La SICUREZZA dell’individuo · 2019. 4. 6. · AFFINC HÉ BREXIT NON CI SEPARI TrimesTrale Numero...

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AFFINC HÉ B REXIT NON CI SEPARI TRIMESTRALE NUMERO 3 | APRILE 2018 British Institute of Florence, Babingtons e Marinella Tradizioni secolari British in Italia Il nuovo Ambasciatore d’Italia a Londra Raffaele Trombetta Un anno dalla SPECIALE La SICUREZZA dell’individuo Lord Ahmad of Wimbledon, Barrett, Manciulli, Pantucci, Vidino

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AFFINCHÉ BREXIT NON CI SEPARI

TrimesTrale

Numero 3 | aprile 2018

British Institute of Florence, Babingtons e Marinella

Tradizioni secolari British in Italia

Il nuovo Ambasciatore d’Italia a LondraRaffaele Trombetta

Un anno dallaSPECIALE

La SICUREZZA dell’individuo

Lord Ahmad of Wimbledon, Barrett, Manciulli, Pantucci, Vidino

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editoriale

FrancescoDeLeo

I

“Il Regno Unito è scelto da tanti italiani per la vita”

Royal Charter sono i riconoscimenti regali con cui il monarca del Regno Unito certifica il particolare interesse sociale di un’organizzazione. Nel 1923 il documento fu rilasciato da Re Giorgio V, nonno dell’attuale Regina Elisabetta, al British Institute of Florence, fondato sei anni prima da studiosi inglesi e italiani con l’idea di contrastare in Italia la propaganda anti-britannica.

Giusto un anno fa a Firenze, Carlo, Principe del Galles, accompagnato da sua moglie Camilla, Duchessa di Cornovaglia, presero parte alle celebrazioni per il centenario dell’Istituto a Palazzo Lanfredini, scegliendo di cominciare proprio da lì il loro tour in Italia, che in questo numero de Il Club ci piace ricordare. Si trattò di una visita indimenticabile, sia per il numero di località toccate, sia per il grande entusiasmo con cui i royals furono accolti dagli italiani.

Ero tra gli invitati della direttrice Julia Race e ricordo i tanti esponenti della comunità inglese toscana, nobili fiorentini, studenti dell’Istituto che, in loro attesa, ammiravano la biblioteca, con una delle più vaste collezioni di libri, in lingua inglese destinate al prestito, dell’Europa continentale. Fu tra questi libri - più di 52.000 - che Kate Middleton, Duchessa di Cambridge, trascorse nel 2000 la maggior parte delle ore di studio, durante il suo anno sabbatico.

Firenze quella sera sembrava, se possibile, ancora più bella. Lungarno Guicciardini illuminato da un magnifico tramonto. I principi elegantissimi brindarono alla storia centenaria di questo luogo. Accanto a loro la sempre sorridente Jill Morris, Ambasciatore del Regno Unito in Italia, che mi presentò al Principe. “Ricordi che il Regno Unito è scelto da tanti italiani per la vita”, mi disse l’erede al trono. Fu allora, forse a causa di uno speciale ‘Genius loci’, che nacque l’idea di fondare la rivista che avete in mano.

Mentre questo numero andava in stampa, scoppiava con grande risonanza il caso Sergei Skripal. Downing Street metteva la comunità internazionale a conoscenza del tentato omicidio di una ex spia russa che da anni viveva in Gran Bretagna, e di sua figlia Yulia, entrambi avvelenati con agente nervino prodotto dai russi. Un’azione pericolosissima dello Stato russo, che ha messo in grave pericolo la vita di innocenti cittadini britannici nel loro territorio. “Non si tratta di una questione bilaterale”, ha scritto l’Ambasciatore UK in Italia, Jill Morris, in una lettera a un quotidiano italiano, “ma di uno schema prestabilito attraverso cui la Russia sta smantellando l’ordinamento internazionale”.

Non ci resta che salutare l’ennesima riprova di quanto sia fondamentale il Regno Unito nella salvaguardia di quel patrimonio comune che chiamiamo ‘Democrazia’. Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, in un recente editoriale scriveva: “La forza di una democrazia si misura sulla base di quanti cittadini riesce a proteggere: tutelandone i diritti e stimolandone i sogni”. Dedichiamo al tema il dossier di questo numero.

Il Club readers | Leggono Il Club: Ambasciata del Regno Unito in Italia, The British Chamber of Commerce for Italy (Milano), British Council, UK Trade & Investment, London & Partners, The British School of Milan (Milano), British Institute of Florence, All Saints’ Anglican Church Rome, Sezione Bilaterale di Amicizia UIP Italia-Gran Bretagna, Camera di Commercio & Industria Italiana per il Regno Unito, Ufficio di Londra ICE Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Istituto Italiano di Cultura Londra, Istituto Italiano di Cultura Edimburgo, Business Club Italia, British-Italian Society, LSE Italian Society, KCL Italian Society, The Italian Society at the Queen Mary University of London, BAA London, Chiesa Italiana di San Pietro a Londra, Artstur – Accademia Italiana Club, The Army & Navy Club, The Arts Club, Boodle’s, The Carlton Club, The Caledonian Club, Cavalry and Guards Club, City of London Club Membership, The In & Out (Naval and Military Club).

Charles Dickens

No man who was not a true gentleman at heart, ever was, since the world began, a true gentleman in manner.

Nessun uomo che non sia un gentiluomo nell’animo è mai stato, da che mondo è mondo, un vero gentiluomo nei modi.

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N. 3 | Aprile 2018

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Direttore responsabile:Francesco De LeoCollaboratori: Giovanni Caccavello, Diletta Cherra, Davide De Leo, Paola Peduzzi, Alessandra Rizzo, Alberto Simoni.

Comunicazione, progetto grafico e impaginazione: Ubaldo Cillo

Traduzioni: hobbesandsushi.com

Webmaster: Francesco D’Ambrosio COMITATO SCIENTIFICO Presidente: Jill Morris Membri: Paolo Alli, Giuliano Amato, Gianluca Ansalone, Antonio Armellini, Gianfranco Baldini, Tim Bale, Annamaria Bernini, Simon Blagden KBE, Philip Booth, Maurizio Bragagni, Edoardo Bressanelli, Sabrina Corbo, Elena Di Giovanni, Filippo di Robilant, Alessandro Dragonetti, Francesco Giavazzi, Claudio Giua, Sandro Gozi, Giulia Guazzaloca, Nadey Hakim, Dominic Johnson, Tim Knox, Andrea Manciulli, Alessandro Minuto Rizzo, Domenico Meliti, Michela Montevecchi, Nello Pasquini, Andrea Peruzy, Marco Piantini, Stefano Polli, Gaetano Quagliariello, Lia Quartapelle, Julia Race, Fabrizio Ravoni, Andrea Romano, Vittorio Sabadin, Giulio Sapelli, Paul Sellers, Daniel Shillito, Stefania Signorelli, Leonardo Simonelli, Massimo Teodori, Giulio Tremonti, Raffaele Trombetta, Raffele Volpi, Philip Willan.

Stampa:RUBBETTINO EDITORE S.r.l.Viale Rosario Rubbettino , 1088049 Soveria Mannelli (CZ)Tel. 0968.6664201 | Fax 0968.662055www.rubbettino.it | e-mail: [email protected]. - Cap. soc. Euro 10.400,00 i.v. -Reg. Impr. di CatanzaroCod. Fisc. e P.IVA 01933480798

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Il Club è distribuito esclusivamente in abbonamento. Costo annuale (per 4 numeri): € 100,00

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sommario

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6 | Raffaele Trombetta, il nuovo Ambasciatore d’Italia nel Regno Unito.

8 | DOSSIER SICUREZZA

9 | Intervista a Lord Ahmad of Wimbledon.

11 | Terrorismo. Tre domande a Andrea Manciulli, Raffaello Pantucci e Lorenzo Vidino

14 | Conversazione con Richard Barrett. Di F. Semprini

16 | The Gentlemen’s Clubs of London: The Army and Naval Club. Di D. De Leo

18 | Babingtons, a Roma 125 anni di storia in una tea room.

20 | La magia del Rugby. Di M. Ricci

22 | THE ROYAL VISIT TO ITALY

23 | Il Principe Carlo e la Duchessa Camilla in Italia.Di V. Sabadin

26 | Marinella. Una leggenda nel cuore di Napoli.

30 | Un anno e un secolo per il British Institute of Florence.

33 | A Firenze il Grande Vino e l’Olio di Toscana.

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LondraRaffaele Trombetta

inizia la sua missione di Ambasciatore d’Italia

nel Regno Unito

Da Brasilia a Londra, passando per Roma, Raffaele Trombetta si è da poco insediato come nuovo Ambasciatore d’Italia nel Regno Unito al nume-ro 4 di Grosvenor Square. La nuova missione in

Gran Bretagna rappresenta l’ulteriore importante capitolo di una carriera diplomatica iniziata nel 1985, che ha visto il diplomatico partenopeo ricoprire ruoli di prestigio rispet-tivamente a Bogotá, Bruxelles, Pechino e Brasilia, dov’è stato Ambasciatore dal 2013 al 2017. Laddove Brasilia, divenuta capitale del Brasile solamente nel 1960, è una città giovane e meticolosamente pianificata dal punto di vista urbanistico, Londra, antica Londinium, vanta una storia millenaria e dalle mille sfaccettature, che è riuscita a mantenere intatta durante il suo sviluppo in

Da Brasilia a sherpa G7 e G20, fino auno dei centri finanziari e culturali più importanti al mon-do. Questa capacità di combinare tradizione e innova-zione ha da sempre affascinato il nuovo Ambasciatore, il cui percorso, accademico e professionale, è iniziato oltre vent’anni fa proprio nel Regno Unito, rispettivamente con il suo precedente mandato di Console d’Italia a Londra dal 1990 al 1995 e con il Master in Studi Europei, conseguito presso la London School of Economics (LSE) nel 1994. Raffaele Trombetta ha, dunque, un forte legame emotivo con la ca-pitale e il popolo britannico e il nuovo insediamento costi-tuisce per l’Ambasciatore una sorta di “ritorno a casa”.Certo, il diplomatico rientra a Londra in un contesto po-litico diverso, caratterizzato dai negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il suo mandato sarà per-tanto scandito da obiettivi difficilmente immaginabili solo pochi anni fa, quali tutelare lo “status” dei più di 600.000 cittadini italiani stimati residenti in Gran Bretagna, oltre agli interessi della vasta e attiva comunità economico-fi-nanziaria italiana che opera nel Paese. Nonostante le incer-tezze riguardanti il nuovo rapporto che verrà stabilito una volta terminati i negoziati tra Londra e Bruxelles, l’Amba-sciatore Trombetta resta ottimista e fiducioso, determina-to a rafforzare ulteriormente i rapporti anglo-italiani e le varie collaborazioni in campo economico e sociale, seppur in un panorama politico in continua evoluzione. Del re-sto, la sua ultima esperienza prima di Londra quale sherpa G7/G20 del Presidente del Consiglio dei Ministri, ha visto Raffaele Trombetta lavorare a stretto contatto - nell’am-bito della presidenza italiana G7 dello scorso anno - con gli amici britannici, in settori quali quello della lotta al cambiamento climatico, il libero commercio e la sicurezza internazionale, in cui le agende di Roma e Londra sono perfettamente allineate.Il capo della missione diplomatica Italiana in Gran Bretagna è convinto che l’Ambasciata non debba essere unicamente un punto di riferimento per l’attività politica

e le relazioni istituzionali, ma anche un centro promoto-re della cultura, degli interessi finanziari e dell’imprendi-torialità Italiana nel Regno Unito. E infatti, come primo impegno fuori Londra, l’Ambasciatore Raffaele Trombetta ha voluto partire proprio dalla cultura. In qualità di patron della Trilogia di Giuseppe Verdi del Welsh National Opera (WNO), si è recato a Cardiff per assistere alla prima par-te della produzione verdiana “La Forza del Destino”, alla presenza del Principe del Galles, per dare un segno tangi-bile a sostegno della diffusione dell’Opera italiana in Gran Bretagna. Le prime settimane a Grosvenor Square hanno visto un moltiplicarsi di eventi anche a favore delle imprese e della City, tra cui la Conferenza Equity & Debt Investment in Italy, organizzata con Legance-Avvocati Associati, che ha visto la presenza di oltre 200 investitori in Ambasciata e l’ulti-mo appuntamento della serie Triple I: Italian Imaginative Innovators – conversazioni con imprenditori italiani di spicco internazionale, moderate da editorialisti dei media britannici, destinate a valorizzare l’evoluzione del sistema produttivo italiano, del cosiddetto “quarto capitalismo” – con il presidente di Illycaffè, Andrea Illy. Raffaele Trombetta inizia la sua missione diplomatica con positività e un forte entusiasmo che certamente caratteriz-zeranno il suo mandato. L’Ambasciatore può vantare una notevole esperienza in complesse tematiche in ambito di-plomatico e presso l’attuale Paese di accreditamento, il che si rivelerà sicuramente un importante punto di forza nella gestione dell’Ambasciata d’Italia nel Regno Unito durante la seconda fase del negoziato sulla Brexit e la nuova con-giuntura che si presenterà a seguito dell’uscita dall’Unione europea.

