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LA SAPIENZAUniversità degli Studi di Roma
I^ FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIASede Ospedale “Carlo Forlanini”
CORSO DI LAUREA 1° LIVELLO FISIOTERAPISTAAnno Accademico 2007/2008
APPUNTI DELLE LEZIONI DI DISCIPLINE DEMO-ETNO-ANTROPOLOGICHE
Docente: Dott.ssa Maria Marzilli
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LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA
Gli antropologi del Novecento, spinti da curiosità intellettuale verso ogni forma di pensiero e
azione espressa da una collettività e animati da una fiducia empirista nel valore dei dati che
derivavano dall’osservazione diretta, svilupparono le conoscenze dell’Occidente sugli uomini che
vivevano in aree remote, le loro forme di organizzazione, le loro idee, i loro comportamenti.
L’interesse si rivolse a quelle società di piccole dimensioni, con limitate conoscenze tecnologiche,
prive di scrittura, che nell’ottica evoluzionista erano state chiamate “primitive”, perché
ricordavano il più remoto passato dell’umanità.
Il termine “primitivo” si riallacciava all’idea diffusa tra gli occidentali di essere i rappresentanti di
tutto ciò che vi è di più avanzato, mentre gli altri sarebbero espressione di un “prima” in cui le
forme di vita sono più semplici e arretrate.
L’interesse fu quindi rivolto particolarmente ad alcune aree del mondo dove si trovavano molte
società con simili caratteristiche. L’Africa, particolarmente a sud del Sahara, il Pacifico e le
società indigene d’America furono le zone più indagate, mentre minore attenzione fu rivolta a
società non occidentali di grandi tradizioni storiche e culturali con sistemi propri di scrittura,
sistemi religiosi e politici, come esistevano in Estremo Oriente.
Molte aree dell’Occidente sono partecipi di un fenomeno di enorme importanza storica, il contatto
e l’incrocio tra portatori di culture diverse sotto la spinta dei fenomeni migratori. Le dinamiche
interculturali sono un vasto campo di indagine a cui l’antropologia può dare un contributo di
conoscenze sulle culture di origine.
Ambiti di applicazione di conoscenze antropologiche si aprono all’interno dei paesi più sviluppati,
in iniziative a sostegno di minoranze etniche e linguistiche, di aree sociali o territoriali di
emarginazione, di valorizzazione dei patrimoni culturali locali.
L’antropologia, per la sua vocazione ad immergersi in altri contesti culturali, si trova oggi a
guidare un orientamento di analisi teso a spezzare la linearità dello sguardo occidentale su altri,
considerati rispetto a noi esotici, per aprire un dialogo interculturale.
Individuo e società
L’individuo può essere considerato al centro della riflessione sull’uomo in quanto soggetto
pensante e agente. La percezione del mondo esterno, le idee e conoscenze, le azioni hanno un
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riferimento nella consapevolezza che ogni uomo ha di rappresentare qualcosa di unico,
psichicamente e fisicamente distinto dai suoi simili.
Da questo primo livello di identità si sono elaborate teorie filosofiche e scientifiche, affermati
modi di pensare che hanno assegnato all’individuo uno statuto particolare nei confronti
dell’ambiente esterno, del soprannaturale e degli altri uomini, con diversi caratteri nelle varie
culture.
L’antropologia culturale, nata all’interno della cultura occidentale ed erede di quella tradizione di
pensiero, ha rivolto una particolare attenzione all’individuo come singola unità ma sempre nella
sua relazione con altri uomini.
Anche l’ambiente naturale in cui l’uomo vive, riveste notevole interesse per l’antropologia
culturale, sia per i condizionamenti che ne riceve per la sopravvivenza e i modi di vivere, (non
solo quindi l‘abbigliamento e il tipo di abitazione, ma anche la dimensione simbolica, come nei riti
e nelle rappresentazioni di entità spirituali), sia per gli interventi con cui modifica il territorio,
lasciandovi l’impronta della propria cultura. Altre discipline, l’antropologia fisica e biologica e
l‘etologia umana, si dedicano in modo particolare ai rapporti tra l’uomo e l’ambiente.
Il primo rapporto che fonda l’interdipendenza tra gli esseri umani è quello di parentela.
Con il termine parentado si indicano coloro che sono legati per consanguineità o affinità a un
soggetto.
Gruppi sociali estesi, uniti da legami tra loro di vario genere sono presenti nelle forme più diverse.
In molti casi comprendono più famiglie e reti di parentela, sono spesso uniti da una residenza
comune, ma possono essere anche rappresentati da gruppi di interesse che prevalgono sui primi.
In passato si usava il termine “tribù” per indicare le unità politiche dei popoli primitivi,
sottintendendo che i loro membri non fossero legati da un contratto sociale ma da legami di
sangue.
Facendo riferimento solo a legami sociali e a particolarità linguistiche e culturali, ora ci si
riferisce a “popolazioni” o a “nazioni.”
Il concetto di società
Interessante è come si arrivi a definire “ società” un insieme di uomini. Secondo l’antropologo
americano Felix Keesing , “una società è l’aggregazione di individui in popolazioni o gruppi
organizzati.”
L’organizzazione delle società umane deriva dalla condivisione del comportamento
culturale.
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Ciò che rende unitario un semplice aggregato di persone è il riferimento comune a un concetto
centrale che è quello di cultura.
Quando si usa il termine società, si sottolinea il fatto che fra le persone di cui si parla intercorrono
rapporti istituzionalizzati. Vanno messi in risalto i rapporti di parentela, gli scambi economici, le
regole del diritto, i sistemi di potere, i rituali religiosi e la magia. Da questi punti di osservazione
delle relazioni dinamiche tra gli uomini si viene a costruire quel concetto unitario che è una
società.
Evidenziato il processo logico che è alla base di questo concetto, è legittimo usare il termine
“società” con riferimento ad una popolazione definita da un’organizzazione politica, una
delimitazione territoriale e con un riferimento ad aspetti culturali comuni, (la società
eschimese) e più estesi ancora (la società occidentale).
Gli antropologi sociali affermano che ciò che vediamo sono le società umane ed il riferimento ai
caratteri culturali è più sfuggente perché legato a idee, credenze e valori che si possono vedere
solo nelle manifestazioni concrete che si esprimono socialmente.
Gli antropologi culturali ritengono invece che è dallo studio di espressioni culturali, come la
lingua, l’arte, gli stili di vita, la religione, la produzione di oggetti, che si ottiene la prova di
trovarsi di fronte a gruppi unitari identificabili come società.
Ma sul concetto di cultura alla fine vi è tra gli antropologi un accordo tacito, nel senso che è nella
sua viva manifestazione che la cultura acquista una particolare fisionomia. La pluralità delle
culture è esperienza vissuta nella pratica di studio e di ricerca .
Essenziale nell’attività intellettuale di comprensione e interpretazione delle espressioni culturali è
coglierne il significato simbolico. E’ questo significato ad attribuire valore ad azioni e prodotti
sociali e ad attività di singoli.
Si prenderanno in considerazione i simboli pubblici come quelli dei riti religiosi e laici o di
espressioni linguistiche e non quelli a cui gli individui singoli attribuiscono un valore soltanto per
essi.
Cultura e comunicazione
Il carattere dinamico della cultura che si mantiene viva con la interazione continua e gli scambi tra
i suoi membri trova la sua centrale espressione nella comunicazione, che non va interpretata come
un semplice trasferimento di messaggi, ma come sede di un’elaborazione attiva di cultura, che ad
ogni passaggio si rinnova e riceve nuova forza.
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La più ricca e universale è la comunicazione orale presso società prive di scrittura. In quei contesti
hanno potuto emergere la ricchezza di capacità espressive dell’oralità e le potenzialità che in
parte sono affidate a quest’ultima.
Dove non esistono documenti scritti, la tradizione orale è un archivio della memoria collettiva
che si rinnova trasmettendo eventi storici e mitici.
Con la visione si apre un mondo dai contorni indefiniti. Nel suo campo d’azione bisogna includere
non solo ciò che viene percepito dall’occhio ma anche le visioni mentali interiori, non considerate
come esperienze individuali ma come manifestazioni determinate culturalmente, con un significato
sociale e dotate di un potere preciso.
Specialisti della visione sono gli sciamani e gli oracoli, che godono di prestigio presso molte
società asiatiche, africane e americane tradizionali e servendosi di queste loro facoltà svolgono una
importante funzione sociale.
A particolari azioni e oggetti le società attribuiscono un potere simbolico di rappresentazione di
valori. E’ questa la materia prima dei riti, religiosi e laici, in cui è la forma, l’aspetto visibile
esteriore ad esprimere molti dei significati a cui fanno riferimento, in modo che possano essere
comunicati e condivisi collettivamente da uomini e, idealmente, anche dalle entità spirituali a cui
si rivolgono.
Inculturazione
L’ educazione o processi di inculturazione sono percorsi a cui sono sottoposti i membri di una
società costantemente. Questo è l’aspetto dinamico principale della cultura, che la mantiene in vita
e la rinnova attraverso il passaggio di informazioni tra i membri di una società, con la trasmissione
generazionale delle conoscenze e dei valori.
L’inculturazione però non comprende soltanto i processi propriamente educativi e si espande
capillarmente nei più vari momenti delle attività e interazioni sociali e lungo tutto l‘arco della vita
degli individui
Il confronto generazionale è un tema molto dibattuto a cui tutti sono sensibili nella società
moderna. Le rapide trasformazioni nei modi di vita causati dall’urbanizzazione e dalla mobilità
residenziale, le nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, l’espansione nelle
comunicazioni e nell’informazione pongono i giovani di fronte a prospettive inedite. Questo
sembra aumentare la distanza sociale con la generazione dei genitori e addirittura di chi li precede
in età di pochi anni. E’ un fenomeno caratteristico della modernità e conseguenza
dell’accelerazione della cultura nelle nostre società.
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Si esaminerà quanto accade nel passaggio generazionale in contesti maggiormente legati alla
tradizione. Un classico tema in antropologia, a questo proposito, è quello dei riti di passaggio con
i quali le nuove generazioni vengono iniziate alla condizione di membro a pieno titolo della
propria società, acquisendo le conoscenze necessarie e determinati diritti e doveri. I riti di
iniziazione sono modi in cui si forma il senso di appartenenza di un individuo a un gruppo.
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INCULTURAZIONE E PROCESSI EDUCATIVI
Imitazione e apprendimento
Durante il primo periodo di vita, il bambino riceve una serie di stimoli, sotto forma di
incoraggiamenti e di divieti, nella ricerca di soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri. Sono
questi dei messaggi che orienteranno il suo comportamento e che saranno interiorizzati, andando a
costituire una specifica matrice culturale della sua personalità.
Se nel primo periodo di vita l’inculturazione passa attraverso gesti, azioni, incoraggiamento o
repressione delle attività del bambino, in seguito è il linguaggio il principale veicolo di
comunicazione culturale.
All’apprendimento per imitazione si aggiunge l’apprendimento per insegnamento attraverso la
comunicazione verbale.
La trasmissione culturale e la sua continuità e discontinuità
Ogni società rimane in vita finchè è assicurata la sua riproduzione biologica, ma anche quella
culturale.
La riproduzione biologica è regolata da una serie di norme, divieti e consuetudini che in alcune
strutture sociali prendono forma in sistemi di parentela ed è affidata a quell’istituzione familiare
che molti ritengono sia universalmente presente nei gruppi umani. La sopravvivenza e la crescita
delle nuove generazioni sono oggetto di attenzione da parte di quelle istituzioni, e della società nel
suo complesso. Molta cura viene riservata alla crescita culturale dei nuovi membri di una società,
così da assicurare una continuità intergenerazionale.
Tutto ciò che contribuisce a plasmare culturalmente i membri di una società fa parte di quel
processo chiamato inculturazione. Tale termine comprende tutto quanto viene acquisito da un
individuo in termini di comportamento condiviso dagli altri membri della società a cui appartiene,
e viene quindi a costituire la personalità di base dell’individuo stesso. Con il termine
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socializzazione l’accento si sposta verso l’interazione sociale indicando quei modelli di
comportamento approvati dalla società che entrano a far parte dell’organizzazione sociale.
Essendo la società una realtà viva e mutevole, il processo di inculturazione non ha mai fine e
segue le trasformazioni sociali comunicando le novità in modo che i singoli siano preparati a farle
proprie.
Un aspetto su cui si sono concentrati i primi studi sul tema della trasmissione culturale è quello
della continuità o discontinuità nel ciclo vitale.
La moderna società occidentale sarebbe caratterizzata da accentuata discontinuità, causa di molti
turbamenti, mentre dati riportati da società primitive mostrano come esse privilegino la continuità
con vantaggi per una crescita equilibrata degli individui.
La cultura occidentale accentuerebbe fortemente la differenza fisiologica tra bambini e adulti. “Il
bambino non ha sesso, l’adulto valuta la propria virilità secondo la propria attività sessuale, il
bambino deve essere tenuto al riparo dai fatti brutti della vita, l’adulto deve affrontarli senza
catastrofi psichiche; il bambino deve obbedire l’adulto deve imporre l’obbedienza”, scrive la
Benedict (1970).
La Benedict individua tre contrasti tra i ruoli del bambino e dell’adulto, nella società occidentale:
ruolo e status di responsabile e non responsabile; dominio dipendenza; contrasto tra i ruoli
sessuali.
Responsabile non responsabile – La Bendict nota come nella cultura occidentale i genitori pensino
che nell’infanzia i figli debbano giocare e non lavorare e che un bambino non possa fornire un
contributo lavorativo commisurato alle sue capacità, in un sistema produttivo industriale. In alcune
società invece il bambino segue la madre nei lavori dei campi e gradualmente può iniziare ad
aiutarla assistito con pazienza.
I genitori occidentali quando lodano un bambino per ciò che ha eseguito, lo fanno con
condiscendenza, senza fornirgli un criterio per valutare ciò che ha fatto. In altre società il bambino
viene condizionato ad una partecipazione sociale responsabile, affidandogli compiti adatti alle sue
capacità.
Presso noi occidentali, una persona condizionata nell’infanzia a un tipo di comportamento,
nell’età adulta deve adottare il modello opposto.
Nelle società che adottano il condizionamento continuo, si tende invece ad adottare la massima
reciprocità tra genitori e figli, tra nonni e nipoti. Una consuetudine è il “rapporto di scherzo” che
permette ai piccoli di rivolgersi agli anziani in modo libero. Non si insiste sull’obbedienza quanto
sull’approvazione e la lode.
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Nuove vie di inculturazione
Tratto caratteristico delle società moderne è l’aumento della frequenza di contatti intraculturali e
interculturali. Più intensi sono i modi di comunicazione indiretti affidati all’elettronica. Il sistema
Internet è una rete globale che collega in tempo reale un numero crescente di utenti in tutto il
mondo. La televisione, mette in contatto, attraverso la forza delle immagini, con eventi che
accadono in ogni parte del globo.
Attraverso questi supporti tecnici, l’inculturazione non conosce più confini di tempo né di spazio.
La rete sempre più articolata di informazioni socializzanti in una società in rapido mutamento
culturale dovrebbe collegare tutti i membri della società raggiungibili dai messaggi, all’interno o
esterno delle istituzioni. Dovrebbe funzionare come fattore di omologazione culturale e di
coesione sociale.
Prevalgono invece i fattori di mutamento e di rottura di modelli culturali.
All’inculturazione dei membri nati all’interno di una società si somma quella di chi proviene
dall’esterno, conseguenza dei movimenti migratori caratteristici di quest’epoca storica.
L’inculturazione degli immigrati presenta caratteristiche peculiari, e si distingue da quella
autoctona suddividendosi al proprio interno in base a fattori diversi, primi la cultura, la lingua
d’origine e l’età di ingresso nella società ospitante.
Quanto maggiore è la distanza culturale tra il paese di provenienza e quello di accoglienza, tanto
maggiori sono i problemi da affrontare da parte dell’immigrato per un suo inserimento.
Se l’inserimento dei bambini e degli adolescenti immigrati è facilitato dal loro inserimento in un
curriculum scolastico e dalla frequentazione dei loro coetanei, gli adulti risultano motivati dalla
necessità di comunicare sul luogo di lavoro.
I maggiori problemi vengono dagli anziani, che hanno pochi contatti fuori dall’ambito domestico e
che difficilmente raggiungono un soddisfacente livello di conoscenza della lingua locale. Si crea
così una frattura intergenerazionale che può avere forti effetti negativi.
Educazione interculturale
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In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti e il Canada, il sistema scolastico pubblico ha
dovuto affrontare fin dai suoi inizi i problemi derivanti dalla diversa provenienza culturale degli
studenti.
Quello dell’educazione è forse il più delicato tra gli aspetti della convivenza interetnica.
Di fronte a una prospettiva di globalizzazione di molte questioni riguardanti la vita dei popoli, ai
grandi movimenti migratori, all’infittirsi dei contatti internazionali, quella dell’educazione
interculturale è diventata una necessità che dovrebbe trasformarsi in un obiettivo vitale per lo
sviluppo di tutte le culture.
