

di lavoro e, a distanza di circa quattro anni non sembra esser cambiato molto.

Il 2007, anno in cui è iniziato il corso di dottorato, è stato un anno davvero

particolare per questa tematica: i riflettori erano stati accesi su di essa e tutti

sembravano intenti a proporre ricette per risolvere questo problema. Un notevole

sforzo normativo ha caratterizzato l’anno: il Governo dello Stato italiano (in quel

periodo formato da una coalizione di centro-sinistra) aveva deciso di dar seguito ai

ripetuti appelli di quanti sollecitavano un intervento che portasse ad “unificare la

legislazione in materia di sicurezza sul lavoro”. Ogni sforzo era proteso a produrre

nuove norme ed “unificare” quelle esistenti.

Anche io per un primo periodo, proprio quello in cui tutti si dirigono verso la

lettura della letteratura e delle ricerche disponibili sul tema di studio, ho iniziato a

cercare con una certa ansia il testo e la ricerca che rispondessero alle mie prime

domande: ma è davvero come le frasi poco sopra riportate affermano? Perchè gli

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operai e i datori di lavoro non rispettano le norme? Era quasi palese che quelle norme,

alle quali anche io mi era accostata in prima battuta, potessero essere la soluzione del

problema.

Continuavo a guardarmi intorno e mi ritornavano alla mente le immagini che

ho sempre visto sin da piccola dalle mie parti, in un paesino pugliese in cui l’edilizia è

una delle attività prevalenti accanto all’agricoltura: gli operai non indossano alcun

Dispositivo di protezione individuale (i Dpi), hanno scarpe da ginnastica ai piedi e

quando i loro stessi piedi vengono attraversati da lunghi chiodi distrattamente

abbandonati per terra, il problema è che “si è stati sfortunati” e poi “per un uomo che

vuoi che sia!” (se solo consideriamo uno dei casi meno gravi di infortunio sul lavoro).

Questa spiegazione non mi bastava, non poteva bastarmi, ma continuavo a guardare

sempre e solo da una parte: il rispetto delle norme.

Un altro episodio che mi ha notevolmente colpito è stato quello a cui ho

assistito un anno dopo, nel 2008. Era un giorno caldo di giugno e, arrivando

all’aeroporto di Stansted a Londra, mi accorsi che in quel periodo l’aeroporto era in

fase di ristrutturazione, compresa la grande area antistante l’entrata. Mentre mi

dirigevo verso l’autobus che mi avrebbe portato nella ecclettica città, sono passata

davanti a due operai che erano in pausa pranzo. Purtroppo non ho avuto la prontezza

di fare una foto (anche perchè mi sembrava poco educato fotografare degli operai

nell’unica pausa che permette loro di riposarsi prima di ricominciare a lavorare di

nuovo), ma la mia mente ha catturato e fatto propria quell’immagine. Erano seduti su

di un muretto, intenti a mangiare e accanto, lì vicino al proprio corpo, come fosse una

fresca e dissetante bottiglietta d’acqua, ognuno di loro aveva il proprio casco di

protezione. Non mi era ancora accaduto di vedere una cosa come questa, ero

completamente immersa nella mia ricerca che per me quell’evento rappresentava

qualcosa, ma ancora non ero in grado di capire che cosa.

Quello che però sono riuscita a capire è che involontariamente stavo per

seguire il consiglio di Barbara Czarniawska: stavo raccogliendo tutte le mie

considerazioni sull’argomento per poi abbandonarle! E proprio quest’attività di

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abbandono mi è risultata alquanto difficile (per ritornare alle parole iniziali) ed un certo

tipo di “sguardo” mi ha accompagnato per una prima metà del percorso.

In quella prima metà, infatti, oltre all’attenzione sul nuovo testo normativo, vi

era un altro concetto che teneva le fila del dibattito sulla sicurezza sul lavoro, quello di

“cultura della sicurezza”, o meglio: “in Italia manca una cultura della sicurezza sui

luoghi di lavoro”. Questa la frase che sia politici (compreso il presidente della

Repubblica Napolitano che ha proclamato il 2007 anno “della salute e della sicurezza

nei luoghi di lavoro”1), sia sindacalisti, sia coloro che a vario titolo sono impegnati in

questo campo, continuavano a ripetere in questo anno e mezzo. Poi anche tutta questa

attenzione è andata sempre più diluendosi fino a ritornare ben presto in soffitta.

La mia ricerca documentale ha, in questo periodo, trovato degli alleati in alcuni

testi scritti da professionisti del settore, consulenti, psicologi del lavoro, quadri

amministrativi. Ma ancora una volta si parlava di "cultura della sicurezza" come quei

cibi precotti che devono solo essere riscaldati e serviti. Io amo cucinare, non posso

accontentarmi dei cibi precotti, ma nonostante questo ero anche io caduta nella

tentazione di voler studiare la “cultura della sicurezza di un’organizzazione”!

I dati statistici analizzati (prodotti dall’INAIL) e un certo senso comune

(avvalorato anche da frequenti inchieste giornalistiche, da attenzioni mediatiche e dalla

stessa disciplina giuridica) hanno confermato la mia volontà di scegliere, quale campo

privilegiato di ricerca, il cantiere edile. È il cantiere ‒ quello che nell’immaginario di cui

parlavo mi ha accompagnato sin da bambina ‒ ad essere in un certo senso identificato

come luogo privilegiato in cui “c’è o non c’è sicurezza”. Per questo ho voluto osservare

da vicino questa “dura” realtà.

Il problema, però, era trovare un cantiere edile in cui potermi recare, fare le

mie osservazioni e su cui poter scrivere la mia tesi di dottorato. Avevo iniziato a

guardarmi attorno, mi sono accorta di avere cantieri praticamente ovunque, anche di

fronte casa e mi sono spesso fermata ad osservare veri e propri “equilibristi”: chi

camminava lungo i muretti che delimitano i tetti, chi lo faceva su delle impalcature

1 Inoltre, in occasione del 1° Maggio dello stesso anno, ha ribadito la necessità di sentire “il peso

umano e sociale” degli infortuni e delle morti sul lavoro.

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traballanti e chi, ancora, si arrampicava su delle travi sottili per fare la copertura di un

balcone. La città era piena di cantieri in costruzione: appartamenti, centri commerciali,

centri congressi, parcheggi coperti, ammodernnamento delle vie di trasporto pubblico.

Mi sembrava di essere in un film, tutti che recitavano per me, per farmi avere

sotto gli occhi tanti spunti su cui lavorare, ma intanto il campo ancora non era ben

definito e, come si vedrà nel prossimo paragrafo, la fase di “negoziazione” dell’accesso

al campo si dimostrava davvero complicata.

Ciò che si cercherà di fare in questo capitolo è ricostruire le tappe principali

attraverso cui la ricerca si è performata ed il quadro interpretativo al quale essa è

“ancorata”, ricordando, però, che non è stato semplice rintracciare i diversi contributi

teorici in grado di “reggere” una etnografia della e sulla sicurezza sul lavoro.

2.1 Alla ricerca del campo: 1, 2, 3 cantieri

Risparmiando le varie porte alle quali ho bussato per accedere al campo,

finalmente sono riuscita a contattare una organizzazione di medie dimensioni che ha

avuto l’incarico di costruire una nuova linea di trasporto pubblico urbano nella città di

Roma, la CortemSpa (nome di fantasia). Dopo aver avuto la certezza della loro

disponibilità, è iniziato il lungo processo di negoziazione dell’accesso al campo degno di

un manuale di etnografia. “Un manuale di metodologia non è in grado di descrivere

l’ampia fenomenologia delle strategie di accesso al campo. Esse mutano in funzione

delle caratteristiche dell’organizzazione [ ... ] e gli obiettivi della ricerca. Le strategie

sono quindi anche il frutto contingente di indagine e della creatività del ricercatore”

(Gobo, 2001: 91). Ma forse bisognerebbe aggiungere che l’oggetto della ricerca e le

caratteristiche anche fisiche del ricercatore2 possono in qualche modo influire sul

processo di negoziazione dell’accesso al campo, come si vedrà più avanti (§ 2.5).

Per comodità di esposizione e per ricostruire una dimesione temporale utile

anche a cogliere i cambi di prospettiva che hanno interessato lo stesso ricercatore, e di

2 Le caratteristiche fisiche del ricercatore a cui si fa riferimento sono il genere e l’età in primo

luogo che possono facilitare o ostacolare il contatto con gli altri, generando una sorta di stereotipo di genere che “appesantisce” ulteriormente l’attività di ricerca già di per sé complessa e faticosa.

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riflesso la ricerca, esporrò il processo di negoziazione dell’accesso al campo

suddividendolo in tre fasi principali.

2.1.1 Prima fase: “mettermi(si) al sicuro”

La prima difficoltà che ho incontrato è stata quella di “formalizzare” la mia

presenza sul campo. La CortemSpa si è dimostrata molto disponibile ad accogliermi

nella sua organizzazione: ho avuto un colloquio con il Direttore del personale che ha

rappresentato il primo gatekeeper dell’organizzazione, come lo definirebbe Smith

(2001)3, ovvero colui che mi ha permesso “formalmente” di varcare l’ingresso

dell’organizzazione e mi ha poi affidato ad uno dei “Costruttori” (Cap. 3) che, a sua

volta, mi ha affidato ad un collaboratore del Responsabile dei Lavori, successivamente

divenuto Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (il signor L.).

Quest’ultimo, quindi, è stato il mio riferimento nel molteplice ruolo di

gatekeeper dell’organizzazione; di “mediatore”, ma anche di “informatore

istituzionale” (Cardano, 2006) della mia avventura, con il quale tutte le volte ho

negoziato l’accesso al campo e le modalità della mia presenza in esso. È stato anche

colui che per primo mi ha introdotto “nella vita quotidiana” dell’organizzazione.

L’unica richiesta espicitata dall’organizzazione per permettermi di svolgere la

ricerca era dotarmi di una assicurazione che mi permettesse di andare sui cantieri ed

essere “coperta” per qualsiasi problema. Ho fatto presente che, in qualità di

dottoranda, ero coperta da un’assicurazione universitaria, ma alla fine ho dovuto

stipulare una convenzione che mi mettesse nella posizione di stagiare e, dunque, con

una copertura assicurativa più adeguata dal punto di vista dell’organizzazione.

Il mio oggetto di ricerca continuava ad esplicitarsi in tutta la sua complessità:

cercavo di parlare con i diversi attori dell’organizzazione e tutti rispondevano “ah, ma

qui non c’è molto da vedere!, dovresti andare nei piccoli cantieri ... noi siamo molti

attenti a queste cose!, qui non troverai niente, piccole cose al massimo”. Ai diversi

livelli mi sono sentita ripetere questa frase e, in base al quadro interpretativo che oggi

3 L’autrice riprende anche i contributi di Morrill e al. (1999) e Schwartzman (1993) per mettere in

evidenza le difficoltà relative all’accesso al campo e ai tempi di realizzazione di una ricerca etnografica nei contesti di lavoro.

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mi guida (ma allora non mi era del tutto chiaro), posso ricollegarla alla pratica di

“oggettivizzazione della sicurezza” (§ 5.1), ovvero quel processo per cui gli artefatti,

primi fra tutti i Dpi, vengono identificati con la sicurezza stessa e, dunque, il loro uso o

non uso equivale a seguire o non seguire le norme sulla sicurezza4.

Una volta formalizzata la mia presenza (benchè non abbia ricevuto alcuna

formazione, relativa alla sicurezza sul lavoro5), mi sono potuta recare presso l’ufficio

dei collaboratori del Responsabile dei Lavori e seguire in qualche modo l’attività del

signor L.

Il primo giorno alla CortemSpa (primi giorni del mese di luglio 2008) sono stata

presentata ufficialmente allo staff dei diversi capicantiere che operano nei cantieri

sparsi nella città e l’accoglienza è stata molto tenue: mi sono sentita osservata prima

ancora che fossi io ad osservare loro. Hammersley e Atkinson (1995) evidenziano come

nella fase di negoziazione dell’accesso ad un contesto sociale gli attori siano interessati

al ricercatore in quanto persona piuttosto che alla sua ricerca.

Il signor L. comunica in questa occasione che da quel momento in poi sarebbe

stato probabile (ma non aveva detto quasi impossibile!) vedermi sui cantieri per

svolgere la mia ricerca e, dunque, non c'era da preoccuparsi nel vedere “un’estranea”

(come mi ha definito in quell’occasione) aggirarsi lì dove nessuno può farlo se non

accompagnato o perchè vi lavora. Dopo la mia presentazione, e anche durante, alcuni

di loro sorrisero, altri parlarono con il collega accanto, altri dissero che finalmente si

sarebbe visto “qualcosa di carino” (comportando l’ilarità di tutti e la presa in giro di

alcuni dei presenti)6.

4 Come è stato esplicitato nel precedente capitolo, i “discorsi” sulla sicurezza rintracciabili nel

campo organizzativo osservato sono ben quattro: normativo, tecnico, formativo ed economico. Quello normativo, tra l’altro è particolarmente pervasivo.

5 Neanche io ho richiesto alcuna formazione, anche se ho partecipato prima ad un corso per mio

conto dove tra l’altro ho avuto modo di conoscere la persona che mi ha messo in contatto con la CortemSpa fornendomi il contatto a cui inviare la richiesta di svolgere una ricerca sul campo.

6 Anche se la battuta non è esplicitamente carica sessualmente, può essere fatta rientrare in

quelle “battute a sfondo sessuale” (Gherardi, 1998) o simile ad una battuta di genere o, più attinente al caso, di un vocabolario specifico di una cultura occupazionale che costruisce la propria “mascolinità” tramite l’umorismo, gli scherzi e, appunto, un vocabolario specifico. L’apprezzamento espresso nei confronti di una presenza femminile, anche altrove registrata (sia nei miei riguardi che di altre figure femminili che saltuariamente abitano il cantiere), richiama una sorta di “gratificazione della vista” concessa in un ambiente caratterizzato da ruvidezza e bruttezza (come quella che il capocantiere ha, sotto forma di scherzo, più volte ribadito nei confronti degli operai del cantiere, definendoli “brutti” rispetto alla

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Le due principali difficoltà che ho esperito nel percorso di ricerca sul campo

sono legate una al tema di ricerca, l’altra al fatto che io fossi una giovane donna.

Riguardo al primo punto, ho assistito ad una sorta di disponibilità quasi esagerata,

mista ad un atteggiamento che rendeva i miei interlocutori prevenuti nei confronti

delle mie domande. Mi spiego. L’aver in parte esplicitato che il mio oggetto di ricerca

era la sicurezza sul lavoro, ha portato i miei interlocutori a parlare di sicurezza anche

quando io chiedevo informazioni sulla loro organizzazione del lavoro. La mia presenza

catalizzava il discorso sulla sicurezza, quasi a dimostrazione del fatto che

l’organizzazione si preoccupasse costantemente di sicurezza sul lavoro. Inoltre, il

parlare di sicurezza come degli oggetti che venivano indossati e a cui loro dedicavano

molta attenzione nel corso delle loro attività di controllo, faceva sì che mi si

presentasse un’immagine di organizzazione tutta tesa a perseguire questo obiettivo.

Sono rintracciabili quelli che Schein (2000) definisce “valori dichiarati” di

un’organizzazione, ovvero gli obiettivi, le strategie, le “giustificazioni dichiarate” dal

management dell’organizzazione.

La seconda difficoltà fa riferimento al mio essere giovane ed essere donna che

“vorrebbe” aggirarsi in un mondo fatto in gran parte di uomini e per uomini: il cantiere

edile (cfr. 2.5). Sottolineo “vorrebbe”, perchè questa era la mia richiesta al signor L.,

ma prima che ricevessi una risposta compiuta ho dovuto aspettare del tempo (un

anno!). Nel frattempo, però, ho assistito a delle riunioni che hanno avuto spesso per

oggetto la sicurezza; riunioni in cui partecipavano i rappresentanti dei lavoratori per la

sicurezza e altre rappresentanze sindacali il cui l’oggetto era la richiesta di migliori

condizioni di lavoro, o meglio l’ottenimento di alcuni benefit quali la mensa, i rimborsi-

spese per i viaggi di alcuni operai e cose di questo genere, inclusi spogliatoi, bagni, che

rappresentano però diritti essenziali. In queste riunioni ho potuto osservare come il

processo alla base di tutto sia una continua negoziazione, a volte conflittuale, ma

sempre tesa al raggiungimento di un “ordine negoziato” (Strauss, 1978).

mia presenza o quella di qualche altra ragazza, come per esempio l’ingegnere che quasi quotidianamente controllava lo stato dei lavori del cantiere). Ruvidezza e bruttezza, non va dimenticato però, sono anche espressione di quell’ambiente “tipicamente” maschile qual è il cantiere, espressione anche della “virilità” e di un lavoro “da veri uomini” (La Cecla, 1999). Si rimanda a § 2.5.

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In un’altra riunione, in cui era presente l’Amministratore Delegato e che aveva

per oggetto lo stato d’avanzamento dei lavori di costruzione, ho potuto ascoltare un

leitmotiv che avrei poi sentito anche sui cantieri: rispettare e far rispettare le norme di

sicurezza come modo per non “perdere la faccia!” e il “metterci la faccia” come

immagine pervasiva dell’attività di coordinamento che la CortemSpa svolge nei

confronti delle innumerevoli ditte alle quali appalta la costruzione della nuova linea di

trasporto pubblico urbano (Cap. 3). In questa occasione, inoltre, si sono anche

confrontati su una questione alquanto spinosa, ovvero il rapporto con i media e con il

fatto che, essendo una delle opere di costruzione più importanti a livello europeo in

questo momento, la loro attività “è sotto gli occhi di tutti”. La dimensione dello

sguardo (Goodwin, 2003), infatti, è come un filo rosso che lega sia l’organizzazione e le

sue pratiche di gestione dei cantieri (“tenere sott’occhio” i lavori, le ditte che vi

lavorano, per esempio), sia i cantieri stessi e le pratiche di lavoro quotidiane (Cap. 4;

Cap. 5).

Nel frattempo che cercavo di capire l’attività dell’ufficio a cui ero stata affidata,

avevo fatto richiesta dei miei Dpi al magazzino della CortemSpa e ho dovuto aspettare

altri giorni che mi hanno tenuta lontano dall’organizzazione in quanto, non avendo i

Dpi ed essendo in arrivo le vacanze estive, non potevo andare sui cantieri (inoltre

l’attività d’ufficio rallentava a causa proprio della pausa estiva). La mia sensazione era

sempre quella di una costante inadeguatezza e di una presenza che, per quanto venissi

trattata in maniera molto gentile e disponibile, mi dava l’impressione di creare qualche

incombenza nel loro lavoro quotidiano.

Prima delle vacanze, però, sono stata in ufficio alcuni giorni ed ho parlato con i

collaboratori del Responsabile dei Lavori che mi hanno raccontato alcuni retroscena

relative alle assegnazione di alcuni ruoli all’interno dell’organizzazione e mi hanno

anche spiegato l’organigramma della stessa, di cui ne ho avuto copia cartacea e che mi

ha permesso di farmi un’idea della strutturazione della CortemSpa e della sua

dislocazione sul territorio. Ho appreso alcuni dei nomi di maggior interesse per la mia

ricerca, nomi che hanno assunto un volto nel momento in cui sono riuscita ad andare

sui cantieri (Cap. 3). Ciò ha anche permesso di tratteggiare la “rete” degli attori

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istituzionali (macro-attori) che contribuiscono all’oggetivazione della sicurezza in base

alle loro “visioni e culture professionali” (Goodwin, 2003), ovvero rintracciare i quattro

discorsi sulla sicurezza (Nicolini, 2001).

Di ritorno dalle vacanze, ho dovuto attendere ancora qualche giorno e poi

finalmente sono arrivati i “miei” Dpi: scarponcini “pesanti”7, gilet “abbondante”8 e

casco giallo “regolabile”. L’aver finalmente ottenuto i Dpi mi ha permesso di arrivare

alla seconda fase del processo di negoziazione dell’acceso al campo. Accanto ai Dpi ho

ricevuto (prima della pausa estiva) il budge identificativo riferito alla mia posizione

all’interno della CortemSpa: stagista.

Come un rito di passaggio (Trice, Beyer, 1995) ottenere “divisa” e “tesserino”

mi ha permesso di fare un passo avanti nell’organizzazione e ha segnato l’ingresso

formale all’interno dell’organizzazione stessa (Marzano, 2006).

2.1.2 Seconda fase: “la scorta”

Con i miei Dpi potevo finalmente andare sul cantiere! Questo era quanto

credevo di poter fare, ma ecco un altro intoppo: il temporeggiare la mia discesa sul

campo-cantiere. Con abili discorsi legati alla natura difficile e pericolosa del cantiere, il

signor L. ha ritenuto opportuno che io andassi sul campo “in affiancamento” dei

collaboratori del Responsabile dei lavori che di volta in volta si alternavano nel

controllo “documentale” dei cantieri. Le loro uscite sui cantieri, infatti, sono legate alla

necessità di sbrigare gli adempienti di ordine burocratico, ovvero legato a tutta la

documentazione che le diverse ditte che lavorano nei cantieri devono fornire al fine di

7 Ho fatto un po’ fatica ad abituarmi agli scarponcini perché, avendo la punta in ferro, sono più

pesanti dei normali scarponcini. Infatti, tutte le volte che li ho indossati, avevo male ai piedi e le ginocchia spesso mi cedevano!

8 La taglia del gilet è “standard”, ma evidentemente rende l’idea di come le mie misure non

rientrino nello standard di chi ha progettato il gilet, adatto piuttosto ad uno “standard” maschile. Questo episodio richiama un altro caso ‒ presentato da una ricerca sulle donne pioniere nel settore sanitario e sociale delle Pubbliche Assistenze ‒ in cui le prime donne necrofore (che si occupano dei funerali) hanno lottato per avere “divise femminili” al posto di un abbigliamento che rispecchiava la tradizionale vocazione maschile del mestiere (Pentimalli, 2007). Emerge, dunque, come il genere sia una pratica che “àncora tanto i tempi sociali, quanto il disegno di artefatti materiali come gli accessori di una macchina o di altri strumenti d’uso disegnati per corpi sessuati” (Gherardi, Poggio, 2003: 6).

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poter lavorare: se una ditta è in regola con la presentazione dei documenti necessari e

degli adempienti9 richiesti dalla CortemSpa, allora può lavorare nei suoi cantieri.

L’essermi avvicinata al campo-cantiere accanto a figure che nei cantieri sono

identificati come quelli che controllano e che “rompono le scatole mentre si lavora”

(come spesso hanno sostenuto gli stessi operai incontrati nei diversi cantiere e di cui gli

stessi “controllori” sono a conoscenza), non ha certo facilitato la mia ricerca.

All’ingresso del ricercatore sul campo, infatti, si assiste ad una sorta di “singolare rito di

inversione di status: l’osservatore diventa l’oggetto di osservazione dei “nativi” che, dai

pochi indizi offerti dai primi incontri, cercano ‒ del tutto legittimamente ‒ di capire se,

e in che misura, possono fidarsi di lui” (Cardano, 2006: 63).

Proprio nel tentativo di guadagnare questa fiducia, ho cercando di ritagliarmi

degli spazi in cui parlare con qualche operaio, ma mi capitava di essere vista come una

persona che stava “facendo pratica” per diventare un “controllore”, ovvero un

potenziale nemico per gli operai e non agevolava la loro disponibilità, nel senso che

evitavano di rivolgere anche solo lo sguardo verso di “noi” o si fermavano a parlare tra

loro “chiudendosi” in qualche modo alla conversazione con chi era fuori dal gruppo.

Nonostante questo loro atteggiamento, però, spiegavo loro che la ricerca serviva per il

dottorato, che venivo dall’università e, anche se non sapevano bene cosa fosse un

dottorato di ricerca, quando sentivano la parola università, cambiavano atteggiamento,

si rendevano più disponibili, molti di loro mi identificavano nei loro figli studenti10.

Dopo un primo sguardo di diffidenza iniziale, quindi, gli operai mi parlavano e, il

più delle volte, mi esprimevano il loro disappunto nei confronti dei controlli e

ponevano l’accento sulle difficoltà ad indossare i Dpi soprattutto in situazioni

climatiche di caldo come quelle in cui mi sono imbattuata spesso anche io (Cap. 5).

9 Lo è dal punto di vista normativo, ha rispettato gli adempimenti normativi: corsi di formazione

per gli operai; presentazione del Piano Operativo di Sicurezza (POS); uso dei DPI da parte degli operai e possibilmente anche da parte del capocantiere e del suo assistente, solo per fare alcuni esempi.

10 Gli operai con i quali ho avuto modo di parlare avevano mediamente dai cinquanta anni in su.

Con quelli più giovani non ho avuto occasione di parlare (a parte l’unico che ho intervistato), anche perché quelli che vi lavoravano affiancavano i “più anziani", e questo implicava anche una minore libertà nel ritagliarsi degli spazi o minore intraprendenza nel parlare sia con me che con le diverse figure del cantiere che non fossero altri operai. C’è da dire, però, che in cantiere ho visto diversi operai giovani, ed anche qualcuno particolarmente “spiritoso”, con cui però non sono riuscita a parlare perché sempre vicina ai responsabili di cantiere.

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Altro invito che gli operai mi hanno fatto più spesso quando ero con i “controllori”

(senza che questi potessero sentire), era quello di “non dar retta a loro!”, ovvero

hanno sempre sottolineato il distacco tra il “loro sapere” e quello dei “capi e

controllori” che “non sanno come si lavora” e, il più delle volte, mi consigliavano di

andar via da quel posto (intendendo il cantiere in generale) perchè non ritenuto adatto

ad una ragazza: troppo sporco, pesante e faticoso.

In questa seconda fase ho potuto visitare ben sette cantieri disclocati lungo un

percorso che attraversa una parte della città: cantieri dalle dimensioni piccole, medie

ed anche molto grandi. Ciascuno di loro porta con sè le proprie caratteristiche e

criticità, i propri personaggi e le proprie “rappresentazioni”.

In questo viaggio ho potuto raccogliere del materiale, per quanto ancora

grezzo, a cui non riuscivo a dare piena forma, perché non avevo maturato quella

distanza che mi avrebbe permesso di essere consapevole di ciò che stavo vedendo.

Non riuscivo ancora a “rubare con gli occhi”11, ma quello che vedevo mi arricchiva

sempre più.

All’inizio ho parlato di difficoltà, durezza e incessante negoziazione. Adesso le

vivevo tutte insieme e le condividevo con gli operai che ogni volta incontravo sui

cantieri. In ognuno di essi cercavo di ritagliarmi un piccolo spazio per poter chiedere

loro qualcosa di più di quello che “raccontavano” al controllore di turno (e questo ha

messo in evidenza come in base alle caratteristiche di chi controlla, anche gli operai si

comportano diversamente, anche loro, cioè, controllano i loro controllori, in un “gioco

di specchi” (Schütz, 1979) in cui ciascuno negozia e definisce la propria identità in

relazione all’altro).

Ho visitato cantieri mentre faceva molto caldo, mentre iniziava a far freddo e

iniziava a piovere, ma il lavoro non può fermarsi, bisogna lavorare anche con le

intemperie, magari ci si ferma per attendere che la forte pioggia si trasformi in pioggia

costante, ma meno intensa, mentre la terra diventava fango e benchè non ci fosse più

polvere che salisse dalla terra rossa (acquietata dall’acqua), si creavano però delle

pozzanghere d’acqua marrone da dover attraversare all’occorrenza.

11

Frase usata in cantiere per indicare la modalità più diffusa d’apprendere il mestiere (Cap. 5).

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In questa fase l’ultimo accesso al campo è consistito nella partecipazione alla

celebrazione della cerimonia in onore di Santa Barbara, protettrice dei minatori,

artificieri, artiglieri, vigili del fuoco e carpentieri e, dunque, per estensione, di tutti gli

operai edili.

La cerimonia, tenutasi tra l’altro in periodo prenatalizio, è stata anche

occasione di scambio di auguri per le festività. Erano tutti molto contenti, l’occasione

ha messo in mostra la dimensione sociale e relazionale della CortemSpa, i gruppi che

rispecchiano sostanzialmente i diversi uffici dell’organizzazione ed una macro-

suddivisione della stessa che vede da una parte il personale “amministrativo” con a

capo i vari dirigenti, l’Amministratore Delegato ed il Presidente, dall’altra il personale

“operativo”, ovvero coloro che hanno un contatto più diretto con i cantieri, compresi i

collaboratori del Responsabile dei lavori, lo stesso Responsabile, i collaboratori e lo

stesso Coordinatore per la sicurezza. Accanto a queste figure, va ricordata anche la

presenza dei capicantiere, degli assistenti, anche quelli di alcune ditte esterne.

La fine della celebrazione, con annesso pranzo, ha comportato anche il mio

secondo distacco dall’organizzazione stessa, motivata dall’arrivo della pausa natalizia.

Prima di congedarmi per una seconda volta dalla CortemSpa, nell’autunno

2008, avevo approntato un questionario da sottoporre a quelle che io ho chiamato “le

figure della sicurezza”, ovvero tutti coloro che hanno delega in materia di sicurezza.

Avevo seguito il processo di operazionalizzazione di Lazasfeld: definito il concetto,

individuato le sue dimensioni, gli indicatori, gli items. Nei confronti del questionario

avevo ricevuto maggior disponibilità da parte del signor L. che si era reso disponibile a

darmi la possibilità di somministrarlo nei diversi cantieri. Ma a questo punto qualcosa

non andava. Il questionario non mi soddisfaceva, volevo usarlo come sorta di

“strategia” per entrare nuovamente in cantiere, ma non era adatto a ciò che in fondo

era l’obiettivo principale: offrire una lettura fuori dal coro, ma in grado di render conto

di tutto ciò che avevo già visto nei cantieri, ma che avrei potuto ancor di più

comprendere se avessi avuto un accesso più quotidiano ad essi.

Questa fase di crisi della ricerca ha coinciso anche con il cambio di tutor, cosa

che, se in un primo momento ha alimentato le angosce per il destino della ricerca, alla

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fine ha rappresentato un’opportunità per la stessa. Il cambio di tutor, infatti, ha

richiesto di ripercorrere tutte le tappe attraversate sino a quel momento, rivedere il

materiale prodotto e cercare in una nuova direzione, ovvero guardarlo con nuovi occhi.

In quest’occasione, ho messo da parte la visione “sistemica” che avevo scelto e con la

quale non riuscivo ad avvicinarmi al campo. Era come cercare di disegnare

quell’immagine ben impressa nella mente, ma che non riesce ad attraversare la mano

ed uscire dalla matita per fissarsi sul foglio.

Le due cattedre che mi hanno supportato nel percorso mi hanno dato la

possibilità di conciliare le mie due anime: tener presente la questione generale e la

caratteristica del dottorato di ricerca ‒ i sistemi sociali e l’analisi di una politica

pubblica ‒ e la necessità di entrare in un’organizzazione (la dimensione che completa il

dottorato di ricerca) attraverso un’etnografia che offre un contributo, seppur minimo,

alla questione della sicurezza sul lavoro.

Nella seconda parte del percorso di ricerca, quindi, ho affrontato nuove letture,

mi sono appassionata alla ricerca di Gouldner (1970) sul modello di burocrazia

weberiana. L’autore, infatti, ha svolto la sua ricerca tra il 1948 e il 1951 in uno

stabilimento americano di estrazione e raffinamento del gesso ‒ stabilimento in

superficie e miniera della General Gypsum Company (nome fittizio) ‒ dove ha studiato

il rapporto tra minatori, operai e i diversi livelli di gerarchia, traendo delle

considerazioni in merito ad un modello di burocrazia unitario, quello proposto da

Weber, appunto. Il “mettere alla prova” il costrutto weberiano di burocrazia ha

permesso all’autore di rilevare la presenza di un modello “dualistico” i cui principi

cardine sono la competenza, da un lato, e la disciplina, dall’altro.

Se questa è la tesi alla base della sua ricerca, le pagine che conducono in

fabbrica, e che raccontano l’esperienza etnografica dell’autore e dei suoi collaboratori

in miniera, mi hanno permesso di ritrovare ‒ a distanza di anni, di condizioni di lavoro

mutate (ma non troppo) e di sviluppo tecnologico relativo ad alcuni processi di

lavorazione (per esempio scavo manuale nella miniera, allora e con “talpe” meccaniche

in galleria, oggi) ‒ alcuni tratti comuni: durezza e pesantezza del lavoro, polvere e aria

pesante da respirare, ambienti per certi versi simili ai cantieri da me osservati.

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Nonostante l’incoraggiamento maturato a seguito della lettura della ricerca di

Gouldner, mi ritrovavo ancora una volta al punto di partenza: come poter accedere al

campo se la strategia del temporeggiare12 da parte del signor L. mi impediva di andare

avanti?

Nei primi mesi del 2009 ho ricontattato la CortemSpa ed ho chiesto di poter

continuare ad andare sui cantieri, preferibilmente senza essere vincolata alle loro

attività di controllo, ma andarci in maniera più continua e autonoma (anche perchè i

tempi del dottorato non mi permettevano di attendere ancora). Come nelle prime fasi

di negoziazione, anche questa volta il canovaccio risultava già scritto: avanzo la mia

richiesta di una maggior presenza in cantiere e dopo settimane vengo rassicurata che

stanno pensando quale cantiere possa essere più adatto per me. Per me come

ricercatore? Per me come donna? Per me come studioso di sicurezza sul lavoro?

Queste le domande che mi assillavano e alimentavano la delusione per una ricerca che

sembrava allontanarsi tra la polvere delle promesse che non trovavano riscontro in

quell’agoniato “accesso al campo”.

Ormai dovevo tentare il tutto e per tutto ed ho chiesto per l’ennesima volta di

parlare con il signor L. Questa volta in ballo era tutta la ricerca, la stessa possibilità di

portare a termine un percorso che, per quanto faticoso, ancora mi entusiasmava e che

non ero disposta ad abbandonare. Esposi al signor L. le mie difficoltà, i termini del

dottorato ormai alle porte e il mio nuovo sguardo: osservare le pratiche di lavoro.

Intanto continuavo a leggere e cercare qualche spunto che mi permettesse di

capire meglio come affrontare la mia ricerca, di “addensare” il mio sguardo, ma ad un

certo punto mi sono imbattuta in un’altra difficoltà: il tema della sicurezza sul lavoro è

un tema poco visitato dai sociologi e la mia ansia cresceva sempre più perchè, mentre

chi aveva già affrontato prima di me un dottorato, o alcuni che lo affrontavano nel mio

stesso periodo, mi parlavano di aver trovato il loro “Virgilio” in grado di condurli e

guidarli all’interno del loro campo di ricerca, io non riuscivo neanche a partire dal mio

“Inferno”!

12

Il “temporeggiamento” è una etichetta che ha origine da una considerazione personale che mi ha spinto ad interpretare i lunghi periodi (settimane che sono diventati mesi) di attesa intercorsi tra una mia richiesta di maggior presenza sul campo e la risposta ricevuta.

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2.1.3 Terza fase: “finalmente in cantiere”

Il distacco dalla CortemSpa, il cambio di tutor, le letture affrontate e la

revisione del materiale raccolto sul campo, mi hanno permesso di concentrarmi sulla

prospettiva teorica che avrebbe sostenuto il mio ultimo assalto al “sacro cantiere”.

A questo punto della storia ero pronta ad affrontare la “mia ricerca” e il signor

L. con occhi nuovi e finalmente ero pronta a riconoscere, e per questo ad abbandonare,

le mie vecchie lenti. Sin qui, infatti, ero stata parte di un modo di vedere la sicurezza sul

lavoro attraverso le lenti del “discorso normativo” (Nicolini, 2001), ovvero guardavo,

non proprio in maniera consapevole, l’oggetto di ricerca prevalentemente dal punto di

vista del rispetto delle norme, lo avevo “operazionalizzato” rintracciando le dimensioni

principali all’interno di una “visione professionale” (Goodwin, 2003) tipica del policy

maker (seguire le norme e la loro implementazione), ma anche se ero fortemente

orientata al diretto lavoro degli operai, non ri-conoscevo in loro la dimensione

collettiva, di pratiche di lavoro situate e ri-prodotte quotidianamente.

Il primo passo, pertanto, è stato quello di rileggere la rete degli attori

istituzionali da me prodotta attraverso la lente dei “discorsi sulla sicurezza” (Cap. 1;

Cap. 3). Grazie, infatti, al lavoro di Nicolini (2001), ma anche di Gherardi (2006), ho

potuto identificare, e ri-conoscere nel campo di ricerca, i quattro discorsi sulla

sicurezza: quello normativo, pervasivo di una buona parte della società, che porta ad

indentificare la sicurezza con il rispetto o meno delle norme che la regolano; quello

tecnico, della comunità di produttori di Dispositivi di protezione individuale (Dpi), di

attrezzi da lavoro e di vari artefatti che ho incontrato nei cantieri e di cui darò conto nel

quarto e quinto capitolo; il discorso formativo, ovvero un valido alleato di quello

normativo, in quanto è previsto “per legge” che gli operai siano “informati e formati”

sulle norme di sicurezza; il discorso economico, ovvero tutto ciò che è legato

all’aspetto monetario della sicurezza come i costi, ovviamente non in termini di vite

umane, ma economici, sostenuti dallo Stato, per esempio; o quelli che una azienda

deve sostenere per “mettere in sicurezza” gli operai e l’azienda stessa.

Dunque, il modo in cui si concettualizza (o si vede) la sicurezza (e un qualsiasi

altro fenomeno), porta con sè un insieme di interventi coerenti con tale visione e

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contribuisce a creare e ri-creare quella rete di attori (in questo caso la rete locale) che

“tessono” insieme la sicurezza nei cantieri (Cap. 4).

Questa, dunque, la macro lente che ha fatto chiarezza sul mio personale punto

di vista, che ha pemesso di interpretare i diversi interessi degli attori impegnati sul

campo della sicurezza e ha permesso di realizzare il dovuto allontanamento

dall’oggetto di ricerca per osservarlo con maggior consapevolezza, nuovamente da

vicino.

Con la mia nuova “cassetta degli attrezzi” ho rinegoziato l’accesso al campo,

ma questa volta con un obiettivo ben definito: osservare sì la sicurezza in pratica, ma

soprattutto come si fa sicurezza in un cantiere. Osservando da vicino le pratiche e le

attività quotidiane che intrecciano insieme il “tessuto” della sicurezza avrei potuto

contribuire ad aggiungere un piccolo tassello al grande puzzle della conoscenza del

fenomeno sociale della sicurezza sul lavoro. Il principio interazionista secondo il quale

l’osservazione in situ permette di cogliere l’esperienza e il punto di vista dei soggetti

che, attraverso l’interazione, danno un senso sia alle situazioni che agli oggetti (come i

Dpi nel caso, per esempio, del cantiere edile) che essi adoperano nelle loro attività

quotidiane, ha guidato la discesa sul campo.

Parlando nuovamente al signor L. ed esponendo un progetto di ricerca

rinnovato ho riattivato il processo di negoziazione dell’accesso al campo: rinnovata

disponibilità, attesa che si concretizzasse la risposta affermativa ricevuta al momento

della richiesta e temporeggiamento nella definizione dei termini della mia discesa in

cantiere. Finalmente, ad un anno dal primo accesso “accompagnato” al campo, mi si

dava la possibilità di osservare da vicino la vita di un cantiere. Ma anche in questo caso

il “guardiano” della CortemSpa mi ha “assegnato” a qualcuno: avevo accesso ad uno

cantiere “tranquillo”, gestito da uno dei capicantiere più “in gamba”

dell’organizzazione. Dal loro punto di vista, il cantiere assegnatomi (come i due

successivi) rappresentavano quasi un “modello” di cantiere sicuro. Più volte L. ha

ribadito che il cantiere scelto era uno tra i più sicuri (per me, per l’immagine

dell’organizzazione, per chi vi lavorava dentro). Quanto al capocantiere, la sua

esperienza e personalità gli permetteva di essere considerato un buon punto di

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riferimento (anche nei miei confronti) e in grado di gestire al meglio il “suo cantiere” e

la mia stessa presenza.

Questo ha permesso di mettere in luce come la questione della sicurezza sul

lavoro crei una sorta di “silenzio” (Gherardi, Nicolini, 2001; Gherardi, 2006) da parte

dell’organizzazione e “qualcosa di cui si preferisce non parlare” (dall’intervista al signor

L.), come la presenza di cantieri “meno ordinati13” (soprattutto dal punto di vista

dell’immagine) e/o capicantiere “non proprio come lui”14.

La questione del silenzio è meno forte che in altre ricerche (Gherardi, Nicolini,

2001; Gherardi, 2006), ma anche nei cantieri che ho osservato c’è una sorta di velo,

come un drappo che si posa sulla questione, segnandola nelle sue forme, ma non

lasciandola intravedere esplicitamente. Non ho incontrato molta fatica a parlare di

sicurezza (anzi in mia presenza diveniva “normale” parlare di sicurezza), ma c’è sempre

stato un non-detto, uno spazio in cui non era il caso di addentrarsi ed approfondire. In

effetti, anche nella mia ricerca ciò ha denotato come “si tratti di un tipo di competenza

eminentemente pratica e tacita, basata su un «corpus di competenze» largamente

dato per scontato e legato alle abitudini e agli atteggiamenti dei membri

dell’organizzazione” (Gherardi, Nicolini, 2001: 236).

Inoltre, è possibile evidenziare come la scelta di un dato tipo di cantiere e di

una data persona alla quale essere “assegnata” richiami quel processo di

oggettivazione della sicurezza di cui si è già parlato, ovvero quel processo che porta ad

identificare l’uso e il non uso degli artefatti (Dpi) con il rispetto o meno delle norme di

13

I cantieri non vengono mai definiti come “non sicuri”, anche perché il livello di controllo è talmente alto che in linea di massima i cantieri possono, a buon diritto, essere ritenuti tali. Il nodo, semmai, è relativo alle “modalità” di lavoro di alcune ditte, non propriamente avvezze a lavorare, per esempio, usando i Dpi o mettendo “in ordine” l’area in cui hanno lavorato. Quello dell’ordine è sì previsto dalla normativa in materia di sicurezza, ma rispecchia anche un “modo”, una “pratica” che alcuni operai hanno acquisito con l’esperienza ed altri no. In effetti, il “non mettere a posto” è sinonimo di pericolo e di un’immagine negativa del cantiere, alla quale la CortemSpa, invece, tiene molto (Cap. 5).

14 Ancora una volta il riferimento è alla questione delicata dell’appalto. In effetti, avendo la

CortemSpa funzione di Committente, la figura dei loro capicantiere non è “propria”. Ovvero risulta essere “impropria” nel senso che, una volta appaltato il lavoro, la responsabilità è della ditta che fa il lavoro, ma la CortemSpa ha sfruttato la sua posizione di Committente, e quindi di responsabile finale dell’opera, anche per esercitare una forma di controllo “quotidiano” sulle diverse ditte, attraverso i suoi capicantiere ed assistenti. È però a questo livello che subentrano le caratteristiche personali e l’esperienza dei capicantiere ed assistenti, oltre che al loro “modo di lavorare”. Vi sono capicantiere, infatti, che non ritengono opportuno interferire nei lavori delle ditte, altri, invece, esercitano a pieno questa funzione, come il Signor M. che incontreremo nell’etnografia (Cap. 4).

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sicurezza (visione normativa, Cap. 1; Cap. 5). La stessa organizzazione, in questo caso,

seleziona una sorta di cantiere, e relativo capocantiere, “modello”, ritenuto più adatto

a veicolare la loro immagine di “cantiere sicuro” in base ad una maggiore aderenza alla

normativa di riferimento. Certo è che la maggior sicurezza, almeno nel caso del primo

cantiere, era riferita, dal mio mediatore, anche al fatto che i processi di lavorazione in

corso fossero più “tranquilli”, ovvero caratterizzati da un tipo di attività meno rischiosa

(in senso convenzionale15). E questa scelta ha messo in risalto la possibilità che ci

fossero cantieri “meno sicuri” dal quale tenermi lontana.

L’aver visto altri cantieri (circa una decina), però, mi ha permesso di farmi

un’idea in merito al cantiere “sicuro/non sicuro” nell’accezione del mio mediatore: il

“grado” di sicurezza è dato dalle “non conformità” che il Coordinatore, o altre figure

della sicurezza, avrebbe potuto riscontrare in quei cantieri. Il tutto in un’accezione

normativa della sicurezza, ovvero di rispetto o meno delle norme di sicurezza che

possono andare dal non uso del casco e/o dei guanti, al non uso dell’imbragatura per le

lavorazioni in altezza ed altro ancora. La contropartita a tutto ciò era “non esiste il

cantiere sicuro in assoluto, non potrai mai trovare il cantiere perfetto!”16.

2.2 Alla ricerca di una teoria

Come evidenzia il percorso di negoziazione dell’accesso al campo ‒ ai cantieri

della CortemSpa ‒ anche il percorso per la scelta della teoria “adatta”, ovvero quella

che mi permettesse di affinare lo sguardo e avere già a disposizione alcune “categorie”

e concetti per ri-conoscere quanto accadeva in cantiere, non è stato facile. È la

tematica della sicurezza sul lavoro, analizzata principalmente nella tradizione giuridica,

tecnica (ma anche economica, psicologica, ergonomica e formativa) che ha dominato il

dibattito (Cap. 1) ‒ lasciando scoperta la dimensione sociale e collettiva della stessa ‒

15

Ogni ditta/organizzazione (nella figura del datore di lavoro che ne ha l’obbligo) che svolga un qualsiasi tipo di attività è tenuta a produrre un Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) nel quale sono descritte tutte le attività che essa svolge, i pericoli insiti in tali attività e il tipo di rischio che essi comportano. Alla natura del rischio è legata, infine, la valutazione del tipo di dispositivo di prevenzione e sicurezza predisposto.

16 La frase è stata pronunciata sia da una assistente di cantiere che da operaio di una ditta.

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ad aver richiesto una impostazione teorica che mi permettesse di andare oltre le

norme ed il rischio per lasciar emergere dal campo nuove chiavi di lettura.

Quella che segue, infatti, è la “dotazione” teorica ‒ i “concetti sensibilizzanti”

come direbbe Blumer (1969) ‒ con la quale mi sono avvicinata al campo e che, in un

processo di circolarità, il campo ha a sua volta suggerito durante la fase di raccolta dei

dati.

2.2.1 Tradurre la sicurezza sul lavoro

La sociologia della traslazione, o Actor Network Theory (Callon, 1986; Latour,

1992), ha rappresentato il frame teorico al quale “aggrappare” i dati emersi dal campo

e, nello stesso tempo, il punto di vista attraverso il quale muovermi sul campo. Questa

prospettiva, infatti, mette in luce la materialità delle relazioni e dei processi

organizzativi, nonché il ruolo giocato dalla conoscenza pratica, di cui si parlerà in

maniera più approfondita nel quinto capitolo.

Anche se esula da questa ricerca una trattazione specifica e approfondita delle

implicazioni e dei problemi che questa teoria ha comportato, è utile, però, delineare

brevemente le caratteristiche che l’hanno resa adatta allo studio della sicurezza sul

lavoro e al suo “farsi” all’interno dei cantieri edili e della loro organizzazione.

Traslare, ovvero tradurre in pratica, è la metafora che permette di guardare

tanto ai processi interpretativi, quanto ai processi sociali e materiali che fanno

viaggiare il sapere e le idee (Czarniawska, Joerges, 1995) da un posto ad un altro, ma

anche da un soggetto e da una comunità ad un’altra, e li concretizzano in una pratica

situata all’interno di uno specifico contesto organizzativo (Gherardi, Lippi, 2002).

Questa metafora, dunque, mi ha permesso di comprendere e cogliere il

processo di traduzione del testo normativo sulla sicurezza, cercando di ricostruire il

percorso che dal contesto politico-istituzionale porta sin dentro al cantiere, per

osservare le attività più o meno sicure “messe in pratica” in esso.

Il modello della traslazione, come suggeriscono Czarniawska e Joerges (1995) in

merito a come viaggiano le idee , può aiutare a conciliare il fatto che “un testo ha una

sua natura oggettiva e allo stesso tempo può essere letto in modi differenti * … +: sono

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gli individui, come fruitori o creatori, che infondono energia a un’idea ogni volta che la

traslano a beneficio proprio o di altri” (225).

Questo è quanto emerso dalla ricerca soprattutto in considerazione dei

“discorsi” e della “cultura professionale” di cui sono espressione i diversi attori

dell’action-net che hanno il compito di “fare sicurezza” all’interno dei contesti di

lavoro: ognuno di loro, infatti, ha una propria “visione” di ciò che è sicuro e di ciò che

non lo è, proprio a seguito dell’interpretazione a cui si presta lo stesso Testo normativo

e lo sguardo di ciascun attore che è carico di quella cultura che lo rende “esperto” ‒ in

senso etnometodologico ‒ del proprio discorso sulla sicurezza.

Ed è proprio per esprimere questo “viaggio” che l’ho ritenuta un valido aiuto

per affrontare il campo ed interpretare “l’implementazione” della normativa sulla

sicurezza. Qualsiasi cosa ‒ pretese, ordini, artefatti, beni ‒ si propaghi nel tempo e

nello spazio è nelle mani delle persone; sono le persone, infatti, a poter agire in molti

modi diversi: possono lasciar cadere la cosa, modificarla, ma anche deviarla, tradirla,

aggiungervi qualcosa o andar via (Latour, 1986).

A tal proposito, infatti, John Law (1999) sottolinea due concetti principali

dell’ANT:

il materialismo relazionale, vale a dire sia le persone, che gli oggetti e le azioni,

acquisiscono i propri attributi quando stabiliscono delle relazioni; ovvero che

l’umano e il non umano sono il frutto di reciproca definizione, soggetta a

negoziazione e cambiamenti;

la performatività (performativity). Dal momento che l’ordine non è stabilito a priori,

occorre evidenziare come le relazioni siano un processo di allineamento che

produce un effetto di ordine sociale, che è il principale oggetto della conoscenza.

2.2.2 La pratica in teoria

Nell’ambito degli studi organizzativi sviluppatisi a partire dagli ultimi due

decenni del secolo scorso, un ruolo interessante ha ricoperto l’approccio culturale allo

studio delle organizzazioni. Sono i cosiddetti approcci soft (Bonazzi, 2002, 2008)

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all’organizzazione a proporre uno studio della stessa mettendone in evidenza la

dimensione simbolica, costruita17, processuale, estetica18.

Entro un tale quadro teorico si colloca anche la prospettiva di studio basata sul

concetto di “pratiche lavorative”19 o Practice-based Studies (Gherardi, 2000, 2000a).

Sebbene sia emersa negli ultimi decenni del Novecento ‒ come prospettiva analitica ed

interpretativa che si pone in alternativa ad una visione del lavoro tradizionale20 ‒

all’interno degli studi delle attività lavorative in ambienti “tecnologicamente densi”

(Bruni, 2005), è interessante adoperare tale concetto per descrivere ed analizzare

ambiti ed ambienti di lavoro dal contenuto non propriamente “tecnologico”, ma

comunque mediato da strumenti ed artefatti, come il settore edilizio delle costruzioni

per esempio.

L’intento di osservare e descrivere come si fa sicurezza in un ambiente di

cantiere permette di andare oltre il concetto di norme di sicurezza e vedere che cosa

accade realmente in un luogo di lavoro come quello osservato durante la ricerca e

poter cogliere il come si lavora, piuttosto che il come si dovrebbe lavorare.

Adottare una prospettiva di studio che veda il lavoro come pratica lavorativa mi

ha permesso di avvicinarmi al campo in cui gli attori lavorano, mettono in pratica le

loro conoscenze, interagiscono quotidianamente con gli artefatti che abitano il loro

contesto di lavoro e danno senso a ciò che è o non è sicurezza. Ed è proprio in questo

17

Già il contributo di Berger e Luckmann (1969) alla comprensione della realtà come “costruzione sociale” aveva messo in discussione il concetto di assolutezza della realtà. È la dimensione contestuale e di costruzione della realtà ad emergere. Una realtà che non è data una volta per tutte, aprioristicamente, ma si costruisce nelle relazioni che di volta in volta si danno nel tempo (le “diverse realtà”) e nello spazio (tra le “diverse realtà”).

18 Si ricordano gli studi di Kunda (2000); Schein (2000); Weick (1993); Alvesson e Berg (1993);

Strati (1993); Gherardi e Mortara (1987); Gagliardi (1986). 19

Il concetto di “pratica” si è affermato nell’ambito degli studi sull’apprendimento organizzativo. Infatti, tra “una concezione mentalista della conoscenza nelle organizzazioni ‒ che colloca il sapere e l’apprendimento nella testa delle persone ‒ e una basata sulla reificazione della conoscenza ‒ che considera il sapere alla stregua di un oggetto o di una merce” (Gherardi, 2000: 55, corsivo aggiunto) ‒ il concetto di pratica rappresenta la via più adatta per ovviare a tale dilemma, la “terza via” come la definisce Gherardi (2000; 2000a). Il concetto di apprendimento attraverso la partecipazione alle pratiche mette a fuoco come l’apprendere nelle pratiche quotidiane non sia un’attività separata dalle altre attività, ma abbia “luogo nel flusso delle esperienze, in modo più o meno consapevole” (ibidem: 58).

20 Visione che è da sempre stata attenta alla dimensione macro-sociale del lavoro puntando più

sullo studio delle relazioni tra variabili socio-economiche che alla più “concreta” articolazione delle pratiche quotidiane che si svolgono in specifici contesti di lavoro, dimensione questa micro-sociale e micro-sociologica.

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spazio di costruzione e definizione del senso che è possibile intervenire per migliorare

delle situazioni che “non tornano”, come direbbe Dewey (1974), e possono per ciò

essere definite “problematiche”.

A tal proposito, Czarniawska e Jorges (1995) affermano che “non è possibile

percepire qualcosa che non sia in qualche modo in rapporto con quanto è già

conosciuto * … +. Questo spiega perché occorrono tanto tempo e tanti sforzi prima che

un’idea nuova ed originale venga presa in considerazione, e illustra anche, in accordo

con i postulati dell’ermeneutica, il presupposto iniziale della traslazione: non si può

traslare ciò che è totalmente irriconoscibile” (227).

Questo ci spinge ad adottare categorie nuove in grado di cogliere le dinamiche

che ogni giorno tessono la rete della sicurezza, per poter rendere ri-conoscibile quanto

accade nei contesti di lavoro interessati a loro volta da diversi interventi normativi

decisi in spazi distanti da loro e, spesso, non solo fisicamente, in quanto rappresentativi

di diverse “visioni professionali” (Goodwin, 2003) e culturali.

Il concetto di pratica21 è uno dei concetti che può servire ad avvicinare mondi

professionali spesso tra loro troppo distanti. Attraverso lo studio delle attività

lavorative, infatti, è possibile cogliere le dinamiche che presiedono alla costituzione,

per esempio, dei diversi discorsi sulla sicurezza.

La pratica può essere definita come una modalità, relativamente stabile nel

tempo e socialmente riconosciuta, di ordinare elementi eterogenei in un set coerente.

Questa definizione mette in evidenza diversi elementi: l’aspetto qualitativo ed olistico

di una pratica; la sua relazione con la dimensione temporale; il suo essere socialmente

riconosciuta; l’essere una modalità di ordinare il mondo (Gherardi, 2006).

La sicurezza, dunque, è qui definita come “pratica sociale” da analizzare

all’interno del campo delle pratiche organizzative, ovvero, il tessuto organizzativo dei

cantieri edili, come sarà analizzato nei prossimi capitoli.

21

Si ricorda che il concetto di pratica appartiene ad una lunga tradizione che affonda le sue radici sino ad Aristotele. Diversi sono gli autori ‒ Dewey, Heidegger, Taylor, Marx, Foucault, Wittgenstein, in ambito filosofico; Bourdieu, Giddens, Garfinkel, Foucault e Lyotard, in ambito sociologico ‒ che hanno fatto ricorso al concetto di pratica per risolvere le concezioni dualistiche della vita sociale ‒ società/individuo, struttura/azione, corpo/mente ‒ e cercare la chiave della comprensione del mondo sociale Per una ricostruzione delle sue radici filosofiche e sociologiche si rimanda a Gherardi, 2006; Landri, 2009.

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Il concetto che ha guidato la ricerca e che mi ha permesso di indirizzare lo

studio della sicurezza al di là della questione del rispetto o meno della normativa ‒ o

meglio, per vedere cosa vi è, per esempio, dietro il non rispetto della normativa stessa

‒ è considerare la sicurezza come una proprietà emergente di un sistema culturale,

professionale, organizzativo, industriale e sociale che produce concetti sociali di cosa è

pericoloso o sicuro, e di quali atteggiamenti e comportamenti sono appropriati nei

confronti di rischio, pericolo e la stessa sicurezza. È un “vedere”, un “fare” e un “dire”

che coinvolge sia le persone che le tecnologie, ma anche forme testuali e simboliche,

tessute insieme all’interno di un sistema di relazioni materiali (Gherardi, 2006).

All’interno dei Practice-based studies22 (PBS), inoltre, assume un’importanza

centrale il concetto di conoscere in pratica. Il termine “pratica”, infatti, è utilizzato

come un topos, ovvero come un elemento che connette il “conoscere” ed il “fare”

(Gherardi, 2000; 2000a). Comunica l’immagine della materialità, del lavoro fatto a

mano, delle competenze artigiane (Sennett, 2008). In questo quadro la conoscenza non

emerge dalle “scoperte” scientifiche, bensì è “costruita, inventata”23 dalle pratiche

situate che producono e riproducono la conoscenza (Gherardi, 2000a; 2006).

La conoscenza, dunque, è considerata alla stregua di un’attività, non come

oggetto ‒ corpo di conoscenze ‒ bensì come attività situata nelle pratiche di lavoro che

emerge dal contesto in cui è prodotta ed ancorata da (e nei) supporti materiali del suo

ambiente di produzione. La conoscenza pratica, dunque, è una conoscenza contestuale

22

Nell’ambito degli studi sull’apprendimento organizzativo diversi sono i contributi teorici che ruotano attorno al concetto di pratica, in ambiti disciplinari diversi e con assunti epistemologici ed ontologici diversi. Dai contributi della sociologia qualitativa (interazionismo simbolico, etnometodologia, antropologia culturale) in cui l’agire e il conoscere sono considerati come attività sempre contestuali e situate (Suchman, 1987; Goodwin e Goodwin, 1996); ai lavori nel campo della sociologia della scienza ‒ per cui il laboratorio scientifico è considerato metafora delle pratiche sociali e politiche costitutive della conoscenza – (Knorr-Cetina, 1981; Latour e Woolgar, 1979); alla teoria dell’apprendimento situato che pone l’accento sulle comunità di pratica (Lave e Wenger, 1991); all’Actor-Network Theory, che dissolve le categorie oppositive di mente/corpo, natura/cultura, umano/non umano e i soggetti sono effetti del network in cui sono immersi (Law, 1994); al contributo della Activity Theory, che pone l’accento sulla conoscenza nei sistemi di attività (Engestrom, 1990). Questi i principali contributi ripresi in Gherardi (2000, 2000 b, 2006; Gherardi, Nicolini, 2004).

23 Il termine utilizzato è “fabrication”, ovvero architettare, inventare. Gherardi, a tal proposito,

richiama i contributi di Knorr-Cetina (1981) e Latour (1987) che, in luogo del termine latino facere usano rispettivamente “facticity” e “fabrication” per indicare come nei laboratori scientifici ‒ e dunque la stessa conoscenza scientifica che per tanto tempo ha goduto di un’aurea di indiscutibilità ‒ la scienza non sia una “costruzione sociale”, bensì una “costruzione” tout court (Gherardi, 2000 a).

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che si contrappone ad un tipo di conoscenza che è teorica e per ciò stesso

decontestualizzata24 .

È possibile affermare, quindi, che la conoscenza è prodotta proprio nel suo uso

in contesti pratici, quotidiani. “Conoscere significa saper usare la conoscenza come uno

strumento o, se si preferisce, possedere conoscenza significa praticarla” (Gherardi,

Nicolini, 200425). Questo ci riporta nuovamente al cambio di prospettiva che sposta

l’attenzione dall’oggetto al processo del divenire oggetto, al conoscere più che alla

conoscenza.

Una ricerca etnografica sulle pratiche di apprendimento della sicurezza in

edilizia (Gherardi, Nicolini, 2001; Gherardi, 2006) ha messo in luce come i meccanismi

di apprendimento siano situati ed abbiano un carattere eminentemente sociale e siano

per questo in grado di dar ragione non solo della trasmissione della conoscenza, ma

anche del suo costituirsi come patrimonio collettivo e condiviso, comprese le

conoscenze su ciò che è sicuro e ciò che non lo è.

Prima di presentare il secondo approccio ‒ i Workplace Studies ‒ che ha

guidato soprattutto la codifica delle note di campo raccolte mediante l’osservazione

dei cantieri, lo shadowing e le interviste, occorre esplicitare alcuni presupposti teorici

in qualche modo trasversali ai due approcci: il sapere pratico ed estetico, l’azione

situata e l’etnometodologia.

2.2.2.1 Il corpo al lavoro: dimensione estetica e conoscenza tacita

Spostare l’attenzione dallo studio del lavoro come fenomeno macro-sociale allo

studio ed osservazione delle attività di lavoro concretamente svolte nei diversi contesti

di lavoro, implica prendere in considerazione anche altre tematiche finora lasciate da

parte. Una di queste tematiche è quella relativa al “corpo” che lavora e alla dimensione

estetica e tacita del sapere che tale corpo al lavoro ha “incorporato” (embodied, come

direbbe Yakhlef, 2010).

24

Per un ulteriore approfondimento Bruni, Gherardi, 2007; Gherardi, Nicolini, 2004; Gherardi, 2006; 2000, 2000 a.

25 Si rimanda al testo per una sintetica, ma esplicativa, disamina del dibattito attorno ad

apprendimento e conoscenza nei contesti organizzativi.

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“Il lavorare è costituito dall’azione nel mondo esterno basata su un progetto e

caratterizzata dall’intenzionalità di portare a compimento lo stato di cose progettato

attraverso movimenti corporei”, affermava Schütz (1979: 186) sottolineando

esplicitamente la dimensione corporea del lavorare e dell’attività lavorativa, alla base

della quale vi è un tipo di sapere ‒ il sapere pratico ‒ che caratterizza l’attività stessa,

ma anche le relazioni con gli artefatti (strumenti e macchine) del mestiere (Cap. 5).

È il concetto di sapere pratico a tornare utile nella comprensione delle pratiche

della sicurezza sul lavoro, delle pratiche cioè che gli operai quotidianamente agiscono e

che possono non essere riconosciute come “sicure” da altri attori ‒ come i responsabili

di cantiere e le figure di controllo ‒ che hanno appreso un tipo di sapere, anch’esso in

buona parte pratico e tacito, differente.

Già Simmel (1908, trad. it. 1998) aveva sottolineato l’importanza e la rilevanza

sociologica della conoscenza sensoriale per la comprensione delle relazioni sociali che

hanno luogo in ogni società e, più di un secolo fa, attribuì all’estetica un ruolo cardine

nello studio sociologico (divenuto parte anche del suo metodo d’indagine) delle diverse

forme di associazioni tra gli individui.

Sia la sociologia di Simmel quanto la fenomenologia di Merleau-Ponty (1945

trad. it. 1965) portano a considerare la rilevanza del corpo che si traduce, a livello

sociale, in un elemento sul quale basare la comune esperienza: “il corpo è il «luogo

fisico» a partire dal quale le persone esperiscono e conoscono e la conoscenza estetica

può interrogare (e rispondere a) altre forme di conoscenza” (Bruni, Gherardi, 2007:

106).

Accanto a questi contributi vanno ricordati anche quelli offerti da Mauss (1965)

sulle “tecniche del corpo” e da Foucault (1976) sui “corpi docili”. Entrambi gli autori,

infatti, sottolineano la dimensione di “costruzione” cui il corpo è sottoposto. Da

elemento “naturale”, dunque, ad elemento “sociale e relazionale” attraverso il quale è

possibile esprimere valori e espressioni differenti.

Se per Mauss (1965) le “tecniche del corpo” sono “i modi in cui gli uomini, nelle

diverse società, si servono, uniformandosi alla tradizione, del loro corpo” (385) ed il

corpo rappresenta il primo e il più naturale strumento ed oggetto tecnico dell’uomo;

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102

per Foucault (1976) “è docile un corpo che può essere sottomesso, che può essere

utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato” (148). Anche nell’atto della

“coercizione”, dell’imporre al proprio corpo posture e “discipline” particolari, si realizza

un controllo minuzioso del proprio ‒ e dell’altrui ‒ corpo; se ne accresce la forza (in

termini economici di utilità) e se ne diminuiscono le stesse forze in termini politici di

obbedienza (ibidem).

La conoscenza estetica ‒ che del corpo si avvale ‒ è considerata come una

forma di sapere che ciascuna persona consegue attivando nella quotidianità lavorativa

capacità specifiche legate alle proprie facoltà percettivo-sensoriali e di giudizio estetico

(Strati, 2000; 2010).

Strati (2000; 2007; 2010), nei suoi contributi sul tema, sottolinea che nelle

organizzazioni la dimensione estetica non è da limitarsi solo al giudizio estetico

(bello/brutto; faticoso/non faticoso; o altro), ma vada estesa anche alla capacità di

conoscere attraverso i cinque sensi della vista, dell’udito, del tatto, del gusto e

dell’olfatto.

Anche in riferimento all’attività del ricercatore, inoltre, l’estetica permette di

“dare forma alla dimensione “tacita” della propria conoscenza organizzativa” (Strati,

2008: 156). Lo stesso ricercatore, infatti, è ‒ o può essere ‒ guidato da “gusti personali”

nello scegliere il campo d’osservazione; esperisce il contatto con il campo e con gli

attori dello stesso attraverso i propri sensi (il piacere o meno di parlare con qualcuno,

le sensazioni avvertite sul campo, per esempio); ricostruisce la propria esperienza di

ricerca anche servendosi del proprio giudizio estetico (per esempio in merito allo stile

di scrittura della presente tesi).

Se questo è, brevemente26, quanto attiene all’approccio estetico alle

organizzazioni, occorre ricordare anche un altro contributo, quello al quale si fa

comunemente riferimento entro la chiave di lettura sin qui espressa ‒ Practice-based

Studies e Workplace Studies27 ‒ e che fa capo alla dimensione tacita della conoscenza

26

La dimensione corporea ed estetica della conoscenza e del sapere sarà ripresa nel Capitolo 5. 27

Il primo approccio (PBS) è stato appena trattato, si veda §2.2.2; per i Workplace Studies si rimanda a § 2.2.3.

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103

(Polanyi, 199028). Alla base, infatti, del sapere pratico che viene attivato, agito e

comunicato nelle organizzazioni vi è gran parte di quella conoscenza che è possibile

definire “tacita”.

La conoscenza tacita è proposta da Michael Polanyi (1990) per sottolineare il

modo attraverso il quale il corpo “incarna” i processi conoscitivi. Tale conoscenza

indica che si sa di più di quanto si riesca a dire (Polanyi, 1990), ovvero che si hanno

delle conoscenze che non possono essere razionalizzate e/o esplicitate attraverso le

parole ed il linguaggio. Un ruolo importante, in questo caso, è espresso proprio dal

corpo che apprende in una forma che non è di tipo cognitivo, bensì attraverso le

relazioni interpersonali29.

Anche Lucy Suchman (1987) esplicita le stesse considerazioni in merito ai “piani

d’azione” che possono essere pianificati anche nei minimi dettagli, ma non possono

determinare, per questo, il corso effettivo delle azioni “situate” (§ 2.2.2.2). I piani,

quindi, sono una componente dell’azione pratica, un artefatto che aiuta

nell’intraprendere un’azione, ma non sono in grado di sostituirsi ad essa.

Quello di cui c’è bisogno ‒ in questa come in altre situazioni simili (si pensi, ad

esempio, al lavoro operaio, ma anche alla pratica medica, o a quella dei musicisti e dei

ballerini30) ‒ è la pratica che s’impara attraverso il corpo e i sensi dell’udito, della vista,

del tatto, del gusto e dell’olfatto.

Relativamente alla conoscenza tacita di cui parla Polanyi (1990), ci sono altri

due concetti interessanti ai quali non si può non far riferimento: la consapevolezza

sussidiaria e la consapevolezza focale.

28

L’edizione originale è del 1958. Qui si farà riferimento alla traduzione italiana del 1990. 29

L’esempio addotto da Polanyi (1990) è quello dell’apprendere ad andare in bicicletta, ormai divenuto un classico delle citazioni. Imparare ad andare in bicicletta, infatti, è qualcosa che “si fa”, che si impara facendo e non seguendo istruzioni minuziose, ma non la si può spiegare. E quando si ricorre ad una spiegazione “razionale” ‒ come curvare la deviazione in modo inversamente proporzionale al quadrato della velocità alla quale si sta andando, per ogni angolo di mancanza di equilibrio ‒ questa non la si seguirà comunque nella pratica, ovvero non sarà “applicata” come fosse una dimostrazione geometrica. Si sostiene, quindi, che “le regole dell’arte possono essere utili, ma non determinano la pratica di un’arte; sono massime che possono servire come guida a un’arte solo se possono essere integrate nella conoscenza pratica dell’arte, e non possono sostituire quest’ultima” (Polanyi, 1990: 136).

30 Studi che possono essere richiamati come esempio di quanto affermato sono quelli

dell’etnometodologo David Sudnow (1978) sull’apprendere a suonare il pianoforte o quello di Sparti (2005) sulla comunità dei jazzisti ed il loro “sapere delle mani”, o di Bassetti (2008), sulla danza.

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104

Attraverso esempi semplici, concreti, ma molto pertinenti, l’autore spiega la

relazione che si instaura tra i soggetti e i loro attrezzi-in-uso (come direbbero gli

studiosi dei Workplace Studies). Gli esempi riguardano un medico ed il suo “colpo di

bisturi”; il cieco ed il bastone che lo accompagna; l’uso del martello. Lo scopo di queste

descrizioni è quello di portare alla luce ciò che sappiamo, ma che non sappiamo dire o

che nella vita di tutti i giorni diamo per scontato.

Emerge come il soggetto che utilizza un artefatto nello svolgimento delle

proprie pratiche lavorative, acquisisca consapevolezza sussidiaria “usandolo,

immedesimandosi in esso e integrandolo a sé come parte della propria corporeità”

(Strati, 2000: 169). La consapevolezza focale, invece, riguarda la presa di coscienza

dell’attrezzo come di qualcosa di diverso ed esterno da sé.

La rilevanza di tali concetti per la ricerca riguarda il fatto che mi hanno

permesso di leggere l’uso, o il non uso, che alcuni operai fanno dei loro Dispositivi di

protezione individuale (Dpi) o di alcuni macchinari con cui svolgono il proprio lavoro

(per esempio un escavatore), offrendomi la possibilità di rendere in qualche modo

esplicito ciò che per loro è tacito, ovvero scontato ed incorporato nelle pratiche

lavorative di tutti i giorni (Cap. 5).

2.2.2.2 L’azione situata

Parlando di pratica, di sapere pratico, estetico e tacito, non si può non fare

riferimento ad un altro elemento che li accomuna: il loro essere situati.

Il termine “azione situata” è stato introdotto da Lucy Suchman (1987), nel suo

libro Plans and Situated Action, in cui fa riferimento ad autori come Schütz (1953) e

Mead (1934) e al modo in cui sono stati considerati in ambito etnometodologico

(Conein, Jacopin, 1994)31, per sottolineare l’importanza del linguaggio e della

comprensione reciproca dei soggetti che prendono parte alle azioni. È Goffman (1956,

31

I due autori ripercorrono le radici intellettuali del concetto di “azione situata” e ne richiamano gli sviluppi successivi. Oltre agli studi di Suchman (1987) ‒ di Mead (1934) e di Schütz (1953, 1960) che per primi hanno affermato che tutte le attività del lavoro suppongono uno spazio “ego-centrato” composto da oggetti il cui contatto rappresenta il supporto dell’esecuzione dell’azione ‒ gli autori riprendono anche gli studi di etnografia cognitiva di Lave e al. (1984), di Scribner (1984) e di Beach (1988) per ricostruire il contributo all’affermazione del concetto di azione situata ed ancorata allo spazio, come dimensione ecologica dell’azione. Si rimanda al loro articolo per un maggior approfondimento: Conein, Jacopin, 1994.

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trad. it. 2003) ‒ poi ripreso dall’etnometodologia di Garfinkel (1967) che enfatizzerà lo

studio del “contesto” di produzione dell’azione ‒ che parla di “sistema di attività

situata” o di “incontro” per indicare come nell’atto di comunicare due persone

rendano manifesto ed accessibile uno spazio d’attenzione in cui l’azione è, appunto,

situata, ovvero orientata e dipendente dall’azione del destinatario della

comunicazione. La situazione, dunque, è il risultato dell’interazione comunicativa tra gli

attori che vi partecipano32.

Per indicare l’alternativa suggerita dall’etnometodologia nella ridefinizione del

problema dell’azione orientata ad uno scopo, Suchman (1987) introduce il termine di

“azione situata”. Questo termine sottolinea come ciascun corso d’azione dipenda da

fattori essenziali di “utilità materiale e circostanze sociali” (ibidem).

L’analisi situata ed il paradigma che la esprime (Conein, Jacopin, 1994) tratta,

seppur in studi differenti, di questioni identiche: “l’ambiente come risorsa, la

contestualizzazione nella presa d’informazione e il ruolo degli oggetti informativi come

mediatori tra il mondo e l’attività” (Conein, Jacopin, 1994: 496).

Come ricorda Schütz (1979), lavorare è “uno stare nel mondo” legato alla

realizzazione di un progetto mediante attività fisiche che sono, dunque, situate sia nel

tempo che nello spazio. Il luogo di lavoro diviene un contesto attivo e non un freddo

contenitore di attività. Il contesto ci aiuta a ricordare, permette di fare alcune cose e di

non farne altre ‒ che, per esempio, potrebbero mettere a repentaglio la nostra

sicurezza ‒ sollecita un nostro intervento mediante segnalazioni visive o uditive, come

il contesto/cantiere mette in risalto (Cap.5).

Il paradigma dell’azione situata, dunque, mi ha permesso di osservare le

attività di controllo e mediazione della sicurezza dei responsabili di cantiere, oltre che

le interazioni che gli stessi intrattengono con gli operai che svolgono quotidianamente

il lavoro nei loro canteri e, soprattutto, mettere in evidenza l’importanza del “contesto”

32

Prima dell’antropologa, anche Winograd e Florens (1986), usano tale termine nell’ambito degli studi sull’intelligenza artificiale e, con Suchman, sono i primi a studiare l’interazione uomo-macchina, sostenendo che lo studio del concreto modo in cui le persone usano il computer possa essere utile alla progettazione di interfacce grafiche più adatte. Questo in contrapposizione allo studio di rappresentazione astratte della conoscenza e all’interpretare le attività degli utilizzatori come individuali, cognitive, pianificate e pianificabili.

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106

nello svolgimento delle attività legate alla sicurezza sul lavoro ‒ le attività di controllo

in senso stretto ‒ e le attività lavorative più o meno sicure in generale.

Il lavoro è assunto qui in un quadro interpretativo e metodologico che lo

definisce come “attività situata entro un contesto materiale e culturale (i cui confini

sono tracciati dalle attività stesse che stabiliscono connessioni in azione) e mediata dal

corpo, dagli oggetti e dalle tecnologie, dall’insieme delle regole costitutive e costituenti

tale contesto, e dalle pratiche discorsive che rappresentano e costituiscono le

relazioni” (Bruni, Gherardi, 2007: 18), tutti elementi che incontreremo in cantiere (Cap.

4 e Cap. 5).

2.2.2.3 Etnometodologia e lo studio del lavoro

Il quadro teorico preso a fondamento della concezione di pratica è quello

dell’etnometodologia33 che, rispetto alla presente ricerca, si sviluppa anche in una

proposta teorica e metodologica nello stesso tempo.

Un contributo importante per lo sviluppo dell’etnografia organizzativa, infatti,

è offerto dall’etnometodologia di Garfinkel (1967) che fu il primo a studiare i contesti di

lavoro nel senso schutziano del termine, ovvero quale insieme di esecuzioni coordinate

(non importa se in maniera intenzionale o meno) che richiede “movimenti corporei

incardinati nel mondo” (Schütz, 1979: 186).

Entro la prospettiva etnometodologica, dunque, l’etnografia diviene una

pratica di ricerca privilegiata, in grado di portare alla luce “il senso condiviso”, “il dato

per scontato” e di mostrare come l’“azione razionale” risulti tale perchè “costruita”.

“Dove altri potrebbero vedere “cose”, “dati” o “fatti della vita”, gli etnometodologi

vedono (o cercano di vedere) un processo: il processo attraverso cui le caratteristiche

33

Il termine “etnometodologia” sta ad indicare come le persone – etno – usano “in modo incessante e senza tregua, senza rendersene conto, in modo esplicito” ‒ i metodi – per stabilire formalmente o no “le basi ragionevoli” del proprio e dell’altrui comportamento nel mondo” (Fele, 2002: 17). È una sorta di “logica pratica che opera in tutte le condizioni ordinarie nelle quali si trova a operare e vivere un membro della propria società” (ibidem: 20). Accanto all’autore che è il fondatore principale di questo approccio, Garfinkel (1967), vi sono anche altri autori che appartengono al filone etnometodologico: Pollner, 1974 a; Sacks, 1963; 1989; Lynch, 1999; mentre tra gli autori italiani si ricorda Giglioli e Dal Lago, 1983; Fele, 2002, ai quali si rimanda per ulteriori approfondimenti anche bibliografici.

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percepite come stabili di contesti socialmente organizzati sono continuamente create e

confermate (Pollner, 1974b: 27)” (in Fele, 2002: 62).

L’etnometodologia, inoltre, analizza le pratiche del ragionamento e dell’azione

attraverso le quali le persone dimostrano, continuamente e in qualsiasi contesto della

vita sociale, la correttezza del proprio agire e del proprio parlare. Garfinkel, in

particolare, è interessato a studiare i metodi, gli strumenti, i modi, le tecniche, le

procedure che le persone utilizzano per svolgere le loro attività quotidiane. Per

l’autore, quindi, “le attività mondane consistono di questi metodi. La conoscenza di

senso comune che le persone possiedono nello svolgere le loro attività ordinarie è

anzitutto una conoscenza procedurale pratica” (Fele, 2002: 22).

Alla base del programma di ricerca di Garfinkel ‒ qui sottolineato come

centrale per lo svolgimento della presente ricerca ‒ vi è ciò che lui stesso chiama il

missing what degli studi sul lavoro, ovvero l’analisi di ciò che rende un lavoro

“propriamente, intrinsecamente, un lavoro, il “cosa” che è taciuto e assente nelle

classiche analisi organizzative” (Fele, 2002: 145). È il “lavoro come tale, nella sua

materiale specificità” ad essere poco analizzato ed è proprio quello che occorre

riportare al centro degli studi organizzativi. Inoltre, è questa “materiale specificità” a

permettere ad una persona di svolgere il proprio lavoro in maniera competente34 e,

all’etnografo, di descrivere in maniera dettagliata sia lo sciame di saperi e abilità che le

persone usano informalmente nel proprio mestiere senza neanche saperlo, sia le forme

di coordinamento e di comunicazione che esse effettivamente utilizzano durante il

proprio lavoro (Fele, 2002)35.

Dirigere lo sguardo e l’attenzione proprio su questa dimensione “procedurale”,

data per scontata e “competente” delle pratiche lavorative si è dimostrato interessante

34

O meglio “vulgarly competent” nel senso etnometodologico di “pratiche incarnate la cui efficacia ha raggiunto una tale ordinarietà e una tale “trasparenza strumentale” che non richiedono nessuna credenziale” (Garfinkel, Lynch, Livingston, 1981, p. 140, n. 26, citato in Fele, 2002: 147).

35 Tali considerazioni, come si vedrà nel prossimo paragrafo, sono state fatte proprie dai

ricercatori appartenente alla corrente dei Workplace Studies (Heath, Luff, 1992; 1994; Heath, Button; 2000), i quali hanno messo in evidenza proprio questa dimensione di “coordinamento e comunicazione” che dà del lavoro una immagine rinnovata. Il lavoro non più come mansione individuale da svolgere entro il proprio spazio personale, ma il lavoro nella sua dimensione sociale e relazionale, collaborativa al di là dei compiti e delle funzioni. Solo osservando ciò che ciascuno fa realmente in un contesto di lavoro è possibile far emergere la dimensione collettiva del lavoro ed anche della sicurezza.

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ed utile per la comprensione delle attività di lavoro svolte nei cantieri edili qui

considerati in relazione alla sicurezza sul lavoro.

Entro una tale prospettiva, inoltre, risulta impensabile l’idea che un individuo

possa lavorare nel vuoto sociale più assoluto. E la non individualità dell’attività

lavorativa porta con sé molte considerazioni circa la sicurezza sul lavoro, proponendo

una chiave di lettura della stessa in termini collettivi e non solo di responsabilità

individuale. Il lavoro come pratica sociale sottolinea l’interazione quotidiana che gli

attori intrattengono tra loro, a fini collaborativi e comunicativi, e con gli oggetti del loro

lavoro/mestiere (Cap. 4, e Cap. 5).

Nel caso della presente ricerca, quindi, l’approccio etnometodologico ha

permesso di cogliere il dato per scontato che sta dietro, per esempio, al non rispetto di

alcune norme di sicurezza; o agli accordi “taciti” tra un capocantiere e/o assistente e gli

operai circa le situazioni di “deroga” alla normativa. È stato possibile, dunque,

ricostruire i meccanismi che tessono un cantiere e ne danno una configurazione situata

e, perciò, specifica.

Le attività sociali, infine, sono rese accountable in quanto sono azioni

reciprocamente visibili ed intellegibili36, l’espressione è, dunque, sinonimo di

“osservabile-e-descrivibile”, insieme e nello stesso tempo (Garfinkel, 1967), dai colleghi

e dallo stesso etnografo.

2.2.3 Lo studio dei “contesti di lavoro”

Il paradigma dell’azione situata (Suchman, 1987; Conein, Jacopin, 1994) e

l’approccio etnometodologico (Garfinkel, 1967; Giglioli, Dal Lago, 1983; Fele, 2002),

oltre a essere la base della “svolta pratica” (Gherardi, 2000; 2000a) degli studi sul

lavoro, sono anche il presupposto teorico e metodologico per lo studio “naturalistico”

dei contesti di lavoro.

36

Una caratteristica che emerge in diversi e concreti contesti di lavoro analizzati attraverso l’etnografia, come per esempio i centri di coordinamento principalmente studiati dai Workplace Studies. In una ricerca etnografica in un Call Center, per esempio, è emerso come le azioni delle operatrici telefoniche siano rese “visibili, udibili ed intellegibili” alle altre in quanto sono vere e proprie performance pubbliche che si realizzano in una piattaforma open space, mostrando anche quanto le operatrici siano abili nel cogliere le opportunità offerte dall’infrastruttura architettonica nella quale svolgono la loro attività lavorativa (Pentimalli, 2008).

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I Workplaces Studies, infatti, sono un importante filone di studi che raggruppa

diversi ricercatori che da circa vent’anni hanno diretto i loro interessi di ricerca sullo

studio dei concreti contesti di lavoro e sulle problematiche dell’interazione sociale e

materiale.

Il termine ombrello “Workplace Studies” (Heath, Knoblauch, Luff, 2000)

ricomprende molti lavori empirici apparsi già qualche anno prima ‒ come Plans and

Situate Action di Suchman del 1987 ‒ e che a questa corrente possono essere

ricondotti. La caratteristica che accomuna tali studi, spesso provenienti da ambiti

disciplinari differenti, è il “radicamento locale e sociale dell’attività lavorativa” (Parolin,

2008: 145).

Questi autori ‒ insieme alle ricerche per esempio di Heath e Luff (1992; 1994),

Heath e Button (2002); Joseph (1994) ‒ che hanno dato origine ai Workplace Studies,

sono accomunati da un approccio etnometodologico allo studio del lavoro in un

ambiente “naturale”, appunto il “contesto di lavoro”.

Il loro intento è studiare il come si lavora, piuttosto che il come si dovrebbe

lavorare, offrendo una descrizione dettagliata delle forme di coordinamento e di

comunicazione “realmente” agite durante le quotidiane attività di lavoro. Gli studi

hanno messo in evidenza, inoltre, come l’introduzione di sistemi computerizzati, o

tecnologici in genere, spesso non sia preceduta da uno studio preliminare del modo

contestuale e quotidiano di lavorare e non si preveda il fatto che tale introduzione

generi una “rottura” nelle abituali modalità di lavoro37.

37

Emblematico è il caso dell’introduzione di un sistema computerizzato per la gestione delle chiamate delle ambulanze nel centro di servizi di ambulanze di Londra (Heath, Luff, 2000) e che fu parzialmente ritirato perché creava notevoli difficoltà e non teneva conto di tutta una serie di “dato per scontato” che rappresentano il sapere tacito ed incorporato delle pratiche lavorative.

Studi pionieristici sono stati condotti, per esempio, nel centro di controllo e di coordinamento del traffico della Bakerloo Line della metropolitana di Londra (Heath, Luff, 1992); sulla linea A della metropolitana (RER) di Parigi (Joseph, 1994); sul traffico aereo di un aeroporto della costa ovest degli USA (Suchman, 1997). Si ricordano, inoltre, anche alcuni contributi italiani: Mondada (2003) sui membri di équipe chirurgiche; Fele (2005) sugli operatori del 118; Cahour e Pentimalli (2005) sulle cameriere di un bar-tavola calda; Pentimalli (2008) sulle operatrici di Call Center; Bassetti (2008) su un centro di coordinamento per la gestione delle emergenze sanitarie.

Va ricordato, ancora, come la proposta metodologica dei Workplace Studies non nasca dal nulla, ma si ponga in continuità con gli studi sulla scienza o “di laboratorio” (Latour, Woolgar, 1979; Knorr Cetina, 1981; Fujimura, Star, Gerson, 1987) che hanno indagato le pratiche della ricerca scientifica sottoponendo a dura critica la pretesa oggettività della conoscenza di matrice positivista. Tali studi, infine, hanno anche

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L’introduzione di un nuovo artefatto spesso non tiene conto della realtà in cui

va ad inserirsi (ancor di più se “calato dall’alto” come nel caso dei Dispositivi di

protezione individuale) e soprattutto non riconosce il fatto che esso incorpori

conoscenza e ne permetta la sua distribuzione nell’ambiente di lavoro, tra attori umani

e non-umani (Latour, 1993). Ciò, dunque, richiede che l’artefatto, i Dpi nel caso della

presente ricerca, sia “sperimentato” dagli attori che devono imparare a conoscerlo, a

sfruttarne le caratteristiche, a raggirarlo e, soprattutto ad adattarlo alle loro modalità

di lavoro.

Altro fattore interessante messo in risalto dai Workplace Studies, è che nelle

pratiche lavorative ed organizzative gli artefatti e le tecnologie “acquisiscono quel

valore specifico che dà loro senso e significato” (Strati, 2008: 91): nell’interazione che si

stabilisce quotidianamente tra gli attori e gli artefatti, gli stessi attori contribuiscono

alla “costruzione” dei loro artefatti (Cap. 5).

I luoghi di lavoro maggiormente studiati sono i centri di controllo e

coordinamento, descritti come luoghi all’interno dei quali i partecipanti sono orientati

ai problemi di spazio e di tempo e, nella risoluzione di problemi che si verificano sotto

gli occhi degli attori, vengono coinvolte persone e risorse spesso localizzate altrove, a

distanza, ma che possono fornire una risposta rapida e risolutiva. Particolare

attenzione, dunque, è riservata allo studio della tecnologia, al suo uso e alla possibilità

che essa offre di rendere “visibili” e accessibili anche chi è fisicamente distante dalla

situazione, permettendo l’interazione e la coordinazione a distanza, quel “contatto di

gomito” (Hughes, 1958) che la non compresenza fisica in uno stesso spazio non

potrebbe garantire.

Nel caso della presente tesi, però, è di particolare interesse per la codifica di

alcune evidenze emerse durante l’osservazione dei cantieri un altro elemento emerso

dagli studi che fanno parte di questo approccio: la dimensione “collettiva” del lavoro.

dato origine al campo del Computer Supported Cooperative Work (CSCW) che ha lo scopo di progettare sistemi tecnologici in grado di facilitare e agevolare le decisioni collettive e il lavoro collaborativo “attraverso la creazione di uno spazio mediale condiviso in tempo reale tra utenti anche fisicamente non prossimi” (Fele, 2002: 193). Come ricorda Suchman (e al. 1999) “leggere un nuovo artefatto è un’attività intrinsecamente problematica” (394).

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Il lavoro, o meglio l’attività lavorativa, è inteso come prodotto collettivo di

pratiche che coinvolge diversi attori, strumenti, tecnologie, che “simmetricamente”

contribuiscono alla definizione della situazione (Latour, 1992). La dimensione collettiva

del lavoro, infatti, riposa sull’abilità di mantenere un orientamento comune dell’attività

e un’attenzione distribuita (Heath, Luff, 1992; Joseph, 1994) che fa sì che siano le

pratiche comunicative socialmente organizzate a coordinare le attività e i compiti, nei

centri di coordinamento, come nei cantieri osservati (Cap. 5).

Emergono chiaramente le implicazioni della prospettiva costruzionista: da

soggetti ininfluenti sul processo di costruzione di tecnologie e artefatti, gli utenti si

trasformano in attori del processo collettivo di costruzione sociale della loro “realtà”.

L’analisi tradizionale del lavoro si è principalmente concentrata sullo studio

della divisione del lavoro in attività e compiti e, più in generale, sulla dimensione della

valutazione e progettazione delle mansioni (esemplare è il contributo di Mintzberg,

1996). Il filone di studi racchiuso sotto l’etichetta ombrello di Practice-based Studies,

poco prima richiamato, insieme ai Workplace Studies pongono invece l’attenzione sulle

attività quotidiane del lavorare.

Entro tale quadro interpretativo, le pratiche lavorative ‒ come quelle di

controllo e mediazione della sicurezza osservate nei cantieri edili della CortemSpa ‒ e

la loro ri-produzione diventano le unità di analisi e di ricerca. Il passaggio può essere

espresso in termini di un cambio d’attenzione: dalla dimensione produttiva del lavoro

alla sua dimensione riproduttiva, sia della società che dei rapporti che in essa hanno

luogo (Bruni, Gherardi, 2007).

2.3 La metodologia di ricerca

La scelta di condurre un’etnografia di un cantiere edile, “al singolare” (Cooper e

Law, 1995) ‒ ovvero in una prospettiva di studio “prossimale” che si rifiuta di dare

l’oggetto di studio per scontato e punta l’accento sull’organizzazione come processo

fra elementi eterogenei (ibidem) ‒ può rientrare, come affermano Barley e Kunda

(2001), nella necessità di “riportare il lavoro negli studi organizzativi”.

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112

I contributi teorici “scelti” a sostegno dell’analisi del cantiere edile, e delle

pratiche della sicurezza che in esso hanno luogo, si collocano proprio entro una tale

prospettiva: riportare un “concreto” contesto di lavoro all’interno degli studi

organizzativi .

I due autori, infatti, ricordano come dopo un’iniziale fase in cui la teoria

organizzativa era basata sullo studio del lavoro38 quotidiano ‒ condotta attraverso la

presenza degli studiosi sul campo, anche se non propriamente in veste di etnografi ‒ è

seguita una fase in cui l’analisi dei contesti lavorativi ha ceduto il passo alla necessità di

formulare “generalizzazioni” attraverso “concetti astratti e trasversali” ai diversi ambiti

di studio39, comportando l’abbandono dello studio delle pratiche lavorative (Barley,

Kunda, 2001).

L’esortazione, dunque, a riportare il lavoro negli studi organizzativi ‒ Bringing

Work Back In ‒ ha delle implicazioni metodologiche come il ricorso a metodi qualitativi

(etnografie, osservazione partecipante) in grado di “produrre descrizioni dettagliate

della vita lavorativa * … + ed esaminare le pratiche lavorative e le relazioni in situ”

(Barley, Kunda: 84, corsivo aggiunto).

2.3.1 L’etnografia

Ispirato dall’“approccio ecologico” inaugurato nella prima metà del Novecento

con la Scuola di Chicago di Park ‒ che invita i sociologi a “guardarsi intorno”, uscire

dalle università e “sporcarsi le mani” per entrare in contatto con la realtà che si intende

studiare ‒ il metodo etnografico ha origine negli studi antropologici di popolazioni e

38

Esempi: Taylor (1911) e lo Scientific Management basato su studi condotti in fabbrica ed officine; la Scuola delle Relazioni Umane (fine anni ’30), con gli esperimenti ad Hawthorne; Gouldner, (1954) e la fabbrica di gesso; Dalton (1950) e i manager; Blau (1955) e l’agenzia dei servizi sociali. Oltre alle ricerche del Tavistock Institute che tra gli anni ’50 e i primi anni ’60 produsse studi “contenenti ricche descrizioni di pratiche lavorative associate a differenti tecnologie e forme dell’organizzare” (Barley, Kunda, 2001: 81).

39 È System of Organization, di Miller e Rice, del 1967, a rappresentare per i due autori l’opera e

l’anno del cambiamento. Secondo Barley e Kunda, infatti, i due autori presentano “la teoria dei sistemi socio-tecnici come una variante della generale teoria dei sistemi in cui le transazioni (gli scambi o più in generale le relazioni) di un’organizzazione con il suo ambiente divennero concetto dell’organizzare” (ibidem: 81).