I più sentiti auguri di buon lavoro de Il Club all’Ambascia-tore Raffaele Trombetta, scelto per rappresentare il nostro Paese nel Regno Unito.

a cura della redazione

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Sicurezza

Spiegherebbe ai lettori italiani in che modo il Regno Unito tutela la sicurezza degli individui senza sacrificare lo stato di diritto?“La prima responsabilità di qualsiasi governo, in qualsiasi Paese, è la sicurezza della popolazione. Proprio come in Italia, noi nel Regno Unito com-

prendiamo questa responsabilità. Uno dei maggiori problemi che dobbiamo affrontare è la sfida crescente del contrasto al terrorismo e, prima ancora, alla crescita della radicalizzazione. Dovremo lavorare in modo collettivo e collaborativo con Paesi che la pensano allo stesso modo, condividendo intelligence e costruendo resilienza, per poter affrontare l’estremismo.Ha detto di essere fiero di essere musulmano e cittadino bri-tannico. Cosa significa essere musulmano nel Regno Unito?Sono un immigrato di seconda generazione, mio padre arrivò nella prima parte degli anni ‘50. Aveva un colore diverso, una fede diversa, arrivò in Scozia e come prima occupazione trovò un lavoro nelle ferrovie. Alcuni lo presero di mira, perché aveva un aspetto diverso, parlava in modo differente, ma lui si rim-boccò le maniche e continuò a lavorare. Cercò di capire il suo nuovo Paese e di imparare la lingua. Si lanciò in diverse attività sociali, dando una mano in centri per anziani e poi entrò in una squadra di hockey: fu un ottimo giocatore. Cosa lo ispirò? La sua educazione nel subcontinente di sicuro, ma anche la sua fede. Miliardi di persone in tutto il mondo praticano l’Islam in modo pacifico. Tuttavia, e questa è una cosa che dobbiamo accettare, vi sono coloro che danno interpretazioni erronee e perverse, che cercano di fuorviare quella nobile fede, la rappresentano in modo errato e commettono dei crimini. Ma la fede mi ispira per battermi per la giustizia, per quel che è giusto. In effetti, per me è una ricchezza il fatto di avere le mie radici in India. Sono fiero della mia fede, ma sono anche fiero di essere britannico: amo il suo Paese con grande passione. Non è una contraddi-zione, perché il mio Paese, il Regno Unito, come l’Italia, come molti Paesi in tutta Europa, celebra la diversità, riconoscendo che è unendosi e facendo leva su quella diversità che si costrui-sce la forza futura di un Paese. Quindi sì, vi sono problemi, ma è mia responsabilità, insieme a molti altri, di qualsiasi fede, co-munità o religione, di battersi e di essere uniti. Un punto finale su questo tema. Si chiede spesso ai musulmani di farsi avanti e di condannare questi atti: lo fanno. Lo fanno i musulmani britannici, i musulmani italiani, i musulmani fran-

La protezione dell’individuo

Incontriamo Lord Tariq Ahmad of Wimbledon, Rappresentante speciale del Primo Ministro per la Prevenzione della violenza sessuale nei conflitti e ministro di Stato per il Commonwealth e le Nazioni Unite, a Roma, presso Villa Wolkonsky, la residenza ufficiale dell’Ambasciatore britannico in Italia.

a cura della redazione

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cesi, ovunque siano, condannano senz’altro queste azioni. Ma ritengo vi sia un’ulteriore responsabilità che io, in quanto mu-sulmano britannico, ho, perché queste persone che fuorviano la fede, non stanno fuorviando il Cristianesimo, o il Giudaismo, o il Sikhismo o l’Induismo; cercano di commettere questi atti nel nome dell’Islam. Diventa una responsabilità mia e di oltre tre milioni di musulmani britannici che servono il Paese in vari settori, con grande orgoglio e distinzione, battersi e manifestar-si e unirsi contro questo estremismo. Ma se guardiamo all’Islam e alla Gran Bretagna, non si tratta di una nuova relazione, si è formata nel corso dei secoli. E se guardate alla Gran Bretagna di oggi, vedrete il contributo dei musulmani in molti settori.”Qual è la percentuale di estremisti nella società britannica? Può dirci di più sul Programma Prevent?“Quando ero Sottosegretario per il contrasto all’estremismo, abbiamo lanciato una strategia per combattere l’estremismo. Centrale al nostro approccio era di unire tutto il Paese. Le dò un esempio pratico: quando parliamo di lotta alla radicalizza-zione, chi cerca di fuorviare l’Islam presenterà concetti interni all’Islam, come il jihad. Dirà che il jihad è una guerra santa con-tro gli infedeli e coloro che non hanno la stessa interpretazio-ne dell’Islam. È una sciocchezza: la vera essenza del jihad è la riforma di sé, il miglioramento di sé per il beneficio proprio ma anche della propria famiglia, della propria comunità, del-la società e del Paese. Ma che ne parli io come Sottosegretario del governo britannico, o il governo stesso, non è la soluzione. Abbiamo bisogno che le stesse comunità si facciano avanti, in modo che quando le voci radicalizzate dicono che il jihad signi-fica scatenare una guerra santa contro gli infedeli, avremo un coro di voci dei musulmani britannici di varie origini, inclusi gli Imam, che diranno: “no, è questo il vero concetto di jihad, que-sta è la nostra voce collettiva e unificata contro di voi”. Questa è la soluzione necessaria per avvicinare le parti. Ovviamente, la relazione tra musulmani britannici e il governo e la polizia necessita in generale di sforzi maggiori per costruire maggiori

livelli di fiducia. Come per ogni relazione, bisogna continua-re a lavorarci su. “Prevent” (“Impedisci”) è un elemento della strategia complessiva, chiamata “Contest” (“Concorso”). C’è un elemento “duro”, chiamato “Pursue” (“Persegui”), in cui identifi-chiamo i terroristi o persone che appartengono a gruppi vietati, attraverso le agenzie di intelligence, le nostre agenzie di sicu-rezza, la polizia e in collaborazione con Paesi quali l’Italia, per assicurare che siano portati alla giustizia. Questo è un elemento. All’interno dell’elemento Prevent, per esempio, dobbiamo ri-durre quel che chiamo “estremismo d’importazione”. Vi sono cosiddetti imam in giro per il mondo, particolarmente in Asia sudorientale, che usano la Gran Bretagna, approfittano del no-stro liberalismo, della nostra apertura, delle nostre libertà, della nostra democrazia e del fatto che ospitiamo comunità di tutte le fedi. Loro abusano di tutto ciò, cercano di inculcare un’idea estremistica in menti giovani e vulnerabili. Dobbiamo verifica-re che i nostri sistemi funzionino a livello internazionale, per impedire che entrino nel Paese. Il nostro Primo Ministro, insieme ai governi italiano e francese, ha lanciato un’iniziativa all’Assemblea Generale dell’ONU sulla radicalizzazione online. Non va bene che i social media dicano: “non siamo che fornitori di una piattaforma”; devono assumer-si la propria responsabilità. L’iniziativa ha grande importanza e portata internazionale. Se guardiamo all’esempio di Twitter, tra il luglio del 2016 e l’agosto del 2017, sono stati chiusi quasi un milione di account Twitter nel Regno Unito. L’obiettivo princi-pe di Prevent è di sottrarre ossigeno agli estremisti. L’elemento finale della strategia è “Promote” (“Promuovi”): lavoriamo con le comunità e gruppi di fedeli per accentuare il positivo di quel che significa essere britannici e musulmani, due identità che sono perfettamente compatibili e un grande punto di forza del nostro Paese, come ogni altra fede. Spesso dico che la Gran Bretagna è il posto migliore per essere musulmani, cristiani, ebrei, buddisti, hindu, sikh, e anche il posto migliore per essere una persona senza fede. Quel che importa di più è il rispetto.”

Tre domande ad Andrea Manciulli, Raffaello Pantucci e Lorenzo Vidino

Terrorismo

Dopo le recenti sconfitte dello Stato Islamico in Siria e Iraq, la comunità internazionale si chiede quali siano le caratteristiche del nuovo terrorismo e quali le misure più idonee per combatterlo.

Andrea Manciulli “La sconfitta territoriale di Daesh è stato

evidentemente un passo in avanti molto significativo nella lotta contro il terrorismo, ma non ha segnato la sua sconfitta definiti-va. Questo perché da un lato, negli ultimi anni, abbiamo assistito anche a una riemersione di Al Qaeda, e dall’altro per l’evoluzione stessa della minaccia jihadista, di cui Daesh è stato il fenomeno più rilevante, in cui la sua dimensione mediatica ha assunto ca-ratteristiche eccezionali e nuove rispetto al passato. Questo muta-mento ci obbliga ad assumere iniziative di contrasto sempre più rivolte sul piano preventivo e non solo repressivo. Se in passato le ricette di natura repressiva sembravano le più efficaci per com-battere il terrorismo jihadista, per le sue caratteristiche di clande-stinità e struttura verticistica, oggi l’orizzontalità che ha assunto, grazie soprattutto ai nuovi media, la sua diffusione e l’esplosione dei simpatizzanti, che non sono più i militanti clandestini di un tempo, rendono molto più imprevedibili le sue azioni e più pene-trante la sua minaccia. Per questo le politiche preventive, che ab-biano ad oggetto la dimensione mediatica, sociale e culturale del fenomeno, sono essenziali. Inoltre non vanno dimenticati i forei-gn fighters, non solo quelli che potrebbero rientrare in Europa, che sono una minaccia molto seria, ma anche quelli che potreb-bero spostarsi in cerca di nuovi rifugi per aggregarsi ad altre or-ganizzazioni terroristiche locali. Questo rischio riguarda soprat-

tutto alcune aree dell’Africa, in particolare nel Sahel e nell’area Subsahariana e altre dell’Asia, in Afghanistan, nel subcontinente indiano, nel sud-est asiatico e anche nell’area delle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, da dove sono partiti numerosi com-battenti per unirsi a Daesh.”