E’ necessario che l’educazione interculturale sia intesa non come qualcosa di imposto dalle
condizioni storiche contemporanee, ma come la premessa indispensabile per una armoniosa
convivenza tra i popoli.
In Italia, è mutata in pochi anni la percezione dell’immigrazione, e si è passati da un atteggiamento
di emergenza alla convinzione che si tratti di un fenomeno duraturo. Qualcosa di analogo avviene
nelle istituzioni scolastiche, di fronte alla presenza di studenti stranieri. Inizialmente insegnanti e
istituzioni scolastiche si sono posti il problema di inserire i nuovi arrivati nella nostra cultura
attraverso l’insegnamento, insegnando la lingua italiana e avviandoli al processo di apprendimento
previsto per i vari gradi di età.
Quindi anche le nostre istituzioni hanno recepito l’invito del Consiglio d’Europa ad adottare un
modello di “integrazione-interazione” che suggerisce di riconoscere e valorizzare le diversità
culturali.
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DIFFICOLTA’ DELLA COMUNICAZIONE NELLA DIVERSITA’ LINGUISTICA
Per i bambini che arrivano in Italia, così come per gli adulti – anche se per questi ultimi il discorso
da fare è molto più complesso, perché coinvolge, talora, le differenze tra i sessi – dopo un primo
momento di comprensibile shock culturale, imparare la nuova lingua è fondamentale. Inserirsi in
una nuova realtà culturale è strettamente collegato con l’acquisizione della lingua del posto e
pertanto imparare l’italiano è correlato tanto a motivazioni strumentali quanto di natura
psicologica. Le motivazioni strumentali sono abbastanza ovvie e riguardano la necessità prima di
tutto di comunicare, poi di comunicare “bene”, in modo da non essere sempre considerati gli
“estranei”, i “diversi” dai madrelingua italiani. Infine di acquisire una padronanza metalinguistica
tale che consenta loro di affrontare con profitto le lezioni scolastiche, perché il deficit linguistico
non diventi un deficit di apprendimento generale che poi si tramuta inevitabilmente in un deficit
cognitivo, se è vero che la scuola mira non solo a fornire conoscenze, ma anche a creare o
perfezionare meccanismi cognitivi.
Le motivazioni psicologiche riguardano pertanto la motivazione psicologica dell’estraneità:
innanzitutto la deprivazione linguistica, genera una frustrazione che si riflette su tutto il vissuto,
agito e sentito, del ragazzo. Secondariamente, il bambino inizia a costruire la propria identità
basandosi su dei “privativi”, ovvero su ciò che lo allontana dagli italiani. Le conseguenze di ciò
sono spesso rilevanti, perché impediscono al giovane la sua piena autorealizzazione umana.
Se il dato che accomuna gli stranieri neoarrivati è la non conoscenza dell’italiano, la situazione
linguistica può essere estremamente diversa da soggetto a soggetto.
A grandi linee, sembrano essere tre i fattori più significativi che definiscono i differenti profili
linguistici:
a) la lingua di origine, o le lingue di origine, dal momento che il codice orale è spesso
diverso da quello della scolarità e dell’alfabetizzazione
b) la scolarizzazione precedente;
c) l’esposizione alla lingua italiana fuori della scuola.
E’ importante, infatti, poter ricostruire la situazione linguistica dei bambini stranieri perché molto
spesso essi non sono una tabula rasa e ciò che hanno imparato fino al momento del loro arrivo in
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Italia costituisce una riserva di saperi a cui attingere, all’inizio ad esempio mediante la
collaborazione con un mediatore linguistico. Chiedere loro troppo o troppo poco, li spaventa o li
demotiva irrecuperabilmente e i disagi sul piano della costruzione della personalità, che si
riflettono prima di tutto sul loro comportamento e atteggiamento nei confronti della scuola,
influenzano moltissimo lo sviluppo della loro personalità.
Si possono sintetizzare in linea di massima le possibili biografie dei bambini:
1) Monolinguismo italiano (uso orale): quando i bambini sono nati in Italia e i genitori
si sforzano con loro di parlare solo italiano.
2) Bilinguismo italiano/lingua materna (orale): quando i bambini parlano a casa la
lingua d’origine e a scuola la lingua italiana.
3) Monolinguismo: quando il bambino è appena arrivato e conosce (solo) la sua lingua
d’origine, che è stata per lui anche la lingua della scolarizzazione.
4) Situazione di diglossia (usi orali e scritti): quando il bambino ha imparato a comunicare
in una lingua e a scuola ne ha imparata un’altra. E’ il caso soprattutto di bambini che
provengono dalla Tunisia, Marocco o Egitto e che hanno imparato a scuola l’arabo
classico, mentre usano a casa il dialetto marocchino.
5) Bilinguismo/lingua straniera (usi orali e scritti): quando i bambini provengono da un
paese (tipo Filippine o Sri Lanka) dove la lingua della scuola è europea, mentre a casa
vengono utilizzati i dialetti locali.
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INTERETNICITA’ E MULTICULTURALISMO
Movimenti migratori e politiche di accoglienza
E’ stato il fenomeno dell’immigrazione a porre a confronto rappresentanti di culture diverse in uno
stesso territorio, in uno stesso contesto istituzionale, quello del paese di accoglienza. Un contatto
reso spesso difficile da condizioni di difficoltà economiche e di impreparazione.
In pochi decenni, milioni di persone si sono spostate spinte da squilibri demografici, crisi
economiche, eventi politici, da una speranza.
Si sono formate comunità di immigrati uniti da legami familiari, dall’appartenenza culturale,
desiderosi di conservare le loro tradizioni, specialmente religiose. In molti paesi europei si ha la
presenza di gruppi di diversa origine etnica.
I paesi europei hanno adottato politiche diverse per l’inserimento degli immigrati.
Multiculturalismo
L’ideologia multiculturale propone la libera espressione di tutte le culture all’interno di una
nazione, ma non considera la possibilità che le istituzioni dello Stato vengano sostituite da quelle
di una minoranza né che ogni gruppo etnico abbia il proprio sistema di governo, un fatto che
verrebbe considerato come un attentato alla sovranità dello Stato.
Il multiculturalismo garantisce la libertà di culto e incoraggia manifestazioni delle minoranze
etniche in cui esse possano celebrare le proprie tradizioni ed esprimersi nella propria lingua. Tutti
aspetti innocui che non compromettono il sistema sociale controllato dalla maggioranza.
La necessità di prendere posizione rispetto all’incontro con culture esterne ha sollecitato una
riflessione sulle diversità culturali interne. In Italia, de Martino aveva messo in risalto nei suoi
studi la ricchezza e la particolarità della cultura del Meridione. Il suo invito a volgere l’attenzione
a quelle che erano state chiamate “le Indie di quaggiù”, era stato raccolto da antropologi come
Cirese, che avevano evidenziato l’esistenza di “dislivelli interni di cultura” nella società italiana,
retaggio di tradizioni precedenti all’unità nazionale, sopravvissuti a causa di squilibri economici e
sociali.
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La varietà multiculturale interna, italiana ed europea, sembra riemergere ora in termini
rivendicativi, come riscatto da una condizione di identità negata. Ora le identità negate si
presentano, a livello territoriale, come tradizioni locali che sarebbero state sommerse dal
centralismo politico, dall’omologazione culturale dei mezzi di comunicazione di massa, del
mercato, dei processi di globalizzazione.
L’attenzione rivolta agli aspetti dinamici e alle possibilità di trasformazione sociale, ha portato da
parte di alcuni a preferire il concetto di “interculturale” anziché “multiculturale”. Secondo questo
orientamento il termine “multiculturale” suggerisce una situazione statica, priva di incontri fertili,
di difficile convivenza tra gruppi di diversa origine, mentre l’”interculturalità” indicherebbe
conoscenza e scambi reciproci con arricchimento culturale sia dei singoli gruppi sia della società.
Si reputa che sia un’educazione interculturale quella che preparerà i nuovi cittadini ad una pacifica
convivenza nel mondo del futuro.
Problemi di convivenza interetnica
Malgrado gli inviti a considerare una ricchezza le diversità culturali, i singoli gruppi etnici
sembrano preoccuparsi più della propria sopravvivenza culturale che di una possibilità di
convivenza e scambio interculturale.
Nei casi di recente immigrazione, ciò è stato imputato alle difficoltà pratiche, quali la ricerca di un
lavoro e di un’abitazione, e al fatto che i nuovi immigrati sono stati attirati da parenti e amici.
Questi fattori spingono a trovare aiuto all’interno del gruppo col quale si condividono lingua e
abitudini. Nei confronti dell’esterno prevale un atteggiamento di chiusura, diffidenza e a volte
ostilità.
La tendenza a chiudersi in ghetti monoculturali dipende da fattori sociologici, politici, economici,
urbanistici e contribuisce a perpetuare l’isolamento. Una separazione su base culturale prosegue
anche tra le generazioni successive a quella di immigrazione, tanto più quanto prevale l’evitazione
di matrimoni interetnici, o “mixofobia”.
Per il sociologo Peter Blau (1995) i matrimoni misti sono “il paradosso del multiculturalismo”.
Una politica ispirata a favorire i contatti tra i gruppi etnici porterebbe a un numero maggiore di
matrimoni misti e in questo caso le generazioni successive perderebbero le specificità culturali dei
genitori arrivando ad una omologazione con la fine della multiculturalità.
I confini etnici, all’interno di società multiculturali, tendono a persistere oltre che per fattori
emotivi, anche per gli interessi delle stesse comunità a mantenerli.
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Non solo si ha un fenomeno di emarginazione delle minoranze arrivate in seguito da parte della
maggioranza al potere, ma le stesse minoranze tendono a difendere le posizioni conquistate, anche
inferiori, e a trasmetterle all’interno del proprio gruppo etnico. Una vera società multiculturale è
quella in cui si ha un incontro fertile di culture di diversa origine. Si ha allora una fusione o
“meticciato culturale.”
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IDENTITA’ ETNOCENTRISMO RAPPORTI INTERCULTURALI
L’identità , come definizione del sé, viene elaborata a diversi livelli.
L’identità individuale inizia fin dal primo periodo della vita di ognuno di noi, con la
consapevolezza progressiva di esistere come realtà distinta rispetto ad altri vicini a noi, partendo
dalla madre e anche da oggetti che possiamo toccare e vedere con i nostri sensi.
E’ un processo relazionale che definisce sé a partire da ciò che è altro da sé, ed è una dimensione
esplorata in psicologia.
L’antropologia, pur tenendo presente questo aspetto psicologico, si rivolge a un processo più
esteso di formazione di identità e alle sue espressioni nell’agire sociale: quello del senso di
appartenenza a un gruppo esteso di persone, alle quali ci si sente legati da una specie di “comunità
di destino”. Questa identità collettiva condivisa può comprendere una dimensione sociale più o
meno ampia, nazionale, minoritaria o anche sopranazionale.
L’antropologia che ha concentrato l’attenzione su comunità prive di organizzazione statale e di
piccole dimensioni, ha messo in evidenza l’identità etnica, in cui il senso di appartenenza fa
riferimento a un’origine comune che può essere storica o biologica e a modi di vita e credenze
distinti da quelli di altri gruppi, anche da quelli più vicini.
E’ qualcosa che appartiene alla dimensione culturale che ha elaborato e inventato questa forma di
solidarietà introiettata dai membri del gruppo a cui essi sentono di appartenere.
Si esamineranno alcuni tra i vari aspetti che può assumere la messa in relazione della propria
identità collettiva con le espressioni sociali e culturali di altre identità.
Il termine etnocentrismo viene utilizzato per esprimere qualcosa di negativo, moralmente
riprovevole: un senso di superiorità dei propri modi di agire e pensare rispetto a quelli
caratteristici di altre società e gruppi etnici, fonte di pregiudizi nel giudicare i
comportamenti degli altri.
Utilizzato in modo più equilibrato, si è affermato come l’etnocentrismo sia un valore positivo,
perché è a partire dalla percezione del sé che possiamo confrontarci e aprirci al mondo.
Diventa un sentimento pericoloso se non è critico nei nostri confronti ed è causa di pregiudizi
e discriminazioni nei confronti degli altri.
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Un antitodo all’etnocentrismo negativo viene dal relativismo culturale. Secondo questa teoria
ogni cultura va interpretata nei termini che le sono propri, sarebbe scorretto servirci dei
nostri parametri di giudizio per valutare modi di comportamento o pensiero altrui.
Se si dà un’interpretazione equilibrata si assicura il rispetto delle posizioni altrui esprimendo uno
dei fondamenti dell’approccio antropologico che è quello di cercare di calarsi all’interno di una
realtà culturale per comprenderla come la vivono i suoi soggetti.
Per realizzare questo progetto di comprensione dell’altro, occorre che anche gli “altri” siano messi
in condizione di osservare e comprendere allo stesso modo “noi”. Questa reciprocità riconosce la
pari dignità di chi ci appare diverso.
Viviamo in un periodo in cui la conoscenza di culture diverse, da curiosità di pochi e da ristretto
interesse scientifico, è diventata un’urgente necessità per tutti. La comunicazione interculturale è
la base dei rapporti tra gli uomini per un numero maggiore di uomini.
Non si tratta soltanto di sviluppare un atteggiamento psicologico ed etico di apertura, di
disponibilità a ciò che non ci è familiare, che non abbiamo appreso nel nostro ambito culturale.
Occorre dotarsi di conoscenze e affinare una sensibilità a comprendere e interpretare messaggi di
segno diverso, a dialogare con chi ha riferimenti culturali distanti dai nostri. Tutto ciò per una
migliore convivenza umana.
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ETNOCENTRISMI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI CULTURALI
La cultura è uno strumento per orientare l’agire umano nella sfera del già conosciuto, ma può
divenire un limite di fronte al nuovo, anche se si tratta di quella forma di nuovo rappresentata dal
diverso, dall’altro da sé.
Franco Ferrarotti descrive un esempio di atteggiamento “riduzionista”, l’etnocentrismo culturale:
“Il pregiudizio da battere è quello eurocentrico – vale a dire il pregiudizio che scorge e fa valere
nell’Europa occidentale e nel suo modo di vita il termine normativo che corona tutto il processo
storico evolutivo dell’umanità e rispetto al quale ogni altra cultura è da considerarsi solo come
pre-cultura, in cultura o cultura abusiva. In questo senso questa è una cultura che impedisce di
capire gli altri, che si costituisce come cultura auto-consapevole contro le altre. E’ una cultura a
parte, fiera della propria peculiarità – una peculiarità che non tarda a porsi come motivo di
indimostrata superiorità”.
L’etnocentrismo non è un fenomeno circoscritto al continente europeo e non è necessario che la
supposta superiorità sia percepita o sentita. E’ sufficiente che colui che osserva l’altro da sé lo
faccia in base ai propri codici di autoriferimento, utilizzando l’immagine di sé come pietra di
paragone. Non attuando la differenziazione tra il sé e l’altro da sé che è la premessa per ogni sana
relazione.
Si tratta di una non comunicazione, di una relazione conflittuale, o come dice Gregory Bateson
schismogenetica cioè apportatrice di fratture, in quanto messaggio di disconferma nei confronti
dell’altro da sé culturale. L’etnocentrismo è solo una delle patologie di relazione tra culture.
Infatti il rapporto col diverso rappresenta un fattore di potenziale criticità, che si espone all’azione
di pregiudizi e stereotipi.
Il pre-giudizio è un giudizio a priori, che anticipa la conoscenza dell’altro, si valuta l’altro sulla
base della sua appartenenza ad una categoria. Il pregiudizio può essere favorevole o sfavorevole
verso chi lo subisce.
Il pregiudizio si sposa con lo stereotipo, che è un’immagine costruita su misura.
L’esigenza dell’uomo di stabilire delle regole di preferenza/avversione verso i gruppi sociali
esterni è vecchia quanto l’uomo. Lo psicologo sociale Tajfel sostiene che gli stereotipi avrebbero
una componente cognitiva (legata alla costruzione di schemi cognitivi); una componente
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valoriale (legata a giudizi di valore, del tipo buono/cattivo, bene/male associati ai gruppi sociali
esterni); una componente emotiva (legata agli atteggiamenti di antipatia/simpatia nei confronti
degli altri gruppi).
Le tre componenti costruiscono la relazione di identificazione e appartenenza tra l’individuo ed il
gruppo orientando le relazioni di preferenza/avversione verso i gruppi sociali esterni.
Pertanto, mentre la mobilità sociale assicurata dalla “società aperta” non produrrebbe secondo
Tajfel spazi di attrito tra gruppi sociali collocati in posizioni diverse nella scala gerarchica, le
situazioni sociali che potrebbero scatenare conflitti sociali sarebbero:
a) quando gli appartenenti ad un gruppo hanno difficoltà a definire il proprio posto nella scala
sociale, perché il gruppo sociale è marginale;
b) quando gli appartenenti ai gruppi privilegiati si sentono minacciati dall’ascesa di un gruppo
ritenuto inferiore;
c) quando il gruppo svantaggiato sente ingiusta la propria condizione sociale.