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culture “altre” da quelle occidentali40. Se oggi è stata abbandonata l’idea di

“oggettività” dei resoconto etnografico di origine antropologica, essa ha però

consegnato diverse indicazioni sul fare etnografia: recarsi sul campo; osservare

partecipando; accogliere la diversità; produrre “resoconti etnografici”, ricordando però

che queste stesse indicazioni hanno portato a quello che è stato definito “realismo

etnografico” (Clifford, Marcus, 1997; Van Maanen, 1988 cit. in Bruni, 2003).

Le ricerche della scuola di Chicago, che hanno contribuito a mostrare come la

cultura non sia un valore assoluto e che ciò che consideriamo “normale” sia il frutto di

una serie di interpretazioni soggettive legate alle diverse esperienze degli individui

(Bruni, 2003), hanno fornito diversi contributi nel campo dell’etnografia (Whyte, 1943;

Hughes, 1958; Becker, 1987, per esempio) e, successivamente, dell’etnografia

organizzativa (Gouldner, 1970; Kunda, 2000; Strati, 2000; Gherardi, Nicolini, 2001 per

citare solo alcuni) che offrono, a loro volta, importanti spunti di riflessione e di “pratica

etnografica” utile ad un ricercatore nel suo “processo di apprendimento in pratica”.

Un “approccio etnografico” ai fenomeni permette di non dare nulla per

scontato, al contrario il fulcro centrale è proprio la problematizzazione del “senso

comune”, un disegno di ricerca flessibile e l’uso di dati dialogici (più che numerici), al

fine di comprendere la realtà osservata attraverso le parole degli attori e le impressioni

derivate dall’assistere alle loro interazioni (Bruni, 2003). Lo scopo, infine, è di fornire

ciò che Geertz (1973) ha definito come thick description, ovvero una descrizione

“densa” della realtà osservata, in grado di mettere in luce i principali processi della vita

quotidiana.

L’etnografia organizzativa, dunque, è sia una metodologia di ricerca basata

sull’osservazione e sulla descrizione, che una prospettiva interpretativa per studiare le

attività dell’organizzare. La scelta di evidenziare come l’attività dell’organizzare sia più

adatta in luogo di “organizzazione” è già stata esplicitata nel capitolo precedente, qui

40

Allo studio di Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, del 1922, si deve la prima definizione di etnografia, la quale permette di cogliere il punto di vista e la visione del mondo dell’indigeno, primo soggetto/oggetto privilegiato di questo nuovo approccio di studio. Lo studio etnografico in ambito antropologico (Boas; Radcliffe-Brown; Benedict; Mead), dunque, aveva come obiettivo quello di descrivere oggettivamente e in modo onnicomprensivo la cultura di un gruppo sociale, “a partire da un’idea funzionale di cultura quale “valoro assoluto”, strumento utile a mantenere la coesione e l'omogeneità di valori e norme delle popolazioni" (Bruni, 2003: 12).

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basti ricordare come l’interesse sia stato concentrato sui processi, dei quali

l’organizzazione risulta esserne un risultato, “un artefatto sociale” (Cooper, Law, 1995).

Relativamente ad un campo così complesso e poco esplorato come la sicurezza

sul lavoro in cui i maggiori contributi sono ispirati da un intento “sistemico” di dar

conto di grandi categorie o generalizzazioni (per esempio quando si parla di mancanza

di cultura della sicurezza; o negli approcci ergonomici di prevenzione [Mantovani,

2000] quando è “l’affidabilità del sistema” ad esser ritenuto un aspetto importante per

la sicurezza sul lavoro) o, al contrario, di spingere l’analisi del fenomeno sino al singolo

individuo e i suoi atteggiamenti e comportamenti (come nelle analisi di psicologia sul

lavoro che studiano anche la percezione del rischio nei singoli individui), affrontare una

ricerca etnografica poteva dimostrarsi particolarmente insidioso.

Una prima stesura del progetto di ricerca prevedeva, però, una più generica

osservazione di una realtà di cantiere, al fine di poter eventualmente somministrare un

questionario a quei personaggi che sarebbero stati caratterizzati come “privilegiati”

dopo un primo contatto con il campo, ovvero tutti coloro che avevano a vario titolo a

che fare con la sicurezza. L’idea che mi guidava era quella di considerare il nuovo Testo

normativo come una “riforma” e osservarne, quindi, in accordo con la teoria della

traslazione, il processo in cui lo stesso testo normativo si “traduce/trasforma” in

pratica (Gherardi, Lippi, 2000; Czarniawska, Sevon, 1996).

In quel periodo ero fortemente orientata dalla denominazione del dottorato di

ricerca, ovvero “Sistemi sociali, organizzazione, analisi delle politiche pubbliche”.

Partendo dunque, da una analisi della policy alla base dell’oggetto di studio (la

sicurezza sul lavoro, cfr. Cap. 1), mi sarei concentrata poi sulla dimensione

organizzativa, ovvero osservare come in un dato contesto organizzativo si fa sicurezza.

L’ipotesi di base era che una “riforma normativa” (ovvero l’emanazione del

Testo Unico) non può essere considerata una condizione sufficiente per ottenere un

calo significativo degli infortuni sul lavoro, ovvero ad assicurare una sostanziale

prevenzione degli infortuni e un ambiente di lavoro più sicuro. Tale ipotesi richiedeva,

dunque, di osservare da vicino una realtà concreta in cui tale Testo è tradotto.

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Tutto questo, però, all’inizio è stato un po’ nebuloso, la difficoltà di trovare il

contesto organizzativo, una certa inquietudine ‒ dovuta al non riuscire a esprimere le

sensazioni che avevo in merito al fenomeno, alla volontà di dare una lettura che non

imboccasse la strada sicura della logica “rispetto/non rispetto delle norme”, ma il voler

andare oltre, dietro quel che appare come il non rispetto della disciplina in materia

della sicurezza ‒ che mi spingeva ad avvicinarmi agli operai (quale categoria

maggiormente esposta al problema degli infortuni sul lavoro), al loro modo di vedere la

questione e a come quotidianamente agiscono la sicurezza.

Il contatto con il campo ha riproposto le due principali tematiche “del rispetto

e del non rispetto delle norme”, ma ha evidenziato altri argomenti per cogliere ciò che

sta dietro ad ognuna di esse. Anche per quanto riguarda la volontà di osservare gli

operai ho dovuto scontrarmi con la realtà: la impossibilità di seguire direttamente degli

operai al lavoro ha lasciato il posto all’osservazione e all’analisi delle pratiche di

controllo e mediazione della sicurezza svolte dalle diverse figure “di cantiere” (Cap. 3).

Attraverso loro, però, è stato possibile osservare i processi di interazione e mediazione

quotidiana che gli stessi intrattengono con gli operai, finendo con l’offrirmi la

possibilità, seppur mediata, di costruire l’oggetto della presente tesi: le pratiche del

controllo e di mediazione della sicurezza.

La generica osservazione “concessami” inizialmente ‒ seguire le “figure della

sicurezza” durante le loro attività di controllo dei cantieri ‒ ha potuto concretizzarsi in

una più compiuta etnografia. Il posto del questionario, dunque, è stato preso da una

etnografia che ha permesso di dare un taglio decisamente più “qualitativo” alla ricerca.

La ricerca qualitativa, infatti, mi ha permesso di mettere in risalto le interazioni e le

interpretazioni degli attori organizzativi circa i diversi aspetti ed eventi della vita

organizzativa in relazione alle pratiche della sicurezza, ponendo “l’enfasi sulle

sfumature che vi emergono” (Strati, 2008: 151).

Come fare una etnografia? Per rispondere a questa domanda ho provveduto a

consultare diversi testi (Atkinson e al., 2001; Silverman, 2002; Dal Lago, De Blasi, 2002;

Bruni, 2003; Marzano, 2006, Becker, 2007) e tutti riuscivano a confermare la mia

volontà di quanto fare un’etnografia di un cantiere potesse permettermi di vedere da

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vicino cosa accade quotidianamente in un particolare posto di lavoro e, soprattutto, in

un luogo tanto carico di stereotipi e definizioni come un cantiere edile. La

consapevolezza che fare etnografia e interpretare i dati siano due attività inscindibili mi

ha accompagnato durante la presenza sul campo e in fase di scrittura. L’analisi dei dati

dell’osservazione, ovvero delle note di campo raccolte in situ, è un’attività che richiede

al ricercatore di “dare forma” al materiale raccolto e, dunque, di leggerlo entro uno

schema interpretativo di riferimento. Inoltre, lo stile “impressionistico”, come quello

utilizzato da Strati (2000), permette a chi scrive di tentare di rendere la durezza del

campo osservato, le difficoltà esperite durante le fasi di ricerca, il costante processo di

negoziazione e rendere visibile quale “postura” (Emerson e al. 1995; Emerson, Fretz,

Shaw, 2001) si è assunta.

La presente ricerca può essere considerata un altro esempio di “etnografia

‘situazionale’”, che si ispira alle ricerche condotte da Gherardi e Nicolini (2001) sul

tema della sicurezza e che permette di arrivare sin dentro il contesto scelto, avvicinarsi,

per quanto possibile, agli attori e, soprattutto, alle loro pratiche lavorative. Come i due

autori ricordano, infatti, “invece di mirare alla descrizione di un più ampio sistema

culturale edilizio, ci si concentra sulla comprensione di un aspetto particolare di tale

sistema” (ibidem: 232), ovvero, in questo caso, il “fare sicurezza sul lavoro” nella

pratica quotidiana di cantiere. Gli autori, inoltre, ricordano come per Alvesson (1996)

l’approccio “situazionale” alla conduzione di una etnografia implichi concentrarsi su

una situazione limitata nel tempo e nello spazio che diviene il “fenomeno” focale

dell’osservazione e permette al ricercatore di produrre un resoconto in cui siano

riconoscibili sia l’attore che il ricercatore ed il contesto istituzionale nel quale sono

immersi.

Lo stile che si è scelto è quello narrativo, certi che anche la presente

narrazione, frutto delle note raccolte durante l’osservazione sul campo attraverso la

pratica dell’osservazione, dello shadowing e delle interviste, costituisca un modo per

creare e negoziare significati, continuità temporale e, al tempo stesso, identità

(Jedlowski, 2000; Czarniawska, 2000; Poggio, 2004).

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Conoscere da vicino la realtà di cantiere, infine, come l’etnografia permette di

fare, significava anche dotarsi di quello “sguardo denso di teoria” di cui parlano Dal

Lago e De Blasi (2002), di cui in un primo periodo non riuscivo ancora a dotarmi per via

di un certo attaccamento ad una “visione normativa” del concetto di sicurezza sul

lavoro (come quello di implementazione) e del tema troppo sfuggente. D’altra parte,

però, ero interessata ad osservare la sicurezza “in pratica” (Gherardi, Nicolini, Odella,

1997 a, b), ovvero il come si fa sicurezza nei cantieri e come si trasla la sua definizione

normativa nella pratica quotidiana dei cantieri edili.

Il prosieguo di questa “storia” è stato già affrontato lungo il racconto delle

difficoltà legate all’accesso al campo e al suo processo di negoziazione (§ 2.1), a

testimonianza di come la stessa narrazione possa essere considerata “come un modo di

conoscere e un modo di comunicare” (Gherardi, 2000: X, “Presentazione” in

Czarniawska, 2000).

2.3.2 Lo shadowing e l’osservazione

L’accesso al campo, quello del primo cantiere in cui la permanenza è durata

circa tre mesi, non è stato condotto totalmente in autonomia, ma ha preso la forma di

uno shadowing “alternato” che mi ha permesso di seguire “come un’ombra” dapprima

il capocantiere, il signor M., poi il suo assistente, il signor P.

Il contatto con il campo ha permesso, in particolare, l’osservazione delle

pratiche di controllo e mediazioni della sicurezza svolte dai responsabili del cantiere.

Attraverso le interazioni dei responsabili di cantiere con gli operai, invece, ho

potuto cogliere anche i significati che questi ultimi attribuiscono alla sicurezza,

sostenuti inoltre dalle interviste a cui alcuni operai si sono sottoposti.

La pratica dello shadowing ‒ sia nell’accezione proposta da Marianella Sclavi

(2000) come metodologia a sé stante che come insieme di metodi orientati, come

proposto da Patricia Sachs (1993) ‒ è tesa a “a raccogliere dati relativi a fenomeni

rilevati sul campo all’interno di predeterminati periodi di tempo” (Bruni, 2003: 87;

Czarniawska, 2007). La particolarità della vita di cantiere, il non poter essere

“mascherabile” come “uno di loro” e la criticità della tematica che stavo studiando (le

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pratiche della sicurezza), non mi hanno permesso di muovermi agilmente tra gli attori

del cantiere. Inoltre, come ricorda Czarniawska (2007), l’osservazione non partecipante

di cui lo shadowing ne è una modalità (l’altra è l’osservazione stazionaria) implica una

mutua osservazione, uno stabilire similarità e differenze tra chi osserva e chi è

soggetto/oggetto di osservazione, oltre ad una continua negoziazione della propria

presenza ed attività. Nonostante queste difficoltà, però, sono riuscita a “far parte” del

cantiere per quasi tre mesi, dopo i quali ho potuto osservare altri due cantieri, in minor

tempo, ma che alla fine hanno permesso di avere una rappresentanza delle tipologie di

cantiere che caratterizzano questa grande opera di costruzione (Cap. 3).

La tenacia ha dovuto accompagnarmi per tutto il tempo, in quanto il ritmo al

quale mi sono dovuta adeguare è stato alquanto pesante. Ho deciso di far parte del

gruppo da osservare, di accorciare in qualche modo la distanza che mi separava dalla

loro fatica e, forse, di usare la fatica del mio percorso per condividere e dare voce alla

loro esperienza lavorativa.

La giornata d’osservazione del primo cantiere iniziava intorno alle 7 del

mattino, ora in cui il cantiere apriva le sue porte e la vigilanza privata dello stesso

lasciava il posto ad un animato luogo fatto di persone e tanti mezzi meccanici (Cap. 3;

Cap. 4). L’attività di shadowing si svolgeva in base ai ritmi di lavoro del capocantiere

CortemSpa nel primo periodo e del suo assistente, nel secondo. L’osservazione si

concludeva solitamente intorno alle 13,30, momento della pausa pranzo degli attori

che seguivo. Durante la giornata vi era un susseguirsi di personale addetto ai diversi

controlli sulla sicurezza (Cap. 3; Cap. 4), controlli tecnici sui materiali e sulle

lavorazioni, ma anche visite da parte di delegazioni di paesi stranieri interessati alle

modalità di costruzione di una linea metropolitana.

Le tematiche oggetto delle conversazioni con il capocantiere e l’assistente

vertevano principalmente sulle attività che si svolgevano nel cantiere stesso:

costruzione, demolizione, coordinamento, ottenimento di permessi per recintare le

aree della città interessate dai lavori, richieste di modifica delle lavorazioni in corso,

richieste di materiali, carico e scarico di materiale di risulta (prodotto dagli scavi);

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rapporti con gli archeologi (anche se in realtà erano tutte donne ed un solo uomo) ed

altro ancora.

La tematica della sicurezza, ed i significati che ad essa attribuiscono gli attori

del cantiere, è stata anch’essa “raccontata” attraverso i personaggi dello shadowing ed

osservata più compiutamente attraverso “i giri di controllo” effettuati con i diversi

responsabili. Inoltre, ho anche cercato di parlare direttamente con gli operai, opera

non proprio semplice, ma che man mano che proseguiva la mia presenza sul cantiere,

mi permetteva di chiedere loro delle informazione in più.

Lo shadowing del capocantiere e del suo assistente, infatti, mi ha permesso di

osservare le quotidiane pratiche di controllo e di mediazione intrattenute

quotidianamente con gli operai e con le altre “figure della sicurezza”, le interazioni e i

processi di negoziazione incessante sulle attività e sulle modalità di lavoro, le

rappresentazioni e le messe in scena quotidiane, le performance di tutti coloro che

abitano il cantiere e fanno sì che esso assuma una data configurazione, data per

scontata proprio da coloro che lo abitano.

Compito dell’attività di interpretazione del ricercatore è, dunque, fornire gli

strumenti per comprendere e rendere visibile come l’ordine osservato (ovvero l’action-

net in esame) sembri tale perchè è il frutto di una attività di costante negoziazione, ma

che potrebbe essere diverso da come appare (Star, 1991). A permettere di cogliere

questa dimensione “collettiva” della sicurezza è considerarla come un tratto delle

relazioni di un tessuto di attori e intermediari che si manifesta come capacità di

modificare le pratiche e gli ordinamenti sociotecnici che ne fanno parte (Nicolini, 2001).

Verso la fine di settembre 2009, mentre realizzavo le interviste agli operai del

primo cantiere (§ 2.3.3), ho iniziato a negoziare la disponibilità ad osservare un altro

cantiere che si trovasse ad un diverso stato di lavorazione, successivo a quello che

stavo osservando. Anche in questo caso il criterio di “assegnazione” è stato quello della

“tranquillità”. A seguito della mia richiesta, quindi, a metà ottobre 2009 sono passata

ad osservare il secondo cantiere, dove sono rimasta per circa una settimana.

Anche l’osservazione del secondo cantiere si è svolto con le stesse modalità,

seguendo uno dei due assistenti responsabili del cantiere. Le giornate di osservazione

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sono state inferiori a quelle dedicate e a disposizione del primo cantiere, ma avendo

alle spalle una prima esperienza, ho potuto muovermi in maniera più accorta e mirata

sul campo. Il contatto con gli operai è avvenuto anche in questo cantiere in diverse

brevi occasioni. Il rapporto instaurato tra capocantiere e assistenti e gli operai delle

ditte che vi lavoravano erano diversi da quelli osservati nel primo cantiere. Le ditte, qui,

si caratterizzavano per una maggiore autonomia rispetto ai responsabili di cantiere

della CortemSpa, ma l’osservazione delle pratiche di controllo e mediazione di questi

ultimi ha comunque confermato alcune “indicazioni” già emerse durante l’esperienza

di shadowing.

Durante le osservazioni del secondo cantiere, giocando d’anticipo rispetto ai

già lunghi periodi di negoziazione delle prime fasi di accesso al campo, ho avanzato la

richiesta di poter accedere ad un terzo cantiere, rappresentativo di un’ulteriore

tipologia delle attività dei cantieri CortemSpa (Cap. 3), e disposto in prossimità spaziale

del secondo cantiere.

L’accesso al terzo cantiere è durato circa una settimana distribuita tra i primi

freddi mesi del 2010 e i mesi di giugno e luglio dello stesso anno, periodo in cui ho

terminato le osservazioni sul campo.

L’ultimo cantiere, come in parte il breve periodo di permanenza mette in

evidenza, ha comportato maggiori difficoltà di osservazione data dal fatto che si

trattava di un cantiere di costruzione di una delle gallerie della metropolitana. In

questo caso, il contatto sul campo è stato il Responsabile del Servizio Prevenzione e

Protezione (RSPP) che mi ha accompagnato in galleria, spiegandomi le fasi di

lavorazione della “talpa meccanica”, la costituzione dei turni di lavoro e

l’organizzazione generale del lavoro (Cap. 3). La tematica della sicurezza, anche in

questo caso, è stata affrontata attraverso domande informali poste al RSPP, o al suo

collaboratore, e attraverso il racconto di episodi significativi (dal loro punto di vista)

che hanno interessato il cantiere in questione: ancora una volta è la pratica del

controllo a prevalere.

A differenza del primo cantiere, e in parte del secondo, nel terzo mi è stato

richiesto di osservare la seconda parte della giornata, dopo la pausa pranzo, in quanto

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la mattinata era caratterizzata da diverse attività e la mia presenza avrebbe potuto

intralciare le stesse: “la mattina è un campo di battaglia41!, non ti posso seguire, il

pomeriggio è meglio, è più tranquillo”. I pomeriggi in cui sono stata in cantiere, quindi,

mi hanno permesso di conoscere l’organizzazione generale del lavoro, la composizione

delle squadre di lavoro, e raccogliere alcune testimonianze circa la “visione della

sicurezza” dichiarata in questo contesto42 .

2.3.3 Le interviste

Accanto alla ricerca etnografica e all’attività di shadowing, infine, sono state

realizzate anche diverse interviste (Poggio, 2004; Atkinson, 2002) che mirano a dar

conto dei diversi “discorsi” o “voci” (Nicolini, 2001; Gherardi, 2006) che abitano la vita

di cantiere. Attraverso le interviste ho potuto raccogliere, infatti, una parte della

“polifonia” del campo di ricerca rappresentata da quegli attori che maggiormente

hanno catturato la mia attenzione e che si sono mostrati cruciali durante l’osservazione

sul campo.

La prima tipologia di interviste svolte sul campo è in qualche modo legata alla

pratica dell’etnografia, riguarda infatti le “conversazioni informali” che ho intrattenuto

con i personaggi che ho incontrato sul campo, soprattutto i personaggi ai quali ho fatto

da ombra, e che rappresentano il cuore della storia raccontata nei capitoli etnografici

(Cap. 4; Cap. 5) e delle ricostruzioni delle vicende che hanno permesso di leggere la

sicurezza in pratica come attività di controllo e mediazione, soprattutto nella sua

dimensione di traduzione in un concreto contesto di cantiere.

L’altra, invece, rientra nella tipologia delle interviste “formali”, condotta ad

alcuni attori privilegiati attraverso un’intervista semi-strutturata e narrativa, con

l’intento principale di dar voce anche a coloro che ho incontrato sul cantiere in poche

41

Quella del “campo di battaglia” è una metafora che evidenzia un dimensione di genere che ricorre anche in altre ricerche (Pentimalli, 2007).

42 Ed il fatto che non mi sia stato permesso di andare anche la mattina può essere indicativo del

voler tenere il ricercatore lontano dai momenti di negoziazione quotidiani o per nascondere qualcosa o perchè ritenuto d’intralcio alle quotidiane attività di cantiere o, ancora, perchè ritenuto un momento poco sicuro per lo stesso.

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occasioni, ma che potevano comunque offrire una visione della sicurezza tipica del

proprio gruppo professionale d’appartenenza.

Le interviste sono state somministrate, tra l’autunno del 2009 e la prima metà

del 2010, a due “gruppi” principali: da un lato vi sono le interviste semi-strutturate ad

alcuni esponenti dell’attività di controllo “esterno” ‒ un Tecnico della prevenzione di

un’Aziende sanitaria locale (Asl) della città di Roma ed un collaboratore/consulente

dell’Alta Sorveglianza della società Committende dell’opera ‒ e ad alcuni attori

organizzativi che svolgono una tipologia di controllo che ho definito “interno” ‒ uno

degli RSPP della CortemSpa ed il Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione

ed esecuzione. Dall’altro, vi sono le interviste, anch’esse semi-strutturate, dirette ad

alcuni operai che nel primo cantiere hanno interagito in modo molto presente con i

responsabili di cantiere (e con il ricercatore stesso) permettendo di mettere in luce le

dinamiche di controllo e mediazione della sicurezza sul lavoro, oltre che rilevare

esperienze, opinioni e significati che caratterizzano e condizionano le modalità di lavoro

degli stessi operai.

Intervistare alcuni operai, inoltre, mi ha permesso di avere un contatto diretto

con loro, dal momento che durante l’etnografia e l’attività di shadowing non ho avuto

modo di osservare direttamente le loro pratiche, quanto piuttosto l’interazione e la

quotidiana negoziazione tra loro e le figure che controllano in cantiere.

La scelta degli operai intervistati ha cercato in qualche modo di rappresentare

delle caratteristiche peculiari dell’attività di cantiere: un operaio “anziano ed esperto”

(come definito da tutti gli altri operai e anche dallo stesso assistente di cantiere) in

grado di raccontare i cambiamenti che, dal punto di vista della sicurezza sul lavoro,

hanno investito il lavoro del carpentiere edile; un altro operaio “esperto” e con diverse

esperienze nel campo delle grandi costruzioni; un “giovane” di nazionalità romena,

nazionalità molto presente nel settore delle costruzioni43; un operatore di mezzi

43

I dati dell’Istat, della Caritas e di altre ricerche ricordano come dall’inizio del 2007, anno in cui la Romania è entrata nell’Unione europea, la percentuale di romeni impiegati in Italia (nel settore delle costruzioni, industria ed agricoltura per lo più) sia cresciuta. È interessante anche notare come la percentuale maggiore di lavoratori stranieri assicurati all’INAIL per Paese di nascita nel 2008 è quella dei nati in Romania (22%), seguiti da Albania e Marocco (rispettivamente 7,8% e 7%) (fonte INAIL).

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123

meccanici44, ritenuto “molto bravo” nel suo campo; un operaio generico, ovvero che si

occupa un po’ di tutto quello che occorre fare in cantiere.

Ottenere le interviste non è stata impresa facile, anche perchè il tema della

sicurezza sul lavoro non è un tema di cui si preferisce parlare in cantiere, per una sorta

di scaramanzia che attraversa il cantiere e ne oltrepassa i confini fino ad arrivare ai

livelli organizzativi. Infatti, come testimonia l’intervista ad un RSPP (Responsabile del

Servizio di Prevenzione e Protezione): “di sicurezza si preferisce non parlare!”.

La griglia delle domande per gli operai è stata strutturata in diverse dimensioni

principali tese a raccontare il “loro lavoro” e il rapporto che gli stessi operai

intrattengono con le figure della sicurezza, e con gli altri superiori. Le dimensioni

principali sono: l’ambito lavorativo; le pratiche di prevenzione degli infortuni sul lavoro

(uso/non uso dei Dispositivi di Protezione Individuale e collettiva; modalità di lavoro

individuale e/o collettiva); il rapporto con i propri superiori; la percezione del pericolo e

la rappresentazione della sicurezza; la formazione/informazione ricevute durante il

percorso lavorativo; gli episodi particolari aventi ad oggetto la sicurezza e/o gli

infortuni sul lavoro (racconti sulla sicurezza).

Non tutto il materiale delle singole interviste ai nove attori di cantiere è entrato

poi a far parte del resoconto finale delle interviste, consapevole che tale resoconto è

una “costruzione” che l’autore/ricercatore compie nel momento in cui offre una sua

lettura della realtà osservata. A garanzia della “parzialità” della costruzione del

racconto, però, vi è l’esplicitazione del percorso seguito per giungere ad una tale

lettura, come il presente capitolo metodologico si propone di fare.

L’analisi delle interviste agli operai ha permesso di rintracciare ed intrecciare

alcune delle categorie/tematiche emerse durante l’osservazione sul campo,

rafforzandone la significatività e supportando la successiva interpretazione.

Il contatto diretto con gli operai intervistati, inoltre, mi ha permesso di creare

un momento di condivisione delle loro esperienze lavorative che durante

l’osservazione diretta sul campo non poteva essere realizzata per via della presenza dei

44

Si ricorda a tal proposito che i mezzi meccanici da cantiere sono spesso coinvolti negli incidenti sul lavoro.

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124

loro superiori, permettendogli di raccontare episodi significativi della loro vita

lavorativa che mi hanno dato modo di comprendere meglio quanto stavo osservando.

Le interviste alle figure della sicurezza, invece, sono state strutturate

concentrandosi sia sulla dimensione del racconto della loro giornata lavorativa,

cercando di cogliere il “senso” conferito alla propria attività e dare spazio ad una

ricostruzione della “quotidianità” degli attori (Jedlowski, 2000); indagare il “punto di

vista” di un attore esperto e competente (com’è ritenuto chi si occupa di sicurezza sul

lavoro) sui casi di infortunio sul lavoro; ricostruire i rapporti che lo legano, se lo legano,

ad altre figure della sicurezza; infine, definire il “fare sicurezza”, ovvero raccontare, dal

proprio punto di vista e in base alla propria cultura professionale, in che cosa consista

la sicurezza in pratica.

Anche in questo caso il materiale delle interviste è stato “selezionato” al fine di

sostenere le tematiche emerse dall’analisi delle note prodotte durante l’osservazione

sul campo e lo shadowing.

2.4 Produrre note di campo

Preliminare alla scrittura del resoconto etnografico è la produzione di “note di

campo” (Fieldnotes). In un interessante saggio contenuto in Handbook of Ethnography

di Atkinson ed al. (2001), Emerson, Fretz e Shaw ripercorrono alcune delle tappe che

hanno portato le “fieldnotes” ad assumere rilievo durante lo svolgimento delle

osservazioni partecipanti. Se, infatti, le prime etnografie prodotte dagli antropologi

erano maggiormente incentrate sull’attività di osservazione in sé, al fine di produrre un

resoconto (quello complessivo e finale dell’attività d’osservazione) il più “oggettivo e

veritiero” possibile, man mano che le esperienze etnografiche si sono avvalse del

contributo di ulteriori ricercatori ‒ provenienti dalla Scuola di Chicago in primis ‒ anche

il processo di scrittura ha subito delle modifiche. Se già Geertz (1973) aveva

riconosciuto maggiore importanza alle “thick description”, a partire dagli anni ’80, gli

etnografi riconobbero una maggior centralità alle attività “più mondane e non

romantiche” di scrittura richieste dalla tecnica dell’osservazione partecipante e

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iniziarono a porre maggior attenzione alla scrittura etnografica (Emerson, Fretz, Shaw,

2001).

Alcuni ricercatori45, quindi, hanno riconosciuto nella scrittura delle note di

campo una core activity centrale nella produzione del resoconto finale del lavoro sul

campo (fieldwork). Diverse sono le modalità e gli stili di raccolta e scrittura delle note di

campo, sostanzialmente, però, si sottolinea la necessità che la loro “produzione”

avvenga il più vicino possibile all’esperienza sul campo. Elemento interessante, inoltre,

è il porre in evidenza come il corpus raccolto alla fine di ogni etnografia contenga tanto

e tale materiale che non necessariamente verrà impiegato nella produzione del

resoconto finale. Caratteristica precipua delle note di campo, infatti, è il loro essere

una “rappresentazione” (Emerson, Fretz, Shaw, 2001), ovvero “un modo di ridurre gli

eventi, le persone e i luoghi appena osservati in resoconti scritti” (ibidem: 353). Le note

di campo, inoltre, “ri-costituiscono” la confusione del mondo sociale in forme

“preservate” che possono essere riviste, studiate e pensate nel tempo (ibidem). Ciò

comporta che queste note siano “selettive”: è l’etnografo a “scegliere” cosa annotare

in quanto rilevante e significativo e cosa non lo è. Da questo punto di vista, quindi, le

note di campo non producono una “nota completa” (Atkinson, 1992: 17), anzi, sono

scritte giorno dopo giorno, senza un piano specifico, possono cambiare e prendere

altre direzioni, differenti da quella iniziale. Sono l’espressione dell’approfondimento

della conoscenza locale da parte dell’etnografo (Emerson, Fretz, Shaw, 2001). Le note

di campo sono piuttosto indisciplinate o “confuse” (Marcus, 1994), perciò stesso sono

“incomprensibili” agli altri, non solo per eventuali abbreviazioni, ma perché nello

scrivere note di campo si omette il contesto e tutto il background alla base della

ricerca, esplicitate più spesso nelle primissime note, per esempio.

Infine, occorre riconoscere che le differenti terminologie, nonché differenti

pratiche, siano da attribuirsi e riflettano non solo un sistema di preferenze personali,

45

Tra coloro che hanno dato attenzione alle note di campo ricordiamo: Van Maanen (1988); Sanjek (1990a); Atkinson (1990); Emerson, Fretz, Shaw (1995).

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126

ma si basano anche su diverse assunzioni che gli etnografi hanno circa la natura stessa

dell’etnografia e dell’osservazione partecipante46 (Emerson, Fretz, Shaw, 2001).

2.4.1 Etnografia e shadowing: la raccolta delle note di campo

Ritornando alla mia esperienza, dunque, devo ammettere di aver adottato

differenti modalità di raccolta delle note di campo, condizionate dalla fase di

osservazione in cui mi sono trovata.

Le prime note relative alle riunioni alle quali ho assistito e le informazioni che

chiedevo al Signor L. (prima fase di accesso) sono state scritte durante le riunioni stesse

e mentre ero in ufficio con lui e gli altri collaboratori. La forma era quella di brevi

appunti/annotazioni che, una volta a casa, trascrivevo al computer in una forma più

discorsiva. Ho da subito iniziato ad annotare sia le impressioni che avvertivo stando

nell’organizzazione, a contatto con persone nuove e con le quali cercavo di instaurare

un legame di conoscenza; che le descrizioni degli ambienti e tutto ciò che aveva

riguardato il contatto tra me ed il campo.

Una prima osservazione del campo-cantiere, invece ‒ quella fatta durante la

seconda fase di accesso, ovvero durante le attività di controllo svolte dai collaboratori

del Responsabile dei Lavori ‒ mi ha permesso di raccogliere le prime “note di campo” o

“note etnografiche” (Emerson, Fretz, Shaw, 2001; Marzano, 2006), le quali hanno

consentito di evidenziare alcune criticità ‒ rapporto con le figure della sicurezza;

difficoltà nell’uso dei Dispositivi di protezione, per esempio ‒ ed hanno permesso di

orientare le successive osservazioni. Tali note sono state scritte in parte durante la

presenza sul campo, per la restante parte al di fuori di esso. Successivamente, però,

quando sono arrivata in cantiere ‒ fase in autonomia ‒ ho dovuto modificare la mia

strategia. Ecco per quale motivo.

Uno dei primissimi giorni, approfittando di una pausa del capocantiere che

stavo seguendo durante uno dei suoi soliti giri di controllo (accompagnato da altre

persone esterne al cantiere), decisi di annotare qualche breve appunto sul mio piccolo

46

Si rimanda al testo degli autori per una disamina dei differenti punti di vista sull’etnografia e sull’osservazione partecipante, nonché sulle diverse strategia per scrivere note di campo.

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block-notes, questo suscitò la curiosità di tutti i presenti. Benché il capocantiere47 mi

avesse già vista appuntare qualcosa nei giorni precedenti, non mi aveva mai chiesto

nulla. L’assistente di cantiere di pochi anni più grande di me, invece, con grande

curiosità mi ha subito chiesto che cosa scrivessi. “Che qui siamo tutti pazzi!”, ha

risposto il capocantiere ridendo e generando grande ilarità anche negli altri. Io, un po’

stupita, ho risposto che prendevo degli appunti su ciò che mi aveva colpito, su degli

scavi archeologici che avevo visto prima. Ma lo spiazzamento è stato tale che ho deciso

che non avrei più scritto nulla fin tanto che fossi stata sul cantiere. Certo, il mio piccolo

blocco e la penna erano con me sempre e, a volte, sono riuscita a scrivere qualcosa

mettendomi in disparte, ma la quasi totalità delle note le ho scritte in metropolitana, al

mio rientro a casa. La sera, poi, anche se ero stanchissima, cercavo di scrivere tutta la

mia giornata creando dei files nel mio pc e scrivevo tutto ciò che mi era possibile

ricordare.

Per ovviare, però, alla paura di dimenticare alcune brevi frasi o battute dette in

cantiere dal capocantiere o da alcuni operai, avevo escogitato un piccolo diversivo:

annotare la frase o un breve testo chiave nelle bozze del mio cellulare! Anche se

scrivevo in presenza “degli abitanti del cantiere”, questi non hanno mai chiesto cosa o

a chi scrivessi, ritenendolo “un fatto personale”.

Alla base di questo sforzo di annotazione, vi era una sorta di consapevolezza

che può essere sintetizzato con le parole di Marzano (2006): “Rispetto ai letterati, gli

etnografi hanno un solo compito in più: quello di convincere i loro lettori che sono stati

davvero lì, che hanno visto con i loro occhi quello di cui hanno scritto. E che lo hanno

compreso talmente bene da poterlo raccontare al loro pubblico” (103).

Successivamente, grazie alla permanenza più costante nel cantiere, è stato

possibile anche dare una prima lettura/codifica delle note di campo precedentemente

47

Il capocantiere in questione ha avuto nei miei confronti un atteggiamento di protezione (molto paterno), non solo per le situazioni di cantiere, ma anche nei confronti delle altre persone che abbiamo incontrato insieme in esso. Se rispetto al mio scrivere qualcosa è stato discreto, ha però trovato il modo e l’occasione per chiedermi di cosa mi occupassi, che cosa ne avrei fatto di quello che vedevo o sentivo e cose di questo genere. Come ha sempre detto lui “io vedo tutto e anche se non dico niente, non vuol dire che non so cosa succede”, e questo è avvenuto anche nei miei confronti, tenendomi sempre sott’occhio e sapendo come mi muovessi nel cantiere e cosa chiedessi in giro (anche se io non sono mai stata sola in cantiere e non ho mai potuto parlare da sola con gli operai se non pochissime volte).

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raccolte e indirizzare quelle in corso. Infatti, come afferma ancora Marzano, “le abilità

degli etnografi sono in genere destinate a crescere nel corso della ricerca: lo sguardo si

affina, le categorie interpretative emergono con maggior nitore e la stessa

osservazione si fa più densa e più dettagliata, emergono nessi, rimandi e intere

porzioni di quello che sarà il testo finale” (103-104).

Il mio ri-costruire48 la giornata trascorsa sul cantiere e l’attività di shadowing ha

sempre avuto la forma di un diario, ma man mano che i giorni sul cantiere

trascorrevano, e incominciavo a intravedere i primi argomenti interessanti per la

ricerca, cercavo di concentrarmi su questi andando in cerca di altri elementi che

potessero avere una qualche relazione con essi.

Ho focalizzato lo sguardo sui rapporti tra i diversi attori e tra alcuni operai e i

loro artefatti (per esempio, Dpi, macchinari ed attrezzi; documenti; foto; disegni); sulle

interazioni tra gli attori responsabili del cantiere e della sicurezza e gli operai; sul

processo di costante negoziazione tra i personaggi in gioco. Durante la permanenza sul

campo, dunque, ho “seguito” la pratica della sicurezza durante la quotidiana attività di

controllo e mediazione.

2.4.2 Note di campo: una tipologia

Le note raccolte durante il contatto con il campo possono essere ricondotte ad

una tipologia che comprende (Emerson, Fretz, Shaw, 2001; Van Maanen, 1995):

note di osservazione (descrittive);

note metodologiche;

note teoriche (concettuali);

note emotive.

Le note teoriche e quelle metodologiche si riferiscono alla trascrizione di tutti

gli spunti utili al ricercatore su come procedere nella ricerca (cosa osservare, con chi

parlare, chi intervistare e altro ancora) e a quali tematiche teoriche e concetti

48

“La scrittura delle note di campo, al pari di ogni scrittura, è un vero e proprio atto creativo e non la mera traduzione in parole di ciò che l’etnografo ha visto e sentito sul campo. Se chiedessimo a due o più persone di descrivere lo stesso evento (poniamo una riunione) ne ricaveremmo dei testi sensibilmente diversi” (Marzano, 2006: 106).

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sociologici può essere ricollegato ciò che si sta osservando (riferimenti ad altre

ricerche, categorie analitiche studiate o da approfondire). Questo secondo il principio

attraverso il quale il disegno della ricerca prende corpo gradualmente nel farsi della

ricerca sul campo (Marzano, 2006).

Le altre due tipologie di note (osservative ed emotive), invece, permettono di

descrivere il campo di ricerca in cui si è immersi per un certo periodo di tempo. Le note

emotive, in particolare, poggiano su un approccio estetico all’organizzazione e al

campo di ricerca più in generale (Strati, 2000; 2007; 2008).

Le note descrittive, infatti, rappresentano una sorta di linea guida di cosa si

osserva sul campo: da una più generale descrizione del contesto fisico in cui entra il

ricercatore, come l’architettura, la delimitazione degli spazi, gli artefatti osservati, le

zone in cui lo stesso ricercatore ha o meno accesso; a una più specifica descrizione

delle interazioni quotidiane, sia formali che informali che il ricercatore intrattiene con i

soggetti che abitano il campo e tra gli stessi attori; a una descrizione della dimensione

formale ed informale dell’organizzazione49; per giungere, infine, ad una descrizione

delle pratiche lavorative in esame, ovvero le quotidiane modalità di lavoro che

permettono di intravedere il senso conferito dagli attori alle stesse, il carattere “tacito”

e “dato per scontato” della loro conoscenza (Polanyi, 1990), nonchè il carattere

“situato” (Goffman, 1969; Suchman, 1987; Conein, Jacopin, 1994) delle stesse pratiche.

Accanto alla dimensione tacita, vi è anche quella estetica (§ 2.2.2.1) che ha

permesso di cogliere e annotare il senso della fatica e delle difficoltà del lavoro nei

cantieri e la dimensione sensibile della conoscenza, in particolare l’apprendere

attraverso tutto il corpo. È il corpo degli operai e le loro pratiche legate alla corporeità

49

La distinzione tra organizzazione formale ed informale è molto interessante per mettere in evidenza il tipo di rapporto che si instaura tra i soggetti che dell’organizzazione fanno parte. La scoperta degli aspetti informali di un’organizzazione si deve alla Scuola delle Relazioni Umane (anni ’20 e ’30 del 900) e al contributo di Elton Mayo. L’organizzazione formale può essere espressa, in maniera sintetica, negli organigrammi dell’organizzazione, alla quale corrispondono ruoli e funzioni, ma anche alle decisioni della direzione, al sistema di controllo, alla divisione del lavoro. L’organizzazione informale, invece, è quella che quotidianamente (e parallelamente) assegna “ruoli e funzioni” ad attori che non necessariamente sono “formalmente” riconosciuti in quei ruoli. Essa riguarda le relazioni di natura sociale che hanno luogo nella quotidianità organizzativa. La dimensione informale racconta, dunque, di gruppi che si creano nell’ambito di un ufficio, di un reparto ecc. e che lega tra loro le persone secondo principi che esulano dal ruolo formale ricoperto.

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che permette loro di conoscere e “sentire” quel che fanno, dando vita a modalità di

pratiche, appunto, più o meno sicure.

Le note emotive, storicamente, hanno avuto un più difficile percorso di

affermazione all’interno della raccolta delle note di campo, parte delle quali

costituiranno il resoconto finale di una etnografia. Gli etnografi-antropologi, infatti,

tendevano a separare le descrizioni delle azioni e i discorsi degli altri dai propri scritti

riguardanti le proprie emozioni, reazioni e ansietà, relegando queste ultime ai diari

personali (Sanjek, 1990c). A partire dagli anni ’60, invece, la maggior parte degli

etnografi-sociologi hanno iniziato ad includere i resoconti relativi al “sentire personale”

e alle reazioni emotive nel nucleo dei resoconti delle note di campo50. Le note emotive,

inoltre, possono facilitare la ricostruzione delle caratteristiche dell’ambiente o delle

scene osservate durante la ricerca.

Le note emotive offrono un senso all’intero processo di ricerca. Attraverso le

sue impressioni, infatti, il ricercatore può raccontare “la sua storia” (Poggio, 2003;

Atkinson, 2002) accanto a quella degli attori del campo; ricostruire il processo di

negoziazione che lo ha portato all’interno dell’organizzazione e il posto guadagnatosi (o

concessogli) dai suoi interlocutori; rende conto dei cambiamenti delle stesse

impressioni man mano che l’etnografo conosce la realtà lavorativa “dal di dentro”,

ovvero cerca di “comprendere” nel senso weberiano e di cogliere il senso conferito alle

azioni da parte degli attori che le hanno compiute. È importante, dunque, la capacità

dell’etnografo di cercare di guardare con gli occhi dei soggetti che sta osservando, di

saper ascoltare le voci degli attori che abitano il campo della ricerca, al fine di cogliere il

“dato per scontato” dagli attori stessi. La ricerca etnografica, infatti, “non pretende di

essere oggettiva o esaustiva, ma di illustrare in modo originale, a partire da «punti di

vista» inevitabilmente parziali, aspetti, mondi o dimensioni della vita sociale” (Dal Lago,

De Biasi, 2006: XVII)

Un’ulteriore distinzione delle note di campo (osservativo/descrittive) è quella

ricordata da Van Maanen (1995) tra “dati presentati” e “dati operativi”. Questi ultimi

50

Gli autori Emerson, Fretz e Shaw (2001) ricordano come sia stato il contributo Ellis (1991) con Final Negotiations (1995), una etnografia sperimentale, a dare maggior impulso e interesse alla dimensione emotiva esperita dallo stesso ricercatore durante la ricerca sul campo.

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“documentano il fluire di quelle conversazioni e attività spontanee che l’etnografo

osserva o a cui prende parte durante il suo lavoro sul campo”; i dati “presentati” “si

riferiscono a quelle apparenze che gli informatori (i soggetti osservati) si sforzano di

sostenere (o accentuare) agli occhi non solo dell’etnografo e degli estranei in genere,

ma anche dei colleghi, di collaboratori stretti o intimi, nonchè, in vario grado, di se

stessi” (ibidem: 40, corsivo aggiunto).

2.4.3 Codifica del “materiale”

La classificazione del materiale nelle quattro tipologie proposte nel paragrafo

precedente ‒ note descrittive, metodologiche, teoriche ed emotive ‒ ha permesso di

realizzare una prima codifica del materiale raccolto sul campo. Successivamente, però,

si è provveduto alla codifica dei dati “grezzi” raccolti, secondo il modello della

Grounded Theory elaborato da Glaser e Strauss (1967; Tarozzi, 2008), secondo il quale

“la codifica è l’insieme delle procedure e delle tecniche per concettualizzare i dati.

Codificare è un processo più analitico che interpretativo che elabora i dati

empiricamente per consentire un’interpretazione ben ancorata e fondata sui dati”

(Tarozzi, 2008: 84).

La codifica, infatti, mi ha permesso da un lato di rilevare le tematiche centrali

attraverso le quali affrontare l’analisi delle pratiche di controllo e mediazione della

sicurezza osservate nei cantieri e le “risposte” che, rispetto a tali pratiche, gli operai

mettono in scena (Goffman, 1969); dall’altro, “leggere” alcune situazioni in cui le

norme in materia di sicurezza, in alcuni casi, sono rispettate e in altri casi non lo sono.

La codifica si svolge anch’essa attraverso diverse fasi: una prima fase è quella

che nel gergo della Grounded Theory si definisce “codifica aperta” (Strauss, Corbin,

1998, in Tarozzi, 2008), sia nel senso che il ricercatore si mantiene aperto ai dati,

disponibile a ulteriori sollecitazioni che gli stessi dati possono offrirgli; sia nel senso che

è la stessa codifica tesa, in questa fase, ad aprire i dati rilevati attraverso l’osservazione

sul campo. “L’unica torcia che illumina il cammino della codifica iniziale sono gli

obiettivi di questa fase: elicitare alcuni concetti, espressi da categorie anche non sature

o non ancora completamente sviluppate” (Tarozzi, 2008: 86).

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Questa codifica iniziale è stata realizzata attraverso la stampa dei testi delle

osservazioni, lasciando un margine sul lato destro del foglio in cui, dopo una rilettura

del testo, sono state annotate le etichette concettuali che codificano le sue parti. La

codifica, infine, ha permesso di risalire a categorie più inclusive, procedendo ad

imbuto. Anche se non ci si è attenuti in maniera rigorosa al procedimento utilizzato

dalla Grounded Theory, seguendone solo in maniera generale i principi di base, si

ricorda che per questa metodologia di ricerca questa fase è definita “codifica

focalizzata” il cui scopo “è quello di raccogliere i concetti in categorie e individuare

concetti a un più elevato livello di astrazione, ma è anche il livello in cui si collegano fra

di loro le categorie e queste con le loro proprietà” (Tarozzi, 2008: 93).

Anche i “dati” raccolti attraverso le interviste registrate e trascritte (eccetto

una per la quale non ho ricevuto il consenso a registrare) sono stati guidati da una

prima interpretazione ed elaborazione delle categorie/tematiche emerse dal campo,

permettendo a loro volta di trovare ulteriori spunti di riflessione per l’interpretazione

del materiale a disposizione.

La codifica delle note ‒ raccolte durante l’osservazione delle pratiche di

controllo e d’interazione con gli operai ‒ ha permesso di far emergere prima di tutto

l’oggetto della ricerca: le pratiche di controllo e mediazione della sicurezza e le risposte

che sul campo gli attori negoziano e mettono in scena51. In relazione a tale attività,

inoltre, sono emerse due macro categorie/tematiche che permettano di leggere il

fenomeno osservato: la sicurezza sul lavoro e più specificatamente il come si fa

sicurezza in un cantiere edile.

La prima tematica è quella del rispetto della normativa, che si articola nella

sicurezza reificata con le due sotto-categorie relative all’immagine della CortemSpa e

agli artefatti sicuri. La seconda tematica, invece, fa capo al non rispetto della normativa

e le sue possibili chiavi di lettura: la pratica della spavalderia; il rapporto tra non uso dei

guanti di protezione ed il sapere pratico; il rapporto tra il non uso delle cuffie di

protezione e le pratiche di coordinamento e collaborazione52.

51

Le tematiche saranno affrontate nell’ordine, nel Cap. 4 e nel Cap. 5. 52

Si rimanda, nell’ordine: § 5.1; § 5.1.1; § 5.1.2; § 5.2; § 5.2.1; § 5.2.2; § 5.2.3.

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Oltre a questi concetti, è emersa anche la dimensione della performance di

genere che sarà affrontata nel prossimo paragrafo nell’ambito del rapporto tra

l’etnografo/a e gli attori del contesto organizzativo osservato (§ 2.5).

Se fin qui si è dato conto delle modalità di ricerca e della ricerca stessa che

evolveva man mano che il contatto con il campo e l’oggetto prendevano corpo, nei

capitoli 4 e 5 si provvederà a “raccontare una storia” (Czarniawska, 2000; Poggio,

2004), quella della “sicurezza in costruzione”, nella doppia accezione di settore

produttivo in cui si è svolta la ricerca (settore delle costruzioni/cantiere edile) e

nell’accezione di “processo” attraverso il quale la sicurezza si costruisce e ricostruisce

quotidianamente attraverso le sue pratiche.

Questo confidando che, in ultima istanza, a rendere valida un’interpretazione

sia “la sua «capacità di fare improvvisamente luce su ciò che sembrava opaco, di dare

senso a ciò che sembrava senza senso, di spiegare l’inusuale e l’inaspettato»” (Gabriel,

1998: 153, in Poggio, 2004: 125).

Prima di entrate in campo, però, si vuol dare conto brevemente del rapporto

intercorso tra gli attori del campo di ricerca e l’etnografa … al femminile.

2.5 Il ruolo dell’etnografo: maschile vs femminile

Accostandomi al mondo della ricerca etnografica mi sono resa conto

dell’importanza di negoziare l’accesso al campo e del fatto che occorre fare i conti con

l’immagine che di sé stessi si offre agli altri e di come gli altri ci vedono. Questo ha a

che fare in qualche modo con ciò che viene definita una performance di genere

(Goffman, 1976), ovvero il modo in cui il maschile ed il femminile si costruiscono e ri-

conoscono in un’interazione costante, ma anche come “tecnica del corpo” (Mauss,

1965).

In questo spazio si cercherà di ricostruire il rapporto che ha legato il ricercatore

(meglio la ricercatrice) e gli attori incontrati sul campo.

Nel momento in cui ho scelto il mio oggetto di ricerca, la sicurezza sul lavoro

appunto, mi sono resa conto (e mi è stato fatto notare) che avrei avuto a che fare con

“tutti uomini”. Più il mio entusiasmo di conquistare il tanto agognato “accesso al

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campo” cresceva e l’orizzonte sembrava raggiungibile, più la caratterizzazione del mio

campo come “maschile” diventava pressante.

Raccontando la mia conquista ‒ andare su un cantiere edile, fatto di polvere,

cemento, rumore, sudore, per svolgere la ricerca di dottorato ‒ ad una cara amica, lei

ha esclamato: “ma non hai paura! Tutti uomini! Una ragazza!”. A me, però, stupiva la

sua reazione. Io non mi ero posta il problema del “sesso” del cantiere. O meglio, ero

consapevole che fosse un lavoro “tipicamente maschile”, ma uomini, donne, in fin dei

conti siamo persone e cercavo di mettere da parte gli stereotipi che possono

accompagnare i contesti di lavoro. Ma la sua intuizione non era del tutto infondata,

non certo nel senso delle sue preoccupazioni, quanto nel mettere in evidenza che il

cantiere ha un suo genere d’appartenenza ed è costruito come “maschile”53!

Per cogliere questa dimensione ho ripreso gli studi di genere affrontati durante

il corso di laurea in Sociologia ed alcune ricerche pubblicate negli ultimi anni54. La

definizione che più mi ha colpito, perché in grado di rappresentare quanto stavo

osservando è la seguente: “genere è un concetto relazionale la cui utilità principale

consiste proprio nell’esplorare come alle donne vengano attribuite caratteristiche

femminili e agli uomini maschili e come il genere costituisca una pratica sociale che

posiziona le persone in contesti di potere asimmetrico, vale a dire come sulla

differenza si fondi la disuguaglianza di opportunità sociali” (Bruni, Gherardi, Poggio,

2000: 2). Il genere, quindi, è un concetto relazionale (Piccone Stella, Saraceno, 1996)55

53

In effetti, ho avuto una certa resistenza ad adottare una “visione di genere” nel leggere la mia esperienza di ricerca. Quello che mi preoccupava era di cadere in stereotipi di genere troppi scontati nel momento in cui una giovane dottoranda sceglie un campo di ricerca “al maschile”. Anche quando ho osservato i primi rapporti tra capocantiere/assistenti e le archeologhe, non riuscivo a non pensare che il loro rapporto fosse caratterizzato (almeno da parte degli uomini di cantiere con cui ho parlato maggiormente) da pratiche e retoriche discorsive di genere (Gherardi, 1998; Gherardi e Poggio, 2003) che in qualche modo alimentavano i rapporti conflittuali, benché latenti, tra le due comunità professionali (Van Maanen, Barley, 1995; Hughes, 1958).

54 Alcune ricerche sono: Gherardi, 1998; 2010; Pentimalli, 2007; Bellassai, 2004; Gherardi,

Poggio; 2003; Ruspini, 2003; Bruni, 2000. 55

Il volume a cura di Simonetta Piccone Stella e di Chiara Saraceno (1996) offre un’interessante ricostruzione del percorso affrontato dal concetto di genere, dal suo primo apparire – in un saggio di Gayle Rubin del 1975 che introduce ufficialmente il termine all’interno del dibattito scientifico, inglobandolo nell’espressione sex-gender system – al suo ricavarsi un posto all’interno del dibattito e attraverso il contributo di differenti studiosi (-e). Tra le diverse tappe che l’autrice ripercorre, è interessante – accanto al contributo della storica Zemon Davis (1976) e di Joan Scott (1988) – quello di Linda Nicholson (1994) che afferma come il genere non sia una stampella ‒ a rack – cui appendere gli artefatti della cultura o una

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e una pratica sociale (Gherardi, 1998). In altre parole, “il genere è qualcosa che si fa e

non qualcosa che si ha” (Gherardi, Poggio, 2003: 5; Gherardi, 1994).

Forse, in un primo momento non mi sono curata della prevalenza di uomini alla

CortemSpa, e ancor di più della prevalenza di uomini nei cantieri che ho osservato. In

effetti, sui cantieri, ho incontrato solo una donna che in qualche modo potesse

rientrare nella categoria di “operaia”. In realtà, durante la mia prima discesa

“accompagnata” sul campo ho incontrato una donna, alla giuda di un furgoncino, con

indosso “abiti da lavoro” (scarponcini, pantaloni e maglietta sporchi di fango) che

chiedeva informazioni sulla documentazione da presentare in qualità di ditta che aveva

vinto un appalto o subappalto. Era consulente esterna di una ditta56. Altre donne

incontrate sui cantieri, o meglio sul primo cantiere, sono state le archeologhe

(comprese coloro che avevano funzioni dirigenziali); una donna ingegnere che si

occupava dell’avanzamento dei lavori e dei materiali per Roma per il Trasporto

Pubblico; una addetta alla comunicazione degli InfoPoint; una architetto che si

occupava del settore ambiente; le addette al Servizio Prevenzione e Protezione del

settore amministrativo (presenti anche in cantiere perché la responsabilità dell’ufficio

di Prevenzione comprende tutti gli impiegati della CortemSpa e, dunque, comprende

anche capicantiere e assistenti); l’addetta alle pulizie di alcuni container-ufficio dei

capicantiere ed assistenti CortemSpa.

2.5.1 Il cantiere non è un posto per donne!

Riflettendo sul mio percorso personale, accanto e non scindibile da quello di

ricerca, mi sono resa conto che a volte l’appartenere al genere femminile ha portato a

forma culturale che accoglie le differenze fisiche preesistenti tra uomini e donne. Il genere, al contrario, è il modo in cui storicamente e socialmente si attribuiscono significati (che variano nel tempo), in un dato contesto, alle differenze fisiche, oltre ad attribuire rilevanza ai fini della differenziazione sociale (Piccone Stella, Saraceno, 1996).

Questi i principali contributi da cui partire per affrontare un discorso sul genere ed ai quali si rimanda, non essendo oggetto della presente tesi.

56 L’essere un consulente esterno di una piccola ditta, come quella per la quale la donna chiedeva

informazioni, implica anche l’essere coinvolto attivamente nei diversi ruoli della ditta. È plausibile presumere, infatti, che potesse esserne titolare, o comunque parte attiva nel processo produttivo della stessa ditta. La definizione di “consulente” può indurre a pensare ad una persona “in giacca e cravatta” (nello stereotipo dominante) o comunque ad una persona che vesta “panni da ufficio”, uomo o donna che sia (Bruni, 2000).

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dei “vantaggi” e talaltra a delle difficoltà che hanno messo in rilievo come la possibilità

di osservare un certo contesto di lavoro possa essere vincolato da una dimensione di

genere.

Il vantaggio è stato certo quello di essere trattata in maniera “gentile” (forse di

contro alla durezza e ruvidità del lavoro nei cantieri), ricevendo scuse quando a

qualcuno “scappava” una parolaccia; ricevendo particolari attenzioni al bar, del tipo

“una ragazza non paga”. Altri vantaggi, per così dire, possono essere il ricevere

attenzioni57 nel dover scendere o salire scale o alti gradoni, mezzi meccanici dalle

altezze improponibili e altro ancora.

Questi episodi “di cavalleria”, e quelli che seguono, però, mettono in evidenza

come anche nei contesti organizzativi si faccia “genere”, ovvero si producano e ri-

producano pratiche di genere che nella maggior parte dei casi tendono a collocare

uomini e donne in “posti” e/o “posizioni” maschili e femminili. A tal proposito, infatti “il

riconoscimento della posizione di genere avviene attraverso la gestualità della cortesia,

dei cerimoniali delle precedenze, oltre agli apprezzamenti verbali sulle “doti” dell’altro

genere” (Gherardi, 1998: 162). Gherardi, inoltre, sottolinea come ci siano due

meccanismi attraverso i quali facciamo genere (doppia presenza): il “lavoro

cerimoniale” e il “lavoro riparatore”. Attraverso il lavoro cerimoniale si sottolinea la

differenza tra gli universi simbolici di genere, mentre nel lavoro riparatore rimandiamo

i significati del genere a situazioni contingenti (Gherardi, 1998)58.

Di seguito alcuni degli episodi in cui alcuni attori del cantiere hanno

manifestato delle “forme di gentilezza” nei miei confronti in quanto “donna”:

“Ore 7.00: Arrivo in cantiere. Già c’è movimento, alcuni operai stanno

spostando le macchine (ovvero i mezzi da lavoro: gru, escavatore ecc.) ed altri aspettano

tutti insieme per l’appello, appartengono ad una stessa ditta. Mentre sto per arrivare in

ufficio uno degli operai più anziani mi saluta fermandosi, sbattendo i piedi e mettendo la

57

Un esempio di attenzione è quella di vedersi offrire una mano per salire o scendere da un mezzo; oppure mettere una tavola per attraversare un terreno scosceso e cose di questo tipo.

58 Interessante, inoltre, il fatto che sia il modo in cui i due tipi di comportamento si intrecciano

insieme a fornire occasione di “fare genere senza svalorizzare il femminile” (Gherardi, 1998: 161).

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mano destra sulla fronte, come un saluto militare. Mi fa ridere e ricambio con un

semplice “buongiorno!”” (Note di cantiere59).

“Lungo la strada incontro degli operai che mi salutano e, mentre entro nel

cantiere dei baraccamenti, l’operaio anziano dell’altro giorno, mi saluta nuovamente

sbattendo i piedi uno contro l’altro e portando la mano destra sulla fronte e dicendo

“bonjour madame!”. Ricambio, mi fa simpatia ed arrivo in ufficio” (Note di cantiere).

Questi “atti di galanteria”, come mettersi sull’attenti per salutare una donna in

questo caso, o aiutarla ad attraversare un tratto fangoso o poco stabile in altri casi

osservati, mirano ad evitare alla donna la parte del lavoro più faticosa. Questo

comporta la ricostruzione della “differenza di genere (tra uomini forti e donne delicate)

e tende a ristabilire le frontiere tra mansioni maschili e femminili” (Pentimalli, 2007:

154). Il “sistema delle cortesie”, dunque, non è così innocente come potrebbe apparire

se lo si considera solo un’occasione per il riconoscimento reciproco dell’identità di

genere e nei confronti della considerazione di una femminilità idealizzata: “è la prima

arena per negoziare i relativi posizionamenti” (Gherardi, 1997: 164).

Ciò che, dunque, ad una prima osservazione ed analisi può apparire “naturale”,

in realtà cela una dimensione di genere storicamente e socialmente costruita. Il

genere, e tutto ciò che esso comporta, è un prodotto sociale al quale anche le stesse

organizzazioni prendono parte attivamente e dal quale le organizzazioni sono a loro

volta modellate: “le pratiche sociali “fanno” il genere in quanto producono e

riproducono le relazioni sociali, la cultura materiale e gli artefatti stessi sui quali sono

basate” (Gherardi, 1998: 23).

Emblematico di ciò, per esempio, è chi, vedendo una ragazza in cantiere per un

po’ di tempo, le ha ricordato come quello non fosse un posto adatto ad una donna:

59

Le parti delle note di cantiere riportate sono scritte in corsivo quelle relative al mio racconto o alle mie sensazioni e considerazioni; mentre sono scritte in stampatello le parti relative ai discorsi diretti dei soggetti ai quali si riferiscono. La scelta di un carattere differente per gli stralci di note di campo, rispetto al testo nel suo complesso, sono da attribuirsi al solo gusto personale di chi scrive.

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“[ … ] mi avvio verso l’entrata del cantiere. Noto che i cancelli dei due cantieri,

posti uno di fronte all’altro, sono aperti perché stanno portando le macchine da una

parte all’altra con la gru di servizio [ … ], la gru stessa servirà per infilare nello scavo le

sei gabbie di ferro prima del getto; la macchina con la benna mordente fa il percorso

inverso, andrà a scavare nell’altro cantiere.

Io arrivo lì davanti e chiedo all’operaio se posso passare velocemente dal

momento che la gru è ferma perché gli operai le stanno agganciando delle cose da

trasportare. Non capiscono, c’è rumore (io non parlo a voce alta!) e, quindi, decido di

entrare rapidamente. Non indosso ancora alcun Dpi, per questo mi chiama un operaio e

mi dice “signorina, ha sbagliato, deve andare di là”, indicandomi l’uscita del

cantiere. Prima che io possa spiegarmi un altro operaio mi riconosce e tutto finisce lì,

anche perché io ho già oltrepassato la zona a rischio [ … ]. Arrivo in ufficio, saluto e

racconto a M. cosa mi è successo “ma come? … ma che dici?!”, ride e continua il suo

lavoro al computer” (note di cantiere).

Decidendo di fare un’etnografia in un cantiere edile, forse, ho cercato di

mettere in atto, magari non proprio consapevolmente, l’intento che la scuola di

Chicago con Hughes (1985) definisce come “sovvertimento delle regole”: ecco una

donna sul cantiere. Diciamo che la mia può essere definita “una sfida come presenza

simbolica” (Gherardi, Poggio, 2003: 69). Nel caso della ricerca delle due autrici, questo

tipo di sfida ha caratterizzato donne pioniere che “non mettono in discussione la

cultura organizzativa, se non attraverso la propria presenza in ambienti maschili,

presenza che tuttavia cercano di rendere poco visibile e soprattutto non conflittuale”

(71). Emerge, da parte delle donne, dunque, la consapevolezza della propria

eccezionalità, del proprio essere token (Kanter, 1977), ovvero simbolo di tutte le donne

(presenti, dunque, in misura minoritaria all’interno di un’organizzazione), benché il

grado di intenzionalità della loro sfida sia piuttosto contenuto.

Ritornando alla mia esperienza, è possibile parlare di una doppia sfida, in

realtà. La mia può essere vista sia come una sfida dal punto di vista di una giovane

ricercatrice che si ostina a negoziare l’accesso ad un campo per certi versi ostile e

ruvido, “tipicamente maschile”, ma ricco di esperienze da portare alla luce; sia come

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una sfida all’interno dello stesso cantiere perché in qualche modo contribuisce ad

offrire uno spiraglio di possibilità che il cantiere possa essere abitato da donne, non

necessariamente relegate in ruoli, mansioni e professioni “tipicamente femminili”

(segretaria, archeologa, addetta alla comunicazione).

2.5.2 Il posto delle donne

Come ha affermato una volta un capocantiere in merito proprio alla possibilità

che anche le donne possano entrare in cantiere, sottolineando la difficoltà e la durezza

dell’ambiente performato come “maschile”:

“Le donne ingegneri vanno bene in ufficio, ma in cantiere non ti

ascoltano .. non c’è la mentalità, ancora .. puoi fare sicurezza, ecco, ma no il

capocantiere o l’assistente: “ti si mangiano”!!”

Alle donne, quindi, occorre “riservare” un posto in ufficio dove “fare sicurezza”,

sottolineando implicitamente come la sicurezza si “faccia” in luoghi diversi dal cantiere

in cui, probabilmente, si studiano le norme, si producono documenti e si controlla che

tali norme siano rispettate in cantiere. Implicitamente, ancora, il capocantiere non ri-

conosce a se stesso e, soprattutto, alla sua attività di gestione e “controllo” un ruolo

attivo nel fare sicurezza in cantiere. La sicurezza è “roba” degli altri, magari anche di

una donna, ma gestire un cantiere significa altro dal fare sicurezza, ed è cosa da

uomini.

Le difficoltà di appartenere al genere femminile fanno riferimento al fatto, per

esempio, che come donna ho sentito in prima persona una sorta di “pressione” che mi

spingeva ad adattarmi alle situazioni in cui mi sono trovata, cercando così di essere

“all’altezza della situazione”. La nota che segue sarà un esempio di quanto affermato

fin qui:

“Usciamo dagli uffici e tutti con i propri Dpi (io chiedo un gilet per me) ci

dirigiamo verso la zona del cantiere dove ci sono le diverse aree di lavorazione. Ci

accompagnano sia l’impiegato (il termine impiegato glielo leggo sul tesserino appuntato

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sul gilet catarifrangente che indossa) che l’ingegnere che continua a fare i suoi discorsi

su una notizia del giorno riguardante un politico (in effetti la mia presenza non crea

alcun imbarazzo, né si scusa per i termini “pesanti” che adopera, cosa che solitamente

mi accade, anzi, anche io sono coinvolta nel discorso perché si rivolge verso di me mentre

parla ed io partecipo alla discussione facendo dei cenni con il capo).

Quando usciamo dalla zona delle baracche, delimitate da un cancello che ora è

aperto, l’impiegato dice ad un operaio di non sprecare acqua, “quando hai finito di

usare l’acqua, chiudi altrimenti invece di abbassare la terra diventa tutto fango”,

e mi raccontano un episodio accaduto quest’inverno in cui ha piovuto tanto e lo stesso

impiegato si è letteralmente impantanato, ovvero gli stivali si sono bloccati nel fango e i

piedi sono andati altrove.

Arriviamo vicino ad una grossa costruzione in cemento, è molto alta e ci sono

diverse grandi entrate. Dinanzi a una di queste c’è un mucchio di tufo con delle tavole di

legno ed entriamo da lì. D. si lamenta che non è ben sistemata come entrata, infatti,

mentre ci fermiamo per decidere da che parte passare, entra un operaio con una carriola

piena oltre misura di attrezzi da lavoro. Mi sposto, lui entra e passa su di un muretto

largo giusto la ruota della carriola e da questa cade una valigetta. L’operaio non si cura

troppo della nostra presenza (altrimenti credo che non sarebbe nemmeno passato di lì),

passa, posa la carriola, scende a prendere la valigetta e va via. Anche noi dobbiamo fare

gli equilibristi passando sui muretti stretti, di sotto non è profondo, ma non è una

sensazione piacevole (non mi sento molto sicura a camminare lì sopra, sto attenta a dove

metto i piedi, ho paura di cadere ed anche di “fare la femminuccia”, pertanto passo e

finalmente, dopo aver dovuto anche saltare giù dal muretto, siamo di nuovo con i piedi

sul terreno!).

Quando è passato l’operaio con la carriola è stato il momento in cui si è finito di

parlare della vicenda politica “spinta” accaduta in questi giorni (riguardante sesso e

potere) e si è cominciato a parlare del cantiere. L’ingegnere, infatti, proprio rivolgendosi

a me, si è sfogato: “ma poi, non è che la ditta non gli dà i Dpi, hanno tutto! Ma

non gliene importa niente, loro devono lavorare come dicono loro, anzi, stanno

lì, a certi non gliene frega niente di lavorare e tu come fai a farglielo capire che

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devono mettersi le cose? Poi, se succede qualcosa, è sempre colpa tua, del datore

di lavoro, ma come! Gli ho dato tutto e poi è pure colpa mia, non è che ha molto

senso!”. Lo sfogo è davvero intenso, sembra una persona molto tranquilla, scherza tutto

il tempo, ma quando viene fuori questo discorso diventa piuttosto serio e tutto d’un fiato

mi confida queste cose. Si accorge che io mi sto guardando intorno, è un grande

capannone, era l’unico in piedi quando l’ho visto la prima volta, c’era solo lo “scheletro”

e ora ha il tetto finito con delle finestre alle quali sono state poste dei dispositivi di

sicurezza in caso d’incendio” (note di campo di uno dei primi cantieri, seconda fase).

Da questo stralcio tratto dalle note di campo emerge come io stessa sia stata

spinta (probabilmente da stereotipi che inconsciamente hanno agito su di me

portandomi ad essere prevenuta nel non risultare “troppo delicata per il cantiere”) a

“dimostrare il mio valore e a superare delle ‘prove’” (Gherardi, Poggio, 2003) dinanzi

ad un pubblico di uomini per “guadagnarmi” un posto sul campo/cantiere. È il caso di

molte donne pioniere che, entrando in ruoli e posizioni tradizionalmente maschili,

hanno dovuto dimostrare la propria adeguatezza (ibidem; Pentimalli, 2007).

È la stessa ricercatrice, in questo caso, ad essersi trovata in difficoltà nel

cercare di “conformarsi” alla situazione che stava osservando e di trovare la sua giusta

collocazione. Difficoltà anche nel cercare di non incoraggiare il senso di inadeguatezza

(in alcuni casi da me percepito, a volte espresso nelle chiacchierate ascoltate sul

cantiere) di una donna su di un cantiere, dal momento che più volte è capitato di

sentirsi dire che “è strano” vedere una donna in un cantiere o che “non si vedono quasi

mai donne” (a parte le donne che lavorano negli uffici), però sul cantiere è davvero

molto raro. Ma quotidianamente, ho dovuto adattarmi in prima persona alla durezza

dell’ambiente che stavo osservando60, cercando di “guadagnarmi” la possibilità di

osservare senza essere messa da parte perché mi trovano in un posto pericoloso,

rischioso, sporco, terribilmente caldo o freddo, nonché in un ambiente ritenuto “da

uomini”!

60

Alzarsi alle 4.30 del mattino, indossare pesanti scarpe, stare delle ore sotto il sole e in un ambiente polveroso, non sono state certo condizioni facili, ma nonostante la fatica (e non ho lavorato!) ho cercato di resistere e andare avanti.

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A tal proposito, è interessante ricordare che il genere è stato studiato come

qualcosa che “le persone «fanno» ‒ una pratica sociale situata in contesti di

interattività ‒ e non come qualcosa che le persone «hanno»” (Bruni, Gherardi, Poggio,

2000: 5) per attribuzione socio-biologica o per ascrizione sociale. Il genere, inoltre, è

“un modo in cui è ordinata la prassi sociale” (Connell, 1996: 63)61. Ad emergere,

dunque, è una prospettiva in cui il genere è considerato alla stregua di una

performance relazionale in continua ricostruzione e ridefinizione per mezzo di

molteplici pratiche discorsive che hanno luogo nella società (Davies, Harré, 1990; Dent,

Whitehead, 2001)62.

Nell’immaginario collettivo, dunque, una donna non la si vede a lavoro in un

cantiere e forse questi stereotipi di genere hanno portato a rivolgermi le considerazioni

riportate nel brano che segue :

“[ … ] dopo che il capocantiere M. ha impartito le disposizioni agli altri

capicantiere sui lavori da eseguire nella giornata, proseguiamo verso il piazzale. Mentre

arriviamo una signora dice “non lo sapevo che assumevano manovalanza

femminile nei cantieri!”63, io sto per rispondere che c’è sempre una prima volta

quando M. dice, sempre continuando a camminare verso il piazzale, “lei è il capo qua.

Non è manovale, lei ci comanda a tutti qua!”, la signora si mostra sorpresa, sorride

e, dal momento che nessuno l’ascolta saluta e si allontana, noi salutiamo ed entriamo

nell’area di cantiere [ … ]. Dopo di questo, M. va a vedere oltre il cantiere, P. si ferma a

parlare con l’ingegnere. Intanto che io raggiungo P., uno dei due operai mi dice “è

61

Connell (1996), inoltre, afferma che “nei processi di genere la condotta della vita quotidiana è organizzata in relazione a un’arena riproduttiva, definita dalle strutture corporee e dai processi della riproduzione umana” (ibidem: 63). Il concetto di “arena riproduttiva” è utilizzata dall’autore proprio per sottolineare il processo storico che coinvolge il corpo e non la dimensione biologica di esso. Il genere, infatti, è una prassi sociale costantemente riferita ai corpi e a ciò che essi fanno, e non prassi sociale ridotta ai corpi (ibidem).

62 Va ricordato, inoltre, un altro concetto importate come quello di positioning (Davies, 1989), il

quale sottolinea come la costruzione dell’identità, ad esempio, avvenga attraverso un processo, appunto di posizionamento, in cui ogni individuo si posiziona tenendo conto delle pratiche discorsive che la società, da un lato, gli propone e, dall’altro, gli impone, allineandosi o contrapponendosi al posizionamento degli altri individui (Davies, 1989).

63 Questa nota di stupore accomuna anche altri racconti relativi a donne pioniere (Gherardi,

Poggio, 2003; Pentimalli, 2007), in cui sono gli stessi parenti delle donne a manifestare incredulità, stupore o ammirazione nei confronti della loro volontà a svolgere un lavoro tradizionalmente maschile.

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meglio che vai a fare la casalinga che vieni a perdere la testa col cantiere … qui

con questi diventi matto, lascia perdere …”64. Gli sorrido, dico che non è un

problema e raggiungo P.” (note di cantiere).

La battuta ironica del capocantiere “lei ci comanda tutti qua!” è un tentativo di

sovvertire l’ordine simbolico di genere (Gherardi, 1998; Gherardi, Poggio, 2003)

attribuendo a me un ruolo “di fantasia”, quasi un “carnevale immaginario” in cui poter

riscattare una attribuzione di identità che nella realtà non ha luogo. Il capocantiere,

inoltre, assume spesso un ruolo di “mio difensore” nei confronti di eventuali “attacchi”

o di situazioni spiacevoli che possano aver luogo all’interno del cantiere65.

Anche la frase di chiusura dello stralcio proposto ‒ “è meglio che vai a fare la

casalinga che vieni a perdere la testa col cantiere” ‒ è indicativo di un atteggiamento

che richiama una cultura di genere tradizionale, che relega la donna nei lavori

domestici e di cura. Alcuni anziani del mestiere, infatti, non accettano la presenza di

donne sul loro luogo di lavoro, ritenuto quest’ultimo un lavoro “da uomini” e perciò

“non adatto” ad una presenza femminile (Gherardi, Poggio, 2003; Pentimalli, 2007).

Se queste sono le considerazioni che ho ascoltato sulla mia presenza, anche

quando cercavano di capire chi fossi e che cosa ci facessi in quel posto, ognuno di loro

cercava di “inquadrarmi” in ruoli che tendono ad essere considerati piuttosto femminili

o quasi: mi hanno scambiato per psicologa: “a fine giornata c'è bisogno di sfogarsi con

qualcuno o avere una mano quando si deve parlare con i condomini incavolati!”; una

geometra alla sua prima esperienza, o al massimo un ingegnere (visto che una ragazza

ingegnere in questo cantiere è presente quasi quotidianamente, mentre negli altri due

cantieri di donne si vedono solo le addette alle pulizie o le impiegate come nel terzo

cantiere); “una che sta vedendo come funziona” e “che poi sarà integrata

nell’organigramma della CortemSpa?”, come ha chiesto qualcuno.

64

Non è certo l’incoraggiamento di cui ho bisogno e quando racconto a P. cosa mi ha detto S., l’operaio, si mette a ridere e mi prende in giro sul fatto che è sempre una possibilità.

65 C’è anche da dire che io non lavoravo con loro, in senso stretto, per cui ho avvertito nei miei

confronti, da parte del capocantiere, dell’assistente e di quanti hanno svolto un ruolo di “guida” all’interno della CortemSpa, una maggiore attenzione a che non incappassi in spiacevoli situazioni, date dal loro convincimento che l’ambiente di cantiere è particolarmente duro e poco adatto ad una donna (come si sta cercando di mettere in luce in questo paragrafo).

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È legittimo che la presenza dell’etnografo susciti diverse reazioni: paura, è una

spia (è venuta a vedere se rispettiamo le norme di sicurezza e lo dirà a qualcuno: al

capocantiere, al Coordinatore per la sicurezza, al Datore di lavoro o al di fuori

dell’organizzazione); disinteresse (è l’ennesimo controllo che vengono a fare; oppure

studiano la sicurezza, ma non sanno che stare in cantiere non è come andare

all’università); è una persona nuova che sta imparando. Si cerca, cioè, di incasellare una

persona “nuova” entro ruoli legittimi dell’organizzazione.

La “tipificazione” è un processo attraverso il quale si realizza la comprensione

reciproca, soprattutto in situazioni di rapporti fra gruppi (Schütz, 1979; Strati, Gherardi,

1990; 1997). E questo processo ha riguardato anche me, proprio nel momento in cui gli

altri cercavano di differenziarsi e darmi un’identità sociale.

Il fatto di essere stata presentata più come stagiaire che come dottoranda o

ricercatrice ha influito sul modo in cui sono stata vista: con curiosità e con tenerezza. Ai

loro occhi ero una “giovane ragazza” che “stranamente” (come ragazza, non come

giovane, essendoci altri giovani operai in cantiere) si trovava in quell’ambiente

polveroso e duro. Forse non gli era mai capitato di incontrare altri ricercatori sul luogo

di lavoro, o forse è stato il mio modo di pormi in maniera discreta, ma sicuramente la

mia presenza non rientrava nella loro “normalità”, benché alla fine della mia ricerca

hanno iniziato a considerarmi una “presenza quotidiana”.

In un certo senso ho cercato di non avere un’immagine “troppo vistosa”: ho

sempre legato i miei capelli (anche per il caldo) in una lunga coda ‒ non potevo tenerli

sotto il casco perché dotato di una struttura in plastica che mi impediva di raccoglierli

sotto di esso. Ho “curato” anche l’abbigliamento, ovvero ho indossato jeans e t-shirt

che ho ritenuto adeguati al cantiere66 (anche se il gilet ad alta visibilità che ho sempre

indossato mi “copriva” totalmente!)

66

Ho preferito indossare abiti comodi e “pratici” e che potessero, eventualmente, sporcarsi!, cecando di non attirare l’attenzione su di me come “figura femminile” in un luogo “prettamente maschile”, ma piuttosto come ricercatrice (anche se sono sempre stata vista come “stagista”!).

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Non mi sono data per vinta, anche se mi parlavano per sfogarsi ho ascoltato67,

ero intimorita dal farmi troppo coinvolgere68, ma è anche vero che lo stesso etnografo

è “soggetto partecipe di una realtà intersoggettivamente significativa che egli stesso, in

collaborazione con gli altri soggetti situati nello stesso contesto d'azione, contribuiva a

costruire. La soggettività dell’etnografo costituisce una risorsa tanto per la sua

comprensione del mondo al quale partecipa, quanto per quella dei soggetti che nella

pratica della ricerca incontra, quanto per la nostra comprensione di ciò che egli ci

propone quale risultato di una osservazione partecipante” (Bruni, Gherardi, Poggio,

2000: 5).

2.5.3 Costruire e “cercare cocci”: una questione di genere?

Ritornando al rapporto con l’archeologia e le archeologhe, come “praticanti” la

ricerca di “cocci” ‒ come qualcuno in cantiere le ha definite ‒ si è manifestato una

sorta di conflitto tra la visione “maschile” e quella “femminile” del cantiere. Ma anche

tra due mestieri e visioni professionali che sono ricoperti da uomini o da donne (operai,

capicantiere, ispettori … archeologhe69).

67

Confermando in qualche modo la tendenza ad associarmi ad un ruolo e ad una mansione tradizionalmente attribuite al genere femminile, come la “psicologa”, la “segretaria”, ovvero ruoli che implicano competenze solitamente attribuite all’universo simbolico femminile, come, per esempio, la capacità di ascolto, di “cura” degli altri (Gherardi, 1998; Gherardi e Poggio, 2003).

68 Essendo la mia prima etnografia, avevo paura di non trovare la “giusta distanza”: essere

distaccata?, farmi coinvolgere? In effetti per un primo periodo sono stata combattuta nella scelta del giusto atteggiamento da adottare, ma ben presto ho capito che comportarmi in maniera tranquilla e “naturale” sarebbe stata la cosa migliore. Ho dichiarato la mia presenza e l’obiettivo di essa, cercando di non essere troppo esplicita. In merito a questa questione, Marzano (2006) riporta la classificazione dei ruoli che un etnografo può ricoprire secondo Patricia e Peter Adler (1991):

“membro periferico”: rifiuta di assumere una collocazione attiva all’interno del gruppo e sceglie di continuare a vestire i panni del ricercatore;

“membro attivo”: in questo caso il ricercatore accetta di svolgere uno dei ruoli disponibili all’interno del gruppo che sta osservando;

“membro completo”: è il ruolo che permette al ricercatore di comprendere i significati che i soggetti attribuiscono a ciò che fanno attraverso una identificazione, una via empatica (Marzano, 2006: 58-60). Nella tipologia di Cardano (2006), inoltre, è possibile distinguere tra “osservazione coperta” e

“osservazione scoperta”. Nella prima, il ricercatore non svela la sua “identità” e i suoi scopi; nella seconda, invece, esplicita il ruolo e gli scopi che esso ricopre e persegue. Per le implicazioni che i due tipi di osservazione implicano si rimanda a Cardano, 2006.

69 Le archeologhe, va ricordato, sono coloro che, tra le attività principali, gestiscono l’area di

scavo, si occupano dei reperti ritrovati e li catalogano. Accanto a loro (ricordando anche che vi è un archeologo uomo), però, vi sono anche degli “operai”, ovvero dei lavoratori che si occupano anch’essi

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Se dal punto di vista “maschile” il cantiere è il luogo della “produzione”, del

tempo e dei soldi che s'investono nel “costruire”, il cantiere per le archeologhe,

raccontato da alcuni uomini del cantiere, è senza tempo, un “continuo scavare” senza

fine, non curanti della programmazione dei lavori del cantiere che “deve” andare

avanti e dei soldi che si perdono quando il cantiere “si ferma” per gli scavi archeologici.

In più occasioni, infatti, gli “uomini” hanno espresso il loro disappunto su questa

attività del cantiere, portandomi a riflettere sul “genere” delle pratiche archeologiche e

di costruzione. Questa sorta di insofferenza manifestata in alcuni casi, mi ha portato a

prestare maggiore attenzione a questa relazione e a chiedere qualcosa in più, sia agli

uomini del cantiere che si erano espressi in merito, sia alle archeologhe che ho

incontrato. Quello che è emerso è la presenza di due visioni professionali (Goodwin,

2003) differenti che, nel caso da me osservato e nel momento in cui l’ho osservato, mi

ha portato a pensare che parte del conflitto (non apertamente manifestato) potesse

essere letto attraverso una differenza di genere alla base delle due visioni

(relativamente, sempre, alla situazione da me osservata). È anche vero che le pressioni

a terminare l’opera, a portare a termine i lavori nei tempi e nei costi stabiliti, genera

una sorta di ansia da parte dei capicantiere, direttori di cantiere (e via via verso il

vertice gerarchico), tale da identificare l’attività archeologica come il “nodo” da

sciogliere per andare avanti, ma con la consapevolezza che senza l’analisi archeologica

l’opera, comunque, non può proseguire, essendo prevista nel Bando e nel progetto

stesso dell’opera. Ed è proprio quest’ultima considerazione a generare un

atteggiamento di “tolleranza” al fine di ogni episodio di “intolleranza sommessa”.

Prima di chiudere questo paragrafo, vorrei riportare alcune note di campo in

cui ‒ proprio nell’interazione con una archeologa che lavorava nel cantiere ‒ è emerso

come esso sia un ambiente “costruito”, concepito e “praticato/performato” come

ambiente maschile.

dello scavo, di recintare l’area del ritrovamento, di trasportare e custodire i reperti. Io non ho avuto modo di parlare direttamente con qualcuno di loro, ma ho assistito ad una conversazione tra il responsabile di tali operai e un capocantiere CortemSpa. L’impressione che ho avuto è che lui rappresentasse una sorta di “tramite” tra il mondo “femminile” delle archeologhe e quello “maschile” del cantiere. Probabilmente la posizione “a metà strada” tra i due lavori, tra i due mondi e le due visioni, gli permetteva di giocare una carta in più, proprio quella della conoscenza e, quindi, del “sapersi calare nei panni” delle due realtà, conoscerle e mediare tra di loro.

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“Andiamo al bar. Dopo essere usciti ci dirigiamo verso il piazzale per andare a

vedere la situazione dei lavori. Io mi fermo a parlare un po’ con B. che mi dice di non

sentirsi bene “mi sono venute stamattina, nel pullman per venire qui mi veniva

da rimettere … mannaggia prima sono scappata, se ne sono accorti? … non mi

andava di dire niente, non voglio far vedere che sto male … Dovevo andare di

corsa al bagno! Beati gli uomini che hanno tutte le fortune!!!” [ … ] (L’episodio è

stata un’occasione per riflettere, nelle mie note e in parte con lei, come l’ambiente

cantiere sia impostato “a misura di uomo”). Inoltre, ho chiesto a B. se almeno lei ha un

bagno e mi ha risposto che la donna delle pulizie le ha lasciato “spruzzino e spruzzetti

per il bagno che c’è!”70. Continuiamo a chiacchierare della cosa tra di noi, B. è

contenta che io possa capirla soprattutto perché ho avuto la stessa difficoltà …” (Note di

cantiere).

Questo episodio ‒ di solidarietà femminile in un mondo maschile ‒ mette in

evidenza come proprio il non essere in forma (anche nel caso non sia espressamente

manifestato un disappunto per una “donna a lavoro che non stia bene”) in un

ambiente ed universo di quasi soli uomini, in cui la forza e la resistenza sono al primo

posto tra le qualità richieste, creino una forma di disagio nella persona (donna) che ne

condivide gli spazi “maschili”. Il non doversi dimostrare fragili, doloranti o paurose

viene assorbito quasi per osmosi dall’ambiente performato al maschile (Garfinkel,

2000). La pratica della maschilità e il fare “da veri uomini” (La Cecla, 1999)

caratterizzano di riflesso, in modo dicotomico, la pratica della femminilità in un

contesto tradizionalmente maschile, lasciando alla donna come unica alternativa quella

di un certo “adattamento silenzioso” che non chiede di mettere in discussione lo stato

delle cose.

È anche vero, però, che uno degli ultimi giorni della mia permanenza sul primo

cantiere, il capocantiere, raccontandomi della visita medica svoltasi il pomeriggio

precedente in cui io non ero presente, ha affermato: “Noi sbagliamo perché il cantiere 70

La costante tra me e lei è data dal fatto che entrambe non abbiamo voluto dire di non stare bene, tant’è che lei ha poi preso due calmanti ed io il giorno prima non sono stata presente sul cantiere preferendo rimanere a casa!

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pensiamo sia solo per uomini, ma ci sono gli uomini e le donne! … ‒ si ride e poi

aggiunge ‒ Ma lei dove va in bagno?”. La domanda retorica si riferisce a me e prosegue

raccontandomi che la dottoressa che ha effettuato la visita medica di routine negli

spogliatoi degli operai ha creato un po’ di imbarazzo. L'imbarazzo, però, era dato dalla

“tranquillità” della dottoressa nel lavorare in quell’ambiente, “era una tosta!” la

definisce il capocantiere, quasi a sottolineare una performance “maschile” (Bruni,

Gherardi, 2000). A tal proposito, infatti, l’attribuzione di elementi maschili ad una

donna ‒ in questo caso l’essere “tosta” ‒ ne riconosce l’eccezionalità del carattere,

riaffermando, implicitamente, che le donne non lo sono “per natura” (Gherardi,

Poggio, 2003; Pentimalli, 2007).

È il momento, dopo questa disamina, di lasciare posto al campo e all’esito

dell’osservazione come “testo polifonico” (Clifford, Marcus, 1986) dove centrali sono i

processi d’interazione tra gli attori.

L’etnografia, dunque, da metodo di ricerca, si trasforma in prodotto delle

diverse attribuzioni di senso (Marcus, Cushman, 1982). Appare, dunque, come una

delle possibili storie da raccontare, “plausibile”, più che “vera”, condizionata

dall’azione continua dei partecipanti, sia dal ricercatore che dai “nativi”, ed orientata a

sottolineare ciò che non torna, piuttosto che l’adesione della realtà ad un modello

teorico (Bruni, 2000).

È questo ciò che cercherà di fare la storia che segue ai capitoli 4 e 5. Prima

occorrerà ricostruire il campo organizzativo, ovvero lo “sfondo” in cui ha luogo la

nostra storia.

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3. Il campo d’indagine: rete istituzionale, organizzazione, attori

locali

Nel primo capitolo è stato descritto il fenomeno infortunistico attraverso i dati

statistici forniti dall’INAIL, al quale si è affiancata una ricognizione della normativa che

disciplina la sicurezza sul lavoro, fino ad una prima “classificazione” ‒ all’interno dei

quattro discorsi principali: normativo, tecnico, educativo e economico (Nicolini, 2001) ‒

degli attori istituzionali che si occupano di sicurezza nei contesti di lavoro, non ultimo

nei cantieri edili.

Obiettivo principale di quest’analisi è stato evidenziare i diversi attori che

negoziano, creano alleanze o confliggono, nei contesti di lavoro, per tessere il “campo

organizzativo” entro cui osservare la messa in pratica della sicurezza.

Nel secondo capitolo, invece, ho dato conto delle difficoltà di individuare il

campo di ricerca e quelle, una volta trovata l’organizzazione disponibile ad accogliermi,

legate alla negoziazione del suo accesso.

A questo punto, però, prima di entrare in cantiere è importante fare un passo

indietro e descrivere brevemente il campo scelto per una ricerca sulla sicurezza sul

lavoro: il settore delle costruzioni, che fa parte del più generale settore produttivo

dell’industria che ha rappresentato, soprattutto nella prima metà del ‘900, un

importante laboratorio per la nascita e lo sviluppo della sociologia delle organizzazioni

e di molti degli studi fondativi della stessa, come quelli sulla leadership o sui gruppi di

lavoro, per esempio. Cercherò, inoltre, di ricomporre lo sfondo entro cui le dinamiche

di costruzione della sicurezza sul lavoro hanno luogo (e di cui la CortemSpa ne è un

effetto); di descrivere l’ambiente cantiere (soprattutto l’organizzazione del processo

produttivo), il tutto mettendone in evidenza il processo di reciproca influenza tra gli

attori e il contesto, offrendo infine una “mappa degli attori” (Fig. 1) utile a fornire le

coordinate per l’accesso al campo che avverrà nei prossimi due capitoli.

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3.1 Il settore delle costruzioni: l’edilizia industrializzata

Pionieristici studi sociologici condotti nel settore dell’edilizia (Campelli 1981,

Cipollini 1982, prima ed. 1979), anche se non specificamente sul tema della sicurezza

sul lavoro, ricordano come il settore abbia subìto un processo di “riorganizzazione” che

ha permesso il passaggio “dal sistema produttivo tradizionale all’edilizia

industrializzata” (Campelli, 1981: 9).

L’introduzione del cemento armato, per esempio, consentiva agli inizi degli

anni ’50 in Italia, e prevalentemente nell’edilizia residenziale, “di avviare un profondo

processo di ristrutturazione basato sull’aumento della divisione del lavoro e sulla

modificazione di competenze professionali: il cemento armato consentiva (a differenza

della tecnologia edilizia caratterizzata dall’uso di murature portanti) la suddivisione in

fasi del processo produttivo e quindi la scomposizione di una attività artigianale

complessiva in diverse lavorazioni artigianali parziali (carpenteria, lavorazione del ferro,

muratura)” (ibidem: 10-11)1. Quello che le ricerche mettono in risalto nei loro distinti

lavori è sostanzialmente il passaggio da un tipo di attività artigianale, caratterizzata da

livelli notevoli di competenza professionale, da un’autonomia decisionale e da abilità

operative ed esperienze possedute dagli operai, dove prevale un’organizzazione del

lavoro in cui la manodopera è suddivisa in squadre “all’interno delle quali la forza

lavoro non qualificata aveva ancora la possibilità di “apprendere il mestiere”,

attraverso il contatto diretto con gli operai specializzati nell’esecuzione del lavoro”

(Campelli, 1981: 12), ad una edilizia un po’ più industriale.