Raffaello Pantucci “Non vi è purtroppo una correlazione diret-ta tra la perdita di territorio in Siria e Iraq e la fine della minaccia terroristica in occidente. Oggi che le idee e le metodologie terro-ristiche sono più diffuse e accessibili che mai, il problema per le forze di sicurezza è innanzitutto identificare che un dato evento sia terroristico, piuttosto che il comportamento di una mente di-sturbata che utilizza metodi terroristici per sconfiggere demoni personali. Ciò significa che la gamma di attività che le forze di sicurezza si trovano a gestire si è ampliata considerevolmente, mentre le risorse necessarie sono rimaste le stesse. Se per alcuni la risposta è quindi l’accrescimento della quantità di risorse de-dicate a questa lotta (come è già visibile in tutta Europa), la realtà è che spesso occorre trovare modi per interfacciarsi con una se-zione trasversale più ampia del governo per gestire il problema. In altre parole, assicurarsi di avere un approccio olistico e com-plessivo nell’amministrazione, piuttosto che accrescere il numero di agenti di sicurezza e intelligence. Il punto è che la minaccia e l’ideologia sono diventate un magnete per numerosi gruppi di di-sadattati: da giovani perditempo a persone con problemi mentali, o ancora criminali incalliti in cerca di un nuovo significato nella vita. La risposta quindi deve essere parimenti ampia e complessa: riconoscendo che, se da un lato sono necessarie le misure classi-che di contrasto al terrorismo, dall’altro sono in effetti cruciali le cure sanitarie.”

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Lorenzo Vidino “Viviamo in una fase di transizione in cui sarà molto difficile capire esattamente che realtà avremo nei prossimi mesi. Lo Stato Islamico, che è il gruppo jihadista più importante degli ultimi 3-4 anni, ha perso la sua territorialità ma non è morto, non è sconfitto totalmente: rimane nei territori dell’Ex Califfato e ha una presenza ormai globale tramite le proprie province e grup-pi affiliati, ed esiste anche Al-Qaeda, di cui ci dimentichiamo spes-so ma che invece ha ristabilito una presenza importante in Siria e in altre regioni. Esiste poi il messaggio jihadista, che trova adep-ti spesso in gruppi non strutturati ma solo simpatizzanti, spesso chiamati lupi solitari, anche in occidente e che a volte rispondono alla chiamata dello Stato Islamico, a volte semplicemente a quella più generale dell’ideologia jihadista. È difficile veramente in que-sto momento capire quale sarà lo sviluppo: se un gruppo riuscirà a riconquistare un territorio e a creare un nuovo califfato oppure se avremo una fase più atomizzata e frammentata del jihadismo, comunque pericolosa. In queste fasi, quando si hanno difficoltà a capire che tipo di nemico ci si trova davanti, l’intelligence continua a fare quella che è l’attività di monitoraggio e cerca di capire quali sono queste dinamiche. È chiaro che paradossalmente l’atomiz-zazione dà dei problemi maggiori. È più facile per un’intelligence intercettare pericoli quando sono più strutturati, cioè quando si hanno cellule, quando si hanno comunicazioni, passaggi di denaro tra un gruppo e le cellule sparse per il mondo. Quando, invece, si parla di jihadismo più atomizzato, cioè di soggetti non legati ope-rativamente ad alcun gruppo, ma che semplicemente adottano il credo estremista e si attivano dall’oggi al domani senza un preav-viso, senza dare dei segnali, è chiaro che intercettarli è molto più difficile, e anche dal punto di vista giuridico avere degli strumenti legali per intercettarli è molto più complesso.”

Che tipo di coordinamento tra i Paesi è necessario in Occidente per fronteggiare il terrorismo di ma-trice islamica?

Andrea Manciulli “Dobbiamo mantenere il buon livello di collaborazione avviata nel tempo, soprattutto con la coalizione anti-Daesh, coinvolgendo anche i Paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo. In questi anni alla NATO mi sono molto impegnato per favorire, tra i Paesi atlantici e i partner, una omogeneizzazio-ne delle leggi di contrasto al terrorismo jihadista. È indispensabile che tutti questi Paesi si dotino di strumenti normativi sia di tipo preventivo che di tipo repressivo, aggiornando così i propri siste-mi legislativi nazionali. In particolare, è importante che questo av-venga in tutto l’ambito NATO ed europeo, per favorire anche una maggiore condivisione e un maggiore coordinamento tra le buo-ne prassi che nei singoli Paesi si sono sviluppate nel tempo. Penso per esempio al caso dei Balcani, dove l’adozione di un registro legislativo preventivo sarebbe molto importante per contrastare la diffusione dell’ideologia jihadista. Occorre anche aumentare la

Lorenzo Vidino (Direttore del Programma sull’estremismo alla George Washington University)Raffaello Pantucci (Royal United Services Institute di Londra)

Andrea Manciulli (Presidente del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea parlamentare della NATO)

Infatti, sono convinto che a livello europeo dobbiamo lasciarci alle spalle la vicenda Brexit quanto prima possibile e lavorare per rilanciare sempre di più e meglio la collaborazione con il Regno Unito, perché proprio nei settori della sicurezza è un alleato pre-ziosissimo e irrinunciabile. Per esempio, possiamo sviluppare nuove forme di partnership e collaborazione anche nei campi della lotta contro il terrorismo e della difesa europea, non solo perché è indispensabile mantenere un rapporto costante su que-sti temi, ma anche perché in questi settori il Regno Unito dispone di un livello di capacità, competenze ed esperienza indispensa-bili per tutti noi.”

Raffaello Pantucci “Non conosciamo ancora il pieno impat-to della decisione britannica di lasciare l’UE e cosa ciò significa per le relazioni del Regno Unito con il resto dell’Europa in fatto di sicurezza. Se è indubbio che vi saranno dei cambiamenti, la realtà è che le minacce comuni che incombono devono essere affrontate insieme. La NATO continuerà a essere una struttura importante date le sue forti strutture esistenti, che il Regno Unito cercherà senza dubbio di potenziare ulteriormente per compen-sare potenziali perdite sul fronte europeo. Allo stesso tempo, sa-rebbe stupido il Regno Unito a non cercare modi per lavorare a stretto contatto con i partner dell’UE sulle questioni della sicu-rezza, in particolare per fare in modo che le relazioni con gli Stati membri UE continuino a svilupparsi in modo complementare e interoperabile. Dato l’attuale ventaglio di minacce che affliggo-no l’Europa – Regno Unito incluso – è molto improbabile che nei prossimi decenni ci troveremo in una situazione nella quale non subiremo una serie di minacce comuni alla sicurezza pro-venienti dall’esterno. Accettare questa realtà, insieme al fatto che le nostre popolazioni sono sempre più integrate, darà una linfa ancora maggiore agli argomenti di chi dice che condividiamo un gruppo comune di sfide sulla sicurezza.”

Lorenzo Vidino “È chiaro che l’Inghilterra dovrà decidere nei prossimi mesi come posizionarsi dal punto di vista della sicurez-za: difficile prevedere esattamente quale sarà la posizione inglese nelle strutture come la Nato, ma anche a livello di antiterrorismo quelle come l’Europol o l’Interpol. Non oso, comunque, imma-ginare che l’Inghilterra si distacchi totalmente da certe strutture, anche solo europee, legate all’antiterrorismo perché comunque l’intelligence e tutto l’establishment inglese capisce che dal punto di vista della sicurezza l’Inghilterra ha bisogno di una collabora-zione costante con l’Europa e viceversa.”

consapevolezza della pericolosità di questo tipo di minacce nell’o-pinione pubblica, spiegando bene quali sono le caratteristiche di queste nuove forme di terrorismo.”

Raffaello Pantucci “La violenza del terrorismo islamista non conosce confini. Spinto da un’ideologia che si considera rappre-sentante globale della comunità musulmana, considera le fron-tiere fatte dall’uomo contrarie alla legge di Dio. Sfortunatamente, questo rifiuto dell’ordine di Westfalia si trova al polo opposto rispetto al modo in cui sono strutturati il nostro mondo e i suoi apparati di sicurezza. Ogni Paese ha diverse percezioni. Anche all’interno di una struttura quale l’UE, per esempio, Paesi dell’Eu-ropa centrale e orientale spesso percepiscono la Russia come una minaccia più dominante dell’islamismo violento. I sistemi giuri-dici tedesco e britannico sono profondamente diversi per quel che permettono di fare alle forze di sicurezza. Eppure, tutti questi Paesi devono lavorare a stretto contatto per contrastare la violenza del terrorismo islamista. Se ci limitiamo a considerare la rete che è stata organizzata per lanciare gli attacchi terroristici a Parigi e a Bruxelles, osserviamo una rete che ha toccato diverse parti dell’U-nione Europea. Le persone coinvolte hanno probabilmente avuto un nucleo francofono con radici in Belgio, ma elementi della cella avevano origini balcaniche, dell’Europa orientale, britanniche, ita-liane, greche e altre ancora. Per essere in grado di contrastare que-ste reti, sono essenziali una stretta collaborazione e stretti contatti.”

Lorenzo Vidino “Si è fatto molto negli ultimi anni, se parago-niamo la situazione di oggi rispetto a quella del post 11 settembre o anche solo 5 anni fa, si è migliorato molto. È chiaro che però sia-mo ben lontani da una condivisione delle informazioni in tempo reale: esistono ancora delle barriere giuridiche, ma direi ancor di più delle barriere culturali, delle gelosie, delle volte delle rivalità che esistono tra Paese e Paese e a volte addirittura in certi casi in-ternamente a vari Paesi. Forse l’Italia è un Paese virtuoso in questo senso, però in certi Paesi è chiaro che la frammentazione dell’in-telligence antiterrorismo porta dei seri problemi alla condivisione di informazioni.”

Dopo la scelta del Regno Unito di abbandonare l’Unione Europea che futuro possiamo immagi-nare per la NATO e per la Difesa Europea?

Andrea Manciulli “Il Regno Unito è per noi un alleato impor-tantissimo; all’interno della NATO è uno dei Paesi più rilevanti e sono certo che continuerà a svolgere nell’Alleanza un ruolo fonda-mentale. Per noi italiani è particolarmente significativo il rapporto con il Regno Unito, da sempre, e credo che dovremo mantenere i nostri ottimi rapporti consolidati nel tempo anche per raffor-zare la collaborazione in ambito di sicurezza e di difesa europea.

Il nostro libro nasce dall’idea di offrire un contributo originale e controcorrente su Brexit rispetto a una nar-razione dei mainstream media e dei cosiddetti “esper-ti” tendente a banalizzare e demonizzare la scelta degli elettori britannici e a ridicolizzare sforzi e difficoltà del governo di Londra nei negoziati. Ricordiamo i commenti in tv la notte del referendum. Celebrazione della democrazia britannica prima del-la mezzanotte, finché sembrava prevalere il Remain; anatemi e condanne (“abuso della democrazia”) subi-to dopo il sorpasso del Leave. Ma se un Paese come il Regno Unito decide di andarsene, occorre chiedersi se non vi sia qualcosa di sbagliato nel progetto europeo. Perdere la quinta economia del mondo, la seconda dell’Ue, il 17% della popolazione, somiglia a un’amputa-zione. Eppure, fino a oggi il dibattito si è concentrato su cosa la Brexit significa per il Regno Unito. Molti profeti di sciagure si stanno ricredendo, ma poco o nulla ci si interroga su cosa significhi per l’Ue. Concetto chiave del nostro libro è la sfida. Brexit non è un singolo evento, ma un processo storico e politico che si è appena messo in moto e il cui successo o fallimento dipenderà dalle azioni dei soggetti coinvolti. Presenta rischi e oppor-tunità. Il miglior modo per affrontarlo è superare una logica di mera riduzione del danno e avere il coraggio di una visione creativa. L’economia britannica, la City, riusciranno a prosperare anche al di fuori dell’Ue? Questa la sfida per il Regno Unito. L’idea di una Global Britain non è affatto un’illusione nostalgica, posto che cittadini e governi britannici restino fedeli a politiche pro-mercato. L’Ue non può permettersi di proseguire per la sua strada (quale?) come se nulla fosse accaduto. La sfida sta nel cogliere istanze che non arrivano solo dagli elettori britannici, ma anche da molti in Europa continentale. Nel ripensare il modello di integrazione, abbandonando l’idea di un’armonizzazione omolo-gante e di un super-Stato neo-carolingio, a favore di un modello di cooperazione più rispettoso delle diver-sità nazionali e pragmatico, meglio in grado di affron-tare problemi concreti. Come già avvertiva la signora Thatcher in un discorso, quello di Bruges, di 29 anni fa, ma che sembra pronunciato 29 minuti fa, il progetto europeo ha smesso di essere un mezzo ed è diventato un fine: un’architettura istituzionale e burocratica lon-tana dai cuori e dagli interessi dei cittadini. La Brexit è un campanello d’allarme che non può essere ignorato.