Quando si passa all’analisi dei comportamenti collettivi, si possono osservare una serie di
atteggiamenti di chiusura/repulsione nei confronti del diverso, classificabili col termine xenofobia,
che Marcella Delle Donne ha così definito: “ La xenofobia è un atteggiamento di avversione per
tutto ciò che è straniero, ma a monte di questo odio c’è la paura di chi è percepito come una
minaccia. Il termine xenofobia è formato dalla composizione di due parole greche: xenos =
straniero e fobos = paura, avversione. La xenofobia che può essere una reazione psicologica
“naturale” verso un gruppo percepito come una minaccia, è stata strumentalizzata da molte
ideologie”.
I comportamenti xenofobi non colpiscono solo gli “stranieri” per etnia e provenienza, ma possono
avere per bersaglio tutti i gruppi sociali “diversi”, possono coinvolgere tossicodipendenti,
sieropositivi, prostitute, omosessuali ecc…
Per Michel Wieviorka, quando la patologia della relazione verso l’altro assume connotazioni
razziali e/o etniche, si parla di razzismo. Il razzismo è un fenomeno delle società moderne ed
individualistiche che hanno iniziato a svilupparsi nell’Europa occidentale alla fine del Medioevo.
L’autore partendo da questo presupposto, ha analizzato il rapporto tra razzismo, partecipazione
individualistica alla modernità, affermazione dell’identità sociale, individuando quattro poli che
corrispondono ciascuno ad una particolare modalità di tensione e di opposizione tra i due fattori
analizzati.
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Primo polo: per l’autore il razzismo universalista accompagna la marcia universale della
modernità, quando questa ha l’ambizione di ergersi a punto di riferimento del
progresso, attraverso un “progetto di evangelizzazione globale”.
Secondo polo: corrisponde a quelle situazioni sociali in cui alcuni gruppi o individui, colpiti da
un forte declassamento sociale, sono segnati dalla emarginazione reale o
minacciata. Il razzista in questo caso è colui che perde o rischia di perdere il suo
status o la posizione sociale, o intende proteggersi da una minaccia reale o
presunta di declassamento. Si tratta perciò di un atteggiamento difensivo, ansia
da perdita, che si trasforma in aggressività verso quei gruppi sociali percepiti in
competizione con il proprio gruppo sociale di appartenenza.
Terzo polo: è rappresentato dalla situazione in cui un’identità nazionale, etnica, sociale,
religiosa è abbastanza consolidata da opporsi alla modernità, (il kilt scozzese).
Quarto polo: corrisponde ad atteggiamenti messi in atto da gruppi nell’ambito di tensioni
interculturali ed interetniche. Si tratta del conflitto tra diverse identità culturali
forti.
Un altro terreno critico di analisi delle relazioni con la diversità è quello delle differenze di genere.
La diversità di genere rappresenta un terreno di coltura di microconflittualità e una delle aree
critiche in cui si manifesta la discriminazione che trova terreno fertile in quegli ambiti della vita
sociale dove la posizione della donna è stata a lungo subordinata al potere maschile.
Il movimento femminista ha rimproverato alla cultura maschile dominante di aver costruito una
società fondata sui valori maschili, artatamente mascherati da valori “neutri” e, quindi, universali.
La discriminazione sessuale può assumere toni molto virulenti, sfociando nell’intolleranza, quando
vengono coinvolti i territori dell’omosessualità e del transgenderismo.
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IDENTITA’ - ALTERITA’ - ETNOCENTRISMO
Identità individuale e di gruppo
La questione dell’identità può venire affrontata a partire dal processo di costruzione dell’Ego: la
formazione dalla nascita, e l’affermazione in età adulta, della consapevolezza della propria unicità.
E’ un processo che si svolge nello spazio e nel tempo.
Nello spazio, inizia con la definizione dei confini fisici del proprio corpo e si sviluppa attraverso
la percezione di potersi muovere liberamente portando con sé la propria unicità.
Nel tempo, si sviluppa la percezione che la propria unicità ha una durata che ci accompagnerà
minuto dopo minuto, nell’arco della nostra vita.
Questi processi creano la consapevolezza della propria individualità. L’identità individuale è un
aspetto caratteristico della condizione umana, un aspetto condiviso da tutti gli uomini. Tuttavia la
cultura interviene dando una forma e attribuendo un significato a queste esperienze singolari.
La cultura occidentale ha elaborato un filone di pensiero che ha posto al centro del senso della
condizione umana l’individuo come monade autonoma, espressione di tutto ciò che è umano.
Nella sua espressione estrema si presenta sotto forma di individualismo.
Presso altre culture, in società di piccole dimensioni, ma anche nelle grandi società orientali,
l’identità individuale viene concepita in senso relazionale. Il sé è definito come parte di una
condizione umana condivisa con altri. Il senso di identità condivisa dei membri di una comunità
consolida i legami sociali.
L’osservazione di comportamenti ripetuti che finiscono per apparire tipici di un gruppo
particolare, porterebbero alla definizione di una personalità etnica. E’ un concetto che non
differisce sostanzialmente da quello di “personalità di base”: tutti i membri di un gruppo avrebbero
in comune alcuni tratti basilari della propria personalità.
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Più vago il concetto di identità etnica che, non essendo basato su comportamenti osservati o
riferiti risulterebbe un modo artificioso per distinguere gli appartenenti a un gruppo e etichettarli.
Questa operazione, seguendo il ragionamento di Devereux, porterebbe con sé due aspetti negativi.
I possessori di una identità etnica diversa dalla propria (gli “altri”), finirebbero per essere
etichettati non in base ad elementi neutri, ma con valutazioni ideologiche negative per opposizione
alle proprie (“noi”). La costruzione della propria identità etnica avrebbe luogo a partire dalla
definizione di quella altrui.
Per De Vos (1982) “l’identità etnica di un gruppo di persone consiste nel loro uso di ogni aspetto
della cultura, allo scopo di differenziarsi da altri gruppi.
Per Denis-Constant Martin (1995), il senso di appartenenza sarebbe il risultato di una selezione di
quei sentimenti intorno ai quali si organizza una comune visione del mondo e del rifiuto degli altri.
Sarebbero tre le aree comprese in questa visione del mondo: rapporti con il passato, con lo spazio
e con la cultura.
Il gruppo sente di possedere forti radici nel passato, di avere avuto un ruolo nella storia, di avere
subito persecuzioni o violenze.
Il senso di appartenenza si fonda anche sull’affermazione di radici territoriali: il luogo degli
antenati, delle origini.
Si afferma come particolare uso dello spazio sociale: il luogo dove si possono esprimere i propri
modi di vivere, celebrare i propri riti. Luoghi spesso sentiti come usurpati da altri.
Quanto ai tratti culturali una loro riformulazione in termini di identità prevede una selezione di
quelle tradizioni di un passato che vengono presentate come perenni. A questi tratti culturali viene
attribuita una forte carica affettiva.
Etnicità
Il senso di appartenenza etnico quando si esprime all’interno di Stati nazionali viene denominato
“etnicità”. Le grandi migrazioni hanno portato alla presenza di numerosi gruppi etnici di
provenienza esterna nelle nazioni europee.
Lo spostarsi dell’oggetto di studio ha costretto ad abbandonare il modello che vedeva i gruppi
etnici come unità fisse e chiuse all’interno dei loro territori, e a ripensare la natura dell’identità
etnica.
Porre a fondamento i “sentimenti primordiali” non era più sostenibile, una volta che i gruppi si
erano staccati dalla loro nicchia originaria. La realtà costringeva a mettersi in relazione con altri
gruppi, modi di vivere e con la percezione che gli altri avevano della propria etnicità.
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Sotto il profilo psicologico sono state individuate varie dinamiche di formazione dell’etnicità.
Specialmente in condizioni di marginalità ed estraneità, si creerebbe un bisogno di sicurezza che
trova espressione in un attaccamento in chi è sentito come più simile. Nello stesso tempo si
sviluppa un senso di separazione nei confronti dell’esterno. L’attaccamento si dirige verso le
persone, per creare il senso di una comunità legata da sentimenti condivisi e che si sente unita da
un’origine comune e da uno stesso destino che può perpetuarsi nel tempo.
Anche pressioni e minacce esterne agiscono come rafforzamento del bisogno di sicurezza,
producendo una adesione alle regole del gruppo e una più forte espressione anche esteriore della
propria appartenenza etnica.
L’osservanza dei riti religiosi e l’ostentazione dei simboli della propria tradizione sono i segni di
questa risposta.
Alterità – eterofobia – etnocentrismo
Si può dire che l’identità acquisti significato solo se messa in relazione rispetto a ciò che è altro.
E’ il senso dell’alterità a rendere possibile il formarsi del senso di identità.
Sul piano dell’esperienza sociale, l’alterità viene sperimentata sotto forme diverse, è relativa:
l’altro può essere il fratello, il vicino, lo straniero. Come gli altri sono altri rispetto a noi, noi
siamo altri rispetto agli altri.
Si ha un passaggio cruciale quando dall’alterità si passa alla differenza.
La differenza viene creata attraverso classificazioni fatte nei nostri termini, che consentono di
stabilire dei confronti con modi di pensiero e comportamento propri e altrui. Questo procedimento
trasforma l’altro in diverso.
Mentre la percezione dell’alterità è una premessa necessaria, la definizione delle diversità opera su
un piano dell’esperienza, e non deve risolversi in una discriminazione o imposizione dei propri
modelli: Vi può essere il rischio che rinunciando a conoscere le diversità si rinunci al confronto e
al dialogo.
Per definire il segno con cui viene intesa l’alterità, sono stati introdotti i termini di eterofobia e di
eterofilia, rispettivamente atteggiamento di chiusura e di apertura nei confronti dell’altro.
L’eterofobia designerebbe configurazioni fobiche e aggressive dirette contro gli altri e che
pretendono di legittimarsi con argomenti psicologici, culturali e sociali. Un’estensione del
razzismo biologico.
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L’etnocentrismo è un termine con una connotazione peggiorativa, per indicare un atteggiamento
denigratorio nei confronti degli altri. E’ la valutazione della propria cultura come punto di
riferimento per l’orientamento personale.
L’etnocentrismo positivo è la capacità di valutare la propria cultura come un mezzo per costruire
la propria identità personale in modo rispettoso dell’identità di altri.
Talvolta l’etnocentrismo può presentarsi come rafforzamento della propria identità di gruppo di
fronte a minacce o persecuzioni esterne: un caso è quello degli Ebrei.
La forte carica emotiva legata a queste dinamiche ha portato ad affrontare l’etnocentrismo con
impegno etico per combatterlo.
L’esotismo, l’orientalismo, e la reciprocità dello sguardo
L’opposto dell’etnocentrismo è l’sotismo. In questa corrente che interessa la letteratura, la
narrativa di viaggio, le arti figurative, avvolgendo di un alone di fascino ogni forma di conoscenza
giunta da luoghi e popoli remoti, nell’immaginario l’”altro” assume una posizione privilegiata,
come un involontario protagonista delle fantasie e dei sogni dell’Occidente.
Il termine “esotismo” fu introdotto dal francese Victor Segalen, in un Saggio sull’esotismo nel
1904, e lo definì una “estetica del diverso”. Segalen, in visita a Tahiti scopre il pittore Gauguin, i
cui quadri sono la più alta espressione di un’estetica del diverso. Segalen individua in quella
ricerca di mondi incontaminati dai modi di vita occidentali quella che lui definisce “la sensazione
dell’esotismo: che non è altro che la nozione del differente, la percezione del diverso, la
conoscenza che esiste qualcosa che non siamo noi e il potere di esotismo che non è altro che il
potere di concepire altrimenti” (Segalen, 1983).
In quegli anni iniziavano ad affermarsi in Francia racconti d’atmosfera, ambientati nel Vicino,
Medio ed Estremo Oriente, soffusi di un estetismo decadente, di una sensualità che la società
borghese europea aveva messo al bando, ma che si dilettava di cercare altrove. Un gusto romantico
dell’avventura alla ricerca di sensazioni che affascinavano purchè restassero lontane, riportate dai
pittori, poeti e viaggiatori.
Molti si addentrano nei territori coloniali alla ricerca di sensazioni personali e di ispirazione
letteraria. In molti casi, il versante scientifico di questa attrazione è l’etnologia.
Antropologia e letteratura in queste esperienze restano diverse e separate nel metodo e nelle
motivazioni, ma le unisce il desiderio di conoscere quei mondi lontani. Entrambe erano, come
hanno detto alcuni critici, espressione di eurocentrismo. La descrizione e l’interpretazione fatte nei
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propri termini manifestavano la volontà di appropriarsi intellettualmente di quelle culture, come il
colonialismo faceva con la forza.
Con l’apporto di energie intellettuali, estetiche, culturali e scientifiche si sarebbe formata una
tradizione di pensiero imperialista, con la costruzione di uno stereotipo che condanna l’Oriente ad
essere quello che l’Occidente gli attribuisce. Questa immagine negativa rimarrebbe come uno
stigma sugli individui e sulle società etichettate come “orientali”.
In effetti orientalismo ed esotismo contengono una doppia anima, da una parte l’apertura verso
l’altro, che può assumere forme diverse come fascino, gusto dell’avventura, curiosità o desiderio
di conoscere e studiare le varie espressioni culturali. Dall’altra, la proiezione sull’altro di fantasie,
di categorie morali ed estetiche dell’Occidente, in sintesi l’affermazione dell’eurocentrismo.
Torbido o incontaminato, misterioso o ingenuo, l’esotico è pur sempre una costruzione culturale
dell’Occidente che incasella i modi di vivere degli altri nelle proprie categorie .
L’etnologia stessa è stata presentata come una forma di esotismo. L’antropologia è stata anch’essa
accusata di passate complicità con il colonialismo. La vocazione ad immergersi in altre culture da
parte dell’antropologo, non può reputarsi estranea a quel vasto fenomeno di curiosità nei confronti
del diverso che ha alimentato l’esotismo come esperienza personale sia come progetto di ricerca
scientifica.
Sulle ipotesi di complicità dell’etnologia con il colonialismo, le testimonianze degli antropologi
che lavoravano sul campo all’interno degli imperi coloniali del passato, dimostrano come le
conoscenze che hanno fornito sulle popolazioni assoggettate abbiano contribuito a liberarle da un
assoggettamento culturale e ad affermare una loro dignità e identità culturale.
Se si passa dal livello sociologico a quello cognitivo, nel modo di vedere antropologico si può
scorgere un aspetto di colonizzazione metaforica delle altre culture, con i propri strumenti logici di
pensiero e metodi di acquisizione delle conoscenze. L’eredità più caratterizzante è quella del
positivismo ordinatore e classificatore delle diversità, sicuro della validità oggettiva dei dati
raccolti con l’osservazione.
Una perdita di certezze e di attribuzione di valore assoluto alle proprie conoscenze, sono venuti
dall’impatto con una presenza più forte e vicina alle altre culture.
La perdita delle proprie certezze ha prodotto, nella più recente antropologia, un’apertura verso il
punto di vista dell’altro. L’antropologo mira a non cancellare la propria presenza: cerca di
individuare gli aspetti più significativi culturalmente. E’ testimone e soggetto attivo di
quell’isolamento che erano state le premesse al formarsi dell’esotismo.
Le culture si avvicinano, si confrontano, si aprono, si meticciano. Sono dei fenomeni storici come
quelli dei flussi migratori che esigono un tipo di sguardo reciproco. Non siamo solo più noi ad
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osservare gli altri, ma anche gli altri guardano noi e dall’incrocio di questi diversi punti di vista
nascono nuove costruzioni culturali.
I VANTAGGI DELLA SOCIALITA’
La protezione dai nemici è uno dei più importanti fattori tra quelli che hanno condotto alla
formazione di consociazioni animali, la protezione e difesa della prole hanno preceduto la cura
parentale, cioè la pulizia e nutrizione dei piccoli.
Altro vantaggio della consociazione è la possibilità della divisione del lavoro. Il maschio può
assumersi la protezione della prole, la femmina il compito della nutrizione, pulizia e riscaldamento
dei piccoli. I lupi che vivono in branco cacciano insieme, gli uni sorpassano la selvaggina e le
tagliano la strada, gli altri la inseguono a tergo e la sbranano. La divisione del lavoro raggiunge la
più elevata configurazione negli “stati” degli insetti, nei quali si costituiscono caste diverse con
compiti diversi.
La vita di gruppo permette anche che si formino tradizioni. Presso alcune scimmie, le invenzioni
di alcune vengono imitate dalle altre e conservate di generazione in generazione per tradizione.
Presso gli scimpanzè in libertà esistono abitudini tramandate specifiche di un gruppo. I membri di
una famiglia o di un gruppo si assistono fino a sacrificare la vita e fanno cose che non
necessariamente portano vantaggio all’individuo. Da qui si origina il problema dell’evoluzione del
comportamento altruistico.