Lo spartiacque, dunque, è rappresentato dalla prima metà degli anni ’60 (nel

’64 si ebbe una crisi edilizia che rafforzò il processo di razionalizzazione in esame) e

dalle innovazioni introdotte in quegli anni. Si parla, infatti di “meccanizzazione dei

cantieri edili” (Cipollini, 1982: 99)2. Una prima fase interessò le attività di scavo, cosa

1 Come lo stesso autore ricorda, “si rendeva quindi possibile il passaggio da un modo di

produzione definibile in termini marxiani come cooperazione semplice al modo di produzione tipico della manifattura, caratterizzato cioè da una cooperazione fondata sulla divisione del lavoro” tratto da K. Marx, Il Capitale, libro I, sez. IV. Einaudi. Torino. 1975. p. 411. Nota 5, Campelli 1981: 11.

2 “La progressiva rigidità dell’offerta di forza lavoro specializzata, la ripresa dell’organizzazione

sindacale e delle lotte operai e, non ultima, la necessità di contenimento dei costi di produzione ed in particolare del fattore lavoro in un momento in cui si avvia una più accentuata dinamica salariale con aumento dei livelli della paga base oraria contrattuale e l’iniziale contrattazione dei salari a rendimento,

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che ridusse drasticamente la forza lavoro tradizionalmente addetta alla esecuzione

manuale dello scavo, eseguita dai terrazzieri. Per quanto riguarda il trasporto,

s’introdussero le gru per i trasporti a terra e in elevazione (nacque la figura del gruista)

e si ridusse la forza lavoro meno qualificata e addetta ai trasporti manuali; infine, la

lavorazione del cemento fu caratterizzata dalla diffusione della betoniera a

funzionamento automatico che alleggerì i manovali in fase di preparazione del

cemento (Cipollini, 1982).

Se una riduzione massiccia di forza lavoro non qualificata è uno degli aspetti

che seguì al processo di meccanizzazione edilizio, quello dell’aumento del controllo da

parte delle imprese sulla produttività operaia ne è ulteriore conseguenza. Le fasi non

meccanizzate si subordinarono a quelle meccanizzate, “con un aumento sensibile dei

ritmi produttivi e del controllo padronale sull’organizzazione del lavoro” (ibidem, 100).

A ciò seguì un’ulteriore divisione del lavoro che determinò “una frantumazione delle

maestranze: mentre si approfondiva la divisione nei confronti della forza lavoro che si

alternava all’inizio (scavo) e alla fine (impianti, rifiniture) dei lavori (dipendente nella

maggior parte dei casi da subappaltatori o dai capo cottimisti). La stessa forza lavoro

addetta alle fasi centrali della costruzione subì forme di divisione del lavoro:

carpentieri, ferraioli, cementisti che pure eseguivano una lavorazione unitaria

(elevazione della struttura portante), svolgevano le loro mansioni in modo sempre più

autonomo, mentre i muratori, che già eseguivano rispetto ad essi un lavoro separato,

subirono una divisione al loro stesso interno (con la creazione di nuove mansioni

riguardanti la rifinitura dell’opera muraria)” (ibidem, 101-102)3.

Dunque, anche il settore edilizio può dirsi investito dalle diverse innovazioni

tecnologiche che hanno ridotto l’incidenza dei lavori più ad alto rischio, hanno

comportato una riduzione della forza lavoro, ma allo stesso tempo hanno mantenuto la

caratteristica di settore con un’alta presenza di fenomeni infortunistici, soprattutto in

quelle attività lavorative a prevalenza “manuale” e in cui non è richiesta una particolare

preparazione/formazione, o qualifica.

furono i fattori essenziali che favorirono - fin dai primi anni ’60 - l’avvio di un processo generalizzato di meccanizzazione nell’industria delle costruzioni” (Cipollini, 1982: 99-100).

3 Come si vedrà nei prossimi capitoli, però, anche se vi è una divisione delle mansioni, il lavoro ha

comunque una natura collettiva e collaborativa, come emerge anche dai racconti degli operai intervistati.

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Possiamo dire che anche il settore edilizio, come quello industriale, sia stato

interessato da quella “risposta organizzativa elaborata in una data fase storica

dell’evoluzione tecnologica” (Bonazzi, 2008: 129) e che rappresenta il taylorismo. Sono

ravvisabile, anche in questo settore come quello automobilistico analizzato da Touraine

(1974), le tre diverse fasi che ne hanno caratterizzato l’evoluzione, soprattutto a

seguito dell’introduzione delle innovazioni tecnologiche.

L’autore parte da quella che definisce fase A caratterizzata dalla diffusione

delle macchine polivalenti universali, la cui caratteristica principale è la loro flessibilità

produttiva e l’impiego in lavorazioni di serie che siano limitate e intercambiabili (lo

scavo meccanizzato con escavatore in edilizia, al quale possono essere applicati anche

altri utensili). Successiva ad essa è la fase B in cui le macchine monovalenti

sostituiscono quelle polivalenti, in grado di eseguire una sola lavorazione (la betoniera

o la gru in edilizia). Infine, la fase C, con la diffusione delle macchine “transfert”,

automatiche (come per esempio, in edilizia. la “talpa meccanica”, o la macchina per

micropali o la fresa meccanica per i diaframmi, le quali hanno un contenuto

tecnologico elevato, ma richiedono pur sempre “una collaborazione” con l’operatore).

Anche se una disamina delle caratteristiche e delle evoluzioni del settore

edilizio esula dal presente lavoro, è però innegabile che esso sia stato investito da

notevoli cambiamenti, come le ricerche di Campelli (1981) e Cipollini (1982)

dimostrano e sia divenuto un campo complesso e variegato, dove alle considerevoli

innovazioni tecnologiche (si pensi alle “talpe meccaniche” che scavano chilometri di

galleria, lavoro che fino a non molto tempo fa era ancora eseguito manualmente o con

escavatori), si affiancano situazioni in cui permane un tipo di lavoro affidato all’operaio

di mestiere e ai manovali che lo affiancano per apprendere un mestiere; oltre a

situazioni di lavoro dequalificato che non richiede particolari competenze, come gli

addetti alla pulizia del cantiere o i “tutto fare” che vengono impiegati per accelerare i

tempi di produzione.

Accanto a ciò, vanno ricordate anche situazioni in cui si lavora come in “una

catena di montaggio”, a detta degli stessi lavoratori e responsabili, in un’accezione

piuttosto tradizionale del rapporto uomo-macchina, in cui la produzione si realizza nel

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rispetto delle cadenze e secondo una ripartizione del lavoro tra gli operai e le

macchine, ritenendo i lavoratori responsabili della loro “direzione”. Secondo Touraine,

la catena di montaggio può essere intesa come “un tipo di organizzazione del lavoro

per cui le diverse operazioni, ridotte alla medesima durata o ad un multiplo o

sottomultiplo semplice di tale durata, vengono eseguite senza interruzione tra loro e in

un ordine costante nel tempo e nello spazio” (1974: 62).

Le foto che seguono hanno lo scopo di illustrare le condizioni di lavoro agli inizi

del 900 e la diversità, rispetto ai giorni nostri, di “equipaggiamento”, dal momento che

non è presente alcun tipo di dispositivo di protezione individuale, né collettivo. Per un

confronto, inoltre, seguono delle foto che ritraggono alcune contemporanee

situazioni/condizioni di lavoro e lo sviluppo tecnologico che ha interessato anche il

settore delle costruzioni in edilizia.

I cambiamenti sono diversi e alquanto evidenti: dal lavorare con le nude mani

all’uso dei guanti di protezione; dallo scavo realizzato con picconi o anche a mano a

mezzi di scavo altamente tecnologici, in grado di scavare diversi chilometri in una sola

giornata di lavoro e richiedendo una squadra di lavoro molto meno numerosa;

dall’assenza alla presenza di strutture di ausilio e supporto delle zone interessate dallo

scavo che sono messe in sicurezza non più, o non soltanto, attraverso puntellamenti

che spesso hanno prodotto crolli e cedimenti delle aree interessante, provocando la

morte di diversi operai, ma con strutture di protezione.

Non va dimenticato, però, che ancora oggi ci sono situazioni in cui permangono

le “vecchie” condizioni di lavoro, in Italia come nel resto del Mondo.

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Fonte: “Lavori alla Galleria del Sempione. Copertina de “L’Illustrazione Italiana” del 30 settembre 1900. Biblioteca Nazionale Centrale ‘Vittorio Emanuele II’”, Roma.

Fonte:” Josè Malgioglio, costruttore, con alcuni operai durante una pausa di lavoro. Argentina, 1930 - Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’Emigrazione italiana, Lucca”

4.

4 Le immagini sono foto scattate al “Museo Nazionale Emigrazione Italiana” allestito a Roma,

Complesso del Vittoriano nel febbraio 2010.

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Fonte: lavori di costruzione del tunnel del San Gottardo, in Svizzera (scaricate nel mese di gennaio 2011 dal sito www.alptransit.ch/it/).

Se da un lato, però, l’evoluzione del lavoro anche in campo edilizio ha

“alleggerito” gli operai da molte fatiche e altrettanti rischi, dall’altro ha modificato la

natura di tali rischi e creato nuove difficoltà, come il rapporto con i macchinari, o gli

orari di lavoro che spesso sono rimasti massacranti. Permane, inoltre, una sorta di

fiducia positivistica nella tecnologia, come la sola in grado di garantire un controllo e

una riduzione degli incidenti attribuiti, spesso troppo frettolosamente, ai soli

lavoratori. Ad emergere, dunque, è la scarsa problematizzazione del rapporto uomo-

macchina in un’accezione rinnovata del rapporto con le tecnologie, che al contrario

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prenda in considerazione anche la componente materiale e tecnica delle relazioni

sociali (Mongili, 2007).

Questa breve ricognizione delle principali innovazioni che hanno interessato il

settore delle costruzioni permette ora di addentrarci in un territorio che rappresenta lo

sfondo, ovvero il campo organizzativo entro il quale la ricerca ha preso corpo, il tessuto

organizzativo in cui il ricercatore ha dovuto ricavarsi uno spazio per osservare da vicino

la sicurezza in pratica.

Prima di ricostruire il “campo organizzativo” di riferimento e la storia della

CortemSpa, è opportuno ricordare cosa s’intende con questo concetto.

Esso è stato proposto, nell’ambito della scuola neoistituzionalista di Meyer e

Rowan (1977, trad. it. 1986), da Powell e DiMaggio (1991a, trad. it. 2000) per spiegare

il meccanismo attraverso il quale le istituzioni non si suddividono in istituzioni che

subiscono e in quelle che esercitano pressioni all’isomorfismo (ovvero la progressiva

omogeneizzazione delle varie componenti sociali di una istituzione e/o di

organizzazioni dello stesso tipo). Se, infatti, la suddivisione poco sopra ricordata è una

delle considerazioni finali delle ricerche condotte da Meyer e Rowan, l’ulteriore

approfondimento nello studio dei processi di isomorfismo portano Powell e DiMaggio

ad elaborare il concetto di “campo organizzativo”.

Il loro obiettivo diviene, dunque, spiegare le ragioni per cui “le pressioni

istituzionali spingono le organizzazioni a diventare sempre più simili senza che per

questo divengano necessariamente più efficienti” (Bonazzi, 2002: 114). La risposta

risiede proprio nel concetto di “campo organizzativo” inteso come “un insieme di

organizzazioni che, considerate complessivamente, costituiscono un’area riconosciuta

di vita istituzionale: fornitori-chiave, consumatori di risorse e prodotti, agenzie di

controllo e altre organizzazioni che producono prodotti o servizi simili” (Powell e

DiMaggio, 2000: 90). Questo concetto, dunque, mette in evidenza la varietà di attori in

gioco coinvolti, non solo in concorrenza tra loro, ma anche la presenza di attori più o

meno consapevoli di partecipare ad un processo di cambiamento, sia esso politico,

culturale, tecnologico o economico (Bonazzi, 2002).

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3.2 Il campo organizzativo e le reti d’azione

La città di Roma è da qualche anno un cantiere aperto. Per tutta la città è

possibile osservare diverse aree recintate da grandi pannelli recanti i nomi delle società

che stanno ammodernando il trasporto pubblico urbano. Da queste aree, nella maggior

parte dei casi, svettano lunghe gru o grossi silos. Il tutto sempre in gran movimento:

camion e betoniere che entrano ed escono; operai che lavorano; addetti alla sicurezza

che si avvicendano nei controlli; operai delle ditte di luce, gas ed acqua che

intervengono nei lavori e tanti altri ancora.

Nel complesso dei diversi progetti di costruzione, emerge come sia un’opera

poderosa, ma allo stesso tempo come essa sia molto evidente in alcune zone della città

(comportando modifiche della viabilità urbana quotidiana; rumore e vibrazioni di alcuni

condomini in prossimità degli stessi cantieri; la rabbia degli esercenti perché il loro

“ipotetico cliente” non entra più in negozio e altro ancora). Alcuni cantieri sono

tuttavia meno invadenti per il fatto che, dopo qualche tempo, sono scomparsi

nell’oblio della popolazione interessata perché temporanei o siti in zone meno

popolate.

Ma prima di arrivare alla fase di realizzazione dell’opera in questione, occorre

chiedersi cosa sia accaduto prima, ovvero nel momento in cui è stata presa la decisione

di costruire una nuova linea di trasporto pubblico a Roma, chi siano gli attori che hanno

reso possibile tutto ciò e con quali azioni abbiano realizzato questo progetto.

Ad emergere, infatti, è la molteplicità degli attori che sono entrati in relazione

con il progetto di realizzazione della nuova linea di trasporto urbano. Al di là della

durata della loro permanenza sulla scena, quello che è importante notare è che ciascun

attore sociale che entra a far parte del campo organizzativo in esame contribuisce a

tessere la rete di relazioni che nel suo complesso caratterizza tale campo in un dato

modo piuttosto che in un altro. È il suo carattere situato (Conein, Jacopin, 1994;

Suchman, 1987) ad emergere e la sua analisi permette di comprendere meglio le

dinamiche che ruotano attorno a questa complessa opera, anche in relazione alla

questione della sicurezza sul lavoro.

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Rispetto alla molteplicità degli attori, è interessante la distinzione che gli autori

di Gestire grandi città ‒ Czarniawska, Mazza, Pipan (2001) ‒ evidenziano tra network e

“rete d’azione”. Il primo rappresenta la rete di contatti personali che ciascun attore

possiede e, in particolare, quella che si stabilisce tra gli attori impegnati in un progetto,

per esempio. “Gli attori sono la sorgente della rete, danno inizio alle interazioni,

creando con la ripetizione reti di contatti” (27). La “rete d’azione”, invece, va al di là dei

rapporti tra gli attori: “le azioni sono modellate dalle istituzioni, che sono più durature

degli attori; in verità sono loro ad assegnare le identità agli attori e non il contrario”

(ibidem).

Per saperne di più su questi grandi cantieri, e rendere più comprensibile una

realtà che circonda coloro che vivono la città di Roma degli ultimi anni, è utile provare a

raccontare le tappe salienti della storia attraverso la quale la nuova linea metropolitana

di Roma ha preso il via e quella della CortemSpa, la società di progetto che ha vinto

l’appalto per la costruzione di un’opera di notevole impatto e che può a buon diritto

essere ritenuta un’organizzazione complessa.

3.2.1 Prima fase: ottenere consenso e risorse per avviare una grande opera

La storia che si sta per raccontare ha il suo inizio ufficiale nel giugno del 2002,

quando il Consiglio comunale di Roma approva le delibere che concludono l’iter

amministrativo sulla costruzione di una nuova linea di trasporto urbano. In effetti le

radici del processo affondano in alcuni provvedimenti presi dal Governo italiano ben

dieci anni prima5 e nel varo del Piano Regolatore Generale che il Comune di Roma ha

avviato nello stesso 2002. Al centro di quest’ultimo, il potenziamento della linea dei

trasporti che prevedeva ben 300 chilometri di nuove linee su ferro.

Il progetto preliminare approvato dal Consiglio comunale approda, nell’estate

del 2003, a Palazzo Chigi, dove il CIPE (Comitato interministeriale per la

Programmazione economica) approva il percorso fondamentale della linea di trasporto

che interessa una parte notevole della città.

5 Nel 1992 entra in vigore la legge per gli “Interventi nel settore dei sistemi di trasporto rapido di

massa” (n. 211/92) e negli anni successivi alcune tratte della linea vengono ammesse ai finanziamenti.

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Il CIPE, dunque, dispone lo stanziamento di 316 milioni di euro per gli anni 2003

e 2004 che serviranno, a detta dell’allora sindaco Veltroni, per “gli scavi archeologici e

geologici e per la progettazione esecutiva”6, mentre ulteriori 971 milioni di euro

sarebbero stati stanziati nel 2005 (per un valore complessivo di 2 miliardi e 898 milioni

di euro).

Sono diverse le caratteristiche che emergono relativamente alla realizzazione

dell’opera: la compartecipazione di Stato (70%), Regione Lazio (12%) e Comune di

Roma (18%) nel finanziamento della stessa; le tecniche di scavo a trenta metri sotto il

livello stradale, onde evitare eventuali insediamenti archeologici disseminati nel

sottosuolo della Capitale; la formula di “general contractor”, ovvero del contraente

generale istituito dalla legge obiettivo7, che è responsabile dell’intera infrastruttura,

dalla progettazione all’esecuzione, per la cui ricerca è indetto un bando di gara

secondo le direttive europee, da svolgersi entro l’estate del 20048.

È il 2004 a caratterizzarsi come anno cruciale in cui si gioca l’intera partita della

nuova linea di trasporti pubblici di Roma che si prefigge di trasportare ben 400 mila

persone al giorno. All’inizio di quell’anno, infatti, entrano in scena nuovi attori, i tempi

si fanno sempre più stringenti e occorre dare un segnale chiaro in direzione delle

disposizioni del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. A marzo dello stesso anno

il Consiglio Comunale approva la progettazione preliminare di un’ulteriore parte del

percorso, come richiesto dal CIPE affinché fosse annessa a quella già approvata. Resta

da sbrogliare ancora un nodo cruciale: quale sarà la società che si occuperà di bandire

la gara e di svolgere compiti di vigilanza, nei tempi utili ad evitare il commissariamento

da parte dell’allora ministro per le infrastrutture Lunardi?

6 Tratto dall’articolo di Beatrice Picchi su il Messaggero del 2.08.2003 (pubblicato su

architettiroma.it/archivio). 7 Legge 21 dicembre 2001, n. 443 “per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti

produttivi strategici e di interesse nazione”, detta appunto “Legge Obiettivo”. Il CIPE ha inserito la realizzazione della linea di trasporto pubblico della CortemSpa nell’elenco delle opere prioritarie d’interesse nazionale da realizzare attraverso le risorse finanziarie stanziate sempre attraverso la Legge Obiettivo del 2001. Nella stessa legge, inoltre, è introdotta la figura del General Contractor quale affidatario degli interventi relativi alla realizzazione dell’opera.

8 La qualificazione dell’opera, da parte del CIPE, come infrastruttura a carattere strategico e di

rilevanza nazionale prevede, quindi, una normativa parzialmente derogatoria rispetto alle disposizioni vigenti in materia di appalti pubblici.

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A questo punto il Comune si trova a dover fronteggiare ancora un altro evento:

la presentazione di un project financing (un progetto finanziato con capitale privato) da

parte di una cordata di imprese italiane che, a sorpresa, alle ore 12 del 31 dicembre del

2003, ha presentato la sua proposta al Comune con l’obiettivo di aggiudicarsi una gara

d’appalto di quattro miliardi di euro.

Il Campidoglio, dunque, deve prendere delle decisioni, deve individuare la

società che indìca la gara e decidere sulla cordata d’imprese: diverse le ditte private di

costruzione raccolte in un’ATI (Associazione Temporanea d’Impresa) con l’intento di

presentare insieme la loro proposta di costruzione.

Il primo passo compiuto dal Comune è stato evitare il commissariamento

dando vita ad una “cabina di regia” per la realizzazione di una delle più grandi opera

della città di Roma. È nel maggio del 2004 che il Consiglio comunale approva la

strategia messa in atto nei mesi precedenti: individuare nella società Servizi per la

mobilità9, di proprietà del gruppo che nella Capitale si occupava dei parcometri e della

mobilità. Ciò ha indotto gli assessori della giunta a ritenerla un buon soggetto al quale

affidare il nuovo compito e riempire di contenuto una sigla che fino a quel momento

non aveva ancora definito le sue funzioni. Ma spetta al Consiglio comunale l’ultima

parola, che arriva nel mese di maggio di quello stesso anno: a Servizi per la Mobilità,

che prende il nome di “Roma per il Trasporto Pubblico”, spetta il compito di indire la

gara d’appalto per individuare il general contractor che realizzerà l’opera. La nuova

società sarà affiancata da un organismo giuridico e da una commissione tecnico-

scientifica e si occuperà della realizzazione di importanti opere di trasporto pubblico

della capitale.

Dagli articoli dei più disparati giornali (La Repubblica, Il Corriere della sera, Il

Messaggero, per citarne alcuni) riecheggia l’ottimismo per il risultato raggiunto e per

quello che questo passo rappresenta: finalmente è stata individuata la società che si

occuperà, in modo esclusivo, di tutto l’iter, dalla predisposizione del bando all’azione di

vigilanza (compresa quella sulla sicurezza sul lavoro).

9 Tutti i nomi utilizzati nella presente tesi, sia in riferimento a organizzazioni che a personaggi,

sono di fantasia.

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In sospeso vi è, però, la proposta di project financing: che cosa ha deciso la

giunta? Dopo alcuni mesi durante i quali quest’ultima ha valutato la proposta dell’ATI

(Associazione Temporanea d’Impresa), ha analizzato tutti i documenti, ma ha poi

optato per proseguire l’iter della gara internazionale per la realizzazione dell’opera,

ritenendo il progetto dell’ATI troppo oneroso e dai tempi di realizzazione molto incerti.

Nel mese di luglio, sempre del 2004, anno che si dimostra essere ricco di

appuntamenti, viene firmato il secondo atto (aggiuntivo all'Accordo procedimentale

del 29 maggio 2002) tra il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Presidente

della Regione Lazio e il Sindaco di Roma. Con tale atto trovano definizione tutte le

problematiche emerse nel corso dell’istruttoria effettuata dal Ministero delle

Infrastrutture e dei Trasporti condotta al fine di dare piena attuazione alle disposizioni

dal CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica). Tale accordo

sancisce, in effetti, per le cariche politiche coinvolte, la conclusione dell’intesa

istituzionale sul nuovo progetto.

Queste le problematiche relative alla realizzazione di una nuova viabilità

pubblica e, di conseguenza, della messa in opera di grandi opere di costruzione che fin

da subito si sono proposte di rappresentare il grande riscatto della Capitale, come la

concreta risposta ai problemi sempre più pressanti di un traffico sempre più

congestionato, nonché di collegare lembi della città tanto diversi tra di loro sia dal

punto di vista urbanistico e architettonico ma, soprattutto, sociale (dai comunicati

ufficiali del Comune).

Tutti gli atti e le azioni predisposte in questa prima parte dell’anno trovano una

naturale confluenza nell’appuntamento con il pre-CIPE (la riunione tecnica che precede

quella del CIPE) e, successivamente, di nuovo con il Comitato Interministeriale per la

Programmazione Economica (CIPE). L’obiettivo è quello di ricevere l’assenso per

l’integrazione di una parte del percorso, così come disposto dallo stesso CIPE, e la

modifica del sistema di guida dei mezzi di trasporto pubblico da realizzare, la cui

tecnologia viene sostituita con una di tipo automatico al posto di quello con guidatore.

Il pre-CIPE del 20 ottobre ottiene un parere positivo, ma da questo momento

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inizieranno dei rimandi infiniti: ogni volta che verrà fissata una data10, infatti, questa

slitterà puntualmente, suscitando lo scontento e il malumore del sindaco della Capitale

(V. Veltroni) e dei suoi assessori.

Il fulcro dello scontento si concretizza in una norma della finanziaria di

quell’anno, il 2004, che pone un tetto del 2% agli investimenti per i Comuni. Il sindaco

della città dichiara a più riprese di essere intenzionato ad andare fino in fondo, di non

essere disposto a rinunciare al progetto e, soprattutto, sottolinea come l’errore di

fondo risieda nel fatto di considerare l’opera in questione come normale manutenzione

o come una qualsiasi altra spesa corrente supportata dal Comune.

L’occasione, dunque, si dimostra propizia per ricordare le cifre e la vastità del

progetto che rischia di restare in sospeso o di essere accantonato per mancanza di

fondi. Inoltre, due giorni dopo la delibera del pre-CIPE, Roma per il Trasporto Pubblico

presenta il progetto ai costruttori europei, presso l’Auditorium della Fédération

Française du Bâtiment, in occasione del “Forum européen des entreprises générales”

che riunisce le maggiori imprese di costruzioni europee, in vista della gara da indire

appena il CIPE avrebbe dato il suo assenso.

A seguito del terzo rinvio della seduta del CIPE, l’allora sindaco Veltroni inviò

una lettera indirizzata all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi, per evidenziare

l’insostenibilità della situazione e per sollecitare la convocazione della seduta del CIPE. I

toni si riscaldano e la questione rischia di diventare una faccenda politica, ma

l’assessore alla Mobilità capitolina ribadisce che al CIPE non si chiede nulla di più che

valutare quanto richiesto dallo stesso Comitato nella precedente seduta (estate del

2003), così da poter sbloccare la situazione di impasse nella quale il progetto è venuto

a trovarsi e poter dare il via alla fase di realizzazione.

È il 20 dicembre la data in cui, dopo tanti rinvii, si riunisce il CIPE che approva

definitivamente il progetto della tratta fondamentale, per un costo di più di tre miliardi

di euro con una durata dei lavori di sei anni. Sempre il CIPE approva l’automazione

integrale della linea (che sarà con treni senza conducente) come le metropolitane di

Copenaghen, Singapore, Parigi e Lille.

10

La prima data era stata fissata per il mese di ottobre, poi rimandata ad una seconda data nel mese di novembre e successivamente ancora rinviata al mese di dicembre.

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È dunque il giorno della svolta: finalmente è possibile indire la gara d’appalto,

in un’unica procedura, per individuare il general contractor che eseguirà l’opera e

nuovamente ricomincia il walzer di date circa la conclusione dell’espletamento delle

pratiche e l’avvio dei primi cantieri.

Il 2004, pertanto, si conclude con una buona notizia per i sostenitori della

nuova opera, anche se con un anno di ritardo sulla tabella di marcia prevista sin

dall’inizio. Tante le azioni, tanti gli attori entrati in gioco sino a questo punto e che

hanno contribuito a tessere la trama di una seppur breve storia di un artefatto (una

linea di trasporto urbano) che cambierà le abitudini e la fisionomia di un’intera città e

non solo.

3.2.2 Seconda fase: chi avrà il compito di costruire la nuova linea di trasporto

pubblico urbano?

A questo punto sembrano esserci tutti gli ingredienti per indire il bando di gara

che permetterà ad un’impresa di aggiudicarsi l’appalto. Il 2005 si apre con tante

declamazioni per la Capitale: “Roma come le altre capitali d’Europa”, “si potrà chiudere

il centro storico al traffico”, “si passerà dagli attuali 36 chilometri a ben 87 chilometri”

(principali affermazioni del sindaco della città riportate dai diversi giornali nella sezione

di cronaca locale, come La Repubblica, Il Messaggero, Il Corriere della sera) e,

finalmente a metà febbraio viene pubblicato il bando di gara, su Gazzetta Ufficiale

italiana ed europea, per l’affidamento della realizzazione della nuova opera ad un

contraente generale. Il sindaco della città, nei mesi precedenti, aveva espresso di

desiderare “correttezza e tempestività” nella realizzazione di questa grande

infrastruttura. Entro la prima settimana di maggio 2005, come previsto dal bando di

gara, pervengono presso la sede di Roma per il Trasporto Pubblico 10 domande di

partecipazione. I criteri per la valutazione privilegeranno, era stato annunciato, il

contributo tecnico (ovvero competenza ed esperienza delle società di costruzione), al

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fine di individuare chi sarà in grado di rispettare i tempi, proporre il miglior progetto e

limitare i disagi per i cittadini11.

A questo punto, quando tutto sembra aver preso il via, il progetto viene

criticato da Italia Nostra (associazione ambientalista), che insieme a Cesia (Centro studi

e iniziative per l’ambiente) impugnano il bando di gara e propongono un nuovo

progetto (Legambiente, però, critica a sua volta l’azione dell’associazione12). Ma il Tar

del Lazio, il 25 maggio del 2005 si esprime come segue: “Roma non può permettersi di

perdere altri anni, un’opera necessaria e urgente” (da La Repubblica del 21.05.05).

Accanto e al di là delle polemiche ambientaliste, svetta la dichiarazione

dell’amministratore delegato di Roma per il Trasporto Pubblico nei confronti della

sicurezza sul lavoro: verranno stanziati 347 milioni di euro per tutelare tecnici e operai

nei futuri cantieri, ovvero il 18% degli investimenti, “una percentuale mai raggiunta in

nessuna infrastruttura italiana”. “L’obiettivo è quello di ottenere tempi e costi certi ma

anche sicurezza e qualità nei cantieri e per gli immobili situati in prossimità degli scavi”

(da Il Messaggero del 12.05.05).

All’esito delle verifiche effettuate sulla documentazione pervenuta, in data 1

giugno 2005, Roma per il Trasporto Pubblico invita i dieci concorrenti a presentare

l’offerta, prevedendo come termine ultimo di presentazione il 30 novembre 2005, data

in cui si presentano solo sei soggetti, la maggior parte costituite come ATI.

Per l’assegnazione occorrerà aspettare il nuovo anno. È nel mese di febbraio

2006 che si chiude definitivamente la partita e l’appalto è aggiudicato dall’ATI

composta da alcune tra le più specializzate società di costruzione in Italia. Le società

convolte hanno un know-how molto forte in questo campo, hanno già realizzato altre

importanti opere di trasporto urbano in Italia e non solo13. Come richiesto dalla

11

Il criterio alla base della scelta è quello del miglior progetto al minor prezzo, seguendo il principio “al ribasso” che caratterizza le gare d’appalto.

12 L’evento è occasione di scontro su quella che è stata definita “la lotta per la leadership

ambientalista”. Legambiente si costituisce in giudizio contro il ricorso di Italia Nostra e scatena una reazione a catena, infatti altre associazioni ambientaliste, come WWF, Lipu, Fai, Vas e Fare Verde, in una lettera definiscono “inopportuno” l’attacco di Legambiente contro Italia Nostra.

13 Alcune di queste società componevano l’ATI che aveva già presentato in precedenza il suo

progetto e che era stato ritenuto “dai tempi incerti”. Il dubbio può instillarsi relativamente alle procedure di aggiudicazione, ma esula da questa ricostruzione chiarire il livello di trasparenza della gara d’appalto. Certo è che il nome della “mandataria” (la capofila) dell’ATI e delle altre società e cooperative che la

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normativa vigente, nell’aprile dello stesso anno, l’ATI che si è aggiudicata la gara

costituisce la CortemSpa (nome di fantasia) quale Società di Progetto in funzione di

Contraente Generale per la realizzazione della nuova linea di trasporto urbano.

3.2.3 Terza fase: l’avvio dei cantieri

A poco più di un anno dalla pubblicazione del bando di gara e ad appena due

mesi e mezzo dall’aggiudicazione definitiva dell’opera, nel mese di maggio 2006

partono i primi cantieri per i sondaggi archeologici. In questi stessi giorni, il Prefetto di

Roma, Roma per il Trasporto Pubblico e il Contraente Generale sottoscrivono il

Protocollo d’Intesa ai fini della prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità

organizzata per la realizzazione dell’opera (a seguito di questo protocollo, a tutte le

ditte subappaltatrici che entreranno del processo di lavorazione della linea

metropolitana verrà richiesta la documentazione “antimafia”14).

“La linea * … + è ormai partita. È un giorno storico per la città” (da Il Corriere

della Sera, 17.05.06), questo è quanto ha affermato il sindaco Walter Veltroni nel

vedere l’inizio dello scavo della nuova opera di trasporto pubblico urbano. Il 16 maggio

2006 sono stati aperti ben tre cantieri. Sono iniziati i sondaggi archeologici preventivi,

che vanno a completare i carotaggi (ovvero l’estrazione di “carote” dal terreno, sul

quale s’intende costruire l’opera di trasporto pubblico, per analizzarne gli strati dal

punto di vista archeologico) già effettuati precedentemente, in un'altra zona della città.

“I cantieri saranno allestiti in modo da intralciare il meno possibile il traffico” (ibidem),

queste le parole del direttore dei lavori che danno il via definitivo alla realizzazione

dell'opera.

È da questo punto in poi che si susseguiranno le aperture di diversi cantieri, che

si olierà la macchina organizzativa, che inizieranno i lavori delle talpe meccaniche.

Parallelamente all’inizio dei lavori di sondaggio archeologico e di apertura di

cantieri, si portano a compimento diverse procedure burocratiche, infatti, nell’ottobre

del 2006 viene stipulato per atto pubblico il contratto di appalto tra Roma per il

compongono hanno alle spalle una lunga storia nel campo della costruzione di reti ed infrastrutture per il trasporto.

14 Tutta una serie di documentazioni che attesti la trasparenza delle operazioni economiche e

finanziarie di ciascuna ditta.

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Trasporto Pubblico e il Contraente Generale, avente come oggetto la progettazione

definitiva ed esecutiva, la realizzazione e direzione dei lavori e le forniture necessarie

per la realizzazione dell’intera opera.

Nell’aprile del 2007, invece, si avviano i cantieri operativi per la costruzione

delle opere civili di altre zone della città.

Due mesi dopo, il Ministero delle Infrastrutture completa l’istruttoria sui

progetti definitivi delle tratte consegnati dal Contraente Generale. A seguito

dell’istruttoria, che si è chiusa positivamente, il CIPE approva e finanzia il progetto in

data 15 giugno 2007, la cui apertura all’esercizio è prevista a partire dalla primavera del

2011.

Nel settembre del 2007, la CortemSpa stipula un accordo con le sigle sindacali

ANCE, AGI, ACER, FENEAL UIL, FILCA CISL, FILLEA CGIL; mentre a gennaio del 2008

stipula delle convenzioni con il CTP (Comitato Paritetico Territoriale), per la formazione

e l’informazione dei lavoratori e i sopralluoghi dei cantieri; con i VV.FF e con il 118, per

la realizzazione di corsi di primo soccorso.

Prima di delineare da vicino la mappa degli attori che fanno sicurezza

all’interno dei cantieri CortemSpa, occorre raccontare l’organizzazione, le attività

principali e la tipologia dei cantieri dislocati per tutta la città di Roma.

3.3 Un’istantanea dal cantiere

La complessità dell’organizzazione e delle relazioni nella quale i cantieri sono

immersi rappresenta una risorsa per lo studio etnografico degli stessi, senza

dimenticare l’obiettivo principale della mia ricerca: come si fa sicurezza su un cantiere?

L’“approccio prossimale” allo studio dell’organizzazione (Cooper, Law, 1995),

applicato alla sicurezza sul lavoro (Nicolini, 2001), come visto nel primo capitolo, ci

permette di considerare il cantiere come una sorta di “unità d’analisi” osservata nel

suo farsi quotidiano. Parafrasando Cooper e Law (1995), il cantiere, al singolare, indica

un “processo attivo attraverso cui si organizza, che non si è ancora solidificato in un

effetto” (288). È la natura processuale quella che emerge anche dall’osservazione sul

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campo, il suo presentarsi in un certo modo perché una costellazione di poteri, interessi

ed azioni la rende tale, ma potrebbe anche essere differente.

Prima di “entrare” in cantiere, però, occorre dare una descrizione, seppur

sommaria, dell’organizzazione, dei principali settori e dell’articolazione dei cantieri.

Va ricordato, inoltre, che l’organizzazione di cui si sta parlando ha una funzione

ben specifica che è quella di gestire una grande opera di costruzione. Infatti, a parte lo

scavo delle gallerie, di diretta realizzazione della CortemSpa ‒ e che rappresenta una

delle tre fasi di costruzione e, dunque, una delle tre tipologie di cantiere osservati ‒ le

restanti due fasi (e tipologie di cantiere), ovvero la costruzione dei diaframmi15, lo

scavo/costruzione delle stazioni e la realizzazione degli accessi alle stazioni16, sono

assegnate a diverse ditte e/o ATI attraverso il meccanismo dell’appalto e del

subappalto. Sono esse a costruire l’importante opera di trasporto urbano che si staglia

sullo sfondo della ricerca sulla sicurezza sul lavoro.

La diverse ditte che si avvicendano nella costruzione, infatti, coordinate e

“controllate” dalla CortemSpa, contribuiscono a loro volta alla produzione e

riproduzione di un “ordine negoziato” (Strauss, 1978) che assume la forma di cantieri

più o meno sicuri.

Alla base della breve ricognizione vi è la considerazione che “nel mondo sociale

non esistono né contenitori né contenuti ma solo reticoli di elementi che si

interpenetrano” (Cooper, Law, 1995: 291). Sono reti nelle reti, e compito della

presente tesi non è esaminarle nello specifico, quanto fornire lo sfondo entro il quale i

cantieri prendono forma e si offrono al ricercatore in tutta la loro complessità.

15

I diaframmi sono la struttura portante delle stazioni. È una sorta di scatola in cemento armato che viene costruita come perimetro entro il quale sarà effettuato lo scavo per la costruzione delle stazioni. I diaframmi sono singoli pannelli, detti anche paratie, scavati entro il terreno e che hanno la funzione di fondamenta per le stazioni che saranno costruite in un secondo momento.

16 Dal momento che durante la mia presenza sul campo la realizzazione degli accessi alle stazioni

non era ancora avviata in nessun cantiere, si considerano le tre fasi nel seguente modo: costruzione dei diaframmi, scavo/costruzione della stazione e scavo delle gallerie. La prima fase (costruzione dei diaframmi e scavo e costruzione delle stazioni), dunque, è stata da me suddivisa nelle due principali fasi che la costituiscono.

Inoltre, occorre sottolineare come la scelta dei cantieri da osservare rappresenta piuttosto un punto d’approdo frutto della negoziazione dell’accesso al campo con i responsabili dell’organizzazione che li ha ritenuti “cantieri osservabili” da un esterno (Cap. 2).

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Prima di descrivere l’organizzazione del lavoro e le principali attività dei diversi

cantieri, occorre delineare la struttura organizzativa e, dunque, chiarire cosa si intenda

per “società di progetto”, soprattutto in vista del fatto che la CortemSpa è un

“contraente generale”, ovvero appalta i diversi lavori alle ditte (singole o associate in

diverse forme giuridiche), mentre realizza direttamente, con proprie risorse

professionali, solo la parte relativa agli scavi meccanizzati in galleria con le TBM (Tunnel

Booring Machine).

Quando si parla di società di progetto, infatti, s’intende un istituto inserito nella

normativa sulle concessioni per la costruzione e la gestione delle opere pubbliche

disciplinata dalla Legge Merloni (legge 109/94 e dalla Merloni ter 415/98). La sua

introduzione avviene nell’ambito della disciplina del project financing17.

È opportuno sottolineare che non si tratta di uno speciale tipo societario, ma

soltanto di una opzione organizzativa che deve essere necessariamente garantita alle

società, o gruppi temporanei di imprese (ATI), che risultino essere vincitrici di gare per

l’aggiudicazione di concessioni di costruzione e di gestione svoltesi mediante la

complessa procedura del project financing18.

17

Il project financing è una procedura che deve essere seguita per l’aggiudicazione di concessioni di costruzione e gestione di infrastrutture e opere pubbliche per le quali si renda necessario l’apporto (totale o parziale) di risorse private sia dal punto di vista del “know-how”, sia dal punto di vista delle risorse finanziarie spesso assenti presso le amministrazioni pubbliche. La procedura prevede la pubblicazione periodica di avvisi da parte delle autorità competenti con l’elenco delle opere da realizzarsi mediante finanza di progetto. A seguito della pubblicazione entro il 30 giugno di ogni anno perviene all’amministrazione l’offerta tecnica ed economica del promotore; tale offerta, dopo una valutazione di durata massima di quattro mesi, viene messa alla base del bando per la successiva procedura di gara ad evidenza pubblica necessaria per l’aggiudicazione definitiva della concessione, con diritto di prelazione per il promotore. La società vincitrice avrà la facoltà, e in taluni casi l’obbligo, di costituire una società di progetto il cui oggetto sociale sia esclusivo e coincida con l’esercizio dell’attività oggetto della concessione. (Maresca, D., 11 novembre 2008, tratta dal sito: http://www.dirittodelmercato.com/appalti-pubblici/articolo-chiarimento-sulla-societ-di-progetto-special-purpose-vheicle/).

18 Alla società di progetto che vince un appalto pubblico fanno capo le principali prerogative

nell’ambito delle seguenti operazioni (fonte: http://db.formez.it/GuideUtili.nsf/):

ad essa viene conferito il capitale di rischio da parte degli investitori: la società di progetto è pertanto

quella che più direttamente assume la responsabilità imprenditoriale del progetto;

acquisisce il capitale di prestito proveniente da terzi finanziatori o da contributi pubblici e provvede ad

effettuare il servizio del debito contratto;

svolge le funzioni organizzative e manageriali dell’attività economica oggetto dell’iniziativa;

ad essa fanno capo i flussi di cassa connessi al progetto.

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169

Dopo questa panoramica di riferimento, possiamo avvicinarci meglio

all’organizzazione e ai suoi cantieri.

3.3.1 L’organizzazione della CortemSpa

La CortemSpa, dunque, assolve alle funzioni di gestione e coordinamento sopra

descritte in qualità di “contraente generale” dell’opera. Spetta ad essa, infatti, affidare

i lavori alle diverse imprese che rispondono alle caratteristiche di qualità, tempi di

realizzazione e rispetto delle misure di sicurezza (principalmente), costituite in ATI,

Consorzi o singole imprese che possono, a loro volta, sub-affidare le lavorazioni.

Si riporta di seguito uno schema, tratto dal sito della società, che confronta le

due modalità, quella tradizionale e quella innovativa, attraverso le quali si ricorre allo

strumento dell’appalto:

Fonte: sito ufficiale della CortemSpa

Questa la “teoria” attraverso la quale la società di progetto in esame si è

aggiudicata la gara per la costruzione dell’opera di ammodernamento ed adeguamento

del trasporto urbano della città di Roma.

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170

Chiarita, infine, la natura giuridica, o “sulla carta” dell’organizzazione in esame,

è ora possibile esaminarne il modello organizzativo che concretamente prende corpo e

si struttura sul territorio con l’obiettivo di realizzare una complessa ed importante

opera infrastrutturale.

Quella che segue è l’immagine ufficiale che la CortemSpa consegna sulle pagine

del suo sito web e attraverso le brochure informative distribuite al fine di farsi

conoscere anche al pubblico che è il destinatario finale dell’opera.

Fonte: sito ufficiale della CortemSpa

L’organigramma ufficiale dell’organizzazione permette di visualizzare le

principali funzioni della stessa e di avere velocemente sotto gli occhi il modello

gerarchico (di tipo “verticale”) che discende dal Consiglio di Amministrazione della

società, con il suo Presidente, e di qui via via a cascata si passa all’Amministratore

delegato, con i relativi uffici, fino alla Direzione Generale che coordina i diversi Project

Manager (direttori di progetto per aree), e relativi uffici di supporto, e che rappresenta

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171

il punto in cui parte una vera e propria articolazione della struttura organizzativa che si

ramifica in base alla suddivisione operativa/territoriale dell’intera opera.

Alla Direzione Generale fanno capo tutte le attività gestionali, operative e

specialistiche, dalla progettazione agli scavi, fino all’entrata in esercizio della linea.

Infatti, così come è sottolineato nel sito dell’organizzazione, essa è divisa in due parti:

la prima parte in cui si concentrano le funzioni di pianificazione, indirizzo e controllo, le

funzioni di ingegneria e degli acquisti e i diversi supporti di servizio (amministrazione,

personale, ...); la seconda parte dell’organizzazione raccoglie, invece, le funzioni

operative sul campo, legate cioè alla gestione dei cantieri e del personale (capicantiere,

assistenti, per esempio) in esso impiegato. Vediamo più nel dettaglio.

Dall’organigramma a disposizione19 si evince un modello organizzativo di tipo

gerarchico-funzionale dal quale è possibile rilevare come ad ogni ruolo di comando

corrisponda una funzione presente nel processo produttivo “concepito come un flusso

che procede da monte a valle secondo fasi «naturali»” (Bonazzi, 2008).

Nella presentazione della stessa organizzazione sul sito ufficiale è possibile

leggere come tale struttura sia giustificata dalla natura dell’opera da realizzare,

complessa e articolata, e che dunque richieda “una struttura organizzativa in grado di

operare una serie di scelte e controlli coordinati, finalizzati al rispetto dei tempi di

consegna, del costo e della qualità” (tratto dal sito ufficiale).

La struttura funzionale, o “burocrazia meccanica” come la definirebbe

Mintzberg (1996), infatti, si caratterizza per la presenza di un vertice decisionale, il

Consiglio di Amministrazione, che designa il Presidente, composto dai cinque soci che

hanno costituito la società a cui rispondono direttamente il Comitato tecnico, la

Direzione Lavori ed il Responsabile Lavori20. A quest’ultimo è gerarchicamente legato,

perché direttamente nominato, il Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione

ed esecuzione (gli uffici del Responsabile dei lavori e quello del Coordinatore sono

affidati a società di consulenza esterne ed hanno un proprio organigramma).

19

Quello a cui farò riferimento è un organigramma più dettagliato, in versione cartacea, ricevuto durante i primi periodi di permanenza alla CortemSpa e uno, sempre cartaceo, che è un’ulteriore specificazione della sezione relativa alla gestione della sicurezza.

20 In base al D.Lgs. 494/96, nominato dalla società su indicazione di Roma per il Trasporto

Pubblico.

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172

La parte che con-segue dal “vertice strategico” (Mintzberg, 1996), conduce alla

seconda parte dell’organigramma e alle funzioni operative sul campo. Occorre non

dimenticare che si tratta di una società di progetto che si occupa della progettazione e

realizzazione di una grande opera di ingegneria civile e, dunque, è necessario

mantenere uno stretto legame e controllo di tutte le funzioni operative e sull’operato

delle imprese che entrano nel circuito produttivo. E questo è anche il senso della

struttura gerarchico-funzionale datasi dalla società: permettere il controllo da parte del

vertice su l’intera opera da realizzare.

Una simile organizzazione rappresenta, infatti, una di quelle che Hunt (1970)

definisce “organizzazioni di performance”. Il vertice strategico, quindi, non solo deve

mirare al miglioramento della performance, ma deve anche gestire i conflitti che si

creano nella stessa organizzazione.

A questo punto sono stati individuati quelli che possiamo più propriamente

definire manager di linea, ai quali è demandata l’autorità formale sulle e per le unità

produttive. Nel caso dell’organizzazione in questione, ci si trova dinanzi ad un nodo

cruciale, infatti il construction manager per aree (definito nell’organigramma

dettagliato, e nel linguaggio comune usato dai membri dell’organizzazione, “datore di

lavoro”), rappresenta l’organizzazione ad un livello più operativo. Spetta a loro gestire

la parte legata al campo, ovvero svolgere una funzione di controllo del processo

produttivo dell’opera, o meglio di ogni lavoro che l’impresa affidataria deve realizzare.

Le posizioni di construction manager sono cinque, relative alle cinque unità produttive

che fanno capo alle cinque tratte in cui è suddiviso il tragitto.

La struttura nella quale i construction manager svolgono le loro funzioni ha, a

sua volta, una organizzazione piramidale: da essi discendono, e sono legati

gerarchicamente, le diverse figure operative che ritroviamo nei cantieri, a stretto

contatto con le ditte che ricevono in appalto i lavori da effettuare per realizzare

l’opera, quali il Direttore dei cantieri, i capicantiere e gli assistenti.

Si è già ricordato che l’unità di differenziazione dei diversi “reparti” sono le

aree, ovvero le porzioni di percorso in cui è stata suddivisa l’intera opera, dette anche

tratte.

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Infine, al di sotto della struttura organizzativa sin qui descritta, si trovano le

diverse ditte a cui la CortemSpa affida di volta in volta i lavori da eseguire. Ciascuna

ditta, dunque, avrà una propria organizzazione, con il proprio datore di lavoro, i propri

responsabili per la sicurezza e via di seguito. Le ditte che si stanno avvicendando in

questi pochi anni di attività sono davvero numerose, dislocate nei diversi siti interessati

dalla costruzione dell’opera e provenienti da tutta Italia, sono circa una cinquantina

con più di mille operai che, spesso, ruotano in diversi cantieri.

Per concludere e rendere il discorso più completo, si ricorda la struttura

organizzativa della società per quanto riguarda la gestione e il controllo della sicurezza

‒ dunque nel rispetto della normativa vigente21 ‒ le cui figure principali sono: Datore di

lavoro, Dirigente per la sicurezza, Preposti alla sicurezza, Responsabili del Servizio

Prevenzione e Protezione (RSPP), Medico competente, Responsabile dei Lavoratori per

la Sicurezza (RLS), Addetti alla gestione dell’emergenza. Di questi attori, la maggior

parte di loro osservati durante l’etnografia di cantiere, se ne darà conto nel prossimo

paragrafo (cfr. 3.4.2).

Questa è dunque la struttura organizzativa attraverso la quale la società di

progetto esplica la sua funzione di Contraente Generale dell’opera di costruzione della

linea di trasporto pubblico urbano che fa da sfondo ai cantieri osservati durante la mia

ricerca etnografica i cui risultati saranno presentati nel quarto e quinto capitolo del

presente lavoro.

Passiamo ora alla caratterizzazione dei cantieri.

3.3.2 I cantieri

Un ruolo fondamentale nella costruzione dell’opera, ed anche quello più

visibile agli addetti ai lavori e al pubblico, è l’apertura dei cantieri.

Il primo obiettivo della progettazione, infatti, è stato quello di suddividere i

cantieri per tipologie: il cantiere operativo, il cantiere logistico ed il cantiere

temporaneo. L’obiettivo della distinzione è di garantire spazi funzionali distinti e di

indicare una “razionale” dislocazione dei percorsi. Successivamente, sono stati

21

La legge 626/94 nel momento di costituzione della società ed il Testo Unico n. 81 del 2008.

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individuati gli accessi ai cantieri stessi, il sistema della mobilità provvisoria per il

territorio circostante (in accordo con i rappresentanti dei Municipi e l’autorità

municipale coinvolta ogni qual volta occorra intervenire sulla viabilità) e l’accessibilità

pedonale sufficientemente ampia da garantire sempre la percorrenza delle aree

interessate dal cantiere anche dai mezzi di soccorso.

La previsione di tutte queste condizioni è motivata dalla consapevolezza che,

spesso, le aree di cantiere sono vissute dalla collettività come una sorta di “ferita nella

città, fonte certa di disagi”, anziché una presenza temporanea e una indispensabile

occasione di trasformazione e ammodernamento dell’ambiente urbano (tratto dal sito

ufficiale).

Dai comunicati relativi alla progettazione dell’opera si evince come la società di

progetto abbia ritenuto prioritario dedicare particolare cura all’integrazione dei

cantieri nella realtà urbana e ambientale delle aree della città interessate dalla

cantieristica. L’attenzione a non interferire troppo con il tessuto cittadino è stata

supportata anche dalla volontà di garantire una corretta e costante comunicazione con

i cittadini sullo stato di avanzamento dei lavori, come richiesto da Roma per il

Trasporto Pubblico, e nell’individuare la migliore ubicazione dei cantieri che tenesse

conto sia della viabilità pubblica e privata che del sistema della sosta, riducendo al

minimo i disagi per i residenti (anche se le lamentele da parte dei cittadini non

mancano, come mi ha ricordato più volte l’assistente di cantiere ed io stessa ho avuto

modo di osservare).

Questo processo di “mascheramento” delle aree di cantiere va sotto il nome di

“cantierizzazione” e comprende tutte quelle attività, svolte da apposite ditte private, di

predisposizione del cantiere come, per esempio, la delimitazione delle aree e la

deviazione della viabilità urbana.

Tutte queste attività sono monitorate costantemente dalla stessa CortemSpa,

al fine di avere sotto controllo l’impatto dei cantieri con le aree circostanti, compresi i

livelli di inquinamento ambientale ed acustico prodotti dai cantieri, nonché garantire il

pronto ripristino e la riqualificazione dei luoghi della città interessati dai lavori.

Le operazioni principali previste dai lavori di costruzione sono:

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le stazioni e i pozzi di ventilazione (compresi i diaframmi);

lo scavo profondo delle gallerie;

la realizzazione degli accessi delle stazioni.

La linea prevede, dunque, essenzialmente la costruzione di due strutture: le

stazioni e le gallerie.

Per quanto riguarda la costruzione delle stazioni, la prima operazione che viene

effettuata è la realizzazione dei “diaframmi”, che costituiscono le pareti esterne di una

grande scatola di cemento armato: in questo modo si contiene il terreno circostante

allo scavo e si impediscono i cedimenti.

Le macchine che realizzano i diaframmi scavano verticalmente e sostituiscono

temporaneamente la terra con fanghi speciali; fatto lo scavo si immergono le gabbie di

ferro nell’intercapedine e si getta il calcestruzzo.

La costruzione delle gallerie e delle stazioni procede contemporaneamente e,

solitamente, quando la talpa arriva nei luoghi in cui è prevista la stazione, la struttura

della stazione stessa è stata già realizzata (struttura formata dai diaframmi di cui si è

parlato poco sopra).

Per quanto riguarda le gallerie, invece, il processo prevede che siano realizzate

mediante scavo meccanizzato utilizzando delle speciali e complesse macchine,

completamente automatizzate: le TBM (Tunnel Boring Machine), comunemente

chiamate “talpe meccaniche” (almeno per gli addetti ai lavori).

Le lavorazioni con TBM rientrano nella tipologia di cantieri mobili che avanzano

nel sottosuolo (possono raggiungere anche 25/30 metri di profondità), essendo dotate

di tutte le attrezzature necessarie allo scavo, allo smaltimento dei detriti e alla

realizzazione del rivestimento della galleria. Questo metodo costruttivo dovrebbe

garantire la massima sicurezza del personale impegnato nella costruzione (tratto dal

sito ufficiale).

Il punto più cruciale dell’adozione di queste macchine è il loro trasporto, date

le loro dimensioni: sono lunghe più di 90 metri, sono dotate in testa di uno “scudo

fresante” di 6,7 metri di diametro, munito di artigli di acciaio e di dischi rotanti che

avanzano disgregando il terreno con una velocità media che va dagli 8 ai 12 metri al

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giorno (con punte anche di 20 metri)22. Una volta trasportate in pezzi, vengono

assemblate sul luogo dello scavo (detto “pozzo TBM”, ve ne sono quattro in funzione)

dagli operai della CortemSpa e calate nel sottosuolo attraverso pozzi verticali. Questi

ultimi, poi, sono utilizzati per sgomberare il materiale di scarto prodotto dalle

lavorazioni.

Allo scudo sono agganciati diversi carri che contengono il nastro per il trasporto

del materiale scavato, i gruppi elettrici e idraulici, oltre alle diverse apparecchiature di

supporto. Dietro allo scudo è posto un braccio meccanico (manovrato da un operatore,

“in equilibrio” su di una piccola piattaforma, attraverso un joystick) che installa il

rivestimento definitivo costituito dai cosiddetti “conci”, ovvero elementi prefabbricati

in calcestruzzo sagomati ad arco, che incastrati perfettamente tra di loro formano gli

anelli di sostegno della galleria.

Una volta che la talpa esce dalla galleria, questa è sostanzialmente conclusa,

completa del suo rivestimento e pronta ad essere attrezzata con i binari, i cavi della

corrente elettrica e le misure di sicurezza.

Per quanto riguarda le fasi dell’armamento della linea, del collaudo e dello

start up, infine, esse riguardano tutte le operazioni da realizzarsi una volta che si

saranno concluse tutte le lavorazioni necessarie alla costruzione, in senso

propriamente strutturale, dell’opera e richiederanno tecnologie e competenze

altamente specializzate, anche in considerazione del fatto che è previsto un Sistema di

automazione integrale, ovvero il ricorso a convogli senza macchinista a bordo,

driverless, guidati e controllati a distanza da tale sistema integrale.

Questa può essere definita una “descrizione fredda” dei cantieri, ma testimonia

di uno sforzo comunicativo, quello fatto dall’organizzazione stessa mediante il sito e le

brochure ufficiali, di “raccontare” in che cosa consiste l’opera. Ma al di là dei discorsi

ufficiali, “presentati” per farsi conoscere, per convincere e per acquisire una posizione

ed una identità che li distingua dagli altri soggetti presenti sul campo ‒ con i quali

interagiscono e per mezzo dei quali si ri-definiscono ‒ occorrerà scendere in campo per

22

È importante ricordare che le quattro TBM oggi in opera sono attive 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e richiedono ben quattro turni di lavoro quando scavano a pieno regime, altrimenti sono tre turni.

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comprendere i processi che si strutturano nell’interazione quotidiana e nella “messa in

pratica” delle attività.

Prima di procedere all’analisi etnografica, infine, presenterò gli attori principali

incontrati sui cantieri al fine di offrire una panoramica dei personaggi ai quali si farà

riferimento durante l’analisi delle note di campo e che concorrono a costruire la

sicurezza in cantiere.

3.4 Dalla rete istituzionale all’action-net locale

La storia delle vicissitudini e delle fasi che hanno portato alla realizzazione di un

progetto prima, e di un’opera di costruzione di una delle nuove linee di trasporto

urbano della città di Roma, poi, mette in evidenza la molteplicità degli attori sulla

scena, interessi di diversa natura, problemi e criticità nelle diverse fasi che hanno

portato alla realizzazione del progetto. Inoltre, diverse “fazioni” politiche a confronto,

iter burocratici che hanno comportato un allungamento dei tempi di delibera da parte

del CIPE, sono le criticità principali che hanno caratterizzato questo processo. La posta

in gioco era, ed è tuttora, alta sia in termini economici che di immagine e prestigio,

tanto per la città di Roma, quanto per Roma per il Trasporto Pubblico, incaricata di

individuare quella società (singola o raggruppata) che consegnerà “chiavi in mano” la

nuova linea di trasporto ‒ la CortemSpa.

Il racconto della storia che ha portato alla definizione del progetto di

costruzione di una delle nuove linee di trasporto pubblico di Roma si caratterizza

proprio per la molteplicità degli attori, tra loro spesso distanti ed eterogenei, che sono

entrati a far parte della rete della CortemSpa. Ed è proprio dall’identificazione di questi

attori eterogenei, almeno quelli principali, che occorre partire per poter arrivare ai

cantieri osservati.

L’elemento rilevante per la presente ricerca è ancora una volta il contributo

offerto dalla variante “ecologica” (Star, Greisemer, 1989; Czarniawska, Joerges, 1995)

della sociologia della traslazione. Essa permette di comprendere come un insieme

irriducibilmente eterogeneo e multivocale di attori (umani e non umani) ‒ appartenenti

a mondi sociali diversi ‒ riescano a costituire “regimi sufficientemente stabili di

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coesione e coordinamento capaci di produrre effetti riconoscibili” (Nicolini, 2001: 97),

senza che i processi comuni di comprensione presuppongano il raggiungimento del

consenso (Star, Griesemer, 1989).

La sociologia della traslazione, dunque, è in grado di fornire “il linguaggio

prossimale per comprendere i processi dell’organizzare” (Nicolini, 2001: 95), oltre che il

frame teorico “adeguato” allo studio della sicurezza sul lavoro che poco si presta ad

essere analizzato attraverso categorie tradizionali, soprattutto nell’accezione che qui si

adotta, ovvero come pratiche situate e sostenute da una molteplicità di attori distanti

ed eterogenei.

La salienza di tale approccio risiede proprio nel fatto che i diversi livelli ‒

sociale, istituzionale, materiale ‒ si relazionano tra di loro dialetticamente, dando

origine ad una configurazione più o meno stabile che è possibile osservare sotto forma

di cantieri più o meno sicuri.

In questo breve excursus che riguarda il campo organizzativo nel quale la

ricerca ha preso corpo, sono emersi diversi attori (il Comune di Roma; le ditte che

hanno costituito la CortemSpa; Roma per il trasporto pubblico …) che hanno avuto ‒

nelle diverse fasi ‒ o ancora hanno a che fare, con ruoli e motivazioni differenti, con il

processo che ha portato all’apertura dei cantieri osservati, o meglio, con la creazione

della rete che ruota attorno a tali cantieri aperti sul territorio.

Per “raccontare” lo sfondo o il contesto della ricerca, nonché il processo

attraverso il quale si ri-produce l’“ordine negoziato” (Strauss, 1978), mi è sembrato

particolarmente adatto il concetto di “tessuto organizzativo” (Cooper, Fox, 1990;

Gherardi, Strati, 1990; Gherardi, Strati, 1997; Gherardi, Nicolini, 2004).

3.4.1 Il “tessuto” della sicurezza

Dopo aver ripercorso le principali fasi che hanno dato vita alla CortemSpa e,

successivamente, ai cantieri edili in cui ho osservato da vicino come la sicurezza si

costruisca quotidianamente, ma prima di addentrarci all’interno dei cantieri, è

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opportuno rendere esplicito il concetto di “tessere l’organizzazione”23. Tale concetto è

infatti in grado di rendere la complessità dell’organizzazione in esame e della pratica

della sicurezza che non è frutto di attori isolati, bensì di una eterogeneità di attori

ognuno portatore di proprie visioni professionali circa la sicurezza.

“La chiave per comprendere il tessuto è l’idea della ‘connessione in azione’”,

queste le parole adottate da Cooper e Fox (1990: 576) per spiegare come il concetto di

tessuto connettivo sia in grado di creare relazioni che “connettono” l’individuo alla

società, ma anche l’organizzazione all’ambiente. L’organizzazione, dunque, è

considerata come il luogo in cui si realizzano serie infinite di relazioni che muovono

continuamente l’una nell’altra. Il concetto di tessuto, inoltre, è qualcosa che riflette le

intricate e complesse mescolanze che costituiscono tutti i materiali (Cooper, Fox,

1990).

Un contributo a questa discussione è stato apportato anche da Weick (1969,

trad. it. 1993) con i suoi studi sull’ambiente attivato, o creato dalle regole e dai processi

di attenzione, che mette in risalto come la realtà al di fuori dell’organizzazione non sia

né data, né uguale per tutti, né oggettiva (Strati, 2008). È con il contributo di Weick

(1969) che si sposta il centro dell’attenzione dall’organizzazione all’organizzare, dalla

struttura al processo. È la stessa organizzazione ad essere intesa come processo, invece

che come struttura normata ed oggettivata. Importante, infine, il processo di sense-

making, di creazione di senso, ovvero il processo attraverso il quale ha luogo

l’organizzare.24

23

I primi ad usare il concetto di tessere l’organizzazione sono stati Emery e Trist (1965) con l’obiettivo di ri-costituire il rapporto tra l’organizzazione e l’ambiente esterno su nuove basi, non più in termini sistemici (influenzato dal funzionalismo di Parsons) di dipendenza dell’organizzazione dall’ambiente esterno (sono le stesse teorie a cui si riferisce anche la critica di Barley e Kunda), bensì in termini di reciproca interdipendenza. Quello che Emery e Trist (1965) sottolinearono è la complessità della relazione in esame: le parti che compongono l’ambiente sono in relazione tra loro e, a sua volta, l’ambiente così concettualizzato è in relazione con l’organizzazione. Sebbene trovarono il termine “tessuto casuale” adatto ad esprimere la “connessione” tra le diverse parti dell’ambiente, le successive riformulazioni puntarono sulla dimensione processuale e trovarono nell’espressione “texture of organizing” il giusto compromesso (Cooper, Fox, 1990).

24 Oggetto di studio sono i tre processi cognitivi alla base della dinamica circolare del “fare

organizzazione” ‒ “attivazione”; “selezione”; “ritenzione” ‒ per mezzo dei quali gli individui danno senso ai loro flussi di esperienza. Qualsiasi realtà esterna prende senso solo attraverso i processi cognitivi degli individui.

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180

La metafora (Morgan, 1999) del “tessuto” permette di cogliere gli innumerevoli

processi di negoziazione che quotidianamente i soggetti di un’organizzazione mettono

in atto, anche in una realtà di cantiere esaminata attraverso l’osservazione sul campo

(Cap. 4; Cap. 5). Attraverso la nozione di tessuto, inoltre, è possibile osservare i percorsi

del sapere in azione che conducono non solo all’interno, ma anche al di fuori

dell’organizzazione formale (Gherardi, Nicolini, 2004). Infatti, il tessuto locale, come

anche quello della sicurezza (Fig. 1), non coincide con i confini dell’organizzazione

formale, anzi la travalica coinvolgendo anche altre entità tra loro eterogenee (§ 3.4.2).

Per meglio comprendere ciò è opportuno descrivere ancora il concetto di

“tessuto” e di “texture of organizing” e esplicitarne la sua portata euristica.

Occorre innanzitutto ricordare che intessere l’organizzazione è il processo

attraverso il quale si delinea un tessuto organizzativo e non una struttura oggettiva,

reificata, dai confini netti. Il tessuto organizzativo è posto in essere nelle interazioni

quotidiane tra gli attori e “presuppone un mondo intersoggettivo che consenta la

comprensione reciproca ed il nascere di un progetto comune di azione” (Gherardi,

Strati, 1990: 613).

Una caratteristica che Robert Cooper e Stephen Fox (1990) mettono in

evidenza rispetto al concetto di “texture” è il suo essere “tacito” (Polanyi, 1990),

ovvero la sua natura invisibile, resistente alla teorizzazione, la sua intrinseca

complessità e mobilità che lo rende impossibile da definire con precisione. Per

comprendere, dunque, le connessioni in azione del tessuto locale della sicurezza nei

cantieri ‒ oggetto della presente ricerca ‒ occorre riconoscere, accanto alla conoscenza

“formalizzata” su ciò che è sicuro e ciò che non lo è, anche la natura “tacita” (Polanyi,

1990) della stessa conoscenza25.

Infine, occorre ricordare che una pluralità di attori contribuisce a creare il

tessuto locale della sicurezza, avanzando diritti di diversa natura: partecipare alla sua

definizione; definirne i confini e la sua conformazione futura (Cap. 1).

Il tessuto organizzativo, dunque, “è un prodotto sociale situato ed un territorio

immaginario, sul quale gli attori organizzativi esprimono un senso di proprietà ed una

25

Sulla conoscenza tacita si veda § 2.2.2.1.

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181

attiva appropriazione e padronanza” (Gherardi, Strati, 1997: 281). È il processo del fare

sicurezza che si colloca al centro della ricerca, più che la sua dimensione oggettiva e

strutturale. Quella considerata, quindi, è una categoria analitica ed interpretativa della

sicurezza sul lavoro come processo nel suo divenire quotidiano e di incessante

negoziazione e al quale prendono parte diversi attori ed artefatti.

Vi sono attori “istituzionali” ‒ dove per istituzioni s’intendono le arene di

produzione di regole, valori, significati e preferenze (Pasquino, 2000) ‒ quali: il

Governo, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; il CIPE; il Prefetto di Roma; la

Regione Lazio; il Comune di Roma ed il Consiglio comunale; il Tar del Lazio; la

Sovrintendenza ai Beni Culturali. Ognuno di loro è portatore di propri interessi da

promuovere e tutelare, di una propria “visione” e propri “discorsi” su ciò che l’opera

rappresenta e “dovrebbe” rappresentare per la propria comunità di riferimento (i

cittadini, gli elettori, i futuri utenti del nuovo trasporto urbano). La loro interazione non

richiede necessariamente accordo, anzi, proprio perché espressione di interessi e

poteri differenti, spesso negoziano e confliggono nel campo organizzativo di

riferimento.

Accanto ad essi vi sono gli attori più propriamente “organizzativi”: Roma per il

Trasporto Pubblico (e i suoi organismi), la CortemSpa, le diverse aziende che hanno

preso parte al bando di gara26, ma anche le associazioni che si sono opposte alla

realizzazione dell’opera (Italia Nostra e Cesia), o quelle che a loro volta l’hanno difesa,

per esempio Legambiente, che però a sua volta è stata ritenuta troppo dura nei

confronti di Italia Nostra da parte di WWF, Lipu, Fai, Vas e Fare Verde.

Altri attori presenti sulla scena, nella fase di avvio dei cantieri, sono le varie

sigle sindacali coinvolte e poco sopra menzionate; le organizzazioni di primo soccorso,

Vigili del Fuoco, Operatori del 118; e il CTP che ha l’incarico di occuparsi della

formazione e informazione del personale della CortemSpa e che svolge anche una

funzione di controllo sulla sicurezza sul lavoro. Accanto ad esse, vi è il personale

amministrativo della CortemSpa (con i diversi uffici, compresi quelli di progettazione e

di controllo dell’opera); le diverse ditte di costruzione a cui sono di volta in volta

26

Anche se analizzando bene i nomi, emerge come siano sempre gli stessi a presentarsi e a ricomporsi nelle diverse ATI.

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appaltati i lavori di costruzione e quelle a cui quest’ultime appaltano a loro volta27; le

società di servizi (dalla viabilità alla cantieristica; dalla sorveglianza alla rilevazione di

dati di diversa natura, come le misure per la progettazione/costruzione, o per il

rilevamento dei livelli di inquinamento acustico ed ambientale, per esempio); le

cooperative archeologiche; le società di trasporto; quelle di fornitura dei materiali; le

discariche e altre ancora.

Quanto più ci si avvicina al campo, tanto più prende corpo quella che è definita

action-net locale della sicurezza (Nicolini, 2001), ovvero la rete dei diversi attori,

ognuno con i propri discorsi, le proprie visioni e culture professionali ed i propri

“intermediari”. Entrano in gioco altri attori: le diverse figure dei cantieri; i diversi

soggetti incaricati di “controllare e vigilare” l’attuazione delle norme in materia di

sicurezza (Ispettorato del Lavoro; Tecnici delle Asl; le diverse FF.OO, per esempio i

Carabinieri; il CTP già ricordato; l’Alta Vigilanza di Roma per il Trasporto Pubblico).

3.4.2 In cantiere: attori ed intermediari della sicurezza

La ricostruzione dell’action net della sicurezza28, dunque, ha individuato la

presenza dei quattro discorsi principali sulla sicurezza (Nicolini, 2001; Cap. 1):

normativo, economico, educativo e tecnico. Il discorso normativo e quello educativo si

caratterizzano per la centralità delle norme relative alla sicurezza sul lavoro e a tutto

27

La disciplina in materia di appalto e subappalto è molto complessa ed esula da questo lavoro occuparsene. Basti ricordare, però, che la legislazione italiana permette che una data ditta si aggiudichi un lavoro, subappaltandone la realizzazione di “porzioni” di attività ad altre ditte. Al di là dei problemi anche etici che questa procedura comporta (ovvero finti appalti, subappalti clientelari o condizioni di lavoro degradanti per i lavoratori e, molto spesso, anche senza rispetto delle norme di sicurezza, il criterio del ribasso dei costi per realizzare il lavoro in questione), il principio dell’appalto risponde per certi versi a ciò che Williamson definisce il dilemma del “make or buy”. In settori con processi molto differenziati un’impresa può ritenere più vantaggioso “comprare” (to buy) sul mercato il bene o il servizio di cui ha bisogno da un’impresa esterna che lo venderà, si presume, a prezzi di concorrenza. Ed il settore edilizio ne è da sempre un esempio e precursore. L’alternativa è, dunque, “produrre” in casa (to make) il bene o il servizio qualora essa si presenti come la scelta più vantaggiosa. Nel caso della CortemSpa, per esempio, la società ha un proprio stabilimento di produzione del calcestruzzo e realizza con propri operai lo scavo delle gallerie (anche se la sua funzione di Contraente Generale non è propriamente rispondente a questo tipo di attività, ma essendo una figura giuridica nuova, l’“indeterminatezza” della disciplina la fa da padrona).

28 Si ricorda ancora una volta che le difficoltà di accedere al campo si è tradotta anche nella

difficoltà di intervistare o “seguire” altri attori (gli operai, per esempio) che, facendo parte della rete, avrebbero potuto offrire ulteriori spunti alla ricerca. Dal momento che ciò non è stato possibile, è opportuno sottolineare che la “mappa” degli attori, relativamente al campo-cantiere, è comunque esaustiva del periodo di osservazione sul campo, ovvero riguarda gli attori “realmente” incontrati in cantiere.

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ciò che esse comportano (controlli, sanzioni, corsi per la formazione/informazione dei

lavoratori); quello economico fa capo ai costi della sicurezza, (relativi, per esempio,

all’acquisto di attrezzature a norma, Dpi) o ai costi sostenuti dallo Stato in occasione di

infortuni sul lavoro; il discorso tecnico, infine, anch’esso in stretta relazione con la

dimensione normativa della sicurezza, riconosce primaria importanza all’uso dei

dispositivi tecnici in funzione di prevenzione degli incidenti sul lavoro.

I quattro discorsi o saperi in azione si avvalgono di diversi intermediari,

classificabili in quattro principali categorie, sulla base di quelle proposte da Callon

(1992):

gli esseri umani, ovvero coloro che nella pratica sostengono i loro discorsi e sono

“portatori” di esso;

gli artefatti tecnologici (il non umano) e l’attrezzatura da lavoro utilizzata per

“assicurare” sicurezza (per esempio, i Dispositivi di protezione individuale (Dpi) e

altri dispositivi di sicurezza)

i testi, ovvero tutto ciò che ha forma scritta, come anche le norme e gli altri “testi”

che da esse discendono (interpretazioni, linee guida, standard tecnici, certificazioni,

sentenze, testi per la formazione e l’informazione dei lavoratori; materiali prodotti

nei vari convegni sul tema della sicurezza …);

il denaro nelle sue diverse forme, come per esempio, la percentuale d’investimento

destinata alla sicurezza nelle gare d’appalto.

Il concetto di intermediario richiama, infatti: il trasferimento spazio-temporale;

il lavoro di traduzione/spostamento da un contesto ad un altro; il rappresentare il

“sapere in azione”, inteso sia come “stare per” (la normativa sulla sicurezza prodotta a

livello istituzionale, per esempio), sia come possibilità di produrre un effetto a distanza

(per esempio, attraverso i Dispositivi di protezione individuale, Dpi).

Quello che ho osservato sul campo, dunque, è la rete di azioni ed attori che

quotidianamente “mettono in pratica” la sicurezza e le connessioni tra le azioni che

insieme ‒ negoziando, entrando in conflitto e non accordandosi ‒ rendono il senso del

fare sicurezza sul cantiere della CortemSpa.

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L’action-net locale della sicurezza, dunque, comprende una molteplicità di

discorsi e di intermediari. Ciascun discorso sostiene, veicola e trasla nel contesto locale

una particolare versione e visione della sicurezza, sforzandosi di costruire o

condizionare le pratiche di lavoro esistenti. I discorsi della sicurezza, infatti coesistono

nell’ambito dell’action-net ed è nel loro insieme che generano ciò che è possibile

definire “sicurezza”. Essa, inoltre, non deriva dalla sintesi tra i diversi discorsi, ma dalle

dinamiche di negoziazione che hanno luogo fra discorsi e intermediari (Nicolini, 2001),

così come ho osservato durante l’etnografia di cantiere (Cap. 4; Cap. 5): ogni discorso

ed ogni visione è parziale e non può avanzare alcuna pretesa di “oggettiva”, a

differenza di quanto sostengono invece, nelle loro pratiche quotidiane, i diversi attori

appartenenti alle varie categorie di discorsi (normativo, formativo, tecnico e

economico).

L’essere protesa verso lo studio delle “pratiche della sicurezza”, dunque, mi ha

portato a “selezionare” le persone con le quali dialogare, soprattutto nella prima e

seconda fase di avvicinamento al campo, benché quest’ultimo debba esser meglio

definito come un punto di approdo, costruito con tanta insistenza e tante difficoltà nel

corso del tempo (Cap. 2). La terza fase, invece, quella che ha avviato l’etnografia del

cantiere, ha permesso di incontrare altri attori e tratteggiare i diversi discorsi che

hanno luogo sul campo/cantiere, anche qui con non poche difficoltà.

Per “presentare” gli attori principali che incontreremo in cantiere, ritengo utile

proporre una tipologia ‒ legata alla pratica del controllo ‒ che è emersa dal campo

nelle diverse fasi di accesso e dall’attività di shadowing di un capocantiere e di un

assistente di cantiere. Tale tipologia di controllo ha finito con l’essere proprio l’oggetto

della presente tesi: il controllo interno e il controllo esterno, tipologia rispetto alla

quale, in cantiere, si “mettono in scena” (Goffman, 1969) diverse dinamiche legate, per

esempio, al rispetto della normativa. In questo caso si possono osservare episodi in cui

il rispetto della norma finisce con l’essere un adempimento formale. Al contrario, si

osservano casi in cui il non rispetto delle norme di sicurezza sono l’espressione di un

diverso sapere professionale che “giustifica” e richiede pratiche di lavoro che tradendo

la norma persegue la sicurezza per sé e per i proprio colleghi (Cap. 4; Cap. 5).

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A chiudere la rassegna delle figure incontrate nei cantieri, come una sorta di

girone dantesco al quale mi sono avvicinata, vi sono gli operai. Operai di diverse ditte,

con diverse mansioni e dalle pratiche più diversificate tra di loro29, ma che hanno

permesso di dare conto di alcune situazioni in cui “l’ordine” situato sembra saltare e

dare spazio a eventi che “le figure della sicurezza” ‒ con le quali ogni giorno mediano i

significati e le pratiche della sicurezza ‒ a volte etichettano, forse troppo velocemente,

come non rispetto della normativa “in materia di sicurezza”.

A parte gli operai, dunque, che sono i “destinatari”, per diritto, delle misure

antinfortunistiche contenute nelle norme sulla sicurezza (non come soggetto passivo,

ma come responsabili essi stessi della salute e della sicurezza sul proprio luogo di

lavoro), le altre “figure della sicurezza” (RSPP; Coordinatore per la sicurezza …) ‒ come

le ho definite ‒ sono state introdotte nel corso degli anni dalla disciplina in materia

confluite, negli ultimi anni, nel Testo Unico sulla sicurezza (81/08)30.

3.4.2.1 Controllo interno

Quella di “controllo interno” è una categoria che racchiude i diversi attori

“organizzativi” che svolgono un’attività di controllo “sul rispetto delle norme di

sicurezza” di cui l’organizzazione dispone proprio al fine di assolvere al rispetto della

stessa normativa31: RSPP; Responsabile dei Lavori; Coordinatore per la sicurezza;

Direttore di cantiere; capicantiere ed assistenti32.

Nelle prime due fasi della ricerca ho avuto a che fare con il Responsabile del

Servizio Prevenzione e Protezione (RPSS), e i suoi collaboratori, che si occupano di tutta

29

Vi sono operai specializzati, qualificati, generici, operatori di mezzi meccanici, sia italiani che stranieri.

30 Nel Testo Unico, infatti, vi è un lungo elenco in cui sono presentate le “definizioni” delle

diverse figure (previste già dalle precedenti leggi, 626/94 in particolare). Alcune definizioni sono nuove e adeguate alle trasformazioni che il mondo del lavoro ha attraversato in questi anni. Quello di “lavoratore”, per esempio, comprende non solo i lavoratori dipendenti, ma tutti i lavoratori, indipendentemente dalla tipologia contrattuale. La novità delle definizioni delle altre figure fa riferimento sostanzialmente alla proposta di un “modello organizzativo” idoneo alla gestione della tutela dei lavoratori, al quale concorrono le figure qui richiamate, ma anche altri organismi istituzionali già precedentemente esaminati (Cap. 1).

31 Attori e strutture previste, tra l’altro, dalla stessa normativa.

32 Nel caso dei capicantiere e degli assistenti va ricordato che, per esempio i primi hanno delega

in materia di sicurezza (e hanno frequentato i corsi di formazione/informazione alla sicurezza); mentre i secondi sono definiti “preposti” in quanto sono stati individuati dall’organizzazione ed hanno seguito i corsi sulla sicurezza, oltre che di primo soccorso, previsti dalla legge.

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la documentazione richiesta dalla normativa al così detto “datore di lavoro”, ovvero la

CortemSpa. In questo caso il Responsabile, e i suoi collaboratori, s’incarica di :

organizzare i corsi di formazione e informazione e le visite mediche per i dipendenti

(amministrativi, capicantiere e assistenti di cantiere della CortemSpa);

redigere i piani di emergenza dei diversi uffici di cui è responsabile;

gestire i rapporti con le organizzazioni sindacali;

svolgere attività di vigilanza sui cantieri relativamente alla sicurezza (controllo della

documentazione che le diverse ditte devono esibire relativamente alla

formazione/informazione dei propri dipendenti, visite mediche e uso/non uso dei

Dpi e altro ancora).

Queste alcune tra le attività principali.

L’ufficio del RSPP, responsabile del personale amministrativo33, dei capicantiere

ed assistenti di cantiere della CortemSpa è di recente attivazione, settembre 2009. Da

poco, inoltre, RSPP e suoi collaboratori hanno iniziato anche ad “andare sui cantieri”

dotati di una “check-list” sulla quale registrano l’esito dei controlli: la presenza di quali

ditte; di quanti operai; di quali e quanti mezzi meccanici; il materiale “visionato”

(relativo ai corsi di formazione sulla sicurezza, alle visite mediche, per esempio); l’uso o

non uso dei Dpi. A seguito della loro “visita” sui cantieri può seguire un verbale, ovvero

un richiamo scritto sulle eventuali inosservanze rilevate. Questa “check-list”, quindi,

funge da “intermediario” del discorso normativo del quale RSPP e i suoi collaboratori

sono espressione: “la sicurezza come adempimento della normativa”34. Nella loro

“discesa sul campo” indossano anche i Dpi indispensabili per l’ingresso in cantiere,

come il casco, le scarpe ed il gilet.

Accanto al Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione del personale

amministrativo, vi è anche un RSPP “di galleria”, ovvero dell’unità produttiva che si

occupa dello scavo delle gallerie per la linea metropolitana. Egli svolge una funzione

33

Gli amministrativi in questione sono tutti coloro che lavorano per i diversi “datori di lavoro”, mentre gli amministrativi della sede principale hanno un altro RSPP che si occupa solo del personale degli uffici del “vertice” dell’organigramma, appunto.

34 La nuova attività dell'ufficio del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione non è stata

oggetto dell'osservazione sul campo, dal momento che il suo “avviamento” è avvenuto una volta che la mia ricerca etnografica era già stata avviata e stava per concludersi.

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importante rispetto alla sicurezza degli operai che lavorano in galleria, attività che è di

diretta responsabilità della CortemSpa.

Un intermediario di questa figura sono i “progetti” (disegni tecnici) che

periodicamente realizzano per il miglioramento delle lavorazioni, anch’essi orientati a

rispettare le norme di sicurezza, ma anche le pratiche di lavoro degli stessi operai,

cercando di “mediare” tra le richieste della normativa e le “esigenze pratiche” degli

operai (Cap. 4).

Un altro ufficio con cui ho avuto a che fare al mio arrivo alla CortemSpa è stato

quello del Responsabile dei lavori (infatti il mio contatto era uno dei collaboratori di

questo ufficio, divenuto in seguito RSPP della struttura amministrativa).

Il Responsabile dei Lavori ed i suoi collaboratori si occupano dei controlli

amministrativi dei cantieri, ovvero del controllo relativo alla documentazione che le

diverse ditte appaltatrici devono fornire per poter realizzare i lavori per i quali hanno

vinto la gara. Anche la loro presenza sul cantiere, “vestiti con i relativi Dpi”, si

formalizza in un “verbale” in cui annotare la “semplice” ispezione o, nell’eventualità,

una richiesta di miglioramento di alcune criticità rilevate o un richiamo qualora le

precedenti segnalazioni non siano state rispettate. Ancora una volta il “verbale”

rappresenta lo strumento, l’intermediario e l’artefatto che veicola un discorso di tipo

normativo ed anche una sorta di controllo interno sull’attività del Coordinatore per la

sicurezza che incontreremo a breve.

Altra figura incontrata sul cantiere è quella del Direttore di cantiere. Egli è il

raccordo tra i cantieri di cui è responsabile e il Datore di lavoro a cui deve render conto

dello stato d’avanzamento dei lavori (costi dei cantieri, tempi, eventuali modifiche e/o

ritardi …). Spesso, infatti, è possibile vederlo in cantiere non solo per “osservare”

personalmente quanto il capocantiere gli racconta, ma anche per partecipare a delle

riunioni, spesso informali, tra i capicantiere e le ditte che in quei cantieri operano35.

Altra figura di rilievo della rete locale degli attori è quella del Coordinatore per

la sicurezza in fase di esecuzione ed i suoi collaboratori. Il loro compito è quello di

35

Durante la mia osservazione di campo ho potuto incontrare uno dei Direttori di cantiere della CortemSpa che seguiva uno dei cantieri in cui mi sono soffermata più tempo. La descrizione dell’attività, per tanto, si riferisce alla sua modalità di svolgere questo ruolo.

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“controllare e vigilare” in materia di sicurezza sui cantieri in maniera più specifica e in

relazione a quanto ciascuna ditta esplicita nei rispettivi Piani Operativi per la Sicurezza

(POS), che devono essere conformi al Piano Sicurezza e Coordinamento (PSC)36 redatto

dal Coordinatore per la Sicurezza in fase di Progettazione37. I PSC comprendono le

“linee generali, non specifiche, delle lavorazioni delle imprese” alle quali le diverse

ditte che prendono in appalto o in subappalto le lavorazioni devono attenersi e

conformarsi, pena il rinvio dell’inizio dell’attività stessa o la rescissione del contratto

d’appalto.

Il Coordinatore, quindi, ha il compito di approvare i POS delle ditte che vincono

l’appalto per le lavorazioni, di chiederne la modifica e, in ultimo, di sospendere i lavori

qualora non ritenga siano svolti nel rispetto dei propri “criteri di sicurezza” (dalle

parole del Coordinatore). Il suo è un ruolo predominante, sui cantieri osservati,

nell’ambito della sicurezza sul lavoro nei cantieri edili. È con lui che si svolge parte del

quotidiano processo di negoziazione osservato in relazione all’attività di controllo sulla

sicurezza (Cap. 4).

I principali artefatti-intermediari del “discorso normativo” utilizzati dal

Coordinatore per la sicurezza (sia in fase di progettazione che di esecuzione) sono,

dunque, il PCS ed il POS che permettono “l’accesso al campo”38 alle diverse ditte che si

avvicendano, per le varie lavorazioni, nei cantieri della CortemSpa. Una volta che la

36

Il PSC ed il POS sono due tipi di documenti previsti per legge e che ciascuna ditta deve redigere nel rispetto della normativa sulla sicurezza sul lavoro. In questo caso in cui vi è un “committente” dell’opera, ovvero la CortemSpa, spetta a quest’ultima redigere il PSC che contiene le norme generali sulle lavorazioni e le precauzioni da adottare in materia di prevenzione e sicurezza per la costruzione dell’opera. A loro volta, ciascuna ditta che vince l’appalto per un determinato tipo di lavoro deve redigere il POS, ovvero un documento molto specifico, “operativo” appunto, in cui deve essere riportato puntualmente il tipo di lavorazione, i rischi e le specifiche misure di sicurezza e prevenzione che la ditta attuerà nel momento in cui eseguirà i lavori. L’elaborazione del PSC spetta al Coordinatore per la Sicurezza in fase di progettazione, mentre l’approvazione dei POS spetta al Coordinatore per la Sicurezza in fase di Esecuzione. Nel caso della CortemSpa, le funzioni dei due Coordinatori sono assolti da un’unica persona (unico studio esterno).

37 In questo caso è la stessa persona che svolge le due funzioni, in fase di progettazione e di

esecuzione. 38

Si ricorda, infatti, che il PSC è predisposto dallo stesso Coordinatore e rappresenta le linee guida che la CortemSpa chiede alle ditte di rispettare nelle loro modalità di lavoro. Tale “rispetto” si concretizza nel POS, redatto dalle ditte e approvato dal Coordinatore. Solo quando il POS riceve l’approvazione, la ditta può avviare le sue attività in cantiere. Nella pratica può accadere che una ditta che abbia ricevuto l’approvazione del POS per un’attività, di fatto, rimanga in cantiere fino all’approvazione di un altro POS per un’altra attività. Qualora emergano criticità, però, il Coordinatore dispone il fermo di tali attività fino all’approvazione del nuovo POS (§ 4.2.3.6).

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ditta può lavorare, i controlli del Coordinatore e dei suoi collaboratori, sul campo, si

“materializzano” anch’essi nei verbali di sola costatazione della situazione osservata o

di richiesta di adempimenti e correzioni (per esempio mettere una copertura più lunga

di quella predisposta dagli operai della ditta; predisporre un’impalcatura dove gli

operai della ditta hanno usato solo delle scale), fino ad arrivare ad una “lettera di

fermo” delle attività qualora la ditta non lavori in regola con quanto disposto dallo

stesso Coordinatore. Nello specifico dei collaboratori, inoltre, va ricordato come essi si

avvalgano dell’uso della fotocamera digitale per scattare foto che accertino lo stato dei

lavori osservato, e questo, come vedremo in seguito, rappresenta un momento

interessante di negoziazione sul campo tra gli stessi collaboratori e il capocantiere, o

l’assistente di cantiere, sull’interpretazione di situazioni rilevate durante “le visite di

controllo” (Cap. 4).

Addentrandoci sempre di più nel cantiere, arriviamo a conoscere coloro i quali

quotidianamente gestiscono il cantiere stesso e tutte le attività che richiede. Sono una

sorta di “padroni di casa”, senza i quali non è consentito entrare in cantiere (almeno

come tacito accordo), ovvero i capicantiere e gli assistenti.

I capicantiere e gli assistenti, infatti, sono l’“interfaccia” tra l’organizzazione e i

cantieri. In realtà la loro è una figura un po’ ambivalente, nel senso che formalmente

non dovrebbero far altro che “controllare” e “coordinare” le diverse ditte presenti in

cantiere. In alcuni cantieri, però, accade che essi “dirigano” e dettino i tempi alle ditte

che lavorano. Questo, in effetti, durante l’etnografia, è emerso come una sorta di

“tratto caratteriale” dei capicantiere, ovvero dipende dal loro modo di “interpretare” la

propria funzione sul campo che si traduce in diverse modalità di messa in pratica di un

certo tipo di relazione con le ditte che devono svolgere le lavorazioni. A ciò si aggiunge,

infatti, la relazione con i capicantiere delle ditte di costruzione o che lavorano in

cantiere, dato che spesso il loro modo di lavorare può scontrarsi con quella dei

capicantiere ed assistenti della CortemSpa (Cap. 4).

Gli artefatti-intermediari dei capicantiere ed assistenti sono i Dpi, ovvero

l’“immagine” della CortemSpa e dell’idea di sicurezza che vogliono veicolare nei diversi

cantieri, passa da queste figure e, dunque, si richiede loro di “indossare la sicurezza”

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(come l’ho definita nel Cap. 5) come primo messaggio da dare sul cantiere: “qui, nel

mio cantiere, si lavora in questo modo, altrimenti non lavori” (dalle parole di un

capocantiere). Essi svolgono l’importante funzione di intermediario in quanto fanno da

tramite tra il “come si lavorare qui” ed il “come lavorano gli altri” (Cap. 5).

Le diverse figure della sicurezza hanno una formazione variegata, ovvero sono

per la maggior parte laureate (settori tecnici per lo più39), con una lunga esperienza nel

settore della sicurezza (per le figure come il Coordinatore per la sicurezza, per

esempio). Anche i giovani collaboratori appartenenti allo studio del Responsabile dei

Lavori e a quello del Collaboratore per la sicurezza sono laureati in discipline tecniche.

Per quanto riguarda, inoltre, la figura di RSPP è previsto che siano laureati ed abbiano

seguito un corso specifico per la propria formazione40.

3.4.2.2 Controllo esterno

Altre figure che svolgono un’attività di controllo della sicurezza nei cantieri,

appartenenti a organizzazioni “esterne” alla CortemSpa, e di cui si è potuta osservare la

pratica del “controllo”, sono: un consulente dell’Alta Sorveglianza (di Roma per il

Trasporto Pubblico), un ingegnere del Comitato Paritetico Territoriale (CTP) e un

Tecnico del Servizio Prevenzione e Sicurezza negli ambienti di lavoro (S.Pre.S.A.L) di

un’Asl di Roma41.

I suddetti attori svolgono un tipo di “controllo esterno”, ovvero sono tutte

figure che, ad un differente livello e distanza dalla CortemSpa, svolgono i controlli

relativi alla sicurezza sul lavoro, sempre dal punto di vista dell’adempimento

normativo.

L’Alta Sorveglianza tecnica ed amministrativa è una figura prevista da Roma per

il Trasporto Pubblico ed ha la funzione di “controllare” il rispetto delle norme di

39

Da qualche anno, inoltre, sono stati istituiti dei corsi di laurea specifici per la formazione di figure responsabili della sicurezza sul lavoro, come previsto anche dalla normativa in vigore, sempre, però, all’interno di percorsi disciplinari tecnici (corsi di ingegneria solitamente).