LA SFIDA. Il ritorno delle nazioni e della questione tedesca

Daniele Capezzone e Federico Punzidi

the book

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1514

Un progetto non del tutto fallito

“La nostra civiltà, la civiltà occidentale, deve fare i conti con un pericolo costante, talvolta latente altre volte deflagrante. Una minaccia che porta il nome di terrorismo e ha una ca-

pacità di sopravvivenza rispetto alla contingenza delle sue stesse forme. In questo senso ritengo concreta l’ipotesi che il progetto dello Stato islamico possa non essere fallito del tutto, che quello che abbiamo recentemente vissuto sia solo un primo stadio del progetto jihadista denominato Isis”. Il monito, lucido e lapidario, è di Richard Barrett, ex direttore delle attività anti-terrorismo di MI6, il servizio di intelligen-ce britannico, e già a capo della United Nations Monitoring Team, la task force del Palazzo di Vetro che si occupa delle attività di Al Qaeda e dei talebani. Quando lo raggiungiamo al telefono è in Somalia, dove si trova nell’ambito di un pro-getto sugli estremismi locali in cui è coinvolto “The Global Strategy Network”, l’osservatorio di cui è oggi tra i leader.

Andiamo diritti al punto: nell’era post-califfato qual è l’ulti-ma frontiera della jihad? “Per l’Europa c’è un rischio rappresentato da quelle persone che sono o che stanno tornando indietro dai territori di Siria e Iraq, ma anche da coloro che non hanno avuto la possibilità di andare lì, coloro che sono stati fermati prima. Il secondo elemento è che c’è un senso di vendetta nei confronti di quei Paesi occidentali ritenuti responsabili della caduta del calif-fato in Medio Oriente”. C’è poi un aspetto di natura sociale, spiega l’ex 007 al servizio di Sua Maestà.

Conversazione con Richard Barrett, già

Direttore Antiterrorismo globale nell’MI6

Francesco Semprini diCorrispondente per ‘La Stampa’ da New York

Stato Islamico“Il progetto Isis ha trovato terreno fertile laddove hanno prevalso disagio e difficoltà economiche, oltre che politi-che. Se queste condizioni permangono, c’è il rischio di una nuova proliferazione jihadista”. Il riferimento è puntuale: “Guardando al caos che permane in Siria, Somalia, Nigeria, Yemen e in altre parti del mondo, la capacità di gruppi, più o meno piccoli o più o meno strutturati, di destabilizzare permane, anzi in alcuni casi si rafforza”. Quello di Barrett è un monito: “Il dovere della civiltà occidentale è, non solo prevenire e contrastare forme di terrorismo, ma adoperar-si affinché quelle condizioni di disagio e povertà in cui ha avuto presa il terrorismo vengano progressivamente ma ine-sorabilmente ribaltate. Specie perché alcune organizzazioni come gli al Shabaab somali hanno riempito i vuoti lasciati da Stati e governi e ciò li rende attraenti, li potenzia”. Il messaggio parte da un assunto che rappresenta la pietra miliare del ‘Barrett-pensiero’: “Abbiamo visto tante forma-zioni andare e venire, ma il terrorismo in sé rimane”. L’interrogativo quindi è doveroso: quali errori non ripete-re, rispetto a quelli che non hanno impedito stragi come Bataclan, Manchester, Nizza Berlino o Barcellona? “Ci vuole una condivisione delle informazioni più efficace, una migliore analisi dei dati, e un miglior uso delle informa-zioni di intelligence”. C’è poi l’opzione militare. “Interventi diretti come quello della Nato in Afghanistan non sono più uno strumento efficace nella lotta al terrorismo, anzi rischia-no di essere controproducenti per tutta una serie di cause tra cui i cosiddetti effetti collaterali, come la morte dei civili. Bisogna ricorrere ad alcune componenti precise delle forze militari, come le forze speciali e le unità tattiche”. Ancor di più perché con la Brexit l’ipotesi di una difesa co-mune europea si balcanizza. “È difficile pensare a un coinvolgimento della Gran Bretagna a meno che non vengano istituti accordi particolari”.

Eppure c’è chi vede la Brexit come un’opportunità sul piano dei rapporti bilaterali dei servizi di informazione? “La Brexit temo non offra opportunità in generale, ma devo dire che dal punto di vista dell’intelligence ci sono rapporti di partnership molto importanti, di grande vici-nanza. Penso all’Italia, in particolare per quanto riguarda i temi del terrorismo e della migrazione, argomenti im-prescindibili anche per il Regno Unito”.  Tra gli errori da non ripetere, ce n’è uno su cui Barrett si sofferma: il “rischio esasperazione”. “È impossibile prevenire ogni attacco in fase embriona-le, magari condotto a bordo di un’auto che si scaglia sulla folla, o da kamikaze solitari che si fanno saltare in aria in un edificio pubblico. È impossibile proteggere e prevenire attacchi condotti contri tutti i potenziali ‘soft target’. E se i controlli si irrigidiscono troppo, ad esempio all’ingresso in teatri, stadi e concerti, si fa il gioco dei terroristi”. Il rimedio per l’ex 007 è il ricorso alla ‘resilienza civile’.“Attenzione però, resilienza non è solo mantenere la cal-ma e andare avanti. È nel continuare a credere e perse-guire alcuni valori chiave, quelli di tolleranza, giustizia, eguaglianza, nella risoluzione pacifica dei contenziosi, valori che il terrorismo punta a erodere, facendo crollare i presupposti democratici della nostra civiltà”. Il terrorismo insomma non è solo distruggere e uccide-re, ma sgretolare la coesione sociale. Un’ultima doman-da, Sir Barrett: sta tentando di dire che il pericolo è insi-to nella nostra stessa società? “Il clima politico che si respira ora in Occidente, è un clima di esasperazione manipolabile in tante direzioni; una di queste ad esempio è la percezione che ciò che sta dall’atra parte è una minaccia. Erigere muri non serve, anche perché i muri non hanno mai fermato il terrori-smo”.

Interventi diretti come quello della Nato in Afghanistan non sono più uno strumento efficace nella lotta al terrorismo.

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1716

“Da oltre 175 anni, l’Army and Navy Club riunisce persone che la pensano allo stesso modo, persone che vogliono condividere opinioni, obiettivi e aspi-

razioni; che, mentre mangiano e bevono, discettano di questioni serie, come di idee frivole”. Nella prima metà del XIX secolo, nella capitale dell’Impero britannico, i “social media” erano i club, le discussioni si tenevano in circoli, spesso esclusivi, che permettevano di entrare “in società”. Chi aveva voglia di incontrare persone interessanti e confron-tarsi con loro, ne era ossessionato. Proprio nell’anno in cui la Regina Vittoria ascendeva al trono, nel 1837, il Luogotenente Generale Sir Edward Barnes deci-deva di fondare l’Army Club, che avrebbe aperto le porte ai molti ufficiali dell’esercito britannico che volevano iscriversi a un circolo esclusivo, ma non ci riuscivano. Vista l’enorme popolarità di cui godevano, gran parte dei club della capitale, infatti, avevano già raggiunto il numero massimo di membri consentito dallo statuto. Stranamente, lo stop al club sarebbe po-tuto arrivare proprio da colui al quale i militari si erano rivolti per il patrocinio del nuovo club: il Duca di Wellington an-nunziò che non avrebbe patrocinato il Club né si sarebbe mai iscritto se le adesioni non fosse-ro state estese a membri della Royal Navy e dei Royal Marines. E fu così che l’Army Club divenne l’Army and Navy Club.Nel 1851 il club era diventato estremamente popolare, tanto da poter vantare 1600 membri e una lista d’at-tesa di 834 persone. Nel 1862 fu fondato il Naval and Military Club per accontentare i militari che ne erano rimasti fuori.Secondo l’Encyclopaedia Britannica, l’Army and Navy Club aveva nel 1875 gli introiti maggiori di tutti i club della capitale: ben £30.813, di cui £19.383 provenienti

solo dai biglietti di ingresso e dalle quote di adesio-ne. Quanto alla spesa, la cifra era quasi identica. Ben pochi club britannici potevano vantare un bilancio in nero.Succede talvolta che un epiteto proferito diventi un soprannome portato con fierezza. Fu proprio quel che accadde quando il Capitano William Higginson Duff, persona stravagante e dedita al gioco d’azzar-do, di ritorno da una sala da giochi malfamata, si fer-mò a mangiare al club. Era così affamato che il pasto servitogli gli sembrò troppo frugale. Furioso, abban-donò il ristorante del club apostrofando l’Army and Navy Club come un postaccio per straccioni morti

di fame (in inglese, “Rag and Famish”, proprio il nome con il quale era conosciuta la sala da giochi da cui proveniva). La direzione del club non la

prese a male, anzi: adottò il nomignolo “The Rag”, straccio, come soprannome, tuttora

in voga, tanto che il club viene così chia-mato proprio sull’opuscolo ufficiale di presentazione.  Paradossale che un club “straccione” abbia sede a Pall Mall, nel cuore di St James’s, quartiere elegan-te tra Buckingham Palace e Piccadilly

Circus che ospita altri club prestigiosi del-la capitale. Pur avendo cambiato sede un

paio di volte, The Rag è sempre rimasto in zona. La sede attuale, completamente ricostru-

ita negli anni ’60 del XX secolo, si estende per 7.200 metri quadrati, distribuiti su dieci piani, e comprende un parcheggio sotterraneo. I quattro pilastri dell’Army & Navy Club rimangono però sempre quelli della sua fondazione: Lealtà, Integrità, Onore e Fiducia. Pur continuando ad avere stretti legami con tutte le forze armate, ora l’Army & Navy Club accoglie qualsi-asi persona, “militare o no, donna o uomo, studente o pensionato; per quanto valori e interessi possano esse-re condivisi e rispettati, verso altri 175 anni di armonia e successo”. I membri sono attualmente circa 5.000.