Per ciò che riguarda gli animali sociali, si deve soffermare l’attenzione non tanto sul singolo
quanto sul gruppo, nel quale è contenuta la struttura ereditaria del singolo. Un gruppo in cui i
singoli si dedicano alla difesa del gruppo stesso o dei piccoli, potrà propagare il proprio
patrimonio ereditario con maggiore successo rispetto ad un gruppo che non produce individui
pronti alla difesa. Per la stessa ragione, ad esempio, individui che sottraggono tutto il cibo agli altri
o li combattono, hanno in un primo tempo dei vantaggi nel loro gruppo, ma lo indeboliscono come
unità e lo svantaggiano nella lotta concorrenziale con gli altri. Questa variante asociale, può
inizialmente imporsi dentro il gruppo, ma il suo genoma ha poi poco successo.
Le consociazioni animali si possono dividere in due gruppi, a seconda che siano aperte o chiuse.
Consociazioni aperte si hanno quando i consociati permettono l’accesso al gruppo ad altri che
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non vi appartenevano fino a quel momento. Una consociazione chiusa è un’unità intollerante, i
congeneri estranei non vengono immediatamente annessi al suo interno, vengono cacciati se
cercano di annettersi. Ciò significa che i membri della consociazione si conoscono l’uno con
l’altro, o individualmente o per un caratteristico segno proprio a tutti i membri del gruppo.
L’evoluzione del comportamento altruistico è comprensibile sulla base dei principi darwiniani.
Perfino l’appoggio reciproco fino al sacrificio della vita ha importanza per la conservazione della
specie. Nel gruppo zoologico dei vertebrati, lo sviluppo del comportamento di assistenza dovrebbe
essere di recente data, se si considera la storia della terra, lo si osserva già tra i pesci
geologicamente più recenti. Negli anfibi e nei rettili, moduli comportamentali altruistici sembrano
limitati ad alcuni casi rari di difesa e trasporto della prole, mentre gli adulti non si assistono mai
reciprocamente. Pur esistendo alcuni rettili ‘sociali’, in realtà non si rileva, osservandoli alcuna
interazione amichevole. Le iguane delle isole Galapagos, ad esempio giacciono a centinaia, l’una
accanto all’altra, ma l’unico rapporto con le loro compagne si limita ad una occasionale minaccia,
persino il loro corteggiamento è un comportamento di minaccia trasformato. Non si assistono nel
pericolo, non si nutrono, manca ogni nesso individualizzato.
La situazione è completamente diversa nella maggior parte degli uccelli e dei mammiferi, che si
assistono e possono vezzeggiarsi con tutta una serie di moduli comportamentali affettuosi. Con la
loro capacità di cooperare e di essere altruistici, i vertebrati sociali hanno raggiunto un più alto
grado di organizzazione. Infine, su tale progresso si fonda la nostra società umana.
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L’AGGRESSIVITA’ IN ETOLOGIA
I vantaggi dell’intolleranza
Gli animali appartenenti a moltissime specie combattono i congeneri e l’uomo non fa eccezione,
anzi la sua storia è una storia di violenza che caratterizza anche il nostro tempo. Anche se tentiamo
di difendere la tesi della natura sociativa e amichevole dell’uomo, non si può ignorare il carattere
di insocevolezza e di intolleranza che in esso si evidenzia.
E’ opportuno trattare dell’aggressività intraspecifica, quel fenomeno per cui animali di una stessa
specie si combattono fra loro. C’è anche un’aggressività interspecifica, in quanto gli animali da
preda attaccano le loro prede, ma le due forme vanno tenute ben distinte, i due tipi di aggressività
si distinguono già per il decorso motorio, infatti un gatto che aggredisce un topo si comporta in
modo diverso da quando aggredisce un rivale.
R. Dart ha cercato di spiegare l’aggressività dell’uomo moderno con il modo di vita predatorio dei
suoi antenati australopitecini. Queste scimmie antropomorfe, viventi circa un milione e
settecentomila anni fa, uccidevano la preda con ossa di antilope; questa ‘aggressività’ sarebbe la
radice dell’aggressività umana. Robert Ardrey concorda con l’argomentazione di Dart, ma ciò che
trascurano è il fatto che gli animali vegetariani non sono più ‘buoni’ degli animali da preda: i tori
attaccano gli altri tori , i galli sono divenuti simbolo di aggressività. Pertanto un modo di vita
predatorio non è stata la premessa per lo sviluppo dell’aggressività intraspecifica. Questo rende
opportuno lo studio del problema se vi siano dei vantaggi selettivi del comportamento aggressivo.
Vista l’estensione del fenomeno è poco probabile che l‘aggressività sia solamente un sottoprodotto
non funzionale di altre espressioni vitali.
Un vantaggio del comportamento aggressivo proviene dalle lotte fra rivali, molti maschi di
vertebrati si combattono all’epoca degli amori: i più forti e sani risultano selezionati per la
propagazione, cosa importante dove ai maschi spetta la protezione della prole.
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Tornei
Però l’aggressività non porta solo vantaggi per una specie in quanto è sempre possibile che durante
un combattimento un membro della specie rimanga ferito o ucciso e questo non è in linea con la
conservazione della specie. Risparmiare i congeneri è importante quanto combatterli e per queste
due opposte esigenze selettive, negli animali bellicosi si scatena un conflitto che permette loro di
combattere in modo incruento sviluppando regole di torneo ed in effetti i tornei sono molto diffusi
nel regno animale. Ad esempio i serpenti a sonagli non si mordono mai, lottano secondo regole
fisse, anche molti uccelli, pesci e mammiferi combattono a mò di torneo. Però non tutti gli animali
bellicosi seguono questo modulo, nei cani e nei lupi, dopo un reciproco iniziale minacciarsi, il
combattimento mira a diventare cruento, finchè dopo uno scambio di morsi reciproco uno dei due
si riconosce inferiore e cerca scampo nella fuga o in un comportamento di sottomissione.
L’aggressività nell’uomo
Sulla natura dell’aggressività umana i pareri divergono, non c’è accordo sulla diffusione del
fenomeno. Helmuth contesta che l’aggressività sia un fenomeno di estensione mondiale e pone
come esempio gli Eschimesi, gli indiani Zuni ed i Boscimani che sarebbero esenti da aggressività,
pensando probabilmente all’aggressività di gruppo manifestatasi in conflitti armati e non
genericamente all’aggressività. Non gli sarebbe sfuggito altrimenti che gli Eschimesi tengono
tenzoni di canto e battono le loro donne e che gli Zuni hanno riti iniziatici molto crudeli e che
pertanto l’aggressività contrassegna la vita quotidiana di queste popolazioni descritte come
pacifiche. Come esempio di attaccamento alla pace determinato culturalmente vengono indicati gli
Arapesh della Nuova Guinea, ma anche questi non sono privi di aggressività. Margaret Mead
scrive che i ragazzi arapesh vengono educati a scaricare l’ira non su altri ragazzi ma su oggetti.
Vi sono differenze culturali nell’aggressività umana, ma una dimostrazione convincente che un
gruppo umano sia esente completamente da aggressività non è ancora stata data, popoli primitivi e
di cultura non sembrano distinguersi nella loro predisposizione all’aggressività che si esprime
nello stesso modo su tutta la terra. L’atteggiamento aggressivo di imposizione realizzato per
mezzo di ornamenti, armi e incedere virile, mostra gli stessi tratti nelle più diverse culture e la
mimica dell’ira e della minaccia risulta identica in tutte le culture, tanto che persone appartenenti
ad aree culturali più diverse battono il piede in terra se sono irate o stringono i pugni. Ha oltre tutto
diffusione mondiale l’eroicizzazione dell’aggressività, sia in saghe eroiche sia in forma di animali
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aggressivi simbolici (aquila, leone, orso, gallo), sia in blasoni. Nelle festività nazionali si
celebrano avvenimenti storici di tipo aggressivo, il coraggio è considerato dappertutto una virtù.
Come negli animali, anche nell’ uomo l’aggressività porta alla delimitazione territoriale dei gruppi
e al loro interno, alla formazione di ranghi. L’aggressività territoriale ha promosso l’espansione
dell’uomo sulla terra e il suo insediamento anche in zone della terra inospitali. I popoli più
aggressivi o più progrediti nella tecnologia delle armi sospingevano gli altri in territori marginali,
come è stato fino ai tempi moderni con l’ insediamento degli Europei nell’America settentrionale
o in Australia.
Molti tratti del comportamento territoriale umano richiamano un’antica eredità dei Primati, gli
uomini difendono sia territori individuali, compresa la proprietà privata, sia territori di gruppo.
Ogni individuo mostra inclinazione a mantenere le distanze rispetto agli estranei, ad eccezione di
situazioni particolari come strade o adunate di massa, con ciò segue il modello di molti altri
animali sociali che mantengono una distanza individuale. Chi è primo in qualche luogo ha diritti
che noi gli riconosciamo ed è interessante notare come ciò sia ben consolidato nei Primati
superiori, consideriamo certe aree come nostre proprie, permanentemente o transitoriamente, e
siamo portati a reagire con ira a trasgressioni da parte di altri. Una famiglia considera la sua
abitazione e il suo giardino come suo territorio e la comunità di un villaggio considera tale il
villaggio stesso ed i suoi campi. E’ in maniera specifica umano l’irraggiamento dell’aggressività
nel dominio dello spirito, noi difendiamo la proprietà intellettuale e cerchiamo di diffondere
aggressivamente le idee, perfino gli ideali umanitari.
Diffusa nel mondo è la motivazione espansiva, gioiosa dell’aggressività. Esistono molte forme di
“combattimenti ludici” che vanno dagli scacchi al gioco del calcio. Alla base di questo impulso di
gareggiare, vi è una “voglia”, un piacere e probabilmente la pulsione aggressiva abreagisce in
questa maniera, mentre l’accumulo dell’aggressività viene esperito come una tensione sgradevole.
Si può abreagire l’aggressività assistendo ad un film di contenuto aggressivo, ed è evidente che ci
si identifica con quanto accade nel film. La larga offerta di film di contenuto aggressivo, mostra
che esiste un bisogno di ciò, in quanto gli uomini abreagiscono in questo modo gli impulsi
aggressivi. I film sono costruiti in modo da attivare prima, poi abreagire negli spettatori
l‘aggressività, di solito su un “cattivo”. Nella vita quotidiana abreagiamo l’aggressività anche con
operazioni su oggetti surrogati, ad esempio sbattendo una porta o spezzando qualcosa. In alcuni
casi i canti hanno una forte motivazione aggressiva, come nell’area austro-bavarese, dove tenzoni
di canto sono ancora in uso, pertanto quando non si combatte materialmente si trovano altre
valvole di sicurezza.
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Si sono sempre presentati spunti alla ritualizzazione dell’aggressività umana, perfino nei conflitti
bellici. Presso molte culture si sono sviluppate regole di combattimento nel senso del fair play,
della cavalleria. Alla ritualizzazione appartiene il riconoscimento della sottomissione mediante il
risparmio della vita del vinto, cosa che postula una reciproca fiducia. Il vincitore deve poter
confidare che il vinto si attenga alle regole del trattato e non cominci una guerriglia, mentre il
vinto deve potersi attendere di non essere sottoposto ad atti terroristici.
Regnando tra nemici combattenti la sfiducia, bastano singole trasgressioni per dare il via ed una
escalation della sfiducia ed alla deritualizzazione del conflitto.
Se manca la possibilità di abreagire l’aggressività si addiviene ad un accumulo di aggressività che
può portare a periodiche oscillazioni della disponibilità interiore a operazioni di carattere
aggressivo. Noi siamo all’occasione, irosi e pertanto facilmente eccitabili senza che possa esserne
ritenuto responsabile l’ambiente. Questo è un indizio di meccanismi pulsionali che dovrebbero
somigliare a quelli che stanno alla base dell’aggressività animale. Adler, Freud, e Lorenz hanno
spiegato la spontaneità dell’aggressività con l’ipotesi di un istinto aggressivo innato. Questa
ipotesi spiega anche la nostra inclinazione all’aggressione collettiva.
L. Berkowitz ritiene che l’esistenza di una pulsione aggressiva innata apra prospettive spaventose:
“Una pulsione aggressiva innata non può essere fatta scomparire né con riforme sociali, né con
l’eliminazione di ogni frustrazione. Né una piena permissività da parte dei genitori, né
l’adempimento di ogni desiderio, potranno, su tali basi, allontanare completamente il conflitto
interpersonale. Le conseguenze per una politica sociale sono evidenti: civiltà e ordine morale
debbono, in ultima analisi, basarsi sulla violenza e non sull’amore e sulla bontà.
Freud ritiene che l‘aggressività non può essere eliminata, ma può essere neutralizzata con
l’attivazione di tutte quelle forze che servono a costituire legami sentimentali fra uomini. Egli
scrive: “Se l’inclinazione alla guerra è conseguenza della pulsione distruttiva, è ovvio chiamare
alla riscossa contro di essa l’antagonista di questa pulsione: l’ Eros. Tutto ciò che serve a fondare
tra gli uomini legami sentimentali deve antagonizzare la guerra. I legami in questione possono
essere quelli con un oggetto d’amore, anche senza scopo sessuale”.
Ci troviamo di fronte due tesi diverse: quella pessimistica di Berkowitz afferma che, accettando
una pulsione aggressiva innata, solo violenza e repressione possono ottenere civiltà e ordine
morale; al contrario, quella di Freud vede nell’amore l’antagonista naturale dell’aggressività.
Occorrerebbe stabilire chi dei due ha ragione. Berkowitz vede il lato dinamico della pulsione
aggressiva sempre in agguato, e dunque dominabile solo con la repressione. Come mediante
ricompense di atti aggressivi si può educare ad un’aggressività sempre crescente, così con
punizioni si può reprimere l’aggressività. Però un tale metodo di pacificazione lede la capacità di
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iniziativa che è correlata positivamente con l’aggressività. Ci accaniamo in un compito,
“aggrediamo” problemi e li “dominiamo”. Già la lingua quotidiana esprime il fatto che gli atti
creativi di cultura vengono nutriti dall’aggressività. E’ questo uno dei motivi per cui oggi si
esamina con occhio critico la “società dell’efficienza”, che viene respinta dai propugnatori di una
società pacifica in quanto incrementata dall’aggressività. Misure repressive giovano solo
parzialmente a scongiurare l’aggressività. Si sa che la repressione degli istinti ha per effetto
fenomeni degenerativi del meccanismo fisiologico dell’aggressività, in quanto una certa
disponibilità all’aggressione rimane, ed è più pronta ad approfittare delle occasioni che si
presentino quanto più a lungo sia stata impedita la possibilità di abreagirla. Una riduzione
dell’aggressività è possibile mentre una eliminazione completa no. Perciò come dice Freud è un
“peccato di educazione” il non preparare l’uomo a quell’aggressività con cui dovrà scontrarsi.
L’abreazione dell’aggressività accumulata non deve necessariamente essere ottenuta con uno
scontro tra uomini, anche un compito comunitario consuma aggressività. Si possono anche
coltivare costumi che fungono da valvola di sicurezza, atti a derivare l’aggressività, con diverse
modalità, come ad esempio l’antagonismo sportivo. Per questa strada l’aggressività è più
controllabile, ma solamente se si portano a pieno dispiegamento i suoi antagonisti naturali. Senza
l’attivazione di quelle energie che Freud chiama “libidiche” il suo controllo non sarà possibile.
Gerarchia di rango
L’elaborazione di una gerarchia di rango presuppone due disponibilità che mancano nelle specie
animali di vita solitaria: gli individui debbono mostrare in primo luogo aspirazioni al rango e
debbono mostrare la disponibilità a subordinarsi se non possono raggiungere i gradi più alti.
Nell’uomo tutte e due queste disponibilità sono dimostrabili. Vance Packard ha evidenziato come
noi uomini aspiriamo al rango e marchiamo il raggiungimento di ogni gradino della piramide con
speciali simboli di status.
L’appello allo status è un fattore efficace di pubblicità perché, quando uno non ha raggiunto
ancora un alto livello di rango, ne mima i contrassegni, vestendosi come gli appartenenti al livello
superiore , procurandosi gli stessi tipi di auto, portando gli stessi ornamenti. Morris ha richiamato
l’attenzione sul “mimetismo di rango”: si segue il modello dei più alti in rango nella moda, nei
costumi e nell’ornamento, il che stimola quelli a inventare nuove mode per tornare a distinguersi
dal loro prossimo.
O. Koenig dimostra che le uniformi di Stati vittoriosi sono spesso imitate: le uniformi degli ussari
ungheresi trovò imitatori in Austria, Germania, Russia e Francia. Gli ungheresi avevano imitato
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l’uniforme di quei famigerati reparti turchi della Guardia che, drogati con oppio, si gettavano
primi nella mischia e costituivano la guardia del corpo dei più alti dignitari. Il più forte viene
quindi spesso imitato.