40 Come quelli organizzati dal CTP o dall’INAIL, per ricordare i principali soggetti impegnati nel

settore della formazione professionale, oltre alle diverse organizzazioni private. 41

A far parte della tipologia del controllo esterno vi sono anche i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), eletti per rappresentare i lavoratori sugli aspetti della salute e sicurezza sul luogo di lavoro. La permanenza sul campo, però, non mi ha dato modo di incontrare alcun RLS, conseguente al fatto che non ho potuto osservare direttamente gli operai (Cap. 2).

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sicurezza da parte della società di progetto alla quale ha affidato l’appalto della

costruzione dell’opera di trasporto pubblico, nonché tutta la parte più strettamente

tecnica ed amministrativa della CortemSpa.

Il CTP, anche se esterno, ha però stipulato accordi con la società di progetto per

la realizzazione dei corsi di formazione/informazione e per il continuo monitoraggio dei

cantieri sotto il profilo, appunto, della sicurezza. Accanto al discorso normativo, quindi,

questa figura veicola e rappresenta il discorso formativo, ovvero il punto di vista

secondo il quale attraverso la formazione ed informazione del lavoratore sia possibile

migliorare le condizioni di sicurezza della stesso. Questo “discorso” è un valido alleato

del “discorso normativo” e i suoi intermediari principali sono, dunque, i corsi di

formazione/informazione (sotto forma di opuscoli, seminari, corsi) organizzati e a cui

gli operai partecipano (per legge); le ispezioni nei cantieri durante le quali il CTP

controlla il rispetto o meno delle norme di sicurezza, annotando nei propri verbali gli

esiti del controllo.

Infine, i Tecnici della prevenzione delle Asl, osservati sul campo, sono coloro

che rappresentano, in questo caso, il livello più esterno nella tipologia dei controllo ai

quali la CortemSpa è soggetta42. Inoltre, ad uno dei tecnici, conosciuti durante

un’ispezione in uno dei cantieri osservati, ho sottoposto un’intervista, al fine di

ricostruire il senso dato alla propria attività e poter cogliere delle esperienze

significative vissute durante i trent’anni di attività dello stesso.

Tutte e tre queste figure si avvalgono dei “verbali” prodotti durante le loro

visite ispettive che avvengono con una cadenza temporale differente e che suscitano

diverse reazioni e pratiche di negoziazione con i molteplici attori del cantiere e con i

quali veicolano la loro “idea” di sicurezza, come si vedrà nel prossimo capitolo.

Per quanto riguarda l’action-net locale appena ricostruita ‒ e visibile in forma

schematica nella figura 1 che segue ‒ si è puntato a ricordare ruoli, funzioni ed artefatti

dei soggetti incontrati durante l’etnografia di cantiere. Offrire una breve descrizione,

42

Va ricordato infatti che vi è anche l'Ispettorato del lavoro della direzione provinciale di Roma, ufficio territoriale del Ministero del Lavoro. O ancora il nucleo del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Lavoro che hanno funzione di Ispettori del lavoro e che svolgono anche loro sopralluoghi nei cantieri. Anche la Guardia di Finanza e la Polizia di Stato hanno deleghe in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

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infatti, permetterà loro di essere ri-conoscibili nei prossimi capitoli etnografici (Cap. 4;

Cap. 5).

Per concludere, le categorie lungo le quali è stata ricostruita l’action-net locale

(Fig. 1) sono due: il contesto (cantiere/livello istituzionale) e il controllo

(interno/esterno).

La prima coppia fa riferimento al “contesto” entro il quale le figure della

sicurezza incontrate sul campo svolgono le loro attività legate alla sicurezza: in

cantiere, a stretto contatto con gli operai (considerati essi stessi attori di sicurezza);

ovvero al di fuori del cantiere43 fino al livello istituzionale.

La seconda coppia, invece, fa riferimento al tipo di controllo esercitato dalle

stesse figure, da me distinto in controllo interno e esterno, in relazione al fatto che gli

attori che svolgono un’azione di controllo (normativamente prevista) appartengano

alla stessa CortemSpa (o siano ad essa legati da accordi di vario tipo, come i protocolli

d’intesa per esempio e, in casi simili, siamo dinanzi ad una situazione “intermedia” di

controllo) oppure facciano parte di enti/organizzazioni esterni ad essa. Va dà sé che

siamo nell’ambito del discorso normativo, risultato dominante rispetto al fenomeno

esaminato.

Vi sono, dunque, delle figure che fanno parte della stessa CortemSpa ed hanno

una funzione di controllo che, in base alla seconda dimensione considerata, ho definito

“interno”. Tale controllo interno, però, è svolto in maniera più specifica in cantiere (v. il

Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione), oppure più distante dal cantiere

come, per esempio, il Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione che

esercita la sua funzione di controllo interno al di fuori del cantiere, attraverso i controlli

esercitati sui documenti relativi alla sicurezza sul lavoro presentati dalle ditte prima che

queste arrivino in cantiere (discorso normativo).

43

Il termine “livello istituzionale” è stato ritenuto rilevante per evidenziare la traiettoria di alcune figure della sicurezza, ovvero la loro “distanza” fisica dal cantiere, come per esempio il caso degli attori internazionali, europei e nazionali. Il “livello istituzionale”, benché non rientri direttamente nell’ambito “locale” dell’action-net, rappresenta però il livello entro il quale le norme sulla sicurezza e i principi relativi al controllo sull’applicazione delle norme stesse sono decisi e, dunque, indirettamente arriva anche in cantiere.

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Nel primo riquadro44 in alto a sinistra, si collocano gli attori che “abitano” il

cantiere. Vi sono infatti gli operai, i capicantiere e i loro assistenti, ma anche il

Coordinatore e i suoi collaboratori, ovvero tutti i personaggi che svolgono la loro

attività di controllo (interno) direttamente nei cantieri.

Nel quadrante sottostante, invece, vi sono quegli attori che svolgono la loro

attività di controllo sempre all’interno del cantiere, ma non appartengono alla

CortemSpa, anche se alcuni di loro hanno stipulato degli accordi con essa per quanto

riguarda per esempio i corsi di formazione/informazione o di primo soccorso (è il caso

del CTP, dei Vigili del Fuoco e degli Operatori del 118). Altri, invece, come gli Ispettori

del Lavoro o i Tecnici delle Asl, si situano al limite del contesto/cantiere, appartenendo

infatti ad organizzazioni che operano sia a livello locale che nazionale.

Nei restanti due quadranti, caratterizzati da una notevole distanza dal cantiere,

si collocano tutti quegli attori che svolgono un tipo di controllo “indiretto” sulle attività

di cantiere. C’è chi, come per esempio il Coordinatore per la sicurezza in fase di

progettazione, svolge un controllo interno (in quanto parte della CortemSpa), ma

all’esterno del cantiere, su tutta la documentazione che ciascuna ditta deve presentare

per poter lavorare in esso. Le diverse istituzioni locali, nazionali, internazionali, invece,

raggiungono il cantiere attraverso alcuni organismi che hanno una loro articolazione sul

territorio (Ispettorato del Lavoro, che fa parte del Ministero del Lavoro, per esempio),

svolgendo contemporaneamente, e con altre strutture, un’attività di indirizzo e

controllo attraverso la propria attività di produzione normativa (è il caso, per esempio,

dello stesso Ministero del Lavoro).

Per meglio comprendere, però, l’esperienza che ha portato a queste

considerazioni, non resta che addentrarci in cantiere e vedere cosa accade nella sua

quotidianità.

44

Solo per comodità analitica ed espositiva, si partirà dal primo quadrante in alto a sinistra tenendo come principale riferimento la dimensione di cantiere e proseguendo poi sul versante opposto, senza seguire il “consueto” senso rotatorio legato all’uso degli assi cartesiani.

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Controllo Interno

Controllo esterno

Campo/Contesto Livello

Istituzionale

Campo/Contesto Cantiere

CTP Comitato Paritetico

Territoriale (di Roma e Provincia)

Operai Capocantiere/Assistente/Preposto

Direttore di cantiere

Responsabile dei lavori Datore di

lavoro CortemSpa

CSE (Coordinatore per la sicurezza in fase di

esecuzione)

RLS Rappresentanti dei

Lavoratori per la sicurezza

Alta Sorveglianza (Roma per il

Trasporto Pubblico)

CSP (Coordinatore per la sicurezza in fase di

progettazione)

RSPP/ASPP (Responsabile/addetto Servizio Prevenzione e

Protezione)

Medico Competente

INAIL/ ISPESL

Ministero del Lavoro

(Governo -policy maker)

Unione Europa

Regione Lazio Provincia di

Roma Comune di

Roma

Roma per il Trasporto Pubblico Operatori 118

VV.FF (Vigili del Fuoco)

FF.OO (Forze dell’ordine)

Ispettorato del Lavoro

Tecnico della Prevenzione/Asl

Fig. 1 Le figure della sicurezza e l’action-net locale

ILO

Fonte: propria elaborazione

Polizia Municipale

Livello organizzativo

Contiene gli attori incontrati sul campo

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195

4. Costruire la sicurezza: pratiche di controllo e mediazione

La storia che mi appresto a raccontare parla di cantieri, di alcuni capicantiere

ed assistenti di cantiere, di diversi operai e di altri personaggi che giorno dopo giorno

lavorano, interagiscono tra loro, negoziano incessantemente la loro posizione e,

spesso, confliggono anche duramente circa l’idea pratica di sicurezza sul lavoro.

Prima di parlare di ciò, però, occorre varcare le grandi recinzioni che delimitano

e segnalano i cantieri, indossare scarpe antinfortunistiche, gilet catarifrangente e casco

di protezione, perché siamo in un cantiere ed è questo l’equipaggiamento minimo

obbligatorio da indossare.

In cantiere c’è fango, terra, polvere, pozzanghere piene d’acqua che non

riflettono l’azzurro del cielo, ma il grigio del fango o il marrone della terra. C’è ancora

uno strano odore, di polvere, di ferro, di cemento umido e di cemento asciutto, odore

di terra arida e di terra umida, estratta in profondità. C’è rumore, tanto rumore.

Rumore delle sirene dei mezzi in movimento, con una cadenza tale da farti venir

l’ansia, nonostante servano a farti stare più tranquillo; rumore dei mezzi di scavo, di

flessibili che tagliano il ferro, di macchine che perforano il suolo. C’è anche il rumore

più lieve e divertente delle bocchette per le iniezioni nel terreno. C’è il rumore dei

camion che entrano ed escono, delle betoniere che arrivano una dietro l’altra ad un

ritmo impressionante. Il rumore torrenziale del cemento che dalle betoniere viene giù.

È c’è il rumore dell’acqua, quella che viene sparsa sulla terra e sulle pietre per placare

la polvere; quella che scorga dalle pareti nude delle gallerie, quella che attraversa,

come un rigagnolo, un’intera area del cantiere; quella che piove giù in qualsiasi

momento e forma grandi o piccole pozzanghere che non si curano, per esempio, se lì

per terra c’è un cavo della corrente o ci sono persone che lavorano. C’è di nuovo odore

di umido, di pietra viva e poi, ancora, rumore di scavo.

Ma c’è anche un cielo terso, azzurro ed un sole caldo, ma caldo da togliere il

fiato, da bloccare il respiro e da far grondare di sudore, tanto da farti desiderare

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costantemente acqua, tanta acqua, come quella che lo stesso cielo manda giù a

secchiate, all’improvviso, con il caldo e con il freddo.

Sembrano i suoni prodotti da un’orchestra, o dagli attrezzi che l’apprendista

stregone di Fantasia animava all’improvviso e in modo un po’ goffo e sui quali alla fine

perde il controllo. E nel cantiere questi rumori prendono il sopravvento prevalendo

spesso sulle voci degli attori. Ed infatti, senza gli attori umani che rendono possibile

parte di questa scenografia, sarebbe impensabile raccontare questa storia: ai rumori e

agli odori del cantiere si sovrappongono, si intrecciano e, spesso, si confondono, le

voci, le grida, i fischi, le risate, le imprecazioni, le facce corrucciate ed i sorrisi di tanta

gente che ogni mattina, o ogni inizio di settimana, entra in cantiere per guadagnarsi da

vivere in quest’inferno polveroso.

Lo stile che si è scelto per raccontare questa storia è quello narrativo, certi che

anche la presente narrazione, frutto delle note etnografiche raccolte durante

l’osservazione sul campo attraverso la pratica dello shadowing e delle interviste,

costituisca un modo per creare e negoziare significati, continuità temporale e, al tempo

stesso, identità (Jedlowski, 2000; Czarniawska, 2000; Poggio, 2004).

La narrazione è considerata qui come dimensione in grado di mettere in luce il

“dato per scontato” (Garfinkel, 1967) ‒ quello che accade nel corso dell’attività

lavorativa quotidiana ‒ da parte degli attori coinvolti. Cogliere tali elementi permette di

tratteggiare ciò che accade nella realtà organizzativa che si sta studiando. La

narrazione, il racconto, fanno parte della vita quotidiana del cantiere: si raccontano

episodi accaduti nel passato significativi per le azioni presenti; le proprie modalità di

lavoro e i propri trucchi del mestiere; si racconta il modo in cui si lavorava alcuni anni fa

ed altro ancora. Il ricercatore-etnografo, quindi, ha cercato di cogliere le parole e le

storie dei lavoratori incontrati sul campo con l’intento di ricostruire una

storia/narrazione che racconti il come si fa sicurezza in un contesto di cantiere e fornire

alcune letture del non rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro (Cap.

5).

La modalità narrativa, infine, consente una pluralità di ricostruzioni e di

rappresentazioni del contesto osservato, l’integrazione della polifonia di un cantiere e,

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pertanto, il suo criterio di validazione è la plausibilità (Bruner, 1986 in Poggio, 2004).

Attraverso la narrazione, infatti, ogni situazione acquista senso per sé e per gli altri: è

attraverso il racconto che si costruiscono le categorie che danno nome e significato agli

eventi osservati.

L’analisi che segue si struttura in due parti principali: il racconto di una giornata

“tipo” all’interno dei cantieri, la prima; l’analisi della tematica oggetto della presente

ricerca ‒ la pratica di controllo e mediazione della sicurezza nei cantieri ‒ emersa dalla

codifica e dall’analisi accurata di una parte delle note di campo e delle interviste, la

seconda1.

La prima parte ha l’obiettivo di “presentare” al lettore il contesto in cui si trova:

la descrizione delle fasi più salienti della giornata, gli attori principali che gestiscono le

attività di cantiere ‒ ovvero i due personaggi principali (capocantiere ed assistente

CortemSpa) ai quali ho fatto da ombra durante la ricerca ‒ e le “figure della sicurezza”

personalmente incontrate quali il Responsabile dei Lavori e i suoi collaboratori; il

Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione (CSE) e suoi collaboratori; i Tecnici

delle Asl; i Tecnici del CTP; i Consulenti per la sicurezza; gli RSPP CortemSpa. Tali figure

interagiscono insieme quotidianamente per la “costruzione” della sicurezza. Accanto

alle due tipologie di attori menzionati, inoltre, si collocano gli operai, osservati durante

le interazioni con i responsabili di cantiere CortemSpa, che mi hanno offerto la

possibilità di cogliere un’ulteriore visione della sicurezza, quella propria di coloro che in

prima persona sono chiamati a praticare la sicurezza adattandola alle modalità

socialmente sostenute e riconosciute di svolgere “bene” il proprio mestiere.

La seconda parte, invece, cerca di esplorare la tematica oggetto della ricerca,

ovvero uno dei due sistemi di pratica emersi dall’osservazione sul campo: le pratiche di

controllo e mediazione della sicurezza. Sarà evidenziato il processo di costruzione della

sicurezza basato su una costante negoziazione da parte degli attori che interagiscono

1 Il restante materiale raccolto attraverso le note di campo sarà affrontato nel prossimo capitolo

ed avrà come oggetto i due tipi di “risposta” messi in atto rispetto alla pratica del controllo: il rispetto e il non rispetto delle norme, ovvero un secondo sistema di pratica che ha la sua centralità nell’attività lavorativa degli operai emerso nella quotidiana relazione con i responsabili di cantieri.

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tra loro sostenendo la propria visione di ciò che è sicuro e di ciò che non lo è,

espressione del gruppo professionale d’appartenenza.

4.1 Una giornata in cantiere: il tessuto della sicurezza

La permanenza prolungata soprattutto nel primo cantiere mi ha permesso di

ricostruire il “tessuto” della sicurezza, il contributo degli attori che concorrono a

tessere i cantieri ‒ con i propri discorsi, gli artefatti/intermediari e le loro diverse visioni

della sicurezza ‒ e che danno origine ad una configurazione (action-net) locale e situata

della sicurezza. Tale ricostruzione, dunque, è utile a rendere evidente il processo e le

attività legate alla sicurezza che quotidianamente hanno luogo in uno dei cantiere della

CortemSpa e lo rende un cantiere più o meno sicuro.

Si ricorda che nella ricostruzione dell’esperienza di ricerca si farà riferimento in

particolar modo alle note di campo raccolte durante l’etnografia. Accanto ad esse,

inoltre, saranno utilizzati stralci delle interviste ad alcuni attori incontrati durante

l’osservazione e lo shadowing. Dove non specificamente precisato, invece, gli stralci

saranno ripresi dal “diario etnografico dei cantieri” da me tenuto durante la

permanenza sul campo (Cap. 2).

La ricostruzione di questo paragrafo, dunque, è frutto dell’attività di shadowing

del capocantiere della CortemSpa e di quella, successiva, del suo assistente con più

anzianità di servizio, avvenuta nel primo cantiere a cui ho avuto accesso2. I capicantiere

delle ditte affidatarie o subappaltatrici, invece, non sono stati osservati nel loro

quotidiano lavoro quanto, piuttosto, nella loro “quotidiana” interazione con le due

figure poco prima richiamate, ovvero capocantiere ed assistenti della CortemSpa. Per

quanto riguarda gli operai, invece, si farà riferimento agli operai delle ditte affidatarie

e/o subappaltatrici (non essendoci in questo contesto operai CortemSpa) incontrati

durante i giri di cantiere al fianco del capocantiere o degli assistenti CortemSpa, questo

per sottolineare come non sia stata possibile un’osservazione diretta, esclusiva e “dalla

2 Si rimanda al Cap. 2 per la ricostruzione dell’esperienza di accesso al campo. Inoltre, durante la

permanenza sul campo ho avuto modo di incontrare anche altri due assistenti, uno dei quali era molto più giovane degli altri, era arrivato in cantiere poco prima di me ed è andato via dopo neanche un anno. Si ricorda, inoltre, che i nomi utilizzati sono nomi di fantasia.

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parte” degli operai (intesa come prospettiva). È stato possibile, invece, osservarli “dalla

parte” dei loro controllori, cosa che non sempre ha facilitato l’annotazione dei loro

punti di vista.

Si precisa, inoltre, che i due contesti cui si farà riferimento sono il cantiere (il

primo ed il secondo osservati) e “la galleria”. Quest’ultima, infatti, racchiude in sé una

complessità semantica che rimanda alla sua organizzazione (per squadre e turni), alla

sua gestione (direttamente dalla CortemSpa), alla sua localizzazione spaziale (accanto

ai cantieri e tra di essi) ed al fatto che sia quasi una sorta di attività parallela che detta il

timing di tutto il progetto3.

Certo è che la permanenza sul campo mi ha permesso di tratteggiare e

descrivere quella che potrebbe essere definita una “giornata tipo” che dà luogo ad un

“ordine negoziato” (Strauss, 1978), ovvero un processo continuo, che è generato dalle

interazioni quotidiane che ne definiscono la sua natura “situata” e contingente.

La permanenza sul cantiere durata, nel primo cantiere soprattutto, circa tre

mesi, ha permesso di ri-conoscere quella quotidianità che caratterizza ogni luogo di

lavoro. L’attività di shadowing, infatti, ha consentito di cogliere attorno a quali attività

principali si realizza il lavoro all’interno di tale cantiere; chi sono gli attori che lo abitano

abitualmente, almeno per un certo periodo di tempo.

L’opera di costruzione attorno alla quale si è organizzata l’attività dei cantieri,

infatti, vede scorrere diverse ditte (e i relativi operai) che si alternano, si

sovrappongono e si avvicendano in questo processo. Ma mentre la morfologia degli

stessi cantieri muta anche in un tempo relativamente breve (nel giro di qualche mese,

per esempio) e le ditte si cambiano, vi è una parte delle attività, una sorta di core

activity, che tiene insieme questi cambiamenti e concorre alla loro gestione. È il caso

dell’attività dei capicantiere ed assistenti della CortemSpa - ma anche delle “figure

della sicurezza” che svolgono la loro attività in cantiere, degli archeologi e degli addetti

alle pulizie, per esempio - che rappresentano il filo conduttore di un’attività che cambia

3 L’“efficienza” vantata “dalla galleria” è tale che chi lavora in galleria rispetta i tempi del

progetto e sono anche in anticipo nei lavori di costruzione delle stazioni affidate agli altri “cantieri” (voci dal campo).

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su una base di quotidianità. Ed è questa quotidianità a permettere di ricostruire la

giornata tipo che segue.

Nella ricostruzione della giornata tipo, inoltre, ho cercato di integrare anche il

punto di vista degli operai che ho intervistato poco prima di lasciare il cantiere,

chiedendo a tali personaggi di descrivere, appunto, la loro giornata “tipo”. La domanda

si è rivelata una delle domande che più li ha messi in difficoltà, proprio perché a

caratterizzare la vita di cantiere, dal loro punto di vista, sembra essere la sua

imprevedibilità, ovvero il “dipende quello che c’è da fare” (voci di cantiere).

4.1.1 Le prime luci del mattino: l’apertura del cantiere

La descrizione e lo studio delle attività ‒ come quella di controllo e mediazione

della sicurezza e alcune pratiche di lavoro degli operai ‒ permette di evidenziare le

diverse logiche organizzative giocate dagli attori che le progettano, le mettono in atto,

le svolgono e le modificano. Il ricercatore cerca di vederle “mettendosi nei panni” di chi

le compie (la “comprensione” di cui parla Weber), di cogliere significati e definizioni

che cambiano sotto gli occhi degli stessi attori, lungo il processo della loro

realizzazione. È il senso che esse hanno per attori individuali e collettivi, colto dal

ricercatore, a mettere in luce le dinamiche di costruzione sociale (Berger, Luckmann,

1969) della realtà organizzativa, ovvero i processi specifici che fanno sì che i significati

degli attori coinvolti nelle interazioni diventino delle “fattualità oggettive” (Strati, 2008)

acquisendo, cioè, la caratteristica di “realtà”.

Le attività del cantiere, dunque, hanno inizio intorno alle 7 del mattino, anche

se le porte del cantiere si aprono un po’ prima. Verso quell’ora la “vita” del cantiere

passa in consegna dalla vigilanza privata notturna4 ai suoi “protagonisti” principali: si

vedono arrivare, infatti, i capicantiere, gli assistenti e gli operai sia della CortemSpa che

delle ditte che vi lavorano.

Quando si varcano i portoni si può osservare un’area piuttosto grande che

spesso è delimitata al suo interno in tante altre zone: vi è la zona in cui sono stati posti

4 Accanto al vigilante notturno vi è anche un sevizio di videosorveglianza del cantiere attivo 24

ore su 24 e predisposto proprio nel periodo in cui ho svolto l’osservazione sul campo.

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dei container che fungono da uffici dei capicantiere ed assistenti (sia CortemSpa che

delle diverse ditte che lavorano in cantiere); la zona dei container-spogliatoi per gli

operai di alcune ditte5; le aree in cui sono parcheggiate le macchine da lavoro e le

macchine aziendali; le aree di stoccaggio del materiale per la costruzione (cemento,

gabbie di ferro, fusti di materiale vario); le aree di lavorazione delle diverse ditte dove

vi sono, per esempio, i silos che contengono bentonite (un materiale usato nella fase di

scavo dei diaframmi) ed il macchinario che permette di recuperare la stessa dagli scarti

dello scavo, ripulirla e riutilizzarla.

Dato un primo sguardo all’area di cantiere, però, la prima cosa che colpisce

entrandovi alle 7 del mattino sono i gruppetti di operai che, con i rispettivi capicantiere

e/o assistenti, discutono del lavoro da fare durante la giornata6, ognuno nelle vicinanze

del proprio container. La prima cosa che fanno appena il gruppo si compatta è

l’appello. Infatti, tutte le mattine le ditte presenti in cantiere devono riempire un foglio

presenze relativo ai singoli operai e alle macchine da lavoro presenti e consegnarlo al

capocantiere o assistente della CortemSpa.

L’atmosfera è serena ma, nella tranquillità della mattinata e della città che

ancora non ha preso i suoi pieni ritmi, vi è già in sottofondo il “rumore del cantiere”,

ovvero i mezzi meccanici appena messi in moto e che già riempiono l’aria tutt’intorno.

Stride, quasi, il loro rumore accanto alla città ancora assonnata, ma che pian piano si

sta svegliando aggiungendo anche i suoi rumori: traffico, vociare di gente che man

5 Gli spogliatoi, le mense, i bagni e altro ancora fanno parte dei “benefit” che le parti sindacali

ottengono da parte della CortemSpa per gli operai delle ditte affidatarie. Per alcuni operai incontrati sul campo, per esempio, questi “vantaggi” rappresentano degli elementi di “sicurezza” alla quale gli operai non possono rinunciare per svolgere al meglio il loro lavoro. Oltre ad essere un loro diritto.

6 L’orario di lavoro degli operai è, da contratto, di 8 ore, con un’ora di pausa per il pranzo. Non è

un mistero che spesso se ne facciano di più, ricorrendo allo straordinario o al cambio di squadre quando occorre lavorare 24 ore su 24, come accade per i lavori in galleria. Non è stato possibile, e pertanto esula dall’obiettivo di questa ricerca, osservare le reali condizioni di lavoro degli operai in termini di contratti, ore lavorate e altre cose simili. L’organizzazione del lavoro in galleria (di diretta gestione CortemSpa) riposa su tre o quattro turni di lavoro, in base alle esigenze di produzione ‒ si veda anche il capitolo 3. I cantieri, invece, essendo “affidati” alle diverse ditte che devono eseguire i lavori, e che a loro volta subappaltano, possono avere un’organizzazione del lavoro differente. Certo è che ho ascoltato i racconti di giornate in cui le lavorazioni di alcune ditte, in cantiere, si sono protratte fino alle 22 di sera, e anche un po’ oltre, e, alla domanda su come fosse stato organizzato il lavoro in quelle ore, mi è stato risposto che c’era un altro turno di lavoro con altri operai. Dai racconti ascoltati, però, è plausibile e ragionevole pensare che, data la non frequenza di un simile orario di lavoro, siano stati invece gli stessi operai a svolgerlo – ovvero quelli che hanno lavorato le 8/10 ore quotidiane.

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mano aumenta per le strade, rumore delle tazzine dei bar che si sentono ogni qual

volta ci si avvicini ad essi mentre si percorrono i diversi marciapiedi che portano da una

parte all’altra del cantiere.

In cantiere qualcuno scherza, qualcuno si concede una breve colazione al bar e

poi tutti iniziano a munirsi dei propri attrezzi da lavoro: martelli, livelle, chiodi per i

ferraioli e i carpentieri, per esempio; carriole, vanghe o badili, seghetti, per i manovali

che aiutano nella carpenteria; o ancora camion, autogru, scavatori meccanici con

benne, per gli operatori di movimento terra e scavi. Dalle parole di coloro che,

intervistati, hanno risposto alla domanda “quali sono i suoi attrezzi da lavoro

principali?” è emerso come siano pochi gli attrezzi utilizzati e, soprattutto, come tali

attrezzi diano identità allo stesso lavoratore: il ferraiolo o il carpentiere, per esempio,

lavora con il ferro, la tenaglia ed il martello e sono questi stessi strumenti che “fanno”

un ferraiolo e/o un carpentiere tra coloro che condividono questo mestiere.

“Martello! e tenaglie … metro, matita e borsetta per mettere i chiodi,

questi e basta [ride], altri attrezzi … sega, livella, questa roba qua, filo, piombo,

ma questi sono gli attrezzi di un carpentiere!” (Ferraiolo, 61 anni).

“Martello! E poi le tenaglie … eh, la livella, il piombo, il filo .. questi sono

quelli che si usano normalmente in carpenteria” (Carpentiere, 55 anni).

“I miei attrezzi?! Eh! [sorride] [ … ]. No, vabbè, tutti! Qualsiasi attrezzo”

(Manovale definito come “tuttofare”, 32 anni).

“… io ho lavorato con la pompa all’inghisaggio, onestamente, uso tutto,

dipende, leggo … leggi bene come si usano, hai le istruzioni [ … ] e lo puoi

usare!” (Operaio, 22 anni).

“L’escavatore! Tutto quello che riguarda i mezzi, tutti i mezzi”

(Escavatorista – operatore di mezzi meccanici - 37 anni).

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Sia dall’età che dalla tipologia di lavoro che gli operai intervistati svolgono è

possibile rilevare una maggiore o minore padronanza del proprio mestiere. C’è chi ha

facilità ad identificare i propri attrezzi del mestiere, essendo dotato di quella che

Goodwin (2003) chiama “visione professionale”, ovvero quel saper fare ed essere che

ne caratterizza l’identità. Ma c’è anche chi ha difficoltà ad elencare i propri attrezzi e si

trova o nella situazione di svolgere un lavoro di “sostegno”, definito come non

specializzato ‒ il manovale che deve adeguarsi a fare ciò di cui c’è bisogno in cantiere

(pulire, ordinare, portare carichi a mano e altro) o ad affiancare un altro operatore, per

esempio, nell’uso dei mezzi meccanici per effettuare lavori “più grossolani” e che non

richiedono abilità particolari. Oppure c’è chi sta imparando il mestiere ed inizia a

prendere confidenza con gli strumenti del “mastro” che sta affiancando ‒ dal momento

che spesso i novizi apprendono “sul campo”, affiancando il collega più esperto7 ‒ o chi

a volte ricorre al manuale d’uso per capire come usarli.

La domanda posta durante le interviste, però, aveva anche una seconda

finalità, ovvero rilevare, accanto al racconto dei propri attrezzi, il posto che gli “attrezzi

della sicurezza”, comunemente chiamati Dispositivi di protezione individuale (Dpi),

occupano nella quotidianità del lavoro. E nessuno di loro ha esplicitamente elencato i

dispositivi di cui fa uso durante l’attività lavorativa, in quanto percepiti principalmente

come “oggetti esterni” rispetto agli attrezzi abitualmente utilizzati per svolgere

l’attività lavorativa, e non utilizzati, per esempio, per poca abitudine, o perché

intralciano la realizzazione di attività in cui è richiesto di utilizzare al meglio le proprie

capacità sensoriali ed estetiche (Strati, 2000), come per esempio il tatto o l’udito (dove

il verbo “sentire” ‒ riferito ad un qualcosa e/o a qualcuno ‒ accomuna le due facoltà).

Come hanno sostenuto gli operai durante le interviste e le chiacchierate con i

loro superiori a cui ho assistito, i Dpi sono qualcosa che i “capi” o i “controllori”

chiedono loro di indossare, per rispettare le norme sulla sicurezza (anche in vista dei

controlli da parte delle figure istituzionali come l’Ispettorato del Lavoro o i Tecnici delle

7 Ci sono anche dei corsi di formazione organizzati dalle scuole edili ‒ la ricerca di Gherardi e

Nicolini (2001), per esempio, parte dall’osservazione di un novizio che dall’aula passa al campo pratico ‒ ma, nel caso della presente ricerca, le testimonianze raccolte non comprendono esperienze di questo tipo, quanto piuttosto quelle di un mestiere appreso “facendo”, affiancando, cioè, in giovane età un operai più esperto.

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Asl), ma che gli operai ritengono “scomodi” e, spesso appunto, d’intralcio rispetto alle

modalità abituali di lavorare (§ 5.1.2.1).

Continuiamo nel racconto della giornata di cantiere per presentare gli attori

principali che si incontreranno e che giocheranno un ruolo cruciale per cogliere e

comprendere il fare sicurezza all’interno di un cantiere edile come attività quotidiana di

costruzione collettiva.

4.1.2 Lo shadowing dei “padroni di casa”: il signor M. e il signor P.

Diversi sono i capicantiere e gli assistenti che ho incontrato lungo le visite fatte

nei cantieri della CortemSpa. Le figure che qui si prenderanno ad esempio, però,

appartengono al cantiere che ho avuto modo di osservare più a lungo e che mi hanno

permesso di conoscere e comprendere quali siano le attività principali di un cantiere; la

sua organizzazione; i ruoli e le funzioni dei diversi attori che di volta in volta ho

incontrato. Sono i due personaggi che mi hanno permesso, inoltre, di comprendere

meglio la complessità e la durezza della vita di cantiere.

Mentre gli operai si dotano dei propri attrezzi, il capocantiere della CortemSpa,

il signor M., ed il suo assistente, il signor P. ‒ che condividono lo stesso container come

ufficio, con due scrivanie poste una opposta all’altra nel lato stretto dello stesso, così

da ricreare due uffici con relative porte ‒ iniziano anche loro le quotidiane attività e

pratiche di lavoro.

La prima cosa che fanno è indossare i loro Dpi: scarpe antinfortunistiche e gilet

ad alta visibilità; il casco, invece, è usato un po’ ad “intermittenza” 8. È P. a metterlo più

spesso: è lui che ha maggior contatto con gli operai e per questo sente di dover dare

“l’esempio”, proprio perché è lui stesso che quotidianamente e ripetutamente chiede

agli operai di indossarlo.

8 Come si vedrà nei prossimi paragrafi, infatti, quanto appena descritto, come l’uso o meno del

casco, rappresenta una modalità di interpretare e negoziare le regole in merito alla sicurezza, interessante per comprendere quali regole siano espresse nelle pratiche e, come in questo caso, quali siano sostenute dalle pratiche. La norma prevede che in cantiere si indossi il casco, ma tale norma è sottoposta ad interpretazioni che danno luogo a pratiche diverse, per esempio quella del capocantiere e quella dell’assistente. Quest’ultimo, in particolare e come si vedrà più avanti, è più a stretto contatto con gli operai.

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205

Da quando arrivano, e durante la fase di “vestizione” (§ 4.2.1), tra i due c’è

un’intensa attività di socializzazione. Questo è il momento della giornata in cui i due

“colleghi” si scambiano confidenze sulla vita privata, relative alle rispettive famiglie,

agli hobbies, ai problemi personali, ma anche su quanto accade nella loro

organizzazione, al di là del loro container, rispetto al loro lavoro e alle loro

responsabilità. È anche il momento del confronto sulla gestione del cantiere e dei

problemi che spesso si presentano soprattutto in relazione al rapporto con le altre ditte

e che mette in risalto le diverse “visioni professionali” (Goodwin, 2003) che

caratterizzano ciascuna impresa, anche in merito alla sicurezza sul lavoro. Il rapporto

tra capocantiere e assistente è piuttosto paritario, ciò che emerge è una divisione di

compiti e responsabilità, più che di subordinazione vera e propria, cosa che è stata

confermata anche dal racconto che ciascuno ha fatto in relazione al rapporto che ha

con l’altro.

I capicantiere e gli assistenti con molta esperienza che ho incontrato sono soliti

raccontarsi, e raccontare anche ai più giovani, “storie di guerra” come le definiva Orr

(1990) relative alla durezza del lavoro negli anni in cui hanno iniziato loro e al diverso

modo di lavorare degli ultimi anni. A volte, tramite queste storie, sottolineano la

“fortuna” di cui godono oggi i giovani operai rispetto ai loro inizi, anni in cui vi erano

meno tutele e meno attenzione ai rischi che si corrono nel proprio mestiere; altre volte

puntano a ricordare la particolarità di alcuni operai che, con la loro personalità, bravura

e simpatia hanno reso gli anni di lavoro meno pesanti; altre ancora permettono la

condivisione di conoscenze circa personaggi che sono poi saliti ai vertici delle diverse

imprese, dopo aver lavorato insieme, e che rappresentano delle figure “paterne” che

hanno permesso di imparare i “trucchi del mestiere”.

Queste storie, dunque, hanno una duplice funzione: da una parte distendono e

creano un clima collaborativo e amichevole, che permette di “alleviare” un po’ la

durezza dell’attività di lavoro, come un rituale sociale (Goffman, 1969); dall’altra

rappresentano una vera e propria risorsa per sviluppare, mantenere, scambiare, ma

anche distribuire successivamente quel sapere pratico di cui sono “portatrici”.

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Una volta indossati i panni di capocantiere e di assistente si dà avvio alle

quotidiane attività lavorative.

Per prima cosa si fa “un giro di controllo”, ovvero si verificano tutte le situazioni

interrotte o completate il giorno prima sulle quali avviare le attività lavorative della

giornata. Prima di uscire dal container-ufficio, però, è possibile che il capocantiere dia

“un’occhiata” ai disegni del progetto appesi alle pareti dell’ufficio, seguendo con il dito

la sequenza in cui sono stati già realizzati i diaframmi9, evidenziando con un

evidenziatore quelli realizzati e sottolineando con una penna rossa quelli in fase di

scavo. Lo studio del progetto, inoltre, serve anche per decidere eventuali cambiamenti

da apportare all’ordine del progetto10 stesso, il tutto in breve tempo e commentando

spesso con il suo collega in modo da riuscire a “farsi un’idea” (getting the picture) di

come gestire il cantiere nei giorni a seguire e di come procedere nei lavori di scavo.

Il “farsi un’idea” della situazione accomuna il capocantiere ed il suo assistente

ai controllori di volo studiati da Harper e Hughes (1983). L’espressione, infatti, esprime

la possibilità di entrare nel ritmo di un’attività collettiva, di mettersi al passo degli

avvenimenti, per cercare un coinvolgimento pratico con essi. Gli attori in questione,

dunque, nello svolgimento della loro attività non seguono “piani d’azione” (Suchman,

1987), ma gestiscono una serie di eventi in tempo reale: fattori inevitabili e contingenti

e problemi tecnici, per esempio. Ma hanno anche la capacità di prevedere “problemi

probabili” (Fele, 2002), come spesso accade al capocantiere e al suo assistente durante

lo svolgimento delle loro attività quotidiane.

Non appena il signor M. ha trovato conferme sul da farsi ‒ spesso infatti ha già

un’idea su ciò che va fatto durante il corso della giornata e questa è più che altro

9 Ovvero i pannelli che affiancati l’uno all’altro costituiscono le pareti/fondamenta delle future

stazioni. 10

L’ordine dei diaframmi da realizzare (espressi sul disegno del progetto con numerazione cardinale crescente), infatti, può essere modificata leggermente, per esempio, in base all’ordine di arrivo delle gabbie di ferro che servono per la costruzione dei diaframmi, in quanto ad ogni diaframma corrispondono delle gabbie anch’esse numerate. Oppure può dipendere dalla “comodità” di utilizzare la benna mordente (la macchina che scava) senza spostarla in giro per il cantiere (riducendo così anche i rischi connessi allo spostamento di un grande mezzo e di tutti gli altri attrezzi necessari allo scavo e alla posa delle gabbie di ferro), evidenziano come la pratica possa sollecitare un’attenzione alla sicurezza magari non prevista nel progetto.

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l’occasione per confermarla o per aggiustare il tiro prima di iniziare il giro e parlare con

i responsabili delle ditte o gli operai stessi ‒ è il momento di uscire dall’ufficio.

Anche se il compito del capocantiere CortemSpa è quello di coordinare le

attività delle diverse ditte presenti nelle varie aree del cantiere di cui è responsabile, la

sua presenza è molto forte ‒ ha esperienza, competenza, ha “polso” ‒ e, in alcuni casi,

giudicata dai capicantiere di alcune ditte come “ingombrante”11. Durante questo primo

giro, infatti, il signor M. dà le sue direttive circa il lavoro da eseguire, le priorità, le

modalità di fare le cose, la necessità di tenere sempre a mente “l’immagine” della

CortemSpa e del fatto che se qualcuno fa “cavolate, ci rimettiamo noi, ci rimette

l’immagine della CortemSpa”. Sono queste anche le occasioni in cui il signor M.

ribadisce agli operai che via via incontra di indossare i dispositivi di protezione ‒

soprattutto il casco ed il gilet, dal momento che le scarpe sono indossate da tutti gli

operai12 e gli altri dispositivi (cuffie, guanti ecc.) sono specifici di alcune lavorazioni ‒ e

si raccomanda di svolgere il lavoro “in maniera sicura”.

Il giro è anche occasione di confronto con il suo assistente P., di scambio sulle

modalità con cui svolgere l’attività di lavoro, cercando sempre di “negoziare” anche tra

di loro le cose da “far fare” e quelle da dire. È ciò che Corbin e Strauss (1993)

definiscono arrangements, ovvero gli accordi che le persone prendono nel loro gruppo

11

Ho avuto modo di ascoltare uno sfogo da parte di un capocantiere di una delle ditte che ha manifestato una sorta di stress e di dissenso ad alcuni “ordini” ricevuti da M. In effetti, soprattutto nei confronti di una ditta “in crescita”, come quella di questo capocantiere, M. ha svolto una funzione di “orientamento” e di mentorship che ha portato, come si vedrà, ad un cambiamento nelle pratiche della stessa ditta.

12 Proprio questo è spesso, come vedremo in seguito, motivo di scontro tra gli operai e i loro

superiori. Ma anche tra lo stesso signor M. e signor P. che richiamano il capocantiere di una ditta perché indossa solo scarpe sportive (oltre a non indossare mai alcun Dpi), non dando così l’esempio, come sostiene sempre P., anche quando capita che altri “visitatori” entrino in cantiere privi di qualsiasi protezione. Altra categoria professionale con la quale i responsabili di cantiere si scontrano perché non rispettano mai l’obbligatorietà dell’uso delle scarpe antinfortunistiche, sono gli autotrasportatori. Un capocantiere, infatti, è arrivato al punto di minacciare la ditta a cui appartenevano di rimandare indietro i camion i cui autisti non avessero le scarpe adatte (soprattutto considerando che, nei mesi estivi, qualcuno si è presentato in ciabatte!). Le ditte si erano giustificate dicendo che gli autisti entrano ed escono dal cantiere alla guida del proprio camion, non avendo altre mansioni, ma i responsabili di cantiere hanno fatto presente che loro compito è anche quello di consegnare la “bolla” del materiale portato o del materiare caricato e, dunque, anche loro hanno necessità di attraversare il cantiere. Lo scontro è stato particolarmente forte e ricordo che in quei giorni il capocantiere era davvero arrabbiato e aveva preso diversi provvedimenti per avere un riscontro su quanto richiesto, come per esempio telefonare ai responsabili prima di inviare una lettera di richiamo ufficiale.

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di lavoro al fine di portare avanti il lavoro stesso: “cosa deve essere fatto, con quali

criteri, in quale luogo, durante quale periodo di tempo, con quali risorse” (74). Infatti

M. e P. stabiliscono, per esempio, quale lavorazione debba essere avanzata e quale può

essere rimandata o interrotta, chi deve fare un determinato lavoro ‒ magari

sospendendo temporaneamente quello in corso ‒ e cosa devono fare tutti gli altri. Gli

arrangements ‒ accanto al processo di working things out (il sistemare le cose) e allo

stance (atteggiamento, “postura”)13 ‒ sono concetti che permettono di analizzare il più

complesso lavoro di articolazione attraverso il quale si cambiano e si mantengono gli

accordi necessari a svolgere il lavoro sia nella propria unità che tra le diverse unità

organizzative (Corbin, Strauss, 1993), in questo caso tra gli operai delle diverse ditte.

Queste due figure, infatti, veicolano e “traslano” quelle che potremmo

chiamare le “regole del gioco” del cantiere. Sono gli “intermediari” umani (Callon,

1992) del discorso normativo. Sono loro che devono far sì che le direttive

dell’organizzazione in materia di sicurezza sul lavoro arrivino sino al cantiere e siano

“messe in pratica”, implicando necessariamente una traduzione, ma anche un

“tradimento” (Gherardi, Lippi, 2002) delle stesse regole. Ciò è dovuto al fatto che sono

intermediari anche del discorso economico e “produttivo” dell’organizzazione che

chiede loro e agli operai di andare avanti, velocemente: i tempi di produzione, infatti,

dettano regole diverse da quelle sulla sicurezza e questo comporta spesso un

“tradimento” di queste ultime.

I due personaggi rappresentano due anelli di congiunzione tra il cantiere e il

vertice14, il capocantiere M., tra il vertice e gli operai, l’assistente P. Infatti, il primo

riceve informazioni e ordini “dall’alto”, anche in merito alla sicurezza (come per

esempio nuove disposizioni normative o informazione sui giorni in cui ci saranno dei

13

Il “sistemare le cose” rappresenta le strategie di interazione che permettono agli accordi di essere presi, mantenuti ed anche rivisti. Le strategie possibili, come vedremo anche nel corso del resoconto etnografico, vanno dalla negoziazione al compromesso, dal discutere al convincere, ma anche dominare, minacciare, educare (Corbin, Strauss, 1993).

L’atteggiamento, invece, è la “postura”, ovvero la posizione che ogni interlocutore ha verso il lavoro e verso le strategie di working things out. È l’interazione tra gli atteggiamenti delle diverse persone che influenzano quelli individuali (ibidem).

14 Sia la Direzione generale che i diversi “datori di lavoro” in cui si articola l’organizzazione della

CortemSpa. Per un approfondimento si rimanda al Cap. 3.

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controlli in cantiere) e li “porta” ‒ anche fisicamente perché, per esempio, recepisce i

documenti cartacei da archiviare nell’archivio del suo ufficio ‒ all’interno del cantiere

(al suo assistente, ma anche ai responsabili delle ditte); il secondo, da parte sua,

recepisce “gli artefatti” (tradotti dal capocantiere e dai suoi superiori per il cantiere) ed

ha il compito di “radicarli” ‒ traducendoli ancora una volta ‒ all’interno del cantiere

stesso, tra gli operai. Questo ulteriore passaggio contribuisce così ad ampliare la catena

di traduzione/tradimento/arricchimento delle “regole del gioco”, contestualizzandole

rispetto al cantiere, alle sue pratiche e alle sue “regole” interne.

Tutto questo comporta che ognuno di loro (capocantiere ed assistente

CortemSpa) adotti un’interpretazione della situazione differente. Differente è il loro

stile comunicativo, in parte il linguaggio, ma soprattutto è differente la “traduzione”

che offrono di una stessa norma e/o compito da svolgere (e, in primo luogo, le

modalità, ovvero il come farlo).

La loro “definizione della situazione” (Goffman, 1969) dipende molto dal

“pubblico” al quale devono indirizzare un ordine e/o il compito: se il capocantiere della

CortemSpa deve sostanzialmente veicolare il suo messaggio direttamente al suo

assistente (e in parte ai capicantiere delle diverse ditte), l’assistente, a sua volta, dovrà

“farlo mettere in pratica” dagli operai e, in parte, anche dai capicantiere (delle ditte),

con tutto quello che comporta in termini di visione, di interpretazione e di gestione.

Detto in altri termini: se il capocantiere CortemSpa, per esempio, deve dare

un’indicazione, spesso è sufficiente che comunichi al suo assistente cosa deve essere

fatto e questo basta ‒ “Devi dire al capocantiere della ditta che ogni volta che arriva un

nuovo operaio gli deve spiegare come funziona qui, come si lavora in questo cantiere!”.

A sua volta, invece, l’assistente “non può” semplicemente rigirare l’indicazione (o

l’ordine, in un certo senso), non perché non abbia il “potere” per farlo, anzi, ma nel

senso che questo tipo di ordine non sortirebbe alcun effetto. A questa

raccomandazione datagli dal capocantiere, l’assistente spesso risponde con tono di

rassegnazione: “Gliel’ho già detto, ogni volta è la stessa storia!”, sottolineando come

spesso i rapporti con le altre ditte siano difficili da gestire, proprio perché la loro

funzione è quella di coordinare e, nel momento in cui si spingono oltre dando “ordini”

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‒ non solo in merito alla sicurezza, ma anche comportandosi come capicantiere diretti

degli operai ‒ scavalcano i capicantiere di alcune ditte e procurano loro una certa

irritazione.

L’assistente di cantiere, in particolare, è a conoscenza di queste dinamiche e

spesso ricorre al rapporto diretto con gli operai per raggiungere i suoi obiettivi, tanto

più se si tratta di adottare misure di sicurezza preventive, sfruttando di fatto una certa

superiorità gerarchica dovuta all’esser “i padroni di casa”. Ed ecco che ritorna l’ordine

come frutto di intensa e incessante negoziazione tra i diversi attori del cantiere.

Il giro può richiedere anche più di un’ora e quello che può accadere varia di

giorno in giorno. Per esempio può accadere che qualcuno degli esercenti della zona o

dei residenti si lamenti per i disagi arrecati dalle lavorazioni e, in questo caso è

solitamente P. a gestire le “pubbliche relazioni”, perché come dice M. “lui è più calmo,

più bravo ed è pure più bello di me!”, un modo simpatico per delegare compiti che M.

non gradisce particolarmente.

Può capitare, quindi, che P. si debba fermare a parlare con qualche cittadino

che si lamenta15, mentre M. con passo spedito raggiunge un’altra area del cantiere per

continuare il suo controllo ed impartire istruzioni. M. è sempre molto sorridente, con la

battuta pronta, e con una “velocità di pensiero” impressionante.

Mi ha colpito, infatti, la sua competenza, ma anche la sua memoria: tiene a

mente le attività svolte, quelle che devono esser completate, il materiale che va

ordinato, le scadenze di quello in arrivo, le modifiche fisiche che il cantiere deve subire

man mano che avanzano i lavori, gli appuntamenti con i superiori e con i diversi

soggetti che incontra quotidianamente per la gestione del cantiere e che ha incontrato

nel corso della sua attività. Come mi ha detto lui stesso durante una conversazione

informale avuta mentre raggiungevamo uno dei cantieri: “il lavoro non è che è pesante,

ma devi organizzare tante cose!”, è sempre al corrente di tutto e, come dice spesso

“faccio finta di non guardare, ma io vedo e sento tutto!”.

15

Il cantiere è immerso nel cuore della città e, a differenza di altri che ho osservato o visitato, ha delle problematiche aggiuntive da gestire, come il traffico, la viabilità, i cittadini e gli esercenti residenti attorno ad esso, oltre alla presenza di edifici storici che devono essere messi in sicurezza dalla stessa CortemSpa prima delle lavorazioni di costruzione della linea di trasporto.

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211

I suoi interlocutori principali sono: il Direttore di cantiere, suo diretto

superiore, e il Datore di lavoro responsabile della tratta a cui i cantieri appartengono

(Cap. 3). Un importante collaboratore, un “braccio destro” con cui il signor M. ha un

notevole affiatamento, è un ingegnere che fa parte dell’ufficio del Direttore di cantiere

e si occupa di redigere i documenti che permettono al capocantiere CortemSpa di

gestire i suoi cantieri, come per esempio la documentazione necessaria per richiedere

alla Polizia Municipale di deviare la viabilità stradale o di ottenere l’assegnazione di

un’area (che viene sottratta alla viabilità cittadina e assegnata alla CortemSpa per

aprire un cantiere); oppure la richiesta di modifica dei progetti o di disegni che ha

necessità di consultare.

Benché le sue caratteristiche personali, la sua competenza ed esperienza si

siano rivelate strategiche nella gestione del cantiere, quello di M. è quindi un lavoro

collettivo, di squadra, ed è proprio l’artefatto tecnologico cellulare che ne esplica

funzioni e potenzialità, permettendo un “coordinamento” ed un “allineamento”

(Latour, 1992; Suchman, 2000) delle diverse relazioni spaziali e temporali con quelle

che accadono in altri luoghi e durante altri eventi. Il cellulare, dal quale M. non si

separa mai e utilizza costantemente, permette quel lavoro “a contatto di gomito”

(Hughes, 1958) eseguito spesso a distanza dal momento che il collaboratore di M. è

solitamente in ufficio e M. in cantiere.

Altro strumento di cui il capocantiere M. fa spesso uso è la fotocamera digitale

che gli permette di fotografare le diverse situazioni del cantiere come gli avanzamenti, i

problemi tecnici, ma anche le eventuali mancanze delle ditte che vi lavorano. In alcuni

casi, inoltre, le foto sono servite ai progettisti della CortemSpa per progettare, o

riprogettare, interventi resisi necessari in corso d’opera. È un modo per tutelarsi, ma

anche per aggiornare il diario dei lavori che ciascun capocantiere della CortemSpa deve

compilare sulla piattaforma aziendale (intranet): alcune delle foto scattate, infatti,

andranno a testimoniare lo stato d’avanzamento dei lavori curato da altri dipendenti

CortemSpa responsabili del sito dell’organizzazione. Anche il PC, quindi, è un “attrezzo

del mestiere” che permette ai capicantiere di tenere aggiornato lo stato dei lavori. Ciò

permette, inoltre, alle diverse direzioni dei cantieri di elaborare i resoconti sullo stato

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dei cantieri di cui sono responsabili e presentarli ai loro superiori (Datori di lavoro e

Amministratore delegato).

Infine, va ricordato che i capicantiere, come M., usano e consultano diversi

documenti, soprattutto i “disegni” (di cui ricevono copia che conservano in ufficio in

cantiere), ovvero i progetti del lavoro da svolgere, in cui sono riportate sia le misure, i

materiali, i posizionamenti degli interventi da eseguire per realizzare l’opera (tipo una

planimetria o piantina), sia le misure di sicurezza da adottare, ovvero: le segnaletiche

relative, per esempio, alle uscite di sicurezza, o ai dispositivi di protezione da indossare.

L’attività di M. e degli altri capicantiere16, infine, comporta la produzione di materiale

testuale per qualsiasi attività essi svolgano: verbali di riunioni; ordini di materiali o di

modifica delle lavorazioni; “rapportini” giornalieri dell’attività svolta (ai quali si

aggiungono quelli che ciascuna ditta deve scrivere quotidianamente); cedole di

pagamento per operai di alcune ditte.

4.1.3 Avviare l’attività di cantiere: accordarsi e gestire gli imprevisti

Abbiamo lasciato P. alle prese con qualche cittadino, ma subito dopo

rincontrerà M. per un nuovo confronto e per gli ultimi aggiornamenti sulle attività da

16

L’attività dei capicantiere, benché fisicamente limitata ai rispettivi cantieri, si svolge anche in un ufficio a loro assegnato nel “campo base” al quale ho avuto accesso per i contatti con l’RSPP e i collaboratori del Responsabile dei Lavori. Purtroppo, non ho potuto seguire M. nella conclusione della sua giornata, quando appunto fa “un salto in ufficio” (dove si ferma anche all’ora di pranzo, per controllare la posta elettronica, dal momento che nell’ufficio-container del cantiere non vi è la linea telefonica fissa). La risposta alla mia richiesta è stata “non c’è niente da vedere”. Permesso negato, ma alla domanda su “che tipo di rapporto hai con gli altri capicantiere, se c’è, se magari ci si confronta”, ha risposto che non si parla di lavoro, magari si scambia la chiacchiera, ma niente di più, cercando magari di sviare il mio interesse rispetto a quanto accade realmente. Questo a testimonianza del fatto che vi è un forte orientamento individualistico e competitivo, in cui ognuno cerca di essere al passo con i tempi di produzione e “primeggiare” in qualche modo senza rischiare “di prendere gli schiaffi”, usando un’espressione di M. riferita agli incontri con la direzione. La struttura divisionale dell’organizzazione (Cap. 3) incentiva alla produzione e, più sei in linea con il programma (che varia a volte anche su base settimanale), più “sei bravo”, senza tener conto, come ha spesso sostenuto M., delle difficoltà che i diversi cantieri hanno.

A quasi un anno dalla mia permanenza in cantiere, però, ho incontrato M. proprio in quell’ufficio, fatto di qualche scrivania e grandi finestre, molto spoglio. L’ho incontrato proprio lì, seduto alla sua scrivania, verso l’ora di pranzo, solitario e poco a suo agio, diverso da come lo è, invece, nel “suo cantiere”, quasi un pesce fuori d’acqua. Ciò lascia trasparire una certa confidenza che M. ha con il contesto cantiere, ambito in cui esercita anche un notevole potere nei confronti degli altri attori. Negli uffici, invece, indossa i panni del “dipendente”, ovvero prende corpo la presenza dei suoi superiori e ho avuto l’impressione che ciò comportasse un “cambio di registro” da parte sua, adeguandosi ad un ambiente di lavoro costruito e performato in maniera diversa da quello di cantiere, l’ufficio, appunto.

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svolgere nella giornata. C’è anche tempo, solitamente dopo le 8, 8.30 del mattino, per

una pausa colazione. Anche questa, però, è l’occasione per discutere di lavoro, per

tessere relazioni utili alla “convivenza” nel cantiere. È possibile, infatti, che alla

colazione prendano parte i capicantiere o i rappresentanti o i datori di lavoro di alcune

ditte.

Quello della colazione, ma soprattutto in generale la pausa al bar, rappresenta

un vero e proprio rituale (Trice, Beyer, 1995): dopo ogni incontro/riunione, dopo ogni

“ispezione esterna” del cantiere è molto probabile che i “padroni di casa”, ovvero

capocantiere e/o assistente, invitino i loro “ospiti” al bar. Quando l’occasione è colta

diventa momento, seppur breve, di distensione dei rapporti, su quanto ci si è detto

prima durante la riunione o l’ispezione, e si manifesta una certa “comunione d’intenti”

nel mettere in pratica quanto poco prima negoziato. Ognuno espone le proprie ragioni

in maniera più serena e libera, diversamente da quanto accade dinanzi agli operai in cui

si cerca di “rappresentare” una parte che sia credibile e coerente con il proprio ruolo,

mantenendo una certa “facciata” (Goffman, 1969).

In realtà, anche questo momento di pausa fa parte del processo di

negoziazione in cui, però, si dismettono i panni “ufficiali” e i ruoli che ciascuno ricopre

nelle proprie organizzazioni, soprattutto nei confronti del pubblico degli operai, e si

cerca di accordarsi “da uomini”, non da responsabili di questo o quel cantiere. Ad

emergere è una sorta di principio di ragionevolezza che lascia trasparire come gli attori

siano a conoscenza del fatto che non c’è solo il rispetto delle norme, ma esiste un

tessuto di pratiche che porta ad “adattare” la norma alla situazione in cui si applica.

Questo avviene, come si vedrà più avanti, anche e soprattutto in merito alla sicurezza

sul lavoro, dove per esempio, si riconosce che “i bravi ferraioli non usano mai i

guanti!”, non sarebbero “bravi” se lo facessero, perché questo impedirebbe loro di

“sentire” ciò che fanno mentre lavorano (§ 5.2.2).

Dopo la colazione, però, occorre riprendere il giro, ma a quest’ora è probabile

che le strade di M. e di P. si dividano, considerando che M. ha altre due zone di

cantiere di sua responsabilità insieme ad un altro assistente. Prima che M. attraversi un

grande incrocio che divide le due aree di cantiere (oltre alle quali ve ne è una terza

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distante ancora un po’ di metri), discute con P. sul da farsi, proprio “controllando” le

aree di lavorazione in corso, sempre dando un veloce sguardo per avere una visione

generale della situazione.

L’attività di controllo, infatti, è l’attività centrale del lavoro di M. e P. e consiste

nel “guardare” e “vedere” lo stato dei lavori, cosa si è fatto e cosa hanno iniziato a fare

gli operai. L’attività di controllo non prevede annotazioni scritte, ma tutto ciò che viene

osservato è “tenuto a mente” sia dal capocantiere che dall’assistente: uno sguardo

permette di raccogliere una grande quantità di indicazioni e suggerimenti che vengono

usate “come sfondo per gli altri tipi di azioni pratiche e situate (intervenire, negoziare,

conversare)” (Gherardi, Nicolini, 2001: 240). Questo, per esempio, è un elemento che

mi ha molto colpito: la capacità, cioè, di ricordare diverse situazioni, diverse persone,

diverse ditte e tutti i lavori fatti e da fare con le annesse criticità (cosa ancora non è

stato fatto, il tipo di materiale usato, gli strumenti ecc.), una mole di

informazioni/annotazioni che ricordano anche a distanza di almeno tre anni, da quando

cioè il cantiere è stato aperto nel 2007, e sulle quali si appoggiano le pratiche

quotidiane di gestione dello stesso.

Le attività iniziano ad aggiungersi man mano che passano le ore ed il ritmo di

lavoro s’intensifica. Può anche capitare che già dopo la sette del mattino ci siano più

cose da sbrigare, ma è probabile che intorno alle 9 si abbia l’impressione ‒ confermata

dall’assistente CortemSpa e vissuta anche da me ‒ di aver già vissuto una giornata

piena.

Le loro strade si dividono e allora occorrerà seguire i due personaggi

separatamente.

Il primo giorno in cui sono arrivata in cantiere per iniziare l’attività di

osservazione, il giro quotidiano di controllo è stato caratterizzato anche dalla

“presentazione” delle diverse aree e dal racconto delle principali attività che in cantiere

si svolgono (compresa la descrizione dei diversi macchinari presenti).

“Hai visto?! Qua è sempre così, tutte le mattine, questa è la prassi, poi ci

sono pure gli imprevisti, ma è sempre così, almeno la prima ora è così, oggi poi

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ci sono stati tre problemi da risolvere subito [ … ], stamattina è proprio iniziata

bene!” (M.)

Questo è quanto mi ha detto M. il giorno del “mio primo giro” di cantiere in cui

mi sono trovata alle prese con diversi “imprevisti”17 che hanno condizionato il corso

dell’intera giornata e sollecitato la richiesta di una nuova programmazione e

progettazione dei lavori18, a testimonianza di come le pratiche dei diversi uffici (tecnici

e di gestione dei cantieri in particolare) spesso siano svolte le une separate dalle altre,

in nome di quei principi di divisione del lavoro che vedono quest’ultimo solo come il

mero svolgimento di compiti individuali ed isolati, non considerandone invece la

dimensione collettiva.

A non essere “vista” in quest’ottica è la dimensione di coordinamento e

collaborazione che diversi “reparti” possono richiedere per evitare di avere dei

problemi. Proprio come nel caso della mancata rilevazione di un’intera camera oltre

una porta chiusa, oppure oltre una parete, per esempio, il lavoro “manuale” degli

operai evidenzia, nella pratica appunto, una “mancanza” nel lavoro “tecnico” dei

progettisti (ovvero nei loro disegni/progetti): a mancare è “qualcosa” ‒ un muro, un

tubo, un’area ‒ che nella realtà c’è ma non è stata “segnalata/riportata” nelle

precedenti attività di rilevazione svolte dall’ufficio tecnico dell’organizzazione o delle

17

Un esempio di imprevisto a cui ho assistito il primo giorno è rappresentato dal caso in cui non si riusciva a trovare una tubazione. Il progetto riportava delle “coordinate” ma, dopo aver scavato nel punto segnalato, la tubazione non è stata trovata e, dunque, questo ha richiesto una notevole attività di “interpretazione” del disegno, se ne è negoziata “la lettura” più appropriata. Lo stesso operaio che doveva scavare ha cercato di “interpretare” il progetto e di dare il suo contributo. Il capocantiere e l’assistente della CortemSpa, inoltre, hanno cercato di ipotizzare possibili soluzioni, prima di ritenere il disegno non corretto. Un contributo rilevante è stato apportato dal signor M. il quale “ricordava” con notevole certezza che quando i lavori hanno avuto inizio (circa due anni prima) la posizione del tubo era diversa da quella tracciata sul disegno che stavano consultando.

18 Un altro imprevisto ha riguardato una “mancanza” nel progetto: non era stata rilevata la

presenza di una struttura muraria (che sarebbe dovuta emergere dall’attività di rilevazione dei “patrimoniali di stato”, ovvero ricerche catastali sulle planimetrie degli immobili attigui alle zone di costruzione, che permettono la mappatura del territorio sul quale si sta costruendo l’opera di trasporto pubblico). Questo ha richiesto di segnalare la mancanza “all’ufficio progettazione” per richiedere di modificare il progetto a fronte delle nuove “scoperte”. Tutto questo, infine, richiede ulteriori studi, progetti, soldi da spende in aggiunta a quanto fatto prima ed un allungamento dei tempi di realizzazione dei lavori di quella porzione di opera del quale il cantiere fa parte e che può richiedere un’ulteriore intensificazione dei ritmi di lavoro.

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organizzazione dalle quali la stessa ha tratto le informazioni in merito all’edificio o alle

aree in cui sta costruendo (il catasto, per esempio).

L’episodio della mancata segnalazione sul progetto della presenza di una

struttura muraria richiama lo studio di Sennett (2008) sull’uso del sistema CAD

(Computer Assisted Design) adoperato dagli ingegneri ed architetti per realizzare

disegni tecnici di edifici ed oggetti vari19 e sulla storia dell’introduzione di disegni e

tavole contenenti indicazioni per la costruzione di un’opera. L’autore sottolinea come

ciò abbia “segnato una prima decisiva separazione tra la testa e la mano nel campo

della progettazione: l’idea di una cosa è già completa nella concezione prima di essere

costruita fisicamente” (48), ma questo non garantisce una “corrispondenza” nella

realtà concreta.

Tale “materialità”, invece, è posseduta dagli operai, i quali però non

intervengono nel processo di progettazione, evidenziando il risvolto sociale del

problema dell’abilità tecnica: la testa e la mano sono separati anche socialmente, oltre

che intellettualmente (Sennett, 2008).

Detto altrimenti, è il “sapere pratico” degli operai a mettere in evidenza la

divisione “operativa” delle diverse unità dell’organizzazione e la loro diversa “visione

professionale” (Goodwin, 2003). Quello degli operai ‒ ma anche dei capicantiere e

degli assistenti ‒ infatti, è un sapere pratico e situato, ancorato al contesto di lavoro e

questo permette loro di conoscere in maniera più diretta la realtà nella quale

quotidianamente lavorano, mettendo in rilievo la conoscenza spesso di tipo non

“contestuale” alla quale fanno riferimento, in questo caso, i progettisti.

Questi ultimi, infatti, ricavano le loro “informazioni” da altri documenti

depositati, per esempio, negli archivi del catasto, cosa che non garantisce la

corrispondenza tra i “disegni” e gli immobili registrati.

L’attività dei progettisti ‒ come emerge da uno studio condotto da Suchman

(2000) sulla realizzazione di un ponte ‒ richiede spesso una “ricostruzione” della realtà

19

L’autore mette in evidenza come la diffusione di un tale sistema ‒ di contro al disegno

“manuale” ‒ comporti diversi problemi, uno fra tutti la perdita dell’idea di materialità degli oggetti

disegnati. Il software, infatti, “non può rendere adeguatamente la grana dei diversi materiali né aiutate

nella scelta dei colori” (47).

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sulla quale verrà costruita l’opera attraverso riproduzioni, grafici, modelli (Suchman,

2000) che permettono di costituire un “campo fenomenico” integrato (Fele, 2002), ma

che può non scaturire dall’osservazione diretta del luogo in esame, comportando una

non corrispondenza tra progetto e realtà20.

Risolte o date le indicazioni in merito alla risoluzione degli imprevisti, M.

prosegue il suo giro, ha molte aree da “controllare”, molte indicazioni da dare,

telefonate da sostenere e molte persone da incontrare.

Anche P., relativamente alla sua area di responsabilità, inizia ad affrontare la

giornata fatta di alcune costanti: la compilazione di documenti21; i “giri” periodici per

avere il polso della situazione della sua area di cantiere; accompagnare le diverse figure

della sicurezza nei loro controlli del cantiere; accompagnare gli ingegneri che

controllano i materiali e la parte tecnica delle lavorazioni (stato d’avanzamento,

materiali, conformità e altro ancora e che fanno parte di Roma per il Trasporto

Pubblico). Queste le parole di P. a proposito dei suoi impegni:

“In cantiere c’è tanto da fare, quando mi siedo un attimo a sbrigare un

po’ di queste cose [riferito ai documenti che deve produrre] capita sempre che poi

mi chiamano e devo rimandare” (P.).

4.1.4 Gestire un cantiere: tessere relazioni

L’immagine del “tessuto” evidenzia una struttura di percorsi che portano sia

all’esterno dell’organizzazione che al suo interno (Strati, Gherardi, 1997; Strati, 2008).

20

L’attività dei progettisti non è stata oggetto di osservazione diretta. Quanto espresso è la ricostruzione dei malumori e dei punti di vista di chi lavora con i progetti che i progettisti producono e che, come mi è capitato di osservare, spesso contengono “errori” di misurazione e di progettazione, o ancora rappresentano misure o modalità di costruzione che secondo il capocantiere o l’assistente “non sono praticabili”, ovvero traducibili in pratica.

21 Come il FIR, che è il Formulario di Identificazione Rifiuti; il RIR, Rapporto di Ispezione e

Ricevimento, relativo a tutti i materiali che arrivano in cantiere e comprende anche i dati sulla conformità dei materiali stessi; RDA, che è la richiesta di acquisto del materiale di cantiere; RDM, che è la richiesta di modifica delle lavorazioni da eseguire rispetto al progetto, vale a dire che qualsiasi modifica del progetto deve essere prima richiesta con apposito modulo e solo dopo la sua eventuale approvazione può essere eseguita. Inoltre, sia l’assistente che il capocantiere devono redigere un “rapportino” giornaliero sulle attività svolte che andranno riportate nella piattaforma intra-net aziendale per testimoniare lo stato dei lavori di ciascun cantiere.

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A tal proposito, infatti, è possibile osservare come in un singolo corso di azione

organizzativa l’interno e l’esterno siano intrecciati tra loro e l’azione di un singolo

attore entri in connessione con innumerevoli altri attori, siano essi presenti sulla scena,

e dunque implicati direttamente, o soltanto evocati dall’azione che si sta snodando

nelle connessioni che vengono stabilite o che, al contrario, mancano di essere stabilite.

Una volta che il processo ha avuto luogo accade che le connessioni più durevoli

vengano stabilizzate in relazioni e pratiche locali, altre invece falliscano e non si

“alleino” con le prime (Gherardi, Nicolini, 2004). Ed è quanto accade durante tutta la

giornata del capocantiere che dedica gran parte della sua attività a tessere relazioni.

Il prosieguo della giornata di M., infatti, si caratterizza soprattutto per la

partecipazione a riunioni “a cielo aperto”22, ovvero in cantiere stesso, oppure in sedi

più o meno istituzionali, come la stessa organizzazione d’appartenenza, la sede dei

vigili urbani, un dipartimento del Comune di Roma. Lo stesso cantiere, infatti, è anche il

luogo in cui ci si dà appuntamento per discutere dell’avanzamento dei lavori, per

verificare eventuali criticità emerse, per valutare le soluzioni da adottare, o ancora per

accordarsi sugli sviluppi prossimi delle lavorazioni. È una pratica molto ricorrente, quasi

quotidiana, nella quale si avvicendano i responsabili delle ditte affidatarie o in

subappalto. È attraverso questi incontri, infatti, che il capocantiere svolge la sua attività

di mediazione e supporto ai lavori delle ditte.

Il capocantiere CortemSpa è responsabile di quanto accade in cantiere ed ha

delega in materia di sicurezza ed ambiente. Benché il suo compito sia quello di

“supervisionare” e coordinare l’attività svolta dalle ditte che hanno in affidamento (o

appalto e subappalto) le opere di costruzione ‒ senza entrare nel merito delle

lavorazioni stesse e delle modalità della loro realizzazione ‒ la sua esperienza,

competenza, personalità, danno origine ad una pratica alquanto personale. Spesso,

infatti, si è trovato a “dirigere” i lavori di alcune piccole ditte, dando l’impressione di

essere il capocantiere di quelle ditte. Bisogna ricordare, a tal proposito, che

22

La definizione mi sembra appropriata per descrivere alcune delle riunioni, a volte anche non programmate, alle quali ho preso parte e che si sono svolte in prossimità del cantiere, al di qua o al di là di uno dei portoni d’ingresso. Alcune volte, inoltre, le riunioni, specialmente quelle di “coordinamento” ‒ ovvero quelle sulla sicurezza di cui si dirà più avanti ‒ hanno avuto luogo nei container del capocantiere o dell’assistente.

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219

l’organizzazione in esame fa affidamento sulla conoscenza individuale “incorporata”

dei singoli attori chiave, ovvero dipende dal loro sapere esperto - come ricorda Blackler

(1995) nella sua tipologia23. Ed è il caso di M. il quale mette la sua esperienza al servizio

anche delle ditte che lavorano nel cantiere24.

Se da una parte, quindi, M. svolge funzioni vicarie di “figure” mancanti in

alcune ditte di medio-piccole dimensioni, dall’altra ha anche il compito di coordinare le

attività svolte nel “suo” cantiere. Molto spesso, infatti, ha incontrato gli agenti della

Polizia Municipale per discutere delle modifiche alla viabilità a seguito dei cambiamenti

di conformazione delle aree di cantiere. Infatti, man mano che i lavori procedono,

occorre “conquistare” porzioni di tratto stradale da sottrarre alla viabilità ordinaria e

questo richiede costanti e continui rapporti con i vigili, alcuni dei quali dimostrano di

avere un rapporto “ormai” amichevole e confidenziale con M. Questo gli permette, in

alcuni casi, di bypassare alcuni passaggi burocratici e di ottenere un alquanto repentino

intervento. Sono i “canali informali” di cui si avvale M. nel suo lavoro, conoscenze

personali che ha in diversi contesti di lavoro che gli permettono di “accelerare” i tempi

di realizzazione di un intervento e di “fidarsi” di chi dovrà farlo.

Un esempio tipico è rappresentato dai rapporti che ha con i responsabili di

alcune ditte di servizi pubblici (le utenze del gas, dell’acqua, della luce, della linea

telefonica per intenderci). I rapporti di amicizia che ha con alcuni di loro, infatti, gli

permettono di chiamarli al telefono e di ricevere prima una breve consulenza

telefonica, poi un appuntamento per un sopralluogo in cantiere. Anche il modo di

interloquire con loro è diverso da quello utilizzato con persone con cui intrattiene solo

rapporti “formali”: ci si chiama per nome, si esprime la necessità impellente di ricevere

23

Blackler (1995) individua quattro tipi di conoscenza:

la conoscenza “oggettivata” ‒ embedded ‒ ovvero radicata nelle regole, nelle procedure e, non ultimo, nelle tecnologie;

la conoscenza “incorporata” ‒ embodied ‒ ovvero insita nelle competenze e nelle abilità degli attori chiave;

la conoscenza “assimilata” ‒ encultured ‒ ovvero prodotta dai processi sociali di interpretazione e produzione di senso, di valori, di credenze e di storie a loro volta conservati e trasmessi ai nuovi membri;

la conoscenza “mentalizzata” ‒ embrained ‒ ovvero una conoscenza di tipo concettuale e cognitivo. 24

Come si vedrà nel corso del capitolo, infatti, gli interventi e le modalità di lavoro di M. hanno permesso ad una ditta medio-piccola di apprendere nuove pratiche di lavoro, ovvero modalità di lavoro orientate ad una maggior sicurezza.

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220

attenzione, si sollecita un intervento “perché così non posso stare, bisogna farlo

subito!”. I problemi che solitamente nascono con le ditte dei servizi sono legati ai tempi

lunghi d’intervento e alle modalità stesse di svolgere il lavoro.

Non sempre i rapporti sono distesi, soprattutto quando si ha a che fare con

ditte in subappalto che, a detta di M., hanno “un altro modo di lavorare”,

sottolineando una diversità nei “modi di lavorare” che, secondo l’esperienza ed il

punto di vista del capocantiere della CortemSpa, porta a distinguere una dimensione

estetica (Strati, 2000) del lavoro: vi è un lavoro “ben fatto” e uno “fatto male” (§ 5.2.2).

Il difficile rapporto con le ditte “esterne” all’organizzazione, che svolgono cioè

lavori di manutenzione delle utenze pubbliche, emerge per esempio dagli stralci in cui il

capocantiere o l’assistente di cantiere della CortemSpa sottolineano come il “modo di

lavorare” di queste ditte minacci l’immagine della stessa CortemSpa:

“Vengono quando dicono loro, fanno il lavoro e poi non lo completano

mai. Li abbiamo chiamati tante volte [riferito ad una società dei servizi], ma non

sono ancora venuti. Il problema è che la gente poi se la prende con noi, chiede a

noi di risolvere il problema, ma non spetta a noi, non è compito nostro e

nemmeno responsabilità. Poi adesso abbiamo anche fatto la riunione di

coordinamento [tra le ditte che devono lavorare nella stessa area], tocca a loro, ma

noi abbiamo l’immagine!” (P.).

“Se li chiami non vengono subito … quando hanno finito, dovrebbero

anche sistemare l’area .. non lo fanno mai! E la gente poi chiama noi per i disagi,

per buche aperte o non sistemate bene” (P.).

In questi casi, però, tutto è dettato dall’urgenza, dalla necessità di non

intaccare o rallentare la “produzione”, si avverte la sensazione di essere in un vortice in

cui, se non sei tu a girare più forte, allora sarai inghiottito senza speranza alcuna di

cavartela25. Quella stessa urgenza che porta M. a cambiare umore, ad essere

25

Ed è, purtroppo, la stessa logica che spesso richiede pratiche lavorative non sicure, come si vedrà oltre.

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corrucciato e pensieroso, a scherzare di meno e ad impartire ordini a chiunque, anche a

chi non è sotto la sua diretta responsabilità.

Nel corso della giornata si verificano molti imprevisti, anche se la maggior parte

di essi hanno sempre a che fare con la natura del lavoro, sono anch’essi “situati”

(Conein, Jacopin, 1994) entro un contesto ben più comprensivo qual è quello delle

costruzioni di opere civili che richiede che si facciano i conti anche con altri attori e le

loro pratiche che non necessariamente hanno le stesse priorità dell’organizzazione

CortemSpa (come il caso della ditte di utenze ha evidenziato).

Nel caso di “intoppi” provenienti dall’attività di scavo, quali per esempio i

ritrovamenti archeologici o di sotto-servizi26, questo richiede che l’organizzazione si

fermi e consegni “l’area” a chi di competenza: nel primo caso alla Sovrintendenza ai

Beni Culturali, nel secondo caso alle ditte che gestiscono i sotto-servizi ritrovati. Benché

entrambe le attività siano state previste e, dunque, rappresentino attori riconosciuti

(tramite collaborazioni ufficiali27, come nel caso dell’archeologia) del campo

organizzativo (Powell e DiMaggio, 2000) entro il quale la CortemSpa opera, nella

pratica del cantiere, spesso, la loro attività non è ben considerata. Esemplare il caso

delle ricerche archeologiche ‒ preliminari all’attività di scavo e di costruzione previste

da progetto ‒ che sono accompagnate da mal celati “rumori” circa la compatibilità

delle logiche che ne guidano la realizzazione. La logica “senza tempo” delle une che si

scontra con la logica del “tempo è denaro” degli altri28.

Altri imprevisti hanno a che vedere con le autorizzazioni per la deviazione della

viabilità; con i tempi di approvazione delle richieste di modifica di alcune parti del

progetto esecutivo; con progetti che si rivelano poco accurati e che, a seguito di quanto

26

Con il termine “sotto-servizi” o più comunemente “servizi” (anche al singolare) si fa riferimento alle utenze di acqua, luce, gas, telefonia, linee tranviarie in disuso, ovvero i collegamenti sotterranei cittadini delle diverse reti di utenza. Il termine servizi, quindi, non ha nulla a che vedere con il settore terziario dei servizi, quanto alla distribuzione “fisica” sul territorio, anzi sotto di esso, delle utenze delle diverse società fornitrici.

27 Va ricordato, a tal proposito, che l’ufficialità degli accordi e collaborazioni con alcune istituzioni

e/o organizzazioni è richiesta “per legge”, ovvero vi sono dei vincoli normativi ai quali anche la CortemSpa deve sottostare. Siamo nel caso di un’opera pubblica, soggetta quindi a vincoli di legge non irrilevanti, soprattutto se si considera il territorio della Capitale, ricco com’è di resti archeologici (si veda il Capitolo 3).

28 Per una seppur parziale analisi dell’interazione in questione si rimanda al Capitolo 2, dove si

cerca di mettere in evidenza anche una dimensione di genere delle due attività (§ 2.5.3).

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emerge dai lavori di scavo, richiedono di essere interamente rivisti; con il disbrigo di

pratiche legate allo smaltimento del materiale di scavo o autorizzazioni e conformità

(sebbene, per un cantiere, queste siano attività di routine), ed altro ancora.

Il caso delle autorizzazioni e della compilazione del materiale è esemplare per

quanto riguarda le difficoltà comportate dalla richiesta di “rendicontare” gran parte

dell’attività di cantiere (smaltimento del materiale di scavo; rilascio delle autorizzazioni

e delle conformità dei materiali, per esempio) che va conciliata con l’attività di

controllo dei cantieri. È la “logica pratica” (Garfinkel, 1967), l’esperienza, “la pratica”

quotidiana a sostituirsi spesso alle procedure, evidenziando ancora una volta come

diverse siano le “logiche” alla base dei diversi gruppi professionali (amministrazione,

qualità e ambiente da un lato; capicantiere e assistenti dall’altro). Lo stesso discorso

vale nel caso della compilazione puntuale dei formulari per lo smaltimento di rifiuti.

L’assistente ha spesso lamentato l’incongruenza tra la compilazione della

documentazione relativa ai rifiuti e quella di “controllo” del cantiere. Il compilare i

formulari, ed altri documenti quotidiani ‒ in formato cartaceo, in diverse copie e con

diversi codici e timbri da apporre in originale su ciascun foglio (attività per la quale ha

anche seguito dei corsi di formazione) ‒ sottrae tempo alla gestione del cantiere e, di

conseguenza, anche ai controlli sulla sicurezza che l’assistente, accanto al capocantiere,

hanno funzione di svolgere. Si contesta, dunque, un eccesso di burocratizzazione

dell’attività considerata, appunto, eminentemente “pratica”.

La tipologia delle problematiche che hanno interessato il cantiere nel periodo

della mia permanenza, e presumibilmente anche dopo, sono tali e tante che la

responsabilità di cui è investito M. è davvero gravosa. Il cantiere, come si vede, non ha

solo i problemi legati alla “produzione”, ovvero alle lavorazioni, ma ha ulteriori

difficoltà rispetto ad altri cantieri che appartengono alla stessa tipologia ‒ che, lo si

ricorda, si basa sulle fasi di lavorazione (Cap. 3) ‒ e che riguardano il suo essere

immerso in una zona di notevole densità abitativa, con tutto ciò che questo comporta,

come la gestione della viabilità, prima ricordata, o dei residenti scontenti.

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4.1.5 L’assistente di cantiere: il “contatto” con gli operai

Raggiungiamo P. dall’altra parte del cantiere, tra i suoi documenti, la gestione

dell’area, degli autotrasportatori che ogni giorno “portano via” il materiale degli scavi e

quelli che “portano dentro” il materiale, soprattutto le enormi gabbie di ferro per la

costruzione dei diaframmi (Cap. 3). Anche lui ha il suo bel da fare, specialmente nella

gestione, anche in questo caso “impropria”29, di alcuni operai di qualche ditta. Spesso,

infatti, l’assistente della CortemSpa concorda direttamente con gli operai i lavori da

svolgere durante la giornata, o chiede loro di dargli informazioni sulle modalità seguite

nella realizzazione di una data opera.

Anche P. ricorre spesso alle sue competenze e conoscenze per svolgere la sua

attività di coordinamento e supervisione. Conosce, per esempio, le aree di “debolezza”

del suo cantiere, quelle cioè che vanno “tenute sott’occhio” e quelle che possono

essere “guardate a distanza”, evidenziando come abbia affinato quello “sguardo

professionale” (Goodwin, 2003) che permette di conoscere e capire a colpo d’occhio lo

“stile lavorativo” di ciascuna delle ditte che opera nel cantiere. Questo, inoltre, gli dà

modo di organizzare meglio la propria attività lavorativa quotidiana, senza per questo

venir meno alle sue responsabilità.

“Lì è tranquillo, è una catena di montaggio, lì stanno scavando, stanno

facendo i diaframmi, ma è una catena di montaggio, vanno da soli, non ci sono

problemi!” (P.)

In questo caso, l’idea di catena di montaggio è richiamata come immagine per

descrivere un tipo di lavorazione in cui tutto è “sotto controllo” e “prevedibile”, in

un’accezione taylorista di calcolabilità delle singole operazioni. In effetti, quello che è

emerso dal periodo di permanenza sul campo (di circa tre mesi) è che l’impresa svolge

29

Il carattere “improprio” della gestione di alcune attività nasce dal fatto che, da contratto, le singole ditte sono responsabili del lavoro che svolgono e lo svolgono in autonomia. In questo caso, però, sia le caratteristiche personali dei personaggi osservati (capocantiere ed assistente della CortemSpa), sia la particolarità del cantiere (sito in una zona centrale della città), hanno dato una forma diversa alle modalità di pratica, legandole al contesto e alle sue caratteristiche, che spesso si discostano da quanto stabilito “da contratto” (ulteriore esempio di traduzione/tradimento di norme e/o clausole stabilite a priori e distanti, nel tempo e nello spazio, dal luogo di concreta attuazione).

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224

l’attività avendo alle spalle esperienza e competenza sul quel tipo di lavorazione, le

quali si riflettono nelle pratiche di lavoro in contesti complessi come quello del cantiere

in esame. Questo emerge soprattutto in confronto alle pratiche svolte dagli operai di

un’altra ditta, di dimensioni più piccole, ma che grazie all’appalto vinto (contribuire alla

costruzione dell’opera di trasporto pubblico urbano) ha avuto l’opportunità di crescere,

sia dal punto di vista delle dimensioni che delle competenze30.

Inoltre, una delle attività quotidiane di P. è quella di accompagnare i diversi

personaggi che si avvicendano, e spesso si sovrappongono, nei loro giri di controllo del

cantiere. C’è chi fa parte di Roma per il Trasporto Pubblico e controlla le lavorazioni e i

materiali; chi fa parte della CortemSpa e svolge sostanzialmente lo stesso lavoro del

collega esterno che si occupa del controllo delle lavorazioni e dei materiali; chi svolge a

vario titolo controlli in merito alla sicurezza sul lavoro.

È la figura di un moderno Virgilio dantesco che nell’accompagnare i visitatori

svolge una funzione “illustrativa” e, spesso, di “filtro” rispetto a ciò che si vede (§

4.2.3.5); attività che viene svolta anche da, e a volte insieme a, M.

Gli “attrezzi da lavoro” di P. sono simili a quelli di M., fatta eccezione per la

macchina fotografica, usata solo su richiesta di M. Il cellulare è usato da P. in maniera

differente, meno intensa, ma è comunque cruciale anche nella sua attività, soprattutto

per tenersi in comunicazione con il suo collega capocantiere, con gli altri assistenti di

cantiere che, per esempio, lo informano (o è lui ad informare loro) dell’arrivo dei

personaggi che svolgono i controlli sulla sicurezza.

4.1.6 Gli operai ed il cantiere

La giornata prosegue così, tra alti e bassi, tra urgenze e routine, tra controlli e

discussioni, tra carte e telefonate, almeno per quanto riguarda il capocantiere e

l’assistente della CortemSpa.

30

È come se l’intera ditta, compreso uno dei proprietari che mi è capitato di incontrare sul campo, fosse un “novizio”, ovvero una persona che è entrata in un grande gioco in cui molti partecipanti sono dei professionisti esperti. Il novizio, in questo caso, si “atteggia” da professionista in quanto prende parte al gioco, ma si lascia guidare (ed ha bisogno di essere guidato) da alcuni esperti che si prendono carico di “insegnarli” un modo diverso di lavorare, consono alle regole del gioco dell’intera partita (come fanno M. e P.).

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225

L’attività di shadowing, che mi ha permesso di osservare tutto ciò che fin qui

ho raccontato circa l’organizzazione di una giornata di cantiere, mi ha anche permesso

di intravedere “in controluce” alcune attività degli operai e parte della loro giornata

lavorativa. Un’osservazione mediata dalla presenza e dalla “figura” del capocantiere in

alcuni casi, e dell’assistente in altri, che però ha offerto interessanti spunti di riflessione

e di analisi che saranno delineati nel corso del capitolo.

Nel seguire i miei attori e nel tracciare i lineamenti di una giornata tipo della

vita di cantiere, infatti, non ho omesso di parlare degli operai, solo sono rimasti un

passo indietro al capocantiere e all’assistente CortemSpa. Come del resto nel corso

dell’osservazione sul campo, dal momento che non è stato possibile osservarli

“direttamente”, affiancandoli durante il loro lavoro, ma solo durante l’interazione con

il capocantiere e l’assistente della CortemSpa e le figure della sicurezza.

La loro presenza è tautologicamente “viva” nel cantiere, non ci sarebbe alcun

cantiere senza gli operai che quotidianamente si recano in quel luogo e svolgono

questo lavoro con fatica e sacrificio.

Nelle prime ore del mattino abbiamo visto che attraversano le diverse aree del

cantiere per prendere i propri attrezzi, per parlare con i propri responsabili sul da farsi,

scherzano tra loro e con gli stessi responsabili. Alcuni di loro sono accomunati ai propri

capi dalla passione per la caccia e mi è capitato spesso di assistere a conversazioni in

cui si parlava della scelta dell’abbigliamento adatto, della possibilità di ottenere la

licenza per il suo esercizio o racconti di battute (di caccia) realizzate.

Lungo la giornata, quando hanno guadagnato la propria “postazione”, si

vedono meno nelle aree del cantiere, come per esempio quella dei container-ufficio

dove passano per attraversare il cantiere da una parte all’altra, portando con sé degli

attrezzi o del materiale utile per continuare l’attività in cui sono impegnati. Solitamente

questi operai sono i “tuttofare” o coloro che non avendo un “mestiere”, sono in attesa

che qualcuno faccia fare loro qualcosa.

La figura degli operai, però, sarà delineata con una maggior accuratezza, ma

senza esaustività, durante la descrizione dei giri di controllo svolti dal capocantiere e

dall’assistente della CortemSpa, che ho seguito direttamente attraverso la tecnica dello

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shadowing. In queste situazioni, infatti, li si incontrerà spesso anche perché tale attività

di controllo è orientata proprio alla verifica delle modalità di svolgimento dell’attività

lavorativa degli operai.

Il paragrafo si è aperto con l’arrivo degli operai in cantiere alle prime ore

dell’alba, intorno alle 7, e si chiude con la loro uscita, quella per la pausa pranzo, alle 12

in punto.

Il silenzio, infatti, s’impadronisce del cantiere intorno a mezzogiorno. È una

sensazione che ho imparato a ri-conoscere solo dopo pochi giorni dall’aver preso parte

alla vita di cantiere con una certa regolarità (dalle 7 del mattino sino alle 13.30 circa),

cosa che mi ha permesso di avvertire quel silenzio che all’improvviso sopraggiungeva

sempre alla stessa ora. Alle 12 di tutti i giorni. Gli operai lasciano ogni cosa e si mettono

in pausa pranzo fino alle 13. Il cantiere assume un’altra faccia, è tutto tranquillo, il

rumore sembra non esserci più, diventa deserto, privo di vita. P. mi confida che “guai a

toccargli la pausa pranzo”, è un rituale (e un’esigenza) alla quale non rinunciano.

M. e P. solitamente pranzano dopo le 13, cercando di darsi il cambio, anche

con l’altro assistente (P.j.), per non lasciare il cantiere scoperto. Alle 13 tutto riprende

lentamente, con la fatica che già si fa sentire nelle gambe, nelle braccia, in tutto il

corpo, fiaccato anche dall’eccessivo caldo o dal disagio della pioggia e del freddo.

Il racconto sin qui ricostruito ha permesso di tratteggiare il contesto in cui

ritroveremo gli attori ‒ i “padroni di casa” e gli operai ‒ che abitano il cantiere

quotidianamente; ma anche alcuni attori non-umani (attrezzi del mestiere, artefatti

testuali, Dpi) che insieme ai primi definiscono quello spazio e mediano le pratiche

lavorative quotidiane che in esso, e grazie ad esso, prendono forma e di cui si parlerà

nei paragrafi che seguono. L’intento è stato quello di sottolineare la dimensione

“ecologica” che permette di concentrarsi sull’attività del lavoro inteso come prodotto

delle relazioni, appunto, tra attori sociali e materiali.

È il momento, quindi, di analizzare come ciò avvenga e che tipo di relazione

leghi gli attori (e i loro strumenti) con la sicurezza e, soprattutto, provare a dare una

chiave di lettura al come si fa sicurezza in cantiere.

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4.2 La sicurezza in costruzione: pratiche di controllo e mediazione

Il termine costruzione ha, in questa ricerca, una duplice accezione: da un lato

indica il settore economico-produttivo quale contesto più generale entro il quale si è

svolta la ricerca il cui oggetto sono le pratiche della sicurezza in cantiere; dall’altro,

mette in evidenza la sua natura processuale ‒ le modalità dell’ordinare (modes of

ordering) come le definisce John Law (1994) ‒ ovvero il processo di costruzione nella

pratica della stessa.

L’etnografia e l’attività di shadowing hanno permesso di raccogliere, come

esposto nel capitolo metodologico (Cap. 2), diverse note di campo la cui analisi ha fatto

emergere la pratica di controllo e di mediazione della sicurezza svolta da diversi attori

dell’action-net locale, espressione di una visione normativa della sicurezza, basata sul

rispetto delle norme e sulla sanzione di “situazioni” non a norma.

Nel contesto di cantiere, dunque, rispetto alla questione sicurezza, sono le

norme a catalizzare l’attenzione degli attori che si occupano di gestire un cantiere,

capocantiere ed assistenti, o di coloro che svolgono un’attività prettamente di

controllo della normativa in materia, come gli Ispettori del Lavoro e i Tecnici delle Asl.