The Army and NavyClub

Club Patron: Queen Elizabeth II

Club President: Prince Edward, Duke of Kent

Chief of the General Staff: General Sir Richard Dannatt

Data di Fondazione: 1837

Motto: Unitate fortior

Sede: 36-39 Pall Mall, London, SW1Y 5JN

Davide De Leodi Traduttore

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1918

La decisione la presero un pomeriggio di piena estate. Era ago-sto 1893. Si erano date appuntamento in un giardino pubblico per ascoltare un po’ di musica e incontrare altre amiche. Lì, nel Derbyshire, bisognava approfittare delle ultime giornate di te-pore e pallido sole. Ogni occasione era buona per stare all’aper-to. Quel giorno si ritrovarono quasi sole intorno alle loro tazze di tè. Poche chiacchiere, un passeggiata, tanta lettura. Forse an-che un po’ di noia per le giovani sorelle Annie e Isabel Cargill.Nel momento in cui stavano per tornare a casa si scambiaro-no uno sguardo d’intesa e si accomodarono su una panchina. Per iniziare un discorso che avevano dentro da tanto tempo. Da quando erano tornate dall’ultimo viaggio in Europa e Nuova Zelanda dove viveva una parte della famiglia. Fin da giovanissi-me le due ragazze erano state abituate a trascorrere lunghi pe-riodi lontano da casa. Due pioniere coraggiose.Lo sguardo che Isabel ed Annie si erano scambiate voleva dire <mettiamoci di nuovo in marcia>. Non più solo per andare e tornare. Ma per restare all’estero, trasferirsi, aprire un’impresa, iniziare un’attività tutta loro. Dal sapore squisitamente britanni-co. Come una sala da tè.Di questa “fuga” verso l’Italia, in particolare verso Roma, parla-rono le due ragazze quel pomeriggio d’estate un po’ vuoto e no-ioso. Annie non lasciava mai Isabel sola a casa dopo quello che le era successo. Isabel, infatti, era stata lasciata dal fidanzato alla vigilia delle nozze. Un vero fulmine a ciel sereno. Dopo oltre un anno di tenerezze e di amore. A poche ore dalla cerimonia lui era andato a casa di lei e, invece di abbracciarla e colmarla di passione, le aveva comunicato di aver cambiato idea. E che non sarebbe stata lei la donna della sua vita.La reazione di Isabel fu una sola: chiudersi in casa e non par-lare con nessuno. Solo Annie e poche amiche scelte riuscivano a superare questa. E solo ad Annie, era concesso di toccare il drammatico argomento.L’unico desiderio di Miss Cargill era quello di andar via, lasciare la cittadina, gli sguardi lungo le vie, le chiacchiere e la possibilità di incontrare lui ad una festa o ad un tè in casa di amici comuni. Ma dove andare? Da sola? Aspettò qualche mese, rimise a posto il suo cuore e ricominciò anche ad uscire. Come dopo una con-valescenza. Annie aveva più energie. Il suo cuore non era impe-gnato e si sentiva spinta ad imbarcarsi e scoprire nuove realtà.Scelsero Roma. Volevano tornare lì dove gli inglesi, vicino piaz-za di Spagna, avevano creato una colonia di intellettuali. Da anni, infatti, proprio gli inglesi erano diventati i protagonisti di quello che fu definito il “Grand Tour”, in giro per l’Europa alla ricerca di storia, scambi, visite, confronti tra culture. L’archeologia, sia quella greca che quella romana, attiravano i giovani scrittori e poeti. Ma anche fanciulle erudite che, prima del matrimonio, si facevano accompagnare da vecchie zie o signore considera-te affidabili dalla famiglia a scoprire le rovine dei Fori romani come i musei fiorentini o il Partenone di Atene. Dalla decisione di venir via dall’Inghilterra e l’acquisto dei biglietti per il viaggio passarono circa tre settimane. Le due sorelle comunicarono a casa il loro desiderio: venne detto sì ma non potevano partire da sole. Avevano bisogno di un’accompagnatrice più grande, una donna di esperienza. La scelta cadde su Anna Maria Babington, una colta signora di 40 anni. Che, con le signorine Cargill, aveva già fatto alcuni viaggi. Non aveva mai messo una fede al dito ma disponeva di un’eredità tale da permettersi di cambiare vita. Anna Maria apparteneva ad una numerosa famiglia cattolica originaria del Derbyshire e contava, tra i suoi antenati, quell’An-thony Babington che nel 1586 era stato impiccato, squartato e sventrato per aver cospirato contro Elisabetta I. Annie e Isabel Cargill provenivano dalla Nuova Zelanda dove erano nate. Il nonno si era trasferito dalla Scozia e lì aveva fondato la città di

BABINGTONS 2018

B abingtons non è solo una Tea Room. È un luogo esclusivo che racchiu-de una storia di coraggio e passio-ne, nato dalla forza di Anna Maria Babington e Isabel Cargill, due don-ne lungimiranti e intrepide che alla

fine dell’Ottocento decisero di aprire un’attività nella capi-tale di un paese che non era il loro. IL CLUB vi propone un estratto del primo capitolo di “Babingtons. I primi 125 anni. La storia del tè a Roma” raccontata da Carla Massi, pubbli-cato ed edito da Babingtons.

Dunedin. Anche la sua famiglia (sempre di imprenditori) an-noverava un antenato morto per mano del boia. Era Donald Cargill, convinto calvinista, che predicava da una parte all’altra della Scozia contro Carlo II da lui accusato pubblicamente di tradimento, tirannia e lussuria. Fu giustiziato nel 1861.L’equipaggio era formato. E ben collaudato. Isabel e Anna Maria, infatti, due o tre anni prima di decidere di andare a Roma per aprire una sala da tè avevano fatto un lungo tour per l’Europa. Una volta arrivate nella Capitale l’atmosfera della città le stregò. Si lasciarono dolcemente cullare, oltre che dal clima, anche dal rumore gioioso che pervadeva i vicoli e le piazze. Erano state accolte con entusiasmo nella comunità inglese e anche le nuove amicizie romane si erano dimostrate particolarmente affettuo-se nei loro confronti. Peccato, si dicevano le due amiche, non essere riuscite a trovare, in tutta la città, uno spazio pubblico dove bere una buona tazza di tè e mangiare qualche biscotto preparato a dovere. Solo nei salotti buoni delle famiglie agiate avevano visto servire un afternoon tea degno di questo nome. Una volta tornate in Inghilterra sia Isabel che Anna Maria erano convinte di riprendere tranquillamente la loro vita senza rim-pianti. Credevano che, di quel viaggio, avrebbero tenuto bei ri-cordi, disegni, note dettagliate. Ma il tempo e il destino decisero diversamente. Così, una volta accertato che nessuno aveva an-cora aperto a Roma una sala da tè very british iniziarono i sogni. Fino al giorno in cui Isabel e Annie decisero di fare i bagagli. Anna Maria non poteva certo mancare nell’impresa.Annie e Isabel, molto determinate, riuscirono ad avere l’ultimo sì dai familiari. Ci vollero pochi giorni per fare i bagagli. Il trio salì sulla nave senza guardarsi indietro.Annie dichiarò subito che non aveva progetti, ma solo voglia di girare per l’Italia, visitare le città, forse fermarsi per un corso. Isabel e Anna Maria la pensavano diversamente: volevano di-ventare imprenditrici in un Paese straniero. Isabel aveva solo un gruzzolo di cento sterline. Pochi risparmi. Mentre la signo-rina Babington si era portata dietro una piccola eredità. L’idea era quella di far nascere nel centro di Roma una sala da tè esat-tamente uguale a quelle della loro terra. Qualcosa di assoluta-mente nuovo per gli abitanti della città. A fine ottobre le accolse l’Italia. Carica di turisti per l’anno Santo indetto dal Papa Leone XIII. Prima cercarono due stanze dove sistemarsi, poi un locale dove ricreare la piccola Londra. Non fu difficile per le tre donne riuscire a individuare il posto e avere subito un contratto d’af-fitto.Il 5 dicembre 1893, l’apertura in via Due Macelli 66 a pochi passi da piazza di Spagna.

Per celebrare questa ricorrenza così importante, Chiara Bedini e Rory Bruce, pronipoti di Isabel Cargill - una delle due fondatrici della Tea Room - hanno dato vita a un ricco calendario di iniziative che si con-cluderà a dicembre 2018. Tutte le notizie su babingtons.com

Due Inglesi e un tè

Festeggia 125 anni di attività la storica sala da tè inglese aperta a Roma nel 1893 da due giovani donne britanniche arrivate in Italia per il Grand Tour.

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2120

“È un pallone eretico” disse l’inserviente, una volta che avevo portato a gonfiare il pallone da rugby ad un campo di calcio. “In fondo sono cugini” ho risposto. “Neanche un po’” mi ha detto. Aveva

ragione lui. Il calcio moderno e il rugby sono nati nello stesso posto, a pochi anni di distanza, ma la parentela finisce lì. Ed è stato, fin dall’inizio, un rapporto reciprocamente sprezzan-te. Non tanto e non solo perché agli uomini del calcio sem-bra impossibile che, nel rugby, la palla sia ovale e si giochi non portandola avanti, ma passandola indietro. All’origine, è una questione di classe. Nel crogiuolo della moderna cultura po-polare, che è stata l’Inghilterra della rivoluzione industriale, i due sport non si incontravano mai: sui terreni di periferia, a ridosso delle fabbriche, il calcio; sui prati ben curati di scuole private e collegi il rugby. Succede, infatti, che un gioco dove si privilegia l’eleganza, dove le movenze, a volte, richiamano un balletto, abbia una matrice popolare. E l’altro, apparentemen-te rozzo, basato sullo scontro fisico, dove l’ispirazione è quel-la della lotta, fosse terreno riservato a nobiltà e alta borghesia. Wodehouse non lo dice mai, ma Bertie Wooster - quello che aveva Jeeves come maggiordomo - da ragazzo, giocava a rugby, non a calcio. Come il principe Harry, del resto.Il motivo c’è ed è nella natura del rugby. Più che in tv, una partita si vede bene allo stadio, tutto il campo davanti. La squadra che attacca porta avanti la palla passandola lateralmente e la difesa si muove a specchio, uomo contro uomo, scivolando insieme alla palla, come i denti di due pettini, uno di fronte all’altro. La bravura degli attaccanti è di anticipare o ritardare il passaggio, così che il compagno possa infilarsi fra i denti del pettine (negli “intervalli” dicono gli esperti). Sono le azioni che esaltano gli spettatori. Ma, per chi gioca, le azioni esaltanti sono quelle che non si vedono: la conquista della palla, in mezzo o sotto i corpi che si ammucchiano, dopo essersi scontrati. Messo a terra da

Rugby

un placcaggio, il giocatore deve mollare la palla. L’avversario la può prendere se riesce a metterci le mani sopra, stando in equilibrio sui propri piedi, mentre i giocatori dell’altra squa-dra gli si scagliano contro, cercando di catapultarlo indietro. Se uno segna una meta, i compagni si congratulano. Se conquista la palla, applaudono.Coraggio, grinta, imparare che solo giocando con gli altri e per gli altri si può vincere: erano le qualità che i creatori dell’Impe-ro volevano dalla loro classe dirigente e, per questo, il rugby – e non il calcio - è nel curriculum scolastico inglese. Negli altri Paesi britannici, questo è avvenuto assai meno: in Galles, ad esempio, il rugby era anzitutto lo sport dei minatori. Una delle cose più divertenti, quando il rugby era ancora roba da dilet-tanti, era scorrere le formazioni. Accanto al nome, i giornali mettevano la professione: pubblicitario, agente di Borsa, avvo-cato, ufficiale per gli inglesi; minatore, agricoltore, camionista in Galles. Forse anche per questo, le rivalità fra le quattro na-zioni britanniche non sono solo rivalità di campanile. Prima di un incontro, il capitano dei gallesi, il leggendario Phil Bennett fece un discorso rimasto famoso: “Quei bastardi di inglesi han-no preso il nostro carbone, la nostra acqua, il nostro acciaio. Siamo stati sfruttati, umiliati, controllati e puniti dagli ingle-si. E oggi giochiamo contro di loro”. Andate a Murrayfield, a Edimburgo, per uno Scozia-Inghilterra del torneo 6 nazioni che, ogni anno, a fine inverno, mette di fronte le migliori squa-dre europee. “Flowers of Scotland”, l’inno scozzese sostenuto dalle cornamuse, racconta di una (rara) occasione, subito dopo i tempi di Braveheart, in cui gli scozzesi massacrarono un eser-cito inglese. Poi le cornamuse tacciono e l’inno viene cantato – senza musica – da cinquantamila persone, giocatori in testa. Di tutta questa animosità, però, sugli spalti non c’è traccia. Il pubblico del rugby è civile più di quello del tennis, non esisto-no ultras, gli spettatori sono tranquillamente mischiati. E que-sto manifesto di cosa è, di cosa deve essere lo sport, lo esprimo-no anche i giocatori: lo scontro può essere brutale ma è (quasi sempre) anche leale. E, comunque, “Flowers of Scotland” o no, tutto finisce con il fischio dell’arbitro. Una ventina di anni fa, mentre era in corso il banchetto post gara, due giocatori – John Jeffreys e Dean Richards – che fino a poco prima, sul campo, si erano aggrovigliati sull’erba nel tentativo di strapparsi la palla con i gomiti ben avanti - affratellati dallo spirito d’avventura e, probabilmente, anche da molta birra, si intrufolarono negli uf-fici, presero in prestito la coppa destinata alla squadra vincitrice e se la portarono in giro per i pub di Edimburgo per riempirla di birra e scolarsela in compagnia. Perché nello sport – e forse questo è il messaggio più importante del rugby – si può ridere. Insieme.