Il fatto che non si sia potuto tradurre in pratica il modello di una società senza livelli di rango
dimostra che bisogna ravvisare una predisposizione innata che trasciniamo con noi quale eredità
dei Primati. Nella consociazione individualizzata a decidere la posizione di rango sono qualità
umane, come l’amore del prossimo, il sapere, e non solo l’aggressività.
Nei piccoli gruppi individualizzati in cui ognuno conosce bene gli altri, è difficile che un membro
del gruppo possa dare l’illusione di queste qualità senza possederle. Nelle comunità anonime le
cose vanno in modo del tutto diverso.
Premessa per la elaborazione di una gerarchia di rango è la disponibilità alla subordinazione, che
si fonda sul timore dei più alti in grado. Gli animali solitari non conoscono tale disponibilità. La
gerarchia di rango è un mezzo di ordinamento sociale e quindi di controllo dell’aggressività.
L’età avanzata viene equiparata alla saggezza, questo era sensato prima, quando i vecchi erano
veramente in possesso di una esperienza di vita più ricca e di un’accumulazione del sapere. Oggi
invece l’incremento della durata della vita porta a fare sì che posizioni sociali di decisiva
importanza possano esser occupate da persone segnate da degenerazione senile. In politica, i cui
dirigenti più alti non conoscono età di pensionamento, tutto questo è deplorevole e dannoso. Un
innato timore reverenziale verso la vecchiaia, in tal caso ci conduce in un vicolo cieco.
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ANCORAMENTO BIOLOGICO DELLE NORME ETICHE
Il valore
E’ opportuno chiederci che cosa è bene e che cosa è male. Fino ad ora la trattazione è stata limitata
ai vantaggi selezionistici ed è risultato che alcuni moduli comportamentali, come ad esempio
quelli altruistici, sono un vantaggio per la conservazione della specie, mentre altri, come
l’uccisione dei congeneri, sono svantaggiosi. Esprimendo un giudizio di valore, si potrebbe
designare come male tutto quanto contrasta la conservazione della specie.
Forse ci regoliamo inconsciamente quando valutiamo negativamente le pulsioni che inclinano alla
degenerazione patologica e mettono in pericolo la nostra vita consociata, in particolare il caso
dell’aggressività. Ci chiediamo da dove viene al singolo il sapere che cosa deve o non deve fare.
Forse impara i divieti o li deduce ponendosi la domanda se possa volere che altri agiscano come
ora lui volentieri agirebbe. Forse potremmo domandarci se sentiamo aprioristicamente ciò che è
bene o male.
La teologia morale assume che l’uomo senta come comandamento che egli deve astenersi dal male
e fare il bene, e questo dovrebbe essere innato in lui. La teologia morale cerca di leggere nella
natura l’ordinamento voluto da Dio. La dottrina teologica del diritto naturale ritiene che il mondo
creato rappresenti la realizzazione di idee divine. La natura rivelerebbe la volontà di Dio, da essa
verrebbero le unità di misura, cioè le leggi morali naturali. Chi vuole orientarsi sulla natura e
derivare da essa norme etiche, non può appoggiarsi a conoscenze parziali con il rischio di
smarrirsi. Un esempio è la discussione attuale sulla liceità dei vari metodi anticoncezionali. Dal
dato che l’amplesso negli animali serve alla propagazione della specie, i teologi morali hanno
concluso che anche per l’uomo sia stata questa l’intenzione divina e che quindi si debba respingere
ogni metodo anticoncezionale perché lesivo di quell’ordinamento divino. E’ stato così trascurato il
fatto che nell’uomo, l’amplesso adempie ad una nuova funzione di costituzione di partnership.
Ciò che contrasta con la conservazione della specie può essere valutato negativamente, ma bisogna
chiedersi se esiste una gerarchia di valori e se per esempio la compassione o l’amore del prossimo
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sono mozioni più nobili del desiderio di aggressione. Quando un gruppo umano ne stermina un
altro, si potrebbe dire che il vincitore è biologicamente più adatto di chi ha perso e che è giusto che
il più valido si imponga in tal modo.
Probabilmente nessun biologo considera la natura completamente spoglia di valori. Parliamo di
evoluzione superiore degli organismi nel corso della filogenesi, di animali inferiori e superiori
intendendo “differenziati”. Quelle pulsioni consociative il cui correlato soggettivo è l’amore del
prossimo, sono di data più recente che l’aggressività e hanno anche condotto ad una
differenziazione enorme del nostro comportamento sociale.
Il dispiegamento della cultura umana si fonda sulla collaborazione e sull’appoggio reciproco. Con
la capacità dell’amore, i vertebrati superiori sono maturati al di là dell’aggressività , hanno
raggiunto un livello evolutivo ‘superiore’. Gli uomini hanno l’inclinazione a rispondere con
reazioni violente di espulsione a minoranze devianti esternamente dalla maggioranza. I demagoghi
si sono richiamati al sano sentimento “popolare” quando volevano spingere alla repressione delle
minoranze. E’ questa una inclinazione che dimostrano i bambini anche in tenera età quando
scherniscono i compagni di gioco claudicanti o balbuzienti. Questo comportamento costringe
all’equiparazione coloro che possono adattarvisi e ciò può essere stato un tempo un vantaggio
selezionistico perché rafforzava l’unità del gruppo. Oggi però tutto questo non ha alcun vantaggio,
in una società che presenta una così differenziata divisione del lavoro, la dotazione degli outsiders
è di grande valore. Abbiamo inoltre raggiunto un livello di coscienza che ci permette di
riconoscere che anche i nostri congeneri devianti dalla norma sono sostanzialmente identici a noi.
Questa coscienza deve essere illuminata ulteriormente perché è l’unico mezzo di dominare la
nostra arcaica intolleranza.
L’inibizione dell’aggressività
Il comandamento “Non uccidere” si trova in varie forme presso tutti i popoli, non è mai permesso
in alcun luogo, uccidere un altro uomo, e questo è comprensibile per ragioni di funzionalità e non
sarebbe immaginabile senza una simile regolazione una convivenza sociale umana. Ma ciò che
interessa è se noi aderiamo solo razionalmente a questa legge o se seguiamo anche delle
inclinazioni innate. Sarebbe meglio se fosse vera quest’ultima ipotesi, perché le speranze in una
convivenza pacifica sarebbero meglio fondate che se alla fedeltà alla legge ci conducessero solo la
costrizione e la pura ragione.
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Presso diversi animali, l’uccisione dei congeneri viene impedita dal mantenimento di regole di
combattimento e dall’esistenza di meccanismi inibitori dell’aggressività. Molti animali possono
sottomettersi al congenere nel corso dello scontro. I loro atteggiamenti di sottomissione
inibiscono la continuazione dell’attacco. Questi moduli di comportamento “similmorali” in questi
animali sono innati. Gli uomini piangono e si lamentano in modi che, pur nelle diverse culture,
sono identici. Muovono a compassione il mostrarsi abbandonato, debole ed il comportarsi in modo
infantile. Il nostro segnale più importante di amicizia è il sorriso e con questo modulo
comportamentale innato siamo in condizione di amicarci persone sconosciute. Un sorriso disarma.
Le caratteristiche infantili hanno di per sé un’azione acquietante. Possiamo ottenere
l’acquietamento con pochi segnali e in pochi secondi, è sorprendente quanto presto si possa
placare una persona infuriata in modo violento con un sorriso, con un comportamento sottomesso.
Gli appelli che muovono a compassione e acquietano non bastano però sempre ad impedire
l’uccisione di un congenere e sorge il problema del perchè ciò avvenga. Lorenz pensa che
solamente nei confronti degli uomini a noi noti siamo inibiti nell’aggressione. Un sentimento di
amore e di amicizia ci legherebbe solamente con singoli individui. Verso gli estranei siamo meno
inibiti e meno tolleranti, è una predisposizione innata che condividiamo con quei mammiferi che
formano associazioni esclusive cui appartengono anche scimmie del Vecchio Mondo. Ma presso
questi animali lo scontro aggressivo non porta di norma all’uccisione. Nessun osservatore ha
descritto un antropomorfo che, in libertà, ne uccidesse un altro. Nell’uomo le cose vanno in modo
diverso. Premessa all’efficacia di gesti acquietanti di sottomissione è che chi viene attaccato abbia
tempo sufficiente a trasmettere il segnale e che l’avversario lo possa percepire. Questa premessa
non c’è quando degli uomini si precipitano l’uno sull’altro armati. Troviamo infatti i primi crani
lesi con la comparsa delle prime armi. Le nostre inibizioni innate dell’aggressività sono intonate
alle nostre strutture biologiche, quando gli uomini si aggrediscono con le mani nude, l’uno può
sottomettersi suscitando compassione. Con l’invenzione della prima arma, la situazione è cambiata
e possiamo dedurre che allora l’uomo si sia trovato in uno stato di crisi simile a quello nostro
nell’era atomica. Ai nostri antenati riuscì di adattarsi, ma ogni nuova arma pose sempre loro il
problema di inventare controlli culturali nuovi. Lo sviluppo di regole cavalleresche di
comportamento è proceduto sempre a stento dietro a quello della tecnologia delle armi.
Un’arma permette di uccidere rapidamente a distanza, il tiratore non è consapevole di stare per
uccidere un congenere, mira solo ad una macchia che si staglia nel paesaggio e deve solamente
piegare un dito. Che ciò abbia conseguenze disastrose per un altro uomo non può non influire sul
suo sentimento e se si volesse esigere da un pilota di un bombardiere di uccidere singole persone,
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egli sarebbe sconvolto da un tale pensiero. Lo sviluppo della tecnica ha superato le nostre
inibizioni innate.
Probabilmente ancora più gravemente della invenzione delle armi, pesa la capacità che ha l’uomo
di degradare l’avversario, grazie all’intelletto gli uomini possono convincersi che l’avversario non
è un uomo, ma un animale, un bruto pericoloso, e non sarebbe solo lecito, ma doveroso ucciderlo.
Una ricerca su fumetti di guerra americani ha fatto risultare che persino le grida di morte e di
terrore degli Americani erano presentate come diverse da quelle degli avversari. Inoltre, affinché il
guerriero, attraverso il contatto con il nemico, non possa accorgersi che questi è un uomo come lui,
vengono emanate leggi severe per impedire la fraternizzazione per reprimere ogni rapporto col
nemico anche dopo la sua resa. Se l’uomo non fosse disponibile al contatto e, fino ad un certo
grado inibito nell’attaccare ogni congenere, sarebbe inutile un apparato così potente per la
propaganda di guerra. Si desume che basti riconoscere che anche gli altri sono uomini per inibire
la disponibilità all’attacco e risvegliare la disponibilità a stabilire legami. Pertanto un rapporto
individualizzato non è assolutamente unica premessa dell’inibizione dell’aggressività, benché la
promuova notevolmente. Il danno prodotto dalla degradazione dell’avversario non è solo nel
marchiarlo come un bruto, ma nel risvegliare la paura e la sfiducia e la paura sbarra le porte. I
popoli primitivi spesso sono aggressivi verso gli estranei solo per paura. Anche di fronte ad ignoti
l’uomo è dotato di inibizioni dell’aggressività, finchè non innalzi barriere che impediscano i
contatti e non impieghi armi che lo distanzino dall’avversario al punto da impedirgli di prendere
atto delle sue reazioni umane. Dei fattori addotti che permettono all’uomo di superare le inibizioni
innate, forse quello che consiste nella capacità di degradare i congeneri è il più pericoloso. E’
questa capacità di mettere la compassione fuori circuito che rende l’uomo un assassino a sangue
freddo.
La lealtà e l’ubbidienza
L’attitudine a provare compassione è innata in noi, però è ancora poco certo quanto altri
comportamenti fondamentali etici siano determinati da adattamenti filogenetici. Colpisce il fatto
che certe virtù hanno valore al di là della cerchia di ogni singola cultura, come ad esempio il
coraggio, la fedeltà all’amico, la disponibilità al sacrificio e l’ubbidienza. Fatti simili possono
essere sviluppi culturali paralleli, ma per quanto riguarda l’ubbidienza all’autorità, si dispone di
una indagine sperimentale che dimostra come questa predisposizione sia innata nell’uomo.
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L’ubbidienza all’autorità era ed è in diverse culture un valore etico. Ancora oggi, ordini spirituali
chiedono la cieca sottomissione. Ancora oggi, il fatto che Abramo fosse pronto ad uccidere il
figlio, sovrasta come simbolo terribile la nostra cultura occidentale. L’atteggiamento di cieca
obbedienza all’autorità d’altra parte, viene sempre più respinto, l’ubbidienza è giustificata solo
dalla ragionevolezza, ma anche presso culture che sostengono questo ideale, la prontezza ad
ubbidire può in particolari condizioni confliggere con la compassione.
La disponibilità all’ubbidienza è una inclinazione umana pericolosa, è anche essa, come la
disponibilità a subordinarsi, un valore etico, ma può portare l’uomo a divenire uno strumento privo
di volontà propria. Si deve essere consci, se si vuole reagire.
Un’altra predisposizione è quella alla fedeltà di gruppo di cui si fa spesso un cattivo uso. Che si
soccorrano gli amici e si sia leali verso il proprio gruppo è un fatto positivo. Lorenz descrive come
gli uomini in caso di pericolo dall’esterno, si schierino a fianco dei membri del loro gruppo fino al
sacrificio della vita, sacrificio che è accompagnato dall’emozione dell’ “entusiasmo” e da moduli
motori arcaici concomitanti. La pulsione all’assistenza viene sfruttata, ogni dittatura sa come
attivare il comportamento di assistenza agitando falsamente l’ombra di un pericolo, come ottenere
l’unità del gruppo, la cui aggressività si rivolge contro il nemico. Non dovremmo cedere a tutte le
inclinazioni che sono innate in noi, e ciò vale soprattutto per l’obbedienza e la lealtà, infatti tutte e
due queste predisposizioni si prestano ad abuso da parte di demagoghi, e pertanto rivestono valore
etico solamente a certe condizioni. Esse sono meno valutabili delle inclinazioni innate che
antagonizzano l’aggressività.
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GLI ANTAGONISTI DELL’AGGRESSIVITA’
Riti che fondano un legame e pulsioni sociative
Il fatto che un gruppo di animali si stringa in una consociazione presuppone non solo l’esistenza di
moduli comportamentali che fondano un legame e sono quindi acquietanti l’aggressività, ma anche
un’appetizione del singolo animale alla vicinanza del congenere e quindi la necessità di cercare e
mantenere la vicinanza. La ricerca di protezione è uno dei motivi potenti del collegamento ai
congeneri, forse uno dei più antichi. I vertebrati superiori cercano rifugio prima di tutto presso la
madre, e ciò vale per i polli come per gli uomini. Il congenere diventa la meta della fuga, la sua
vicinanza significa un sicuro riparo, è per questo che il rafforzamento del legame con un membro
del gruppo si realizza tramite una motivazione ansiosa.
Anche nell’uomo, la paura rafforza i legami di gruppo. Probabilmente il legame tramite la
pulsione alla fuga è molto antico. Il vincolo che unisce il bambino alla madre dovrebbe essere
motivato in origine così, si tratta di un legame istintivo, e non acquisito tramite la cura alimentare
come viene a volte affermato. I bambini che crescono in nidi di infanzia si stringono ai coetanei e
cercano una protezione reciproca anche se non si nutrono mai l’un l’altro. Il bambino, per la madre
non rappresenta il congenere ma un oggetto di assistenza. In tutti i vertebrati, i piccoli trasmettono
alcuni segnali che scatenano l’assistenza e che possono essere olfattivi, acustici o ottici.
Konrad Lorenz pensa che l’amicizia, il collegamento di individui in una comunità di difesa, sia
stato il punto di inizio dello sviluppo di rapporti individualizzati. Egli scrive: “Il legame personale,
l’amore, è sorto in molti casi, dall’aggressività intraspecifica e tramite la ritualizzazione di un
attacco o di una minaccia nuovamente orientati”. Tale spiegazione si basa sull’osservazione che
presso molti animali, i moduli comportamentali della minaccia rafforzano il legame fra i partner e
vengono impiegati come riti di saluto. Le oche cenerine accoppiate si salutano con il “grido di
trionfo”, durante il quale i due colli, l’uno accanto all’altro, compiono un gesto come di minaccia,
nel senso che si minaccia in comune un terzo, e questo unisce i due partner. Ma questo rito
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aggressivo ha acquisito la capacità di fondare legami, di tenere insieme gruppi di individui che si
conoscono.
Queste osservazioni sulle oche cenerine portano Lorenz a dedurre che l’amore sia figlio
dell’aggressività e a suo parere la testimonianza è anche il fatto che l’aggressività intraspecifica è
più antica di milioni di anni dell’amicizia personale e dell’amore.
Si può affermare che esiste l’aggressività intraspecifica senza il suo antagonista che è l’amore, ma
non esiste amore senza aggressività. Si può anche constatare che se è vero che non esiste amicizia
senza aggressività, non esiste amicizia senza cura della prole, a parte rare eccezioni. Non si
conoscono casi di animali che si siano collegati solo tramite l’aggressività, senza
contemporaneamente presentare la cura della prole.