Ad emergere come rilevante circa le norme è quanto sostenuto per esempio

dalla corrente del neo-istituzionalismo (March, Olsen, 1989) a proposito della

incompletezza delle regole: il campo di applicazione di una regola è sempre costituito

da un numero di situazioni diverse che non può essere definito a priori e questo

comporta che nelle regole sia sempre presente un margine di ambiguità e di

specificazione imperfetta. Di conseguenza, è proprio l’attività di interpretazione e di

negoziazione della regola che diviene interessante per comprendere quali regole siano

espresse e sostenute nelle pratiche (Bruni, Gherardi, 2007).

Come afferma Zucker (1977) per conoscere come l’ordine sociale si trasmetta

nella vita quotidiana, occorre “mettersi dal punto di vista dei soggetti ed esaminare le

circostanze, gli atti discorsivi, i contesti quotidiani in cui le regole vengono percepite e

trasmesse” (in Bonazzi, 2008: 476).

Infine, “anche se le regole producono ordine, * … + vi sono insiemi di regole

potenzialmente ricchi di conflitti, contraddizioni e ambiguità, e che quindi danno luogo

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a conformità e nello stesso tempo a deviazioni, producono standardizzazione e

contemporaneamente variabilità” (March, Olsen, 1989, trad. it. 2000: 70).

È la “interpretabilità” e “negoziabilità” della norma dunque a caratterizzare

l’attività di controllo e mediazione osservata durante la permanenza nei cantieri della

CortemSpa ed il processo attraverso il quale essa è tradotta in pratica.

Una volta individuata la centralità di tale attività è stato anche possibile

“leggere” i diversi meccanismi che attorno ad essa hanno luogo nei cantieri e che

rappresentano due ulteriori macro-tematiche che fanno capo al “rispetto della

normativa” da un lato; e al “non rispetto della normativa”, dall’altro e che saranno

affrontate nel prossimo capitolo (Cap. 5).

Prima di dar conto delle articolazioni delle due macro-tematiche, occorre

soffermarsi sulla pratica del controllo e sui diversi meccanismi ad essa collegati.

La domanda alla base di tale analisi è la seguente: come viene tradotta ‒ ma

anche tradita ‒ la normativa sulla sicurezza nella pratica quotidiana? E prima ancora,

cosa intendiamo, in sintesi, con il concetto di pratica?

Parlare di pratica significa parlare del “fare” realizzato da attori umani e non

umani (Latour, 1993) che insieme danno luogo al “lavorare”. Mette in luce, dunque,

l’importanza di “culture materiali” (Strati, 2008), in cui emerge la relazione con gli

artefatti: “il mondo materiale ci interpella, ci suggerisce di fare e di non fare (sino ad

impedire l’azione) e noi umani rispondiamo ad esso, con esso, e per mezzo di esso ci

mettiamo in relazione” (Bruni, Gherardi, 2007: 16).

Le pratiche sono anche costituite dall’integrarsi di attività e di operazioni

all’interno di modalità riconosciute, e socialmente sostenute, di fare certe cose in un

certo modo (Gherardi, 2006). Una pratica lavorativa, dunque, rappresenta un modello

di attività istituzionalizzato, ma non è una routine (l’insieme programmato di compiti),

ed implica “una rete di connessione di azioni, un network di relazioni (tra cose e

persone)” (Bruni, Gherardi, 2007: 16) che avrà effetti e conseguenze proprie. Emerge,

inoltre, il carattere “situato” (Corbin, Jacopin, 1994) della pratica che viene sostenuto

dalla sua comunità di praticanti ai cui membri è riconosciuta una identità, un’autorità

legittima di fare e di selezionare quale delle pratiche sia da considerarsi migliore,

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perseguibile e quale invece debba essere abbandonata. È il “senso condiviso”, tacito

(Polanyi, 1990) e il suo carattere di “modalità abituale” a rendere una pratica una

“modalità” appunto del fare lavorativo (Bruni, Gherardi, 2007).

Tali caratteristiche riguardano anche la pratica del controllo della sicurezza e,

dunque, le modalità di controllo e mediazione, come il prosieguo della storia mette in

evidenza.

4.2.1 Uno, nessuno, centomila … controlli in cantiere

Il titolo di questo paragrafo è ripreso dalla celebre metafora pirandelliana ‒

relativa alle sfaccettature della personalità dei personaggi, l’essere, appunto, uno,

nessuno, centomila ‒ e “adattata” alle dinamiche di negoziazione che tessono la rete

interorganizzativa della sicurezza in un cantiere edile. L’attività di controllo, infatti,

rappresenta la principale attività attraverso la quale i diversi discorsi sulla sicurezza, e i

propri intermediari, costituiscono in pratica l’action-net della sicurezza dei cantieri edili

osservati.

I diversi discorsi ‒ normativo, tecnico, educativo, economico ‒ sostengono,

traslano e si sforzano di costituire, ma anche di condizionare, le pratiche di lavoro già

esistenti (Nicolini, 2001). È la dinamica che s’instaura tra i diversi discorsi, e i rispettivi

intermediari, a costituire la sicurezza. Essa, dunque, non è la somma delle diversi parti

in relazione, bensì il risultato di un processo che si ri-definisce quotidianamente, dando

luogo a quell’ordine negoziato di cui parla Strauss (1978).

Uno, nessuno e centomila rappresenta, inoltre, la realtà dei cantieri osservati in

cui, infatti, può aver luogo un solo tipo di controllo, nessun controllo (molto di rado

nella dimensione quantitativa, ma piuttosto dal punto di vista sostanziale, può

accadere di “chiudere un occhio”) ed anche diversi controlli (inteso nel senso

numerico).

La prima impressione che ho avuto dopo qualche giorno di cantiere è stata una

sorta di smentita del trend relativo alla scarsità31 dei controlli nei cantieri edili e ho

31

L’ultima manovra finanziaria varata prima dell’estate 2010, per esempio, ha ridotto del 50% la spesa degli Ispettori e ha tagliato le automobili di servizio con cui gli stessi svolgono la propria attività di

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sentito affermare spesso dai diversi attori dei cantieri visitati frasi del tipo: “qui si

controlla!”32. Infatti, l’attività di controllo è risultata essere piuttosto centrale tra le

diverse attività di cantiere accanto a quelle di produzione.

Prima di osservare da vicino cosa accade durante un “giro” di cantiere, si

ricorderanno brevemente le tipologie di controllo osservato in pratica e le attività

principali che lo caratterizzano (§ 3.4.2).

Una prima distinzione da fare su questa attività la si può rintracciare lungo la

dimensione interno/esterno. Infatti, accanto ai controlli “ufficiali/istituzionali”, e per

questo esterni, dell’Ispettorato del Lavoro del Ministero del Lavoro e dei tecnici della

prevenzione delle Asl, vi sono quelli più “informali/organizzativi”, e per questo interni,

svolti dalle “figure della sicurezza” appartenenti all’organizzazione CortemSpa

(Responsabile dei Lavori, Coordinatore per la Sicurezza, RSPP, capicantiere, assistenti,

previsti per legge)33. Tra i due livelli, però, si collocano due altri soggetti che svolgono

una funzione di controllo più o meno formale: il CTP (Comitato Paritetico Territoriale),

con il quale l’organizzazione ha stipulato un accordo sia per le attività di

formazione/informazione che per quelle, appunto, di vigilanza; la Sorveglianza di Roma

per il Trasporto Pubblico, ovvero l’ente che ha affidato la realizzazione dell’opera alla

CortemSpa (Cap. 3) e che, quindi, ne supervisiona l’operato34.

controllo in giro per i diversi cantieri (tratto da un articolo di Bianca Di Giovanni pubblicato l’11 settembre 2010 su www.unità.it).

32 Entro una visione normativa-repressiva della sicurezza, infatti, la funzione di controllo è di

basilare importanza per conseguire il rispetto delle norme di sicurezza e, di conseguenza, avere un luogo di lavoro più sicuro. C’è anche da dire che spesso la dotazione organica dei tecnici delle Asl addetti alla sicurezza e degli Ispettori del Lavoro in servizio sul territorio, rispetto al numero dei cantieri da controllare, è alquanto esiguo, o addirittura sottorappresentato rispetto alle necessità (Fonte CTP Lazio).

33 Accanto alle figure dell’organizzazione e delle ditte, vanno ricordati anche i Responsabili dei

Lavoratori per la sicurezza (RLS), i quali, benché non abbiano una funzione di controllo vero e proprio come qui lo si intende, sono comunque i referenti in cantiere per la sicurezza, ovvero possono a loro volta “controllare” che, per esempio, i diritti dei lavoratori in materia di sicurezza siano rispettati dai datori di lavoro delle ditte a cui i diversi operai appartengono. Con loro l’organizzazione svolge periodici incontri per dirimere eventuali controversie, come quelle relative ai benefit da riconoscere ai lavoratori: la mensa, gli spogliatoi, i dormitori, i rimborsi per le spese di viaggio per raggiungere i cantieri dalle diverse parti d’Italia, ma anche dall’Europa (Germania e Austria, per esempio).

34 L’osservazione sul campo si è concentrata sull’organizzazione e sulle relazioni che i responsabili

di cantiere della CortemSpa intrattengono con le figure della sicurezza (sia interne che esterne), ma va ribadito che ciascuna delle ditte che lavora nei cantieri per la costruzione dell’opera ha anch’essa le figure richiamate poco sopra. Dipende dalle dimensioni dell’impresa, ma sicuramente vi è un capocantiere e l’RSPP. Va da sé che i controlli a cui è soggetta la CortemSpa valgono e si esplicano di conseguenza anche sulle ditte che vi lavorano.

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A ciascun tipo di controllo, e nell’interazione tra i due gruppi di controllori

(interni ed esterni), corrispondono nella pratica due tipi principali di strategia o

“risposta” da parte degli “abitanti del cantiere”. Sono processi che danno luogo

all’action-net locale della sicurezza, ovvero alla “rete della sicurezza” in cantiere.

Le due strategie principali, che saranno affrontate nei prossimi paragrafi e che

sono relative all’attività di controllo sono: l’arte della negoziazione (§ 4.2.3) e la messa

in scena come fermo delle attività o come “parata” (§ 4.2.4).

Prima però, occorre dare alcune “indicazioni” in merito ai contributi che mi

hanno permesso di osservare e concettualizzare l’attività di controllo come pratica

situata.

4.2.2 L’attività di controllo come pratica situata

La centralità dell’attività di controllo a garanzia di una corretta applicazione

delle norme che porti al conseguimento della sicurezza sul lavoro, in una accezione

razionale e lineare di causa-effetto, ha in qualche modo “condizionato” la mia

possibilità di osservare “gli operai al lavoro”, catalizzando (ma anche costringendo) su

di loro la mia presenza in cantiere e lo sviluppo della ricerca.

Se l’osservazione della pratica di controllo ha finito con il costituire il fulcro e

l’oggetto della presente tesi, va allora esplicitata la sua natura situata, relazionale e

negoziata.

Una prima evidenza, infatti, è data proprio dalla diversità delle pratiche di

controllo che hanno avuto luogo nei cantieri della CortemSpa e, nello stesso tempo,

dalla varietà di “risposte” che a tali attività gli operai hanno riservato.

Focalizzare l’attenzione sullo studio delle pratiche di lavoro, anche al fine di

indagare la sicurezza sul lavoro, ha permesso di riconoscere una “ripetizione

quotidiana” delle pratiche di controllo, ripetizione in cui ha luogo un’innovazione

costante della pratica stessa per modificazioni che si susseguono nel tempo (Bruni,

Gherardi, 2007) e che si performano (Garfinkel, 1967) nel corso delle interazioni con i

diversi attori che prendono parte alla pratica, anche indirettamente e compresi gli

artefatti che nell’interazione intervengono, spesso mediando la relazione in gioco.

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Il cantiere, dunque, non è qui considerato come un freddo contenitore in cui si

svolgono le attività di controllo sulla sicurezza. Al contrario, esso rappresenta una

risorsa per l’azione, in quanto “ecologia locale” (Star, Griesemer, 1989) in cui le azioni

hanno luogo.

L’importanza del contesto è sottolineata anche in ambito antropologico dai

contributi di Hutchins (1994), Lave (1988) e della stessa Suchman (1987). Questi autori,

infatti, hanno messo in evidenza la centralità dello spazio e degli oggetti nell’azione e

nelle attività di cognizione. L’orientamento delle loro ricerche, inoltre, ha inteso

ricostruire il processo di strutturazione delle “ecologie locali”, ovvero l’ambiente locale,

situato, in cui l’azione ha luogo e che è costituito tanto da fattori materiali e fisici,

quanto da fattori relazionali e sociali (come ricorda il concetto di cognizione situata,

distribuita di Hutchins, 1994).

È proprio Jean Lave (1988) a nutrire una certa insoddisfazione per la definizione

del processo cognitivo in termini mentalistici. Per Lave, infatti, la cognizione è, in realtà,

un complesso fenomeno sociale che si distribuisce tra la mente, il corpo e le “attività in

setting culturalmente organizzati che includono altri attori” (Lave, 1988: 1). Ad

emergere, dunque, è il carattere distribuito della cognizione (Hutchins, 1994):

distribuito non solo tra gli individui, ma anche tra gli artefatti presenti sulla scena

dell’interazione e in cui si svolgono le quotidiane pratiche lavorative. Anche la

cognizione distribuita ha un carattere “situato” e questo perché essa ha luogo in un

ambiente contenente numerose risorse; essa, inoltre, acquista forma all’interno di un

sistema di interazioni multiple tra componenti di diversa natura, un’ecologia35, appunto

(Hutchins, 1994).

Ritornando alla quotidianità delle attività di cantiere, come la ricostruzione di

una giornata “tipo” mette in evidenza (§ 4.1), la prima azione di controllo è svolta dai

capicantiere e dagli assistenti della CortemSpa del relativo cantiere. Dopo aver

impartito le istruzioni di lavoro per la giornata ai rispettivi capicantiere delle ditte che

lavorano in cantiere (come avviene nella maggior parte dei cantieri che ho visitato),

35

In merito alla “conoscenza distribuita” vi è un interessante confronto tratteggiato da Gherardi (2006), alla quale si rimanda, circa il contributo di Gibson (1982), Hutchins (1995), Cicourel (1994).

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capicantiere e assistente CortemSpa eseguono il loro primo “giro” di controllo e da

questo momento in poi la giornata prende “ufficialmente” il via.

La metafora drammaturgica-teatrale adoperata da Goffman (1969, ed. or.

1959) per descrivere la “vita quotidiana come rappresentazione”, è apparsa adatta a

descrivere la vita di cantiere, le vicende e, soprattutto, le dinamiche attorno alla

sicurezza e all’attività di controllo viste attraverso la lente normativa (ma anche

tecnica, economica ed educativa). A seconda dei “livelli” di controllo vi è una

rappresentazione che si rivolge ad un pubblico, un destinatario e un testimone diverso.

Partiamo con il giro del capocantiere e, soprattutto dell’assistente, per cogliere

le diverse interazioni a cui partecipano i personaggi e le modalità di “messa in pratica”

dell’attività di controllo, ma anche quella, relativa agli operai, dell’essere controllati,

ovvero di essere “oggetto” della pratica di controllo.

La prima situazione in cui ci si trova è quella che vede il capocantiere discutere

con l’assistente e gli operai del lavoro da fare per la giornata, se ci sono cambi di

programma e come deve esser fatto un determinato lavoro. Si ricorda che la leadership

del capocantiere influisce molto sulla gestione del cantiere, per cui vi è il cantiere in cui

il capocantiere interviene sulle modalità di eseguire un determinato lavoro ‒ compreso

l’essere svolto in più o meno sicurezza, avendone delega ‒ e cantieri in cui le ditte e i

rispettivi capicantiere hanno carta bianca anche sulla modalità di lavorare, essendo

convinzione di alcuni capicantiere della CortemSpa di non aver alcun compito di

intromissione nello svolgimento dei lavori delle ditte che hanno vinto l’appalto per

costruire l’opera.

Le due differenti tipologie si esplicano sul campo in una maggiore o minore

presenza in cantiere, nel maggiore o minore contatto con le ditte e gli operai, in una

maggiore o minore interazione con le “figure della sicurezza”.

Nel caso in cui un capocantiere CortemSpa non partecipi attivamente alle

“dinamiche di costruzione” della sicurezza ‒ ovvero dia carta bianca ai responsabili

delle ditte che vi lavorano ‒ accade che i controlli siano svolti in maniera

unidirezionale. In questo caso, la figura che svolge il controllo, soprattutto “esterna”,

evidenzia le criticità che ci sono in cantiere, le mancanze relative al rispetto delle

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norme di sicurezza (per esempio, non uso dei Dpi, aree del cantiere “non messe in

sicurezza”, pratiche non sicure per salire o scendere dai camion o da luoghi in altezza),

parla eventualmente con il capocantiere della ditta responsabile delle “infrazioni” (che

cerca di far presente i motivi che hanno portato alle infrazioni, ma senza particolari

obiezioni), stila un verbale e lo consegna al capocantiere che ne prende visione, a volte

anche senza obiettar nulla.

Ovviamente anche in questa interazione sono coinvolti degli attori umani e

non-umani, degli artefatti e dei discorsi, ma la situazione che si viene a definire mette

in evidenza come ci sia una visione “tradizionale” e “passiva della sicurezza” in cui

ognuno svolge il suo ruolo senza esser disposto a modificare alcunché, senza

confrontarsi con gli altri e mantenendo uno status quo che è “negoziato a priori”,

ovvero ognuno ha le proprie competenze e non scende a compromessi con quelle degli

altri, mantenendo le proprie modalità di lavorare. In questo caso, come mi hanno

raccontato alcuni attori del cantiere (come un RSPP), alla violazione della norma

consegue un verbale e, in alcuni casi, anche una multa36.

Il caso più interessante, secondo il punto di vista che qui si sta sostenendo, è

quello in cui il capocantiere ed il suo assistente agiscono in maniera “proattiva” (Bisio,

2003), ovvero entrano a pieno titolo nella “costruzione” della sicurezza in cantiere e di

ciò che il “controllore” vede.

Il primo elemento attraverso il quale “agiscono” la sicurezza ‒ un capocantiere

ed il suo assistente che scelgano di partecipare attivamente all’attività di controllo ‒ è

indossare i Dpi, ovvero dando l’“esempio” di come si sta in cantiere: con scarpe

antinfortunistiche, gilet o giacche ad alta visibilità. Il casco è un elemento più

controverso, diffuso ma non indossato sempre da tutti in cantiere. A ricordare la sua

obbligatorietà vi sono i cartelloni ‒ intermediari del discorso normativo ed educativo ‒

esposti obbligatoriamente, quali segnali di prescrizione37, ad ogni entrata del cantiere.

36

Anche se non è detto che le multe portino ad un cambiamento nelle pratiche, prova ne sia che, come affermano i racconti ascoltati in cantiere, spesso le multe si reiterano sulle stesse infrazioni.

37 I segnali di prescrizione sono blu con i simboli bianchi (come quelli di obbligo in educazione

stradale). Vi sono anche quelli di “divieto”, cerchio rosso sbarrato con dentro il simboletto nero; quelli di “avvertimento”, triangoli gialli bordati di nero e con i simboli di riferimento anch’essi neri (per indicare per esempio materiale esplosivo, infiammabile o sostanze velenose); di “salvataggio”, quadrati verdi con

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La motivazione alla quale chi non indossa il casco fa riferimento è la

“scomodità” dell’artefatto, ma dipende anche dall’abitudine a non utilizzarlo tra i

propri “attrezzi del mestiere” in particolare per coloro che hanno appreso il mestiere

negli anni in cui non si insisteva sull’uso del casco e dei Dpi in generale. Molti di loro

sostengono che per lo più non lo usano quando sono in cantiere e non si trovano in

prossimità di carichi pendenti, per cui “non è strettamente necessario indossarlo”,

come gli stessi operai affermano a latere di una giornata di controlli in cantiere.

Per quanto riguarda l’esemplarità, inoltre, il capocantiere e l’assistente sono

consapevoli del ruolo che ricoprono, ma non condividono l’idea per cui si debba

“derogare” al rispetto delle norme di sicurezza (che prevedono l’uso dei Dpi in

cantiere) nei casi in cui siano “i capi” ad entrare in cantiere di tanto in tanto.

“Ci vogliono tutti come soldatini!, vestiti “bene”, poi quando vengono i

“capi” non indossano neanche le scarpe! Al massimo solo elmetto e gilet!”

(assistente di cantiere).

Mi è stato raccontato, a tal proposito, come sia difficile gestire una situazione

in cui qualche “esterno” entri in cantiere (ovviamente autorizzato) senza indossare

“neanche le scarpe”, ovvero l’artefatto che rappresenta il più diretto contatto con il

cantiere stesso ed essere “ripresi” (rimproverati) perché qualche operaio non indossa,

magari momentaneamente, qualche Dpi.

È una situazione di “frustrazione” quella avvertita: da un lato sono consapevoli

delle difficoltà quotidiane nel gestire il cantiere e gli operai che hanno “diversi modi di

lavorare”, a volte non “in linea” con quello della CortemSpa; dall’altro cercano di

costruire quotidianamente un rapporto che sia di fiducia e credibilità rispetto a ciò che

affermano e chiedono agli operai di fare. Tutto questo, però deve fare i conti con la

necessità di dover “giustificare” la presenza di personaggi dalle modalità non corrette

simboli bianchi che indicano le uscite d’emergenza, il pronto soccorso e altro; i cartelli per attrezzature antincendio, quadrati rossi o verdi con simboli bianchi raffiguranti le attrezzature antincendio (scala, estintore) o gli strumenti che permettono di chiedere soccorso (telefono e direzioni da seguire). Infine, il cerchio azzurro con un punto esclamativo bianco indica sia un pericolo generico, sia un obbligo generico (con eventuale cartello supplementare). I segnali sono esposti nei cartelloni in aree di riferimento, ovvero raggruppati per tipologie (tratto da CTP, Regione Lazio, Edilcassa del Lazio, Costruire in Sicurezza, 2007).

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di stare in cantiere, ovvero che arrivano in cantiere non indossando per esempio (pur

essendo obbligati) le scarpe antinfortunistiche, avendo magari in mano il casco e non

sempre i gilet ad alta visibilità. Va anche ricordato che gli operai, spesso, usano questi

episodi come “arma”, ovvero come ricatto per avere un margine di libertà delle loro

azioni rispetto a quanto gli è richiesto (riferito ovviamente a chi ha difficoltà ad usare i

Dpi perché non abituato).

La loro azione sottolinea un “disallineamento” tra quanto richiesto dai “capi” ai

responsabili dei cantieri (capicantiere e assistenti in primis) e quanto loro stessi fanno

in prima persona, proprio nel contesto-cantiere. Quando sono a “casa loro” può

capitare che capocantiere e assistente si sentano espropriati anche delle loro funzioni.

Il paradosso, infatti, è di non poter far rispettare quanto previsto dalla normativa (“uso

dei Dpi in cantiere”, sostenuto dal management) e di creare dei “precedenti” ai quali gli

operai possano appellarsi nel momento in cui lo stesso management, o altri personaggi

che a volte accompagnano, non usa i Dpi.

L’esemplarità della loro condotta, quindi, verrebbe intaccata dal differente

trattamento riservato a capi e visitatori esterni circa le modalità di “stare in cantiere”.

La dimensione sociale e collettiva dell’apprendimento (e, dunque, dell’apprendere

modalità più o meno sicure di lavorare) passa anche attraverso il meccanismo

dell’imitazione/emulazione (Gherardi, Lippi, 2001) ed anche in questo caso l’“esempio”

rappresenta una risorsa importante sulla quale i responsabili di cantiere fanno

affidamento.

Utilizzare il casco e gli altri Dpi, infatti, serve a ricordare, soprattutto agli operai

che operano esclusivamente in cantiere (mentre i responsabili possono anche passare

gran parte della giornata in ufficio), che il cantiere è un luogo “pericoloso”. Tale sapere

è di tipo estetico (Strati, 2000), ovvero si basa sui sensi ‒ sulla conoscenza sensibile e

tacita di cosa è pericoloso o sicuro ‒ e interagisce anche con altri saperi e pratiche.

Anche etichettare qualcosa come “pericoloso”, infatti, costituisce una competenza

pratica e rappresentativa di una visione professionale e di uno “stare a lavoro”

specifico di ciascun gruppo occupazionale (Gherardi, Nicolini, 2001).

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4.2.3 L’arte della negoziazione: costruire la sicurezza ad “ogni giro”

Nelle diverse discese sul campo effettuate nelle differenti fasi della mia

permanenza alla CortemSpa ed i suoi cantieri (Cap. 2) è da subito emersa una

caratteristica dell’attività di controllo: il suo essere, nella maggior parte dei casi da me

osservati, frutto di una “contrattazione” o “negoziazione”. Sembrava di doversi

preparare già prima di arrivare in cantiere: conoscendo evidentemente (parlo dei

collaboratori del Responsabile dei Lavori che seguivo nella prima fase) i personaggi con

cui avrebbero avuto a che fare, in parte si sapeva cosa aspettarsi dal giro di controllo.

Quando, poi, ho avuto la possibilità di trattenermi in cantiere per qualche mese, ho

avuto modo di passare dalla parte dei “controllati” (i responsabili del cantiere) e di

osservare che anche i capicantiere e gli assistenti mettono in atto le loro strategie,

conoscendo spesso i loro interlocutori38 e potendo renderli riconoscibili attraverso un

“gioco di specchi” (Schütz, 1979) che rende in parte prevedibile l’azione dell’altro con il

quale si interloquisce.

Durante l’osservazione sul campo, quindi, è emerso uno stile differente

nell’attività di controllo dei responsabili di cantiere rispetto alle altre figure. La loro

posizione (quella di capocantiere e assistente), è da un lato quella di intermediario

(Callon, 1992) nella traduzione del discorso normativo (ma anche educativo e tecnico),

per cui, per esempio, rimproverano quotidianamente gli operai che non “rispettano le

regole” (in un’accezione generale, quindi, che comprende sia le norme che le regole del

cantiere quelle, per dirla con Polanyi (1990), “tacite”, di rispetto e collaborazione), e

facendo ciò “mettono in pratica” gli insegnamenti ricevuti durante la frequenza dei

corsi sulla sicurezza.

In effetti, c’è una sorta di accordo tacito per cui quello che accade in cantiere

resta in cantiere (o galleria che sia) e, soprattutto, che i responsabili di cantiere sono

disposti a “dare una mano” (coprire qualche mancanza, ovvero “reggere il gioco”) agli

operai a patto che quest’ultimi “non facciano gli str…” (come qualcuno ha ricordato),

ovvero non “mettano nei guai” i responsabili del cantiere con comportamenti

38

Compresi i collaboratori che in una prima fase ho osservato e che a loro volta controllano i responsabili dei cantieri compresi quelli delle ditte esterne.

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inopportuni o frasi fuori luogo, soprattutto dinanzi agli esterni del cantiere

(“controllori” compresi).

Una piccola comunità che si allea contro il nemico esterno rappresentato dagli

“altri” o “i capi”, ovvero il management di cui i responsabili di cantiere sono

l’espressione del “controllo sul campo”, dai quali se ne discostano cercando un proprio

posizionamento che permetta loro di gestire questa dualità, evitando di “inimicarsi”

(come ai tempi dei capisquadra tayloristi) le due comunità con cui interagiscono

quotidianamente e di cui ne condividono parte delle visioni sia in merito alla

produzione (tempi, modalità e pause), sia in merito a cosa sia sicuro e cosa non lo sia.

Dall’altro lato, inoltre, la posizione dei capicantiere ed assistenti CortemSpa è

quella di “mediatore” (Goffman, 1969), perché conoscendo il contesto sociale e

materiale in cui operano, svolgono un’importante funzione di negoziazione.

Il primo giro di controllo della mattina solitamente non sortisce alcuna

particolare “preoccupazione” nei confronti degli operai, trovandosi ancora in “fase di

assestamento”, ovvero di preparazione degli attrezzi e del materiale da lavoro, e non

essendo l’attività avviatasi a pieno ritmo. La rappresentazione vera e propria, infatti, ha

inizio dopo qualche ora e quando soprattutto l’assistente di cantiere39 inizia la sua

attività di controllo dell’attività lavorativa degli operai.

4.2.3.1 Lo stratagemma della vedetta

Già mentre il signor P. esce dal suo ufficio-container si avvertono i primi strani

movimenti, infatti, è capitato spesso ‒ e l’assistente ne è pienamente consapevole ‒

che gli operai si avvisino tra di loro con fischi veloci lanciati “a caso”, espedienti

linguistici (come dire “buongiorno” ad alta voce) e “vedette” che si passano l’allarme.

Di solito il compito di vedetta è ricoperto da operai che, non avendo una

specializzazione, si occupano di tenere in ordine il cantiere, di spostare materiali diversi

da una zona all’altra del cantiere, procurare il materiale e gli attrezzi agli operai che ne

hanno bisogno. Solitamente, sono appostati lungo i margini di uno scavo, appoggiati ai

39

L’assistente di cantiere è la figura più a stretto contatto con gli operai delle ditte visto che il capocantiere è responsabile di diversi cantieri e spesso, oltre ad andare avanti e indietro per questi, deve anche essere presente alle diverse riunioni che riguardano i cantieri stessi.

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parapetti e mettono in collegamento gli operai che lavorano nello scavo con il resto del

cantiere. Proprio come è avvenuto per alcuni giorni mentre un gruppo di operai

svolgeva i lavori in prossimità di un pozzo della fognatura.

“Mentre entriamo nell’area del cantiere recintata con le reti metalliche mobili

sta uscendo uno degli operai che lavora qui e dice “Buongiorno!”, con una certa enfasi

e impostazione. Salutiamo e P. commenta a bassa voce “hai sentito l’allerta? Ha

avvisato che siamo qui!”. P. mi fa notare che gli operai si segnalano la presenza dei

superiori, chi sta fuori avvisa quindi chi sta nel pozzo, o comunque in una zona in cui la

propria visuale non ha libero accesso a tutto il cantiere. Quando arriviamo lì, osservo se

i due operai nel pozzo, Stefano e Luca, indossano il casco: quello di Stefano è attaccato al

muro, quando arriviamo noi è fermo, non sta lavorando; Luca non lo indossa e non ce

l’ha neanche lì con sé. L’operaio che è con loro, fuori dal pozzo, gli dà consigli su come

tenere le tavole e come “metterle a piombo”, ma quando vede arrivare Vito (che

controlla la conformità dei materiali e delle lavorazioni) fa da “vedetta”, ovvero dice ai

due operai nel pozzo di mettere il casco. Stefano lo ha già indossato (anche se lo toglie

spesso, come spesso toglie i suoi occhiali da vista, perché il sudore è davvero tanto e cerca

di asciugarsi la fronte ed il viso), mentre Luca lo mette adesso. Intanto ne approfittano

per rimproverare a P. di portare sempre “quelli della sicurezza”, cosa che li impedisce

di lavorare, essendo costretti a fermarsi per non incorrere in eventuali sanzioni o perché

impediti a lavorare dovendo indossare i Dpi (“obbligatori” per la presenza dei

controllori) … Stefano e Luca sono due operai che hanno un po’ di difficoltà ad indossare

i Dpi. Alla fine però li indossano spesso, anche perché sanno che “passano quelli della

sicurezza”, ma appena possono tolgono il casco, e Stefano spesso non indossa i guanti,

benché lavori con tavole e chiodi!” (note di cantiere).

L’attività di controllo40, dunque, anche nell’ambito di un cantiere e come nelle

fabbriche taylor-fordiste, implica una “contro-attività” da parte di coloro che sono

40

In questo caso c’è un tipo di controllo sia burocratico, esercitato attraverso l’impersonalità delle norme, che diretto, ovvero esercitato dal responsabile del cantiere che fa le veci del “proprietario” (Edwards, 1979, in Bonazzi, 2008).

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controllati – gli operai solitamente – che permette loro di gestire un margine di libertà

che li renda “autori” delle proprie azioni.

La storia sugli studi organizzativi e del lavoro (Bonazzi, 2008) è piena di episodi

di stratagemmi e raggiri messi in pratica dagli operai nelle varie situazioni e la pratica

del making-out (Roy, 1952), per esempio, rende l’idea della importanza di trovare delle

modalità per “aggirare” i controlli, destreggiarsi tra le regole e i vincoli al fine di

ottenere un risultato che è ritenuto adeguato dagli stessi operai.

Anche il caso degli stratagemmi utilizzati dagli operai in diverse occasioni

rappresenta una sorta di gioco di bravura: riuscire a controllare la situazione e, dunque,

a rappresentare il ruolo che i propri responsabili gli chiedono di ricoprire, permette

loro di “tenere lontano” il controllore e, di conseguenza, svolgere la propria attività

secondo le modalità condivise e ri-conosciute di fare un lavoro e di farlo secondo le

modalità ritenute sicure dal proprio gruppo di riferimento. Ma non solo. La necessità di

ricorrere a degli stratagemmi per “tutelarsi” dai controlli sulla sicurezza, permette loro

anche di gestire un importante paradosso: lavorare bene, lavorare “in sicurezza”, che

spesso significa – si traduce nel ‒ “non” indossare i Dpi per lavorare svelti, lavorare “in

urgenza” (per la consegna dei lavori). C’è un paradosso insanabile tra le due cose che,

come si vedrà nel corso del capitolo, “giustifica”, dal punto di vista degli operai, il

ricorso a degli stratagemmi (§ 4.2.3.2).

Questi “trucchi del mestiere” (Becker, 2007) sono sia conosciuti sia, in parte,

tollerati dai responsabili di cantiere, anche se non sempre partecipare al “gioco” fa loro

piacere, soprattutto quando si sentono “presi in giro”.

In effetti, la conoscenza “personale” di alcuni operai spinge i responsabili del

cantiere ad essere più tolleranti con alcuni di loro, cercando anche di ottenere

“consenso” e “disponibilità” che saranno sfruttate in altre situazioni, solitamente in

occasione dei controlli esterni in cui anche l’assistente ed il capocantiere “subiscono” in

un certo senso l’attività ispettiva e hanno bisogno della collaborazione degli operai per

“mettere in scena” la loro rappresentazione (§ 4.2.3.2).

Il “senso” dato alla tolleranza, inoltre, affonda le radici nel sapere che “sono

abituati così, hanno sempre lavorato in questo modo e non li puoi cambiare oggi!”

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(pratiche consolidate nel tempo), ma anche nel riconoscere che spesso l’uso dei Dpi

può rallentare lo svolgimento di un lavoro o ostacolarlo (come per il caso dei guanti che

limitano la sensibilità se il materiale è troppo grosso) e, dunque, si “deroga” al rispetto

della norma che ne prevede l’uso perché è importante che il lavoro non venga

rallentato.

La pratica del mestiere, dunque, è stata appresa come una modalità

socialmente riconosciuta e sostenuta di fare certe cose in un certo modo (Gherardi,

2000; 2006), e non necessariamente si trova in “accordo” con le modalità “calate

dall’alto” attraverso le leggi, presupponendo che basti seguire le nuove regole perché

tutto vada come previsto e che le “vecchie” pratiche ‒ ritenute ancora una volta

“dall’alto” come “non sicure” ‒ vengano cancellate. In un’accezione simile, si “nega” e,

soprattutto, non si ri-conosce il contesto d’uso in cui quelle stesse regole andranno ad

operare e, cosa più importante, andranno ad esser praticate, come invece la

prospettiva di studio dell’Actor-Network Theory qui adottata ben evidenzia già nell’uso

del concetto di tradurre/tradire in luogo di implementare (§ 2.2.1).

Emerge con forza anche la portata teorica ed empirica degli studi sull’“azione

situata” (Suchman, 1987; Conein, Jacopin, 1994) e di quelli “sui luoghi di lavoro”

(Workplace Studies: Heath, Luff, 1992; Heath, Button, 2002), studi in cui è stata messa

in evidenza l’importanza del “contesto” per l’azione sociale, “i cui confini sono tracciati

dalle attività stesse che stabiliscono connessioni in azione” (Bruni, Gherardi, 2007: 18).

Questo “stratagemma” della “vedetta”, dunque, evidenzia la dimensione

collettiva delle attività lavorative, la quale riposa sull’abilità di mantenere un

orientamento comune dell’attività stessa, ovvero un’attenzione distribuita (Heath, Luff,

1992; Joseph, 1994) che fa sì che siano le pratiche comunicative socialmente

organizzate a coordinare le attività e i compiti quotidiani.

Questi stratagemmi, dunque, permettono agli attori-operai di mettere in scena

la loro “facciata”, ovvero quella parte di rappresentazione che solitamente funziona “in

maniera fissa e generalizzata allo scopo di definire la situazione per quanti la stanno

osservando” (Goffman, 1969: 33): ci si cala nella parte dell’operaio così come prevede il

copione (della CortemSpa, in questo caso). È come se eseguissero una performance

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(Garfinkel, 1967) del “bravo operaio” o “dell’operaio da manuale”. Tale concetto,

infatti, “permette di guardare al lavoro come ad un’attività che segue un copione, ma

la cui interpretazione è situata” (Bruni, Gherardi, 2007: 32).

4.2.3.2 Un’alleanza: la soffiata da parte dei “capi” e il “gioco di specchi”

All’attività situata di controllo, inoltre, possono partecipare anche gli stessi

responsabili di cantiere rispetto alle visite di controllo di persone diverse da loro stessi,

scegliendo in questo modo di stare “dalla parte” degli operai, creando un’alleanza

temporanea, un fronte unico contro un nemico che in quel momento non sono più

loro, bensì altri.

Questo permette di negoziare qualcosa: dare “appoggio” (“la soffiata”) e

ricevere implicitamente ‒ in quanto consegue dall’aver avvisato dell’arrivo del

“nemico”, come regola tacita (Polanyi, 1990) che i due gruppi condividono ‒ qualcosa

in cambio, la “salvaguardia dell’immagine” dell’organizzazione alla quale appartengono

i responsabili di cantiere (§ 5.1.1). In parte, però, è anche un esercizio di potere che i

due gruppi mettono alla prova, “chi serve a chi”, la complicità in alcune situazioni è

indispensabile per entrambi, ma ognuno di loro ha in gioco qualcosa di diverso. Gli

operai, infatti, sottolineano spesso di non aver nulla da perdere, essendo “etichettati”

come “quelli che tanto non rispettano la sicurezza”, la cui messa in scena però serve a

mantenere un orientamento comune della definizione della situazione (Goffman, 1969)

che permette ai responsabili di cantiere di “non rimetterci la faccia” (§ 5.1.1.1).

Dopo le prime ore del mattino, in cantiere, è probabile che arrivi il

collaboratore del Coordinatore per la sicurezza, che chiameremo Maurizio Sicurezza e

che quasi quotidianamente controlla l’andamento del cantiere e verifica che le

disposizioni da lui richieste durante la visita precedente siano state messe in atto.

Inizia il giro di controllo in cui Maurizio Sicurezza è accompagnato

dall’assistente P. e arriviamo in prossimità di un’area del cantiere in cui si sta scavando.

“Maurizio Sicurezza dà indicazioni all’operatore che sta scavando, gli dice come

recintare “meglio” la zona e di indossare le cuffie, dopo di che andiamo verso un’altra

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area del cantiere in cui c’è necessità che i lavori finiscano prima possibile. È qui che ha

inizio la messa in scena. Mentre arriviamo, Giulio, un operaio, ha il casco in testa e

chiede all’assistente di cantiere, da lontano, qualcosa che non capisco. Ma Maurizio

Sicurezza subito ribatte: “l’hai avvisato?!” e ride. L’assistente fa finta di nulla e

continuiamo ad andare verso l’area decisa. Quando arriviamo, Giulio – che ha ricevuto

il “segnale” di avviso da parte dell’assistente ‒ chiede gli occhiali ad un collega e dice

agli altri operai (esplicitamente e come fosse un ordine) di mettere casco ed occhiali:

devono tagliare le tavole o saldare [non ho ben capito] e sanno che devono indossarli.

Arriva un secondo operaio, Mario, che porta gli occhiali a Giulio, ma non ha i propri.

Giulio gli dice di andare a prendere gli occhiali. Maurizio Sicurezza scherza con loro e fa

loro qualche battuta dando ad intendere di aver capito cosa stanno facendo. Intanto

arrivano altri due operai, Stefano e Luca. Uno di loro chiede sottovoce dove siano i loro

occhiali e sempre a bassa voce ribatte: “Senza occhiali non possiamo lavorare!!”, “e

noi stiamo fermi finché non se ne vanno!! … noi siamo più furbi di loro!!”,

ribatte Luca sottovoce, ridendo e sbeffeggiando controlli e controllori che sono più

distanti. Mi guardano, cercano la mia approvazione, la scena è piuttosto comica, ma non

dico nulla, anzi cerco di chiedere all’operaio che ha avviato la “rappresentazione”,

mentre andiamo incontro a Maurizio e l’assistente P., come mai non usano gli occhiali

… sta per rispondermi, quando arriviamo vicino all’assistente e al collaboratore per la

sicurezza e tutto finisce là. A questo punto, Maurizio Sicurezza e l’assistente P. fanno

battute sul comportamento degli operai, su come lavorano e sul fatto che hanno

indossato i Dpi appena hanno visto arrivare “i controlli”. Gli operai rispondono e

cercano di affermare che non è fondamentale quello che dicono loro, ma “è importante

fare e finire il lavoro!”. Dopo essersi confrontati, lamentandosi dei diversi

imprenditori che entrambi conoscono, incontrati nei vari cantieri in cui hanno lavorato

sia gli operai che l’assistente (cantieri di cui conoscono i “retroscena”), con tono

abbastanza risoluto e come a dire che finora si è scherzato abbastanza Stefano dice:

“Vabbe’, noi dobbiamo lavorare, lasciateci lavorare!”” (note di cantiere).

Quello che accade è l’instaurarsi di quel processo di tipificazione che dà luogo

al “gioco di specchi” (mirror game) di cui parla Schütz (1979) e che permette di tessere

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le relazioni. Infatti, sia gli operai che l’assistente (come anche “quelli della sicurezza”)

“sanno” cosa aspettarsi gli uni dagli altri: gli operai sanno che se l’assistente li vede

senza Dpi, “incomincia a rompere e a dire sempre le stesse cose”, ovvero a riprenderli

per non aver adoperato le protezioni, per esempio; ma sanno anche che gli stessi

assistenti, e i responsabili di cantiere in genere, li sollecitano ad andare avanti con il

lavoro senza perdere tempo, senza intoppi.

Alcuni operai, per lavorare più velocemente come richiesto dai propri capi, non

indossano i guanti. Indossarli, infatti, li porta a lavorare più lentamente e “meno bene”

di come è richiesto loro. In parte, quindi, la richiesta avanzata dai capi di lavorare senza

perdere tempo, implicitamente rischia di avvalorare l’idea che occorra rimuovere

eventuali ostacoli che rallentino l’attività, e molto spesso sono le diverse “misure di

sicurezza”, come per esempio può accadere indossando i guanti, a rappresentare un

ostacolo ai “tempi” di produzione.

L’assistente, a sua volta, “sa” che è tenuto sotto controllo dagli operai i quali

controllano quando esce dall’ufficio dove va, con chi è e altre cose di questo tipo. Egli

“sa” anche che gli operai che stanno troppo tempo senza la sua presenza sono soliti

“concedersi” pause, divagazioni e modalità di lavoro non consone all’immagine41 che si

vuole dare della CortemSpa o, soprattutto, ritenute non sicure secondo la visione della

sicurezza “messa in campo” dalla CortemSpa (§ 5.1.1).

In un giro di cantiere condotto nelle prime ore del mattino, mentre si trovano

insieme sia il capocantiere che l’assistente ed anche il giovane assistente della

CortemSpa, assisto ad una scena nella quale il capocantiere ribadisce la diversità di

41

C’è da dire, però, che quanto sto esponendo è frutto dell’osservazione di un rapporto un po’ particolare, come si è ricordato prima in merito al tipo di leadership che capocantiere ed assistente adottano. In uno dei cantieri, infatti, ho potuto osservare una sorta di processo di apprendimento, non del novizio, ma di un’intera piccola ditta che, a contatto con i responsabili CortemSpa (ma anche le altre ditte), ha appreso un “nuovo modo di lavorare”. La differenza nelle pratiche di lavoro di questa ditta con il resto delle ditte del cantiere, infatti, era abbastanza marcata, per cui il capocantiere e l’assistente hanno “insegnato” loro delle modalità di pratica più attente alla sicurezza. È in questo rapporto quotidiano (spesso mal digerito dal capocantiere della ditta perché si sentiva trattare anche lui come un operaio dei responsabili di cantiere della CortemSpa, anche se spesso era proprio lui a chiedere “come” si fa questo o quello) che la ditta è cresciuta e ha mutato (già nei quasi tre mesi d’osservazione) alcune delle proprie pratiche di lavoro, mettendo in evidenza, infine, come la sicurezza sia una “competenza” e non un oggetto che si aggiunge di tanto in tanto al modo di lavorare.

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lavoro tra loro e le ditte che devono svolgere dei lavori nel cantiere al fine di risolvere

alcuni problemi legati alla gestione delle utenze.

“Prima di uscire dall’area, l’assistente P. sistema meglio la recinzione perché c’è

un buco nell’asfalto che non è bel delimitato, poi andiamo via. Ad un certo punto il

capocantiere M. si gira e dice al giovane assistente “tu devi controllare che fanno il

lavoro come si deve, tienili d’occhio, torna dopo e fagli fare questo lavoro,

subito, bene, devi esserci tu, quelli non se ne fregano niente, se sono “zozzoni”,

non gliene frega niente, la responsabilità è della CortemSpa, siamo io, te e lui

(riferito a P.)”. Il giovane assistente sta tornando indietro, ma M. gli dice “vabbè, non

ora, ma dopo tornaci subito, mi raccomando!”” (note di cantiere).

La consapevolezza che gli operai “vanno seguiti”, inoltre, diventa anche motivo

di scherzo in situazioni del tutto diverse da una reale messa in scena (come lo stralcio

appena citato), ma servono per manifestare una certa conoscenza reciproca (sapere

che l’altro sa) ‒ sapere che sono zozzoni ‒ che permette al gioco di essere giocato.

In diverse situazioni, per esempio, il collaboratore del Coordinatore per la

sicurezza “sta al gioco” recitando, con ironia, il ruolo del “poco furbo” nel momento in

cui, per esempio, chiede al capocantiere di una ditta di chi sia il ponteggio non in regola

(dalle caratteristiche e dal montaggio non conforme alle norme) presente nell’area di

lavorazione e questi gli risponde che lo ha trovato là, che è della ditta che vi aveva

lavorato prima. A questa risposta, però, segue un’aggiunta fatta dal collaboratore che

chiosa “Non voglio vederlo lì! Non dovete usare queste cose, non sono sicure!”,

sottolineando che, al di là di quanto risposto dal capocantiere (il ponteggio infatti è

della sua ditta e il collaboratore lo ha capito, anche perché sa che prima di loro non ha

lavorato nessun’altro), la regola vale anche per loro: non si usano in cantiere artefatti

che non rispondano alle norme “tecniche” della certificazione e si devono evitare

pratiche non sicure che portino all’uso di attrezzi “di fortuna”, improvvisati o

pericolanti.

Ci sono anche casi in cui, durante il giro con uno dei collaboratori del

Coordinatore, si verifichino fermi del tutto casuali dei macchinari, suscitando l’ilarità

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degli astanti e rappresentando un’occasione per rendere manifesta la strategia del

“fermo attività” in presenza dei controlli.

“Iniziamo il giro. Maurizio sicurezza dice “iniziamo dalla [nome della ditta

che fa lo scavo] tanto sono quasi sempre a posto, ma andiamo a vedere se hanno

sistemato quello che gli avevo detto”. È tutto abbastanza tranquillo, ci avviciniamo

verso la perforatrice e la macchina s’inceppa e l’assistente di cantiere afferma scherzando

“Maurizio è colpa tua, io gli ho detto che stavi arrivando, gli ho detto di

lavorare in sicurezza, ma non di fermarsi! … appena vai via riparte!”, tutti

ridono ed anche il collaboratore sta al gioco” (note di cantiere).

Attraverso lo scherzo, quindi, si prova ad “alleggerire” la pressione dei controlli

e si cerca di ristabilire le parti che ognuno è tenuto ad interpretare sulla scena, senza

per questo venir meno a degli accordi informalmente presi (Goffman, 1969) con alcuni

operai. Questo è anche un modo per creare un clima più disteso e di collaborazione,

come un rituale delle parti e dei ruoli da svolgere nel corso dell’interazione.

In questo continuo e quotidiano gioco di specchi, e più in generale, attraverso il

processo di tipificazione che riguarda i membri di questi due gruppi occupazionali,

inoltre, si crea l’identità sociale di ciascun gruppo e la loro differenziazione. Queste, a

loro volta costituiscono le premesse decisionali in grado di orientare le azioni “tipiche”

e la reciproca comprensione quotidiana (Strati, Gherardi, 1997).

Infatti, se ci chiediamo chi sono gli operai per i responsabili di cantiere, la

risposta è: “Quelli fanno come gli pare!”, ovvero usando un’altra espressione un po’

forte:

“È tutt’oggi che pascolano, anche venerdì giocavano … se non c’è

nessuno che li controlla ..” (voci del cantiere).

Gli operai, quindi, sono dipinti (in generale, come gruppo) come persone che

hanno bisogno di essere “controllate” per far “bene” il proprio lavoro e, dunque, poco

affidabili da questo punto di vista.

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Gli operai, a loro volta, tipizzano gli assistenti ma, più in generale, i “capi” e le

figure che specificamente svolgono i controlli in cantiere.

“Non sanno come si lavora, che cos’è un cantiere, loro se ne stanno in

ufficio e, magari, non sono mai stati in cantiere!” (voci dal cantiere).

Quest’ultima affermazione, sul conoscere o meno il cantiere, è ciò che

accomuna gli operai ai responsabili del cantiere rispetto agli “altri”, ovvero coloro che

non abitano il cantiere, ma vi svolgono solo un’attività ispettiva (questo serve anche a

ricordare come spesso, soprattutto per i capicantiere e gli assistenti con più esperienza,

la loro “carriera” sia iniziata lavorando in cantiere come operaio-assistente, come

topografo, come geometra, per esempio).

Una volta che gli operai si sono accertati che l’assistente è da solo, allora

assumono una postura più rilassata, infatti si può dire che i controlli dei responsabili del

cantiere “fanno paura”, ma non spaventano.

È proprio qui che risiede il “potere” di mediazione che l’assistente, come anche

il capocantiere, ha. Il “conoscere” gli operai, trascorrere con loro molte ore delle

rispettive giornate lavorative, conoscerli anche personalmente in alcuni casi, permette

di stabilire cosa può essere “concesso” o “tollerato” e cosa no. Per esempio il non uso

dei guanti, soprattutto per i carpentieri e ferraioli, non è messo in discussione.

L’esperienza e la conoscenza del mestiere, infatti, fa sì che un assistente

affermi che “i bravi ferraioli non usano mai i guanti!” e, quindi, se qualcuno non li

indossa, non glielo si fa presente. Richiama un po’ la “funzione latente di deriva” che

Gouldner (1970) riconosce ad alcune norme che permettono ai superiori di

“contrattarne” informalmente l’applicazione e di ottenere una moneta di scambio per

una maggior cooperazione.

In queste occasioni, inoltre, si hanno anche situazioni di double-talk (Goffman,

1969), in cui un subordinato e un superiore si parlano scambiandosi notizie “in modo o

su fatti che sono in contrasto con il rapporto ufficiale che esiste tra di loro” (ibidem:

221). È il caso in cui l’assistente di cantiere e l’operaio Stefano si scambiano confidenze

e considerazioni in merito agli imprenditori (cognomi noti a livello nazionale anche ai

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non addetti ai lavori) con cui in passato hanno lavorato. Sono storie di messe in scena

legate alla consegna, nella data ufficiale prevista da contratto, di opere pubbliche che

però non erano realmente terminate, ma delle quali era stato offerto un set allestito

per l’occasione, con tanto di politico di turno a presiedere dinanzi a giornalisti di tv e

stampa.

4.2.3.3 “Prendere le misure” ... per farsi un’idea e lavorare in sicurezza

Quella di “farsi un’idea” (Harper, Hughes, 1983) è un’attività cruciale sia per il

capocantiere che per i suoi assistenti (§ 4.1.2), in quanto permette loro un

coinvolgimento pratico nel “ritmo” della situazione, ma soprattutto permette loro di

avere anche la capacità di prevedere “problemi probabili” (Fele, 2002) che possono

verificarsi quotidianamente in cantiere. Ed è quanto gli stessi responsabili di cantiere

osservati cercano ogni giorno di “insegnare” agli operai che lavorano nei loro cantieri.

Un elemento che può far “chiudere un occhio” ‒ e dunque non esercitare

un’azione di controllo ‒ è il fatto che spesso le necessità economiche e i tempi di

produzione si frappongano, quando non si sostituiscano, a pratiche di lavoro più sicure,

finendo con l’assecondare la pratica di operai che sono “più veloci” e “grossolani”.

La richiesta di essere “più veloci”, però, non significa ‒ come sostiene lo stesso

signor P. ‒ essere meno accorti alle modalità di lavoro in sicurezza, anzi, occorre “farsi

un’idea” di quello che serve per non lavorare in modo “grossolano e sporco”.

Pratiche “grossolane” sono, ad esempio, quelle in cui non si delimita l’area di

scavo in maniera da evitare che qualcuno possa finirci dentro; quando si demolisce una

parete o non si predispone la rete di protezione sufficiente ad evitare che anche piccoli

sassolini possano colpire chi si trovi a passare lì vicino; quando si risale senza scala dal

fondo di scavi in cui il terreno circostante non è puntellato (protetto da una struttura in

legno che evita al terreno di franare), rischiando di rimanere soffocati se, cadendo, il

terreno frana addosso a chi risale o rimane nello scavo; non chiudere i fori del terreno

e non segnalarne la presenza per evitare che anche chi non è addetto al lavoro di

quell’area possa, non sapendolo, inciampare e farsi male.

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Ciò che concorre, nei cantieri osservati, a definire una pratica come “sicura” è

la “capacità di previsione”, come lo stesso assistente CortemSpa mi ha più volte

ricordato, ovvero essere in grado di “prevedere”, “immaginare” la procedura da

eseguire e, con essa, tutto ciò che occorre ‒ fare ed utilizzare ‒ affinché non “succeda

niente”, non si verifichi qualche inconveniente che abbia ripercussioni sulla salute di

qualcuno.

A tal proposito, sono due episodi in particolare ad aver attirato la mia

attenzione, accaduti in due giornate differenti. Il primo che segue ha avuto come

protagonista il capocantiere della CortemSpa che, nell’arrivare in cantiere dopo le

prime ore del mattino (di ritorno da una riunione) e “buttando” l’occhio in una zona del

cantiere, riesce ad “intuire” quello che due operai di una ditta stanno per fare:

“Un giorno, mentre sto seguendo l’assistente P. nel suo giro di controllo,

incontriamo l’ingegnere che si occupa del controllo dei materiali e delle lavorazioni, poco

dopo arriva anche M., il capocantiere, che dice subito: “Venendo ho visto con la coda

dell’occhio che uno dei furboni che sta lavorando nel piazzale sta per spostare il

para-pedonale42?! vuoi scommettere? … chi scommette con me? … io ho già

previsto che lo faranno!”, ride, ci guarda e poi mi stringe la mano, dicendo che ci

scommettevamo un caffè. Io accetto. Andiamo giù e M. chiama l’operaio, gli chiede cosa

sta facendo e se ha intenzione di spostarlo. Gino, [uno dei tre più criticati e ritenuti

“quelli che se ne stanno a spasso tutto il giorno” o che “non sono buoni a niente”

o altre cose del genere], come racconta M.: “L’ha spostato prima! e ora l’ha rimesso a

posto! … hai visto [si riferisce a me], cosa ti avevo detto?! (ride) … addirittura

l’hanno già fatto!”. Poi rivolgendosi a Gino gli dice “i para-pedonali non li dovete

toccare, se la gente si fa male, ne rispondiamo noi! Come ve lo devo dire …

l’altro giorno uno è inciampato dall’altra parte … non dovete toccare quelle

42

Il para-pedonale è un attrezzo giallo (colore che indica una segnaletica provvisoria, ma solitamente è bianco listato di rosso), curvo sui lati a mo’ di staffa con base più allargata e con una barra posta orizzontalmente a metà della staffa (parallela al terreno), usato nei passaggi pedonali per impedire di attraversare quella parte di strada dove sono fissati. Il fissaggio è mobile perché se sollevati possono essere estratti.

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cose!”. Rimprovera l’operaio che mestamente balbetta qualcosa e poi va via” (note di

cantiere).

Il capocantiere cerca di spiegare all’operaio che quando prendono un’iniziativa

(compreso spostare protezioni che non vanno assolutamente spostate) devono

pensare alle conseguenze che questo può avere anche per altre persone che con il

cantiere non hanno a che fare. Il cantiere di cui si sta parlando, infatti, è uno dei pochi

di tutto il percorso dell’opera pubblica in costruzione che ha un forte impatto sulla città

e questo richiede di prestare particolare attenzione anche a tutto ciò che accade

intorno ad esso, compresa la presenza di cittadini nelle sue vicinanze.

Il secondo episodio l’ho osservato durante lo shadowing dell’assistente di

cantiere CortemSpa, il quale ha spesso ribadito ‒ citando anche i corsi da lui stesso

frequentati in materia di sicurezza ‒ la necessità di “mettere in piedi” tutta una serie di

precauzioni ogni volta che si svolge un lavoro in cantiere.

“Prima di andare via, il capocantiere M. parla con l’assistente P. e con due

operai del lavoro che c’è da fare, ovvero iniziare a demolire la parte superiore del

sottopasso di una stazione della linea metropolitana che si trova lì vicino. Il sottopasso è

chiuso al pubblico da una settimana circa ed oggi inizieranno i lavori di demolizione di

una parte per poi poter costruire le corree (ovvero delle guide di cemento, tipo travi,

poste a guida per la costruzione dei diaframmi che verranno poi demolite). Dopo essersi

confrontati con l’opinione dei due operai, danno le loro disposizioni: occorre

innanzitutto delimitare bene l’area, mettere anche il telo di protezione per proteggere i

passanti da eventuali schegge di cemento. L’assistente tiene molto a che sistemino bene

l’area e mettano la rete e, infatti, quando uno dei due operai dice che non c’è bisogno del

telo, P. ribadisce il concetto che “bisogna prevedere tutto prima di iniziare.

Quando demolisci può partire un pezzo di cemento e se passa una persona che

fai? … le cose le dovete pensare prima: che cosa può succedere? … poi è meglio

che non succede niente, però se succede qualcosa tu ti sei preparato prima …

non puoi dire che non succede!”” (note di cantiere).

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Entrambi i responsabili del cantiere, dunque, mostrano come la sicurezza sia

una “competenza” che si possiede (il loro ruolo nella pratica quotidiana è, oltre che di

gestione del cantiere, anche quello di “insegnare” a lavorare in cantiere in maniera più

sicura) già prima di iniziare a lavorare. Una caratteristica del lavoro “fatto bene” e “in

sicurezza” è quello in cui si gestiscono le attività da svolgere “prevedendo” le possibili

criticità (materiale che schizza via da un blocco di cemento in demolizione, per

esempio) e rivolgendo attenzione anche ai propri colleghi e a chi potrebbe trovarsi

coinvolto in quella situazione.

Gli episodi riportati sin qui sono tratti dall’osservazione sul campo e hanno

permesso di mettere in luce la differenza tra una “buona pratica” e una “cattiva

pratica”, ma anche “come” ‒ nel senso che è sempre una modalità dell’azione ‒ una

pratica possa essere competente e sicura. La cattiva pratica, inoltre, è dettata, non solo

dalla non competenza nello svolgere una certa attività ‒ come direbbe Gouldner

(1970), sono in buona fede perché non sanno come si fa ‒ ma è sintomatica di una

logica di produzione che prevale. Sono operai, infatti, che per lo più non hanno una

specializzazione, hanno appreso il mestiere decine di anni fa e sono convinti che a loro

“non succederà nulla” (pratica della spavalderia, § 5.2.1). Ma alcuni di loro sono anche

considerati “furboni”, secondo il giudizio di capicantiere e assistenti, ovvero persone

che “non sanno fare niente”, fanno qualcosa per “guadagnarsi la giornata” e “possono

creare pericolo per sé e per gli altri”, non avendo acquisito quello che potremmo

chiamare “la pratica del mestiere”.

Il momento del controllo, quindi, rappresenta un momento di confronto, ma

anche di scontro, tra le diverse visioni professionali (Goodwin, 2003) che popolano il

cantiere. L’assistente, infatti, cerca di spiegare le ragioni per cui un lavoro debba essere

fatto in un modo e non in un altro; ricorda i continui controlli a cui sono sottoposti

(alleandosi in un certo senso con gli operai) e le ragioni “pratiche” di eseguire il lavoro

secondo modalità che permettono di fare il lavoro “una volta e fatto bene”.

La strategia più seguita dall’assistente di cantiere e dal capocantiere è

“l’insegnamento”, ma cercano anche di gestire i conflitti che sorgono in cantiere

ricorrendo alla loro funzione di “mediatori”: qualora non dovesse esserci

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collaborazione da parte degli operai, infatti, possono sempre minacciare di lasciare gli

operai al loro destino, ovvero vedersela da soli quando ci sono i controlli esterni. Sono

proprio i controlli esterni dei tecnici delle Asl e, soprattutto, degli Ispettori del Lavoro a

preoccupare tutti, sia gli operai, ma anche i responsabili dei cantieri che ne fanno una

questione di immagine più che di sanzioni eventuali da pagare43.

Un altro tipo di controllo tenuto in gran conto, però, è quello del Coordinatore

per la sicurezza in fase di esecuzione, il quale ha performato il proprio ruolo in maniera

molto particolare e riconoscibile, svolgendo un ruolo del tutto attivo nel “perseguire” la

sua “idea” di sicurezza sul lavoro. La sua pratica, infatti, rappresenta una tipologia

intermedia di controllo, in un certo senso “preventiva” rispetto ai controlli esercitati

dalle autorità esterne alla CortemSpa.

4.2.3.4 Il Coordinatore per la sicurezza: arriva l’ingegnere!

Uno “strato”, per così dire, intermedio di controllo, dunque, è rappresentato

dai controlli eseguiti dal Coordinatore della sicurezza e dai suoi collaboratori che si

aggiungono ai “giri di controllo” degli assistenti e dei capicantiere dei diversi cantieri

della CortemSpa.

43

Spesso, infatti, capocantiere ed assistente CortemSpa ripetono come alle ditte non importi nulla delle multe “pagano e non gliene frega niente”, mentre per loro (la CortemSpa in generale) è più pesante il danno di immagine che ne consegue (anche queste affermazioni si basano su processi di tipizzazioni che portano, appunto, le “grandi ditte” ad esser viste come più attente delle piccole, che tra l’altro non hanno nemmeno le risorse economiche sufficienti a sostenere i costi di un accumulo di infrazioni). Come ha affermato un operaio impiegato al getto del cemento dopo avergli chiesto che tipo di rapporto avessero con i Dpi: “La sicurezza lo vuole. Adesso ci siamo abituati, nei grandi cantieri è così, il problema sono i piccoli cantieri. Chiedi a loro [riferito ai suoi colleghi che annuiscono e si mostrano d’accordo con lui], tutti quelli che lavorano nel “privatino” devono lavorare così se vogliono portare il pane a casa, se non è zuppa è pan bagnato! Tanto se non ci vai tu, vanno gli altri, hai famiglia”. Quest’ultima “teoria”, ovvero che se uno non accetta di fare un lavoro perché non è sicuro ci sono altri che lo fanno e lui “semplicemente” perde il lavoro (e non ottiene condizioni più sicure), è sostenuta da molti operai, anche dai “privatini”, come li chiama l’operaio che l’ha raccontato. Infatti, un operaio di una piccola ditta che aveva preso in subappalto un lavoro per conto di una grande azienda di servizi (di utenze), mi rispose la stessa cosa quando M. gli fece presente che io ero lì per una ricerca sulla sicurezza e rispose che “sono tutte stupidaggini, se non lo faccio io il lavoro, lo fa un altro e io non mangio”. Comunque, ricordo che in quell’occasione M. era davvero preoccupato della presenza e, in particolare, delle modalità di lavoro di quell’operaio che a definir spericolate è dir poco, soprattutto avendo a che fare con la corrente elettrica (episodio raccontato nell’analisi della pratica della spavalderia, § 5.2.1). M. (paradossalmente) gli chiese di sbrigarsi a finire il lavoro, perché quelli non erano modi di lavorare, aggiunse.

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I controlli sono quasi quotidiani e rappresentano una vera e propria strategia

adottata dallo stesso Coordinatore nel momento in cui ha deciso di ricoprire un tale

incarico. Come lui stesso ha ribadito durante l’intervista alla quale l’ho sottoposto:

“.. e io l’avevo detto sin dall’inizio, ... il fatto che bisognava avere un

controllo, quasi quotidiano dei cantieri, è il mio modo di pensare. E invece

all’inizio pensavano che io sbagliassi quando io e i miei collaboratori …

(intendendo dire che da subito ha svolto controlli frequenti nei diversi cantieri) adesso

ho come intento di base che tutti i cantieri vengono verificati, ma nella peggiore

delle ipotesi, una volta a settimana, alcuni vengono visitati due volte, alcuni tre

volte, poi quando ci sono problematiche, magari ci stiamo pure tutti i giorni. E

questa è una delle mie soddisfazioni, ma me ne danno atto un po’ tutti ..”

(Coordinamento per la sicurezza in fase di esecuzione, CSE).

Il controllo quasi quotidiano deciso, e quasi imposto, dal Coordinatore è stato

presentato come una risposta alla “problematica” controlli esterni (tecnici dell’Asl,

Ispettori del lavoro), descritti dallo stesso come coloro i quali

“Camminano per la loro strada, non sono controllabili. Nel momento in

cui si sentono controllati, cominciano ad irrigidirsi e scappano via” (CSE).

L’obiettivo del Coordinatore e della sua équipe è quello di “prevenire” i

controlli esterni, ovvero di costruire “internamente” le condizioni che garantiscano una

maggior “sicurezza” (nel senso di tranquillità) in caso di controlli ufficiali. Prevale

ancora un’ottica in cui il discorso normativo dà forma anche alla gestione organizzativa

dei cantieri: la sicurezza come risultato della corretta applicazione delle norme, come si

evince dall’affermazione fatta dal Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione (e

progettazione), il quale rimarca la necessità di avere un tipo di conoscenza

“formalizzata” della sicurezza, non concedendo spazio alle pratiche tacite e situate che

guidano la traslazione delle norme dal piano istituzionale a quello organizzativo e delle

pratiche, appunto.

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“Per me la sicurezza è una materia rigorosa, come si fa un calcolo in

cemento armato, per tanto, per me questo va fatto in questo modo. La sicurezza

è una materia multidisciplinare, bisogna entrare nel merito di impianti elettrici,

in merito di tecnologie di esecuzione delle lavorazioni, nel merito di ..

organizzazione del lavoro, nel merito delle attribuzioni delle competenze. È una

materia molto, ma molto vasta. E .. all’inizio io invece, quando iniziai una

persona disse “ingegnere ma non si preoccupi la faccio io!”. Io la notte voglio

dormire, quella persona non ha l’approccio dovuto, tecnico, rigoroso,

squisitamente applicativo delle norme di sicurezza nell’ambito del cantiere,

perché la sicurezza non si fa dandosi una pacca sulle spalle e dicendosi

vogliamoci bene, la sicurezza è un’applicazione di tante materie in modo

corretto e rigoroso” (CSE).

Lo stralcio riportato, inoltre, dà anche il senso della “natura” dei controlli di

cantiere, espressione del discorso normativo e tecnico ‒ “materia rigorosa come si fa

un calcolo in cemento armato” ‒ che considera la sicurezza come una “materia

multidisciplinare” ridotta nella pratica ad un “approccio squisitamente applicativo delle

norme”, senza alcun cenno al contesto di cantiere e alle modalità di lavoro degli operai,

tratto distintivo di una visione tecnica della sicurezza, in cui il concetto di “calcolabilità

del rischio” mostra tutta la sua forza attrattiva (§ 1.3.1).

Ed è proprio l’“intransigenza” del Coordinatore per la sicurezza ad essere

conosciuta e a diffondere preoccupazione quando lo si vede arrivare in cantiere. Anche

in questo caso, fischi e segnali (come grida, saluti pronunciati ad alta voce) si

susseguono in cantiere per avvisare dell’arrivo del Coordinatore o dei suoi

collaboratori. Gli operai che rivestono in quel momento il ruolo di “vedette” avvisano i

compagni che non possono udire o vedere quel che accade intorno a loro perché

impegnati in lavori di scavo o in zone esterne al cantiere. Spesso, però, sono gli stessi

assistenti e capicantiere ad avvisare gli operai delle ditte (anche attraverso i rispettivi

capicantiere) che in un dato momento della giornata è previsto che arrivi “l’ingegnere”,

ovvero il Coordinatore, il cui cognome (G.) o appellativo (ingegnere) è divenuto

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evocativo in cantiere di tutta una serie di episodi, aneddoti, intemperanze e

intransigenza a lui legate.

Quando, infatti, i responsabili di cantiere sono al corrente della visita di

controllo “interna” dedicano parte della giornata a “mettere a punto” quelle mancanze

segnalate dal Coordinatore, magari a seguito dell’ispezione precedente. L’obiettivo,

dunque, è quello di non farsi trovare impreparati rispetto alle segnalazioni già

ricevute44 o in situazioni non consone al rispetto della normativa.

Solitamente, però, il Coordinatore segue cantieri e situazioni manifestamente

“problematiche”, ovvero dove le attività sono più critiche perché diverse ditte lavorano

contemporaneamente o perché è accaduto qualcosa che non ha convinto i suoi

collaboratori che hanno per questo, richiesto il suo intervento45 e difficilmente concede

margini di “trattabilità” su ciò che vede, esigendo, anzi, correzioni e soluzioni per non

subire il fermo dell’attività (benché si renda disponibile ad offrire “indirizzi”, ovvero

indicazioni in merito a ciò che occorre fare per svolgere il lavoro in sicurezza).

Dall’intervista, infatti, emerge come ad orientare la scelta del Coordinatore di

essere presente su un cantiere piuttosto che un altro sia la criticità evidenziata dai suoi

collaboratori in merito ai diversi cantieri.

“Io mi reco in quei cantieri dove evidentemente ci sono delle

problematiche un poco più complesse e per andare a vedere un attimino come

poterle risolvere, quali indirizzi posso dare. In questi cantieri mi reco sempre

con un mio collaboratore” (CSE).

La natura “interna” dell’attività del Coordinatore per la sicurezza (e dei suoi

collaboratori) fa sì che i vari capicantiere della CortemSpa cerchino di “negoziare”

44

Si ricorda che il Coordinatore, come da lui stesso sostenuto, a seguito di un mancato rispetto di una sua segnalazione, prima di arrivare ad un richiamo formale scritto, cerca di risolvere la situazione parlando con i propri responsabili e con quelli delle ditte coinvolte. Se il tutto non dovesse aver esito positivo, allora può fermare i lavori del cantiere eseguiti dalla ditta che non ha rispettato le sue segnalazioni.

45 Io non ho avuto modo di osservare la sua attività direttamente sul campo, per integrare

quanto ho ricostruito attraverso l’intervista al quale si è sottoposto. Le mie riflessioni, inoltre, si concentreranno sull’attività dei suoi collaboratori. Infine, vorrei sottolineare come la sanzione “fermo delle lavorazioni non in regola” è avvenuta diverse volte durante la mia permanenza in cantiere.

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quelle che sono le pratiche in cantiere. In realtà, infatti, l’“interfaccia”, come la chiama

il Coordinatore, sono le imprese affidatarie (e relative sub-affidatarie e subappaltatrici)

in quanto sono loro che svolgono il lavoro di costruzione dell’opera. Ma può accadere,

come il caso da me osservato, che i capicantiere e assistenti della CortemSpa svolgano

un’azione di filtro, di mediazione, essendo comunque responsabili dell’intero cantiere.

4.2.3.5 I collaboratori del Coordinatore: mediare per tradurre

L’attività di controllo, dunque, si costituisce come pratica “situata” (Suchman,

1987; Conein, Jacopin, 1994) attraverso la quale la sicurezza e la conoscenza sulla

sicurezza prendono forma e corpo nell’interazione quotidiana degli attori dell’action-

net locale. Interazione che avviene, come ricordato, nel confronto/scontro negoziato

delle visioni di cui ciascun attore che ne prende parte è espressione, costruendo a loro

volta le proprie identità professionali.

Il processo di negoziazione dei significati di azioni ed eventi (a volte

conflittuale) riposa ‒ oltre che sui diversi discorsi di cui ognuno è portavoce ‒ anche

sulla diversa prospettiva “temporale” con la quale si guarda una data situazione

presente in cantiere: ad emergere è la dimensione di costruzione della sicurezza che si

esplica in un processo costante di negoziazione e mediazione tra le diverse parti in

gioco riguardante il che cosa si fa e il come lo si fa.

Durante le visite di controllo formale46 dei collaboratori del Coordinatore, in

particolare, è possibile osservare questo processo.

“Alla fine di un giro di controllo, l’assistente e il collaboratore sono arrivati in

un’altra area del cantiere, separata da quelle precedenti. Quando arriviamo, Maurizio

Sicurezza, il collaboratore del Coordinatore, inizia a brontolare che sta già vedendo delle

46

Esistono anche dei controlli “informali” (come li ha definiti uno dei collaboratori dello stesso Coordinatore) in cui il collaboratore fa il suo “giro” perché si è trovato a passare da lì, anche se non era “prevista” la sua visita, ma non ha intenzione di annotare nulla (a meno che non rilevi gravi mancanze) e non fare foto, almeno non consegnarle al suo responsabile. Anche queste sono occasioni per costruire insieme le pratiche della sicurezza e preparare il terreno ai controlli più formali. C’è un’alleanza che, in qualche modo, “salva” entrambe le posizioni, sia dei responsabili del cantiere (rispetto all’immagine che devono salvaguardare) che dei collaboratori del Coordinatore (nel sostenere la “sua” linea, anche se a volte può essere ritenuta troppo “intransigente”).

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cose che non gli piacciono “ah, ma allora devo proprio scrivere!”. Gli risponde

l’assistente “ma che devi scrivere, ma se stanno ancora lavorando, è normale che

la buca non è recintata per bene, dai su, ma se dobbiamo fare i puntigliosi, allora

..”, e Maurizio lo incalza “ma io adesso cosa devo fare? devo fare la foto, ma così

non va bene!”. Intanto che i due si confrontano, degli operai che stanno lavorando allo

scavo borbottano tra loro e chiosano “ma se devi guardare ogni singola cosa, allora

non lavoriamo più!” .. l’assistente è contrariato per quest’ultima affermazione, come

anche il collaboratore” (note di campo).

Il processo di negoziazione è costante ed ha luogo tutte le volte che i

collaboratori del Coordinatore entrano in cantiere con l’intento di controllare la

situazione dei cantieri.

“Il collaboratore per la sicurezza fa alcune foto e poi dice che non guarderà più

niente per oggi “oggi sono venuto solo per il pozzo!” [una parte del cantiere che nel

gergo comune indica l’area in cui sarà realizzato il pozzo, appunto, di areazione].

Andiamo un po’ più avanti nel cantiere ed il collaboratore per la sicurezza dice all’ASPP

di una delle ditte che sta lavorando nell’area che un suo operaio (che sta facendo i

micropali con un macchinario dotato di una lunga spirale con punta che perfora il

terreno) non indossa il casco (il casco, in effetti, è presente sulla scena, è blu ed è posto

sulla pulsantiera della macchina che l’operaio in questione sta manovrando) “eh, [nome

operaio] è recidivo, bisogna sempre dirglielo!”, risponde l’ASPP (comunque in

settimana, almeno al mattino ho notato che il casco lo indossa spesso). Il collaboratore

controlla anche una buca non recintata bene ed un’altra in cui l’orso-grill (la rete di

recinzione) è piegato verso l’esterno di una buca e avvisa che anche la recinzione di

questa buca va risistemata. L’assistente P. dice che è l’ennesima volta che ripete alla

ditta che si occupa dei servizi di sistemare le segnalazioni delle aree a rischio. Intanto il

collaboratore sta per fare la foto a quanto segnalato verbalmente, quando P. gli dice “Ah

[nome], ma non avevi detto che avevi finito di segnare, che dovevi vedere solo

quello?, dai, tanto adesso mi incavolo io con loro, gliel’ho detto mille volte e

siamo sempre allo stesso punto!!”. Prima di andare via, il collaboratore per la

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sicurezza vede che delle buche sono scoperte, l’ASPP gli dice che hanno appena gettato,

ma gli dà ragione che devono sistemare coprendo il foro per evitare che qualcuno ci

metta i piedi sopra. “Qui io vedo che c’è rischio d’inciampo! E non va bene!”, dice

il collaboratore per la sicurezza e chiama un operaio (che indossa un pezzo di stoffa blu

sotto il casco sempre blu). L’operaio sbuffa e dice sottovoce “ma s’è così, allora uno

non lavora più!”. Il collaboratore è infastidito da questa reazione “ma io non lo so,

prendimi in giro, dimmi “va bene ingegnere”, ma non mi rispondere così … già

faccio finta di niente! … mah!”. L’ASPP dice che, come è già accaduto con un altro

operaio, prenderà in disparte anche lui e gli dirà che non ci si comporta così “ora non

gli ho detto niente perché ci siete voi, ma poi come ho fatto con [cognome

dell’operaio] lo prenderò in disparte e gli dirò che non deve rispondere così!””

(note di cantiere).

Questi due stralci, riferiti a giornate e situazioni differenti, mettono in luce il

processo di negoziazione in atto ogni volta che c’è un controllo sulla sicurezza in

cantiere e sottolineano come l’esito della negoziazione sia sempre in bilico: la non

certezza del risultato dipende da tanti fattori che intervengono nell’azione (operai che

“decidono” di parlare, benché siano scoraggiati dal farlo dai loro responsabili;

reiterazione dell’inadempienza, ovvero il numero delle volte che è stato detto di

provvedere ad una stessa situazione; “l’ambiguità” della situazione, essere in divenire

oppure essere conclusa, per esempio).

Centrale è la negoziazione su “ciò che si vede”, l’oggetto dell’attenzione del

controllore è costruito nello stesso momento in cui è osservato nel suo contesto ed è il

frutto di un’intensa attività di negoziazione della “giusta” interpretazione da dare alla

situazione da parte degli attori in compresenza.

L’assistente, inoltre (come anche l’Addetto al Servizio Prevenzione e Protezione

nel secondo caso riportato) cerca di negoziare, per esempio, il ricorso all’uso delle

fotografie durante il controllo del cantiere. Secondo l’assistente, infatti, la foto ritrae

un momento “fisso” (l’istantanea, appunto) di una situazione che non è

rappresentativa del fatto che, in quel momento, il lavoro si sta compiendo e la

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situazione di “insicurezza”, quindi, è temporanea, non sussiste in quanto l’attività “di

messa in sicurezza” si sta realizzando (una situazione temporalmente in fieri).

Dal canto suo, il collaboratore per la sicurezza afferma che se lui arriva in

cantiere e trova una situazione di “non sicurezza dello scavo” lo deve “scrivere e

fotografare” (l’hic et nunc della situazione). Il confronto dura qualche minuto, i toni si

fanno seri e a tratti tesi, alla fine ognuno rimane della propria idea, mantiene la propria

posizione rispetto al “discorso” che sostiene, all’interpretazione di ciò che vede e

definisce in questo modo la propria identità proprio in base a queste negoziazioni47, e

al rispetto o meno delle norme e alle loro concezioni della sicurezza, cercando però di

trovare un punto di mediazione che rappresenti un giusto compromesso tra la

necessità di “fare il proprio lavoro” ‒ dunque segnalare una mancanza o inadempienza

‒ e le “ragioni” dell’altro, l’assistente, che evidentemente instillano qualche dubbio.

Il dubbio è frutto proprio della diversa “idea” di sicurezza, “oggettiva ed

evidente”, nel caso del collaboratore del Coordinatore, “processuale e dinamica”, nel

caso dell’assistente. Quest’ultimo, infatti, benché sia probabilmente sprovvisto di un

“linguaggio prossimale della sicurezza” (Nicolini, 2001), esprime chiaramente la sua

difficoltà nel riconoscere una data situazione come “oggettivamente” non sicura, in

quanto parte di un processo che è in divenire e che ha bisogno di essere inserito nel più

ampio processo di “messa in sicurezza” che richiede diversi passaggi di traduzione in

pratica della sicurezza, compresa quella di traduzione delle norme che comunque

fanno parte del contesto cantiere.

La posizione dell’assistente di cantiere, dunque, non è solo motivata dalla

necessità di evitare richiami e sanzioni, ma anche da una più “concreta e pratica”

conoscenza dell’attività di lavoro che ha luogo all’interno del cantiere e che solo il

contatto diretto con il campo e gli operai che in esso lavorano gli permette di avere.

Dopo aver trovato una soluzione, seppur provvisoria e da ri-negoziare nella

prossima occasione, l’assistente torna a parlare con gli operai della ditta che stanno

lavorando allo scavo e che prima hanno espresso il loro disappunto per i controlli. In

47

Per dovere di cronaca, il collaboratore alla fine decide di fare la foto e di riservarsi la possibilità di scriverlo nel rapporto e di farlo vedere al Coordinatore per la sicurezza. Si ritorna in ufficio e il collaboratore scrive le diverse annotazioni “negoziate” durante il giro di controllo.

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occasione di queste visite, infatti, è molto frequente che gli operai, oltre a borbottare

qualche “parola di troppo”, chiedano ai collaboratori del Responsabile dei lavori o del

Coordinatore per la sicurezza di “chiudere un occhio”48, di soprassedere su cosa e come

vedere (Goodwin, 2003) in cantiere. L’assistente, però, rimprovera gli operai la frase

espressa in presenza del collaboratore della sicurezza, soprattutto per il fatto che il

collaboratore al quale hanno detto quelle cose, “è una persona tranquilla, con cui ci si

può parlare e che se volesse potrebbe davvero rompere le scatole a tutti”.

L’assistente dicendo ciò, si riferisce al fatto accaduto poco prima in cui uno

degli operai non indossava il casco (cosa che ricorre spesso). Il collaboratore però,

benché glielo avesse fatto presente, ha “chiuso un occhio”, soprattutto dal momento

che gli operai stavano lavorando a cielo aperto e non vi era alcun rischio imminente,

sebbene vi sia l’obbligo di indossarlo una volta entrati in cantiere. Inoltre, è

interessante notare come gli stessi collaboratori attuino un’ulteriore mediazione tra la

posizione più intransigente del Coordinatore e la situazione trovata in cantiere. Il

collaboratore è un “alleato”, nonostante il diverso punto di vista, ma occorre

“tenerselo buono” (come mi confida l’assistente di cantiere e come ricorda anche ad

alcuni operai), ovvero instaurare un rapporto di fiducia e di rispetto reciproco.

L’assistente di cantiere, dunque, svolge ‒ accanto al lavoro di articolazione

(Corbin, Strauss, 1993) (§ 4.1.2) ‒ anche un “lavoro di relazione” (Gherardi, 1990) che

ha l’obiettivo di mantenere e riprodurre la socialità quotidiana (Goffman, 1969) e i

rapporti con coloro che hanno l’interesse comune a “costruire la sicurezza” in situ, nei

singoli cantieri, dimostrandosi comprensivi delle eventuali difficoltà che possono

presentarsi nel rispettare le norme e nell’integrare i “nuovi artefatti” ‒ anche se in

realtà molti degli attrezzi che oggi svolgono una funzione intermediaria per veicolare la

sicurezza appartengono già al cantiere (gli stessi Dpi, ma anche le “semplici” transenne

o i pezzi di legno)49.

48

Dell’importanza della dimensione “visiva” si dirà nel prossimo capitolo (§ 5.2.3.1). 49

In effetti, va sottolineato, che in molte situazioni, per “fare sicurezza”, bastano davvero “semplici” attrezzi: i pezzi di legno da impiegare per coprire delle buche nel terreno; le transenne da fissare tra loro per recintare l’area dei lavori o uno scavo; l’uso delle reti metalliche (orso-grill) in maniera prevista dal costruttore, ovvero bloccandole una all’altra e utilizzando i “pani” (blocchetti di cemento

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Oltre a tessere le relazioni con i diversi attori che si avvicendano sulla “scena”,

infine, il lavoro che i responsabili dei cantieri della CortemSpa svolgono è anche quello

di “annodare le fila” (knotworking, Engeström, 1999), ovvero fissare ‒ propriamente

annodare ‒ le relazioni, al fine di renderle durevoli, anche attraverso l’uso di

documenti e artefatti vari. Quest’attività si basa sul “sapere pratico” posseduto da chi

interviene nel risolvere una data situazione problematica e appreso, dunque,

attraverso la pratica. In questo caso, infatti, “annodare una relazione” con il

collaboratore del Coordinatore rappresenta un’opportunità di “disporre” di una

persona che ha un tipo di sapere pratico sulle normative, possiede cioè delle

conoscenze che gli permettono di tradurre “in pratica” le indicazioni da seguire,

adattandole alle diverse situazioni e, soprattutto, nei casi di ambiguità delle norme.

Ciò vale soprattutto in relazione alla preoccupazione da parte dei responsabili

di cantiere di non incorrere in sanzioni. Confrontarsi con il collaboratore del

Coordinatore implica in un certo senso “mettersi al sicuro” da interpretazioni che

possono essere differenti da quelle “richieste” per esempio dallo stesso Coordinatore,

ma che non necessariamente rappresentano un’adeguata interpretazione della

situazione, come il caso del vedere la situazione rischiosa come temporanea, poco

sopra raccontata, mette in luce.

Spesso, infatti, gli assistenti, trovandosi in difficoltà ‒ o per esperienza ‒

cercano il confronto con il collaboratore, ma anche con il Coordinatore e con i tecnici

del CTP, su interpretazioni controverse, argomentando la loro perplessità e soprattutto

mettendo in luce le contraddizioni contenute a volte nelle norme stesse (per esempio,

rispetto a ciò che non è espressamente vietato).

Un caso ha riguardato l’uso dei diversi tipi di ponteggio, la controversia sulle

altezze, su quali parti vanno inserite nel montaggio (con o senza parapetto di

protezione), sul perché ci siano diverse tipologie anche se l’altezza alla quale vanno

usati è la stessa (oltre i due metri). La risposta che l’assistente ha ricevuto una volta da

un tecnico del CTP è che intanto occorre seguire le istruzioni del produttore (il manuale

foderati di plastica rosso-arancio con due fori entro cui inserire i piedi di due reti affiancate) per tenerle stabili affinché non si rivoltino per terra o addosso a qualcuno “di passaggio”, solo per fare alcuni esempi.

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d’uso ‒ discorso tecnico e ricorso alla più o meno flessibilità degli artefatti) e poi loro si

riserveranno di valutare caso per caso. L’assistente che ha sollevato la questione, non è

stato soddisfatto della risposta ed ha evidenziato come spesso “tra la teoria e la pratica

ce ne passa!”.

Potremmo dire che i diversi contesti in cui le norme sono “progettate” e quelli

in cui sono “utilizzate” spesso hanno una tale distanza da rasentare l’incomunicabilità,

come se a contare fosse solo l’aver “previsto e normato” un qualcosa (oggetto,

situazione o altro) indipendentemente dalla sua applicabilità pratica in contesti sociali

differenti. E la gestione della sicurezza ha, a tutti gli effetti, la caratteristica di essere

un’attività e una pratica “problematica”.

Sempre in relazione al rapporto con i collaboratori del Coordinatore ed alla

pratica del controllo “negoziata”, occorre ricordare come ci siano anche casi in cui le

interazioni con i collaboratori del Coordinatore, ma anche con quelli del Responsabile

dei lavori, come l’episodio che segue mette in evidenza, sono più fredde e distaccate.

In questi casi ho osservato un processo in cui si “contratta al ribasso”, per riuscire a far

scrivere nel verbale meno “annotazioni” possibili.

Il minor numero di annotazioni corrisponde a due logiche diverse: una che fa

riferimento alla necessità di non ricevere richiami da parte del soggetto che svolge il

controllo (soprattutto nel caso del Coordinatore o del Responsabile dei Lavori); l’altra è

più propriamente una logica “pratica”. Non ricevere segnalazioni su ciò che va fatto in

merito alla sicurezza significa non dover “perdere tempo” a sistemare le inadempienze

segnalate nel verbale.

Nella logica della produzione, tali interventi per la sicurezza rappresentano un

ostacolo e una dilatazione dei tempi, per esempio di consegna dell’opera che, in un

sistema concatenato qual è quello della produzione di un opera di costruzione, porta

con sé un probabile aumento dei costi, dei tempi complessivi di consegna di parti più

generali dell’opera e un ulteriore rafforzamento delle modalità di svolgere il lavoro “in

urgenza”. E come un circolo vizioso, porta a un’organizzazione del lavoro i cui orari

estenuanti e, soprattutto, le cui modalità di lavoro scandite dall’urgenza portano molto

spesso alla deroga del rispetto delle norme di sicurezza e di qualsiasi condizione che sia

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basata su un’accurata previsione dei tempi di lavoro e sulla prevenzione di situazioni di

pericolo.

Là dove la sicurezza è considerata come un elemento “accessorio”,

“aggiuntivo” o da aggiungere alle modalità abituali di svolgere un lavoro per non

incorrere in sanzioni o eccessivi controlli, essa è al pari considerata una “zavorra”, un

elemento di cui disfarsi per alleggerirsi e lavorare più spediti verso i tempi di consegna

dell’opera.

Durante un giro di controllo svolto nella prima fase di accesso ai cantieri della

CortemSpa, in cui accompagnavo uno dei collaboratori del Responsabile dei Lavori, è

emersa proprio questa necessità di negoziare il contenuto dei verbali di segnalazione,

in quanto tutto ciò che viene annotato richiede che siano messi in atto degli interventi.

“Arriviamo in un’area del cantiere in cui è collocato un serbatoio di gasolio

utilizzato per rifornire i camion. Il collaboratore del Responsabile dei Lavori intende

segnalare sia la presenza che la zona dove è posto il serbatoio. Il collaboratore sostiene

che il serbatoio andrebbe posto in uno spazio in cui per 3 metri tutto intorno non ci deve

essere nulla, quindi in questo caso fa presente che le norme di sicurezza non sono

rispettate. A questo punto l’operaio spiega le ragioni per cui il serbatoio è lì, definisce

quel posto “zona morta”, ovvero un posto in cui non passa nessuno nelle vicinanze;

posto lì, inoltre, permette di avere una scorta di gasolio per almeno una settimana: “se

lo portate via diventa un problema perché bisogna andare a fare gasolio,

portando il camion, ma diventa complicato!”. L’operaio insiste nel chiedere che la

cosa non venga verbalizzata “se segnali, lo devo togliere! Tanto non succede

niente!”, si riferisce al serbatoio. Ma il collaboratore ribatte: “non succede nulla, ma

se succede? che facciamo se poi non l’ho segnalato?!”. Si accordano nel

verbalizzare che stanno eseguendo le operazioni per sistemare le cose, contrattano ancora

e l’operaio continua ad argomentare “è difficile che esplode un serbatoio di

gasolio!” [ … ]. Quando andiamo in ufficio per verbalizzare, il capocantiere continua a

ridere e scherzare e dice al collaboratore: “scrivi che è tutto a posto e via!”” (note di

cantiere).

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Ancora una volta l’accordo raggiunto permette di tenere in piedi una relazione

tutta da negoziare ogni volta. Un “ordine negoziato” (Strauss, 1978) che è sempre

molto precario perché in balia della volontà di chi controlla, sulla loro disponibilità a

“chiudere un occhio” e la possibilità di trovare una soluzione, seppur parziale e

provvisoria, che garantisca un minimo di “coerenza interna” al ruolo del “controllore”.

Nell’espressione del collaboratore della sicurezza: “non succede nulla, ma se

succede? che facciamo se poi non l’ho segnalato?!”, emerge la preoccupazione di

dover garantire la propria responsabilità, cercando di andare in contro alle esigenze

che “emergono in situ” dalle dinamiche (sociali e materiali) che caratterizzano la vita e

la gestione del cantiere50.

In questo caso, però, la richiesta di “non scrivere” un determinato

provvedimento, è motivata da una richiesta di maggior sicurezza. La disponibilità di un

serbatoio per il gasolio ‒ per esempio e benché sia posizionato in modo non sicuro ‒

rende più sicuro il cantiere, in quanto riduce la circolazione dei mezzi di trasporto nelle

aree popolate anche dagli operai. La contropartita, però, è che esso va tenuto in una

zona adeguata che garantisca, a sua volta, sicurezza.

La natura delle annotazioni, dunque, varia: dal non uso del casco, o delle cuffie

o dei gilet, da parte di qualcuno, ad un ferro sporgente non accuratamente “messo in

sicurezza”, ovvero coperto; da una recinzione da migliorare, ad un grembiule di

protezione non indossato da un saldatore. Vi possono essere anche annotazioni

relative alle modalità di gestione delle aree assegnate alle singole ditte, se, per

esempio, tale gestione può interferire e creare pericolo per gli altri.

Prima di concludere il paragrafo relativo alla figura del collaboratore del

Coordinatore per la sicurezza, occorre ricordare un’attività centrale, strettamente

legata alla sicurezza in pratica, prevista da tali ruoli e che è quella del coordinamento.