Maurizio RiccidiGiornalista de ‘La Repubblica’

Coraggio, grinta, imparare che solo giocando con gli altri e per gli altri si può vincere: erano le qualità che i creatori dell’Impero volevano dalla loro classe dirigente e, per questo, il rugby – e non il calcio - è nel curriculum scolastico inglese.

La magia del

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Ci sarà una ragione se il Principe Carlo è venuto per venti volte in visita ufficiale in Italia e pro-babilmente altrettante, se non di più, vi è stato in visita privata. La Royal Family decide sem-pre con il Governo quali saranno gli impegni all’estero dei suoi membri, ma non c’è dubbio

che quando l’indice scorre la pagina degli impegni e si ferma sulla parola Italy, il pensiero vada subito al Principe del Galles. Era stata sua nonna Elizabetta a parlargli per prima dell’Italia. La Regina Madre c’era andata diverse volte, amava quel paese pieno di sole, di gente allegra, di buon cibo e di belle cose da vedere. Gli aveva raccontato dell’arte e dell’architettura, delle meraviglie del Rinascimento, dell’aria tersa delle sere d’estate e delle campagne toscane, dove vivevano e vivono alcuni amici, inglesi e italiani. Il Principe Carlo venne ufficialmente in Italia la prima volta per una fugace visita di due giorni a Trieste, ma la prima vera visita fu quella della primavera del 1985. Il Principe del Galles annotava sul suo diario, e probabilmente lo fa ancora, le impressioni della giornata: “Ci hanno servito gli spaghetti, cosa che credo sia sleale quando cerchi di essere bene educa-to e di comportarti nel modo migliore”. Nella Prefettura di Milano, dov’era ospitato, mancava l’acqua calda, ma l’eccitazione per la Turandot di Puccini alla Scala era così forte che non se ne lamentò: era una di quelle cose strane e buffe che capitano in Italia, e che sono un divertente argomento di conversazione a cena quando si ritorna a Londra.

Il Principe Carlo e la Duchessa Camilla in Italia

Vittorio Sabadin diGià Vice Direttore de ‘La Stampa’

Firenze lo aveva colpito. “Il giorno comincia chiaro e blu e mentre ancora stavo a letto potevo scorgere le magiche colline della Toscana, di cui avevo sentito tanto parlare. Attraverso la finestra aperta sem-bravano un pallido acquarello”. A San Miniato si commosse nella Cappella del Crocefisso, “di tale perfezione che è difficile descrive-re, decorata con le più squisite terrecotte bianche e blu di Luca della Robbia”. Nel poco tempo libero, saliva sulla torre della villa di Sir Harold Acton, La Pietra, a dipingere le colline, per portarne l’emozione e il ricordo con sé. Da allora, il Principe ha dipinto decine di acquarelli del paesag-gio toscano, in innumerevoli visite. Non lo dirà mai, ma for-se è il luogo dove sceglierebbe di stare, se non fosse l’erede al trono britannico e gli venisse concesso il lusso di decidere la propria vita. Sarà anche per tutto questo che nell’ultima visita ufficiale, quella dell’aprile 2017, Carlo è apparso sempre più a proprio agio nel clima italiano. Certo, i fotografi sul ponte di Santa Trinita a Firenze erano come sempre troppo insistenti nel riprendere lui e la duchessa di Cornovaglia Camilla sull’im-mancabile sfondo del Ponte Vecchio, ma i fotografi italiani sono così: aspettano sempre il colpo di vento che scompiglia i capelli, uno sternuto improvviso, un gabbiano che passa, qualunque cosa che renda un po’ straniti volti già ripresi milioni di volte. E poi c’era una novità: la mania nazionale per i selfie da scattare con i personaggi più prestigiosi e da postare subito sui social network, un calvario al quale il Principe del Galles, più allenato, è riuscito a sottrarsi meglio di sua moglie Camilla. Le visite ufficiali nelle città italiane scorrono sempre attraverso gli stessi binari: l’incontro con le autorità e con il sindaco dalla fascia tricolore, la visita agli opifici artigianali, l’assaggio del cibo e del vino locali, l’inaugurazione di qualcosa. Questa visita aveva però aspetti particolari. Il viaggio del Principe e della Duchessa in Romania, Italia e Austria era stato programmato subito dopo l’attivazione dell’articolo 50 sulla Brexit per rinsaldare i rapporti con questi Paesi e ribadire, come ripete instancabilmente l’Am-basciatore in Italia Jill Morris, che la Gran Bretagna esce dall’U-nione, non dall’Europa. Ma per Carlo il ritorno a Firenze è stato questa volta anche carico di altri significati, l’occasione per un discorso al quale probabilmente teneva molto. Il conferimento del premio Uomo del Rinascimento 2017 da parte della Fondazione Strozzi poteva sembrare uno dei tanti riconoscimenti che i Royals ricevono nelle loro visite all’estero. Ma Carlo sa perfettamente che cosa è stata per l’Italia quell’e-splosione di arte e cultura che fra il XIV e il XVI secolo elaborò le idee dell’umanesimo sviluppando un nuovo modo di conce-pire il mondo e la vita delle persone, e ha detto di ritenere una “generosa definizione” quella di Uomo del Rinascimento che gli era stata attribuita. Ma di certo ha pensato agli anni nei quali le sue idee sulla difesa dell’ambiente, sull’architettura, sulla neces-sità di vivere un nuovo rapporto con la Natura erano ritenute

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retrograde e addirittura contrarie alla scienza e al progresso. Il tempo gli ha dato ragione, come è accaduto a molti altri uo-mini del Rinascimento. “Oggi gli scienziati – ha ricordato nel di-scorso nel Salone dei Cinquecento – ci dicono di guardare alla Natura come nostra guida e maestra e di fare ogni cosa in modo sostenibile”. Il riconoscimento che gli è stato attribuito è dunque appropria-to “se rivolto a qualcuno profondamente interessato in cosa l’arte e la scienza, la letteratura e la filosofia ci possono dire sulla condizione umana, su come siamo incastonati dentro il sistema vivo della Natura”. Forse chissà, in un futuro non troppo lontano potremo “vivere un secondo Rinascimento che riallinei la percezione umana alle leggi della Natura in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”.Parole che Carlin Petrini, uno degli amici italiani del Principe del Galles, ha salutato con un applauso e una proposta. Il fon-datore di Slow Food, e difensore del cibo naturale e sostenibile, ha invitato Carlo ad appoggiare l’idea di una Università diffusa, che attraverso Internet metta in contatto contadini e professio-nisti della ristorazione e della quale l’erede al trono dovrebbe diventare uno dei docenti. Se ne riparlerà a Highgrove, davanti a un piatto dei prodotti biologici della tenuta del Principe, che Petrini conosce molto bene. Come sempre avviene nelle visite ufficiali, la coppia reale si è spesso divisa per meglio fare fronte ai diversi appuntamenti. La duchessa di Cornovaglia è andata a Napoli, che già conosce-va per avere trascorso qualche vacanza a Ischia. Ha visitato la “Gloriette”, una villa sequestrata alla mafia e diventata un cen-tro sociale, è stata alle rovine di Ercolano e poi da Marinella, per acquistare per il marito qualche cravatta che di certo non avrà nulla da invidiare a quelle di Jermyn Street, anzi. A Firenze ha visitato gli Uffizi e poi la chiesa anglicana di St Mark in via Maggio, dove una lapide ricorda la sua bisnonna Alice Keppel, che ebbe una lunga relazione con Edoardo VII e si ritirò poi con il marito George a Firenze, nella villa dell’Ombrellino di Bellosguardo. Sono entrambi sepolti al cimitero Agli Allori. Nel frattempo Carlo è stato a Vicenza, per rendere omaggio alle vit-time della Prima guerra mondiale e per ricordare il centenario

del dispiegamento delle truppe britanniche sul fronte austria-co, in appoggio alle forze italiane. Un atto simbolico, che voleva forse sottolineare la possibilità di una più forte cooperazione militare negli interventi umanitari e di peacekeeping, sempre più necessari. Ma la visita maggiormente carica di emozioni, per il Principe del Galles è stata sicuramente quella ad Amatrice, il comune la-ziale annientato da un terremoto il 24 agosto 2016. Percorrendo la zona rossa del centro storico e camminando per quello che era stato corso Umberto I, Carlo è stato colpito dall’entità della devastazione. Ha stretto mani, ha parlato con la gente, ha detto di sperare di non essere di intralcio. E ha fatto la domanda che sempre fa quando visita comunità colpite da un disastro, o biso-gnose di qualcosa: “Ditemi, come posso aiutarvi?” I sopravvis-suti di Amatrice hanno pensato che non era una domanda reto-rica, che qualcosa Carlo l’avrebbe fatto davvero. Chi conosce il Principe sa che dietro a questa domanda, che lui rivolge sempre alle comunità che incontra in Gran Bretagna, si cela una delle caratteristiche più significative della sua personalità: il desiderio di essere utile. Proprio per fare qualcosa per qualcuno ha scritto molte lettere a membri del Parlamento e a ministri, esponen-do i problemi così come gli erano stati illustrati dalle persone che incontrava e suggerendo soluzioni nel rispetto dei reciproci ruoli. Anche per questo è stato attaccato e accusato di voler in-terferire con l’attività del Governo e del Parlamento, accuse che sono del tutto cadute quando i contenuti di quelli che vennero chiamati i “Black spider memo” sono stati resi pubblici. Gli incontri con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e con il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni sono stati più formali e non poteva essere diversamente. Accolto a Roma dall’Ambasciatore Jill Morris e dall’Ambasciatore italiano a Londra Pasquale Terracciano, il Principe del Galles ha discusso con le massime autorità politiche italiane dei temi centrali della sua visita: la necessità di mantenere forti legami con l’Italia dopo la Brexit, lo sforzo comune contro il traffico di esseri umani, la cooperazione militare. Con Papa Francesco, che ricorda certa-

mente le prese di posizione del Principe contro la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, c’è stata un’ottima intesa. Di questo viaggio, gli italiani di Firenze, di Napoli e di Amatrice ricorderanno la disponibilità e la simpatia della coppia reale, la semplicità affabile della duchessa di Cornovaglia, l’abitudine del Principe del Galles di andare dritto al punto e la sua capacità di parlare con competenza dei problemi dei contadini e degli alle-vatori, ai quali si è sempre sentito molto legato. Carlo e Camilla ricorderanno, oltre agli incontri ufficiali, il calore della folla del mercato di Sant’Ambrogio, l’assaggio di pecorino stagionato, il cappuccino al bar, il prosciutto comprato (pagandolo) in una sa-lumeria. E speriamo che dimentichino invece quel cartoncino di invito alla cena di gala a Firenze, che annunciava la presenza della ‘Duchesse of Cornwell’, una sciatteria imperdonabile. Ma le coppie davvero felici sono quelle che ridono insieme, e forse Carlo e Camilla, che di stranezze devono averne viste dav-vero tante, avranno alla fine sorriso anche di questo.