Come il fatto che l’efficacia di un saluto-minaccia, presso gli animali postula sempre un legame,
sembra indicare che l’amore non è in primo luogo figlio dell’aggressività, ma nato insieme allo
sviluppo della cura della prole, che ne richiede la difesa. E poiché il gruppo può essere considerato
come una famiglia allargata, la difesa di gruppo deriva dalla difesa della prole e della famiglia.
La cura della prole condiziona la partnership individuale e l’assistenza individualizzata ai piccoli,
offrendo le premesse per una vita sociale differenziata.
Una forte motivazione della ricerca del contatto risulta dalla pulsione sessuale, antica quanto
l’aggressività.
Bisogna chiedersi se possa costituirsi un legame duraturo con i congeneri anche tramite la pulsione
sessuale. Si nota che ciò si verifica più raramente di quello che ci si attenderebbe, e una di queste
eccezioni è l’uomo.
Gli animali sociali utilizzano riti tratti dal repertorio sessuale in funzione di acquietamento, ma un
legame duraturo attraverso la pulsione sessuale viene costituito solo presso l’uomo e alcune
scimmie, ed è stato sviluppato secondariamente al rafforzamento del legame.
La pulsione sessuale pertanto è raramente un mezzo usato per ottenere il legame, ma appunto
presso noi uomini compete a questa pulsione una funzione importante, benché sia una delle più
antiche pulsioni, non ha dato avvio allo sviluppo di legami individualizzati duraturi, tranne rare
eccezioni. L’amore non si radica nella sessualità, ma si serve di essa per un rafforzamento
secondario del legame.
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I LEGAMI TRA GLI UOMINI
Appello all’assistenza e appello infantile nel comportamento umano
L’abitudine di fondare un’amicizia con doni alimentari è una cosa che già i bambini di un anno
tentano di fare e tale comportamento è così regolare che si tende a considerarlo fondato su una
base innata. Porgere doni alimentari, nell’uomo ha indubbiamente una funzione di fondazione del
legame e di acquietamento dell’aggressività. Il pasto comune fonda presso molti popoli primitivi,
un legame di amicizia, e ciò è utilizzato in molti riti sociativi.
In relazione ai riti di saluto ci sono esempi di genere ritualcomparativo. Si può stabilire che i riti
derivati dall’alimentazione della prole sono stati adottati per fondare legami, bacio e dono sono le
forme ritualizzate più diffuse di operazioni alimentari.
In ogni cultura è comune l’accarezzarsi, in tal modo si consolano i bambini e gli adulti amici che
sentano pena. Altro atteggiamento diffuso della consolazione e dell’acquietamento è l’abbraccio.
E’ facile riconoscerlo come atteggiamento protettivo materno ritualizzato ad atteggiamento
consolatorio e di saluto, ed ha importanza anche nei preludi erotici.
Come si è constatato, molti moduli comportamentali che si consideravano sessuali, come le
carezza o i baci, sono per la loro origine operazioni della cura parentale. La cura parentale
ritualizzata si esprime anche verbalmente, assicurazioni di protezione e espressioni acquietanti
appartengono al repertorio dei dialoghi teneri, un repertorio che sembra essere programmato
tramite adattamenti filogenetici. Il vocabolario cambia di cultura in cultura, ma ciò che viene detto
dovrebbe essere stereotipico. Nell’uomo, la conversazione viene coltivata in funzione di rituale
sociativo. La conversazione comporta l’informazione sociale che ci si interessa al partner e a
quello che lo riguarda. Morris ha definito questo genere di conversazioni “conversazioni di
pulizia”, perché la loro funzione è costituire un contatto amichevole. Queste conversazioni
affondano probabilmente le loro radici nel rapporto madre-figlio, con precisione in quelle
conversazioni semplici che hanno come scopo il sentire la voce l’uno dell’altro.
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L’adulto si comporta in certe situazioni come se fosse un bambino. Questi fenomeni regressivi
appartengono al normale repertorio etologico degli animali, e anche nell’uomo, quando ha
necessità di appoggio si scatena un comportamento tenero, cade nel ruolo infantile. Tali
regressioni non sono patologiche, di patologia si può parlare solamente nel caso in cui l’individuo
non riesca più ad uscire da quel ruolo.
Il legame sessuale
Si può stabilire che per quanto riguarda l’uomo, la natura ha sfruttato tutte le possibilità di fondare
e rafforzare il legame. Oltre ai già menzionati meccanismi sociativi per l’unione eterosessuale ha
sfruttato fortemente il comportamento sessuale. La necessità di dare fondo a questa possibilità si è
proposta a causa del lungo sviluppo giovanile dell’uomo. Fino al quattordicesimo anno i bambini
debbono essere assistiti, e nei primi anni sono dipendenti dalle cure materne. La madre a sua volta
ha necessità di un parziale sgravio di lavoro da parte dell’uomo, in relazione al reperimento del
cibo e per la protezione, deve pertanto legare emozionalmente l’uomo a sé per lungo tempo. A
questo scopo si presta l’istinto sessuale. Sulla base dell’adempimento di un desiderio istintuale, un
legame può rafforzarsi, ma ciò presuppone che la donna sia in grado di poter soddisfare, per la
maggior parte del tempo, i desideri istintuali dell’uomo, il che richiede nuovi adattamenti
fisiologici nella donna. Nella maggior parte dei mammiferi, disponibilità all’accoppiamento ed al
concepimento cadono, insieme, nei pochi giorni fecondi del periodo di calore. L’amplesso nei
mammiferi è quasi sempre al servizio della procreazione. Affinché potesse conservare, nell’uomo,
la funzione inerente all’unione dei partner, era necessario che fosse liberato dalla rigida
dipendenza dal ciclo della fertilità. Per una serie di particolarità fisiologiche, la donna è in grado di
soddisfare il desiderio istintuale dell’uomo anche al di fuori dei giorni fecondi, è pronta al rapporto
sessuale per propria inclinazione e lega a sé l’uomo tramite la gratificazione sessuale.
Nello studio di ciò che secondo regole in noi innate, guida il nostro comportamento sessuale,
incontriamo il tabù dell’incesto. Le relazioni sessuali sono permesse, entro il nucleo familiare, solo
fra coniugi ed a questo nessuna cultura fa eccezione. Negli animali quei meccanismi che
impediscono l’incesto non sono necessari perché la loro maggiore mobilità provvede ad una
mescidazione sufficiente all’interno della popolazione. La famiglia si disperde al divezzamento dei
giovani e poiché non si resta insieme, lo scambio genetico all’interno della popolazione è
assicurato. Solo dove il vincolo familiare è molto sviluppato esiste il pericolo di unioni
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consanguinee regolari, e in questi casi troviamo anche un’inibizione innata ad accoppiarsi con
genitori o fratelli.
La comunità di lotta
L’aggressività ridestata contro un nemico comune ha un valore sociativo, l’uomo forma una
comunità di lotta e solo negli animali dotati di cura parentale si formano comunità di lotta che
comportano il soccorso reciproco. L’aggressività diviene un coesivo di gruppo in via secondaria,
passando per la difesa della prole e, in questa forma, lega anche molti primati sociali. Come
primati viventi in gruppi chiusi, noi tendiamo a stringerci l’uno all’altro in caso di pericolo, la
difesa o l’aggressione comune fondano un legame forte. Persino i ritualizzati giochi agonistici
(calcio e simili) uniscono i gruppi. Inoltre è interessante notare come i simboli che servono alla
coesione di un gruppo anonimo siano di natura aggressiva. Armi araldiche che portano animali da
preda e bellicosi, come l’orso, il leone, il gallo, il lupo e l’aquila, monumenti commemorativi di
vittorie e della liberazione di nazioni giovani.
La simbolica dell’aggressività ha una parte importante anche nel comportamento di saluto
dell’uomo. Accanto al saluto minaccioso, come dimostrazione della propria forza, vediamo
atteggiamenti di saluto-minaccia che esprimono la disponibilità ad un combattimento comune
come il saluto a pugno chiuso. Una forma di minaccia sociativa e ritualizzata, il riso, è innata e
questo movimento espressivo è nato probabilmente da un comportamento che definiamo “odio”.
Molti animali sociali minacciano un estraneo o un congenere in comune, e molte scimmie che
vivono in gruppo lo fanno, mostrando i denti ed emettendo versi di minaccia. Tutti e due questi
elementi sono contenuti nel nostro riso, che indubbiamente è molto motivato in senso aggressivo.
Si ride di qualcuno, si deride qualcuno, e tutto questo lo si fa volentieri in comune con altri. Chi
ride insieme ad altri si sente collegato ad essi tramite questo “odio” ritualizzato. Per legare un
gruppo tramite l’aggressività, si utilizzano spesso capri espiatori, essi vengono coscientemente
individuati con lo scopo di rafforzare una consociazione nuova.
L’identificazione attraverso l’aggressività è pericolosa per il suo forte impegno emozionale.
Spesso difendiamo in nostri ideali con un impegno simile a quello con cui proteggiamo i nostri
figli e, in un certo modo, gli ideali sono davvero i figli del nostro spirito.
Catastrofi naturali e altri avvenimenti unificano l’uomo in opere comuni, ed è dimostrata la
capacità umana di coesione costruttiva. E’ interessante notare che gli individui di sesso maschile
sembrano in modo particolare essere dotati emozionalmente per tali coesioni. I maschi mostrano
inclinazione a stringersi ai congeneri escludendo la donna. Probabilmente questa capacità di
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amicizia maschile si è sviluppata dalla necessità di cacce e combattimenti comunitari. Questa
inclinazione, ancora oggi vive nel club, nelle bevute in comune e nelle società segrete. Il legame di
amicizia è fortemente colorito di emotività, ma non di genere sessuale, e viene rafforzato da
avventure vissute insieme, come appunto la caccia e il combattimento, ma a ciò è pertinente anche
la bevuta e la mangiata in comune, da cui si può notare quanto siano profonde le radici della
socialità.
Collegamento tramite la paura
Un animale giovane fugge verso la madre quando si sente minacciato, gli adulti fuggono l’uno
verso l’altro quando si sentono inquieti. La paura ha efficacia sociativa in due modi: 1) con
l’attivazione della fuga di un individuo verso l’altro; 2) con lo scatenamento dell’aggressività
collettiva. Il legame acquisito attraverso la paura è forse il più antico presso i vertebrati. La paura è
restata una forza sociativa che viene spesso sfruttata da uomini politici, e capi religiosi. Gli uomini
politici agitano la paura per i nemici e per il caos, perché l’ordine ci dà un sentimento di essere
orientati, e perciò di sicurezza.
Tramite la paura viene indotto un rapporto genitori-figlio, nel quale il superiore in rango si
comporta paternamente, l’inferiore in modo infantilmente dipendente. La sociazione ansiosa ha
molta importanza nella religione cristiana. Con il concetto di peccato originale e la minaccia di
dannazione eterna si uniscono gli uomini al dio padre. La sociazione tramite il terrore è infine una
strategia dei tiranni, gli uomini si sottomettono a un capo crudele e gli prestano fedeltà e
devozione.
Il saluto
Compito del saluto è fondare un legame o mantenerlo e di acquietare l’aggressività. Al complesso
del comportamento del saluto, appartiene anche il congedo, con il quale si rafforza il rapporto per
il futuro con riti amichevoli. L’acquietamento è un’altra funzione di questo comportamento. Chi
prende congedo viene a trovarsi dal momento della partenza, in una posizione malsicura, non è in
grado di tenere d’occhio il partner che potrebbe accusarlo ad esempio di qualche cosa.
Nella vita dell’uomo il significato di acquietamento che compete al saluto è evidente. Se non si
saluta, si scatena l’aggressività persino nella cerchia familiare, mentre un gesto o una parola
amichevole di saluto può allentare una tensione. La risposta al saluto è una conferma importante
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della disponibilità al contatto e comporta un impegno, perciò un saluto restituito è garanzia di
sicurezza.
Si è già detto che il sorriso ha una funzione di acquietamento. Un sorriso disarma. Dato che nel
sorridere si mostrano i denti si è supposto che si tratti di un movimento di minaccia ritualizzato
che, durante l’evoluzione, abbia invertito il suo significato in quello opposto.
Il saluto oculare, rapido sollevamento delle sopracciglia ricorre presso i più diversi popoli, si tratta
di un segno amichevole e costituisce una ritualizzazione dell’espressione di lieta sorpresa. Quando
siamo sorpresi alziamo le sopracciglia, fatto che da un lato è stato ritualizzato a minaccia, esempio
un’occhiata di ammonimento nella quale le sopracciglia restano sollevate e lo sguardo fissa un
eventuale colpevole, dall’altro lato, il saluto oculare invece è stato ritualizzato in segno
amichevole. Le sopracciglia vengono alzate solo brevemente, inviando un segnale di
riconoscimento e sorpresa. Manca la fissità minacciosa dello sguardo ed il sorriso dice che ci si
rallegra di vedere l’altra persona.
L’accennare col capo non è nato solo dalla situazione di saluto, ma anche come gesto di assenso.
Secondo la sua origine, l’accennare col capo è un inchino ritualizzato a gesto, quindi un gesto di
sottomissione.
Forme meno ritualizzate della sottomissione sono l’inchino, il cadere in ginocchio, il prostrarsi ai
piedi di qualcuno. L’inchino si trova presso di noi come saluto più devoto.
Dal cenno del capo fino alla prostrazione si trovano tutti i gradi di trapasso della sottomissione, e il
comportamento si conforma a quello osservato in altri vertebrati. Ci si fa piccoli, la qual cosa è
l’antitesi dell’atteggiamento di imposizione e minaccia.
Nel comportamento di saluto dell’uomo rientra il levarsi il cappello ed i guanti. La loro origine
deriva dal fatto che un tempo, salutando, ci si toglieva la copertura protettiva del capo, l’elmo, così
ci si privava della propria protezione, e questa prova di fiducia è diventata il gesto comune ancora
oggi. La stessa cosa vale per i guanti, che, nel medioevo, erano di ferro, e proteggevano chi
combatteva, questo spiega perché tale usanza riguarda solo gli uomini e non le donne.
La stretta di mano esiste nelle aree culturali più diverse, ed il gesto, in primo luogo dovrebbe
fondarsi sul fatto che, quando aiutiamo i nostri bambini, porgiamo loro la mano, pertanto dare e
prendere la mano sembra essere una ritualizzazione di un’operazione alimentare, invece di cibo, si
regala contatto somatico che tranquillizza e gratifica. Nel dare la mano sono implicati altri
elementi, infatti non ci limitiamo a porgere solamente la mano per un tocco, ma spesso
avvolgiamo con essa quella del partner, la premiamo e la scuotiamo e anche questo
comportamento lo possiamo osservare con varianti presso altri popoli. In questa forma della presa
di contatto si nasconde una dimostrazione di forza, spesso il premere e scuotere la mano è una
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specie di duello. Elementi aggressivi sono contenuti in molti riti di saluto umano e sono descritti
come “saluto guerriero”. Sono dimostrazioni di capacità bellica con le quali da un lato si cerca di
acquisire rispetto, dall’altro si esprime che non si nutre alcuna cattiva intenzione. Dimostrazioni
aggressive del genere, tuttavia, riguardano quasi esclusivamente il saluto maschile, in quanto sono
gli uomini a sentire maggiormente l’inclinazione a fondare una comunità di lotta.
Forse quasi ovunque è d’uso invitare forestieri a prendere parte ai pasti o ad inviare loro in regalo
generi alimentari. Presso i popoli più diversi si offrono agli ospiti generi alimentari e doni come
saluto. Anche il commercio è spesso uno strumento per allacciare legami d’amicizia fra individui o
tribù, e questo è più importante dello scambio di merci in sé. La ritualizzazione più spinta del
regalo si verifica quando auguriamo bene al nostro prossimo. L’augurio è un dono verbale che si
può esprimere a voce o spedire per posta.
I moduli comportamentali osservabili nei riti di saluto, emergono spesso nei riti religiosi. Con
spiriti e divinità ci si comporta come se fossero di specie umana, li si nutre con alimenti vari, si
offrono fiori e incensi, ci si inchina davanti a loro. Anche il pasto comune ha grande importanza
nei riti religiosi di molti popoli. L’ultima cena di Cristo fondò simbolicamente, al momento del
congedo, il legame per il futuro.