Un criterio, infatti, con il quale si gestisce la compresenza delle diverse ditte sul

50

Va sottolineato che nella negoziazione rientrano anche le abilità degli operai nel convincere e nell’argomentare che la loro pratica, che può essere non sicura dal punto di vista normativo, lo è nella pratica, nel proprio contesto di lavoro e permette un lavoro più veloce, più pratico ed anche più sicuro - evitare che il camion circoli in cantiere - e rientra anche la comprensione e sensibilità del “controllore” nei confronti di queste argomentazioni.

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cantiere è quello del “coordinamento”. Esso spetta al Coordinatore per la sicurezza in

fase di esecuzione e consiste in riunioni periodiche (ovvero tutte le volte che le

condizioni e la conformazione dei cantieri mutano) in cui i responsabili delle ditte

coinvolte e dei cantieri CortemSpa ricevono indicazioni in merito al coordinamento con

le altre ditte. Due i tipi di coordinamento: lo sfasamento spaziale e quello temporale.

Quello temporale implica che le ditte che devono lavorare nella stessa area, lo fanno in

tempi diversi, prima una e poi l’altra; lo sfasamento spaziale, invece, si ha quando le

due ditte lavorano in aree ben delimitate una dall’altra, nello stesso momento. Ho

avuto modo di chiedere ad uno dei collaboratori del Coordinatore per la sicurezza, in

quale caso si ha l’una soluzione e in quale l’altra.

“Beh, lo sfasamento temporale si attua quando una ditta per la

lavorazione usa la gru per trasportare del materiale, per esempio le barre di

ferro, e l’altra ditta non può lavorare nella stessa area, allora lavora dopo che ha

finito la prima; quello spaziale si ha quando possono lavorare nello stesso

tempo, ma occorre che delimitino bene la zona”. “Ma la riunione la decidete voi o

sono le ditte che ve lo chiedono, come funziona?”, chiedo io. “Dipende, in certi casi

siamo noi che la organizziamo, ma spesso sono le stesse ditte a chiedercelo,

perché devono fare lavori nella stessa area e quindi ci chiamano. Comunque, il

discorso vale per le affidatarie dirette, poi le ditte che affidano a loro volta sono

responsabili del coordinamento con le diverse ditte”, “a cascata, quindi”

suggerisco, “beh, sì, noi come CortemSpa non siamo responsabili nei confronti

delle ditte in subappalto, ma solo di quelle a cui affidiamo direttamente il

lavoro”. “Ma quali figure sono presenti alla riunione? Ci sei tu, c’è il capocantiere

CortemSpa e poi? …”, chiedo, “ e poi ci sono di solito i responsabili per la

sicurezza delle ditte interessate …”. “E quindi, l’oggetto della riunione in cosa

consiste nello specifico, cioè, cosa vi dite? Entrate nel merito proprio delle lavorazioni, di

come fare?”, “Beh, sì, ci si accorda su che tipo di coordinamento si deve fare, se

temporale o spaziale, per esempio su come si deve recintare l’area, cosa occorre

per la sicurezza e cosa di questo tipo”. Infatti in un verbale che ho letto, era riportato

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l’elenco delle ditte coinvolte nel coordinamento e per ciascuna vi era scritto quali

provvedimenti dovesse adottare” (note di cantiere).

Queste le mancanze quotidiane, quelle più delicate, annotate nei verbali e che

possono comportare il fermo dell’attività da parte del Coordinatore. Fanno riferimento

a situazioni diverse: scavi non accuratamente puntellati; aree non accuratamente

delimitate ed isolate; Piani Operativi di Sicurezza (POS) non “in regola”. Ed è proprio di

quest’ultimo caso che se ne darà un esempio nel prossimo paragrafo.

4.2.3.6 Tradurre per tradire: il POS

I POS (Piani Operativi di Sicurezza) sono un artefatto prodotto da ogni singola

ditta e per ogni singola attività (o insieme di attività che costituiscono una lavorazione

completa), scritto sulla base del PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento redatto dal

Coordinatore). Esso rappresenta la traduzione più vicina alla pratica dei dettami

normativi sulla sicurezza. Come ha raccontato lo stesso Coordinatore in merito alla sua

giornata tipo e alle sue attività, parte di questa giornata consiste nella valutazione (da

parte sua e dei suoi collaboratori) dei POS delle ditte:

“Nel contempo, ognuno di loro [i suoi collaboratori] ha verificato i Piani

Operativi di Sicurezza perché devono iniziare a lavorare, oppure le integrazioni

(una specie di allegati, specifiche tecniche, che vanno annessi al POS). Vedono questi

Piani Operativi di Sicurezza che io dico sempre che devono vedere con tanta,

tanta accuratezza, perché il Piano Operativo di Sicurezza è un’assunzione di

responsabilità da parte dell’impresa nei miei riguardi, su come devono fare i

lavori, e poi lo stesso Piano Operativo di Sicurezza è uno strumento di lavoro in

cantiere per poter eseguire i lavori secondo quanto io ho approvato e stabilito

unitamente all’impresa. Questo è un compito notevole perché non parliamo di

una sola paginetta, ma parliamo di elaborati, di diversi elaborati. Loro

guardano, ora c’è una certa esperienza, però comunque bisogna vederle. Mentre

gli adempimenti burocratici, gli allegati .. quelli si riescono facilmente ad

ottenere, non si riesce tanto facilmente ad ottenere le procedure di lavoro, ossia

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vedere esattamente, ossia le imprese non hanno quella cultura tale da poter

rappresentare compiutamente ed attentamente le procedure di lavoro. Il piano

di sicurezza in prima istanza non viene, il 99% delle volte, non viene mai

approvato, perché la cultura della sicurezza è una cosa carente, non c’è niente

da fare. Dopo di che mi danno queste integrazioni, le valuto di nuovo, perché i

miei collaboratori fanno, mi strutturano la pratica [la documentazione], però poi

vengono da me e vediamo i punti .. come stanno le cose. Non guardo agli

allegati, perché li faccio guardare a loro quello e va bene. Ma io cerco di capire

se il documento funziona, ossia se c’è scritto una procedura di lavoro che non ha

dei punti deboli. Perché io ritengo che il compito del coordinatore sia quello di

dare delle indicazioni, ma certamente non può essere presente su tutti i cantieri

perché si sovrapporrebbe al Direttore del cantiere o capocantiere. È una figura

che si mette a metà strada tra gli ispettori della Asl e i vari responsabili del

cantiere” (CSE).

Cercando di entrare nello specifico di una situazione, ho sollecitato il

Coordinatore a raccontarmi un episodio particolare che mi facesse capire in concreto

come e in cosa consiste la sua attività, con quali parole e quali criteri svolge i controlli

delle ditte e dei loro artefatti (il POS, in questo caso).

“Io avrei dovuto solamente valutare, allora il caso pratico è che io ho

detto ai datori di lavoro delle varie ditte o ai loro Responsabili del Servizio

Prevenzione e Protezione (RSPP): “guardate, non mi potete fare un piano

operativo di sicurezza stando seduti dietro alla scrivania, andatevi a fare i

sopralluoghi, vedete tutte le condizioni a contorno, perché qui voi mi avete

indicato delle cose che non sono fattibili! Portate l’omino là sopra con la cintura

di sicurezza andate fino ad un certo punto di distanza da dove è vincolato, con

questo sistema, con questa attrezzatura, non si può fare questa lavorazione”.

Allora, li ho rimandati via, gli ho detto “studiatevi bene il problema e dovete

fare tutto il procedimento di esecuzione, fatevi mente locale, tanto le persone

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esperte siete voi, io sono solamente una persona al di fuori che magari può

avere un po’ di esperienza, però voglio che gli input me li diate voi”. Loro mi

hanno spiegato determinate cose, l’impresa (intendendo il proprietario o l’RSPP

della ditta) risponde “ingegnere è più facile venire e andarle a fare sul posto che

scriverle queste cose!”, allora io gli ho detto (sempre riferendosi al suo interlocutore

che rappresenta la ditta esterna che dovrebbe lavorare nei cantieri della CortemSpa)

“allora lei non lavora!” perché se voi non mi date un documento che funziona,

nelle varie fasi esecutive e che io mi rendo conto e mi convinco dal documento

che il personale è sempre completamente protetto, qualsiasi lavorazione stia

facendo per questo tipo d’intervento, Voi il Lavoro Non lo fate! Se non mi

convinco di questo, voi il lavoro non lo fate!” (CSE).

Lo stralcio presentato contiene alcune parole chiave che ben evidenziano la

visione ‒ e le relative pratiche discorsive (Goodwin, 2003) ‒ che il Coordinatore ha della

sicurezza, tecnica e normativa al tempo stesso. Quando parla di “cultura della

sicurezza” che manca, è possibile ipotizzare, invece, che si tratti di quel “sapere tacito”

di cui parla Polanyi (1980) e che ben evidenzia la dimensione pratica, esperienziale del

sapere e della conoscenza acquisita sulle lavorazioni e, di conseguenza, sulla sicurezza.

Il non essere in grado di “poter rappresentare compiutamente ed

attentamente le procedure di lavoro” ha radici tanto nella mancata “pratica” di

rappresentazione “nel testo scritto” di quello che durante l’attività lavorativa si fa ‒

dimenticando che “fare è pensare” come invece ricorda Sennett (2008) ‒ quanto nella

dimensione tacita ed estetica (Strati, 2000) del sapere pratico alla base del proprio

mestiere (§ 5.2.2). Le espressioni “è più facile andare a farlo sul posto che scriverlo”

oppure “portare l’omino là sopra con la cintura di sicurezza” esprimono proprio la

dimensione pratica e tacita del sapere posseduto dagli operai (e da molti piccoli

imprenditori) anche in merito alla sicurezza, la quale è qualcosa che si fa più che un

qualcosa di cui si possa scrivere (in questo caso doverlo riportare nel POS).

Lo stesso Coordinatore, nello stralcio riportato, ha difficoltà, a sua volta, a

raccontare “un caso pratico”, ovvero a descrivere in che cosa consista la sua stessa

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attività nella pratica, cioè cosa fa quando arriva sul cantiere e osserva, per esempio,

che “i pannelli che stavano montando avevano delle difficoltà perché non riescono ad

andare da fuori per poter mettere i pannelli”. Questa parte del racconto non riesce da

sola a spiegare che tipo di difficoltà e, soprattutto, che tipo di lavoro gli operai stessero

svolgendo, a parte maneggiare dei pannelli. La razionalità che tanto lo contraddistingue

nel chiedere con forza il rispetto delle norme e la perfetta rappresentazione sulla carta

di ciò che fanno (sotto forma di pagine e pagine di elaborati), lo abbandona, lasciando

emergere quel “dato per scontato”, quel sapere tacito, difficile da esplicitare, sul quale

anche lui basa la sua conoscenza in materia di sicurezza. E questo lo si coglie quando

suggerisce ai suoi interlocutori di andare “sul campo” a verificare tutte le “condizioni a

contorno” per mettere a punto un POS che sia “fattibile”, come fa in prima persona

quando si reca in cantiere, a seguito delle disposizioni impartite,

“Per vedere anche se la procedura stessa fosse applicabile, perché in

effetti ogni procedura è una limitazione .. ovviamente, se uno limita il tutto, a

questo punto non si fa più [l’opera in costruzione], non faccio lavorare più

nessuno e siamo tutti più tranquilli” (CSE).

La conoscenza posseduta dal Coordinatore mette in luce proprio la “parzialità”

(nel senso di non completezza, ovvero di una parte) della sicurezza intesa

esclusivamente in termini normativi e tecnici. La dimensione non considerata, infatti, è

proprio la natura “situata” e “pratica” del lavoro più o meno sicuro, la natura collettiva

delle attività di cantiere quali “modalità socialmente riconosciute e sostenute del fare”

e di utilizzare (in maniera più o meno collaborativa) gli attrezzi del mestiere, compreso

l’uso competente degli stessi dispositivi di protezione.

A tal proposito, infatti, è spesso emerso come un “punto debole” di questo

artefatto (il POS) sia l’essere scritto attraverso la pratica del “copia e incolla”, immagine

mutuata dall’uso dei software di scrittura che agevolano la possibilità di “copiare” un

testo, o una sua parte, e farlo “circolare” come proprio. I piani operativi già approvati o

quelli predisposti per alcune situazioni - che comprendono specifici cantieri, attori,

materiali, attrezzi, conoscenze, relazioni e altro ancora - vengono “copiati” senza alcun

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adattamento alla realtà di cantiere alla quale sono destinati, generando confusione e

delegittimando in pratica lo stesso artefatto. È possibile, come si vedrà di seguito, che il

Coordinatore non ne approvi la “fattibilità”, comportando il fermo dei lavori o lo

slittamento dei tempi di avvio delle attività.

Un’altra conseguenza paradossale, inoltre, è quella riportata dal racconto di un

collaboratore del Coordinatore, in cui emerge come la circolazione di simili artefatti

“contraffatti”, in cui lo zelo del datore di lavoro è tale “da metterci dentro di tutto” ‒

per esempio misure di prevenzione non richieste dalle concrete condizioni di lavoro

come l’uso congiunto di “tutti i Dpi” ‒ si scontri con la realtà di cantiere che tale

documento è chiamato a regolare, procurando sia tensioni ulteriori (dato che la

relazione è di per sé conflittuale) tra gli operai e le figure preposte al controllo di

quanto i piani operativi prevedono51, sia chiedendo ai propri operai di adottare delle

misure preventive che limitano la loro libertà d’azione, con conseguenze che

potrebbero essere anche negative.

Questa “pratica” crea anche un’ulteriore insofferenza nei confronti dei già

tanto contestati Dpi. Infatti, così facendo, si rischia di vanificare il valore preventivo e

protettivo che gli stessi ‒ in condizioni “di laboratorio”, ovvero secondo le intenzioni di

chi le ha progettate ‒ “dovrebbero” avere quando sono “calati” nelle realtà di cantiere.

L’operaio che non trova confortevole svolgere la sua attività lavorativa indossando il

casco, perché scomodo (crea calore, ecc.) ‒ e dovendolo indossare lì dove non ce n’è

bisogno perché non si corre alcun rischio di cadere dall’alto o di avere sulla propria

testa carichi pendenti ‒ potrebbe trovarlo talmente fastidioso da non indossarlo

proprio in quelle situazioni in cui, invece, quei rischi li corre.

Nella fase di “traduzione” delle norme, il POS ‒ in questo caso come artefatto

creato ad hoc in un altro contesto ‒ identifica il rispetto della normativa con “il

prodotto” creato che però, in alcuni casi, può essere una copia: una “traduzione” intesa

come “trascrizione”, scevra da qualsiasi interpretazione o adattamento alla realtà alla

51

Si sta parlando di una situazione in cui il piano sia stato approvato. Va da sé che un eccesso di “prevenzione” difficilmente provocherà la bocciatura del documento da parte del Coordinatore per la sicurezza. I problemi, però, sorgeranno nel passaggio successivo, ovvero dal tavolo del Coordinatore al cantiere, quale “provincia finita di significato” (Schütz, 1979) e, dunque, dotata delle sue regole e delle sue relazioni materiali e sociali.

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quale è destinato (senza essere contestualizzato). Nella fase successiva di traduzione

del POS in pratiche di lavoro sicure (o presunte tali), però, il documento rischia di non

“funzionare”, in quanto privo della conoscenza del suo contesto d’uso, ovvero del

contesto di destinazione.

“Il collaboratore per la sicurezza e l’assistente di cantiere chiacchierano su una

situazione accaduta pochi giorni prima, in cui, per l’aver segnalato il non uso del casco

da parte di un operaio, “è scattata la lettera di richiamo e la multa!!”. Il collaboratore

lo ritiene un provvedimento “esagerato” e l’assistente gli chiede come mai sia accaduto.

Il collaboratore gli spiega che “Se nel POS è previsto che l’operaio indossi, per quel

tipo di lavorazione, il casco e altri dispositivi di sicurezza, deve indossarli

sempre!”. L’assistente ribatte che nel cantiere dove siamo non c’è poi così bisogno del

casco, in quanto il tipo di lavorazione che la ditta sta facendo, che consiste in iniezioni

cementizie nel terreno per consolidarlo, non occorre avere il casco, perché non si verifica

alcuna condizione in cui ne sia previsto l’uso. “Sì, ma se nel POS tu ci scrivi che

l’operaio usa casco, guanti ecc. ecc., allora se tu non lo indossi ecco che …”, dice

il collaboratore per la sicurezza, intendo dire che in un caso del genere s’incorre in

sanzioni. “Certo, se i POS si fanno copia e incolla, allora per tutte le lavorazioni

figura che ci vuole il casco!, è normale, no?!, col copia e incolla” (note di cantiere).

Questa, seppur semplificata, catena di traduzione, evidenzia le difficoltà che

emergono durante il processo di traduzione di una norma in pratica. In una realtà

complessa come quella dei cantieri è più appropriato parlare di “traslazioni multiple”

(Star, Griesemer, 1989), dal momento che sono coinvolti diversi attori e diversi “mondi

sociali”. Ad essere rilevante, entro tale prospettiva “ecologica” del processo di

traslazione, è riuscire ad interpretare come e cosa renda possibile l’azione collettiva

attraverso sfere d’azione che sono guidate da diverse visioni del mondo e diversi

sistemi di priorità (ibidem).

Tali difficoltà che coinvolgono gli attori e le loro pratiche, infatti, rischiano

soprattutto di vanificare quel processo di allineamento (Latour, 1993) tra diversi attori

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umani e non-umani che abitano i cantieri e che quotidianamente cercano di trovare,

nelle loro interazioni, un equilibrio seppur precario e in continuo cambiamento.

In questo quadro interpretativo, inoltre, la cooperazione non presuppone il

consenso (ed è ciò che sin qui si è cercato di evidenziare), necessita però di processi

comuni di comprensione (Star, Griesemer, 1989), altrimenti si corre il rischio di

amplificare l’incomunicabilità tra i diversi saperi e discorsi (normativo, educativo,

tecnico, economico, ma anche manageriale e operaio) che affollano i cantieri stessi e

portare ciascun attore a trincerarsi nelle proprie rappresentazioni della realtà e di ciò

che intende (e non intende) per sicurezza, riproducendo, di fatto, uno status quo che la

logica economico-capitalistica pretende sia mantenuto ‒ perché funzionale alla logica

della produzione in cui la sicurezza è vista principalmente come un costo ‒ e che non

permette alcun margine di intervento.

4.2.3.7 Anche gli operai chiedono sicurezza

Ci sono anche situazioni in cui sono gli stessi operai a segnalare le difficoltà

incontrate nello svolgimento delle loro attività e il far presente che ci sono delle cose o

situazioni “non a norma”.

La difficoltà, anzi impossibilità, di osservare direttamente gli operai al lavoro,

mi ha impedito di poter raccontare in maniera più puntuale le loro pratiche di lavoro e

le loro pratiche di sicurezza. Ciononostante, però, ho osservato le interazioni che gli

stessi hanno intrattenuto con l’assistente di cantiere, o con il capocantiere, durante

l’attività di shadowing di quest’ultimi, e ho riportato nelle note di campo alcuni episodi

in cui anche gli operai sottolineano le mancanze e, soprattutto, i paradossi dell’attività

di controllo sulla sicurezza.

Anche il caso in cui sono gli operai a richiedere un maggior controllo e rispetto

delle norme si caratterizza come un processo di negoziazione in cui sono gli operai,

attraverso il proprio capocantiere, a chiedere “maggior sicurezza”.

“Siamo nell’area più grande del cantiere, in mezzo a grosse macchine:

l’idrofresa, che ha un braccio lungo 37 metri, alle mie spalle, la gru di servizio, dinanzi a

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me che, in quanto a misure, non ha nulla da invidiare all’idrofresa, benché più bassa. La

gru è in funzione e sta scaricando le gabbie di ferro dal camion che le ha portate. Il

capocantiere della ditta che fa gli scavi, e che usa le gabbie di ferro (a forma di grandi

parallelepipedi), richiama nuovamente l’assistente di cantiere CortemSpa sul fatto che le

gabbie non sono poste correttamente e non possono essere scaricate in sicurezza. Il

camion trasporta quattro gabbie per volta, distese sul fianco più stretto. Per agganciarle

alla gru e poterle scaricare in cantiere, un operaio della ditta deve salire sulle gabbie

poste sul camion, rischiando di farsi male, agganciare il gancio della gru ad una gabbia

per volta. Una volta agganciata la gabbia, questa verrà sollevata dal camion e

direzionata verso terra. Una volta a terra, posta sul lato stretto, occorre capovolgerle e

posarle sul terreno dal lato più largo (successivamente, verranno saldate, riprese con la

gru e spostate dove devono essere stoccate se sono in anticipo rispetto alla lavorazione

oppure utilizzate per la costruzione dei diaframmi se sono in sincrono con la

produzione). L’assistente CortemSpa, in effetti, dopo aver fatto segno di usare la scala

per salire e scendere dal camion (e due operai la portano subito accanto al camion),

spiega che “noi non possiamo dire alla ditta che fa le gabbie come farle e come

trasportarle!”. Inoltre, fa capire che gli operai salirebbero comunque sul camion nello

stesso modo e ritiene che si siano impuntati su questa cosa. A questo punto interviene il

Direttore dei lavori del capocantiere che ha sollevato il problema e afferma in merito alle

difficoltà dei suoi operai “infatti, tu sei responsabile di te stesso, ma anche dei tuoi

operai e gli devi far mettere i Dpi, ma se tu non li metti sono solo caz. tuoi!”, dice

il direttore dei cantiere al suo capocantiere” (note di cantiere).

A testimonianza di quanto siano complesse le dinamiche e le relazioni di

cantiere, l’episodio riportato evidenzia un altro elemento che arricchisce il processo di

negoziazione: “la ripicca”. Ovvero si sono verificate spesso situazioni in cui la mal

digerita richiesta di indossare i Dpi, o di farli indossare ai propri operai, si è

“trasformata” in una richiesta di far rispettare le regole anche a coloro che, come già

ricordato, godono di una certa tolleranza.

È capitato più volte, per esempio, che quando l’assistente di cantiere ha detto

ad un operaio di indossare i guanti o il casco, questi abbia risposto frasi del tipo: “e a

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lui? Perché non gli fate mettere il casco?”, oppure “guarda quelli che non ce l’hanno!”

riferito al Dpi richiesto o comunque non indossato da altri operai, spesso di altre ditte.

L’assistente definiva queste risposte come un “eterno confronto con gli altri!”, dove

evidentemente la comunanza nel fare o non fare qualcosa li rende più coesi e meno

vulnerabili.

Le richieste di maggior sicurezza, dunque, come espressione di un potere che

non può essere esercitato in ogni situazione, se non come forma di ricatto che mette in

luce la “selettività” con cui vengono presi i provvedimenti (chi “rimproverare” e chi no;

in quale situazioni “pretendere” il rispetto della normativa e in quali essere “tolleranti”

e “chiudere un occhio”, per esempio), e di cui gli operai sono a conoscenza. Soprattutto

sono a conoscenza delle situazioni in cui è richiesto di “aderire” alle norme e quelle in

cui sono “legittimati” a derogarle, come i diffusi casi di lavori “urgenti” mettono in luce.

Gli operai, attraverso queste “sfide”, sembrano voler far presente ai propri

responsabili che anche loro hanno delle ragioni per non rispettare alcune norme o non

utilizzare i Dpi e, soprattutto, sono a conoscenza delle diverse modalità con cui si

avanzano tali richieste agli operai. Quest’ultimi, infatti, sono a conoscenza che si chiede

loro di derogare ad alcune norme per esempio nei momenti di maggior cogenza dei

tempi di consegna, come mi ha raccontato un operaio che le ha vissute sulla propria

pelle (anche se in altri cantieri, non alla CortemSpa): “la grande azienda non guarda in

faccia nessuno!”, contribuendo in questo modo a far saltare tutti gli accordi già instabili

per loro natura52. Racconta, infatti, di giornate di lavoro massacranti o della mancanza

anche delle più semplici norme di sicurezza (fa l’esempio dei gilet dell’alta visibilità che

non venivano usati, nemmeno di notte)53.

52

È il caso, per esempio, in cui un capocantiere può, a sua volta, non sopportare la pressione dei continui controlli e arrivare a sfogarsi dicendo che “non si può rompere sempre per ogni cosa, i lavori devono andare avanti … a volte si esagera!”. Lo stesso “stress” che colpisce gli operai, colpisce anche i loro responsabili e via, via salendo nella scala gerarchica (anche i Direttori di cantiere e, sopra di loro, i Datori di lavoro, per esempio, hanno manifestato spesso questa insofferenza), manifestando un costante lavoro svolto nel “mantenimento della facciata” o “controllo delle impressioni” (Goffman, 1969) in quanto sottoposti a richieste contraddittorie.

53 L’operaio sottolinea anche il fatto che molti degli operai che lavorano nei grossi cantieri e che,

quindi, lavorano anche in ditte di diverse dimensioni, abbiano per lo più la quinta elementare, sono pochi coloro che hanno un diploma (lui, per esempio) e questo, secondo il suo parere, influisce sulla capacità di “chiedere sicurezza”. In un periodo in cui “c’è carenza di lavoro”, gli operai sono posti sotto il ricatto di

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Un altro esempio di “sicurezza dal basso” è quello che fa riferimento a quanto

riferitomi ‒ in maniera molto breve e sintetica per paura di confidare al ricercatore

qualcosa che potesse mettere la propria organizzazione in una posizione “scomoda”54 ‒

da un RSPP di galleria durante un colloquio informale, tenutosi nel suo ufficio, in cui

chiedevo alcune informazioni in merito alla sua attività in relazione alle indicazioni

ricevute a seguito dei controlli del Coordinatore per la sicurezza.

“Il Responsabile racconta che, al di là delle richieste avanzate dal Coordinatore,

il suo interesse principale è quello di prevenire anche le possibili annotazioni che il

Coordinatore potrebbe fargli. La fierezza con cui parla del lavoro in galleria, come lavoro

molto particolare e poco conosciuto, soprattutto da chi svolge una funzione di controllo

sulla sicurezza in galleria, lo porta ad affermare che la sua attività lavorativa è diretta a

migliorare quotidianamente le condizioni di lavoro dei “suoi” operai. “Io stesso ho

progettato e apportato diverse modifiche alle lavorazioni, cercando di

rimuovere ulteriori rischi che gli operai potevano correre. Abbiamo modificato

alcune lavorazioni; per esempio abbiamo introdotto l’uso di una cintura di

sicurezza con assorbitore di caduta che permette di lavorare in sicurezza e senza

il rischio di rimanere appesi ad essa in caso di caduta e tante altre cose”” (RSPP di

galleria).

Quello che il Responsabile tiene a sottolineare è che, date le competenze e le

responsabilità in materia di sicurezza annesse al suo ruolo, la sua attenzione alla

sicurezza è costante. Ogni qual volta riceve un “ordine di servizio” e/o delle

“informative” emesse dal Direttore di cantiere ‒ anche in recepimento di linee guida

prodotte da vari enti istituzionali (ISPESL, INAIL, Regioni) ‒ lo “traduce” in pratica

attraverso modifiche delle procedure di lavoro, non entra troppo nello specifico, ma

afferma di aver predisposto degli appoggi da apporre dinanzi alle bocche dei pozzi di

perdere il lavoro qualora dovessero avanzare qualche richiesta eccessiva, “se non ti sta bene vai via” è l’espressione usata per descrivere la situazione.

54 Quello dei silenzi dell’organizzazione nei confronti del ricercatore è un tema già affrontato nel

Cap. 2, al quale si rimanda. Qui basti ricordare che questa forma di “reticenza” nei confronti dell’“estraneo” è una caratteristica che accompagna spesso la pratica dell’etnografia, almeno nelle sue fasi di approccio al campo. In questo caso, però, è anche il delicato tema della sicurezza sul lavoro ad aggiungere un ulteriore freno a raccontare la vita quotidiana di cantiere.

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areazione (costruzioni attraverso cui calano giù e tirano fuori la talpa per lo scavo), per

evitare che gli operai si sporgano o stiano in equilibrio durante le manovre di

spostamento della talpa. Anche il caso delle cinture con assorbimento di caduta

rappresentano un vanto per il Responsabile, in quanto è un miglioramento ulteriore a

quanto previsto dalla norma (ovvero l’uso delle cinture/imbracature per lavori svolti in

altezza). Tali miglioramenti sono, come mi racconta, anche il frutto della collaborazione

con gli operai, con la loro esperienza e le loro conoscenze delle lavorazioni che sono

molto particolari. Una parte degli operai sono ex minatori sordi, come li definisce lo

stesso RSPP, un’altra parte sono operai specializzati che hanno imparato il mestiere

“sul campo”. “Sono una piccola comunità conosciuta in tutta Italia”, dice, riferendosi al

fatto che sono circa 200 persone che svolgono i lavori di scavo con talpa meccanica in

giro per i cantieri di tutta Italia ed anche in Europa55.

Il Responsabile, dunque, avendo uno stretto rapporto con l’intera produzione ‒

l’attività di scavo in galleria è di diretta esecuzione della CortemSpa ‒ ha la possibilità di

recepire le richieste di sicurezza dei suoi operai, “studiare”, come dice, le diverse fasi

della lavorazione e “trovare” soluzioni “sicure”, ma “praticabili”, grazie al fatto,

soprattutto, di essere costantemente in cantiere e seguirne da vicino la pratica

quotidiana.

Le dinamiche sin qui evidenziate si riferiscono al rapporto quotidiano che lega i

diversi attori del cantiere agli operai e alle loro pratiche più o meno sicure. Accanto a

tali rapporti, però, ci sono anche i casi in cui la quotidianità è “turbata” dalla presenza

di figure “altre” rispetto al Coordinatore, ai suoi collaboratori e ai responsabili di

cantiere. Nel prossimo paragrafo, dunque, si darà conto di alcuni episodi che

riguardano le figure esterne del controllo sulla sicurezza.

55

La permanenza con gli operai in galleria è stata per me impossibile da ottenere, benché più volte richiesta, a causa di temporeggiamenti e non conferme di richieste di visite in gallerie. Sono riuscita ad osservarli poche volte, per breve tempo (anche se la permanenza in galleria ha richiesto ogni volta circa un paio d’ore, impiegate più nel tragitto di entrata e uscita che di osservazione degli operai). Il breve tempo trascorso in quell’ambiente, però, mi ha dato l’impressione di essere un lavoro molto interessante (anche se è definito da loro come “monotono” e “dove non c’è nulla di interessante, sempre la stessa cosa”) ed anche utile da poter osservare per cogliere meglio le pratiche della sicurezza che caratterizzano tale contesto.

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4.2.4 Controlli “esterni”: la messa in scena della sicurezza

In cantiere non vi sono soltanto controlli “interni”, ovvero svolti da figure

previste dalla legge e che fanno parte dell’organizzazione CortemSpa (§ 3.4.2). Ci sono

infatti anche le figure istituzionali come gli Ispettori del Lavoro56 e i Tecnici delle Asl,

che suscitano da parte degli operai del cantiere, e a volte anche da parte dei

responsabili di cantiere, risposte simili, nella logica, agli stratagemmi della vedetta o

della soffiata.

Quando arrivano i capicantiere e gli assistenti di cantiere che accompagnano i

controllori “esterni” (presenti nei singoli cantieri circa una volta al mese), gli operai,

oltre ad avvisarsi reciprocamente della presenza dell’“Asl” o degli “Ispettori”, adottano

un’ulteriore “tattica difensiva”: fermare lo svolgimento dell’attività oppure “mettere in

scena la sicurezza”. Le due tipologie ben ricordano gli “ingegnosi stratagemmi di

resistenza” raccontati da Linhart (1978) e a cui gli operai da lui osservati ricorrevano

per sottrarsi ai ritmi intensi di produzione di una catena di montaggio di automobili.

Anche in questo caso, nei cantieri infatti, si ricorre a “raggiri indispensabili” per

la sopravvivenza o la pacifica convivenza. Essendo questa tipologia di controlli

effettuata da figure “istituzionali” (e non organizzative come il Coordinatore o il

Responsabile dei Lavori, per esempio) che godono della fama di essere “non

discutibili”57, gli operai preferiscono fermare il lavoro che stanno svolgendo ‒ al

massimo “far finta di lavorare” (Goffman, 1969) ‒ o, in altre situazioni che potremmo

definire “superiori in visita” (Goffman, 1969), “rappresentare” il volere dei capi.

4.2.4.1 Quando gli operai decidono di fermarsi

La strategia più diffusa ‒ messa in scena anche come reazione alla mia

presenza in uno dei cantieri ‒ è quella per cui gli operai si concedono una pausa o si

56

Sul campo non ho avuto modo di osservare un Ispettore del Lavoro durante un giro di controllo, mentre ho assistito ad una visita di alcuni Tecnici di una delle Asl di Roma venuti per un controllo “delle carte”, ovvero della documentazione di tutte le ditte presenti, compresa la CortemSpa. In quell’occasione ho approfittato per chiedere ad uno di loro la disponibilità ad essere intervistato (cosa che in seguito ho fatto).

57 La definizione di “esterni” cerca di indicare proprio la “formalità” del controllo, svolto da figure

che appartengono ad Istituzioni “super partes” che seguendo la propria “visione del mondo” chiedono che la normativa venga applicata senza deroghe.

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fermano nello svolgimento delle loro attività, anche le meno impegnative. Ciò accade

soprattutto nelle situazioni in cui non conoscono i personaggi che, all’improvviso,

entrano in scena nel cantiere, o al massimo “fanno finta di lavorare”.

“È sempre così, quando c’è qualcuno che non conoscono, si fermano e

basta! Pensano sempre di essere in torto .. anche quando vuoi chiedergli

qualcosa, la prima cosa che ti dicono è “che cosa ho fatto?”58” (RSPP di galleria).

Mentre il Responsabile mette in evidenza la tendenza a “sentirsi sempre

colpevoli o in difetto” degli operai, dal canto suo afferma: “gli operai chiedono le cose

sempre nei momenti sbagliati!”. Questi momenti sbagliati, in realtà, sono “le persone

sbagliate”, ovvero le persone che non sono del cantiere.

In ambienti come i cantieri, ma anche gli uffici, c’è la tendenza a distinguere tra

le cose che devono sapere “gli altri” e quelle che devono rimanere solo in galleria, o in

cantiere. È quanto aveva già messo in evidenza Gouldner (1970) nella sua ricerca sulla

miniera di gesso: un forte senso di appartenenza e di squadra che porta a difendere

(anche dinanzi a sbagli) i “propri uomini” dal resto degli operai dello stabilimento e dai

loro capi; solo i diretti superiori degli operai della galleria potevano rimproverarli

(ibidem).

Per evitare, dunque, di incorrere in una qualche gaffe ‒ immagine costruita sul

senso comune e sul processo di tipificazione (Schütz, 1979) che vuole che gli operai non

rispettino le norme di sicurezza ‒ gli operai preferiscono simulare un momento di

pausa che, però, essendo conosciuto e riconosciuto da coloro che svolgono attività

ispettiva (un altro gioco di specchi potremmo dire), suscita in parte una situazione di

ilarità, ma anche di fastidio del tipo “siamo alle solite!”. In questo tipo di situazione,

infatti, si preclude ogni possibilità di confronto, di scambio e, per questo, di crescita e

58

Il Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione evidenzia, in questa occasione, anche il forte senso di appartenenza, di affiatamento e di collaborazione degli operai. Infatti, anche nella definizione dei turni di lavoro in galleria, per esempio, si “assecondano” le coppie informali di operai che lavorano insieme da tanto tempo. È la “fiducia”, il conoscersi e fidarsi dell’altro: “il fresatorista (colui che guida la fresa meccanica) e il suo assistente non si alternano mai con altri perché si devono fidare e sono affiatati tra loro”. Sono, dunque, lavori individuali dalla profonda componente collettiva, come si vedrà nel corso del prossimo capitolo.

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di definizione reciproca di un’identità professionale che può divenire più consapevole

anche dei propri limiti e differenze, oltre a non dare la possibilità di far circolare la

conoscenza sulla sicurezza e permettere che essa abbia un posto nelle pratiche.

Gli operai, però, si sentono tra due fuochi: da una parte gli esterni che notando

le loro pratiche quotidiane di lavoro (svolte secondo la modalità socialmente

riconosciuta dal proprio gruppo di riferimento e che potrebbe essere diversa dalla

modalità “sicura” richiesta dall’applicazione delle norme) e, non riconoscendole come

idonee, potrebbero oltre ad un verbale comminargli una multa (che solitamente paga

la ditta). Dall’altra, vi sono anche i propri superiori e, dunque, la paura di fargli fare

“brutta figura” o, comunque, di prendersi ugualmente una reprimenda per il

comportamento agito.

Salvo alcune eccezioni in cui qualche operaio si è distinto per la propria

professionalità (riconosciuta ed elogiata in primo luogo dai responsabili di cantiere

stessi), si avverte un distacco gerarchico, quasi di classe, tra la “massa” operaia e chi

comunque ricopre ruoli di comando. La sensazione che gli operai siano responsabili di

mancanze, di errori, di ritardi nella produzione, a volte si avverte in maniera molto

forte, non problematizzando i motivi che eventualmente, caso per caso, sottostanno a

quest’immagine di “pecore al pascolo” (come li ha definiti un capocantiere). Una

vecchia contrapposizione che si ripete, ma che non guarda (in generale, nel settore

edilizio) agli orari di lavoro spesso massacranti, ambienti di privazione culturale e

familiare, dove spesso gli affetti più cari vivono a chilometri di distanza e li si vede

anche dopo mesi, solo per fare qualche esempio.

Come direbbe Goffman (1969): “il far finta di lavorare, unitamente ad altri

aspetti del decoro nei luoghi di lavoro, viene generalmente visto come un particolare

fardello delle persone di umile condizione” (131), in questo caso in coloro che sono in

una posizione di subordinazione.

La loro rappresentazione della realtà di quel dato momento, dunque, non gli

dà altra via di scampo che immobilizzarsi, trattenere il respiro e sospendere qualsiasi

attività, anche se “fatta bene”.

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Ci si ferma ‒ o si fa finta di lavorare occupandosi di qualcosa per mostrarsi

indaffarati ‒ e si aspetta che il nemico vada via. Appena va via, si riprende a respirare.

Infatti, quello che si osserva in questi momenti, è come tutto si blocchi: il cantiere

diviene quell’istantanea precedentemente contestata perché non rappresentativa di

una realtà in divenire che permette di spiegare anche eventuali mancanze. Sembra che

nessuno respiri, qualcuno bisbiglia sottovoce, altri si scambiano occhiate per indicare di

mettere a posto “al volo” qualche situazione che è scappata dal “controllo per il

controllo”, ovvero dalla predisposizione della scena per l’arrivo del “nemico” o dei capi.

Quello della predisposizione della scena è un tema che accomuna in vario

modo tutti i tipi di controllo osservati sul campo. Di particolare interesse, però, è quello

al quale ho assistito durante una visita “ufficiale” di una delegazione di un Paese

europeo e di cui darò conto nel paragrafo che segue.

4.2.4.2 La “parata”

Prima dell’arrivo dei controllori “esterni” occorre “predisporre la scena” o la

“ribalta” (Goffman, 1969). Le situazioni conosciute come la “discesa dei capi” o

“superiori in visita” (Goffman, 1969) ne sono un esempio.

In realtà la “visita di controllo” non dovrebbe essere svelata ai cantieri, ovvero

nessuno dovrebbe sapere che “stanno arrivando!”, o almeno questa dovrebbe essere

la logica “a sorpresa” o “spot” che ispira i controlli dei tecnici o degli ispettori. Ma è

anche vero, però, che qualche “soffiata” arriva sempre, anche dai responsabili di

cantiere che avendo ricevuto l’avviso formale (magari dai propri superiori), fanno girare

la voce in cantiere ‒ come i capireparto di cui parla Goffman (1969) che, correndo di

qua e di là, avvisavano dell’arrivo del dirigente e incitavano gli operai a “darsi da fare

ostentando un’attività qualsiasi” (Goffman, 1969: 130). In effetti, ne va anche della loro

reputazione se qualcosa non va e per questo prima di avviare l’attività quotidiana del

cantiere, si “mettono a posto” un po’ di cose, come per esempio, si controlla che le

indicazioni segnalate la volta precedente siano state realizzate; si fa ancora più

attenzione alla pulizia del cantiere e ci si “munisce” di Dpi qualora qualcuno non li

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abbia. A tal proposito, infatti, i capicantiere che solitamente non usano con regolarità il

casco (davvero molto pochi), lo indossano.

Può capitare di tanto in tanto che in siffatti cantieri i “capi” dell’organizzazione

(i vertici della CortemSpa) vadano a vedere come stanno le cose in un dato cantiere o

accompagnino delegazioni di personaggi, loro corrispettivi di organizzazioni estere,

che, dovendo avviare una produzione simile nei propri Paesi, sono interessati a

conoscere qualcosa di più sull’uso di macchinari particolari o fasi di produzione o altro

ancora.

E qui che l’immagine ritorna prepotente, occorre sì offrire le informazioni che

altri progettisti, costruttori o imprenditori desiderano acquisire per avviare le proprie

future attività, ma occorre farlo dando “una definizione della situazione” (Goffman,

1969) non difforme dal fatto che un cantiere debba essere un luogo sicuro in cui tutti

indossano casco, gilet, mascherine per la polvere e tutto l’occorrente, come la

normativa prevede anche in Italia.

“L’allestimento della scena ha inizio sin dalle prime ore del mattino. Qualsiasi

attività passa in secondo piano, ma non quello della preparazione della ribalta: intanto

un’accurata delimitazione con il resto del cantiere; si sceglie l’area che solitamente

presenta un aspetto più curato di altre, con meno attività in svolgimento e la più neutra

e in ordine possibile ‒ sembra quasi di assistere ad un intervento chirurgico in cui si

ricopre il paziente con quei teli azzurri e se ne lascia scoperta solo la parte da sottoporre

ad intervento, da aprire e sezionare, creando e isolando una sorta di “pezzo” dalla

natura indecifrabile e impersonale, nulla che faccia pensare che appartenga ad un corpo

abituato a respirare. C’è un gran da fare, un’agitazione che percorre tutto il cantiere. Il

capocantiere dà ordine di sistemare l’area, i pannelli posti in bella vista sui quali

disporre in bella mostra i disegni dell’opera in costruzione, risistemare la breccia sulla

quale cammineranno “gli ospiti”, cercando di appianarla e di ricoprire la breccia sporca

di fango; occorre anche innaffiare affinché non si sollevi la polvere, ma quanto basta per

non creare nuovamente fango. Il capocantiere si dispera. I responsabili sono nervosi e

irritabili per un nonnulla, hanno le facce corrugate e tese, anche loro in effetti non

amano molto queste “deviazioni di programma” che, a loro dire, rallentano i lavori. Si

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lamentano come i “capi” abbiano due misure: quando si tratta di queste cose sono ben

d’accordo che l’attività si fermi; quando c’è qualche problema per cui si rallenta

l’attività, allora si incavolano di santa ragione. L’attesa si rivela propizia per

“spettegolare” un po’ sugli altri, almeno per allentare la tensione [in cantiere, come del

resto in ufficio, questo è un rituale attraverso il quale si esprimono critiche e prese in

giro clandestine dei capi]. C’è chi ne approfitta per raccontare eventi accaduti in passato,

magari legati a qualche personalità ora ai vertici, ma con la quale si è iniziato a lavorare.

Intanto gli operai vanno a destra e a manca quasi fossero mine vaganti. Il lavoro richiede

molte ore, occorre anche sistemare al meglio il retroscena, non si sa mai che gli ospiti

vogliano andare da qualche parte diversa da quella prevista. Nel frattempo si susseguono

le voci dell’arrivo dei visitatori, inizia il count down, ma alla fine arriveranno con

molto ritardo rispetto all’arrivo previsto e tutta la giornata è trascorsa a preparare una

messa in scena che avrà la durata di soli pochi minuti. Scendono tutti dalle macchine,

vestiti in giacca e cravatta, con le scarpe non antinfortunistiche, il casco in testa e i gilet

in bella vista. C’è anche chi fa le foto [sono dell’ufficio comunicazione della CortemSpa].

Tutti annuiscono e sorridono, la messa in scena è riuscita: la “parata” ha avuto luogo!

Ormai è ora di pranzo e non si può far aspettare gli ospiti per cui occorre terminare in

fretta la visita.

Dopo tutto questo aspettare, qualcuno dei responsabili si chiede se tutti questi

controlli non siano troppi!” (note di cantiere).

Lo stralcio descrive brevemente i momenti principali e le sensazioni respirate

da chi scrive in un’occasione così particolare come quella della “parata”. Sembrava di

essere in un grande carnevale, in parte anche con quelle “inversioni” di ruoli che lo

caratterizzavano nel passato. Sembrava di assistere ad una situazione surreale, “messa

in scena” è il concetto adatto per sottolineare la diversità di questa

“rappresentazione”, per certi versi anche un po’ caricaturale, rispetto alla vita

quotidiana: una rappresentazione nella rappresentazione, si potrebbe dire. “Il

sottoposto, infatti, può cercare di metter con tatto a suo agio «il pezzo grosso»,

simulando un genere di atmosfera a cui egli crede che il superiore sia abituato”

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(Goffman, 1969: 31). E per questo motivo si sistema addirittura il terreno sul quale essi

cammineranno.

Per gli operai, invece, questa è un’occasione per “dissimulare” le pratiche di

controllo (come lo è lo stare fermi o il far finta di lavorare), in un certo senso è come se

avessero i loro responsabili dalla propria parte, o meglio sono i loro responsabili a

trovarsi nella situazione in cui solitamente gli operai si trovano a seguito dei controlli

interni. Tutti concorrono ad una definizione della situazione che mette in scena la

sicurezza in maniera irreale e, per quanto sia diversa dalla realtà, impossibile da

sostenere. In effetti, la sensazione vissuta è data dal fatto di conoscere almeno una

piccola parte di quella quotidianità che la rappresentazione ha forzato. A stridere e

sembrare una forzatura, per esempio, è stato vedere molti operai indossare le

mascherine antipolvere che solitamente, ma non sempre, usano solo in luoghi chiusi in

cui si demolisce qualcosa o durante l’uso di sostanze particolari (ricorrendo, però, a

mascherine più adeguate).

La rappresentazione sembra essere riuscita, ma quello che mette in evidenza è

la natura di “costruzione sociale” che caratterizza questo complesso fenomeno. La

sicurezza come pratica socialmente condivisa e sostenuta, anche nelle

rappresentazioni, in cui si ha consapevolezza di un’altra idea di sicurezza che, per il solo

fatto di essere messa in scena, è diversa da quella praticata nella quotidianità del

cantiere.

L’osservazione dell’attività di lavoro che gli operai svolgono ogni giorno nei

cantieri, accanto all’attività di controllo dei responsabili di cantiere (capocantiere ed

assistente, ma anche RSPP di galleria) permette di far emergere un’altra realtà circa la

sicurezza. È qui ‒ tra martelli, ferri, casco, guanti, polvere, sole e pioggia ‒ che si coglie

il suo essere situata, tacita ed estetica nello stesso tempo, oltre alla natura codificata

che ha assunto in contesti diversi dal cantiere, si pensi ai testi di legge, alle

certificazioni, ai controlli, ai corsi di formazione, ai manuali e agli attrezzi progettati per

traslare questo tipo di visione.

Prima di concludere con la descrizione della tematica della messa in scena, e

più in generale con il racconto e l’analisi del sistema di pratica legato al controllo e alla

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mediazione della sicurezza sul lavoro, occorre far riferimento alla tipologia di controllo

“intermedia”, ovvero quello svolto dal CTP.

4.2.4.3 Il ruolo del Comitato Paritetico Territoriale (CTP)

Il Comitato è la figura con cui la CortemSpa ha stipulato un protocollo d’intesa

per la realizzazione di corsi di formazione/informazione e per lo svolgimento di

periodici controlli nei cantieri. L’obiettivo è quello di affiancare l’organizzazione

nell’opera di “traduzione” delle norme sulla sicurezza all’interno dei cantieri edili,

producendo in questo percorso diversi artefatti intermediari che incorporano la visione

normativa, tecnica e formativa della sicurezza.

In occasione delle visite dei tecnici del CTP, come ho avuto modo di osservare,

tutto il repertorio delle strategie in possesso degli operai (e “sfruttato” anche dai

responsabili di cantiere, come visto poco sopra) può aver luogo.

I tecnici del CTP, ogni quindici giorni circa, svolgono i loro controlli osservando

quanto fatto dalle diverse ditte per “rispettare” le norme di sicurezza e “mettere in

sicurezza” le aree di cantiere. Accanto alla verifica di eventuali segnalazioni sottolineate

in precedenti visite, si suggeriscono aggiustamenti “in corso”, durante il controllo.

L’atteggiamento dei responsabili del cantiere è alquanto collaborativo, le

indicazioni sono tenute in gran considerazione, anche se qualcuno lamenta ‒ come nei

confronti dei controlli esterni ‒ una carenza di conoscenza di alcune macchine usate in

cantiere, cosa che comporterebbe una richiesta di modalità di lavoro non sempre

rispondenti alla “pratica” seguita nell’uso delle macchine in questione. Di questo

parere è chi sostiene che i controlli “interni” siano più proficui in quanto sono svolti da

persone che conoscono gli operai, le macchine (comprese quelle il cui funzionamento si

apprende solo attraverso la pratica, come la “talpa meccanica”, per esempio) e le

modalità di lavoro richieste dalla particolare attività. A sostegno di ciò qualcuno ha

anche affermato che i controlli, per esempio, del CTP siano solo politici, ovvero

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stipulati, probabilmente, per sostenere quell’immagine di organizzazione impegnata

nella sicurezza59.

Il processo di negoziazione che ne scaturisce è del tipo “consulenziale”:

l’ingegnere del CTP che ho potuto osservare, infatti, ha dispensato consigli su come

migliorare le pecche rilevate durante il giro di controllo, adottando uno stile

“educativo”, caratteristico del discorso di cui si fa portavoce. Sembra dire quasi che gli

operai hanno tanto da imparare e le visite di controllo sono occasione per apprendere

qualcosa.

Quando arriviamo in una zona del cantiere in cui si stanno demolendo delle

pareti, l’ingegnere nota un operaio che è su di un ponteggio e gli chiede:

“Come l’ha montato quel ponteggio? … perché non ha messo i fermi?

Perché non ha messo le diagonali? Visto che deve lavorare in alto, non è meglio

che chiude tutto? E come scende da lì? Oggi è il primo giorno che sto qua … l’ho

trovato così! Risponde l’operaio” (Ingegnere CTP).

L’ingegnere del CTP gli pone delle osservazioni sotto forma di domanda, forse

anche per cercare di capire quanto sia a conoscenza delle normative, per esempio, sui

ponteggi che vanno montati rispettando le istruzioni previste dal costruttore (manuale

d’uso e conservazione) e utilizzando solo materiali che abbiano le certificazioni, ovvero

siano a norma. L’ingegnere, infatti, ha colto l’operaio in un’opera di bricolage, mentre

cioè si spostava con tutta l’impalcatura utilizzando la forza del braccio, trovando un

punto d’appoggio e trascinandosi un po’ alla volta con l’avanzare del lavoro60. I fermi di

cui parla, sono quelli che vanno inseriti in ognuna delle quattro ruote scorrevoli del

ponteggio. Inoltre, mancano le diagonali delle “facciate” più larghe che servono a dargli

stabilità. Infine, gli chiede come intende scendere, visto che non ha un appoggio.

L’operaio risponde, appunto, che è il suo primo giorno e che l’ha trovato in quel modo,

59

In questi anni, tra l’altro, sono molte le grandi e medie aziende che hanno stipulato protocolli d’intesa con il CTP, o con l’INAIL, o con altri enti che si occupano di sicurezza soprattutto dal punto di vista della “promozione di una maggiore cultura della sicurezza” e della formazione/informazione ad essa.

60 L’operaio è in realtà una persona che lavora in proprio, ritenuta molto in gamba sia dal punto

di vista professionale che umano e che era stato chiamato per svolgere un lavoro emerso negli ultimi giorni, come la rimozione dei dispositivi antincendio.

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cosa che ovviamente crea una duplice polemica: perché anche gli altri lavorano così? E

per quale motivo ogni singolo non provvede a sistemarlo invece di utilizzare un

attrezzo in modo improprio e che è stato arrangiato? Chiedendosi, inoltre, come mai

nessuno l’abbia notato prima.

Ciò è coerente con il discorso educativo che l’ingegnere del CTP sostiene: la

mancata conoscenza delle norme e il mancato rispetto delle stesse porta a lavorare

non in sicurezza.

Dall’osservazione diretta del campo, è emerso però come gli operai conoscano

le norme, abbiano frequentato corsi di informazione/formazione sulle norme da

rispettare in cantiere (“anche questo” fa parte del loro mestiere), ma è anche vero che

gli stessi operai sono spesso sollecitati a lavorare velocemente: più tardi, infatti, è

emerso che i resti del ponteggio erano chissà dove e che “per fare prima” lo si era

montato in quel modo. È la logica della produzione in urgenza e della sicurezza come

costo a prevalere in diverse situazioni concrete61 e a riproporre il paradosso circa la

scelta tra il lavorare in sicurezza o rispettare le norme.

Parlare di sicurezza richiede che si faccia riferimento ad una complessità che

non può essere ridotta ad una delle sue componenti. Occorre guardare alla sicurezza

come pratica situata e come competenza che si apprende nel fare quotidiano, che è un

fare anche e soprattutto collettivo, che si realizza anche attraverso il bricolage degli

artefatti o il raggiro di alcune norme d’uso, come si vedrà nel prossimo capitolo.

4.3 Riassumendo

Nel capitolo appena concluso ho presentato e analizzato l’oggetto della

presente ricerca: l’attività di controllo e mediazione della sicurezza, ovvero uno dei due

sistemi di pratica emersi dall’osservazione e, in particolare, dallo shadowing ad alcuni

61

Anche alla fine degli anni ’50, anni in cui Gouldner (1970) svolse la sua ricerca sullo stabilimento e la miniera di gesso, emerse con forza questa questione che ancora oggi sembra essere inevitabile. Benché nel suo caso il rispetto del sistema di prevenzione degli infortuni raccoglieva consensi sia da parte della direzione, ma ancor prima da parte degli operai, poteva accadere che gli operai accusassero la direzione di anteporre gli obiettivi della produzione al rispetto delle norme di sicurezza; mentre, nel caso contrario, erano gli operai ad essere accusati di pericolosa trascuratezza (anche se la dimensione informale del gruppo era molto forte e creava un senso “interno” di responsabilità sociale per la sicurezza, soprattutto in miniera).

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responsabili di cantiere. Tale oggetto, come più volte ricordato nel secondo capitolo

che racconta “la storia naturale della ricerca” (Silverman, 2002), si è imposto alla mia

attenzione durante la ricerca etnografica, rappresentando una parte delle attività di

cantiere che scorre parallela a quelle di costruzione.

Nel corso del capitolo, dunque, si è cercato di “narrare l’organizzazione”

(Czarniawska, 2000) del cantiere e, soprattutto, il fare sicurezza quotidianamente in

esso.

In apertura del capitolo ho rintracciato gli attori, le azioni e gli artefatti

principali che intessono insieme il tessuto della sicurezza all’interno del cantiere e gli

conferiscono la configurazione di cantiere più o meno sicuro.

Le attività di controllo e mediazione della sicurezza, inoltre, sono svolte da

attori eterogenei e con diverse modalità, cosa che mi ha permesso di evidenziare il

processo di negoziazione come centrale nelle interazioni tra il capocantiere, o

l’assistente di cantiere, e le diverse figure (interne ed esterne) che si avvicendano per i

vari controlli di routine. Ad essere negoziate sono principalmente delle situazioni che, a

seconda della “visione professionale” (Goodwin, 2003) che ciascun attore ha della

sicurezza, porta a “vedere” alcune cose piuttosto che altre, come gli episodi di messa in

sicurezza delle aree di lavorazione. In casi simili, per esempio, il Coordinatore per la

sicurezza, o i suoi collaboratori, ravvisano spesso situazioni di pericolo, mentre dal

punto di vista dell’assistente di cantiere, o di alcuni operai, esse sono da considerarsi

situazioni in divenire, ovvero legate al processo di messa in sicurezza dell’area in

questione e pertanto non sono da considerarsi come definitive.

Dall’interazione, dunque, emerge la dimensione collettiva e negoziata

dell’attività di controllo e il suo essere legata al contesto sociale e materiale in cui ha

luogo (Star, Griesemer, 1989). Ogni volta che la normativa in materia di sicurezza sul

lavoro è messa in pratica all’interno di un cantiere, infatti, ha inizio un processo di

traduzione che è collettivo (Latour, 1992) e che coinvolge attori umani e non-umani

(ibidem). Si parla di traduzione in quanto “in ogni fase di articolazione l’oggetto deve

essere tradotto da un mondo ad un altro” (Mongili, 2007: 13) e durante tale processo

subisce trasformazioni, anche impercettibili.

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L’analisi dell’attività di controllo e mediazione della sicurezza, infine, ha posto

le basi per l’analisi di due ulteriori tematiche ad essa legate e che fanno capo da un lato

al rispetto della normativa e, dall’altro, al non rispetto della stessa. Le dinamiche legate

a tali categorie saranno analizzate nel capitolo che segue.

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5. La sicurezza in pratica: rispetto e non rispetto della normativa

Il lavorare è costituito dall’azione nel mondo esterno

basata su un progetto e caratterizzata dall’intenzionalità

di portare a compimento lo stato di cose progettato

attraverso movimenti corporei

(Schütz, 1979: 186)

La seconda parte della storia che mi appresto a scrivere ha gli stessi

protagonisti incontrati nel precedente capitolo (Cap.4), la stessa “ambientazione” e un

uguale sguardo orientato alle pratiche di lavoro. Racconta di operai che lavorano in un

cantiere, che tutti i giorni cercano di “definire” e di “trovare un posto” alla sicurezza, di

praticarla e di dar voce al loro sapere tacito, estetico e pratico.

Nel precedente capitolo ho analizzato le pratiche di controllo e mediazione

della sicurezza, oggetto della presente ricerca. La pratica del controllo è il frutto di una

costante attività di negoziazione che assume le forme più diverse a seconda degli attori

che la svolgono. È il tessuto della sicurezza ad essere stato descritto e il carattere

situato del controllo. A seguito di ciò, sono emerse diverse “risposte” che gli attori del

cantiere hanno messo in scena: raggiri, sabotaggi, fermo delle attività, “parate”.

Ad essere emerso, inoltre, è il processo di traduzione (Latour, 1992, ed. or.

1989) delle norme in materia di sicurezza sul lavoro. Esse, infatti, possono essere

pensate come idee che viaggiano (Czarniawska, Joerges, 1995) e che si trasformano

passando da un contesto all’altro ‒ per esempio da quello istituzionale ai cantieri ‒ fino

a dar luogo ad un vero e proprio tradimento della norma o, più precisamente, di alcuni

dei suoi artefatti-intermediari (Callon, 1992), come il caso del Piano Operativo di

Sicurezza (POS) ha messo in luce (§ 4.2.3.6).

In questo capitolo, invece, saranno affrontate due ulteriori tematiche,

entrambe strettamente legate alle pratiche di controllo e mediazione della sicurezza

sul lavoro: il rispetto della normativa, da un lato; e il non rispetto della normativa,

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dall’altro. Centrale, dunque, sono la messa in pratica della sicurezza e le modalità con

cui le norme sono tradotte/tradite all’interno di un cantiere edile dagli attori che lo

abitano, dando origine a pratiche di lavoro più o meno sicure e in cui le norme possono

o meno essere rispettate.

L’etnografia e l’attività di shadowing, dunque, mi hanno permesso di osservare

due principali tematiche in cui si articola a sua volta “il rispetto delle norme”: la

sicurezza “reificata” e materializzata nell’“immagine” dell’organizzazione, da un lato, e

la sicurezza “addosso”, identificata con artefatti e/o Dispositivi di protezione, dall’altro.

Per quanto riguarda, invece, “il non rispetto delle norme”, l’osservazione sul campo ha

suggerito tre possibili chiavi di lettura: la pratica della spavalderia; il sapere pratico; le

pratiche di collaborazione e coordinamento.

5.1 Rispettare le norme: la sicurezza reificata

L’attività di controllo ‒ situata, negoziata, interpretata ed esibita ‒ ha messo in

luce anche lo sforzo da parte della CortemSpa di “mostrarsi” come organizzazione

attenta alle problematiche della sicurezza all’interno dei suoi cantieri. Questa

attenzione, dunque, si è manifestata attraverso la stessa attività di controllo svolta nei

cantieri in modo molto presente, come lo stesso Coordinatore per la sicurezza ha

ricordato, e nelle modalità di gestione dei propri capicantiere ed assistenti, o almeno di

quelli osservati.

Il periodo di osservazione sul campo, infatti, mi ha permesso di assistere a

diverse situazioni in cui, per esempio, il termine “sicurezza” veniva pronunciato in

maniera ricorrente. La mia presenza, inoltre, ed il fatto che ho reso da subito esplicita

l’intenzione di voler osservare le quotidiane pratiche di lavoro degli operai1 per cercare

di cogliere il posto della sicurezza, ha sollecitato i miei interlocutori a pronunciare

spesso questa parola e a cercare l’occasione per esprimere le proprie posizioni in

merito alla sicurezza, il motivo per cui spesso non viene realizzata (sottolineando in

1 Anche se poi tale osservazione è stata mediata dalla presenza delle diverse figure responsabili

degli operai impedendo, di fatto, una loro diretta osservazione.

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molti casi la negligenza degli operai o la mancanza di “cultura” della sicurezza da parte

degli imprenditori) o alla necessità di maggiori controlli per garantirla.

Paradossalmente, l’aver dichiarato di essere interessata alle pratiche degli

operai ‒ intento scontratosi poi sul campo con l’impossibilità di osservarli direttamente

(Cap.2) ‒ mi ha portato a concentrare l’osservazione sulle pratiche di controllo senza in

qualche modo “dare nell’occhio”, ovvero non preoccupare i “controllori” per l’esser a

loro volta “controllati”, ovvero osservati nello svolgimento delle loro pratiche.

Ancora una volta è la prospettiva della sociologia della traslazione

(Czarniawska, Hernes, 2005; Czarniawska, Joerges, 1995; Latour, 1993; Callon, 1986) a

esserci d’aiuto nell’esaminare che cosa accade nelle situazioni in cui le norme sulla

sicurezza sono tradotte in pratica come rispetto delle norme, quanto meno dalla parte

dell’organizzazione che ha il compito di realizzare un’importante nuova linea

metropolitana a Roma.

Traslare, ovvero tradurre in pratica, è la metafora che sin qui mi ha permesso di

guardare tanto ai processi interpretativi, quanto ai processi sociali e materiali che

fanno viaggiare il sapere e le idee (Czarniawska, Joerges, 1995) da un posto ad un altro,

ma anche da un soggetto e da una comunità ad un’altra, e li concretizzano in una

pratica situata all’interno di uno specifico contesto organizzativo2 (Gherardi, Lippi,

2002).

Il modello della traslazione, come suggeriscono Czarniawska e Joerges (1995) in

merito a come viaggiano le idee , può aiutare, a questo punto, a conciliare il fatto che

“un testo ha una sua natura oggettiva e allo stesso tempo può essere letto in modi

differenti * … +: sono gli individui, come fruitori o creatori, che infondono energia a

un’idea ogni volta che la traslano a beneficio proprio o di altri” (225).

La metafora del “viaggio”, dunque, esprime pienamente il percorso che il

concetto di “sicurezza sul lavoro”, e tutto il “pacchetto” normativo ad esso collegato,

compie da un dato luogo ‒ il livello istituzionale ‒ ad una concreta realtà lavorativa, il

cantiere in questo caso. Proprio come afferma Latour (1986) “la propagazione nel

2 Il contributo della sociologia della traslazione è già stato affrontato nei capitoli che precedono il

presente e ai quali si rimanda per un maggior riferimento (Cap. 1; Cap. 2; Cap. 3).

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tempo e nello spazio di qualsiasi cosa ‒ pretese, ordini, artefatti, beni ‒ è nelle mani

delle persone; ciascuna di esse può agire in molti modi differenti: può lasciar cadere la

cosa, modificarla. Deviarla, tradirla, aggiungervi qualcosa o andarsene” (in Czarniawska,

Joerges, 1995: 267).

Nel caso osservato, per esempio, l’attore CortemSpa ha tradotto le norme sulla

sicurezza reificando l’idea stessa di sicurezza ‒ nella sua immagine e negli artefatti della

sicurezza (Dpi in primis) ‒ se non altro come primo passo verso una più matura e

consapevole traduzione in pratica della stessa.

5.1.1 Esibire la sicurezza: l’immagine della CortemSpa

I cantieri osservati, va ricordato, non sono realtà isolate, bensì sono immersi in

una grande rete che li collega tra loro ed è l’organizzazione ‒ la CortemSpa, appunto ‒

ad unificarli sotto un’unica immagine. Sembrerebbe un’entità superiore, non è la

somma delle singole parti del cantiere e non perde occasione di affermare la sua

natura di Contraente generale dell’opera (Cap. 3). Una possibile chiave di lettura di

questo rimarcare la propria identità può risiedere nella forma “contrattuale” che lega

l’organizzazione alla realtà dei cantieri. Essendo Contraente generale dell’opera in

costruzione, infatti, ha la responsabilità di far realizzare un progetto ‒ la costruzione di

una grande linea di trasporto nella Capitale ‒ e per far ciò si avvale di una serie di

affidamenti (appalti e subappalti a cascata dalle ditte affidatarie) a ditte che si

aggiudicano le gare per l’assegnazione delle lavorazioni. Una parte di queste

lavorazioni, però, è rimasta in capo alla CortemSpa3. La responsabilità ultima sull’opera

è propria della stessa organizzazione.

In un siffatto contesto, ne consegue che l’attenzione all’“immagine” della

CortemSpa diviene baluardo da mostrare e proteggere allo stesso tempo. Attorno

all’immagine si è costruita una retorica, ovvero una “forma di rappresentazione del

reale elaborata dal vertice e trasmessa (imposta, proposta, negoziata) alla base”

(Battistelli, 2002: 29) e che viene ribadita in occasioni ufficiali e non.

3 A seguito della specializzazione e delle competenze possedute dalle società che costituiscono la

CortemSpa.

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Stessa sorte, in quanto strettamente connessa alla questione dell’immagine

dell’organizzazione, spetta alla tematica della sicurezza sul lavoro.

La CortemSpa, essendo sorta ed avendo aperto i primi cantieri proprio negli

anni più cruciali in Italia per la legislazione sulla sicurezza sul lavoro (a cavallo del

20074), ha fatto proprie le istanze di promozione di quella “cultura della sicurezza” che

ha riempito pagine e pagine di giornali e manuali, considerandola un proprio obiettivo

da perseguire.

Un primo risultato di ciò è lo stanziamento “di 347 milioni di euro per tutelare

tecnici e operai nei futuri cantieri, ovvero il 18% degli investimenti * … +, una

percentuale mai raggiunta in nessuna infrastruttura italiana * … +: l’obiettivo è quello di

ottenere tempi e costi certi ma anche sicurezza e qualità nei cantieri e per gli immobili

situati in prossimità degli scavi”5.

Questo è un esempio di come, attraverso l’intermediario “denaro” (Callon,

1992) si “trasli” sul campo una idea di sicurezza ‒ espressione del discorso economico,

ma anche tecnico ‒ in cui la stessa è vista come un costo oneroso per le aziende

(soprattutto per quelle di piccole dimensioni che non dispongono di un elevato

capitale) costi ritenuti, però, necessari per disporre di un “equipaggiamento” adeguato

(stabilito per legge e avente certi requisiti tecnici) per “mettersi al sicuro”. Questo,

dunque, nella doppia accezione di rispetto della normativa e di prevenzione degli

infortuni mediante l’uso dei Dpi. In questo caso, però, è la disponibilità di capitale da

investire “in sicurezza”, benché sia un costo oneroso, a permettere di esibire

“un’immagine” di organizzazione attenta ai problemi relativi alla sicurezza, come a dire

che “per la sicurezza non si bada a spese”6 e che si spenderà una parte del budget per

l’acquisto di quell’equipaggiamento tecnico che permette ‒ quasi in via esclusiva ‒ di

lavorare in sicurezza, almeno in fase di dichiarazione d’intenti.

4 Si veda Cap. 1.

5 Come dichiarato dall’Amministratore delegato di Roma per il Trasporto Pubblico, Il Messaggero

del 12 maggio 2005. Ovviamente occorrerà dimostrare l’effettivo importo speso per gli “oneri della sicurezza” a fine opera e valutare se la percentuale dichiarata sarà spesa o meno.

6 Ricordando, inoltre, come i meccanismi di assegnazione degli appalti sia “sensibile” alla quota

di denaro destinata alla sicurezza.

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Altre iniziative man mano messe in campo dall’organizzazione hanno

riguardato la stipula di accordi con diverse sigle sindacali (ANCE, AGI, ACER, FENEAL

UIL, FILCA CISL, FILLEA CGIL); di convenzioni con il CTP (Comitato Paritetico

Territoriale), per la formazione e l’informazione dei lavoratori e i sopralluoghi dei

cantieri, con i Vigili del fuoco (VV.FF) e il 118, per la realizzazione di corsi di antincendi e

di primo soccorso.

Tutte queste iniziative ‒ come i corsi di formazione, una capillare e quasi

quotidiana azione di controllo dei cantieri per il rispetto della normativa, un diffuso uso

dei dispositivi di protezione (sia “preteso”, ovvero richiesto con forza alle ditte, sia

messo a disposizione dei propri dipendenti nei cantieri), ed uso di centraline per un

costante monitoraggio del livello del rumore nei cantieri ‒ hanno permesso

all’organizzazione di seguire un certo iter che ha portato alla costruzione di

un’immagine di organizzazione “sensibile e attenta” nei confronti del tema della

“sicurezza sul lavoro” e della prevenzione degli infortuni, almeno dal punto di vista

della stessa CortemSpa.

In un certo senso, si potrebbero parafrasare le osservazioni riportate su un

articolo del 1975, a seguito di una ricerca sul sistema scolastico americano condotta da

Meyer e Rowan, esponenti della scuola neo-istituzionalista.

Dalla ricerca dei due autori, infatti, emerse che, poiché l’efficacia

dell’insegnamento sul futuro professionale degli studenti non poteva essere verificata

in modo diretto, era possibile dedurre che i criteri adottati (in sostituzione, dunque)

rispecchiavano soltanto le convinzioni socialmente prevalenti su che cosa fosse

l’efficacia formativa ‒ nel nostro caso la cultura della sicurezza sul lavoro e la sua

“efficacia”.

Il criterio per valutare la qualità e l’efficacia di una scuola, pertanto, non era

altro che il grado in cui essa si conformava al cerimoniale delle procedure stabilite per

onorare il mito di ciò che si riteneva la qualità e l’efficienza dell’insegnamento - ancora

una volta nel nostro caso, l’immagine di un’organizzazione attenta a “perseguire” la

sicurezza ed il rispetto delle sue norme.

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Ma se, come ricorda Bonazzi (2002), il cerchio si poteva chiudere dal momento

che ad una più alta conformità corrispondevano maggiori probabilità per la scuola di

ottenere sovvenzioni e riconoscimenti simbolici e per i suoi allievi al termine degli studi

di essere i più richiesti sul mercato del lavoro, per la sicurezza il discorso non è ancora

così “circolare”. Il meccanismo per cui quanto più una scuola si conforma ai criteri

prevalenti su che cos’è l’istruzione, tanto più il suo orientamento è giudicato giusto da

parte delle istituzioni operanti nell’ambiente; e quanto più è considerato giusto tanto

più viene premiato (Bonazzi, 2002), non regge al confronto con la sicurezza.

Il meccanismo, plausibilmente, può essere esteso anche alle grandi aziende

relativamente al tema della sicurezza, tanto più che vi sono sistemi premianti in questo

senso, come esempio valga la possibilità di partecipare alle gare per gli appalti pubblici.

Per la sicurezza sul lavoro vale, purtroppo, anche il contrario, ovvero il fatto che

se un’organizzazione, o azienda, non rispetta le norme sulla sicurezza, non si mettono

in moto meccanismi di “sfiducia” o di “messa da parte” o di “sanzione morale” della

stessa come forma di discredito (quello di impresa che non si preoccupa della sicurezza

sul lavoro). Anzi, la presenza di questo tipo di ditte è giustificato come un “così fan

tutti” che impedisce di creare un’area di aziende virtuose visibili che possa indurre le

altre ad “imitarle” (isomorfismo) e a non additarle, invece, come facilitate a far ciò

perché dispongono di capitale monetario da “spendere” in sicurezza, e diverso dall’idea

di investire che richiama una dimensione progettuale e di impegno7.

Quello che Meyer e Rowan osservano, sempre nell’articolo del 1975, è come le

organizzazioni operino in contesti altamente istituzionalizzati, i quali stabiliscono i

criteri di razionalità che le stesse organizzazioni sono tenute a rispettare per essere

giudicate efficienti (e che non necessariamente rispecchia l’idea di efficienza di ogni

singola organizzazione). Le pressioni che le istituzioni esercitano sulle varie

organizzazioni, quindi, generano fenomeni di isomorfismo (Cap. 3). Quello di “cultura

della sicurezza” rischia di diventare, accanto a più generali proclami sull’investimento

economico in materia di sicurezza sul lavoro, un mito razionalizzato (Meyer, Rowan,

7 Tanto più se vi è un Ministro dell’economia ‒ Tremonti ‒ che definisce la sicurezza sul lavoro

come “un lusso che non possiamo permetterci”, tratto da un articolo del Corriere della Sera on line del 25 agosto 2010.

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1995), ovvero “una credenza immaginaria resa plausibile da un discorso logico * … +

regole che sono legittimate dalla convinzione di essere razionalmente efficaci o

conformi ad un mandato legale” (Bonazzi, 2002: 113, corsivo aggiunto), come è

accaduto per esempio per la normativa sulla qualità totale.

5.1.1.1 Metterci la faccia: la “cultura della sicurezza” al vertice

Il messaggio che l’organizzazione sostiene è chiaro, come le parole dello stesso

amministratore delegato evidenziano:

“La sicurezza ha un riflesso immediato sul progetto dei cantieri …

dobbiamo pretendere che gli affidatari rispettino le norme sulla sicurezza … se

succede qualcosa, veramente perdiamo la faccia … non ci dobbiamo comportare

come imprese appaltatrici, ma come committente … dovremmo aumentare il

livello di guardia … se dovesse succedere qualcosa, dobbiamo essere apposto

prima con la coscienza, poi con le parti contrattuali”8 (Dirigente CortemSpa).

Questo a testimonianza del fatto che l’immagine di sé che la società ha deciso

di costruire ‒ non dobbiamo comportarci come imprese appaltatrici ‒ ha i suoi risvolti

proprio nella gestione dei cantieri e delle ditte (esterne) che in essi vi operano. La loro

posizione, inoltre, è anche l’espressione di quello che altrove è stato definito “discorso

economico sulla sicurezza” (Nicolini, 2001; Cap. 1).

Gli stessi attori osservati sanno che la “quota” investita per la sicurezza dei

dipendenti della CortemSpa, in termini di soldi destinati dal progetto per la costruzione

8 Questa affermazione l’ho potuta annotare durante una riunione sullo stato di avanzamento dei

lavori dell’organizzazione avvenuto in un periodo alquanto delicato per la stessa. In quei giorni, infatti, era stato mandato in onda al Tg Regionale, un servizio in cui degli operai erano stati ripresi in situazione di “scarsa sicurezza”. L’indignazione dell’organizzazione e dei responsabili della sicurezza era tanta, dando “la colpa” a riprese pretestuose e fatte “da angolazioni tali da mettere in evidenza cose che non ci sono”. Questa la giustificazione di molti dei presenti che, tra l’altro, ne facevano anche una questione politica. L’operaio in questione è stato allontanato dal cantiere e la ditta ha dovuto pagare una multa. Come si cercherà di evidenziare nel corso del capitolo, infatti, la sicurezza non è solo una norma dall’applicazione razionale, bensì un insieme di pratiche di lavoro quotidiano che portano ad un’attività lavorativa più o meno sicura.

Questo evento, inoltre, ci ricorda che “i politici insieme ai mezzi di comunicazione di massa costruiscono i problemi che esigono attenzione” (Czarniawska, Joerges, 1995: 231) e allo stesso tempo possono “nasconderli”.

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dell’opera alla spesa per gli “oneri della sicurezza”, rappresenta un punto di forza

dell’organizzazione nei confronti dell’opinione pubblica (istituzioni politiche e società

civile in particolar modo).

“.. Sono soldi investiti in sicurezza: è una novità!. Per entrare nel DNA di

chi opera in sicurezza bisogna dare formazione e cultura della sicurezza, i

sindacati ce ne danno atto, il CTP uguale, l’opinione pubblica non sa quanto

spendiamo!” (Ad CortemSpa).

Si sottolinea l’onere economico del sostenere una tale immagine e della

difficoltà a far arrivare il messaggio anche all’opinione pubblica, soprattutto quella

parte rappresentata dai futuri fruitori della stessa e che, a loro dire, vede solo i disagi

apportati dai lavori in corso. La necessità, in qualche modo, è di far “fruttare”

l’investimento economico in termini di consenso da riscuotere.

Il riferimento al DNA, infine, richiama l’intervento di un dirigente:

“È arrivato in Italia il momento di affrontare a livello globale il discorso

della sicurezza. È una questione psicologica, in Europa l’elmetto ecc. fanno parte

del DNA, anche nelle riunioni si indossano, noi lo viviamo ancora come un

adempimento … dal punto di vista della comunicazione è giusto, la CortemSpa

deve mantenere un profilo basso” (Dirigente CortemSpa).

La necessità di mantenere un “profilo basso” è una strategia proposta

dall’organizzazione per non attirare troppe attenzioni sul proprio operato e sulle

modalità di promozione della sicurezza nei propri cantieri, quanto piuttosto di

continuare a lavorare per rendere “visibile” un’azione continua ed attenta nei confronti

della sicurezza, come per esempio mantenere uno stretto contatto con il CTP o le

istituzioni dei Municipi del Comune interessati dalla presenza dei cantieri o attraverso il

coinvolgimento di alcune scuole pubbliche in progetti di conoscenza dell’attività della

CortemSpa.

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Benché l’intervento del dirigente auspichi un superamento della sicurezza

come adempimento ‒ ritenendola una questione psicologica ‒ nel prosieguo della

riunione si è a più riprese ribadita la necessità di intensificare “controlli e sanzioni”.

La dimensione del controllo come “garanzia” di un lavoro svolto in sicurezza, è

testimoniato anche in una riunione dei Rappresentanti per la Sicurezza dei Lavoratori

tenutasi nel luglio del 2008 e alla quale ho assistito. Uno dei Rappresentanti, infatti, ha

sottolineato che:

“Spesso si lavora in presenza di altre imprese, ma i cantieri, tutte le

lavorazioni sono svolte in sicurezza, abbiamo il massimo di controllo

giornaliero, ho fatto il corso del CTP, vengo coinvolto” (RLS).

Il controllo quotidiano, la frequenza di corsi e la partecipazione alle riunioni

sono ritenuti in grado di assicurare la sicurezza sul lavoro, in una dimensione normativa

che fa dell’attività di controllo e della formazione obbligatoria per legge un punto di

forza per far rispettare la stessa normativa.

Alcune pratiche organizzative della CortemSpa, dunque, possono essere viste

come una “risposta” al contesto politico-sociale entro il quale è immersa e che,

dunque, le richiede di assumersi la responsabilità dinanzi ad una questione di rilevanza

anche mediatica e di immagine, nei confronti della sicurezza sul lavoro. La CortemSpa,

dunque, richiede alle ditte che lavorano alla costruzione dell’opera di prestare

attenzione alla sicurezza e a sua volta cerca di veicolare un’immagine che sia anche da

esempio per queste stesse ditte e la renda ri-conoscibile nel più vasto campo

organizzativo in cui opera.

Un ulteriore impegno nei confronti della sicurezza da parte dei vertici

dell’organizzazione è testimoniato anche dal sito ufficiale della CortemSpa. Nel 2010,

infatti, anche sul sito è apparsa una sezione dedicata alla sicurezza sul lavoro nella

quale si ribadisce che “la sicurezza è la tua vita” e che “il benessere fisico e la vita degli

stessi lavoratori” sono temi importanti per l’organizzazione e per il Committente

dell’opera, ovvero Roma per il Trasporto Pubblico.

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Questo è quanto si può leggere all’inizio della sezione dedicata alla tematica

della sicurezza:

“Spesso l’abitudine e la nostra capacità di evitare il pericolo ci fanno

sentire protetti, una presunzione di sicurezza che, purtroppo, ci fa abbassare la

guardia. Per questo occorre una diffusione della Cultura della Sicurezza

Antinfortunistica. Se si abbassa l’attenzione facciamo male a noi stessi e

procuriamo danni anche ai colleghi. LA SICUREZZA E’ LA TUA VITA.

Lavorare in sicurezza è per tutti una garanzia: di qualità produttiva, di qualità

della vita e della vita stessa” (sito CortemSpa).

A colpire, però, è un’assenza piuttosto che quanto è scritto. Infatti, nello

stralcio citato e nell’opuscolo ‒ “La sicurezza è la tua vita. In cantiere gli errori si

pagano cari. Come difendersi dal rischio infortuni” ‒ allegato alla sezione9, emerge

ancora una volta come a guidare la politica di sicurezza sul lavoro dell’organizzazione

sia una visione normativa della stessa e, soprattutto, una concezione tradizionale di

“attribuzione” della colpa ai singoli individui che commettono “errori” e facendo dei

brevi cenni alla dimensione collettiva solo per eventuali benefici che se ne possono

trarre dal non “abbassare la guardia”.

È la stessa idea di “diffusione” ‒ alla quale è sottesa una concezione

positivistica e gerarchica del passaggio di un’idea da un luogo ad un altro (Battistelli,

2002), in questo caso della “cultura della sicurezza antinfortunistica” ‒ a mettere in

evidenza come la sicurezza sia considerata qualcosa che si possa “diffondere” o un

qualcosa di “dato ed oggettivo” che possa attecchire come fosse un post-it che ogni

lavoratore deve mettere addosso per lavorare in sicurezza.

L’idea della traslazione/traduzione, invece, richiama la natura situata e

contestuale della sicurezza e soprattutto il suo essere frutto di relazioni sociali e

materiali che richiedono alla stessa organizzazione di “mettersi in gioco”, dal momento

che spesso la logica della produzione prevale sulla “diffusione” della “cultura” della

9 L’opuscolo è stato distribuito per la prima volta in occasione della festa di santa Barbara del

2008 a cui ho preso parte e durante la quale ne ho preso visione e possesso.

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sicurezza (§ 4.2). Occorre sottolineare, inoltre, come la “diffusione” di nuove norme, e

più in generale delle idee, richiede una loro traduzione nei diversi contesti in cui

saranno applicate e spesso il risultato è un tradimento dell’idea originaria, dovuto al

fatto che esse andranno ad “incontrarsi” con le norme (anche tacite e informali) o le

idee già praticate nei diversi contesti destinatari degli interventi legislativi o dei

cambiamenti (amministrativi, organizzativi ...) più in generale, dando origine ad un

“prodotto” nuovo, situato e frutto di una costante negoziazione sul campo.

Emblematica la frase finale in cui la sicurezza è “garanzia di qualità produttiva”,

prima di tutto, poi di qualità della vita ed infine della vita stessa, anticipando in qualche

modo gli spot pubblicitari dell’ultima campagna lanciata ‒ a partire dal mese di agosto

2010 ‒ dal Ministero del Lavoro italiano dal titolo “Sicurezza sul lavoro. La pretende chi

si vuole bene” e dove sono raccontate alcune storie di lavoratori attraverso brevi

frame10.

Ad essere assente, dunque, è la dimensione organizzativa, di gestione della

sicurezza in “concreti” contesti di lavoro, ovvero nei cantieri stessi della CortemSpa. Ma

a mancare è anche la conoscenza e, forse meglio, la “consapevolezza” che la sicurezza

sul lavoro è un fenomeno dinamico, processuale, di costruzione quotidiana anche

grazie all’operato della stessa organizzazione, proprio attraverso i suoi capicantiere ed

assistenti, ma anche il Coordinatore per la sicurezza, per esempio (§ 4.2.3.4).

Considerando che, come sostengono sia gli etnometodologi che la

fenomenologia di Schütz (1979), nell’esperienza della vita quotidiana “seguire una

regola” non significa soltanto applicarla, ma fare come se la si seguisse, ovvero

costruirla, ricostruirla, razionalizzarla, renderla osservabile solo in alcuni contesti

limitati, come si traduce questa immagine in cantiere?

10

Uno degli spot inizia con la frase: “Quando lavori pensa a chi ti ama e attende il tuo ritorno”.

Poi compaiono le immagini di un agricoltore che solleva il figlio; un capocantiere che torna a casa dalla

famiglia; una giovane operaia che abbraccia il fidanzato. La scritta finale è a stessa che dà il nome allo spot:

“Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene”. Si rimanda all’Introduzione della presente tesi.

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301

5.1.1.2 Tradurre l’immagine della CortemSpa in cantiere

L’idea che i cantieri della CortemSpa abbiano un’immagine “da difendere” si

respira non appena si entra in contatto con qualcuno dell’organizzazione, non importa

che sia un dirigente o un capocantiere, la CortemSpa è diversa, “ha un’immagine da

difendere” (voci di cantiere).

L’osservazione sul campo e lo shadowing hanno permesso di ri-conoscere le

dinamiche attraverso le quali l’immagine dell’organizzazione circa l’impegno per la

sicurezza sostenuta ai vertici è traslata e tradotta all’interno dei cantieri, almeno di

quelli osservati.

È soprattutto nel rapporto con gli operai o i responsabili di altre ditte, in

particolare quelle di piccole dimensioni che lavorano in cantiere in regime di

subappalto, ad emergere la presenza di questa “immagine” che nella pratica si traduce

in modalità di lavoro differenti.

Anche in altri cantieri di responsabilità della CortemSpa è stata ribadita la

stessa cosa, esprimendo qualche preoccupazione per un’attenzione mediatica molto

forte: “qui siamo sotto gli occhi di tutti, ci fanno le foto dall’alto!!”.

Durante un giro di controllo in cui il capocantiere CortemSpa accompagna i

responsabili di alcune ditte di utenze in un’area del cantiere a loro assegnata, per

mostrare le problematiche create dalla loro presenza in cantiere, infatti, si innesca una

discussione il cui oggetto sono le modalità di svolgere un lavoro e l’impatto che queste

hanno sull’immagine dei cantieri.

“I toni sono subito accesi, al capocantiere M. non sta bene il modo di lavorare

della ditta, l’area è consegnata alla società che deve essere responsabile del lavoro. M.

afferma “l’area è tua, ma tu stai a casa mia e non lavorate come siete abituati,

siamo in centro, passa gente, si può far male e già una signora è caduta dall’altra

parte dove state lavorando voi. I lavori li fate voi, ma i reclami, le lettere

arrivano a noi, mica a voi o al Comune, dici tu, a noi!”, “ma allora è solo una

questione di immagine”, dice uno della ditta dei servizi, e M. ribatte “ma che

immagine, ma guarda in che condizioni è il cantiere, la fognatura era nuova di

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due giorni e l’avete rotta, di là non trovate le tubature, e su!, dai, può succedere,

per carità, ma se io vengo a casa tua faccio di tutto per non fare danni, almeno ci

metto il massimo dell’attenzione, voi invece … il problema è che questo è il

vostro modo di lavorare, voi lavorate così e non va bene, la recinzione non c’era,

io ho fatto le foto, ma mica perché voglio fare lo str…, ma perché è così che

lavorate! Così non si lavora!”. “Ma perché voi lavorate bene?”, dice il proprietario

della ditta a M. “No!” risponde M. e ribatte “ma che discorsi fai? Ti ripeto quello

che avete qui e a [nome zona] dove ancora non trovano i tubi!”” (note di cantiere).

L’attenzione sull’immagine è sottolineata anche dai responsabili delle ditte di

servizio (utenze), più sotto forma di “provocazione”, per “svelare” una “comunanza” di

pratiche ‒ secondo il loro punto di vista ‒ e una sorta di retorica utilizzata dalla

CortemSpa a difesa della sua immagine, indipendentemente dal fatto di perseguire la

sicurezza concretamente. Il capocantiere della CortemSpa rifiuta le “provocazioni” del

suo interlocutore e, in un secondo momento – in cui si verifica un altro caso di operai di

piccole ditte in subappalto che lavorano “in un certo modo” (non tenendo in ordine

l’area a loro assegnata, rompendo “artefatti” di cantiere come la fogna, e creando

situazioni di pericolo non solo per loro, ma anche per chi si trovi a passare nei dintorni

del cantiere, come il caso della signora caduta testimonia) ‒ approfitta della mia

presenza per esprimere le sue considerazioni, mettendo da parte la diplomazia usata

poco prima e sostenendo che sono le modalità di lavoro differenti ad essere il centro

della questione.

“Di ritorno dal confronto con il responsabile delle utenze, M. mi ribadisce il suo

concetto e la sua disapprovazione nei confronti del modo di lavorare di alcune ditte “io

non me la prendo con l’operaio, ma col capo suo, perché se uno è abituato a

lavorare e non esser zozzone, lo dice sempre ai suoi operai. Loro, invece, sono

abituati a lavorare così, a fregarsene, a non pulire il cantiere … è il loro modo di

lavorare!”. Arriviamo in cantiere e, anche qui, “il povero” M. deve riprendere altri due

operai, che lavorano per una società di telecomunicazione e che sono sui container “ma

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che stai facendo?, davanti a me non le fate queste cose, io sono il capocantiere

qua e “a casa mia” queste cose non le devi fare, qua non lavorate così. Vai là,

scendi con la scala, metti la scala di là e risali, se ti fai mali alla [nome di una delle

ditte che lavora in cantiere e che ha richiesto l’Adsl] non gliene frega niente, ma a me

sì, sei nel cantiere mio!”” (note di cantiere).

Gli stralci riportati contengono molti elementi sin qui discussi: l’esistenza di

differenti modi di lavorare; l’immagine che va rispettata in quanto foriera di un modo

di lavorare ritenuto sicuro e “giusto” ed uno ritenuto “non giusto” e non sicuro, che

possono portare (e portano come si coglie nel racconto) a lavori “fatti bene” e lavori

“fatti male”, evidenziando, così, una dimensione estetica della conoscenza (Strati,

2000; 2007; 2010); l’immagine del cantiere come “casa mia” in cui ci sono delle regole

e delle pratiche da rispettare, compreso l’uso degli attrezzi.

“Mentre seguo il capocantiere M., arriviamo in un’area in cui vi è un tir fermo e

degli operai che stanno lavorando allo scarico delle gabbie di ferro poste sul di esso. M. si

ferma all’improvviso, osserva velocemente la situazione, poi si dirige verso gli operai e,

intervenendo, spiega ad uno di loro: “usa la scala per salire, non facciamo le

scimmie! Prendi la scala, la poggi vicino al camion e fissi in questo modo”” (note

dal cantiere).

Quello del “lavorare bene” è un tema ricorrente anche in ambito formativo,

infatti su un libretto di informazione alla sicurezza, nelle “parole chiave” sul cantiere

troviamo quanto segue:

“Chi lavora bene lavora in sicurezza. Lavorare bene in edilizia non è

semplice: devi lavorare con attenzione, metodo e criterio, devi prevedere le

difficoltà del lavoro prima di farlo, devi lavorare presto e bene. Però se sei

attento a lavorare bene, sei anche attento a lavorare in sicurezza. Per questo ti

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invitiamo ad imparare nello stesso tempo a lavorare bene ed a lavorare in

sicurezza”11.

La parola “bene” ricorre per ben cinque volte, una delle quali è accostata alla

parola “presto”. Emerge una costante attenzione alla “logica di produzione” (Gouldner,

1970) ‒ ovvero lavorare in modo veloce, nel rispetto dei tempi e delle scadenze ufficiali

‒ ma anche il tentativo di veicolare la sicurezza come una “pratica” ed una

“competenza”, ovvero qualcosa che si fa mentre si lavora, anche in relazione ai

“compagni di lavoro”, infatti “la sicurezza di tutti dipende dal comportamento di

ciascuno” (ibidem).

La sicurezza e l’immagine della sicurezza messa in pratica dalla CortemSpa,

inoltre, è traslata negli ‒ e attraverso gli ‒ artefatti/intermediari che veicolano il

discorso normativo e tecnico, in particolare i Dpi.

5.1.2 Dall’immagine agli artefatti “sicuri”

Anche nei cantieri si avverte la presenza del pesante fardello dell’appartenere

alla CortemSpa: “noi abbiamo l’immagine!”, affermano i capicantiere e i loro assistenti.

Ma in cosa consiste quest’immagine in pratica?

La prima cosa che si nota appena si entra in un cantiere CortemSpa è l’essere

accolti dal capocantiere e/o da un assistente “vestiti di tutto punto”. Infatti, ad aver

colpito ‒ forse avendo più volte osservato altri cantieri in cui ognuno indossava i propri

abiti “da lavoro”12 ‒ è l’abbigliamento “di sicurezza”: scarpe antinfortunistiche; gilet o

bretelle o giubbotti ad alta visibilità (quelli giallo o arancio fluo) e, nella maggior parte

dei casi, elmetto. Questa, dunque, l’“immagine” che a primo impatto l’organizzazione

11

CTP, Regione Lazio, Edilcassa del Lazio, (2007), Costruire in sicurezza, Roma, Sapere 2000, pp. 34. È interessante anche la voce “Lavorare con metodo e criterio: farai prima. L’operaio esperto evita errori e perdite di tempo. Fa una volta sola e fa bene. Quando lavori con calma e prudenza produci di più e meglio di chi lavora in fretta, ma senza metodo. Lavorare con metodo e criterio vuol dire tenere ordinato il posto di lavoro, non esporsi a rischi inutili e prevedere i pericoli. Se conosci i rischi e i metodi per prevenirli, conosci veramente il tuo mestiere” (34), in cui ancora una volta si sottolinea la necessità di “produrre di più” e di essere un operaio professionale, ordinato, previdente, che lavora con metodo e fa “presto”, evitando i rischi inutili.