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“Marinella da circa cento anni significa la camicia, la cravat-ta, il papillon, il foulard, la sciarpa, il pullover, il berretto, le scarpe che un gentiluomo deve o dovrebbe indossare.

Non c’è un centimetro nel negozio di Marinella che non sia inglese, compresi gli stipiti. Marinella è un punto di riferi-mento, di arrivo e di partenza della storia del costume non soltanto napoletana”. Il grande scrittore Domenico Rea ha raccontato con straordinaria efficacia la storia di una pic-cola bottega di 20 metri quadrati, “quel piccolo angolo di Inghilterra nel cuore di Napoli”, che il giorno dell’inaugu-razione – il 26 giugno 1914 – aveva scritto, senza poterlo ancora sapere, l’inizio di una delle più gloriose storie della grande sartoria napoletana. Nasceva la filosofia Marinella, tramandatasi di padre in figlio, che ha percorso più di 100 anni di storia. Le cravatte vengono realizzate, rigorosamen-te a mano, nel laboratorio napoletano ubicato sulla Riviera di Chiaia a pochi passi dal negozio. Le sarte ogni giorno ne realizzano 150, seguendo specifici passaggi di lavorazio-ne. Oggi l’azienda, capeggiata da Maurizio Marinella e suo figlio Alessandro, vanta più punti vendita diretti a Roma, Milano, Londra, Tokyo e corner shop presso alcuni dei più importanti departement store del mondo. Il Club ha visitato l’azienda e incontrato Maurizio Marinella.Napoli, pieno centro, sono le 9 del mattino. Il negozio di Marinella è aperto dalle 6.30. Un orario insolito per una boutique di accessori?“L’abitudine mattutina è un’antica storia. Mio nonno Eugenio apriva molto presto perché di fronte al nostro ne-gozio c’era – come c’è ancora oggi – la Villa Comunale, a quei tempi chiamata “Ville Royal”, dove la nobiltà napoletana al mattino presto veniva a fare una pas-seggiata a cavallo. All’entrata della villa, una specie di picchetto dei carabinieri controllava il grado di nobiltà delle persone che andavano in villa, per-ché solo i nobili potevano andare a passeggiare a cavallo. Tra i grandi personaggi dell’epoca spiccava Marcello Rilia, un gentiluomo molto elegante della Napoli di quei tempi. Veniva la mattina da noi a fare lezione di nodo della cravatta e di papillon. Matilde Selao, che all’epoca curava una rubrica sul Mattino, paragonò il nostro negozio ad una farmacia di paese. Oggi non c’è più questa peculiarità di un

Da più di un secolo, un piccolo angolo di Inghilterra nel cuore di Napoli

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tempo. La farmacia era un punto di incontro dove si riu-nivano il maresciallo dei carabinieri, il notaio, e appunto il farmacista, che stabilivano un po’ le sorti della comunità. Noi continuiamo dalla mattina presto fino a sera a vivere ancora questa straordinaria atmosfera di “farmacia di pae-se”, dove regna un senso di aggregazione con la città intera”. La passione dei Marinella per il Regno Unito?“È davvero un grande amore. Siamo stati la prima azienda italiana a importare marchi inglesi. Quando nascemmo nel 1914 avevamo solamente articoli provenienti dall’Inghil-terra, fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando lo Stato italiano introdusse delle sanzioni che ne vietavano l’im-portazione. Pensi che mio nonno, proprio per non tradire questo grande legame con il mondo britannico, rimase tre anni con il negozio completamente vuoto. Apriva la matti-na presto, si sedeva nella sua bottega, la gente entrava e non trovava merce. Era una incredibile testimonianza di fedeltà al nostro amore. Siamo nati e cresciuti con questa passio-ne, un ponte immaginario che ha legato dall’inizio Napoli e Londra, forse le due città che al mondo rappresentano i punti di riferimento legati all’abbigliamento maschile. Il nostro legame con il mondo anglosassone continua.

Le pregiate sete, sin dalla fondazione, sono stampate a mano in Inghilterra in esclusiva per noi. Vicino Manchester c’è un piccolo paese chiamato Maxfield, paragonabile alla nostra Como. C’è il Museo della seta dove viene mostra-to un filmato che racconta tutta la filiera produttiva, che termina con uno speciale ringraziamento a Marinella, che sostiene il 70% della produzione di tutta la seta nel Paese. Abbiamo iniziato a comprare delle quote di queste stam-perie per sostenere, alimentare e non far morire questa antica tradizione” Sappiamo che quando ha un momento libero scappa a Londra…“È vero. Ho una casa lì, molto vicina allo stadio del Chelsea. Ogni volta che ci torno vivo la stessa emozione. Londra ha questo sapore unico che ti trasmette la storia. Sono inna-morato del bello e Londra, da questo punto di vista, re-sta incantevole. Adoro tutte le “inglesità”… sono pazzo di James Bond, il tipico gentleman inglese, sempre elegante. Pensi che sono membro di un’organizzazione di pazzi sca-tenati con cui ogni tanto ci incontriamo e parliamo di 007. Abbiamo poi avuto il piacere di produrre le cravatte per il film “Skyfall”… e questo è stato il massimo”.

Qual è il suo luogo magico di Londra?“St. Katharine Docks. Lì ho vissuto una mia piccola sto-ria d’amore con una ragazza inglese. È un posto affasci-nante: sei sotto la torre di Londra, c’è il fiume, le barche, dei buoni ristoranti…un posto molto romantico. Londra è sempre in continua evoluzione, ci ritorni dopo due anni e trovi delle atmosfere completamente diverse, ma l’emo-zione è sempre la stessa. Ci ritorno ogni volta con grande piacere. Delle volte ho quasi delle crisi di astinenza, ho bisogno di ritornarci! Abbiamo fondato la “E. Marinella UK”, abbiamo in città un elegante negozio e per noi è stata un’emozione grande”. Il sogno nel cassetto?“Realizzare le cravatte per il matrimonio del Principe Harry. Mi darebbe una grande gioia e sarebbe un grande onore”.Lo scorso anno la Duchessa di Cornovaglia ha visitato l’azienda?“Sì, il 1° aprile dello scorso anno. Sua Altezza Reale ha vo-luto vivere l’azienda visitando i laboratori. Ha scelto delle cravatte con dei disegni particolari del 1948, anno di na-scita del Principe Carlo. Ha toccato con mano il nostro sentimento nei confronti del suo Paese e ha ricevuto una grandissima testimonianza d’affetto da parte della gente. Napoli in questo senso sa essere unica. Ricordo che il pez-zo di strada che avrebbe dovuto percorrere, cinque giorni prima dell’arrivo della Duchessa, non era neanche asfal-tata. Qualche giorno dopo ci svegliammo e la strada era perfetta. Napoli è scombinata, è piena di contraddizioni. Un po’ di anni fa un mio amico ha scritto un libro dal titolo “Dove finisce la logica, inizia Napoli”. Nei momen-ti importanti c’è sempre però una magia che fa sì che le cose vadano bene”.

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Conversazione con Julia Race

Julia Race è la Direttrice del British Institute of Florence, il primo degli istituti culturali britan-nici a operare al di fuori dal Regno Unito. Oggi ospita 2000 studenti d’inglese, italiano e sto-ria dell’arte. Il British venne fondato da poeti, giornalisti, professori universitari, intellettuali,

inglesi e italiani, che frequentavano i salotti della Firenze di primo Novecento e intendevano opporsi alla propa-ganda anti-britannica. Il Club ha conversato con Julia Race, che dirige il cele-bre istituto, i cui patron sono Sua Altezza Reale Carlo il Principe del Galles e la signora Wanda Miletti Ferragamo.Cosa significa dirigere un Istituto di tale importanza storica?“Mi sento erede di quanto realizzato, in tempo di guer-ra, per creare un punto di incontro tra italiani e inglesi in un periodo molto difficile della storia europea. Alcuni fiorentini pensano che sia stato un dono degli inglesi a Firenze, invece fin dall’inizio è stato un gesto congiunto. Pensi che durante la Seconda Guerra Mondiale, quando gli inglesi dovettero abbandonare l’Italia, fu proprio una bibliotecaria italiana, Giulietta Fermi, a salvare tutti i libri, nascondendoli in soffitta. Temeva l’arrivo dei tedeschi e

Quando, circa trent’anni fa, mi fu chiesto

di diventare Patrono del British Institute of

Florence, non mi ci volle molto a dire “sì!”.

Nel corso dei cento anni della sua esistenza,

il British Institute ha svolto un ruolo essenziale nel

promuovere la comprensione tra il

popolo del Regno Unito e il popolo italiano.

Nel farlo, ha contribuito a rafforzare e approfondire

le relazioni tra i nostri due Stati.

bisognava salvaguardare il nostro patrimonio. Insomma, mi sento ogni giorno di far parte di questa storia stra-ordinaria e sento molto vicini questi miei predecessori, figure passate alla storia. Come si dice nella mia lingua - “standing on the shoulders of giants” - credo davvero che tutto ciò che riusciamo a realizzare oggi qui sia possibile grazie a coloro che vi sono stati prima di noi”. Quale è stato il momento davvero importante in questi anni di direzione? “Aver avuto la fortuna di essere Direttrice in occasione del centesimo anniversario di esistenza dell’Istituto è stato bellissimo. Se dovessi dirle però il momento che ho trovato più emozionante, è stato quello dell’even-to a Palazzo Vecchio con i ragazzi che avevano supera-to i nostri corsi accelerati di preparazione per gli esami “Cambridge Assessment”, che ognuno svolge poi nelle scuole pubbliche. Sono stati ai banchi dei consiglieri co-munali, hanno acceso il microfono e parlato in inglese dell’importanza di studiare la lingua. Si preparano per entrare nel mondo del lavoro e per essere cittadini del mondo. I risultati degli esami di Cambridge dimostra-no che gli studenti di Firenze vanno sempre meglio ed escono da scuola già con un ottimo livello di inglese. Il partenariato con Firenze è soprattutto quello con i suoi giovani, che chiedono al British Institute di aiutarli a prepararsi per il loro futuro. Per me è la cosa più impor-tante e i traguardi di questi studenti la cosa che più mi emoziona”. Cosa rappresenta Firenze per un’inglese come lei?“Ho riflettuto molto su questo quando è venuto a Firenze il nostro Primo Ministro, nello scorso mese di settembre, per tenere una conferenza molto importante sulle rela-zioni tra il Regno Unito ed il resto d’Europa, ormai co-

Un anno e un secolo per il

British Institute of Florence.

Dal discorso di Sua Altezza Reale, il Principe del Galles, durante la sua visita al British Institute of Florence.