Le feste sono intese a rinsaldare un’alleanza tra gli uomini esistono presso diversi popoli e sono
connesse con una esibizione di forza e imbandigioni. Gare sportive sono spesso parte integrante
delle feste e servono alla derivazione rituale dell’aggressività. La dimostrazione del proprio valore
porta spesso ad aberrazioni. Ospitanti e ospitati cercano a volte di sopraffarsi vicenda. Lo
sviluppo più degenerativo si aveva nelle feste degli indiani Kwaikiutl dell’isola di Vancouver nel
Nordamerica, cioè in quelle feste chiamate potlatch che rappresentavano una dimostrazione della
propria superiorità davanti agli invitati. Si cercava di soverchiare gli ospiti, li si ospitava con
grande dispendio, si gettava olio sul fuoco, si incendiavano canoe, si uccidevano schiavi e si
rompevano preziosi piatti di rame. Gli sfidati dovevano a loro volta contraccambiare, per non
perdere di dignità. La festa rivela, in questo caso, un carattere aggressivo, è divenuta una valvola
di sicurezza, un torneo per derivare l’aggressività. Dare un potlatch non rappresentava solo un
accrescimento di sé, ma anche una dimostrazione di rispetto per gli ospiti, e pertanto non suscita
solo rivalità, ma anche reciproca riconoscenza. Questo tipo di festa, a volte, con l’escaletion dei
“rilanci” reciproci, porta a dei dissidi, ma il più delle volte resta il carattere “sportivo”, infatti, di
volta in volta, nel gruppo si conferma la coesione tramite la dimostrazione di potenza. In fondo
l’elemento aggressivo dell’ostentazione è presente in ogni cocktail party, in ogni ricevimento
ufficiale e nei Giochi Olimpici. In queste occasioni, come nel potlatch l’ospite cerca di superare i
suoi predecessori.
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Nelle feste di gruppi familiari, la componente di imposizione recede, si fanno regali per battesimi,
matrimoni, compleanni, a Natale ed in altre occasioni. La componente competitiva è comunque
presente anche in queste feste familiari, da noi, specialmente nelle feste natalizie, ma non per
questo si possono ignorare i lati positivi di tali feste che servono alla fraternizzazione. Di valore
dubbio sono solo le festività nazionali che esaltano avvenimenti aggressivi e uniscono un gruppo
tramite l’antagonismo con un altro gruppo. Seminano diffidenza, risvegliano la paura e pertanto
possono incitare all’odio e all’intolleranza.
CONSOCIAZIONE INDIVIDUALIZZATA E COMUNITA’ ANONIMA
Presso i popoli primitivi, che vivono in piccoli gruppi, e fra noi, ancora oggi nei piccoli villaggi di
montagna, gli abitanti si conoscono, i forestieri vengono respinti, spesso combattuti, nel caso
migliore sono tollerati.
Dentro le consociazioni individualizzate domina la confidenza, ma questo non significa che in
esse non si dia aggressività interna, anche se questa viene neutralizzata dalla competitività e
dall’aspirazione al rango. Inoltre, poiché il legame della conoscenza personale è acquietante, gli
scontri all’interno di un gruppo raramente raggiungono intensità minacciose.
Con lo sviluppo della civiltà, le consociazioni individualizzate, nelle città e nelle comunità tribali,
si trasformarono in comunità anonime. In una città non era possibile che tutti si conoscessero e
d’altra parte non ci si poteva segregare dagli estranei come avveniva prima. L’uomo dovette
imparare a convivere con estranei, con tutta una serie di problemi conseguenti. Si sa che il legame
della conoscenza personale acquieta l’aggressività. In comunità piccole non disturba che qualcuno
appaia in abbigliamento bellicoso, gli uomini possono portare armi, ognuno può dimostrare la
propria capacità di lotta e se gli individui non fossero legati da amicizia, si scatenerebbe una
controaggressività, invece la minaccia è fatta in nome della comunità cui ci si sente collegati.
L’aggressività è orientata contro gli estranei al gruppo, verso l’esterno.
Nelle consociazioni anonime invece ogni atteggiamento di imposizione scatena aggressività che
non viene acquietata dal legame della conoscenza personale. Tutto questo disturberebbe la
convivenza, si nota infatti che l’uomo ne tiene conto e adattandosi alla società di massa elimina gli
atteggiamenti di imposizione maschile. In ogni civiltà si osserva un processo di opacamento
dell’aspetto dell’uomo, il suo abito diviene semplice, gli ornamenti ridotti, le armi deposte e un
atteggiamento spavaldo è soggetto al disprezzo sociale. Il disprezzo dell’imposizione individuale
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comporta frustrazioni per il singolo, è infatti frequente la ribellione dei giovani che assumono un
atteggiamento esasperatamente individualistico. L’unione di uomini si realizza in consociazioni
anonime tramite simboli e interessi comuni, entrano in azione gli stessi meccanismi sociativi che
agiscono nella famiglia. Congeneri ignoti diventano “fratelli”, il capo dello Stato “padre della
patria”. Le feste popolari, come quelle di fraternizzazione sono organizzate sul modello delle feste
familiari. Nelle festività nazionali si accentua di più la forza sociativa dell’aggressività.
Nelle comunità anonime si viene adottati più facilmente che nelle comunità individualizzate.
L’esclusività non è insuperabile, l’uomo tramite interessi comuni, può sentirsi legato a tutta
l’umanità e questo sentimento di unione cresce col crescere delle possibilità di comunicare.
I demagoghi cercano di costruire falsi scopi di ostilità e di degradare gli avversari per distogliere
l’attenzione dalle difficoltà interne. Ma la degradazione dell’avversario diviene più difficile dal
momento in cui è sempre più difficile erigere barriere alla comunicazione. L’ideologizzazione
dello ‘schema del nemico’ crea sfiducia mortale e rafforza la coesione di gruppo tramite
l’antagonismo con gli altri e la paura, mentre gli strumenti di comunicazione e l’aumento dei
contatti personali tra uomini e ideologie diverse, aiutano ad eliminare la sfiducia.
L’ideologizzazione è espressione della nostra tendenza a formare gruppi chiusi, mentre dobbiamo
dare maggior peso alle forze sociative.
In una consociazione anonima ci sentiamo meno legati ai congeneri a noi ignoti rispetto a quelli
che conosciamo: Ci sentiamo meno ‘obbligati’ verso gli estranei e gli scontri sono più duri, cosa
che appare chiaramente nelle lotte per le posizioni di rango, ad esempio si cerca di acquistare
elettori facendosi passare per persone affabili, paterne e, pur sapendo che è un inganno, è tuttavia
difficile da scoprire in comunità anonime.
La persona aggressiva e priva di scrupoli sa bene mimetizzare le proprie carenze sociali, ha, nella
comunità anonima possibilità maggiori di giungere a posizioni elevate di quante ne abbia nelle
comunità individualizzate. La tendenza alla corruzione è maggiore nelle comunità anonime
rispetto a quelle individualizzate.
Conseguenza dell’atteggiamento critico dell’uomo moderno è la minore disponibilità a
riconoscere l’autorità. Coloro che la rappresentano non sono più sicuri del proprio ruolo, il loro
sapere invecchia più rapidamente delle loro possibilità di aggiornarsi, hanno meno da offrire ai
giovani di quanto un tempo avessero i loro padri, e la carenza di direzione incoraggia
l’aggressività. Poiché esiste un bisogno dell’autorità, si cercano dei surrogati il più possibile
lontani o già defunti e pertanto facilmente idealizzabili.
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LA COMUNICAZIONE ED IL SUO SIGNIFICATO
Comunicazione
L’attività dell’uomo, al di là di quella manuale, è attività di relazione. Relazione con se stesso,
quando pensa o ragiona. Relazione con gli altri quando parla e scrive. Relazione per gli altri
quando dipinge, disegna, canta suona.
L’uomo è coinvolto in un processo associativo e deve comunicare con gli altri uomini, senza la
comunicazione non possono esistere né associazione né relazione
Comunicare vuol dire trasmettere delle informazioni per mezzo di messaggi utilizzando un codice
che è fatto di segnali o segni e tutti gli esseri viventi comunicano attraverso dei segni. Il
linguaggio è l’insieme dei segni organizzato in un sistema.
Il linguaggio verbale è il mezzo più diretto di comunicazione, è il modo più usato con il quale
l’uomo riesce a rendere intelligibile ad altri il proprio pensiero e gli permette di socializzarsi..
Quindi comunicare significa far capire ad altri il nostro messaggio attraverso parole, immagini e
gesti. Obiettivo della comunicazione è far recepire un messaggio all’interlocutore affinché
intraprenda un’azione o sia sensibilizzato ad un certo comportamento.
Espressione verbale
La comunicazione è trasmissione di un messaggio, l’espressione vuol dire scegliere e usare un
codice (linguaggio) e un canale di emissione (orale, scritto, gestuale, sonoro, visivo).
L’espressione è la forma in cui si manifesta la comunicazione, è il modo di rendere visibile quel
messaggio, che è il prodotto del processo di formazione della comunicazione.
Il processo di comunicazione può essere identificato da uno schema di telecomunicazioni, in cui
un individuo “emittente” vuole trasmettere un’idea ad un individuo “ricevente”.
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L’EMITTENTE elabora il messaggio (pensa) – lo codifica (usa un linguaggio) – lo emette
attraverso certi canali (parla).
Il RICEVENTE riceve il messaggio (ascolta) – lo codifica (lo interpreta) – ne prende conoscenza
(ci ragiona).
La qualità della ricezione del messaggio trasmesso dipende dalla distanza tra l’emittente e il
ricevente e la distanza può provocare fenomeni di distorsione tra l’intenzione dell’emittente del
messaggio e la sua corretta comprensione da parte del ricevente.
I fattori che influenzano sul piano quali-quantitativo l’emissione e la ricezione dei messaggi
possono essere:
TECNICI cioè conoscenza del codice (linguaggio adottato), sensibilità grammaticale, pronuncia
ed articolazione, mobilità mentale ovvero mobilità di pensiero, e mobilità orale ovvero velocità di
parola.
INTELLETUALI grado di acculturamento, capacità di ragionamento astratto, potenzialità di
ideazione, organizzazione del ragionamento.
SOCIALI differenza di classe, diverso livello gerarchico.
AMBIENTALI rumori, interruzioni.
Per diminuire l’effetto di distorsione occorre diminuire la distanza tra l’emittente ed il ricevente,
quindi non assumere un atteggiamento di superiorità, evitare tono ed atteggiamento di autorità,
adottare un linguaggio comprensibile dal ricevente, perfezionare pronuncia e articolazione,
formulare il messaggio in modo chiaro. Occorre organizzare il linguaggio in modo logico dando
concisione al discorso senza usare aggettivi in eccesso, mantenendosi in tema e adottare
espressioni di facilitazione (prego, per favore, grazie) e migliorare l’ambiente, in quanto se si
comunica in ambiente rumoroso o disturbato continuamente da interruzioni il processo di
comunicazione non viene mantenuto
Il fenomeno del bloccaggio nella comunicazione, cioè l’impossibilità nell’esprimersi si avrà
quando non si conosce sufficientemente una lingua o un gergo e non ci si esprime in modo
efficace, quando non si conoscono le regole grammaticali (per una lingua) o il sistema che correla
i segni (linguaggio musicale), esprimersi con esso diventa un balbettio, o quando è presente
l’incapacità di formulare un ragionamento astratto, si mantiene l’espressione ad un livello
elementare, come quello dei primi anni dell’infanzia o dei ritardati mentali. Ci si esprimerà bene
quando saranno rimossi gli ostacoli tecnici e psico-intelletuali.
Esistono difetti di sviluppo intellettuale o fisici che impediscono di parlare e l’espressione non può
avere luogo, ugualmente accade quando ci si avvale della propria posizione gerarchica, sociale, del
proprio bagaglio culturale per imporre l’accettazione di un messaggio, in tal caso si provocherà
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diffidenza, opposizione e rifiuto da parte dell’interlocutore, lo stesso dicasi quando si comunica in
un ambiente rumoroso o disturbato da interruzioni che non consente di mantenere costante il
processo, ad esempio squilli di telefono o voci fuori campo.
Sviluppare le attitudini intellettuali all’espressione verbale, vuole dire:
- far generare le idee o solo risvegliarle e trovare le parole che le rappresentano, dando modo
all’individuo di potersi esprimere;
- sistemare le idee, cioè il pensiero, in un quadro logico di correlazione;
- dare concisione al discorso, attenendosi al concetto - base del tema ed evitando
barocchismi, preziosità e sbavature inutili
- collegare la forma alla dimensione relazionale dell’espressione, adottando un
atteggiamento favorevole alla comunicazione;
- cercare i mezzi logici che aiutino a far conoscere e a far comprendere qualcosa a qualcuno;
- riuscire a convincere qualcuno di un’opinione da noi espressa grazie alla forza delle tesi a
sostegno (argomenti);
- evidenziare quanto l’espressione è indivisibile dalla comunicazione, utilizzandola per
favorire l’obiettivo della comunicazione, che consiste nel trasmettere e nel far ricevere un
messaggio dato;
- evitare di trasformare l’espressione orale, che ha come scopo una comunicazione bilaterale,
cioè un dialogo, un colloquio, in un “recital” oratorio personale. Molte persone amano più
ascoltarsi che ascoltare, mentre la comunicazione, il cui mezzo è l’espressione, vuol dire
parlare per essere ascoltati, ascoltare per poi poter parlare.
Mettersi in situazione di comunicazione interpersonale significa aprirsi al “sociale”, svelar
qualcosa di noi stessi ad altri, sentirsi parte di un collettivo.
In una situazione di comunicazione, l’individuo non deve togliere all’altro la sua parte, in
quanto in questo caso, il processo che è sempre bilaterale, viene ad essere squilibrato e limita
l’efficacia nel quadro più ampio della comunicazione.
Se un individuo sa presentare un atteggiamento favorevole alla comunicazione, spiegare
qualcosa qualcuno, convincere qualcuno di un’opinione con degli argomenti, saper parlare ed
essere ascoltato, non solo è capace di integrare fattori tecnici e psico-intelletuali per produrre
una buona comunicazione,ma aiuta se stesso a superare ed a rimuovere quegli ostacoli psico-
emotivi, che spesso rappresentano le cause nascoste di bloccaggi nella comunicazione.
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E’ vero che quanto più un individuo si sente sicuro, delle proprie capacità razionali a trarsi
d’impaccio nelle diverse situazioni, tanto meno subisce il condizionamento di quella parte
oscura della psiche in cui sono registrate le sue paure e le sue debolezze. In quanto per la
complessità della natura psichica dell’uomo, tutto ciò che lo rassicura, lo apre al mondo, e
quindi alla comunicazione; tutto ciò che lo spaventa, lo allontana, quindi lo porta alla
incomunicabilità ed all’alienazione.
Se l’emittente vuole che il suo messaggio sia interpretato quantitativamente e qualitativamente,
da parte del destinatario, compreso qual è il livello di possibilità espressiva del ricevente, cioè
la “sua” conoscenza della lingua, la sua capacità di seguire l’impostazione logica di un
discorso, deve adottare il codice (o linguaggio) appropriato.
Parlare di linguaggio appropriato alla capacità di comprensione dell’interlocutore significa
dare un’interpretazione onnicomprensiva della parola codice.
Così parlare in dialetto, utilizzare un linguaggio professionale di uso ristretto, esprimersi in
gergo (tecnico, scientifico, sportivo), adottare un particolare tipo di linguaggio, significa usare
un certo tipo di codice.
Quando la scelta è dettata da criteri razionali e non da motivazioni affettive, dovrebbe fondarsi
sui seguenti criteri:
a) il linguaggio del destinatario, b) il linguaggio imposto dall’obiettivo a cui è volto il
messaggio, c) il linguaggio richiesto dalle circostanze nelle quali si comunica, cioè dal
contesto socio-culturale.
Pertanto, se esiste una codificazione di E (emittente) ed una decodificazione di R (ricevente),
E deve usare un codice comprensibile (cioè decodificabile) ad R in cui i “ segni abbiano lo
stesso significato per entrambi.
Processi psico-intellettuali generati dal rapporto di comunicazione.
Nel rapporto bilaterale della comunicazione si generano processi psico-intellettuali, che
trovano nel sistema di riferimento di ciascuno la loro matrice ideologica.
Se il sistema di riferimento dell’individuo è la “sua” cultura, cioè la somma dei valori, radicati
nella sua psiche per tradizione familiare, ambiente sociale, acquisizione di informazioni e di
nozioni, ed ideologia accettata o imposta, quando si vuole che uno scambio comunicativo sia
veramente aperto, si deve cercare di percepire il sistema di riferimento dell’”altro”, valutarne i
contenuti, operando una selezione di essi accettando quelli che non si oppongono radicalmente
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e scartando gli altri, che possono indurre ad un bloccaggio o ad un conflitto. Si tratta di cercare
i punti di contatto ed evitare quelli di attrito. Non si può chiedere a nessuno di rinunciare ai
valori in cui crede, ma poiché “la tendenza a valutare è il principale problema della
comunicazione, in quanto ciascuno è portato ad emetter giudizi di valore secondo uno schema
di riferimento personale su quanto è detto da altri” (C. Rogers, 1977), lo sforzo che l’individuo
deve fare quando vuole stabilire un rapporto di comunicazione con un altro, consiste nel
mediare tra il proprio sistema e quello dell’altro, astenendosi di trarre dal confronto giudizi
assoluti e irrevocabili.