12 Come si è ricordato nel capitolo metodologico (Cap. 2), ho sempre visto ed ancora vedo in

alcuni paesi del sud d’Italia, ma non solo, la mancanza dell’uso di qualsiasi dispositivo di protezione, comprese le scarpe antinfortunistiche.

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dà ‒ e vuole dare ‒ di sé. Successivamente, però, subentrano altri elementi che

colpisco lo sguardo: i cantieri più o meno ordinati, ovvero le aree di lavorazione

delimitate, le aree di stoccaggio materiale anch’esse delimitate, pochi rifiuti in giro; la

presenza di capicantiere ed assistenti a controllare le lavorazioni; uso piuttosto diffuso

di dispositivi di protezione tra gli operai (delle altre ditte, quindi); figure che si

alternano nei controlli di routine.

Tutto questo concorda con la visione normativa della sicurezza, ovvero con

quanti affermano che la sicurezza si ottenga, principalmente, con il rispetto delle

norme che prescrivono, tra l’altro, le azioni poco sopra ricordate (ordine nel cantiere,

uso dei Dpi, controlli di routine).

Sembrerebbe di aver trovato il cantiere perfetto, ma come hanno sostenuto sia

un assistente di cantiere che un operaio: “non esiste il cantiere perfetto, non troverai

mai un cantiere in cui tutto è a posto!”. Quest’affermazione ci porta a guardare meglio,

più in profondità quanto accade quotidianamente in cantiere e cosa, per esempio,

viene “dato per scontato” (Garfinkel, 1967).

Nel processo di cambiamento in atto ‒ termine in cui può essere letta

l’emanazione e la richiesta di attuazione del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro ‒

quello che si avverte subito è come “le idee selezionate e coinvolte in una sequenza di

traslazioni ‒ la sicurezza nel nostro caso ‒ assumano attributi oggettivi quasi fisici: in

altre parole, diventano quasi-oggetti, e quindi, oggetti” (Czarniawska, Joerges, 1995:

232, corsivo aggiunto).

L’idea “sicurezza”, dunque, viene traslata in pratica attraverso una serie di

artefatti, prime fra tutti le norme, ma anche altri artefatti linguistici che sono usati

ripetutamente come etichette, metafore e luoghi comuni (ibidem), come accade anche

per il caso dell’immagine della CortemSpa.

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Anche il concetto di “cultura della sicurezza” è stato usato, ma anche abusato,

finendo con il trasformarsi in una “etichetta”13 o in un “luogo comune” difficile da

declinare e rendere “pratico”.

Riprendendo il contributo di Weick (1985) rispetto alla capacità delle etichette

di indirizzare l’azione, Czarniawska, Mazza e Pipan, nel loro lavoro sul Giubileo (2001),

ricordano che le etichette “sono spendibili nella gestione di situazioni ambigue * … +

perché selezionano rilevanti campi di conoscenza, apportano significati, permettono di

fare diagnosi e suggeriscono azioni appropriate” (122).

Dall’osservazione sul campo, infatti, è emerso come la “gestione” della

sicurezza sul lavoro sia alquanto complessa e richieda spesso di creare “etichette” che

permettano di rendere più gestibile alcune situazioni particolari. L’esempio legato

all’immagine dell’organizzazione, alla cultura della sicurezza da “diffondere” permette

di rendere “controllabili” situazioni per cui non si dispone di concetti adeguati a fornire

una comprensione a sua volta più adeguata della complessità del fenomeno sicurezza.

Considerare la sicurezza come una expertise, una competenza sociale, dunque,

permette di “leggere” il fenomeno con lenti nuove. Permette di ri-conoscere come un

luogo di lavoro ‘sicuro’ o un’organizzazione ‘sicura’ sia “il risultato della quotidiana

ingegneria di elementi eterogenei ‒ competenze, materiali, relazioni, comunicazioni,

persone ‒ integrate alle pratiche lavorative” (Gherardi, Nicolini, 2000: 333-334). La

sicurezza, dunque, è una “pratica situata”, un “fare” quotidiano che coinvolge le

persone, le tecnologie, le forme simboliche e testuali, all’interno di un sistema di

relazioni materiali (ibidem) che assume la configurazione situata di cantiere più o meno

sicuro. L’“ingegneria dell’eterogeneo” (Law, 1992), dunque, permette di cogliere i

diversi elementi coinvolti ‒ senza alcuna distinzione tra umani e non-umani ‒ in un

costante processo di generazione radicato nella pratica organizzativa. Ed è proprio

quanto si è osservato in cantiere. A questo punto, infatti, occorre porre maggiore

attenzione all’interazione che gli attori di cantiere intrattengono con gli artefatti e gli

intermediari della sicurezza.

13

Gli autori affermano, a tal proposito, come “le parole si trasformano in etichette quando vengono impiegate ripetutamente e senza spiegazioni in contesti simili” (Czarniawska, Joerges, 1995: 232). Nel loro caso è quanto avvenuto all’idea di decentramento amministrativo.

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5.1.2.1 La sicurezza “addosso”: i Dpi e il loro bricolage

L’osservazione dei cantieri mi ha spinto ad adottare la definizione di “sicurezza

reificata”, e meglio ancora di “sicurezza addosso”, per rendere l’idea di un’attenzione,

quasi ossessiva, all’uso dei Dpi … di alcuni, però.

Durante le giornate trascorse in cantiere, infatti, e durante i giri di cantiere

accanto al capocantiere della CortemSpa o di un assistente, in particolare, è stato

possibile assistere a diversi episodi in cui questi attori hanno sollecitato il rispetto della

normativa e, soprattutto, dell’uso dei Dispositivi di protezione.

“Il capocantiere M. si accorge che un operaio sta lavorando con il flessibile senza

usare gli occhiali protettivi, M. lancia un fischio, poi un altro, c’è rumore, alla fine

l’operaio spegne l’attrezzo e guarda M. che gli dice: “Che fai? Così nel mio cantiere

non lavori, qui non si lavora così, se devi stare qua, ti devi mettere gli occhiali,

non si lavora così qua!!”. Si altera e parlando con P. dice “va detto subito a [nome di

un capocantiere di una ditta esterna]: ogni volta che ci sono gli operai nuovi,

stiamo sempre allo stesso punto, va spiegato di nuovo tutto, glielo devo dire ..

che si prendesse gli operai suoi e dicesse di nuovo tutto come si lavora qua!”.

Chiede consiglio a P. che è d’accordo. Poi M. chiama subito al telefono il capocantiere e

lo rimprovera per quello che ha visto” (note di cantiere).

Il ruolo che il capocantiere della CortemSpa ‒ quale intermediario umano

(Callon, 1992) del processo di traslazione delle norme di sicurezza ‒ svolge in questo

caso è molto chiaro: ci sono modi e modi di lavorare e quello della CortemSpa è

sicuramente diverso da quello degli operai di molte delle ditte esterne. Lui stesso,

dunque, fornisce “l’esempio” di come gestire un cantiere ‒ rispetto a ciò che fanno le

altre ditte ‒ e indossa anche i dispositivi di protezione individuale14 ‒ come

14

Nel racconto della giornata di cantiere (§ 4.1.2) abbiamo sottolineato come il capocantiere non usi mai il casco, tranne negli incontri “ufficiali”, ovvero durante le ispezioni delle Asl o dell’Ispettorato del lavoro. Questo di certo non rientra nell’esempio da seguire. Ma, come si vedrà più avanti, va ricordato che, benché l’uso del casco sia associato ‒ anzi spesso incarna, identifica la sicurezza in cantiere ‒ ad un uso indiscriminato richiesto “dalla sicurezza”, la normativa ne prevede l’uso obbligatorio solo in situazioni di pericolo di caduta dall’alto e in prossimità di carichi pendenti o caduta di materiali dall’alto. Certo è che queste sono situazioni molto ricorrenti in cantiere (come ricordato dai cartelloni segnaletici posti ad ogni

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“dovrebbero” fare tutti gli altri. Va ricordato, inoltre, che l’organizzazione è nata

dall’unione delle competenze e delle risorse di alcune grandi aziende italiane che

hanno da tempo acquisito “quel modo di lavorare” che prevede, entro una visione

normativa della sicurezza e in rispetto della normativa stessa, l’uso dei dispositivi di

protezione individuale (di cui il datore di lavoro è per legge responsabile e che deve

fornire a ciascun dipendente15).

La relazione con gli attrezzi da lavoro (compresi i Dpi) è fondamentale. Questa

relazione assume particolare rilievo nell’osservazione del lavoro degli operai. Anche se

non è stato possibile “affiancare” un operaio nello svolgimento del suo lavoro, la

vicinanza alle figure che ho seguito durante l’osservazione sui cantieri, e che entravano

quotidianamente in contatto con gli operai, mi ha permesso di ritagliare pochi minuti

per far loro delle domande ed ascoltare la loro voce accanto a quello che dicevano ai

propri responsabili. Oltre a questi momenti di vita di cantiere, inoltre, vi sono le

interviste ad alcuni attori che all’interno del cantiere hanno attirato la mia attenzione

per il ruolo svolto nel proprio gruppo di lavoro e per le modalità di interazione con il

capocantiere o l’assistente della CortemSpa, ovvero per il fatto che hanno spesso preso

parte al processo di “costruzione” della sicurezza in cantiere (§ 2.3.3).

Dalle interviste ad alcuni operai del cantiere è emerso come i Dpi non siano mai

apparsi come parte della “dotazione strumentale” del ferraiolo, o del carpentiere o

dell’operatore (§ 4.1.1). Di questo la CortemSpa ne è consapevole, anche perché, come

qualche operaio anziano ha ricordato “prima non c’erano tutti questi controlli,

l’elmetto ..”, ovvero chi ha iniziato questo lavoro negli anni ‘70 (ma anche molto

prima), ha potuto assistere all’evoluzione del “modo di lavorare” che non sempre si è

accompagnato all’evoluzione della normativa sulla sicurezza e viceversa (Cap. 1), tanto

ingresso di cantiere in cui si ricorda l’obbligo di utilizzare casco, scarpe e cuffie), ma si corre il rischio di veicolare il messaggio che sia “la soluzione a tutti i mali” (come ricordato da alcuni attori incontrati lungo il periodo di permanenza alla CortemSpa), ovvero che basti indossare il casco per lavorare in sicurezza, deviando l’attenzione da situazioni e, soprattutto, pratiche più importanti.

15 È anche vero, però, che non basta che la ditta fornisca i Dpi previsti per legge per essere

esente da qualsiasi altra responsabilità qualora dovesse accadere qualcosa ai suoi operai. Occorre, per esempio, che gli operai siano sottoposti ai corsi di formazione in merito alla sicurezza; che sappiano con quali modalità (come per esempio s’indossano le cinture di sicurezza) e in quali contesti d’uso bisogna ricorrere ai diversi Dpi (scelta tra diversi tipi di guanti e/o di mascherine, per esempio).

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è vero che la normativa ha da sempre previsto controlli, sanzioni, obblighi, ma nella

pratica il tutto si è tradotto, nella maggior parte dei casi, in una lettera morta, ovvero si

è continuato a lavorare come se non ci fosse alcuna norma in materia di sicurezza,

alcuna responsabilità e che tutto dipendesse dai singoli individui e dalla loro

“propensione al rischio”16.

Come ricorda uno degli operai intervistati:

“Mah .. io non sono mai stato abituato a portare i guanti .. il casco, per

esempio, quasi mai. Adesso, con queste nuove norme .. da due anni a questa

parte siamo obbligati … altrimenti, negli anni Ottanta, Novanta esistevano, però

.. nessuno ci ha inculcato ..” (Carpentiere, 55 anni).

È interessante, infatti, notare come il Testo unico sulla sicurezza del 2008, in

effetti, abbia raccolto tutta la normativa di riferimento e, in primis, la più conosciuta

legge 626 del 1994. Ma nonostante questo, nessuno ha “inculcato” il rispetto della

normativa come sostiene l’operaio, la pratica della sicurezza si direbbe in questa

ricerca17. Emblematico è quanto affermato da un capocantiere incontrato durante le

prime visite nei diversi cantieri della CortemSpa mentre affiancavo i collaboratori del

Responsabile dei Lavori.

“Finito il giro ci fermiamo a parlare con il capocantiere. È un po’ esasperato per

il comportamento di alcuni operai di alcune ditte ed afferma: “ma non lo so, io pure

ho fatto il carpentiere fino a qualche anno fa”, “adesso non lo può più fare”,

aggiunge il collaboratore, mentre il capocantiere continua “ma non lo vedi che ci

sono i controlli [riferito ad alcuni operai], i cantieri non sono più quelli di qualche

16

Quello che va sottolineato è che sia nel settore delle costruzioni, ma anche in altri settori produttivi, le relazioni tra lavoratori e datori di lavoro sono alquanto impari. Spesso, infatti, i lavoratori si trovano nelle condizioni di non poter esigere il rispetto di un loro diritto ‒ la sicurezza come la regolarizzazione delle condizioni di lavoro ‒ e si “stratificano” pratiche non sicure di lavorare che finiscono con il colpire lo stesso lavoratore.

17 È opinione diffusa che i controlli blandi o inesistenti o “contraffatti” (è il caso, per esempio,

delle più recenti cronache in merito alle indagini avviate a seguito della morte di tre operai in un’azienda di Capua, nel napoletano, nel settembre 2010) abbiano un effetto negativo sull’affermarsi di una “cultura della sicurezza” più diffusa.

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anno fa, quando potevi fare qualunque cosa! Quando lavoravo io ero libero, era

un’altra cosa, ma ora è diverso, perché mi devi prendere in giro?!”. Poi continua:

“ma poi, dico io, ma non vedi la macchina? (riferendosi alle auto delle diverse figure

che controllano e che si avvicendano in cantiere), telefoniamo per avvisare che ci

sono i controlli e tu non fai niente, ma allora mi prendi in giro, li vedi no che

sono in cantiere! (riferito sempre ai controllori). Io non sopporto la presa in giro”.

Continua affermando: “Se proprio non vuoi usare i Dpi, almeno usali quando ci

sono i controlli!”” (note di cantiere).

In qualche modo, quindi, si “legittima” la pratica della messa in scena (§ 4.2.4)

sia per evitare le sanzioni che per compiacere coloro i quali svolgono le attività di

controllo e permettere di salvaguardare “l’immagine” del lavoro del capocantiere (o

almeno di alcuni capicantiere che la pensano in questo modo) che, in una situazione di

elevata compresenza di ditte diverse, ha difficoltà a gestire le “pratiche” di ogni ditta e

operaio.

La CortemSpa, quindi, ad un primo livello, “identifica” la sicurezza con l’uso

effettivo degli artefatti “progettati”18 per la sicurezza (i Dpi). In questo caso il discorso

normativo trova un valido alleato nel discorso tecnico il quale fornisce gli strumenti che

“dovrebbero” facilitare la messa in pratica della sicurezza. È quel tipo di conoscenza

che Blackler (1995) definisce come “localizzata” ‒ embedded ‒ nelle tecnologie, nelle

regole e nelle procedure e su cui, in questo caso, la CortemSpa fa affidamento.

Un altro aspetto che rientra nella tematica della “sicurezza reificata” o

“addosso” è relativo proprio all’uso che gli operai fanno dei loro Dpi, ovvero di ciò che

potremmo definire come oggetti intermediari del discorso normativo sulla sicurezza. In

cantiere si può assistere ad una sorta di bricolage negli usi, per esempio, dei gilet ad

alta visibilità: molti li portano annodati, qualcuno tutto tagliuzzato; oppure del casco

(tanto odiato per la sua scomodità) indossato spesso sopra dei berretti di cotone.

Il motivo va ricercato nella “scomodità” di cui questi artefatti sono spesso

causa. 18

Come si vedrà più avanti quello che è progettato altrove non sempre è in accordo con le pratiche lavorative del cantiere (§ 5.2.2; § 5.2.3).

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Il gilet, per esempio, è confezionato in base a misure standard “da uomo” ‒

sulla nota informativa di un tipo di gilet tra i più diffusi in cantiere, infatti, vi è

disegnato un omino che rappresenta la “taglia unica” (ed ha le seguenti misure: 96-128

cm di diametro torace; 164-194 cm d’altezza). D’altro canto, è riportato che “le

prestazioni di sicurezza vengono garantite solamente se il capo indossato è di taglia

adeguata e risulta correttamente allacciato” ‒ ma per chi ha una corporatura più esile

può risultare fastidioso, potendosi impigliare da qualche parte in cantiere19 (divenendo

quindi pericoloso) ed avendo solo due quadratini di velcro all’estremità superiore con

cui chiudersi. Il materiale di cui è fatto, inoltre, soprattutto d’estate, amplifica il calore

e la sudorazione, spingendo per esempio un operaio del cantiere a fare una vera e

propria opera di bricolage, praticando delle incisioni sul dorso del gilet e a spiegare che

le ha fatte “per far passare meglio l’aria!”20. Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato

anche da altri operai, con cui ho avuto modo di parlare in alcuni cantiere, in merito a

diversi tipi di guanti21, che spesso creano eccessiva sudorazione rendendo difficile

l’attività da svolgere (o perché troppo ingombranti da impedire il contatto con il

materiale da lavorare).

Anche il casco, spesso lasciato appeso a qualche parete o posato su qualche

cavalletto, non riscuote consenso. È fastidioso da usare, procura eccessivo calore

soprattutto d’estate ‒ e magari un cappellino di cotone o una bandana alleviano il

19

Come ho già ricordato nel secondo capitolo, anche a me è stato dato un gilet taglia unica (“da uomo”) con il quale mi sono impigliata spesso alla maniglia della porta dell’ufficio e, se non fossi stata attenta, mi sarei impigliata anche da qualche parte in cantiere dove, anche se non dovrebbe, può capitare che ci sia qualche ferro sporgente.

20 Sempre sulla “nota informativa” allegata al gilet è scritto quanto segue: “gli indumenti sono

specifici per impieghi in situazione di scarsa visibilità. NON sono adatti per protezioni da rischi chimici, calore e fuoco, freddo, elettricità e per qualsiasi altro tipo di rischio”. In cantiere, la scarsa visibilità è riferita alla presenza di mezzi meccanici in movimento, i cui conduttori possono essere facilitati nel vedere gli operai a terra se indossano abbigliamenti ad alta visibilità. Inoltre, per esempio, il materiale di cui è fatto un gilet di questo tipo è facilmente infiammabile, oltre a produrre calore, quindi è ipotizzabile che non sia particolarmente adatto al cantiere.

21 Anche qui vale il discorso richiamato poco sopra: le tipologie di guanti sono numerose ed

anche il costo può variare. Per questo può capitare che alcune piccole ditte forniscano solo una tipologia di guanti, magari perché è la meno costosa, spingendo i propri operai a non indossarli perché non adatti alle loro particolari attività.

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disagio. Infine, alcuni operai hanno fatto notare che non essendo provvisto di cinturino

da allacciare sotto il mento22, quando si piega il capo può cadere via.

Le scarpe, inoltre, benché il loro uso sia diffuso, possono arrecare disagi a causa

della punta in ferro (con funzione di protezione delle dita da possibili schiacciamenti

dovuti alla caduta di materiali pesanti sui piedi), anche solo per la loro pesantezza23.

Cuffie, occhiali e grembiuli di protezione, infine, non sono particolare fonte di

disagio, ma la loro difficoltà d’uso ha altre origini: non essere abituati ad indossarli; o

non riconoscerne l’utilità; o ritenerli d’intralcio allo svolgimento di pratiche di lavoro

consolidate che rendono l’operaio più sicuro.

Il materiale del gilet che è “facilmente infiammabile” è un esempio di come la

sua funzione ‒ rendere visibile chi lavora in cantiere soprattutto agli operatori dei

mezzi meccanici ‒ sia in parte vanificata dal fatto di rappresentare un pericolo in caso

d’incendio. Il casco, per citare un altro esempio, non è ritenuto necessario “quando si

lavora a cielo aperto”, come hanno affermato alcuni operai che stavano lavorando in

prossimità di un’area di cantiere in cui non vi erano né carichi pendenti né pericolo di

caduta dall’alto. Il doverlo indossare, però, crea irritazione e fastidio, oltre che una

“mal disposizione” nei confronti dei Dispositivi di protezione in generale.

Va riconosciuto, quindi, che al di là dell’obbligo di portare i Dpi, andrebbe

problematizzata la loro natura ‒ da un lato essere adatti a “proteggere” da alcuni

pericoli, dall’altro creare alcune difficoltà finanche il rischio di procurare un danno,

come l’infiammabilità del materiale del gilet testimonia ‒ ed il fatto che,

22

Come quello indossato invece nella pubblicità dell’Enel dai due (presumibilmente) ingegneri presenti nello spot andato in onda nel mese di ottobre 2010.

23 Anche in questo caso, risalendo all’uso manualistico delle scarpe, è possibile leggere: “La

marcatura “CE” attesta che la calzatura soddisfa i requisiti essenziali della Direttiva 89/686/CEE, relativa ai dispositivi di protezione individuale (Dpi)” e i requisiti sono: ergonomia, innocuità, confort, solidità. Anche in questo caso, inoltre, è espressamente scritto che “il fabbricante declina ogni responsabilità in caso di uso o manutenzione impropri”, ma forse bisognerebbe raccogliere le testimonianze di quanti lamentano dolori ai piedi (come qualcuno degli operai ha affermato) che possono influire sul corretto svolgimento della vita lavorativa ‒ per esempio non mettendo bene i piedi sul terreno rischiano di procurarsi distorsioni o cadute e quindi infortuni sul lavoro. Quest’ultime riflessioni sono scaturite dalla difficoltà esperita da chi scrive nell’indossare quel tipo di scarpe: il terreno spesso accidentato del cantiere (in prossimità di scavi per esempio) e la scomodità delle scarpe mi hanno causato lievi distorsioni, anche se la mia permanenza in cantiere era limitata a “camminate” di qualche ora, diverse dalle giornate lavorative degli operai.

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inevitabilmente, tale obbligo s’innesta su pratiche già esistenti che, quanto meno,

richiedono un certo periodo di tempo per poter essere modificate.

Parafrasando Suchman e i suoi colleghi (1999) riferendosi alle tecnologie,

occorre “ricostruire” gli artefatti come pratiche sociali, considerarli nel loro contesto

d’uso e considerare essi stessi come artefatti-in uso.

L’uso di un artefatto è un’attività problematica (ibidem) e richiederebbe una

maggior conoscenza delle pratiche e del contesto organizzativo entro il quale va

introdotto24. A tal proposito può tornare utile l’esperienza dei Participatory Design25

(PD), ovvero l’opportunità di effettuare ricerche in contesti d’uso dei Dispositivi di

protezione al fine di cogliere le criticità del loro uso (per migliorarli e adattarli alle

pratiche di lavoro consolidate o per veicolare nuove modalità di lavoro che non creino

ulteriori rischi o disagi) e le opportunità di un loro impiego che renda il lavoro degli

operai sicuro e qualitativamente migliore, promuovendo una formazione più

consapevole e non solo come adempimento normativo.

Altro elemento ad influire sull’uso degli artefatti è la loro maggiore o minore

“flessibilità interpretativa” (Griesemer, Star, 1989), cosa che influisce sull’effetto

sperato. Ogni attrezzo utilizzato, infatti, deve essere a norma e, allo stesso tempo, esso

deve essere utilizzato senza apportarvi modifiche: solo questo ‒ l’uso da manuale ‒

garantisce la sua capacità di controllare la pratica dell’utilizzatore finale. “Il risultato è

quello di introdurre in modo tacito conoscenza e competenza nel modo quotidiano di

agire e costruire l’azione sociale” (Nicolini, 2001: 108). Questo è alla base dell’alleanza

24

Questa affermazione non vuole sminuire le attività di progettazione di tali artefatti, che pure hanno degli studi di riferimento, ma che forse non partono dalla realtà dei singoli cantieri e degli attori ai quali sono destinati. A tal proposito, infatti, vorrei sottolineare come il mio tentativo di contattare una società che produce Dpi non abbia avuto esito positivo per indisponibilità della stessa società.

25 Il Participatory Design (PD) ha origine negli anni ’60 - ’70, quando nei Paesi Scandinavi nasceva

il movimento della democrazia industriale, si sosteneva la partecipazione dei lavoratori sul posto di lavoro attraverso strutture e culture adeguate. L’ethos delle ricerche PD è caratterizzato dalla volontà di sostenere la qualità del lavoro e lo sviluppo di tecnologie di sostegno al lavoro umano, dissipando la convinzione che “le tecnologie risparmino lavoro”. L’introduzione di tecnologie richiede essa stessa “nuovo lavoro” e l’intento della metodologia dei PD è quello di considerare la tecnologia una risorsa per lo sviluppo di soluzioni alternative e portare alla luce contraddizioni tra le diverse comunità occupazionali. Bruni e Gherardi (2007) riprendono brevemente la ricerca di Susanne Bødker (1996) sottolineando uno dei punti più salienti della PD: una metodologia qualitativa per la descrizione del lavoro (metodo naturalistico). Ricordano anche che “il punto centrale consiste nel valorizzare l’esperienza delle persone che lavorano e nel mettere a loro disposizione le risorse necessarie per poter agire nelle situazioni lavorative” (Bruni, Gherardi, 2007: 185).

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tra il discorso normativo26 e quello tecnico, ovvero il “trasferire” nella tecnologia (in

senso lato) la capacità di non commettere errori e l’idea del come si dovrebbe lavorare:

se si rispettano le norme e si usano gli artefatti “da manuale” non sarà possibile agire

un comportamento diverso da quello prescritto, con il risultato di avere meno

infortuni. Qualora si dovessero verificare, sarebbe “solo” per negligenza degli operai

che non si sono attenuti alle “istruzioni” ricevute, anche in materia di rispetto delle

norme. Ma, come abbiamo già avuto modo di osservare, spesso sono “altre” le priorità

e le esigenze che “governano” un cantiere, come per esempio la necessità di lavorare

in fretta, senza perdere tempo e di rispettare i tempi di consegna, cose che richiedono

spesso di mettere da parte il “come si dovrebbe lavorare” e ricorrere al “come si lavora

qui” per rispettare i tempi e i costi di produzione (§ 4.2.3.1).

Tutto questo, infatti, non tiene conto di una realtà, quella di cantiere in questo

caso, ben più complessa e, soprattutto di come alla base dell’agire degli operai vi siano

pratiche situate e tacite caratteristiche del loro mestiere.

5.1.2.2 Artefatti-in uso: la moda dei Dpi

L’introduzione dei Dpi e il loro uso - più diffuso negli ultimi anni - ha generato

un effetto di “disallineamento” e contraddizione con le “vecchie” pratiche di lavoro,

cosa che richiede nuovi modi di agire e nuove regole. Quello che può verificarsi è un

graduale “allineamento” tra l’uso concreto dell’artefatto ‒ i Dpi ‒ con l’uso previsto “da

manuale”, dando origine ad una modalità d’uso dei Dpi “situata”, in cui l’inventiva, la

traduzione ed il tradimento del manuale, oltre a vere e proprie attività di bricolage,

rappresentano un compromesso con le pratiche originarie. Proprio questa prospettiva

relazionale ‒ dell’artefatto in uso e della sua interazione con l’utilizzatore ed il contesto

d’uso ‒ permette di cogliere le reciproche interazioni, quale sistema socio-tecnico.

Gli oggetti, dunque, si costruiscono nelle relazioni che, nella pratica, li legano

agli attori. È la dimensione relazionale, in una prospettiva sociologica rinnovata, ad

essere interessata all’uso situato degli artefatti, o delle tecnologie, a seconda della

26

Le norme di riferimento, a loro volta, producono altri artefatti che sono, per esempio, le certificazioni di qualità, in conformità alle direttive europee.

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rilevanza che essi assumono per gli attori nello svolgersi quotidiano e concreto

dell’attività lavorativa (Mongili, 2007).

L’altra faccia della medaglia, ovvero del disagio d’“indossare” i Dpi, è

rappresentata da chi, invece, ne fa sfoggio come se fosse una “moda”. E una moda è

creata quando è seguita (Czarniawska, Joerges, 1995). Soprattutto i giovani operai,

infatti, hanno iniziato ad indossare abiti ad alta visibilità (pantaloni, giacche, maglie,

salopette, scarpe antinfortunistiche firmate27) e protettivi (come le tute intere bianche,

usa e getta, che gli operai usano per non sporcarsi di grasso per esempio quando

svolgono lavori di manutenzione della talpa o quando maneggiano prodotti chimici

particolari), evidenziando una dimensione estetica della sicurezza (Strati, 2000).

A differenza dei più anziani, inoltre, i più giovani sono coloro che all’interno del

cantiere fanno più uso dei guanti, come protezione da tagli, ferite ed altro, ma anche in

una accezione di “cura”, ovvero per non “rovinarsi le mani”. L’abbigliamento di

protezione, quindi, permette loro di non portare addosso i segni di un lavoro duro e

che segna finanche la pelle. Segno, a sua volta, anche di una “maschilità” differente,

figlia del nuovo Millennio, in cui la “rudezza” ed il “machismo” non ne rappresentano

più necessariamente il tratto distintivo (Bellassai, 2004; Connell; 1996).

Durante le interviste ad alcuni operai, infatti, è emerso, soprattutto tra i più

anziani che spesso non usano i guanti, che “qualche taglietto” è capitato loro, ma è

considerata una sciocchezza, nulla di serio.

“Quando all’inizio si lavorava come cottimisti questa attenzione non

c’era, era più facile farsi male, sempre roba di sciocchezze, non era roba seria di

braccia rotte, né gambe .. solo tagli così, superficiali” (Ferraiolo, 61).

C’è, quindi, una specie di confronto generazionale: da una parte chi ha

imparato il mestiere in un periodo in cui l’obbligatorietà dell’uso dei Dpi e di un

abbigliamento adeguato, se previsti, rimaneva molto spesso sulla carta (periodo in cui,

27

Dando un’occhiata su internet, infatti, è molto frequente trovare pagine dedicate alla vendita di Dpi prodotti anche da aziende che da sempre firmano capi sportivi e che iniziano a dedicare parte della loro produzione, per esempio, a scarpe antinfortunistiche (Diadora, o LOTTOWORKS per esempio).

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tra l’altro, vi erano meno controlli) ‒ sostenuto anche da una idea di lavoro “da veri

uomini” (La Cecla, 1999) che richiedeva di lavorare “a mani nude” (§ 5.2.1), di essere

fieri dei segni riportati sulle mani e sul proprio corpo. Dall’altra, la nuova generazione

che proprio oggi ‒ in un contesto storico-istituzionale mutato e che dai più anziani ed

esperti sta imparando il mestiere ‒ è sollecitata a “dover” indossare Dpi e

abbigliamento di protezione specifici (se non altro nelle realtà in cui i controlli sono più

presenti, anche quelli della ditta stessa) e manifesta una maggiore attenzione e

richiesta di far uso di tali dispositivi di protezione.

La nuova generazione di operai di cantiere, infatti, utilizza i Dpi (come previsto

dalla legge), ma li adatta alle proprie pratiche di lavoro, dandone un senso anche

differente da quello originario per cui sono stati predisposti, è quel “tradire” di cui

parla la sociologia della traslazione (Callon, 1986; Latour, 1986), per cui lungo la catena

di traduzione si perdono, si acquisiscono e si modificano gli elementi costitutivi che,

inevitabilmente, si relazionano con il contesto umano e materiale in cui sono introdotti.

In quest’ottica, però, emerge come la sicurezza sia ancora qualcosa di

“accessorio”, o che si “attacca all’azione” (Gherardi, Nicolini, 2001), ovvero qualcosa

che si apprende ad accostare alla pratica quotidiana, ma che può via, via essere

“incorporata” alla pratica e divenire una “competenza”28, anziché un oggetto esterno a

sé stante. Questo comporta, quindi, un mutamento delle pratiche attorno alle quali si

“pratica” il mestiere e la sua sicurezza.

A questo punto occorre dare conto dell’ultima macro-tematica emersa

dall’analisi delle note etnografiche raccolte in seguito all’osservazione sul campo: il non

rispetto delle norme di sicurezza e le tre possibili chiavi di lettura del fenomeno. Da un

lato, infatti, il non rispetto della normativa può essere letto come espressione della

pratica della spavalderia (§ 5.2.1) in parte in linea con le visioni tradizionali della

sicurezza in cui prevale una cultura della colpa ‒ blame culture (Catino, Albolino, 2008)

‒ che attribuisce la responsabilità prevalentemente ai singoli lavoratori. Dall’altro lato,

28

“L’expertise è dunque sempre un fenomeno collettivo ed eterogeneo che ha una dimensione sia sociale sia materiale e simbolica” (Gherardi, Nicolini, 2004: 69). Gli autori, richiamando il contributo della “teoria dell’attività” (Engeström, 1987; Blackler, 1995), ricordano come il sapere sia qualcosa che i membri di una comunità di pratiche “fa”. Ad essere messa in evidenza, quindi, è “la dimensione attiva e distribuita del sapere”, aspetto integrante dell’attività dell’organizzare (ibidem).

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però, l’osservazione diretta di una realtà di cantiere come quella della CortemSpa, ha

messo in evidenza altre due possibili chiavi di lettura: la relazione con il sapere pratico

(§ 5.2.2) e la dimensione della collaborazione e del coordinamento alla base del non

rispetto di alcune norme di sicurezza (§ 5.2.3).

5.2 Non rispetto della normativa: tre possibili chiavi di lettura

Fin qui si è parlato di sicurezza, di controlli, di messe in scena, di norme

rispettate. È arrivato ora il momento di dare una chiave di lettura (o più chiavi come

emerso dal campo osservato) alle diverse situazioni nelle quali gli operai “sono portati”

a non rispettare le norme sulla sicurezza stabilite dal legislatore.

Diverse sono, in controluce, le sfaccettature di senso che stanno dietro ad un

agire etichettato, spesso frettolosamente, come “non rispetto della norma”.

L’osservazione sul campo, infatti, ha permesso di cogliere il senso che gli attori danno

alle loro azioni e il dato per scontato (Garfinkel, 1967) durante lo svolgimento delle

proprie pratiche di lavoro, come il paradosso legato alle esigenze di produzione ha già

messo in evidenza (§ 4.2.3.1): per lavorare più velocemente, spesso si “deve

rinunciare” ad usare alcune protezioni, come i guanti per esempio (§ 5.2.2).

La descrizione e lo studio delle attività ‒ come uno degli elementi che

permette di osservare e descrivere il tessuto della sicurezza ‒ permette di evidenziare

le diverse logiche organizzative perseguite dai soggetti che le svolgono. È il senso che le

attività hanno per gli attori individuali e collettivi che “le ideano, le progettano, le

pongono in essere, le modificano e le ricreano, se ne assumono il rischio e ne

immaginano i potenziali utenti” (Gherardi, Strati, 1990: 617) ad aver attratto l’interesse

durante l’osservazione sul campo. L’attività d’osservazione, dunque, ha richiesto di

porsi dal punto di vista di coloro che attivano tali attività nella pratica quotidiana,

permettendo di cogliere le dinamiche di costruzione sociale (Berger, Luckmann, 1969)

della realtà organizzativa, ovvero i processi specifici che fanno sì che i “significati

soggettivi degli attori coinvolti negli atti interattivi diventino poi “fattualità oggettive”,

acquisendo la caratteristica di “realtà”” (Strati, 2008: 96).

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Le diverse chiavi emerse dall’analisi e dalla codifica del materiale/note di

campo raccolte durante l’etnografia, hanno messo in luce tre principali elementi che

“orientano” l’azione in un modo differente da quello che la norma prescrive (e di cui la

stessa norma spesso non tiene conto) e che sono riconducibili e legate in alcuni casi

alla pratica della spavalderia; in altri alla dimensione del sapere pratico; in altri ancora

alle problematiche del coordinamento e della collaborazione.

Prima di “affrontare” il campo, però, occorre rendere espliciti alcuni concetti

che hanno permesso di ri-conoscere le tre chiavi di lettura.

Ciò che in questa ultima parte della ricerca mi preme mettere in evidenza è

innanzitutto l’importanza della dimensione pratica del sapere, quel dato per scontato

che ogni giorno “guida” gli attori incontrati sul campo sia nell’attività di controllo e

mediazione, sia nelle pratiche di lavoro svolte dagli operai, almeno quelle che sono

riuscita a “sbirciate” durante la presenza sul campo e l’attività di shadowing.

La dimensione pratica dell’attività lavorativa, infatti, è stata al centro

dell’attività di osservazione sul campo. Tale dimensione pratica, inoltre, permette di

cogliere il lavoro nei cantieri edili quale espressione di un sapere pratico, “esperto”,

anche in relazione alla sicurezza sul lavoro.

Le principali caratteristiche del sapere pratico, da me adattate sul lavoro di

Bruni e Gherardi (2007: 42), sono:

un orientamento pragmatico. Il sapere pratico è finalizzato al fare, al prendere

una decisione in situazione, al risolvere un problema;

una temporalità specifica. Il sapere pratico è emergente dalla situazione

particolare e dall’azione situata;

un ancoraggio nella materialità. Il sapere pratico si avvale di frammenti di

conoscenza incastonati negli oggetti, nelle tecnologie, nel mondo materiale che

interagisce con gli umani e li interpella;

un ancoraggio nelle pratiche discorsive. Il sapere pratico si avvale della

mobilitazione discorsiva di indizi per l’azione e della loro collocazione entro uno

schema narrativo che attribuisce senso a quanto si presenta agli occhi

dell’osservatore.

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Dalle caratteristiche del sapere pratico si evince come vi siano altri concetti

importanti per la comprensione delle pratiche legate al non rispetto della normativa in

un cantiere edile: il legame con il contesto; il ruolo svolto dagli artefatti; la dimensione

collettiva dell’attività di lavoro; la dimensione estetica e tacita della conoscenza e dello

stesso sapere pratico.

Il contesto in cui si svolge l’azione quotidiana, entro la prospettiva d’analisi che

qui si sta adottando – lo studio delle pratiche più o meno sicure – diviene una risorsa

per l’azione stessa, una situazione in cui gli attori e i propri interessi, insieme alle

opportunità che l’ambiente/contesto offre, si incontrano e reciprocamente si

definiscono. Ritorna ad essere importante la relazione tra gli attori e quella con

l’ambiente/contesto (Conein, Jacopin, 1994). “Artefatti, oggetti, ed ambiente fisico

possono divenire guide che facilitano, indirizzano e danno forma all’esecuzione del

lavoro” (Parolin, 2008: 157).

In un’ottica in cui il lavoro è concettualizzato come pratica situata ‒ non

concepito in un vuoto sociale e materiale in quanto “ancorato” al contesto in cui ha

luogo ‒ e in cui l’attività lavorativa è fonte di attivazione di un sapere pratico,

emergono altre importanti questioni da affrontare, per esempio come esso si esplichi

attraverso un medium che mette in relazione e comunicazione il soggetto con

l’artefatto da esso utilizzato, come ricordato dal concetto di “intermediario” dell’Actor-

Network Theory (Callon, 1992).

Lo studio della pratica esperta diviene, allora, “inscindibile dall’ambiente

(socio-culturale e socio-tecnico) entro cui essa è inserita” (Parolin, 2008: 158). Gli

artefatti che utilizziamo, inoltre, e l’ambiente nel quale siamo inseriti, o “immersi”,

svolgono una funzione di mediazione con l’azione e “permettono di “appoggiarci”,

consentendo un notevole risparmio di lavoro nelle attività cognitive” (ibidem).

Nelle pratiche lavorative ed organizzative, come i contributi dei Workplace

Studies evidenziano (§ 2.2.3), gli artefatti e le tecnologie “acquisiscono quel valore

specifico che dà loro senso e significato” (Strati, 2008: 91) nell’interazione che si

stabilisce quotidianamente tra gli attori e gli artefatti, sono gli stessi attori a contribuire

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alla “costruzione” degli artefatti, i quali a loro volta “condizionano” le pratiche degli

attori, come accade nel caso dei Dpi (§ 5.2.2; § 5.2.3).

Un importante contributo di questo filone di ricerca, inoltre, è l’aver posto

l’attenzione sulla dimensione “collettiva” del lavoro inteso come prodotto collettivo di

pratiche che coinvolgono diversi attori, strumenti, tecnologie, che “simmetricamente”

contribuiscono alla definizione della situazione. La dimensione collettiva del lavoro,

infatti, riposa sull’abilità di mantenere un orientamento comune dell’attività e

un’attenzione distribuita (Heath, Luff, 1992; Joseph, 1994; Gobo, 2008; Pentimalli

2008) che fa sì che siano le pratiche comunicative socialmente organizzate a coordinare

le attività, nei centri di coordinamento, come nei cantieri per esempio (§ 5.2.3).

Il lavoro, dunque, “è mediato dal corpo, dalla tecnologia e dagli oggetti, dalle

regole, dai discorsi, dalla storia e dalla cultura che in tali mediazioni si esprime” (Bruni,

Gherardi, 2007: 17). Occorre riconoscere, dunque, il ruolo “attivo” giocato dal corpo

nello svolgimento delle pratiche: “tutte le abilità, anche le più astratte, nascono come

pratiche corporee” (Sennett, 2008: 19; Yakhlef, 2010; Viteritti, 2011).

Il corpo e le sensazioni corporee, a ben vedere, rappresentano la prima fonte di

mediazione tra ciò che sta tra noi ed il mondo esterno (Bruni, Gherardi, 2007). “Non è

possibile considerare il corpo come un medium neutro di attività sociale. È la sua

materialità che conta” (Connell, 1996: 57). Un corpo, infatti, darà certe cose e non

altre. Conoscere attraverso il corpo, inoltre, è l’essenza del sapere pratico ed è proprio

il corpo a permettere l’acquisizione di quella che Goodwin (2003) chiama “visione

professionale” e di supportare una performance lavorativa che appaia competente, nel

senso inteso da Garfinkel (1976) quando parla di “membro sociale” la cui appartenenza

alla collettività è priva di problemi perché capace di padroneggiare un insieme di

abilità. A tale performance competente e professionale, inoltre, contribuisce anche la

dimensione sessuata dei corpi in base al sistema simbolico, il genere, che ne definisce

cosa sia “da uomini” e cosa, invece, sia “da donne”29.

Il sapere pratico, la conoscenza “situata” nei corpi, la comprensione estetica e

la conoscenza tacita (Polanyi, 1990), per tanto, implicano considerazioni che mettono

29

Si rimanda al capitolo metodologico (§ 2.5) per uno sguardo al genere come performance.

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in discussione il solo ricorso alla comprensione razionale, cognitiva e mentale, di ciò

che accade anche nei contesti organizzativi30 (Strati, 2000).

Tutto questo porta a considerare come tutti gli elementi che ad una prima

lettura appaiono soggettivi non siano per ciò stesso innati o di origine cognitiva, ma

hanno luogo nel lavorare e, nel corso di tale attività, si affinano sempre più, fino ad

acquisire quella “maestria” di cui parla Sennett (2008) e che rappresenta “il desiderio

di svolgere bene un lavoro per se stesso” (18). In tutte le attività, anche le più tecniche

vi è sempre una relazione “tra mano e testa”: “non c’è niente di automatico nel

divenire tecnicamente abili, così come non c’è niente di brutalmente meccanico nella

tecnica in sé” (ibidem: 19).

Tali considerazioni hanno un risvolto sulla dimensione della “sicurezza” di una

pratica: la maestria, infatti, consolida quelle pratiche ritenute sicure dall’operaio che le

svolge, anche in relazione all’azione di coordinamento e collaborazione con i colleghi

che condividono la stessa “definizione della situazione” (Goffman, 1969), ma non

necessariamente corrispondono alle procedure codificate nei Piani di Sicurezza e

Coordinamento31 stabilite, per loro, dal proprio Responsabile per la sicurezza.

Queste brevemente le linee guida teoriche con le quali si affronterà l’ultima

parte della ricerca32: l’osservazione di pratiche prevalentemente non sicure, almeno dal

punto di vista del discorso normativo e tecnico, ovvero di non rispetto della normativa

sulla sicurezza e del non uso dei dispositivi di protezione individuale.

30

Non va dimenticato che il ricorso alla dimensione estetica nello studio organizzativo non è stato aproblematico, così come i riferimenti alla conoscenza sensibile (per un approfondimento si rimanda a Strati, 1998; 2000). È negli anni ’80 del Novecento che, all’interno della svolta simbolico-culturale avvenuta negli studi organizzativi, acquista rilevanza anche la dimensione estetica applicata allo studio delle organizzazioni, ovviamente con le contrapposizioni che essa ha portato.

31 Il PSC è il documento elaborato dal Coordinatore per la Sicurezza in fase di Progettazione di

una impresa appaltante in cui sono descritte le norme generali, le procedure sulle lavorazioni e le precauzioni da adottare in materia di prevenzione e sicurezza per la costruzione di un’opera edilizia da parte delle imprese appaltatrici. Queste ultime recepiscono le indicazioni e producono un Piano Operativo per la Sicurezza (POS) che deve essere approvato dal Coordinatore per la Sicurezza in fase di Esecuzione della stessa ditta appaltante. I due artefatti, infine, rappresentano un’idea “tecnica” di sicurezza, ovvero raggiungibile attraverso il rispetto delle procedure e l’uso di misure preventive e protettive progettate in base ai rischi che nel mestiere si corrono (§ 4.2.3.6).

32 Per una trattazione più approfondita di queste tematiche, si rimanda a § 2.2.

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322

5.2.1 Sfida alle norme: pratiche di spavalderia

Una chiave di lettura per comprendere come mai alcuni operai non rispettino

le norme di sicurezza che prevedono l’uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi)

è quella che emerge dall’affermazione espressa da molti di loro: “ma tanto a me non

mi succede niente!”.

A caratterizzare il non rispetto delle norme è, in alcuni casi, una certa “pratica

della spavalderia”, ovvero la rivendicazione di una maschilità costruita33 sul mito

dell’uomo macho, appartenente ad un’immagine di classe operaia maschile che

esibisce se stessa come sprezzante del pericolo, che non bada ai segni presenti qua e là

sul proprio corpo, che al contrario esibisce come “trofeo di guerra”.

Nella fase in cui facevo da ombra ad una collaboratrice del Responsabile dei

Lavori è capitato di controllare il cantiere che di lì a poco mi avrebbe ospitato per

l’osservazione. Qui, accompagnate dal capocantiere e dai suoi assistenti, ai quali si è

aggiunto un collaboratore del Coordinatore per la sicurezza che stava facendo anche lui

un giro di controllo, abbiamo incontrato alcuni operai che stavano lavorando allo scavo

di un’area.

“Appena arrivate, l’assistente di cantiere ed il collaboratore chiedono ad un

operaio alla guida di un piccolo escavatore se è a conoscenza del fatto che i finestrini di

quella macchina devono essere chiusi quando è in lavorazione. L’operaio, prima chiede di

ripetere la domanda facendo segno di non aver capito, poi risponde di sì, che lo sa, ma

dice che se li chiude non riesce a sentire i suoi colleghi quando gli dicono qualcosa

mentre lavorano. Intanto, ci sono due operai nello scavo che ci guardano e guardano il

loro collega parlare con noi, non dicono nulla ma ci tengono sott’occhio tutto il tempo,

bisbigliando tra loro e rendendosi complici (attraverso battute sussurrate, occhiate e

sorrisini) dell’operaio che sta parlando con noi. Lo sguardo è cupo, la fronte aggrottata e

si sono fermati, hanno smesso di lavorare o, comunque, lavorano molto lentamente,

tenendoci sempre sott’occhio. Dopo che l’assistente ha chiesto nuovamente all’operaio di

chiudere i finestrini, questi risponde con tono canzonatorio: “e che problema c’è?!” e

33

Per una ricostruzione del tema del genere come “costruzione sociale” si rimanda a § 2.5 di questa tesi.

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chiude tutti i finestrini, gesticolando e borbottando qualcosa con un grande sorriso.

Indossa il casco, mangia un lecca-lecca e, subito dopo, scende dal suo escavatore e dice

sempre sbeffeggiando i controllori: “ed ora li devo pulire, se no non vedo niente” e

con un pezzo di stoffa pulisce velocemente i vetri. L’atteggiamento è ironico, spavaldo, di

sfida quasi nei confronti di chi gli sta chiedendo di fare delle cose che lui non vuole fare.

Continua a ridere e a ripetere: “che problema c’è, lo facciamo, ora lo facciamo, che

ci vuole!”. Gli altri due operai gli si avvicinano e gli danno una sigaretta, l’accende e

poi si dicono qualcosa. Intanto il capo della ditta appaltante, seppur con il sorriso, si

lamenta della difficoltà di avere a che fare con loro e dice a noi che siamo lì con lui: “con

questi operai che non ti ascoltano … gli operai devono fare quello e come

dicono loro, non ti ascoltano!”, ride. Uno degli altri due operai ha ricominciato a

lavorare con il martello pneumatico e l’assistente si accorge che proprio vicino alla punta

del martello c’è il filo della corrente che lo alimenta e gli dice subito di stare attento:

“non vedi che il filo è proprio vicino alla punta?! Non si lavora in questo modo,

è pericoloso!”, “ma si, che fa?…” risponde l’operaio. L’assistente è molto contrariato

dall’atteggiamento di questi operai, anche la collaboratrice del Responsabile dei lavori ed

il capo della ditta appaltante si lamentano e parlano tra loro del comportamento degli

operai. Subito dopo chiedono, sempre all’operaio “teatrante” di coprire una buca che si

trova poco più in là rispetto al posto in cui si trova lui stesso, facendogli notare che per

riempire la buca occorre davvero poco tempo e poco sforzo, visto che lo deve fare con

l’escavatore. “Ho capito quello che devo fare, sì, ora lo faccio ..”, dice con

un’espressione a mezzo sorriso, tra il contrariato ed il divertito. L’operaio temporeggia

[in effetti, mette in scena un comportamento ostruzionista e di sfida, accettando le

richieste, ma non mettendole in pratica, o facendolo lentamente], tutti sono visibilmente

contrariati e sono d’accordo con quanto affermato dalla collaboratrice “ma che ci

vuole? Se ti si dice di farlo, fallo e basta, non c’è bisogno di metterci tanto

tempo, di prendere in giro!” (note di cantiere).

Lo stralcio ripropone anche tematiche sin qui analizzate, come la messa in

scena e gli stratagemmi di temporeggiamento (o fermo) durante le visite di controllo, e

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quella che si analizzerà come terza chiave di lettura sul non uso specifico delle cuffie di

protezione per svolgere il lavoro “in sicurezza” grazie alla possibilità di ascoltare i propri

colleghi durante le attività. Inoltre, evidenzia quella spavalderia che alcuni operai

“mettono in scena” come reazione ai controlli e alla richiesta di usare degli artefatti di

cui non riconoscono l’utilità e l’appartenenza alle loro modalità di pratica lavorativa.

Esibiscono durezza, sprezzo del pericolo, un mestiere, insomma, “da veri

uomini” (La Cecla, 1999), diverso da quello svolto dagli uomini che lavorano in luoghi

“sicuri” come gli uffici (Gherardi, 1998). “Che problema c’è?”, per esempio, sottolinea

una forma di “accondiscendenza” nel modificare la propria “abitudine” e indossare i

Dpi richiesti in presenza dei “controllori”. Ma anche rispondere “ma si che fa!”, ovvero

ribadire che non c’è alcuna conseguenza pericolosa nella propria azione, dinanzi ad una

situazione di evidente pericolo (il martello pneumatico che rompe il terreno in

prossimità del proprio cavo di alimentazione), testimonia di uno sprezzo del pericolo

che li porta a non curarsi delle situazioni che potrebbero procurare loro un danno

anche grave. Il non rispetto dell’autorità e la sua messa in ridicolo (con sorrisini o

temporeggiamenti nell’eseguire una prescrizione) è un altro elemento di questa

performance della maschilità in cui un uomo “non prende ordini da nessuno”, tanto

meno da una donna-capo (la collaboratrice del Responsabile dei Lavori che sto

seguendo) che dice loro cosa fare o non fare (Gherardi, Poggio, 2003; Pentimalli, 2007).

Questo mestiere e “i lavori pesanti nelle fabbriche e nelle miniere consumano,

letteralmente, il corpo degli operai; e una tale distruzione, che è prova della durezza

del lavoro ma anche del lavoratore, può essere un modo per dimostrare maschilità. Ciò

non accade perché il lavoro manuale sia necessariamente distruttivo, ma perché viene

eseguito in maniera distruttiva sotto la pressione economica e il controllo aziendale”

(Connell, 1996: 40-41 citando Donalson, 1991), ovvero sono pratiche sedimentatesi nel

tempo e in un contesto in cui forza e sprezzo del pericolo rappresentavano delle “virtù”

per gli operai, da esibire per poter ottenere e mantenere il proprio lavoro, per essere

all’altezza della situazione e non essere etichettati come “femminucce paurose”.

Ad essere esibita, dinanzi ad un pubblico di uomini, infatti, è una maschilità che

è fiera di sfidare l’autorità, soprattutto se donna (come nel caso precedente), nel gioco

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di squadra con altri uomini “il rapporto narcisistico è espresso con molta semplicità: il

lavoro è costitutivo della mascolinità e la gratificazione di tale mascolinità può venire

da altri uomini” (Gherardi, 1998: 64).

Connell (1996), inoltre, ricorda che le condizioni del posto di lavoro capitalista

hanno “influenzano certamente la formazione della maschilità per gli uomini in esso

impiegati” (81). Ed entro tale performance (Garfinkel, 1967) della maschilità fa breccia

l’idea che sia l’individuo isolato ad essere responsabile di quello che accade a se stesso,

ovvero che sia l’individuo l’unico responsabile in caso di incidente sul lavoro. Come è

emerso in una già ricordata ricerca svolta sempre in ambito edilizio (Gherardi, 2006),

relativamente agli infortuni: quello che ferisce alcuni operai è più l’aver commesso uno

sbaglio, che l’essersi procurati una sofferenza, ovvero un infortunio, ed è una cosa che

un “novizio” apprende entro le prime settimane di pratica.

Un incidente, infatti, diviene una “mancanza” individuale, qualcosa della quale

vergognarsi (Douglas, 1985). È indice di debolezza e la debolezza è moralmente

condannabile nella cultura del lavoro come quello del settore delle costruzioni, in

quanto ritenuta una caratteristica femminile. Come ricorda Gherardi (2006), citando gli

studi di Collinson (1992), la padronanza del mestiere e le abilità fisiche sono

interconnesse e attivate in un contesto di cultura di classe operaia affermativa. In

questa stessa cultura di classe, mentre la prevenzione è sottilmente codificata come

codardia, l’assumere dei rischi è ricompensato con il riconoscimento sociale e con la

celebrazione delle competenze fisiche dei suoi membri.

Altri due casi possono rendere il senso che alcuni operai danno alle loro azioni

e alle modalità di svolgimento del loro mestiere entro tale chiave di lettura.

Il primo riguarda due operai di una ditta di servizi/utenze (in subappalto),

chiamati in cantiere per “identificare” un tubo che, qualora fosse risultato di proprietà

della società d’utenza, avrebbero dovuto rimuovere.

Siamo in un’area del cantiere dove i lavori sono stati sospesi perché occorre

prima rimuovere il tubo che da diversi giorni è stato scoperto (tirato fuori dal terreno).

Il capocantiere CortemSpa (il signor M.) è un po’ nervoso, la faccenda sta andando

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avanti da un po’ di tempo causando il blocco delle lavorazioni e perdita di tempo sulla

tabella di marcia. Mi confida che spera sia la volta buona.

“Andiamo nel piazzale dove c’è un rappresentate della ditta con due operai che

però sono di un’altra ditta che lavora per loro (subappalti vari). Sono molto spavaldi,

ridono grassamente e fanno ipotesi su che tipo di cavo è quello ritrovato nel terreno e

cercato per diversi giorni. M. si preoccupa che non sia della corrente, poi dice loro che

non è dell’alta tensione perché i responsabili sono venuti qualche giorno prima ed hanno

detto che il cavo non è loro. Uno degli operai ribadisce il concetto: “ma a me non mi

succede niente … io devo solo tagliare un po’ il cavo e poi mi fermo, se è a

bagno d’olio, basta vedere se esce fuori l’olio, se no rimane là … ma io ho il

materiale, quello regge fino a duecento [di voltaggio, infatti si riferisce

all’eventualità che sia un cavo della corrente]”. L’operaio entra nella buca del terreno

dove è stato trovato il cavo, inizia a intagliare la gomma di rivestimento con un

taglierino, taglia via un pezzo della gomma che riveste il cavo e poi inizia a tagliuzzare il

tubo, praticando un piccolo buco “ma qui è tutto fradicio! (zuppo d’acqua)”, dice

l’operaio. Taglia un pezzo di cavo e dice che l’acqua lo ha reso completamente marcio e

che non è pericoloso, comunque conferma che è il loro. “Spacca tutto, non ti

preoccupare, non dovrebbe succedere niente”, dice uno dei due. Discutono su che

tipo di cavo sia e su altri argomenti legati al lavoro della loro ditta. L’operaio risale dal

buco saltando fuori e rischiando di ricaderci dentro [quando risalirà dopo, per la seconda

volta, infatti, prima salirà appoggiando il ginocchio e poi verrà fuori … il tutto senza

scala!]. Salutano e vanno via” (note di cantiere).

Questo primo episodio racconta una pratica “spavalda” che impegna due

colleghi nell’analisi della natura del cavo ritrovato da altri operai durante l’attività di

ricerca sotto-sevizi. Per stabilire di che cavo si tratti, a chi appartenga e a chi competa

rimuoverlo, altre utenze (le ditte di servizi come luce, gas, linea telefonica e altro) che

si sono avvicendate nel riconoscimento del cavo hanno consultato i numeri e le sigle

stampate o impresse sul cavo o sulle “cravatte” (ovvero fermi di metallo che servono a

fissare cavi o tubi) del cavo stesso. L’ultima ditta, invece, è andata a tentativi sia nel

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riconoscerlo che nel testarne la natura e, soprattutto, “scoprire” se fosse o meno

pericoloso. La pratica adottata risulta alquanto “sperimentale” (nel senso stretto del

“provare a vedere cosa succede”), essendo convinti della propria “invulnerabilità” – “a

me non succede niente” – e avendo fiducia negli attrezzi che reggono fino a

“duecento” volt e non credendo nella possibilità che la corrente eventualmente

presente nel cavo possa superarlo. La spavalderia lascia il posto all’esitazione nella fase

iniziale, ma quando il cavo si rivela marcio, allora si può “spaccare tutto” perché “non

dovrebbe” succedere nulla. Questa imprudenza del “non dovrebbe” succedere nulla

sottolinea quanto sottile sia la distanza tra la pratica competente della sicurezza e la

pratica della spavalderia che spinge a mettere alla prova le proprie capacità e i propri

limiti, nella convinzione, però, di essere invulnerabili.

Anche il prossimo episodio è rappresentativo di una modalità “spavalda” di

svolgere la propria attività lavorativa, benché sia ancora più manifestamente esibita,

affermata e confermata attraverso pratiche discorsive che supportano l’azione.

Il secondo episodio riguarda sempre una ditta esterna al cantiere (due operai e

il proprietario della ditta), anch’essa in regime di subappalto, chiamata per risolvere un

problema elettrico, ovvero interrompere la linea che porta elettricità al semaforo posto

a ridosso del cantiere e collegarla ad un’altra linea che corra al di fuori dell’area di

cantiere. Anche in questo caso, come vuole il cerimoniale del cantiere soprattutto per

questioni particolarmente delicate come questa34, il tutto si svolge sotto la

supervisione del capocantiere della CortemSpa.

“Le prime parole che il capocantiere M. dice al capo della ditta (i due già si

conoscono) che è arrivato in cantiere per un intervento alla linea semaforica, mandato

sul posto attraverso modalità di subappalto, sono: “così qua non si lavora! ..

mannaggia!”, ma il tono è di tolleranza, infatti aggiunge: “mannaggia, stai proprio

qua! … cerca di fare presto che qua non puoi lavorare così” ed il capo della ditta

gli risponde: “ma noi facciamo manutenzione, non prevenzione o sicurezza!” e

34

Nei casi, invece, dove c’è da accompagnare dei visitatori, o altro personale esterno che ha bisogno di visionare la situazione del cantiere prima di un intervento, è accaduto spesso che il capocantiere abbia delegato il suo assistente ad accompagnare tali persone.

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ride. Poi il discorso cade su di me e M. dice: “eh, lei sta qui per fare una ricerca

proprio sulla sicurezza e queste cose non le dovrebbe vedere”, mi guarda e ride. I

due operai lavorano come due equilibristi, vanno velocemente di qua e di là sul bordo

dello scavo profondo almeno un paio di metri o più, mentre l’operatore di una delle ditte

che lavora in cantiere continua a scavare lì vicino. Il capo dei due operai inizia a parlare

a ruota libera sulla sicurezza: “vedi, no, per quelli della sicurezza noi dovremmo

lavorare senza tensione35, ma vedi là, ogni filo contiene minimo quattro fili e per

sistemarli, non possiamo lavorare senza tensione, dobbiamo mettere i morsetti

da una parte e cercare le fasi (o qualcosa del genere) con l’altra parte (mima con le

mani l’azione di accostare le due estremità del filo tra loro per fargli fare contatto) …

come facciamo, allora, a lavorare senza tensione? … dovremmo rifare tutto

l’impianto! Come facciamo a lavorare così?! Se è così, non si può lavorare, Tu

dici che dovremmo lavorare in un certo modo, Ma Non si Fa Così! Se no tu devi

dire che non vuoi lavorare così e perdi il lavoro, o lo fai così o te ne vai… vedi

qui? (indicando i cavi che sta maneggiando uno dei due operai) Mica puoi levare la

corrente, se togli la corrente ti mettono dentro (intendendo l’arresto), ti prendono i

vigili e ti portano via e poi vai a dirlo che stai facendo i lavori come dice

l’ingegnere … ”. Fa un lungo monologo sulla sua visione della sicurezza, sul fatto che

si tratta di sfortuna se succede qualcosa, sul fatto che l’operaio può sbagliare, ma se sei

sfortunato ti succede, ma tu continui comunque a lavorare in questo modo, ma sapendo

che se sei sfortunato “ci rimani secco, e che vuoi fare … quella è sfortuna, esci di

casa, vai a lavorare e se sei fortunato ci ritorni!”. M. non si esprime in merito,

annuisce solo quando si parla del fatto che a volte l’operaio commette qualche sbaglio o

sul fatto che in un piazzale del genere è difficile togliere la corrente e tenere i semafori

spenti per il tempo necessario all’intervento, ma per il resto non dice nulla, neanche io.

L’imprenditore continua vantando una sorta di coraggio nel fare questo lavoro e nel

farlo in questo modo, perché l’alternativa è quella di non lavorare. Poi, senza sapere chi

sia, ma solo cosa faccio mi dice: “e poi voi (riferito a me, forse pensando che sono un

ingegnere) dovete avere tolleranza…” poi viene distratto e va verso un’altra persona.

35

Si riferisce alla tensione della corrente.

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I due operai, intanto, fanno gli equilibristi, uno di loro scende nello scavo e poi risale

saltando, rischiando di cadere all’indietro, in un fosso profondo un po’ di metri. Si

muovono all’interno della recinzione, camminando con la schiena alla recinzione e la

faccia rivolta verso l’interno dello scavo, su un argine strettissimo, una scarpa vi entra

solo se il piede è rivolto parallelo al bordo del terreno. Anche un operaio della ditta che

sta lavorando lì in cantiere entra ed esce dallo scavo saltando, e nessuno gli ricorda di

adoperare la scala” (note di cantiere).

L’idea dell’equilibrista è stata un’associazione spontanea avvenuta durante

l’osservazione sul campo: gli operai volteggiavano di qua e di là come se si trovassero

su una superficie piana e soffice allo stesso tempo. Una performance (Garfinkel, 1967)

degna di un ballerino di danza. Ma se al pavimento piano e soffice sostituiamo un

terreno, con uno scavo non puntellato perché lo si sta scavando e dei bordi per nulla

stabili, allora la sensazione di leggerezza diventa di imprudenza. Il “piccolo

padroncino”, come nel gergo sono definiti coloro che hanno delle ditte con pochissimi

operai, lascia i suoi due operai saltare di qua e di là affidandoli alla fortuna, se saranno

fortunati allora torneranno a casa, altrimenti o avranno sbagliato o saranno stati,

“semplicemente”, sfortunati36. La sicurezza e la prevenzione è qualcosa che fanno “gli

altri” per mestiere, ma non compete all’operaio o all’imprenditore.

Il datore di lavoro, dunque, conferma l’idea del lavoro come rischio,

dell’inevitabilità degli incidenti e della conseguente insensatezza di investire risorse

nella prevenzione degli infortuni, dal momento che è il “destino” a decidere. La

sfortuna considerata come “non c’è nulla che si possa fare per evitare un incidente” o

come “è un lavoro pericoloso”, chiude il cerchio e previene altre spiegazioni per

comprendere cosa accade quando si verifica un incidente (Gherardi, 2006).

In una situazione del genere, è interessante la reazione del capocantiere:

conosce il proprietario della ditta, conosce il suo “modo di lavorare”, ri-conosce che nel

“suo cantiere” quel modo non è “adatto”, ma non avendone il potere, gli chiede

36

L’idea che sia il destino a decidere della vita dell’individuo affonda le sue radici nel sapere popolare; sapere entro il quale si è performata la maschilità “forte e che non ha paura di nulla” di cui stiamo dando esempio.

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(paradossalmente) di fare più in fretta e di andar via presto. Non si esprime in merito al

“discorso” ascoltato sulla sicurezza, sottolinea che io non dovrei sentirlo37, ma non

accenna ad alcun minimo parere. In relazione a queste situazioni, infatti, il

capocantiere si trova in una condizione di “dissonanza cognitiva” (Festinger, 1973, ed.

or. 1957) rispetto a ciò che il proprio ruolo gli imporrebbe di fare, soprattutto

considerando che ci sono, nella stessa area, gli operai delle ditte di cui è responsabile.

Il proprietario della ditta, però, entra a far parte della realizzazione delle opere

della CortemSpa dal momento che diviene parte della rete di attori locali che con

l’organizzazione interagiscono. Non ha una diretta responsabilità nella costruzione

dell’opera, ma contribuisce a far sì che l’opera possa continuare il suo iter. La sua

azione, in effetti, è parte delle condizioni di sicurezza in cui il cantiere opera: è

fondamentale che il suo lavoro “sui collegamenti elettrici” sia svolto correttamente in

quanto potrebbe avere ripercussioni sulla sicurezza di altri operai che in quel cantiere

continuano a lavorare, responsabilità che in questo caso non viene sottolineata

neanche dal capocantiere che spera solo che gli operai finiscano e vadano via al più

presto.

Per il piccolo imprenditore, invece, quello è un lavoro come un altro, che “ha

preso” in quanto, se avesse rifiutato, lo avrebbe preso qualcun altro38, allora tanto vale

farlo, senza alcuna implicazione o riflessione sull’effetto che la sua stessa attività ha per

sé e sull’attività degli altri. “Ha preso il lavoro” anche a rischio della vita e della salute

dei “suoi” operai, come le modalità di svolgimento del lavoro mettono in evidenza.

Infine le due modalità a confronto: lavorare senza tensione (della corrente),

come le procedure prevedono, significa che occorre rifare l’impianto nuovo oppure

fermare il traffico perché occorre spegnere il semaforo, rischiando la galera a detta del

proprietario della ditta. Oppure, lavorare con la tensione (della corrente) come “la

prassi” del piccolo imprenditore prevede e fare prima senza finire in galera, senza

bloccare il traffico, senza spendere soldi per un impianto nuovo. Queste le due

37

Ricordando le fasi iniziali di negoziazione dell’accesso al campo descritte nel Capitolo 2, al quale si rimanda, quando diversi attori hanno manifestato l’idea che io non dovessi vedere certe cose.

38 È una la logica del ricatto quella che più volte è affiorata soprattutto nei racconti di alcuni

operai. Essi, infatti, si trovano in una situazione in cui non hanno potere contrattuale e l’unica risorsa in loro possesso, da scambiare, sono la “forza” e le capacità fisiche più in generale (Connell, 1996).

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alternative del proprietario della piccola ditta, il quale conferma implicitamente, la

prevalenza e la creazione di situazioni “d’emergenza”, ovvero di situazioni in cui

chiedere l’autorizzazione ai vigili della Polizia Municipale ed attendere che questi

predispongano un piano alternativo di gestione del traffico a semaforo

temporaneamente spento, comporta la perdita di tempo e, molto probabilmente, di

denaro.

La logica della produzione, del tempo è denaro, trova un valido alleato –

almeno in questo caso – nella pratica della “spavalderia”, nello sprezzo del pericolo e

nella spregiudicatezza di alcuni proprietari di piccole ditte (che fanno fare il lavoro

“sporco” ai loro operai) che, per guadagnarsi un lavoro, accettano, propongono e ri-

producono le modalità più “imprudenti” di svolgerlo.

Questa rappresenta una parte della comunità di edili (operai, imprenditori)

che lavorano nei diversi cantieri. Una maggiore conoscenza dei contesti lavorativi in cui

la pratica della spavalderia è particolarmente diffusa, però, permetterebbe di

indagarne più da vicino le rappresentazioni, il senso che questi attori attribuiscono alle

loro azioni. Sarebbe, inoltre, un modo per conoscerli meglio, anche in vista della

formazione della nuova classe di edili che proprio in questi anni si sta formando nei

cantieri e che sta imparando il mestiere anche attraverso l’imitazione delle pratiche –

compresa quella della spavalderia – degli operai che lavorano da più tempo (come gli

operai giovani rispetto al proprio “capo” più anziano e alquanto “spavaldo”).

Chissà se la “spavalderia” farà ancora parte di alcuni di loro, anche se ad una

prima osservazione della nuova generazione di operai che si avvicenda in cantiere è

plausibile ipotizzare che insieme a pratiche lavorative rinnovate (per esempio che

allineano l’uso dei Dpi, con le pratiche e gli attrezzi del “mestiere di sempre”), anche la

performance della maschilità potrà essere ricostruita, così come oggi vi sono operai che

non sottopongono il proprio corpo alla durezza del lavoro, ma al contrario ne curano

l’aspetto e la salute usando i Dpi.

Questa, come anticipato, è una chiave di lettura di alcuni casi di non rispetto

della normativa, o di un “sabotaggio” di essa, ma occorre chiedersi se sia possibile

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vedere qualcosa di diverso dal “piacere di sfidare” il rispetto delle norme, come le

prossime sottocategorie mettono in evidenza.

A sostegno di quanto sin qui affermato, infatti, si considereranno due casi utili

a proporre due altre possibili chiavi di lettura di episodi di “non rispetto della

normativa”: il non uso dei guanti e il non uso delle cuffie.

5.2.2 Pratiche di un mestiere: guanti di protezione e sapere pratico

Lungo il presente capitolo si è cercato di far affiorare la natura “collettiva” e

“situata” - dunque, mediata dal corpo, dagli artefatti, dalle stesse regole, dai discorsi

dei diversi attori, dal quadro storico e politico di riferimento - del lavoro di cantiere e si

è sostenuto che la sicurezza è una pratica, è un “vedere”, un “fare” e un “dire” che

coinvolge sia le persone che gli artefatti tessuti insieme all’interno di un sistema di

relazioni materiali (Gherardi, 2006).

I Dispositivi di protezione individuale (Dpi) sono degli artefatti, degli strumenti

che servono a “proteggere” il lavoratore: i guanti, per esempio, proteggono da

eventuali danni che l’operai può subire “maneggiando” gli attrezzi del mestiere (fil di

ferro, legni, chiodi, sega, martello); ma servono anche a contenere il danno, è il caso

delle cuffie che non possono eliminare il rumore, ma almeno attutirne l’impatto (in

senso fisico ed ergonomico). La gamma dei Dpi è ampia, non si limita ovviamente solo

ai guanti, alle cuffie, al casco o al grembiule per le saldature. Vi sono anche le

protezioni disposte sui macchinari, “schermi” apposti per esempio sulla sega

circolare39, cinture di sicurezza da utilizzare durante i lavori svolti in altezza. Sono una

sorta di paracadute o di “protezione”, appunto, che i lavoratori “dovrebbero” utilizzare

nel loro lavoro e che sono state “progettate” al fine di limitare alcuni rischi legati al tipo

di attività che si svolge in cantiere.

39

Protezione che non va per nessun motivo rimossa. Nella pratica, però, avviene spesso che gli operai la rimuovano dalla macchina sulla quale è posta ‒ in parte perché ciò consente loro di lavorare più in fretta, secondo le abitudini di lavoro acquisite nel corso dell’esperienza lavorativa. La rimozione, però, può comportare diversi incidenti, come mi hanno raccontato in due diverse interviste sia un tecnico dell’Asl che un ingegnere (quest’ultimo si occupava, al momento dell’intervista, di sicurezza ed è stato intervistato prima che la ricerca alla CortemSpa avesse inizio e a tale organizzazione estraneo). Si veda anche § 1.4.2.

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Una particolarità emersa dall’osservazione sul campo mette in evidenza come,

al di là di una volontà o meno di indossare delle protezioni durante l’attività di lavoro,

questi “oggetti”, introdotti dall’esterno nel contesto/cantiere, creano delle

“interferenze” con le quotidiane pratiche lavorative, fermando il lavoro e/o

intralciando il rapporto con gli attrezzi del mestiere e con i colleghi di lavoro.

Prima di affrontare i singoli casi, però, occorre fare una breve premessa e

ricordare quanto segue:

“Si intende per dispositivo di protezione individuale, di seguito

denominato “Dpi”, qualsiasi attrezzatura destinata a essere indossata e tenuta

dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di

minacciare la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento

accessorio destinato allo scopo ” (Testo Unico, Capo II, art. 74, definizione).

“I Dpi devono essere impiegati quando i rischi non possono essere

evitati o sufficientemente ridotti da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di

protezione collettiva, da misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del

lavoro” (ibidem, art. 75, obbligo di uso);

“Poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità” (ibidem,

art. 76, comma 2, lettera d).

Gli articoli sopra riportati evidenziano come nelle regole sia sempre presente

un margine di ambiguità e di specificazione imperfetta (March, Olsen, 1989) che

permette di essere applicata in situazioni diverse, anche perché integrata da diverse

disposizioni legislative che nel corso del tempo sono prodotte.

Il testo di legge ha il compito di dare delle linee guida da seguire, non sempre

entrando nel dettaglio delle misure precauzionali da seguire per “creare” un ambiente

di lavoro sicuro, almeno dal punto di vista legislativo, in cui siano rimosse il più

possibile le condizioni, “materiali” prevalentemente, che possano essere causa di un

infortunio (dimensione tecnica della sicurezza). Ma accanto a ciò, occorre tener

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presente la dimensione sociale, collettiva della sicurezza e dell’attività lavorativa più in

generale, dimensione che tratteggia un contesto in cui lo studio delle pratiche situate

di cantiere può lasciar trasparire qualcosa di diverso che una “indifferenza” al rispetto

delle norme di sicurezza.

Un primo episodio che può aiutare a comprendere meglio le situazioni in cui

una norma di sicurezza viene “trasgredita”, o “derogata” anche con l’assenso dei

responsabili del cantiere, è offerto dai casi in cui uno o più operai non indossino i

guanti.

Le raccomandazioni all’uso dei guanti è ben rintracciabile nel manuale

“Costruire in sicurezza”40 dove si riporta la seguente indicazione:

“Guanti. Quando maneggi ferro e legname o trasporti laterizi, quando

riordini e fai pulizia, mettiti sempre i guanti in pelle. Ti salvi le mani da

fastidiose abrasioni e ferite. Se invece manipoli calci, vernici, solventi, additivi,

lubrificanti, ecc., mettiti dei guanti di gomma o di resina. I guanti sono tuoi

personali, non lasciarli mai in giro per il cantiere” (93).

L’impersonalità della norma viene “trasformata” in una sorta di

raccomandazione dal tono confidenziale, personale e “premuroso”. Racconta che ci

sono diverse situazioni in cui occorre indossare i guanti e che tali guanti non sono tutti

uguali. Delle difficoltà del loro uso si è già parlato (§ 5.1.5) e riguardano principalmente

il fatto che, per esempio, se sono troppo spessi possono causare eccessiva sudorazione

e un’alterazione (nel senso di diminuzione) della sensibilità delle mani nel “sentire” il

ferro che gli operai stanno lavorando.

La normativa vigente, il Testo Unico, raccoglie le leggi in materia di sicurezza

emanate nel corso degli anni e, dunque, anche le disposizioni relative all’obbligatorietà

dell’uso dei guanti durante la lavorazione di particolari materiali o la pulizia del

cantiere. Gli operai incontrati sul campo e quelli intervistati hanno sottolineato come

l’attenzione e la richiesta di indossare i guanti si sia affermata soprattutto negli ultimi

40

CTP, Regione Lazio, Edilcassa del Lazio, 2007.

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anni, dall’entrata in vigore del Testo Unico in particolare. Oggi, inoltre, c’è una

maggiore attenzione anche al disegno ergonomico dei guanti, in grado di rispettare la

conformazione delle mani cercando di non alterarne la percezione. Ma è anche vero,

però, che chi ha imparato il mestiere tanti anni fa, ha bisogno, per esempio, di

“sentire” il ferro con le proprie “mani nude”.

Ecco cosa è accaduto durante una delle prime discese sul campo effettuate

insieme ad uno dei collaboratori del Responsabile dei Lavori.

Ci troviamo in un cantiere molto grande, con diverse ditte ed operai che vi

lavorano. Ad accompagnarci durante il giro c’è uno degli assistenti di cantiere, mentre

il capocantiere rimane in ufficio, dove c’è un gran via vai di persone, a sbrigare altre

pratiche.

“(Proseguiamo ancora la visita del cantiere). Arrivati in un’area in cui gli operai

stanno eseguendo la posa dell’armatura (cioè della gabbia in ferro che servirà per creare

un solaio dopo la gettata di cemento), il collaboratore chiede ad un operaio “adulto” il

motivo per cui non sta indossando i guanti mentre lavora con le barre di ferro. Infatti, a

mani nude, con la tenaglia e fil di ferro, piega e fissa il ferro per fare, appunto, delle

gabbie. L’operaio, un uomo la cui pelle è “bruciata” dal sole, ma anche dal vento e dal

freddo, dalle mani grandi e rugose, piene di spaccature, ma agili e abili, prontamente

risponde: “se non tocco il ferro mi sento male! Ormai la mano è incallita, non

punge, mia madre mi ha talmente partorito in una gabbia di ferro … mia moglie

dice che ho la mano da schiavo! Il collaboratore non sa cosa rispondere, con aria un

po’ di sufficienza però gli ricorda che “deve” indossare sempre i guanti, altrimenti se lo

vedrà un’altra volta potrebbe fargli un verbale” (note di cantiere).

A trasparire da questo stralcio sono due cose: la “fierezza del mestiere” che

forse la parola scritta non può rendere abbastanza; ed il “sapere delle mani” (Sparti,

2005), ovvero del fatto che si sta parlando di un mestiere in cui è tutto il corpo ad

essere messo in gioco, le mani in particolare. I calli, per esempio, rappresentano –

come ricorda Sennett (2008) – un caso particolare di “tattilità localizzata”.

Paradossalmente, la mano incallita – come quella dell’operaio appena citato –

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336

protegge le terminazioni nervose della mano, rendendo “meno esitante l’atto di

sondare” (150). Il callo, quindi, “da un lato sensibilizza la mano nei confronti di spazi

fisici minuscoli, dall’altro stimola la sensibilità dei polpastrelli” (ibidem). Ed è proprio

quanto accade agli operai che lavorano il ferro in cantiere, anche se le motivazioni che

gli stessi esprimono non fanno certo riferimento a spiegazioni fisiologiche, benché

l’espressione “essere stato partorito in una gabbia di ferro” può rendere l’idea della

profondità del legame del mestiere tra le mani ed il ferro che lavorano. È proprio la

dimensione tacita (Polanyi, 1990) di tale sapere a permettere o, meglio, impedire loro

di esprimere a parole ciò che fanno quotidianamente nella pratica.

Questo episodio ricorda gli operai che lavoravano al disfacimento di un tetto

osservati da Strati (2000) attraverso una finestra mentre partecipava ad una riunione.

A seguito di quell’episodio che aveva catturato la sua attenzione distogliendolo dal suo

lavoro, decise di parlare con loro.

Il racconto degli operai (Strati, 2000: 164-165), infatti, ha posto l’accento su

espressioni del tipo: “sentire il tetto con i propri piedi”, “guardare con le orecchie”,

sentirsi “inchiodato al tetto”, “il tetto ‘fa rumori’ che vanno ascoltati”, “ci sono appigli

buoni, poco buoni e falsi appigli da riconoscere a vista”. Il racconto lascia trasparire

come non vi siano delle vere e proprie “procedure” o istruzioni da seguire – e vi è

difficoltà41 anche (da parte degli operai) nel formalizzare, e ancor più nell’esprimere a

voce, le azioni da compiere per svolgere il lavoro in questione – ma al contrario sia

l’esperienza, il “sentire” di essere capaci e/o pronti ad affrontare quel lavoro, ovvero la

conoscenza sensibile che ha prodotto un sapere incorporato (embodied) nelle pratiche

e divenuto “tacito”, l’elemento che permette allo stesso capo degli operai di

selezionare gli altri operai sulla base di quello che vede e sente rispetto al loro lavoro:

“nello scegliere un nuovo operaio, uno deve «vederlo sul tetto e sentirsi tranquillo»

che non si farà male” (Strati, 2000: 166).

41

La stessa difficoltà esperita anche dai musicisti nello spiegare alcune particolari tecniche, ma anche dai medici nello spiegare la pratica dell’oscultazione o nel leggere delle lastre, professioni in cui l’elemento corporeo viene coinvolto in modo notevole e vi è la tendenza a riportare “l’esperienza umana all’interno di categorie estetiche e corporee” (Bruni, Gherardi, 2007: 106).

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Tale esperienza, inoltre, ha permesso all’autore di evidenziare la dimensione

estetica della pratica42: l’estetica dibattuta in ambito organizzativo, infatti, riguarda il

“sentire il pathos degli artefatti materiali ed immateriali dell’organizzazione” (Strati,

2000: 158; 2007); indica la “materialità” della vita quotidiana organizzativa che è fatta

di artefatti cui esteticamente si è data forma. “Materialità dovuta, soprattutto, al fatto

che il sapere organizzativo non è esclusivamente mentale, ma è radicato nella

corporeità della conoscenza sensibile” (Strati, 2010: 7).

Quanto osservato, inoltre, può ben essere compreso se andiamo anche al di là

del concetto di pratica. È Yakhlef (2010), infatti, a spingere l’attenzione verso il

significato di incorporamento (embodiment) e verso il concetto di corpo come prima

entità che muove ogni azione (o processo), ogni fare, ogni apprendere e conoscere:

“fino al punto che apprendere/conoscere è una questione di fare, un fare che può solo

essere performato attraverso gli sforzi del corpo umano” (ibidem: 423; Viteritti, 2011).

L’accezione “manuale” del lavoro in edilizia, inoltre, ben ricorda come proprio

attraverso la manipolazione degli oggetti, dei materiali in questo caso, s’impara a

conoscerli, ad interiorizzarli, fino ad incardinarli nelle nostre stesse azioni e posture

(Mead, 1966, ed. or. 1934).

A tal proposito, infatti, occorre ricordare come la convinzione che “nella

costruzione di utensili il corpo lavori per eseguire un progetto disegnato nella mente da

un processo intellettivo, e che l’azione segua meccanicamente il pensiero” (Grasseni,

Ronzon, 2001: 150) derivi dal modello cartesiano classico di razionalità, modello al

quale il concetto di pratica ha inteso rappresentare un’alternativa43 nell’ambito degli

studi sulle attività lavorative e che punta a riscoprire nel corpo – nella dimensione

corporea e incorporata come propone Yakhlef (2010) – tutta la sua portata euristica.

Il sapere pratico, tacito ed estetico44 di cui l’operaio è “possessore” e che ha

appreso con il suo corpo e la pratica – perché è in questo modo che lo si apprende – è

la fonte del lavoro “fatto bene” come hanno affermato altri operai. Sono soprattutto i

42

La radice etimologica del termine “estetica”, aisth ed il verbo aisthánomai provenienti dal greco antico, rimandano alla conoscenza umana in quanto azione attraverso i sensi.

43 Cfr. § 2.2.2.

44 Cfr. § 2.2.2.1.

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“ferraioli” e i “carpentieri” coloro ai quali è tacitamente riconosciuta dai responsabili di

cantiere la possibilità di non utilizzare i guanti, proprio perché partecipi di quel sapere

tacito che si sa di avere, ma non si sa spiegare (Polanyi, 1990). È la “conoscenza tacita”

acquisita attraverso il corpo che è in grado di “incarnare” i processi conoscitivi, anche

quelli legati all’uso del ferro.

Ad emergere è la dimensione dell’apprendimento di un mestiere attraverso il

“farsi la mano”, ovvero l’acquisizione della destrezza (Grasseni, Ronzon, 2001)

attraverso la pratica che caratterizza in generale un lavoro e, dunque, anche un

mestiere come quello degli operai edili qui in esame.

I guanti sono degli “artefatti” che si frappongono tra il corpo dell’operaio – le

mani in particolare – che ha imparato a conoscere e “sentire” i materiali con cui lavora

e a relazionarsi con essi al fine di svolgere un lavoro “competente e ben fatto”. Ciò

sembra stridere con l’articolo del Testo unico riportato poco sopra in cui si sostiene che

i Dpi debbano essere “adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità”.

Nel processo di “traduzione” della norma – che implica “creare convergenze ed

omologie attraverso il mettere in relazione cose che inizialmente erano distanti”

(Callon, 1980: 211) – che “prescrive” l’uso degli artefatti (Dpi), la loro progettazione

tecnica e le “necessità dell’utilizzatore” (l’operaio) si verifica un “tradimento”.

Gli oggetti-artefatti subiscono delle modificazioni (di forma e di attributi) a

contatto con i diversi attori del campo-cantiere, ma è anche vero che la conoscenza da

parte di coloro che ne “regolano” l’uso, non tiene realmente conto delle “necessità

dell’utilizzatore” – risultando essere (quella del policy maker) una conoscenza

decontestualizzata e riduttiva di come si lavora in pratica – ponendosi (la norma e chi la

definisce) come entità “neutra” in grado di stabilire cos’è meglio per i suoi

destinatari45.

La necessità di “sentire il ferro” probabilmente non è un “vezzo”, ma

l’espressione di un diverso sapere che si apprende attraverso la pratica ed il contatto

diretto con gli oggetti. Sentire il ferro permette di svolgere un “buon lavoro“, un lavoro

45

Ritorna anche in questo caso la necessità di un “design partecipato”, ovvero che permetta il coinvolgimento degli stessi utilizzatori degli artefatti o delle tecnologie nella loro progettazione, attraverso studi etnografici che ne rilevino le esigenze.

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“fatto bene”, “ad arte”. Ancora, è un modo per verificare la tenuta di ciò che si sta

“creando”, ovvero sentire se due ferri legati insieme con del fil di ferro arrotolato con

una tenaglia hanno raggiunto la loro stabilità o se va stretto ancor di più46.

Quando l’operaio esperto controlla con le mani nude la tenuta e la stabilità del

ferro lo fa anche per una questione di sicurezza, per l’operaio è una pratica più sicura

appresa nel corso degli anni di lavoro.

Come un panettiere avrebbe difficoltà ad impastare con dei guanti, anche un

ferraiolo ha difficoltà a “creare” a mani “coperte” le sue enormi gabbie tenute insieme

da riccioli di fil di ferro che, se sapientemente stretti, assicurano una tenuta “di ferro”.

E questo forse è anche il motivo per cui un ferraiolo anziano mi ha confidato con

grande tristezza che non c’è più nessuno che voglia imparare “il mestiere”, non

interessa a nessuno. Forse, è possibile ipotizzare che, al posto dei guanti di protezione,

bisognerebbe rendere obbligatorio un orario e delle condizioni di lavoro più “sicure”,

ovvero non dettate solo dalla fretta di consegnare il lavoro a tutti i costi in scadenze

previste troppo brevi al fine di vincere l’appalto, all’inizio, e di non pagare le penali per

i ritardi di consegna, alla fine.

Il lavoro stesso, dunque, è mediato dal corpo, dagli oggetti e dalle regole. Come

afferma Connell (1996), infatti, “la dimensione corporea nell’esperienza della vita

quotidiana è irriducibile: il sudore non si può eliminare” (53), come non si possono

eliminare i segni che questo tipo di conoscenza procura al corpo. E magari, proprio per

questo, come mi ha raccontato un ferraiolo ormai in pensione incontrato in cantiere,

46

Nel trovare un paragone che esprimesse il “sentire il ferro”, mi è venuta in mente un’attività che ho imparato soprattutto attraverso la pratica: cucinare. Nella preparazione dei piatti occorre sapere quali ingredienti utilizzare, in quali quantità, come e per quanto tempo impastare un insieme di ingredienti affinché diventi un impasto, per quanto tempo tenere il cibo sul fuoco o nel forno o se lasciarlo a freddo, a macerare, a “condirsi”. Quando si è piccoli si chiede: quanto latte? Quanta farina? Quanto olio, certi che la misura esatta degli ingredienti sia il segreto della riuscita del piatto. Invece, poi si scopre che è la pratica, le modalità che apprendiamo con gli occhi, con le mani, con i nostri sensi. È soprattutto la pratica a farci realizzare di possedere una competenza: “quanto basta”. Un’espressione che a sentirla può far irritare, ma che poi si scopre col tempo di dire a chi, come noi, chiede le quantità esatte degli ingredienti perché sta imparando. Allora s’impara a sentire l’odore dello zucchero, quello del sale, l’odore della “giusta cottura”, quella del “sta per bruciare”, l’odore di salato, oppure di dolce. S’impara anche a “sentire” con gli occhi: è quasi pronto, ancora due minuti, è perfetto, ma io metterei ancora un po’ d’olio o di sale.

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“oggi non c’è più nessuno che vuole lavorare, non c’è più nessuno che

vuole fare questo mestiere! .. e nemmeno che lo sa fare!!” (note di cantiere).

Portare i segni del mestiere addosso non è più considerato “accettabile”, ma

l’uso dei guanti ha cambiato la pratica del mestiere come i “vecchi ferraioli” l’hanno

prima appresa, poi per tanto tempo praticata e trasmessa.

Utilizzare i guanti, in questo caso, significa apprendere una nuova modalità di

praticare un mestiere, apprenderlo attraverso una nuova forma di “mediazione” che è

l’artefatto-guanto che però, a sua volta, può essere eccessivamente spesso, o di un

materiale che può impedire o “alterare” quella percezione “diretta” che fa sì che un

ferraiolo sia “un bravo ferraiolo”, che sente attraverso le mani e lavora attraverso di

esse, evidenziando, ancora una volta, la dimensione estetica della conoscenza (Strati,

2000; 2010). Si apprende un’altra pratica, differente da quella realizzata a mani nude.

“Rivolgendomi all’operaio, gli chiedo per quale motivo non indossi i guanti. “Te

lo spiego io perché!”, mi dice l’assistente “perché questi guanti ..” e indica i guanti

che l’operaio ha preso dalle tasche e che sta indossando “li vedi, questi guanti sono di

gomma e dopo cinque, dieci minuti che ce li hai, muori di caldo, ecco perché! …

se portavano una maglietta di cotone arancione, come questa ..”, e prendendosi la

maglia con la mano la tira verso di me “.. era meglio, non puoi sapere quanto è

micidiale quel gilet, sotto il sole, con questo caldo, si muore, è un forno!” (note di

cantiere).

Questo evidenzia come la dotazione degli operai non sia sempre consona alle

attività da svolgere, spesso perché, nel discorso economico sostenuto da alcuni

imprenditori, la sicurezza è un costo e comprare Dpi che siano di un certo tipo è molto

costoso.

L’importanza del corpo nello svolgere “bene” il proprio mestiere è sottolineata

anche da Alain Touraine nella sua ricerca alla Renault (1974, ed. or. 1955). L’autore

afferma infatti che “l’operaio deve sapere che cosa può aspettarsi della macchina,

ingegnarsi a conservare la precisione. L’operaio “si arrangia”: mette qua e là qualcosa

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per ridurre il gioco, ristabilire un allineamento, serrare meglio un pezzo * … +. Non può

ignorare il lavoro fatto a mano, il maneggio della lima [ … ]. L’operaio lavora con tutto il

corpo; sente in tutto il corpo la qualità del lavoro dell’utensile” (93-94).

L’“arte di maneggiare” gli attrezzi del mestiere, quindi, è una competenza alla

quale si ricorre anche nel momento in cui si utilizzano dei macchinari per svolgere il

lavoro, non solo degli attrezzi. C’è sempre una dimensione esperienziale, pratica, in

qualunque attività lavorativa si svolga (Bruni, Gherardi, 2007).

I carpentieri e i ferraioli incontrati, inoltre, hanno sottolineato come abbiano

iniziato ad adoperare i guanti, anzi, alcuni li hanno sempre adoperati, aggiungendo

però che c’è comunque un momento in cui i guanti vengono tolti:

“I guanti? Li uso tutti i giorni, anche se a volte li tolgo per praticità, per

essere un po’ più svelto!”