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nosciuta nel Regno Unito come “The Florence Speech”. Già il fatto che abbiamo un nome inglese per la città, Florence, è un’indicazione che il nostro Paese ha una certa familiarità con Firenze che ha portato alla necessi-tà di tradurne il nome. Si tratta di una relazione storica: abbiamo nella nostra sede una bellissima bacheca con tutti i nomi dei consoli che sono stati a Firenze dalla fine del ‘600. Ci si sente di far parte di una relazione profon-da, molto lunga, particolare e storica. Ora non vi sono tantissimi inglesi che vivono a Firenze come un tempo, ci sentiamo davvero “fiorentini”. Il nostro vicepresiden-te, Dott. Diego di San Giuliano, primo vicepresidente italiano nella nostra storia e membro del Consiglio di Amministrazione della società Ferragamo S.p.A. e nipote di Salvatore Ferragamo, molto spesso dice che i fiorenti-ni sono riconoscenti agli inglesi per l’aiuto dato nel salva-guardare il loro patrimonio culturale. Vi è stato infatti un importante ruolo degli inglesi nella conservazione degli edifici di Firenze”.Se dovesse lasciare Firenze, cambiare la sua vita per proseguire il suo percorso da qualche altra parte, quale sarebbe l’ultimo luogo che rivedrebbe prima di lasciare la città? “L’anno scorso ho trascorso una giornata da sogno. Ho preso una vespa e mi sono diretta verso sud, fino a Monteriggioni, attraversando una bella parte della Toscana. Ma probabilmente non è la risposta alla sua domanda, in quanto il posto è fuori Firenze. Prenderei comunque la vespa e girerei senza meta…è meraviglio-so vivere circondati da tanta bellezza. Vi è un’incredibi-le concentrazione di tesori a Firenze. Quando vivevo al Cairo spesso oltrepassavo le piramidi quando mi recavo

a lavoro ed anche a Città del Capo vivevo nella bellezza, ma Firenze è un’altra cosa proprio per questa concentra-zione. Il British è sul Lungarno e ogni sera, quando esco, spesso al tramonto, rimango impressionata dalla vista mozzafiato: i palazzi sull’Arno, la luce, il lato del Duomo che è la prima cosa che vedo uscendo dal nostro porto-ne. Sono questi momenti, in vespa o a piedi, che per me rappresentano lo splendore di Firenze”.Un anno fa la visita del Principe del Galles. Quali ricordi?“Il Principe è venuto in Italia per la terza volta ed è vo-luto venire a Firenze per il nostro centesimo anniversa-rio. Ha una relazione molto stretta con la città, così come tutta la Famiglia Reale e la famiglia della Duchessa di Cornovaglia, dei cui antenati abbiamo dei ritratti in bi-blioteca. La cosa più importante è stata il poter mostrare loro una giornata normale nella vita del British Institute, nel senso che loro hanno assistito a una lezione sulla storia dell’arte. Quel giorno si parlava delle alluvioni di Firenze, dell’impatto sulle opere d’arte e hanno avuto l’occasione di sfogliare i nostri libri cosiddetti “alluviona-ti.” Poi il Principe ha partecipato a un seminario sull’im-portanza dei gesti nella lingua italiana. La Duchessa, invece, ha partecipato ad uno dei nostri story-time. Ha fatto letture con i bambini, che le hanno poi chiesto di disegnare un cavallo, molto bello, lo abbiamo incorni-ciato e appeso. Entrambi hanno anche avuto l’occasione di incontrare i direttori dei grandi musei e gli insegnanti di inglese delle scuole di Firenze, i nostri volontari e le persone con cui lavoriamo ogni giorno. Hanno insomma potuto apprezzare il nostro lavoro e mi sono sembrati come fossero a casa, molto rilassati e sorridenti. Credo sia stato un momento di felicità per loro”.

Il Principe Carlo del Galles e la Duchessa Camilla di Cornovaglia nel loro viaggio in Italia hanno voluto dedicare un incontro al vino e all’olio italiani, affidando alla Fondazione Italiana Sommelier la

selezione delle etichette e l’organizzazione. Ad un anno da quella bellissima serata alcune delle aziende

partecipanti scrivono attraverso ‘Il Club’ al Principe del Galles.

A Firenze il Grande Vino

e l’Olio di Toscana

Antinori La famiglia Antinori è dedita alla produzione di vino da oltre sei secoli, da quando Giovanni di Piero Antinori entrò nella Corporazione dei Vinai di Firenze nel 1385. Nel corso di tutta la propria lunga storia, che si estende su ventisei generazioni, la famiglia ha sempre gestito direttamente l’azienda, facendo scelte innovative, talvolta coraggiose, sempre con un ri-spetto irrinunciabile per la tradizione e la terra. Oggi l’azienda è gestita da Albiera Antinori con il sostegno delle sue sorelle, Allegra e Alessia. Il Marchese Piero ne è presidente onorario. Tradizione, passione e istinto hanno reso Marchesi Antinori uno dei princi-pali produttori italiani di vini di qualità.

“È stato un grande onore per me aver avuto la possibilità di in-contrare i Reali d’Inghilterra in occasione della loro visita a Firenze,

aver avuto il modo di presentare e far loro assaggiare la nostra etichetta più rappresentativa, Tignanello, che produciamo dal 1971. Sono rima-

sta piacevolmente colpita nel vedere sia Carlo che Camilla, entrambi degli ottimi intenditori e conoscitori di vino, così interessati alle varie etichette presentate da noi produttori e alle storie che ciascuno dei presenti aveva da raccontare. Sono altresì rimasta piacevolmente colpita dalla cordialità di Camilla con cui ho avuto modo di conversare a lungo e con cui spero, un giorno, di poter continuare la nostra piacevolissima conversazione. Nell’attesa di rincontrarci porto ancora con me il piacevole ricordo di una giornata che non dimenticherò facilmente.”

Allegra Antinori

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Fèlsina Le attività di Fèlsina, azienda autenticamente agricola, sono incentrate sul vino e l’olio d’oliva. Dal 2002 hanno intrapreso il progetto “Olio secondo Veronelli”, con il quale si cerca di abbinare l’ulivo alla propria terra, l’olio d’oliva al suo uliveto, seguendo la stessa filosofia usata per il vino. Le tre aree di produzione Fèlsina, Pagliaresi e Boschi, hanno territo-ri distinti per ognuna delle quattro varietà di olive, Pendolino, Leccino, Moraiolo e Raggiolo. Il risultato è un olio unico, che riflette le caratteristiche di ogni varietà di olive, assicurando la tracciabilità in tutta la catena di produzione, dalla coltivazione alla lavorazione, accompagnata da prove e assaggi costanti.

“Un grande onore per la Fattoria di Fèlsina presentare ai Reali d’Inghilterra anche l’olio extra vergine di oliva. Due varietà, Raggiolo

e Pendolino, di tradizione toscana da loro assaggiate con vivo interesse e competenza. L’Italia dell’Olio sta vivendo un momento di particola-

re effervescenza. Le oltre cinquecento “cultivar” disponibili rappresentano una risorsa straordinaria, unica al mondo, ora che le competenze agro-nomiche e le tecniche estrattive rendono possibili livelli qualitativi mai raggiunti in passato. Siamo per questo grati al Principe Carlo e alla Sua consorte Camilla. Li abbiamo idealmente immaginati in cammino lungo la Via Francigena che anticamente i pellegrini inglesi percorrevano da Canterbury a Roma sulla strada per Gerusalemme. La loro sosta fiesolana è un segno di amore per una terra che sappiamo tengono viva nel Loro cuore. L’augurio è di poterLi rivedere nelle nostre Fattorie.”

Giuseppe Mazzocolin Fattoria di Fèlsina

Petra Petra è una voce ascoltata, divenuta visione, progetto e promessa. Una realizzazione della filosofia promossa da Vittorio Moretti e seguita da sua figlia Francesca. Ha osser-vato, analizzato e studiato i terreni insieme al Professor Attilio Scienza, un’autorità della zonizzazione, conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sull’adeguatezza alla viticultura dei terre-ni. Il vino doveva essere in armonia con le voci (e presenze) anti-che e misteriose; con i poteri della terra, che non perdonano. E doveva essere armonioso, con le passioni di Vittorio e Francesca, che uniscono la terra e il cielo, un vino espressivo che ha suscitato emozione e lasciato tracce magiche nelle nostre memorie.

“Ho apprezzato molto del nostro incontro a Firenze l’attenzione che il Principe Carlo ha dedicato alla storia di ognuno di noi produt-

tori. Dalle sue domande, dal suo stesso sguardo, si percepiva un interesse autentico. L’interesse di chi conosce i mestieri legati alla terra. Di chi

capisce il sacrificio, le soddisfazioni e la passione di noi vignaioli. Di chi ne intuisce l’impegno e la necessità di una visione di lungo periodo. È raro incontrare persone così negli ambienti di Governo. Ci siamo stretti la mano alla fine del nostro incontro e mi ha colpito riconoscere nella sua mano i segni e la forza di una mano che lavora la terra. E questo ha consolidato l’impressione ricevuta nel nostro colloquio. Allora è proprio vero: il Principe Carlo è un uomo della terra.”

Vittorio Moretti Presidente gruppo Terra Moretti, Presidente azienda Petra

Il Guercio Il produttore vinicolo Sean O’Callaghan arrivò nel Chianti all’età di ventisei anni. Insieme a John Dunkley, ora scomparso, era uno dei pochissimi produttori a por-tare il Chianti Classico a livelli eccelsi negli anni settanta e ottanta. Lo scorso anno O’Callaghan ha costituito la propria azienda vinicola. “Sono nato cieco da un occhio. Per questo, in tutta la mia vita ho avuto una prospettiva differente sulle cose, talvolta un vantaggio, talvolta no. Un mio buon amico mi chiama il guercio, appellativo della Maremma toscana che vuol dire il furfante con un occhio solo.” I vini sono insoliti, dei Sangiovese artigianali, prodotti da bellissimi vigneti biologici/biodinamici, naturali, senza lievito aggiunto, con lunga macerazione, qualche grappolo intero, e quindi imbottigliati con meno zolfo possibile, dopo essere stati invecchiati in quercia e cemento.

“È stato un immenso onore poter presentare il nostro nuovo progetto a Sua Altezza Reale, circondato della crema della crema dei produttori

vinicoli toscani. Sono stato colpito dal suo desiderio di saperne di più su come gestiamo i vigneti e dal suo entusiasmo per i vini. Ho apprezzato il

fatto che si fosse informato sulla storia de “IL GUERCIO”, chiedendomi col sorriso sulle labbra se fossi io “il furfante con un occhio solo”! La mia rispo-sta è stata: “Sì, Sua Altezza”. Non vediamo l’ora di salutarlo nuovamente. Grazie ancora.”

Sean O’CallaghanProprietario ed Enologo de Il Guercio

Fondazione Italiana SommelierDopo aver ottenuto una laurea in architettura, svol-ge la professione di giornalista dal 1994. Attualmente è direttore della rivista Bibenda e della Guida Bibenda ai migliori vini e ristoranti in Italia. Entrambe le riviste non hanno inserzioni pubblicitarie. Ricci è un esperto di vini, che ha dedicato oltre trenta anni sul campo a promuovere la cultura del vino in Italia. Organizza corsi di sommelier professionali e master in vinologia e insegna varie materie collegate al vino. Ha lanciato e organizza gli Oscar del vino, che possono contare ben 18 edizioni ed è grazie a Franco Ricci che il vino è ora diven-tato un regalo di stato, presentato dal Presidente della Repubblica italiana a vari capi di stato in visita.

“È stato meraviglioso accompagnare il Principe in un piccolo gran-de viaggio del Vino Italiano e vederlo così attento ed entusiasta. Per me

intimamente emozionante.”

Franco RicciPresidente Fondazione Italiana Sommelier

Nell’incantevole cornice del Chianti Classico sorge Capannelle Wine Resort. Immersa in un incantevole paesaggio e circondata da vigneti, olivi e cipressi, la villa offre una vista sconfinata e dei tratti più distintivi del territorio chiantigiano.

CapannelleCapannelle ha prodotto bottiglie con oro a 18 cara-ti e 925 etichette d’argento, che sono state comprate da Donald Trump e Frank Sinatra. Il proprietario è James B. Sherwood, fondatore e azionista di Orient - Express Hotels LTD, proprietario anche di Belmond San Michele.

“Conoscere il Principe Carlo l’anno scorso è stata la più grande riprova che il vino ha un valore profondo nell’avvicinare persone e

menti e nello stringere legami al di là di ogni barriera sociale. Il ri-conoscimento della qualità del nostro vino rende tutta la mia azienza

profondamente orgogliosa”.

Manuele VerdelliResponsabile Commerciale Capannelle