Ritorna da una parte l’ossessione per il tempo, per l’esser veloce nel fare e

finire un lavoro come caratteristica dell’attività di coloro che ho osservato. La

dimensione monetizzata del tempo è anch’essa “incorporata” (Blackler, 1995) negli

attori stessi del cantiere, come incorporata è la competenza di maneggiare gli oggetti

che può portare a non rispettare una norma. Dall’altra, invece, la dimensione della

“praticità”, ovvero della consapevolezza di fare un lavoro ben fatto senza utilizzare i

guanti, cosa che evita anche all’operaio di rallentare il lavoro a causa della scomodità

avvertita nell’uso dei guanti, soprattutto per coloro che non sono “abituati” ad

indossarli in quanto hanno appreso a lavorare senza utilizzarli.

Emerge, infine, una “rottura” (non rispetto della norma) tra quanto prescritto

dalla legge e quanto avviene nella pratica. Tale rottura va problematizzata e

l’osservazione sul campo ha permesso di evidenziare che cosa vi sia dietro ad una

norma non rispettata, senza voler entrare nel merito se sia giusto o meno, per offrire

un’indicazione di quello che realmente accade in un cantiere che molto spesso è

differente da quello che dovrebbe accadere e che è stabilito in altri contesti (come

quello in cui si “producono” le norme).

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È l’analisi del “contesto d’uso” di un artefatto a risultare interessante per la

comprensione di alcuni fenomeni, compresa la sicurezza sul lavoro. Tale analisi, come il

caso che segue tenterà di evidenziare, può offrire un momento di riflessione per

comprendere la natura del lavoro in esame e, non ultimo, la relazione che lega le

pratiche, la sicurezza e l’uso/non uso dei Dpi.

5.2.3 Coordinamento e collaborazione: le cuffie di protezione

I cantieri come quelli osservati durante la discesa sul campo, aperti per la

costruzione di un’importante opera di trasporto pubblico, sono caratterizzati proprio

dalla presenza di rumore. Certo, i pannelli che ne delimitano l’area sono detti “fono-

assorbenti”, ovvero servono ad attutire parte del rumore che va verso l’esterno del

cantiere ‒ per non incidere sulle aree cittadine che si trovano nei dintorni. Ci sono,

inoltre, all’interno di ogni cantiere delle centraline per la misurazione dei livelli di

rumore, sì da monitorare lo stato di produzione di rumore del cantiere stesso.

Nonostante, quindi, le diverse misure adottate per tenere sotto controllo le proprie

attività, il cantiere resta un luogo particolarmente rumoroso.

L’uso delle cuffie, o dei tappi, è prescritto al fine di limitare i danni da una

prolungata esposizione a tale rumore.

Il manuale “Costruire in sicurezza” riporta quanto segue:

“Otoprotettori (cuffie antirumore, tappi auricolari). Quando usi un

attrezzo o una macchina molto rumorosi (betoniera, sega circolare, martello o

demolitore, ecc.), usa i dispositivi di protezione dell’udito: le cuffie o i tappi”

(93).

Ancora una volta il manuale “raccomanda” l’uso dei Dpi per proteggersi dai

rumori. La normativa riportata nel Testo Unico esprime, inoltre, i valori limite di

esposizione al rumore e prescrive che, qualora la fonte di rumore non possa essere

eliminata, i datori di lavoro dovranno fornire i Dpi per la protezione dal rumore.

È previsto, inoltre, che i finestrini dei mezzi meccanici siano chiusi per evitare di

essere esposti al rumore che il mezzo stesso produce.

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Le considerazioni sin qui esposte in merito al rumore rientrano in un’accezione

essenzialmente medica del rumore ed esso è considerato unicamente come un danno

che può essere immediato, provocando la rottura del timpano (evento che è

classificato come infortunio); o può provocare “ipoacusia”, ovvero un danno

irreversibile delle capacità uditive dovuto a esposizione prolungata a fonti di rumore

(evento che porta ad una malattia professionale)47.

Nei cantieri, però, come in altri luoghi di lavoro48 il rumore ha anche altre

“caratteristiche”.

Un’interessante ricerca condotta da Jean-Paul Thibaud (1991), infatti, ha messo

in evidenza come, proprio in un contesto di cantiere edile, i suoni permettano di

organizzare l’attività tra i diversi operai49.

L’osservazione dei cantieri edili rappresenta anche per l’autore una fonte

empirica per comprendere cosa accade in luoghi caratterizzati da rumore, dove

l’interazione non è sempre agevolata dalla compresenza o dall’assenza di

“interferenza” (che può essere visiva, ma anche uditiva) e dove il termine produzione si

applica sia all’attività di costruzione che a quella del rumore (e qui, ricorda l’autore, è

opportuno parlare di produzione sonora).

Lo studio di Thibaud, inoltre, mette in evidenza come vi sia una “priorità delle

produzioni sonore altrui rispetto a quelle individuali”50 e una sorta di “opportunismo

47

Le informazioni riportate sono state raccolte durante un seminario INAIL tenutosi il 22 e 23 aprile 2010, nell’ambito della presentazione di un progetto dell’ente “L’INAIL Lazio adotta un cantiere”, alla presenza di alcune classi di Istituiti Tecnici di Roma. Nel corso del seminario, inoltre, è emerso come il rumore sia la causa principale di malattia professionale. Si è anche ricordato come l’abitudine ad ascoltare musica attraverso le cuffie dei lettori musicali abbia un impatto dannoso sull’udito.

48 Si pensi, ad esempio ai Call Center, in cui la questione del rumore tiene ancora banco tra

diversi studiosi. Per una chiave di lettura che vede il rumore più come un insiemi di “suoni pertinenti” e come “risorsa” per la collaborazione ed il coordinamento si rimanda al saggio di Lan Hing Ting e Pentimalli (2009).

49 L’articolo di Thibaud mette in evidenza come sia stato il paradigma spaziale e visuale ad aver

dominato il nostro pensiero. A tal proposito, infatti, l’interazione “faccia a faccia” ‒ che rappresenta una situazioni di compresenza degli attori che interagiscono ‒ si “limita a definir un caso particolare in cui gli individui sono mutualmente accessibili allo sguardo” (ibidem: 63).

50 Ciò indica come solitamente sia l’attenzione verso i suoni (o rumori) prodotti dagli altri operai

a prevalere sull’attività dell’individuo. Infatti, quando la “produzione sonora personale entra in concorrenza con le emissioni sonore altrui, la stessa cessa di essere l’oggetto primo d’attenzione” (Thibaud, 1991: 68). Questo ricorda anche “l’attenzione distribuita” (Heath, Luff, 1992; Joseph, 1994) dell’attore tra le attività, e dunque i suoni e rumori, del cantiere.

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sonoro”51 da parte degli operai che cercano (ed hanno bisogno) di parlare in un

contesto rumoroso qual è il cantiere, sottolineando una funzione sociale svolta dai

rumori, ovvero la possibilità di essere “sfruttati” per agevolare l’interazione e la

collaborazione tra gli operai, la cui precondizione è la possibilità di essere sentiti.

Infine, va ricordato che anche l’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro,

fa riferimento al rumore come fonte di danno ‒ sia per chi adopera i macchinari che

producono rumore sia per tutti gli altri operai che lavorano in prossimità di tali

macchine ‒ ma sottolinea anche il fatto che lo stesso rumore “mascheri” altri suoni che

sono importanti per la comunicazione tra gli operai e per la stessa sicurezza52.

Quest’ultima considerazione ben si collega all’analisi delle note di campo

raccolte durante l’osservazione e l’attività di shadowing del capocantiere e/o

dell’assistente CortemSpa.

In cantiere, per esempio, è possibile osservare come spesso le cuffie siano

appese da qualche parte nella cabina del mezzo meccanico; oppure che i finestrini

siano aperti mentre il mezzo è in funzione.

L’osservazione sul campo ha offerto, dunque, la possibilità di cogliere

un’ulteriore chiave di lettura di ciò che sta dietro a fenomeni spesso etichettati

frettolosamente come “non rispetto della normativa”, utile per comprendere ciò che

quotidianamente accade in alcuni cantieri.

Si prenda il caso dell’operatore di mezzi meccanici (escavatore, mini

escavatore, pala meccanica, martello pneumatico, ecc.) che deve essere munito di

segnale acustico/visivo per segnalare lo stato di movimento. Il suo lavoro consiste,

appunto, nell’eseguire lavorazioni di scavo per la ricerca di sotto-servizi, oppure lo

scavo del terreno entro il quale si costruirà un qualche tipo di edificio, e cose simili. La

“procedura” di scavo prevede innanzitutto un operatore ad effettuarlo, mentre

eventuali collaboratori devono tenersi a “distanza di sicurezza” (entro il raggio d’azione

della macchina) durante la fase di scavo, ovvero quando la macchina è accesa. I

51

Significa che nei ritmi di lavoro che producono suoni ciascun operaio che intende “dare una voce evita generalmente di entrare in concorrenza con la produzione sonora manuale o meccanica più intensa” (Thibaud, 1991: 70).

52 Le informazioni sono state tratte dal sito dell’organizzazione (www.ilo.org), in particolare nella

sezione Safework Bookshelf (4° edizione).

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lavoratori di supporto alle macchine di movimento terra (detti anche “segnalatori a

terra”), infatti, aiutano l’operatore del mezzo, ma devono mantenersi a debita

distanza.

Durante lo scavo, inoltre, l’operatore deve avere i finestrini del mezzo chiusi (se

il mezzo ne è dotato, ovviamente) ed indossare le cuffie, così come è prescritto

facciano i suoi collaboratori e quanti si trovino nell’area del cantiere esposta a rumore.

In cantiere, però, può capitare che l’operatore dei mezzi (ed il suo

collaboratore) non indossi le cuffie ed abbia i finestrini aperti, come mai?

Dall’analisi delle note di campo e dell’intervista sottoposta ad un operatore

sono emersi elementi interessanti per descrivere la pratica quotidiana e le modalità

situate di svolgere le attività di scavo. Alla domanda che cercava di indagare il tipo di

rapporto che l’operatore ha con l’uso del Dpi è emerso quanto segue:

“Dispositivi di sicurezza, ecco, l’unica cosa che sull’escavatore .. che

serve magari se stai con il martellone a picchiare, ti metti le cuffie oppure

chiudere [i finestrini]… dipende sempre dall’insonorizzazione che ha la

macchina, perché se ha un’insonorizzazione buona, non servono le cuffie, basta

che chiudi i vetri e tutto quanto. Invece se lavori con la macchina aperta devi

mettere sempre le cuffie [ … ]. Col picchio non ci sono problemi [ad usare le

cuffie]. Invece per quanto riguarda la benna .. tempo fa mi stavo - proprio con

quelli della sicurezza - ho avuto una cosa da dire, nel senso che con l’escavatore,

quando stai scavando, il servizio lo senti, cioè senti magari che si può rompere

un pezzettino di plastica, si sentono tante cose, le persone che hai vicino. Magari

col picchio è giusto metterle, però quando uno scava, sente il servizio non solo

con le mani, lo vede, lo sente, sono tante cose che […], la cuffia serve solo per il

picchio, secondo il mio punto di vista. Quando si scava è meglio non metterle,

perché almeno uno sente, quando stai scavando, quello che c’è sotto, quello che

non c’è, se c’è il servizio [ … ], con la macchina chiusa non riesco a lavorare! non

lavoro .. te l’ho detto, ritorniamo al discorso, non sento il servizio e tutte queste

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cose qua. Però, per quanto riguarda il picchio, sì, è giusto mettere le cuffie”

(Escavatorista - operatore di mezzi meccanici - 37 anni).

La parte dell’intervista riportata esprime chiaramente il senso attribuito

dall’operatore al suo “non rispetto delle norme”. Le cuffie gli impediscono di “sentire”

tante cose, comprese le persone che ha vicino e che collaborano con lui nello

svolgimento del “compito”. In questo, caso, però, non si tratta di un’attività

individuale, bensì collettiva che viene svolta attraverso la coordinazione con il proprio

collega che lo aiuta sia nel “vedere meglio certe cose”, sia nel portare a termine

l’attività lavorativa. Compito del manovale, infatti, è quella di picchettare la zona già

controllata; oppure di agevolare lo scavo usando la pala a mano; direzionare meglio

l’operatore nell’uso della macchina; dargli le coordinate esatte per muoversi.

Questo permette di mettere in evidenza come la “pratica abile” (Grasseni,

Ronzon, 2001) non sia la semplice applicazione meccanica di una “forza esterna, ma

comporta le qualità della cura, del giudizio e della destrezza” (150), ovvero l’operatore

guarda e sente mentre svolge la sua attività lavorativa, al di là di eventuali piani e

progetti che dovrebbe eseguire (Ingold, 1993 in Grasseni, Ronzon; Suchman, 1987). Le

abilità, come ricordano Grasseni e Ronzon53, “richiedono un approccio ecologico che

situi l’operatore esperto, fin dall’inizio, nel contesto di un coinvolgimento attivo con i

fattori costituenti il suo ambiente circostante” (150), compresi il materiale (attrezzi,

macchine e Dpi) con cui sta lavorando e i colleghi che a volte collaborano con lui.

Il “senso” dato dall’operatore, quindi, è coerente con la sua pratica quotidiana

che lo porta ad indossare le cuffie durante l’uso del “picchio”, ovvero del martello

applicato al mezzo meccanico per “rompere il cemento” (attività, quindi, riconosciuta

come rumorosa e “lineare”, ovvero che richiede la demolizione di blocchi di cemento e

in cui la coordinazione con un manovale non è sempre necessaria), e a non indossarle

quando svolge la cosiddetta “ricerca sotto-servizi”, ovvero la ricerca di tubi di diverso

spessore e grandezza che trasportano le diverse utenze cittadine al di sotto del manto

stradale.

53

Il testo è un lavoro di traduzione di una parte dell’opera di Tim Ingold, ovvero cinque saggi scritti tra il 1989 ed il 1999.

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Anche qui, il “sentire il servizio”, “sentire gli altri e tante cose” esprime la

natura “pratica”, “estetica”, “sensibile” del sapere che permette all’operatore di

svolgere la sua attività. Se non è nelle condizioni di “sentire il servizio”, non lavora, in

quanto metterebbe in pericolo la sua stessa vita: sentire che il braccio meccanico

dell’escavatore è arrivato a trovare un tubo o che magari “si può rompere un

pezzettino di plastica”, equivale a dire che deve fermarsi, controllare e far controllare

al suo collaboratore che tipo di tubo è, che danno eventualmente ha procurato o

potrebbe procurare. L’operatore, dunque, sente anche rumori e suoni particolari e

pertinenti che gli segnalano a che punto si trova con il lavoro, se deve andare avanti o

deve fermarsi nell’operazione di scavo. Si ricorda che in un caso il tubo conteneva del

gas e che non ne era stato deviato il corso, per cui, dalle parole di un capocantiere

“abbiamo rischiato di saltar per aria”. Il lavoro di coordinamento (in questo caso non

raggiunto) emerge, anche qui, tra l’attività di chi doveva chiudere e deviare il gas e chi

doveva demolire una tubazione che sarebbe dovuta essere vuota. La prudenza

dell’operatore, agita attraverso l’ascolto dei rumori prodotti dal mezzo meccanico, è

possibile se l’orecchio dell’operatore è “libero” di ascoltare i diversi rumori e suoni,

compresa la voce di un suo collaboratore che lo guida, confermando l’esistenza di

rumori come “suoni pertinenti” (Lang Hing Ting, Pentimalli, 2009).

La difficoltà ad usare le cuffie per svolgere attività di ricerca sotto-servizi,

inoltre, mette in evidenza l’interazione tra gli attori umani e non-umani (Latour, 1993),

un’interazione che richiede un allineamento che mette in risalto la natura situata e

materiale della relazione (Suchman, 1987, Conein, Jacopin, 1994) al fine di mantenere

un orientamento comune rispetto all’azione che si sta compiendo.

La macchina inoltre, attraverso il braccio meccanico che permette lo scavo,

rappresenta un vero e proprio “prolungamento” della mano dell’operatore, mentre le

orecchie, libere dalle cuffie, permettono la cooperazione con i manovali che

collaborano nell’attività di ricerca del sotto-servizio, svolgendo un’importante funzione

di coordinamento. Coordinamento che è realizzato anche attraverso la comunicazione

gestuale tra gli operai. Sono diversi i casi in cui l’operatore di macchina, soprattutto

della gru, è sempre aiutato nelle sue attività di spostamento dei carichi (appesi ad un

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grande gancio) da almeno un “operatore a terra”. L’operatore di gru, infatti, non

compie alcun movimento con il suo mezzo fino a quando non riceve comunicazione

dall’operatore a terra. Questi, da parte sua, si accerta che la situazione tutta intorno sia

libera (da operai, da passanti, da altri mezzi in movimento) e indica all’operatore della

gru, con i gesti della mano, la direzione che deve dare al suo mezzo: destra e sinistra

sono indicate dalla mano che si sposta, appunto, verso destra o verso sinistra; se il

mezzo deve fermarsi, allora stende il braccio in fuori ed apre il palmo della mano in

segno di “alt”; se il carico deve essere tirato si fa segno con il palmo della mano aperto

e rivolto verso l’altro; per riportare giù il carico, l’operatore a terra indica all’operatore

di gru con il dito indice rivolto verso il basso che si muove in senso circolare (le altre

dita chiuse a mo’ di pugno).

Quella del coordinamento e della collaborazione sono tematiche emerse già

dalle ricerche dei cosiddetti Workplace Studies come: Heath, Luff, 1992; Heath,

Knoblauch, Luff, 2000; Heath, Button, 2002, Whalen e al., 2002; Goodwin, 2003, per

citarne alcuni (§ 2.2.3).

Come sostengono Heath e Button, i “Workplace Studies” si sono interessati alla

comprensione di strumenti e tecnologie “in-azione”, per rilevare come usi

apparentemente “mondani” e pratici di tecnologie quali computer, sistemi informativi,

protocolli formali, specificazioni tecniche ecc. ‒ ma anche, potremmo aggiungere,

artefatti come Dpi e mezzi meccanici ‒ dipendano da un “complesso corpo di pratiche

organizzate socialmente attraverso cui i partecipanti realizzano la propria condotta

organizzativa” (Heath, Button, 2002: 160).

Benché possa apparire come un “compito individuale” ‒ quello di scavare con

un mezzo meccanico ‒ l’episodio in cui l’operatore lamenta la difficoltà ad utilizzare le

cuffie durante la fase di scavo con benna meccanica evidenzia la dimensione collettiva

dell’attività lavorativa, la quale riposa sull’abilità di mantenere un orientamento

comune dell’attività stessa, ovvero una conoscenza e un’attenzione distribuita (Heath,

Luff, 1992; Joseph, 1994, Hutchins, 1994; Pentimalli, 2008) verso i rumori prodotti dalla

propria attività, ma anche verso le attività svolte dai colleghi che stanno assistendo

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l’operatore nel suo lavoro. Tutto ciò fa sì che siano le pratiche comunicative

socialmente organizzate a coordinare le attività e i compiti quotidiani.

Anche la distanza di sicurezza non sempre mantenuta dai collaboratori

dell’operatore del mezzo meccanico rientra nella necessità di “coordinarsi” e

collaborare con l’operatore che si trova ad un’altezza che non gli permette di “vedere”

correttamente quanto accade al di sotto del braccio che scava.

Da un lato, il braccio meccanico come “prolungamento” della propria mano

guidata dal “rumore” che deve poter essere sentito senza interferenze; dall’altro il

manovale (così è definito nel gergo di cantiere) è il “prolungamento” della vista

dell’operatore, ma anche delle mani visto che spesso aiuta con la pala a scoprire i tubi

che iniziano ad affiorare dal terreno o che fissa i punti di riferimento per l’attività

successiva che l’operatore dovrà svolgere.

Alla base di queste relazioni materialmente diverse vi è un processo definito

“ingegneria dell’eterogeneo” (Law, 1987) che, almeno in parte, “ignora le distinzioni tra

persone, tecnologie, testi e oggetti naturali, e combina questi elementi dando vita ad

un effetto” (in Cooper, Law, 1995: 299). La collaborazione è ciò che emerge

dall’allineamento di questi elementi umani e non-umani (Latour, 1993) e gli stessi

artefatti si “costruiscono” nell’interazione con i loro utilizzatori che ne fanno un uso,

appunto, ingegnoso, situato e strumentale all’attività da svolgere.

In questa pratica lavorativa situata, quindi, la relazione tra l’umano

(l’operatore) e l’elemento non-umano (il mezzo meccanico) è tale per cui, soprattutto il

braccio meccanico, diviene parte integrante del proprio corpo, dando risalto a ciò che

Polanyi (1990) definisce “consapevolezza sussidiaria”.

Parafrasando l’esempio utilizzato da Polanyi del rapporto tra il medico ed il

“colpo di bisturi”, potremmo dire che la consapevolezza sussidiaria indica che è in

corso, in relazione all’azione del braccio meccanico che scava, l’assimilazione di questo

elemento non-umano, come direbbe Latour (1993), come parte dell’esistenza

dell’operatore ed il trasferimento di quest’ultimo nel “braccio” con cui sta operando.

L’operatore, dunque, rende in questo modo sé stesso consapevole dell’attrezzo con cui

sta realizzando la pratica lavorativa in questione, “così come lo è del proprio corpo nel

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suo complesso e, in specie, dei propri occhi, delle proprie braccia e delle proprie mani”

(Strati, 2000: 169).

Così come il chirurgo impara a conoscere il bisturi acquisendone

consapevolezza sussidiaria, usandolo, immedesimandosi in esso e integrandolo a sé

come parte della sua corporeità (Polanyi, 1990), anche l’operatore segue lo stesso

processo di conoscenza dell’artefatto e del suo uso in situazione. La conoscenza che ne

deriva è perciò “conoscenza personale” (ibidem) legata alle proprie e personali facoltà

di percezione sensoriale e di giudizio estetico (Strati, 2000), dovute soprattutto alla

conoscenza tacita ed incorporata (Blackler, 1995) che si realizza nella collaborazione e

nel coordinamento con i propri colleghi.

In un contesto simile, mettere le cuffie e chiudere i finestrini, secondo

l’operatore, interferisce con l’attività lavorativa e anche con le pratiche della sicurezza

apprese nel mestiere. Infatti, la possibilità di “sentire il servizio”, ascoltare e “tenere

sott’occhio” il proprio assistente permettono di mantenere alto il livello di attenzione,

che oscilla tra l’essere focalizzata o distribuita tra i diversi attori del contesto

dell’azione (Joseph, 1994), e di acquisire le competenze (la sicurezza, per esempio) per

gestire anche le situazioni critiche come quelle in cui si rischia di rompere una

tubazione che potrebbe contenere gas o altro materiale pericoloso.

Anche l’udito, dunque, ha rilevanza nell’apprendere e svolgere in pratica

un’attività. Infatti, l’udito è “educato” a selezionare i rumori rilevanti dai rumori tout

court. Si acquisisce, cioè, quella capacità di filtrare ed interpretare “rumori” e suoni

rilevanti e significativi per l’interazione sociale, per la collaborazione (Thibaud, 1991;

Lan Hing Ting, Pentimalli, 2009), ma anche per la realizzazione dell’attività di lavoro

(“sentire il servizio”), come il primo episodio ha messo in luce. Il rumore della plastica

che si rompe è un rumore ben diverso da quello del “picchio” che rompe il cemento. Il

primo permette di “orientare l’azione”, ovvero di prestare attenzione a ciò che si sta

facendo ed al pericolo che si sta correndo; il secondo indica un rumore fastidioso

(“rumore rumoroso”) prodotto dallo svolgimento di una data attività.

Per dirla con le parole dell’operatore intervistato, “il picchio produce rumore e

basta”, e lo stesso operatore riconosce la necessità di utilizzare le cuffie di protezione;

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“l’escavatore”, invece, fa sì rumore, ma un rumore ‒ definibile più un “suono

pertinente” ‒ che interagisce con l’operatore e permette la collaborazione ed il

coordinamento anche con gli altri attori coinvolti nella scena. L’operatore, come il

fabbro di cui parla Ingold, “guarda e sente mentre lavora” (in Grasseni e Ronzon, 2001:

74).

I “rumori” o i “suoni pertinenti” di cui si sta parlando orientano l’azione e sono

in grado di garantire sicurezza a chi li ascolta: riconoscere, tra la tipologia di rumori che

ha appreso nel suo mestiere, quello che gli permette di fermare il mezzo meccanico e

non causare danni che potrebbero costare la vita a se stesso e ai suoi colleghi.

5.2.3.1 In questo mestiere bisogna “avere occhio”

L’attività dell’operatore e del suo assistente è, appunto, un’attività pratica

situata ‒ emergente in situ dalle dinamiche delle interazioni (Suchman, 1987) ‒ e

basata sul sapere pratico, una conoscenza tacita (Polanyi, 1990) che egli ha acquisito

attraverso il corpo e i suoi sensi (vista, tatto ed udito in particolare), una conoscenza

sensibile ed estetica (Strati, 2000, 2010).

In questa attività, inoltre, come in gran parte dell’attività di cantiere, è

nuovamente l’importanza dell’intermediazione giocata dal corpo e dai suoi sensi

nell’apprendere e nello svolgere l’attività lavorativa ad assumere rilevanza, in

particolare sono le competenze visive che permettono l’acquisizione di quel “saper fare

ed essere” che Goodwin54 (2003) chiama “sguardo o visione professionale”, ovvero

quel lavoro svolto dal corpo attraverso la vista che diviene in grado di notare e isolare

un flusso di eventi pertinenti. Quest’ultima non è considerata dal suo punto di vista

fisiologico, bensì come attività sociale e culturale orientata in funzione di compiti

conoscitivi svolti entro specifiche cornici professionali.

54

La storia di Charles Goodwin e della moglie Marjorie Goodwin li porta, alla fine degli anni ’80 nel centro di ricerca di Palo Alto, alla Xerox Parc, in un’equipe guidata da Lucy Suchman per occuparsi dello studio delle interazioni in un aeroporto di medie dimensioni. Ed è proprio questa esperienza di ricerca che conduce Charles Goodwin a scrivere sulla “visione trasparente” in cui “mostra come il processo stesso del vedere sia un’attività culturale mediata non solo da conversazioni linguistiche, ma anche dall’interazione con particolari tipi di strumenti in particolari ambienti di lavoro” (Duranti, 2003: 12, Introduzione a Goodwin, 2003).

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Ciò rappresenta il punto di partenza per la scoperta della “costruzione della

professionalità”55 alla cui base vi sono “modi socialmente organizzati di vedere e di

comprendere gli eventi che rispondono agli specifici interessi di un particolare gruppo

sociale” (Goodwin, 2003: 17, ed. or. 1994)56, le “visioni” appunto.

“… devi sempre stare attento a quelli che hai intorno, i colleghi, devi

avere sempre mille occhi, guardare lo scavo [ … ], devi rubare tanto con

l’occhio, magari quando stai imparando, rubavi con gli occhi quelli che scavano

..” (Escavatorista - operatore di mezzi meccanici - 37 anni).

È lo “sguardo professionale” di cui parla Goodwin (2003) proprio nelle sue

ricerche sulla pratica archeologica. Esso, infatti, è acquisito e formato durante la

pratica di “affiancamento” dell’“esperto”, cosa che mette in luce la dimensione sociale

e culturale dell’“educazione alla vista”: “imparare a guardare” il terreno sul quale si

lavora e “imparare a vedere” ciò che l’operatore esperto già riconosce “ad occhio”

(ibidem); affidarsi agli altri e tenerli “d’occhio” per svolgere il proprio lavoro. L’occhio

dell’esperto, infatti, è in grado di tenere sotto controllo tutta la scena ed è in grado

anche di comprendere e prevedere se le azioni degli altri saranno un vantaggio o un

ostacolo alla realizzazione del proprio compito (Pentimalli, 2010).

Lo stralcio che segue riporta un’attività osservata molto spesso in cantiere,

soprattutto durante i brevi momenti in cui riuscivo a collocarmi in una zona propizia

per osservare cosa accadeva nella cosiddetta area “catena di montaggio”57. È infatti in

55

Da un punto di vista teorico, va ricordato come questi studi avvicinano Goodwin ad agli studiosi della distributed cognition. Alla base di tali studi vi è l’idea che i processi cognitivi non risiedano solo ed esclusivamente nella mente dei singoli individui, ma abbiano anche una “radice” sociale. I processi cognitivi, secondo tali studiosi, sarebbero distribuiti, tra gli individui e tra le singole persone e il loro ambiente fatto di oggetti materiali (strumenti) che lo occupano e lo definiscono (Hutchins, 1994; Lave, 1988, 1993). Inoltre, va notato come per Goodwin i processi sociali non siano interni, invisibili e silenziosi, bensì siano attività sociali esterne, visibili ed udibili, se si hanno i giusti metodi.

56 Interessante è la ricerca sul lavoro degli archeologi e proprio da questa osservazione è

scaturito un esempio che ben rende l’idea della “visione professionale”. L’autore afferma, infatti, che una stessa “zolla di fango” acquista significati differenti e rappresenta fenomeni diversi se ad osservarla è un archeologo o un contadino. Tra i contesti in cui svolse le ricerche ci sono anche: un tribunale, un centro oceanografico, un laboratorio geochimico.

57 L’espressione è legata da un lato al tipo di processo lavorativo che in tale area si realizza,

soprattutto con fasi distinte e ripetitive; dall’altro è usata in cantiere dai responsabili CortemSpa come

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quest’area che avveniva di frequente lo spostamento di materiale (gabbie di ferro e

pezzi di recinzione da mettere attorno allo scavo del diaframma in fase di “gettata” del

cemento) e attrezzi (per esempio il gruppo elettrogeno utilizzato per l’attività di

saldatura) mediante l’utilizzo della gru di servizio. Durante questa “manovra”, come è

definita in cantiere, occorre prestare la massima attenzione, assicurarsi che non vi

siano persone o mezzi lungo il tragitto che la gru farà fare agli attrezzi appesi al suo

grande gancio per spostarli da un’area all’altra del cantiere. L’operazione coinvolge,

oltre all’operatore, anche uno o più operatori “a terra” che hanno il compito di

direzionare l’operatore nelle fasi di spostamento della gru.

“Mentre l’assistente parla con il capocantiere di una ditta, ci fermiamo

sull’asfalto che divide i due cantieri, entrambi con le porte aperte, perché la gru di

servizio posta nel cantiere dove ieri è stato fatto il diaframma, sta trasportando i

macchinari nuovamente nel cantiere di fronte. Il trasporto avviene mediante 4 ganci con

catene, della gru, a cui vengono fissate le macchine da portare nell’altro cantiere. Inoltre,

c’è una fune che un operaio tiene tesa per direzionare il carico. Finché la gru tiene il

carico a vista d’occhio, vedendo anche l’operaio che direziona il carico, è l’operaio stesso

a dare al gruista le indicazioni (ricorrendo ai fischi per attirare l’attenzione

dell’operatore; utilizzando i gesti della mano e alcune brevi parole urlate come la

locuzione performativa “Attenzione!”, “Fermo!”, “Vai!”). Quando però ha

oltrepassato i pannelli del cantiere di destinazione, è un terzo operaio che fa da tramite

tra l’operaio che direzione il carico e il gruista. Questo terzo operaio è praticamente

sull’asfalto che separa i due cantieri. Quando l’operaio dà l’ok, fa cenno all’altro che

direziona il carico di segnalare al gruista dove direzionare il carico e quando farlo andare

giù fino a terra. La direzione viene segnalata attraverso la mano: la destra o la sinistra a

seconda della direzione da dare allo spostamento del carico; quando è il momento di

andare giù, ovvero di posare il carico, l’operaio fa cenno con la mano di scendere, mentre

il terzo operaio “traduce” con un gesto circolare del dito indice rivolto verso il basso

sinonimo di affidabilità del gruppo di lavoro che lo svolge. Tale gruppo, infatti, fa parte di una multinazionale esperta in alcuni tipi di scavo e svolge il proprio lavoro con maggiore autonomia rispetto ad altre ditte (come previsto, tra l’altro, dal contratto d’affidamento stipulato con la CortemSpa).

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354

(anche altri due operai intervenuti successivamente per facilitare l’operazione hanno

segnalato nello stesso modo). Inoltre, è interessante notare come il gruista, nel momento

in cui non aveva a portata d’occhio l’operaio che teneva la fune, si sia fermato ad

aspettare che qualcuno gli dicesse, o gli indicasse, cosa fare” (note di cantiere).

L’episodio, più volte accaduto in cantiere e qui ricostruito, sottolinea la natura

collettiva dell’attività lavorativa e l’importanza della “funzione visiva” che permette sia

di svolgere il proprio lavoro, affidandosi alle indicazioni gestuali “convenzionali”, come

vengono comunemente chiamate in cantiere, sia di lavorare in sicurezza. Sono gesti

che gli operai condividono, conoscono e apprendono nel contesto del cantiere e che

permettono loro di comunicare. È possibile, infatti, che anche altri operai si aggiungano

alla scena, magari da un’altra angolazione, (come il caso del terzo operaio intervenuto

nella situazione appena descritta) e, anche se non svolgono il ruolo di “operatore a

terra”, essendo a conoscenza del repertorio di gesti convenzionali usati in cantiere,

sono in grado di dare indicazione ad un operatore di macchina e garantire la sicurezza

dell’operazione in svolgimento.

Questi sono esempi di pratiche quotidiane in cui il coordinamento e la

collaborazione si esprimono attraverso il sapere pratico appreso in cantiere e che,

ancora una volta, mettono in luce modalità di lavoro che non sono individuali, ma

collettive.

Infine, l’importanza del “saper vedere”, del condividere gesti e modalità

socialmente costruite e condivise di fare le cose in un certo modo piuttosto che in un

altro (Gherardi, 2006), sono competenze “tacite” che si strutturano “con l’uso continuo

e situato di indicazioni e micro spiegazioni: si insegna a vedere” (Gherardi, Nicolini,

2001: 239), come accade nel caso di un novizio che apprende il mestiere edile.

Il “tenere d’occhio”, inoltre, è una locuzione utilizzata in cantiere per destare

l’attenzione e generare la collaborazione tra gli operai “contro” i capi, e tra quest’ultimi

e gli operai contro il “nemico comune” rappresentato dai vertici dell’organizzazione e,

soprattutto, dai controllori esterni, come nello stratagemma della “vedetta”. In questo

caso, infatti, l’operaio che è posto sul ciglio di uno scavo ha il compito di avvisare gli

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operai che stanno lavorando nello scavo dell’arrivo dei controlli, compresi i propri

responsabili (§ 4.2.3.1).

La funzione visiva, ancora, è centrale nelle attività di coordinamento, come

visto, tra gli operatori di macchina e gli assistenti che collaborano tra loro.

Un’espressione ricorrente ascoltata in cantiere è “occhio!”, la cui prosodia (accento,

tono, intonazione) è rafforzata dal gesto della mano che porta l’indice verso il proprio

occhio. È un’espressione che richiama l’attenzione di tutti coloro che si trovano in

cantiere e che non sono impegnati nella stessa azione dell’operatore.

A tal proposito, ho assistito ad un caso in cui un consulente per la sicurezza,

accompagnato dall’assistente di cantiere CortemSpa a cui facevo da ombra, ha fatto

presente al responsabile di una ditta che alcuni operai stavano lavorando troppo in

prossimità della gru che movimentava dei carichi.

“L’assistente ed io stiamo per rientrare dall’ennesimo giro di controllo, quando

incontriamo un consulente di Roma per il Trasporto Pubblico che si occupa di sicurezza

mentre sta dando un’occhiata in giro. Andiamo in ufficio, il consulente saluta P.,

l’assistente, e, affiancandomi a loro, li seguo nell’abituale giro del cantiere. Sono le 12

passate e gli operai sono ancora in cantiere perché quando c’è da predisporre le gabbie

per il getto dei pannelli, o quando si getta con il cemento, tali attività non possono essere

fermate e, dunque, occorre “sacrificare” la pausa pranzo, spostandola o accorciandola.

Entriamo nella zona “catena di montaggio” ed il consulente chiede di parlare con il

capocantiere della ditta che si occupa degli scavi. Sono in funzione diverse macchine: la

pala che sta caricando il materiale di scarto sul camion, la gru di servizio che sta

sistemando le gabbie di ferro nello scavo per i diaframmi. C’è molto rumore, diversi

operai sono impiegati nelle lavorazioni. Quattro operai si occupano di direzionare e far

inserire la gabbia appesa alla gru nello scavo. In ogni scavo vengono inserite sei gabbie le

quali si sovrappongono tra loro per un certo tratto, questo permette di saldare le gabbie

tra loro. Si inserisce una prima gabbia, poi la seconda che rimane sovrapposta in un dato

punto dove la si salda. I quattro operai, muniti di un lungo ferro a forma di F con una

lunga asta, si avvalgono di essa per battere, piegare e direzionare i ferri che compongono

la gabbia e danno indicazioni anche al gruista che aspetta senza fare nulla. Infatti, solo

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quando riceve l’ok con un gesto della mano o con delle grida, muove nuovamente la

gabbia. Il lavoro è al quanto pericoloso, ma gli operai dimostrano una certa padronanza.

Usano la mano per fare gesti al gruista così da dirgli di abbassare o tirare su la gabbia o

direzionarla verso i lati.

Il consulente per la sicurezza, però, parla con il capocantiere della ditta dello

scavo al quale dice che dal momento che la posa delle gabbie è un’operazione difficile,

sarebbe meglio che non ci fosse “interferenza” tra le attività che si stanno svolgendo

nella stessa area. Il consulente spiega “gli operai che stanno lavorando con la gru e

per la posa della gabbia stanno attenti nel fare il loro lavoro, se dovessero

rendersi conto di una situazione di pericolo, avrebbero la prontezza di fuggire.

Chi lavora lì vicino, invece, non è attento a tutto quello che fanno gli altri e non

potrebbe reagire in tempo se dovesse succedere qualcosa”. A questo punto gli

consiglia che è più opportuno fermare le altre lavorazioni, quelle che sono nel raggio

d’azione della movimentazione della gru, almeno finché la gabbia oscilla, mentre quando

è ferma possono lavorare anche loro”.

La preoccupazione espressa dal consulente è che l’attenzione di chi si trova

impegnato in una seppur pericolosa attività è “focalizzata” (Joseph, 1994) sul pericolo e

ciò permette loro di avere il tempo di allontanarsi nel caso dovesse succedere

qualcosa. Coloro, invece, che lavorano nelle vicinanze, benché prestino attenzione

anche a quello che fanno gli operai impegnati in altre attività, e a loro alquanto vicini,

non sono certo focalizzati solo su quel compito, anzi la loro attenzione è “distribuita”

(ibidem) tra la loro attività e quella degli altri. Questo comporta, secondo il consulente,

una difficoltà nel reagire prontamente ad una situazione di pericolo. Il “tenere

d’occhio” l’attività altrui, in questo caso, non è ritenuta adeguata a svolgere il proprio

lavoro in maniera sicura.

Sono le stesse pratiche più o meno sicure che si fanno proprie attraverso il

“rubare con gli occhi” ‒ espressione utilizzata sia dall’operatore di mezzi meccanici per

esprimere il modo in cui ha appreso il suo mestiere che da un assistente di cantiere per

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spiegarmi come mai alcuni operai erano “bravi” nel loro lavoro ed altri meno58 ‒ ad

essere al centro del processo di traduzione delle norme in pratica. È la reiterazione di

alcune modalità di lavoro al posto di altre che porta “a selezionare” quelle che

permettono di svolgere il lavoro in modo competente e sicuro, ma che deve tener

conto anche del sapere pratico ed esperto di chi lavora nel cantiere, della pratica

situata. È la presenza infine di diverse “visioni professionali” (Goodwin, 2003) in merito

a ciò che è sicuro o non sicuro che porta spesso allo scontro durante l’attività di

controllo.

Le tre diverse letture del “non rispetto della normativa” in materia di sicurezza

‒ legate soprattutto al non uso dei Dispositivi di protezione individuale come pratica

della spavalderia, la prima; come espressione di un sapere pratico, la seconda, e come

fonte di coordinamento e collaborazione, la terza ‒ dunque, mettono in luce ancora

una volta come il fenomeno in esame, la sicurezza sul lavoro, sia complesso e

multiforme. Soprattutto, come fare sicurezza sia una pratica situata, ovvero emergente

in situ dalle dinamiche delle interazioni, tra gli attori e tra loro e gli artefatti con cui

svolgono il loro lavoro, sottolineando la dimensione collettiva di quest’ultimo e come i

diversi attori, a seconda del proprio sguardo professionale, interpretino e considerino

una pratica come più o meno sicura.

5.3 Riassumendo

Ascoltare la dimensione “polifonica” del campo di ricerca ‒ grazie alla pratica

etnografica, basata principalmente sull’attività di shadowing del capocantiere, di un

assistente e di alcune figure della sicurezza della CortemSpa ‒ mi ha permesso di dar

voce ai diversi attori sul campo, rintracciare le diverse “visioni” e i diversi saperi che

quotidianamente negoziano la realtà del cantiere così come ci appare, testimoniando

ancora una volta la sua natura di “ordine negoziato” (Strauss, 1978) e situato.

58

La bravura è data, secondo il punto di vista di un assistente di cantiere CortemSpa, dalla capacita di “rubare con gli occhi” il mestiere (e dunque i suoi segreti), capacità che ha sfruttano in prima persona per imparare il suo di mestiere. L’episodio ricorda le capacità “visuali” alla base della destrezza della cameriera esperta rispetto ad una novizia (Pentimalli, 2010).

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La sicurezza sul lavoro, dunque, si presenta come un fenomeno complesso e

sfaccettato la cui comprensione passa attraverso la comprensione delle sue diverse

facce o, meglio, dei diversi attori che negoziano - si scontrano e si confrontano - tra

loro, quasi sempre senza raggiungere alcun accordo, ma producendo una

configurazione che abbia la forma di cantieri più o meno sicuri (Nicolini, 2001).

Ad aver guidato lo studio della sicurezza sul campo, inoltre, sono stati da un

lato gli studi basati sulla pratica (Gherardi, 2000; 2000 a) in cui il lavoro è analizzato

come “attività lavorativa”, come modalità di azione e conoscenza emergenti in situ

dalle dinamiche di interazione (Corbin, Jacopin, 1994; Gherardi, 2006); dall’altro la

prospettiva etnometodologica che ha rappresentato il frame per l’accesso al campo.

Tale approccio, inoltre, è alla base dei Workplace Studies, i quali esaminano i “concreti

contesti di lavoro” e pongono al centro dei loro studi la comprensione di strumenti e

tecnologie “in-azione”, ovvero come l’uso quotidiano di strumenti e tecnologie varie

riposi su un complesso corpo di pratiche organizzate socialmente (Heath, Button,

2002).

L’osservazione e l’analisi di tutto questo, però, è stata possibile attraverso

l’individuazione di ‒ o meglio l’approdo a ‒ una tematica impostasi come centrale

all’interno della presente ricerca: la sicurezza come pratica di controllo e mediazione

situata, ovvero legata al contesto relazionale e materiale in cui tali pratiche hanno

luogo. È attraverso l’analisi del sistema di pratiche basato sulle attività di controllo che

è stato possibile leggere i diversi stratagemmi, le resistenze, le messe in scena della

sicurezza, come delle modalità che gli attori (dai capicantiere, agli assistenti, agli

operai) hanno per esprimere una loro visione della sicurezza ed entrare nel suo

processo di traduzione in pratica, rappresentando il secondo sistema di pratica emerso

dalla ricerca etnografica e dall’attività di shadowing.

L’attività di controllo, dunque, ha messo in luce da un lato i casi di “rispetto”

delle norme che hanno evidenziato una tendenza a reificare la sicurezza, tanto

nell’immagine della CortemSpa, quanto negli artefatti, i Dpi, ritenuti “veicolo” e

strumenti di sicurezza. Dall’altro, e accanto ad esse, è stato possibile osservare in

controluce anche alcune pratiche degli operai per comprendere, con l’ausilio delle

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interviste sottoposte ad alcuni di loro, cosa vi sia dietro ad una norma non rispettata.

Tutto questo ha permesso di offrire tre possibili chiavi di lettura del “non rispetto delle

norme di sicurezza”:

la pratica della spavalderia, legata alla rivendicazione di una maschilità costruita

sul mito dell’uomo macho, di un’immagine di classe operaia maschile “costruita”

come sprezzante del pericolo, che non bada ai segni presenti qua e là sul proprio

corpo, che magari esibisce come “trofeo di guerra” e che porta a non usare alcuna

protezione perché considerata “non da uomini”;

il sapere pratico, tacito ed estetico, che l’operaio esperto ha imparato a

padroneggiare, che ha appreso con e nella pratica e che è la fonte di un lavoro

“fatto bene”, sottolineandone anche la dimensione estetica. Sono soprattutto i

“ferraioli” e i “carpentieri” il gruppo di operai che ha permesso di evidenziare la

dimensione del sapere pratico alla base del non uso, per esempio, dei guanti di

protezione. Tale sapere pratico è anche “tacito”, ovvero è un tipo di conoscenza

che si sa di avere ma non si sa spiegare (Polanyi, 1990), ed estetico (Strati, 2000)

che si acquisisce cioè attraverso i sensi e tutto il corpo - in questo caso sono le

mani in particolare a mediare la conoscenza del mondo esterno e a riscontrare

difficoltà, come quando sono coperte dai guanti, nello svolgimento del proprio

lavoro;

il coordinamento e la collaborazione. Tale chiave, infine, offre una ulteriore lettura

del non rispetto della normativa in merito al non uso, per esempio, delle cuffie di

protezione in caso di rumore. Le cuffie, infatti, in alcune attività (la ricerca dei

sotto-servizi per esempio) rappresentano un ostacolo alla pratica della sicurezza,

impedendo di “sentire” i rumori pertinenti e/o le indicazioni dei propri colleghi

che affiancano l’operatore addetto allo scavo, impedendo dunque la

collaborazione ed il coordinamento tra di loro.

È la dimensione collettiva della sicurezza ad essere emersa, il suo farsi

quotidiano attraverso e per mezzo di tutti gli attori, umani e non, che abitano il

cantiere.

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Questo è quanto emerge dal campo, ma occorre rifare il percorso a ritroso e

riannodare le fila di un discorso iniziato con l’analisi della policy di riferimento in

materia di sicurezza sul lavoro, al fine di poter offrire un ulteriore contributo per

comprendere ed arginare il grave e sentito fenomeno degli infortuni e delle morti sul

lavoro, compito questo che spetta al capitolo delle conclusioni.

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6. Ripensare la sicurezza sul lavoro

Il significato di una parola

sta nel suo uso

(Wittgenstein, 1976, ed. or. 1953)

Che cosa è possibile sottolineare dopo aver osservato il “fare sicurezza nella

pratica quotidiana di un cantiere” e quali indicazioni si possono trarre in merito alla

pratica della sicurezza che possano essere generalizzati anche in altri contesti di

lavoro?

Una considerazione, emersa già prima di incontrare gli attori ed osservare le

loro pratiche sul campo, è quella relativa all’insoddisfazione per gli approcci disciplinari

che tradizionalmente si sono occupati di sicurezza sul lavoro: una dimensione

esclusivamente tecnica e normativa dello studio e dell’analisi della sicurezza sul lavoro

può esser considerata non sufficiente per la comprensione di un fenomeno che è,

paradossalmente, definito “multidisciplinare”, ma che nella pratica della ricerca fa

spesso affidamento sul concetto di rischio (e sulla sua calcolabilità) e sul rispetto delle

norme (e la loro implementazione nella logica top-down). I due termini sono

appannaggio sì di diverse discipline ‒ quelle ingegneristiche, giuridiche, economiche,

ergonomiche e psicologiche ‒ ma troppo spesso producono ricerche che rimangono

nella torre d’avorio dei propri ambiti e confini, finendo con l’assecondare una visione

restrittiva e individualistica della sicurezza e della prevenzione degli infortuni.

Alla base di tali approcci, inoltre, vi è una sorta di preoccupazione di fondo che

è quella di raggiungere una diminuzione “numerica” degli infortuni sul lavoro e ridurre i

costi “economici” per sostenerli (comunque auspicabile), piuttosto che il

perseguimento di condizioni di lavoro (in senso “globale”) più favorevoli ad un contesto

di lavoro che possa essere costruito collettivamente come sicuro.

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Nell’affrontare le diverse indicazioni scaturite dalla ricerca nei cantieri edili

della CortemSpa, mi avvarrò della tripartizione proposta da Gherardi, Nicolini, Odella

(1997a) circa il processo di costruzione sociale della sicurezza che richiede, per

analizzarlo, di studiare i seguenti tre livelli tra loro interagenti: livello istituzionale i cui

attori stabiliscono ed impongono il “discorso normativo” sulla sicurezza sul lavoro

(Nicolini, 2001); il livello organizzativo in cui le organizzazioni prendono decisioni e

agiscono in base alla propria visione professionale circa la sicurezza, tipica di un

discorso “economico, manageriale e tecnico” (Nicolini, 2000) della stessa; infine, il

livello dei gruppi occupazionali, o delle pratiche messe in atto dagli attori all’interno di

un dato contesto di lavoro, come i cantieri edili nel caso della presente tesi.

Nel mettere in luce le criticità, i paradossi e gli elementi più interessanti che la

ricerca ha evidenziato, partirò dalle evidenze emerse sul campo per ritornare,

attraverso la dimensione organizzativa, al livello istituzionale e di public policy.

L’assunto di base dal quale partire, fondamentale per lo svolgimento della

ricerca, è che la configurazione che mi sono ritrovata dinanzi ‒ l’ordine negoziato

(Strauss, 1978) dei cantieri ‒ è il frutto di una costellazione di interessi, poteri e volontà

di far sì che le cose siano in un certo modo e non in altri. Tale configurazione, dunque,

è l’espressione dell’assetto di potere che l’action-net locale ha assunto come proprio: è

“dato per scontato” (Garfinkel, 1967) e, soprattutto, è considerato come inevitabile,

anche se a ben vedere non lo è.

6.1 La sicurezza vista dal basso di un cantiere

Il contatto con il campo-cantiere ha fortemente sottolineato l’inadeguatezza a

parlare di sicurezza sul lavoro in termini di “colpe degli operai” o di “calcolo del rischio”

o ancora di “non rispetto delle norme”. O meglio, ha ribadito la necessità di guardare

da vicino le singole “etichette” appena ricordate.

Proprio l’osservazione di alcuni cantieri edili mi ha permesso di mettere in luce

la natura di “costruzione sociale” che la sicurezza sul lavoro ha; attività di costruzione

alla quale partecipano non solo gli attori deputati al “controllo” del rispetto della

normativa in materia, ma anche gli stessi operai.

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A questo livello, infatti, mi preme dare voce agli operai incontrati sul campo,

quelli con cui ho avuto la possibilità di parlare per comprendere le condizioni spesso

disagiate nelle quali essi lavorano ‒ intemperie, fatica, ritmi di lavoro pesanti e poco

gratificanti, costante controllo da parte dei loro responsabili ‒ ed il loro punto di vista

sulla sicurezza sul lavoro; ma anche quelli osservati durante le interazioni con i propri

responsabili di cantiere o con le “figure della sicurezza”; compresi quelli che sono

protagonisti delle storie raccontate dagli altri in merito ad episodi legati alla sicurezza.

Ad emergere, seppur nella limitatezza del contatto diretto con loro durante la

presenza sul campo e la continua mediazione da parte dei responsabili di cantiere, è la

presenza di un “discorso degli operai”, accanto alla tipologia ‒ normativo, tecnico,

economico, educativo ‒ offerta da Nicolini (2001) nel suo prezioso saggio.

Il “discorso degli operai” non sostiene che le norme sulla sicurezza e la

sicurezza nella sua complessità siano acriticamente un peso, una zavorra dalla quale

liberarsi per poter lavorare meglio e senza scocciature. Si sa, i controlli sono da sempre

mal tollerati in ambito lavorativo, si pensi ai “cronometristi” delle fabbriche ai tempi di

Taylor.

È, infatti, avvicinandosi ad un concreto contesto di lavoro per osservare da

vicino il fare sicurezza, osservare la pratica del controllo in quanto attività situata

(Conein, Jacopin, 1994) ‒ come la pratica dell’etnografia ha permesso di fare ‒ che

possiamo rintracciare le dinamiche alla base di alcune situazioni in cui le norme non

sono rispettare. Sul campo, infatti, possiamo osservare da vicino le modalità di

traduzione in pratica della sicurezza “codificata” a livello istituzionale come norme e

specifiche tecniche e seguirne il loro rispetto/non rispetto da parte dei suoi destinatari.

L’uso “flessibile” degli artefatti, insieme ai sabotaggi, al bricolage, ai raggiri, alla

messa in scena della sicurezza osservati durante la ricerca etnografica sono eventi che

vanno problematizzati (Suchman e al. 1999) per comprendere cosa vi sia dietro ad

episodi di non rispetto delle norme e quanto venga dato per scontato nella quotidiana

attività lavorativa.

Rintracciare un “discorso degli operai” mi permette di cogliere il punto di vista

legato alle pratiche di un gruppo professionale il cui mestiere ha un forte radicamento

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nel sapere pratico e tacito (Gherardi, Nicolini, 2001; 2004; Wenger, 2000), nella

dimensione estetica (Strati, 2000; 2010) che permette di ri-conoscere quale sia un

lavoro “ben fatto” e di come la propria destrezza sia “incorporata” nelle mani e nel

proprio corpo.

Riconoscere tali dimensioni del sapere di un operaio edile offre una chiave di

lettura per alcuni casi di non utilizzo dei Dispositivi di protezione individuale (Dpi),

come per esempio i guanti, da parte dei “ferraioli” o dei “carpentieri” esperti. È proprio

il carattere “esperto” della pratica che mi ha permesso di comprendere le difficoltà

legate all’uso dei guanti, vissuti come una “dotazione esterna” rispetto agli “abituali”

attrezzi del mestiere. Questo carattere di “estraneità” dell’artefatto-Dpi è dovuto al

suo “imporsi” ‒ essere imposto a periodi alterni nel settore delle costruzioni ‒

dall’esterno, senza cioè coinvolgere gli stessi operai (i futuri utilizzatori)1 e non tenendo

in considerazione come proprio gli operai siano, nel tempo, divenuti esperti grazie

all’uso delle proprie “mani nude”.

Se oggi vi è, dunque, la necessità di “esigere” l’uso dei guanti, occorre

problematizzarne l’introduzione, la loro natura e l’interazione, in qualità di attori non

umani (Latour, 1993), con gli stessi operai all’interno di un contesto di lavoro specifico

(Suchman e al. 1999) e studiare in che modo tale interazione può rappresentare un

vantaggio (in termini di sicurezza) per l’operaio che li indossi; oppure rivelarsi un

ostacolo alle più consolidate, socialmente riconosciute e condivise (e a volte più sicure)

modalità di svolgere il proprio mestiere.

Dallo studio dalle ricerche svolte nell’ambito dei Workplace Studies (Heath,

Luff, 1992; Luff, Hindmarsh, 2000; Heath, Button, 2002; Suchman, 1987), infatti, ho

colto lo spunto per analizzare un altro episodio di non rispetto della normativa e di non

problematizzazione degli artefatti-Dpi introdotti “dall’alto”: l’uso delle cuffie di

protezione.

Dall’osservazione sul campo e dalle interviste ad un operatore di mezzi

meccanici, per esempio, è emerso come il “rumore” del cantiere non sia uno ed

1 Senza, per esempio, coinvolgere gli operai nella progettazione degli artefatti, senza osservare le

loro concrete pratiche di lavoro consolidate e condivise tra la comunità di riferimento. Siamo lontani, infatti, da situazioni di un design partecipato (PD).

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indistinto (Thibaud, 1991). I rumori, infatti, non sono tutti uguali e indossare le cuffie in

ogni situazione in cui si produce rumore può rivelarsi, al contrario, una pratica non

sicura, in quanto non permette all’operatore di “sentire il servizio” che sta cercando nel

sottosuolo con l’ausilio del mezzo meccanico che sì, produce rumore, ma è anche un

artefatto che si relazione allo stesso operatore come “prolungamento” delle proprie

mani e del proprio udito.

L’operatore, dunque, ha necessità di ascoltare i rumori provenienti dal terreno

“oscultato” con il proprio mezzo e che produce “suoni” che ‒ di nuovo attraverso quel

sapere esperto, tacito ed estetico (Strati, 2000) ‒ ha appreso a ri-conoscere come più o

meno sicuri per sé e per i propri collaboratori2. Ed è a proposito di quest’ultimi, inoltre,

che il non uso delle cuffie offre un’altra occasione di comprensione di non rispetto

dell’obbligatorietà dell’uso dei Dpi. In una simile situazione, infatti, non indossare le

cuffie, permette di “ascoltare” le indicazioni dei propri colleghi di lavoro. Nei casi in cui

si lavora con un mezzo meccanico, infatti, si ha bisogno di un paio di occhi e di orecchie

in più per lavorare in sicurezza, collaborare e potersi coordinare.

Accanto a queste dinamiche, però, vi sono anche situazioni di non rispetto della

normativa che possono essere attribuite ad una più generale “pratica della

spavalderia” che affonda le sue radici nella costruzione di un mestiere operaio che per

molto tempo ha fatto leva su una performance di genere di una classe operaia

sprezzante del pericolo e fiera di sfidare le norme e l’autorità di controllo sul luogo di

lavoro (Collinson, 1992; Connell, 1996; Gherardi, Poggio, 2003).

Per molto tempo, dicevo. È plausibile sostenere, infatti (come è emerso

dall’osservazione di campo), che la nuova generazione di giovani operai ‒ benché

affianchi per la propria formazione gli operai più anziani, esperti e con “specifiche”

modalità di lavorare ‒ sia nelle condizioni storiche e sociali per performarsi in maniera

differente e più attenta a modalità di lavoro più sicure e meno spavalde: l’adozione di

un abbigliamento di protezione, anche “alla moda”, e un “meno problematico” uso dei

Dpi costituiscono un primo esempio.

2 Come gli operai sul tetto osservai da Strati (2000) che sanno riconoscere quali rumori e

scricchiolii sono pericolosi, ovvero quali sono gli appigli buoni e quelli medo buoni.

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Ascoltando, infine, il discorso degli operai è possibile far emergere un

paradosso, o forse il paradosso, che mi permette di collegarmi al livello organizzativo

del fenomeno sicurezza che qui si sta analizzando: il rispetto delle norme di sicurezza e

l’uso dei Dpi può essere derogato “legittimamente” nei casi di lavoro “in emergenza”.

Dal racconto degli operai, soprattutto in merito a loro esperienze pregresse

svolte in cantieri diversi da quelli della CortemSpa, e in parte anche dall’osservazione

diretta del campo, è emerso come gli operai siano spesso sottoposti a esigenze

contraddittorie: lavorare bene, in sicurezza, ed essere svelti e produttivi. In molti casi,

però, quel lavorare “svelti” si traduce in pratica nel non uso dei Dpi, oppure in orari di

lavoro pesanti, o ancora in situazioni e condizioni di lavoro disagiate, come lavorare

sotto grosse tubature o su grossi piloni di cemento senza neanche una rete di

protezione sottostante.

È la “logica di produzione” di cui parlava Gouldner (1970, ed. or. 1954) più di

cinquanta anni fa ad essere rimasta invariata e a permettere lo stratificarsi di pratiche

non sicure che, benché siano agite dagli operai come “responsabili” ultimi delle loro

azioni, sono “legittimate” dai propri superiori e dal management che, accanto alla

promozione di un’immagine di organizzazione attenta alla sicurezza, nella pratica del

cantiere sollecita l’avanzata dei lavori come “perennemente in scadenza” e soggetti al

vincolo delle penali da pagare in caso di ritardo nella consegna dei lavori.

In questi casi, come raccontato da alcuni operai, “non esistono norme e non

esiste sicurezza”, ma solo lavoro da svolgere in emergenza e senza perdere tempo.

Queste considerazioni, dunque, permettono di passare al livello successivo

attraverso il quale si sta ricostruendo l’esperienza di ricerca per trarne più che delle

conclusioni, degli ulteriori spunti di riflessione e suggerimenti di ricerca futuri.

6.2 La pratica ri-pensa l’organizzazione

Le contraddizioni vissute dal gruppo occupazionale degli operai si generano dal

rapporto e dalle interazioni con i responsabili di cantiere, principalmente capicantiere,

assistenti e figure “interne” deputate al controllo e alla traduzione in pratica del

dettato normativo in materia di sicurezza sul lavoro.

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È a questo livello che si gioca la partita più importante in ambito “sicurezza”:

sono loro, infatti, a rappresentare gli “intermediari umani” (Callon, 1992) che

traducono, trasformano e tradiscono le norme sulla sicurezza rendendole praticabili e

adattandole alle “esigenze” del cantiere.

L’osservazione dell’attività di controllo e mediazione della sicurezza, infatti, ha

permesso di cogliere la natura collettiva, negoziata e situata della sicurezza all’interno

di un cantiere edile. Questa attività rappresenta l’anello di congiunzione ed il “punto di

traslazione” sul piano cantiere ‒ dal piano delle norme, ricorrendo alla metafora

geometrica dell’ANT ‒ di come si fa quotidianamente sicurezza in un cantiere e di che

cosa sia nel concreto di un cantiere la sicurezza.

La sicurezza emerge dalla natura e dal lavoro dell’action-net locale nel suo

insieme e non può essere ridotta ad alcuna delle sue parti o rappresentazioni di parti di

essa (Nicolini, 2001).

Entro un contesto organizzativo complesso come quello in cui opera la

CortemSpa ‒ fatto di numerose ditte di piccole, medie e grandi dimensioni che si

avvicendano negli appalti per la costruzione di parte dell’opera finale ‒ la dimensione

organizzativa diventa particolarmente rilevante.

Il carattere “situato” (Conein, Jacopin, 1994) della pratica di controllo è

evidenziato anche dal carattere “improprio” delle modalità di controllo svolte dai

responsabili di cantiere della CortemSpa che pur avendo, formalmente come

Contraente generale dell’opera, la “responsabilità finale” sulla costruzione ‒ e per

questo tipo di contratto ogni ditta affidataria, in appalto e in subappalto dovrebbe

lavorare in autonomia ‒ in pratica svolgono una capillare azione di controllo dei propri

cantieri e degli operai che in essi vi lavorano, lasciando trasparire una mancanza di

fiducia nelle modalità di svolgimento dei lavori della maggior parte delle ditte che si

avvicendano in cantiere.

“Qui non troverai niente, devi andare altrove, nei piccoli cantieri, qui ci sono

tutte le figure della sicurezza!”. Questa la frase pronunciata da un Direttore di cantiere

quando ha saputo il motivo della mia presenza sul cantiere, fiero dell’organizzazione

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del lavoro a cui la CortemSpa di fatto sottopone, o cerca di sottoporre, le ditte a cui

affida i lavori di costruzione di una delle nuove linee metropolitane di Roma.

Ancora una volta il richiamo implicito è nella volontà dell’organizzazione di

tradurre in pratica la normativa sulla sicurezza ‒ e dunque “fare sicurezza” ‒

rispettando gli adempimenti normativi; cercando di far rispettare le norme alle ditte

affidatarie (anche in questo caso la “produzione” di artefatti testuali3 è preminente);

insistendo sull’uso dei Dpi da parte degli operai ‒ non solo dei propri, ma anche di

quelli delle ditte in appalto; svolgendo una capillare e quotidiana attività di controllo

dei cantieri affidata alle figure che, all’interno della CortemSpa, hanno responsabilità in

materia di sicurezza: Responsabile dei lavori; Coordinatore per la sicurezza; RSPP

(Responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione); producendo una considerevole

mole di materiale testuale che “certifica e testimonia” l’impegno dell’organizzazione

nei confronti degli adempimenti normativi, almeno dal punto di vista formale.

Ciascun attore è parte attiva del processo di traduzione in pratica della

sicurezza traducendo ciò che è sicuro e ciò che non lo è entro la “visione professionale”

(Goodwin, 2003) tipica del gruppo occupazionale di riferimento. Entro quest’ottica, è

emersa la forte attenzione dell’organizzazione verso l’attività di controllo ‒ preventiva

anche nei confronti dei controlli istituzionali come quelli svolti dai Tecnici delle Asl o

dagli Ispettori del lavoro ‒ al fine di consegnare un’immagine di organizzazione attenta

alla sicurezza sul lavoro. Cosa, quest’ultima, che conta e che, nel sistema di appalti

vigente, permette di acquisire credibilità e “punti” nella partecipazione ai bandi per la

costruzione delle opere.

Un passaggio critico nel processo di traduzione in pratica della sicurezza come

rispetto delle norme lo si può individuare, come è emerso dalla ricerca, proprio nel

momento in cui questi attori con una diversa visione della sicurezza si trovano a dover

“fronteggiare il campo”: è qui che la sicurezza, dal punto di vista prossimale, assume

3 Il POS, Piano Operativo per la Sicurezza, è un chiaro esempio di come la “produzione di testi”

sia prevalente e finisca con l’identificarsi in parte con la sicurezza: se “le carte sono a posto” allora c’è sicurezza, sembra essere la questione. O ancora, il caso della formazione dove, più che ad una verifica su quanto appreso, il problema finisce con l’essere se ogni operaio “ha” tra i suoi documenti anche quelli che certificano la “frequenza” al corso, o meglio, se “risulta” il numero di ore che “deve” svolgere per legge (§ 4.2.3.6).

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maggiormente la sua natura processuale e dinamica, e gli attori si mettono in gioco per

affermare la propria visione come la più adeguata a “interpretare” e leggere la

sicurezza.

È quando l’organizzazione incontra il campo/cantiere che la sicurezza cessa di

essere una “norma scritta” e diviene un’idea da praticare mettendo in evidenza i suoi

paradossi.

A questo punto, ricollegandosi con quanto sottolineato in apertura di

paragrafo, la ricerca ha evidenziato, in ambito organizzativo e di gestione della

sicurezza sul cantiere, una profonda contraddizione o paradosso: la concorrenza tra il

“far” rispettare le norme di sicurezza con la “logica della produzione” e del lavoro

svolto in emergenza. È questa la grande questione emersa nel punto di contatto tra

responsabili di cantiere e operai, ma anche tra i primi e “i controllori esterni”.

La deroga al rispetto delle norme di sicurezza si ottiene “legittimamente” nel

momento in cui occorre rispettare i tempi di consegna, o la “tabella di marcia” dei

lavori da eseguire. In questo caso, infatti, è possibile quanto probabile che non si esiga

un “severo” rispetto delle norme.

Parlando di “natura situata” dell’attività di lavoro e, dunque anche dell’attività

di controllo, si sottolinea la stretta connessione tra il lavoro e il contesto materiale,

sociale, culturale, storico e politico in cui tale lavoro ha luogo. Significa anche che le

norme stesse si devono in qualche modo “adeguare”, o “allineare” nelle parole di

Latour (1993), alle regole e alle pratiche già esistenti nel contesto in cui sono introdotte

e che andrebbe meglio conosciuto. Posta in questi termini la questione, è possibile

allora ipotizzare che alcune situazioni ‒ come quelle del lavoro in emergenza ‒

richiedano che le norme non siano rispettate, ma il problema principale è la

contraddizione che si genera soprattutto negli operai, rischiando di vanificare l’azione

di controllo tout court che, a ben vedere dalla ricerca, si presenta come un’attività

centrale ed importante per la costruzione della sicurezza in contesti complessi come

quelli di cantiere.

Il punto è che, se “si può” derogare alle norme perché “il contesto/situazione lo

richiede”, occorre essere in grado di ri-conoscere anche le situazioni in cui tali deroghe

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mettono in pericolo la vita degli operai e quelle situazioni in cui sono gli operai con il

loro sapere esperto ad essere messi a rischio dall’uso di determinati artefatti-Dpi che

spesso sono resi obbligatori in maniera a-problematica, situazioni che tra l’altro

possono trovare un sostegno nelle norme stesse4. O, ancora, quando non si riconosce

la dimensione collettiva dell’attività lavorativa.

Un tale riconoscimento, invece, permetterebbe di allentare le tensioni che

spesso si creano nei contesti di lavoro, resi già pesanti dalle più generali condizioni

lavorative come quelle relative agli orario o ai contratti e persino alle condizioni

atmosferiche. Ma permetterebbe anche di rendere la stessa attività di controllo più

“sostanziale” ed efficace, ovvero riconoscerla non come una fredda e formale richiesta

di applicazione delle norme, ma come un’attività attraverso la quale si costruisce e si

negozia la sicurezza all’interno di ciascun cantiere.

Un ripensamento dell’organizzazione del lavoro, in generale di ciascuna ditta

che opera nel campo dell’edilizia, potrebbe ragionevolmente portare a rimuovere degli

ostacoli alla sicurezza che vanno al di là delle singole norme e che sono prodotti da

tempi di lavoro spesso massacranti; da regole di partecipazione agli appalti che non

sempre garantiscono minimi salariali e livelli di sicurezza accettabili; tempi di

costruzione delle opere “progettati” con una maggiore conoscenza del contesto nel

quale andranno ad operare, magari rendendo partecipi quantomeno i capicantiere più

esperti, i quali spesso conoscono meglio eventuali imprevisti che possono frapporsi ad

una “razionale” programmazione delle attività di costruzione.

A livello organizzativo, dunque, il nodo cruciale si gioca nel ri-conoscere e

valorizzare il ruolo del contesto locale, dell’action-net e del processo di traduzione al

quale sono sottoposte le norme sulla sicurezza sul lavoro nel momento in cui entrano

in contatto con tale contesto e tale rete di attori.

4 Occorre ricordare, infatti, come siano previste deroghe all’obbligo dell’uso dei Dpi-uditivi

“quando per la natura del lavoro, l’utilizzazione di tali dispositivi potrebbe comportare rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori maggiori rispetto a quanto accadrebbe senza la loro utilizzazione” (Testo Unico, art. 197, comma 1), deroghe che il datore di lavoro può richiedere alle Asl.

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6.3 La pratica della sicurezza ritorna (a riflettere) sul livello istituzionale

In ambito istituzionale emerge con forza la posizione dominante del discorso

normativo che riposa sulla considerazione che la sicurezza sul lavoro sia il risultato della

corretta applicazione delle norme e di una presente attività di controllo e sanzione del

non rispetto delle leggi, assunto quest’ultimo che non trova riscontro a fronte di un

numero di Ispettori e Tecnici delle Asl decisamente inadeguato5.

Gli attori che lo sostengono, inoltre, si trovano in una posizione dominante,

soprattutto per il fatto che sono le stesse norme a definire gli “standard tecnici” alla

base del “discorso tecnico” della sicurezza, in cui solo l’uso di artefatti (come gli stessi

Dispositivi di protezione individuale, Dpi) aventi specifiche caratteristiche tecniche ‒

certificate a norma dai vari enti riconosciuti (per esempio le misure UNI o le normative

comunitari attraverso il marchio CE) ‒ può permettere di lavorare in sicurezza. Questo,

però, a seconda della “flessibilità interpretativa” (Orlikowski, 1992; Star, Griesemer,

1989) dello stesso, ovvero della maggiore o minore possibilità di essere modificato nel

suo uso pratico.

Accade, dunque, che questo tipo di sapere ‒ in cui l’onere delle decisioni in

situazioni di incertezza è trasferito, in un certo senso, dall’individuo alla comunità

tecnico-scientifica ‒ sia traslato/tradotto all’interno della comunità di ingegneri e

tecnici, diventando parte del bagaglio del discorso tecnico che sarà sostenuto come

unica via per lavorare in sicurezza e che porta ad interpretare “l’uso flessibile” degli

artefatti ‒ come i sabotaggi, il bricolage, i raggiri, la messa in scena emersi dalla ricerca

‒ come “non rispetto della normativa” tout court, senza problematizzare tali fenomeni.

A garanzia di una minore flessibilità dell’artefatto (e, dunque, della necessità

che lo stesso non sia modificato), infatti, il discorso tecnico trova un valido alleato in

quello normativo, soprattutto nel suo apparato di controllo, repressione e sanzione,

finalizzato al rispetto delle norme, anche di quelle tecniche.

5 L’ultima manovra finanziaria varata prima dell’estate 2010, per esempio, ha ridotto del 50% la

spesa degli Ispettori e ha tagliato le automobili di servizio con cui gli stessi svolgono la propria attività di controllo in giro per i diversi cantieri (tratto da un articolo di Bianca Di Giovanni pubblicato l’11 settembre 2010 su www.unità.it).

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Lo stesso tipo di “alleanza” esiste anche tra il discorso normativo e quello

educativo, di sua diretta emanazione. I corsi di formazione ed informazione dei

lavoratori sulla sicurezza, infatti, sono “obbligatori”, ma se da un lato ciò garantisce

l’espletamento dell’attività, dall’altro, però, non garantisce in alcun modo che la

formazione possa sortire un qualche risultato a livello delle pratiche.

Non avendo avuto la possibilità6 di assistere alle lezioni di uno dei corsi di

informazione/formazione organizzati periodicamente dalla CortemSpa, ho raccolto

alcuni racconti sul campo, dai quali è emerso che la formazione sia vissuta come un

adempimento formale che parte dall’alto del livello istituzionale e arriva sin dentro ai

cantieri, dove la preoccupazione principale è quella di far sì che “le carte siano a posto”

‒ ovvero sia rispettata la norma che prevede che ogni lavoratore debba svolgere un

certo numero di ore di formazione ‒ sempre in un’ottica normativa di assicurare

l’adempimento e non incorrere in sanzioni a seguito dell’attività di controllo

“documentale” svolto da soggetti esterni all’organizzazione, come Ispettori del lavoro e

Tecnici delle Asl, ma anche dalle figure interne alla CortemSpa come il Responsabile dei

lavori ed il Coordinatore per la sicurezza.

Anche la comunità professionale che svolge le attività caratterizzate dal

discorso educativo, dunque, basa una considerevole parte del proprio bagaglio di

sapere sull’attività di normazione stabilita dai diversi attori professionali che

presiedono all’attività di “produzione” delle norme.

Infine, è in sede istituzionale che si decidono “i costi della sicurezza”, per

esempio quanto costa allo Stato ogni lavoratore che si infortuna; o il valore dei premi

assicurativi da versare all’INAIL per ricevere la copertura assicurativa; o, ancora, le

sanzioni che gli imprenditori sono tenuti a pagare in caso di mancato rispetto delle

norme7.

6 Come evidenziato nel capitolo 2 della presente tesi, ogni volta che ho avanzato una richiesta

per “riposizionarmi” all’interno dell’organizzazione e dei cantieri, ho ricevuto la massima disponibilità d’intenti, ma nella pratica il mio accesso è sempre stato soggetto a temporeggiamenti lunghi (come per i tempi di accesso) che spesso hanno portato, come nel caso dei corsi di formazione, a dover rinunciare ad osservare lo svolgimento di quell’attività.

7 Nel Testo Unico 81/2008 si era puntato ad un inasprimento delle sanzioni a carico di

imprenditori che non avrebbero assicurato il pieno rispetto delle norme di sicurezza e fatto il possibile per mettere i propri lavoratori nelle condizioni di lavorare in sicurezza, cosa che aveva suscitato il malumore

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In altre parole: il discorso tecnico, educativo ed economico, risultano essere

strettamente legati alle norme emanate in sede istituzionale in materia di sicurezza,

mentre manca un qualsiasi riferimento, presa in considerazione o, ancor prima,

riconoscimento del “discorso degli operai” e delle pratiche di lavoro situate.

Il legame stretto tra le norme e la sicurezza ‒ che in un contesto di lavoro

come quello dei cantieri si respira quotidianamente ‒ porta ad uno dei tanti paradossi

rilevati a seguito della ricerca sul campo.

Primo fra tutti, l’affannosa rincorsa all’adempimento normativo. Ad una prima

analisi infatti, ciò che è emerso dalla ricerca sul campo relativamente, potremmo dire,

al rapporto con la dimensione istituzionale della sicurezza, “incarnata” dalle norme, è

che in un contesto quotidiano di lavoro come quello dei cantieri edili della CortemSpa

fortemente caratterizzata dalla presenza di decine di ditte di varie dimensioni che si

alternano nella realizzazione dell’opera, si rischia una identificazione della sicurezza in

quanto norma con la “rappresentazione del suo rispetto”.

In fase di analisi del materiale raccolto sul campo durante l’etnografia, inoltre,

ho delineato i meccanismi legati alla “messa in scena della sicurezza” ‒ degli operai

dinanzi ai propri responsabili di cantiere e alle “figure interne” della sicurezza; dei

responsabili di cantiere, coadiuvati dagli operai, dinanzi alle “figure esterne” al cantiere

‒ che si basano sul concetto, anch’esso emerso dal campo, di “sicurezza reificata” o

“addosso”. In questo caso accade che l’idea della sicurezza come “rispetto della

norma” sia identificata con l’esibizione pubblica dell’uso o il non uso dei Dispositivi di

protezione individuale, al di là delle reali modalità di lavoro.

La preoccupazione in entrambi i casi è il “mostrare” l’oggetto-sicurezza per

esprimere l’adesione alla logica del discorso normativo e affermare che, applicando le

leggi, si lavora in sicurezza e si evitano anche le sanzioni economiche.

Ad emergere, infine, è la parzialità di un’idea di sicurezza basata solo sulla sua

dimensione normativa e tecnica e dell’idea di implementazione delle norme in materia

di sicurezza sul lavoro. Tale idea, infatti, fa assegnamento, ancora una volta,

delle categorie imprenditoriali. Il Decreto correttivo 106 del 2009, però, espressione di una diversa maggioranza parlamentare, ha ridimensionato notevolmente tali sanzioni, vanificando l’intento originario del Testo Unico.

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374

sull’applicazione di modelli formali, prestabiliti che si avvalgono di mezzi predefiniti, ma

che non tengono conto ‒ come invece qui si è cercato di fare adottando la prospettiva

dell’Action Network Theory ‒ di quanto la realtà della traslazione in pratica sia

tutt’altro che lineare e, soprattutto, soggetta alle dinamiche, agli interessi e ai poteri

dell’action-net locale (Gherardi, Lippi, 2000).

È il processo di traduzione delle norme in pratica ad offrire una possibilità di

comprensione dei meccanismi che intervengono nei vari passaggi cui sono sottoposte

le norme della sicurezza durante il loro viaggio verso i concreti contesti di lavoro. L’idea

di sicurezza del legislatore, dunque, è tradotta in pratica, nel duplice senso di essere

“applicata” in un dato contesto di lavoro e di essere “realizzata nelle pratiche”,

ritornando così alla considerazione di partenza in cui la sicurezza è considerata un

processo, una competenza ed una pratica, non un qualcosa che si dà una volta per

tutte ed è uguale per ogni contesti di lavoro, ma una competenza situata e frutto della

negoziazione tra gli attori dell’action-net locale. Anche l’idea di sicurezza espressa

attraverso le norme, infatti, sarà traslata, tradotta e persino tradita una volta giunta a

contatto con gli attori umani e non-umani (Latour, 1993) di un contesto che è insieme

materiale e sociale (Law, 1987), com’è quello dei cantieri.

Il contatto con il campo, però, ha messo in luce come la sicurezza non possa

essere considerata come qualcosa che si può “mettere” in un contesto di lavoro o

calare dall’esterno del contesto lavorativo ed essere sicuri che questo basti a far sì che

l’ambiente di lavoro sia sicuro, magari dando agli operai la “colpa” di quello che accade

in caso di incidente “perché non hanno indossato la sicurezza”. Certo, le misure di

protezione sono importanti in contesti così complessi come quello edile, ma da sole

non bastano.

Quando si “progetta” una nuova norma, magari proprio in materia di sicurezza,

si sta “progettando” anche un nuovo modo di lavorare ‒ per esempio svolgere il

proprio mestiere usando i Dpi sempre e per qualsiasi lavoro ‒ ed una nuova ecologia di

relazioni materiali e sociali (Star, Griesemer, 1989). Ciò richiede che le “nuove pratiche

di lavoro”, progettate su di un tavolo in un contesto diverso da quello del cantiere,

tengano conto della realtà entro cui andranno ad operare e del fatto che debbano

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entrare in contatto con pratiche di lavoro già “consolidate”, riconosciute socialmente

parte del bagaglio “professionale” di una collettività di lavoratori ‒ per ciò stesso “date

per scontate” ‒ che in tali pratiche e modalità si riconoscono.

La conoscenza dei contesti di lavoro ‒ attraverso un maggior ricorso ad

etnografie organizzative ‒ si dimostra importante anche per poter mettere a punto

delle norme a salvaguardia dei lavoratori che però ri-conoscano la specificità pratica

del contesto sociale e materiale entro il quale andranno ad operare.

Il processo di allineamento tra attori umani e non-umani di cui parla Latour

(1986) ci torna utile in questo caso: “l’implementazione” di una normativa ‒ sia nel

caso specifico della sicurezza che in altri ambiti ‒ produce una serie di artefatti,

procedure, pratiche, attori sociali che andranno ad abitare un mondo già popolato da

artefatti, procedure, pratiche situate ed altri attori. Tale processo, dunque, per

“funzionare” ha bisogno di relazionarsi/adattarsi alle pratiche preesistenti, provocando

e subendo reciprocamente quel processo di traslazione/traduzione e tradimento cui le

idee che viaggiano (Czarniawska, Joerges, 1995) sono destinate.

6.4 Per riflettere: il contributo della sociologia

A questo punto, dunque, occorre riunire i tre livelli, dal momento che nel

mondo reale essi sono interconnessi e fanno sì che la sicurezza sia un fenomeno

complesso. Bisogna, però, riconoscere che si ha a che fare, più che con una “entità

oggettiva”, con un processo, un fare sicurezza all’interno di un concreto contesto di

lavoro che coinvolge quotidianamente attori umani e non umani, i quali negoziano

incessantemente la propria idea di sicurezza.

La traslazione della sicurezza, dunque, consiste in un “processo di ri-

significazione locale”, un sapere sociale che è radicato anche e soprattutto perché quei

significati prodotti localmente sono situati in quel contesto e risentono dell’influenza

degli intermediari: essi non sono trasferibili, non costituiscono una conoscenza

oggettiva, ma sono il frutto di una “produzione situata” (Gherardi, Lippi, 2002). In

questo senso possiamo leggere la sicurezza sul lavoro non più come la conseguenza del

trasferimento di una conoscenza oggettiva, già data, ma come dinamiche di

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appropriazione e produzione locale di significati che vengono elaborati dagli

intermediari durante il processo di traduzione in merito alle pratiche della sicurezza.

Se il discorso tecnico e quello normativo (Nicolini, 2001) sostengono che

attraverso il rispetto della normativa in materia di sicurezza, e delle disposizioni

tecniche ad essa collegate, si ottiene un ambiente di lavoro più sicuro e con meno

incidenti ‒ in un’ottica in cui il rischio è “calcolabile” e la sicurezza diviene “prevedibile”

per mezzo di sistemi tecnici che la gestiscono ‒ osservare da vicino una realtà

particolarmente delicata e complessa come quella di un cantiere edile ci pone delle

domande. Basta davvero rispettare le norme di sicurezza per essere sicuri? Che tipo di

conoscenza c’è, da parte di chi elabora una normativa, del contesto di lavoro al quale

essa deve essere applicata?

La ricerca ha voluto offrire degli spunti di riflessione sul “fare sicurezza”. È

soprattutto la dimensione collettiva dell’attività lavorativa, e della stessa sicurezza, ad

essere emersa dall’osservazione sul campo, ma anche la distanza che vi è tra il livello

istituzionale in cui “si norma” la sicurezza e il contesto cantiere in cui si “traduce e si

agisce” la sicurezza allineandola o meno alle pratiche di lavoro già consolidate e

socialmente condivise all’interno del gruppo degli operai cui sono dirette. Cruciale tra i

due livelli è quello organizzativo, vero snodo di traduzione e tradimento dell’idea di

sicurezza sul lavoro, la cui natura negoziata e di mediazione mette in rilievo come sia

utile approfondire la conoscenza dei contesti di lavoro al fine di comprendere le

dinamiche che producono l’ordine negoziato (Strauss, 1978) che bene esprime la

natura degli stessi e, in particolare, le dinamiche della sicurezza in pratica.

Un simile obiettivo può essere raggiunto attraverso ricerche etnografiche sul

campo e interviste ai diversi attori/practitioners che lo abitano; una maggior

disponibilità da parte delle organizzazioni a “concedere” ai ricercatori di osservare

quanto accade nei luoghi di lavoro e a dar voce ai lavoratori che direttamente sono

chiamati ad applicare e rispettare le norme; e una maggior propensione da parte delle

istituzioni deputate a legiferare in materia di sicurezza a conoscere il come si lavora

prima ancora di stabilire il come si dovrebbe lavorare.

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Prima di concludere, vorrei ritornare su un articolo introdotto nel Testo Unico

81/2008 in cui si parla di “modelli di organizzazione e di gestione” (art. 30) per la

definizione e l’attuazione di una politica aziendale per la salute e la sicurezza dei

lavoratori. L’articolo richiama, quindi, la responsabilità dell’organizzazione nel

considerare la sicurezza in una dimensione differente, globale, che invece non si limiti

alla sola dotazione di attrezzature per la prevenzione.

Occorre ricordare, infatti, come già la “direttiva quadro” europea 89/391/CEE

aveva posto l’accento sull’organizzazione aziendale, vale a dire “su quell’insieme di

volontà dell’alta direzione e di efficienza delle relazioni umane (qualificate dalla

professionalità degli individui) da cui dipende essenzialmente qualsiasi orientamento

esecutivo” (in Grassani, 2006: 49) e, di conseguenza, anche su tutto ciò che ha ricadute

nell’ambito della prevenzione degli infortuni8. Richiedeva, cioè, una “gestione

aziendale rinnovata” e attenta alla problematica della sicurezza da includere nell’intero

processo organizzativo e non inteso solo come “attrezzature” per la sicurezza (per

esempio, i Dpi ‒ traduzione delle norme in artefatti ‒ espressione del discorso tecnico

al quale è stata “delegata” la competenza a realizzare ambienti di lavoro più o meno

sicuri).

A distanza di vent’anni, quindi, si pone ancora l’accento sulla promozione di un

modello organizzativo che consideri la sicurezza come parte integrante del sistema

produttivo e organizzativo, e non solo come un costo da evitare o una norma da

rispettare per non incorrere in sanzioni.

Il modello organizzativo che il legislatore auspica, inoltre, ben si concilia con le

considerazioni sin qui sostenute a seguito della ricerca sul campo e legate alla

dimensione collettiva e sociale della sicurezza. È l’interazione di diversi elementi, di

8 Si rimanda a Grassani (2006) per ulteriori commenti a sostegno di una “differente”

interpretazione ‒ in fase di recepimento della direttiva europea ‒ scelta dal legislatore italiano per smussare (l’autore dice “censurare”) l’orientamento della direttiva e “salvaguardare dall’ingerenza della sicurezza i meccanismi organizzativi aziendali” (49). La Corte di Giustizia europea ha intentato una causa contro l’Italia ottenendo un notevole esborso di denaro per le “scorrettezze” commesse nel recepire il testo europeo. Tali scorrettezze, però, hanno permesso di interpretare l’obbligo di prevenzione limitato alle attrezzature e non come prerogativa di tutta l’organizzazione aziendale come invece era previsto. Le correzioni al testo sono state apportate, ma la differente interpretazione resta, soprattutto nella loro messa in pratica.

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attori umani e non umani, la loro combinazione a rendere un’organizzazione sicura o

non sicura.

Un altro spunto di riflessione, infine, è offerto dallo stralcio che segue e che è

tratto dal Testo Unico sulla sicurezza, D.lgs. 81/2008 ‒ Titolo III, Capo II, Art. 76

(Requisiti dei Dpi), comma 2:

“I Dpi di cui al comma 1 devono inoltre:

a) essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un

rischio maggiore;

b) essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;

c) tener conto delle esigenze ergonomiche e di salute del lavoratore;

d) poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità”.

Le evidenze emerse dal campo, attraverso la ricerca etnografica da me

condotta all’interno dei cantiere, mi permettono di affermare come l’interpretabilità

della norma porti a traduzioni che spesso tradiscono l’intento della norma stessa. Ciò

ha un riflesso, per esempio, sia sul processo di progettazione e di realizzazione dei corsi

di formazione/informazione sulla sicurezza sul lavoro e sulle norme che la regolano;

sia, ancora una volta, sul piano dell’organizzazione del lavoro delle stesse

organizzazioni.

I punti b) e c) del sopracitato comma sono fondamentali per la comprensione di

quanto ho sostenuto nel corso della presente tesi: sono il contesto e la dimensione

pratica dell’attività di lavoro ad emergere anche dalla lettura di queste norme. E

ritornando alle due aree in cui la traduzione/il tradimento della norma ha riflessi, mi

preme dire che, relativamente al primo punto, bisogna trovare nuove “modalità

formative” che permettano una reale e maggiore partecipazione dei lavoratori alla

diffusione dei temi della sicurezza, così da creare condivisione e radicamento nei

diversi contesti di lavoro, favorendo un confronto anche sulle problematiche

contingenti e specifiche che ciascun contesto di lavoro porta con sé e che non

necessariamente ritrova, nella genericità della norma, una risposta alle criticità che

man mano emergono anche a seguito dell’applicazione delle stesse norme.

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Se si chiede ai lavoratori di lavorare diversamente dal loro modo abituale (in

taluni casi anche spavaldo), si dovrà offrire loro la possibilità di confrontare le “vecchie

e abituali” pratiche con le “nuove” pratiche di lavoro e valutare se, applicate all’interno

di un reale contesto di cantiere, queste ultime risultino davvero più sicure o se, invece,

comportano un rischio aggiuntivo (contravvenendo di fatti al punto a) del comma 2

citato).

Altro elemento rilevante è la necessità di dotare i lavoratori di Dpi che siano

per loro confortevoli e non siano solo “economici” per la ditta che li acquista. Spesso,

infatti, come sostenuto da diversi operai incontrati sul campo, i Dpi che hanno un costo

basso (forniti dai datori di lavoro che ritengono la sicurezza un costo e che pertanto

puntano a contenerli) sono anche più “grossolani” nella loro manifattura e risultano

scomodi nel momento in cui, per esempio, occorre “sentire il ferro” mentre lo si lavora.

È fondamentale, dunque, riconoscere il “principio dell’adattabilità” dei Dpi alle

esigenze del loro utilizzatore, cosa che mette ben in evidenza come la “pratica del

copia e incolla” (§ 4.2.3.6) operata da alcuni “tecnici” della sicurezza, esprima non solo

una mancanza di competenze nell’occuparsi di sicurezza sul lavoro, ma rischi di

amplificare un disagio vissuto per esempio da diversi operai anziani che hanno appreso

il loro mestiere secondo modalità consone al contesto storico e culturale di riferimento

(in cui non vi erano molti controlli) e che oggi non sono in grado di mettere in pratica

l’abilità delle loro mani usando, per esempio, dei guanti di protezione.

È la dimensione partecipata della formazione che occorre proporre, ma anche

‒ ed è il secondo punto ‒ quella dell’organizzazione del lavoro. Il punto nodale emerso

dalla ricerca è il grande paradosso tra la richiesta di indossare i Dpi (“perché la legge lo

richiede e se vengono i controlli sono guai”) e quello di “lavorare svelti”, senza perdere

tempo, sempre “in emergenza” perché la produzione non può aspettare.

Un maggior coinvolgimento da un lato dei capicantiere, per esempio,

permetterebbe di evidenziare quelle criticità che “portano via tempo”; dall’altro lato

però, occorre rivedere le logiche degli appalti: se a vincere è il progetto che costruisce

in meno tempo un’opera che verosimilmente ha bisogno di un tempo di costruzione

più lungo, allora ecco che si innescano meccanismi che si basano su tempi/turni di

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lavoro massacranti, spesso svolti in nero e con manodopera poco qualificata, e per

nulla attenta ai requisiti minimi di sicurezza.

La figura del sociologo, dunque, risulta importante ai diversi piani in cui si

traduce la sicurezza sul lavoro, livelli nei quali si esprime la circolarità del sapere sulla

sicurezza. Osservare come si pratica la sicurezza nei concreti contesti di lavoro

permette di offrire una maggior conoscenza dei luoghi in cui sarà tradotta la norma

stabilita a livello istituzionale e recepita a livello organizzativo, offrendo, di

conseguenza, spunti utili alla stessa attività del policy maker nel momento di avvio del

processo di “costruzione” della sicurezza sul lavoro, che avviene proprio attraverso

l’emanazione ‒ o la non emanazione ‒ di leggi e norme.

La presente ricerca, dunque, può rappresentare un inizio, o un tentativo, per

l’instaurarsi di un processo di conoscenza del fenomeno “sicurezza sul lavoro”, che

però richiede un ulteriore sforzo e impegno ad indagare, anche nel contesto del

cantiere già osservato, altre situazioni in cui il ricercatore non ha avuto accesso, come

per esempio l’osservazione diretta degli operai al lavoro.

Per concludere, quindi, compito del ricercatore sociale è quello di portare alla

luce le dinamiche che rendono un cantiere più o meno sicuro. Come sostiene Nicolini

(2001), infatti, il ricercatore si propone di mostrare come gli stili manageriali, i principi

organizzativi, i modi di lavorare o le regole di mercato siano in un dato modo perché

una costellazione di interessi, di poteri, ma anche di desideri, le mantiene “al posto”,

ma potrebbero andare diversamente. E questo vale anche per le considerazioni in

merito alla sicurezza sul lavoro e al fatto per cui, in molti contesti lavorativi, si

“continua” ancora oggi a perdere la vita “semplicemente” lavorando.

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