La comunicazione può essere resa difficile non solo dalla volontà di nascondere o deformare
un’informazione per evitare una situazione conflittuale, ma anche dall’incapacità psicologica
di fornirla dovuta a vincoli intellettuali ed affettivi che hanno origine nel sistema di riferimento
individuale. Si possono trovare esempi di questo tipo di bloccaggio nella vita quotidiana, come
il rifiuto di accettare un confronto dialettico in politica con l’oppositore, o eludere una
spiegazione, ad un bambino, che crea disagio a un genitore o un insegnante.
Fuggire un problema, rifugiarsi nel dogma, erigersi a giudice, sono modi per impedire o
interrompere la comunicazione interumana.
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LA COMUNICAZIONE NON VERBALE
Ognuno di noi accompagna le proprie conversazioni con gesti, espressioni del viso e altri
segnali che concorrono a far cogliere al nostro interlocutore il significato che vogliamo
attribuire alle nostre parole. Anche parlando al telefono manteniamo questa pratica e spesso
possono essere provocati equivoci dall’impossibilità da parte dell’interlocutore di cogliere
questi importanti segnali. Non è un caso che tra gli utilizzatori della posta elettronica, mezzo di
comunicazione che permette scambi informali e veloci, ma che elimina anche la possibilità di
cogliere l’intonazione vocale, si è diffuso un sistema di segni convenzionali che traducono le
espressioni non verbali. Ad esempio la sequenza delle “emoticone”, (segni o faccine (:-) ),
avvisa l’interlocutore del fatto che ciò che si è scritto è da intendersi in modo scherzoso o
ironico.
Svariati tipi di comportamenti fanno parte di questo sistema di comunicazione non verbale
(CNV). E’ stato rilevato che le persone possono produrre circa 20.000 espressioni diverse del
viso e circa 1000 variazioni paralinguisitiche.
Questa varietà di segnali che accompagna l’interazione comunicativa può essere organizzata in
tre categorie: 1) i segnali paralinguistici 2) le espressioni del volto 3) il comportamento
spaziale.
1) Segnali paralinguistici. Sono quelli che produciamo con la voce nel pronunciare le parole.
Questi riguardano in primo luogo la qualità della voce: es. l’intonazione che si dà al discorso
modulando l’intensità, portando sottolineature o congiungendo tra loro diverse unità di
discorso. Anche le vocalizzazioni che vengono introdotte nel discorso contribuiscono a dargli
un preciso significato: il riso, il pianto, i sospiri, le pause forniscono all’interlocutore
informazioni utili su chi sta parlando e su ciò che vuole comunicare.
La paralinguistica riguarda pertanto il come qualcosa viene detto, quindi il tono della voce
e le sue variazioni, il ritmo, il volume, le esitazioni.
E’ la paralinguistica la responsabile del diverso significato che una parola può assumere,
nonostante presenti lo stesso contenuto verbale. Con il paralinguaggio è possibile contraddire il
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contenuto verbale, attraverso variazioni del timbro, dell’intonazione e del ritmo che indicano
spesso lo stato emozionale di chi comunica.
2) Espressioni del volto. Sono l’insieme dei segnali più importanti circa le emozioni e gli
atteggiamenti verso gli altri. Molti psicologi sono d’accordo nel riconoscere l’esistenza di un
certo numero di emozioni fra le altre (si parla in genere di sei emozioni di base: felicità,
sorpresa, tristezza, paura, disgusto e rabbia) alle quali sono associati determinati movimenti dei
muscoli facciali che provocano espressioni universalmente riconoscibili, quindi non
influenzate dal contesto culturale nel quale si manifestano. Al di là di queste emozioni di base,
esistono tuttavia regole di tipo culturale che riguardano il controllo della loro espressione nelle
varie situazioni: per esempio nella nostra cultura viene ritenuto naturale piangere ad un
funerale, e non altrettanto ad una festa.
In questa categoria si può classificare anche il contatto visivo. Molte informazioni passano
attraverso gli sguardi che le persone si scambiano, la prima delle quali è senza dubbio
l’interesse.
Le persone che hanno occasione di parlare in pubblico possono notare che dopo una breve
esplorazione della platea, lo sguardo dell’oratore finisce per indugiare in modo particolare su
quegli ascoltatori che gli mantengono il contatto visivo in modo più costante. Il contatto
visivo, manifestando l’interesse, finisce per essere gratificante e indurre atteggiamenti
amichevoli. Per lo stesso motivo alcuni di noi provano disagio quando si trovano a parlare con
qualcuno che indossa occhiali da sole molto scuri. La durata del contatto visivo ha però un
limite, oltre il quale perde ogni sua connotazione gratificante, provocando invece ansia e
imbarazzo. Tale soglia dipende dal grado di intimità fra i partecipanti all’interazione: più i
partner intrattengono una relazione di intimità, maggiore sarà la durata del contatto visivo
vissuta come segnale di interesse e viceversa.
Il volto è la parte del corpo maggiormente coinvolta nella comunicazione non verbale. Le
espressioni del volto si sono sviluppate in forma di movimenti finalizzati, come il mostrare i
denti, spalancare gli occhi per vedere meglio. Nel corso dell’evoluzione queste espressioni del
volto sono diventate segnali convenzionali delle interazioni sociali, ed il volto è diventato area
di comunicazione.
Dal punto di vista anatomico il volto è composto di tre aree: la regione frontale con fronte e
sopracciglia; la parte mediana: occhi, naso, guance, labbro superiore; la parte della bocca:
labbro inferiore e mento.
Parte frontale: la fronte con le sue rughe e le sopracciglia ci può dare informazioni sui
processi mentali analitici e su quelli attentivi.
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Parte mediana: del volto definirebbe il “senso del volto”, e ci può illuminare
sull’atteggiamento che il soggetto ha nei confronti del mondo esterno. (occhi, naso, guance,
labbro superiore).
Parte della bocca: Il mento manifesterebbe la vita istintuale, correlato alla capacità di
autoaffermarsi. Il mento proteso in avanti è caratteristico di una persona che vuole affermarsi,
dominare. La posizione delle labbra ci può dire se una persona si apre nei confronti
dell’ambiente o se tende a chiudersi. Avere le labbra serrate può essere un segno di chiusura,
volontà di non comunicare. Atteggiamenti di rifiuto o disgusto si possono manifestare con il
sollevamento di una narice e del labbro superiore. La bocca è coinvolta nei processi di
ricezione ed espulsione nei confronti del mondo.
Le espressioni del volto, quindi, svolgono un ruolo importante nella comunicazione delle
emozioni.
Diversamente dall’espressione del volto e dei gesti, le persone utilizzano lo sguardo
soprattutto per vedere e ricevere informazioni e non per comunicare, tuttavia, senza volerlo
inviano messaggi.
Lo sguardo è costituito da vari elementi: alcuni fisiologici e involontari, come il battito delle
ciglia, la dilatazione della pupilla, altri, invece, vengono utilizzati in modo consapevole. E’ il
caso dei movimenti degli occhi.
Lo sguardo è parte integrante dell’espressione del volto ed è l’elemento più espressivo, è un
utile supporto alla comunicazione verbale e un ottimo feedback durante una conversazione. Le
persone, durante una conversazione, si guardano per raccogliere informazioni. Quando due
persone si parlano, esse guardano l’una verso l’altra. Gli individui rivolgono più facilmente lo
sguardo a persone verso le quali provano simpatia. Un sentimento positivo verso l’altro, fa
aumentare il contatto visivo, mentre l’imbarazzo lo fa diminuire. Lo sguardo o il fuggire lo
sguardo, si possono considerare forme di avvicinamento o di allontanamento.
Lo sguardo assume funzione di regolazione durante le conversazioni, aiutando a stabilire i
turni, fornendo un feedback su come il messaggio è stato ricevuto da colui che ascolta.
Non guardare l’altro denota indifferenza, guardarlo troppo causa imbarazzo, evitare lo sguardo
di qualcuno può significare vergogna o evitare un’intrusione.
Nella comunicazione si hanno, da una parte, forze tese a stabilire un contatto visivo e,
dall’altra, forze tese ad evitarlo.
3) Comportamento spaziale. Riguarda la posizione del corpo, i gesti, il contatto fisico fra coloro
che parlano. Il contatto fisico, costituisce in modo particolare la forma più primitiva di
comunicazione sia fra gli uomini che fra gli animali, precede infatti l’apprendimento del
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linguaggio verbale. Il significato attribuibile al contatto fisico dipende dai fattori di contesto
(culturali e di situazione) e dalla relazione esistente fra i partner dell’interazione: lo stesso
gesto può indicare cose diverse a seconda che esso avvenga tra un genitore e il figlio o tra due
fidanzati o ancora tra due persone che si sono appena presentate.
Tuttavia al di là dei contatti a significato esplicitamente aggressivo (pugni, schiaffi, calci
spintoni), si possono riconoscere alcuni significati principali che essi veicolano: sentimenti
positivi (affetto, rassicurazione, interesse sessuale); controllo (attirare l’attenzione), scherzo o
gioco; ritualità (scambiarsi una stretta di mano); accompagnamento di un compito (coreografo
che corregge la posizione della ballerina). A tale proposito alcuni studi mostrano che il
contatto fisico ha conseguenze positive nella interazione.
Elemento importante per quanto attiene ai comportamenti spaziali riguarda la distanza che
viene mantenuta fra i partner dell’interazione. La distanza interpersonale in termini
propriamente spaziali viene in genere utilizzata per regolare il grado di intimità fra le persone.
L’avvicinamento eccessivo di una persona che non si percepisce come particolarmente intima
o l’eccessivo allontanamento di una persona che al contrario percepiamo come molto intima
procura un certo stress e il tentativo di ristabilire l’equilibrio.
Alcuni studiosi sostengono che ogni persona percepisce quattro zone di distanza progressiva alle
quali “mantenere” gli altri, a seconda del livello di intimità raggiunto nella relazione: la zona
intima, personale, sociale, pubblica. L’incontro con uno sconosciuto che chiede
un’informazione per strada, non può oltrepassare la soglia della zona personale senza essere
percepita come minacciosa. Allo stesso modo, il tragitto in ascensore con persone sconosciute
procura sempre un certo imbarazzo perché i limiti spaziali costringono le persone a violare queste
distanze. Esse variano anche in dipendenza di fattori culturali, di età e di sesso: i bambini ad
esempio tollerano distanze più accorciate degli adulti, mentre nel Sud dell’Europa, in generale, si
tollerano distanze più ravvicinate rispetto al Nord e le donne interagiscono in modo più
ravvicinato degli uomini, soprattutto con altre donne.
Infine, in particolare nella nostra cultura, assumono grande rilevanza i gesti che le persone fanno
con le mani per accompagnare le conversazioni. Anche in questo caso i gesti possono assumere
molti significati, sia sul piano dell’espressione che su quello della regolazione dell’interazione.
Si può pertanto sostenere che il comportamento non verbale, favorisce il raggiungimento di diversi
scopi che possono essere così classificati:
1) fornire informazioni sullo stato d’animo e sull’atteggiamento reciproco dei partecipanti
all’interazione;
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2) regolare l’interazione attraverso la segnalazione e l’anticipazione nei turni di presa di parola;
3) esprimere il grado di intimità tra i parlanti;
4) stabilire il grado di dominanza e controllo tra i partner;
5) presentare se stessi.
Si è sostenuto che questi comportamenti supportano e integrano la parte propriamente verbale
dell’interazione. Non sempre, però, il contenuto verbale della conversazione, che è totalmente
sotto il controllo personale, e i nostri comportamenti non verbali esprimono messaggi coerenti.
Dobbiamo infatti tenere presente che i segnali del corpo, le espressioni del viso ecc. non sono
sempre sotto il controllo personale, e quindi possono tradire le emozioni e sensazioni reali che si
tentano di dissimulare nel discorso. Rende più problematica questa situazione il fatto che i
comportamenti non verbali risultano più visibili per l’interlocutore, che darà ad essi maggior
credito di quello che dà alle nostre parole.
A mostrare la nostra ansia, anche quando vorremmo apparire tranquilli e ci sforziamo di sorridere,
saranno i gesti di nervosismo, sudorazione della pelle, inclinazione della voce.
L’espressione del volto infatti è l’aspetto più facile da controllare.
Inoltre con lo sguardo si possono definire la distanza e l’intimità desiderate nel rapporto
interpersonale. Lo sguardo esprime l’esigenza di comunicare con l’altro. Evitare lo sguardo è
segno di indifferenza o timore nei confronti di chi ci è vicino.
Le modalità con cui si cerca o si evita il contatto corporeo, possono rivelare l‘atteggiamento
verso l’altro. Il contatto corporeo, come lo sguardo, può attivare comunicazioni. Toccare
l’altro(allo contatto) o toccare parti del proprio corpo,(autocontatto), possono indicare il desiderio
di avere vicino il corpo dell’altro; nel caso dell’autocontatto il proprio corpo è toccato in
sostituzione di quello altrui.
Se la ricerca del contatto può rappresentare il superamento delle barriere protettive che l’individuo
innalza intorno a sé, essendo il corpo un territorio inviolabile, intimo e privato, il rifiuto di contatto
fisico può esprimere un atteggiamento di chiusura nei confronti dell’ambiente.
Postura e l’orientazione del corpo nello spazio possono svolgere un ruolo significativo
nell’espressione degli atteggiamenti.
Stare seduti o in piedi, vicino o lontano, di fronte o lateralmente a qualcuno, consente alle persone
di comunicare atteggiamenti di dominanza o sottomissione, di affiliazione o ostilità, rapporti di
collaborazione, intimità e differenze di status. Un’orientazione più diretta e un atteggiamento
rilassato, con gambe e braccia non incrociate, possono essere il segno di una disposizione positiva
verso l’altro; l’atto di voltare le spalle può essere il segno di un rifiuto.
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Shaflen (1964) individua tre modalità di posizioni del corpo legate ai diversi atteggiamenti
relazionali: posizione inclusiva o non inclusiva, orientazione “vis à vis” o parallela e congruenza
o incongruenza posturale.
a) la posizione inclusiva o non inclusiva delimita i confini dell’attività di gruppo o della coppia
interagente, delimitandone l’accesso agli estranei. Un esempio è la posizione circolare del
gruppo che definisce chi è nel gruppo e chi ne è fuori.
b) l’orientazione “vis à vis”, cioè frontale, è caratteristica della comunicazione in cui c’è uno
scambio di informazione o di sentimenti. Mentre quella parallela indica un atteggiamento di
alleanza, di collaborazione tra gli interagenti.
c) la congruenza o l’incongruenza posturale caratterizza l’assunzione di posizioni identiche,
tipiche di coloro che sono in sintonia, che condividono opinioni, oppure all’opposto, che sono
in disaccordo rispetto al gruppo.
L’elemento più comunicativo per presentare se stessi agli altri è l’aspetto fisico. Noi siamo il
nostro corpo, la nostra storia è memorizzata e raccontata dal nostro corpo.
La prossemica
Hall (1925) definisce prossemica lo studio degli aspetti spaziali della presentazione sociale. Il
primo indicatore a cui bisogna prestare attenzione è la distanza interpersonale, poichè a seconda
del tipo di rapporto che si ha con il partner tale distanza varia.
La quantità dello spazio che le persone lasciano tra di loro comunica qualcosa.
Argyle (1979) riconosce vari tipi di comportamento spaziale:
1) La vicinanza determinata dalla distanza tra due persone. Secondo Hall può essere una distanza
intima, personale, sociale pubblica. Durante un incontro ci sono vari cambiamenti nella
vicinanza.
2) L’orientazione riguarda l’angolazione secondo cui le persone si situano nello spazio l’una
rispetto all’altra; vi è una relazione diversa tra la vicinanza e l’orientazione, infatti questi sono
indici alternativi dell’intimità.
3) Il movimento nell’ambiente fisico indica delle aree che sono il territorio di alcune persone,
spostarsi nel territorio di un altro e lasciare il proprio, sono esempi di atti sociali.
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Il comportamento spaziale comunica diversi atteggiamenti interpersonali, e gradi di vicinanza più
elevati sono decodificati in termini di gradimento: se una persona si avvicina troppo, l’altra si
sentirà a disagio e si ritrarrà, questo non accade se il rapporto tra gli interlocutori permette una
distanza molto ravvicinata.
La dominanza è un elemento che condiziona il grado di vicinanza, nei confronti di persone di alto
status sociale: infatti si mantiene una certa distanza; mentre la vicinanza è maggiore tra persone
dello stesso status sociale. L’uso di spazi che hanno un valore simbolico (l’altezza) è la modalità
con cui maggiormente si segnala la dominanza.
Come afferma Argyle (1979) il comportamento spaziale si attua in riferimento al territorio, e
distingue tre tipi di territorio: lo spazio personale è l’area circostante il corpo, la sua invasione è
molto fastidiosa, ma in certe circostanze deve essere tollerata (mezzi pubblici); il territorio
personale, è l’area che l’individuo ha in uso esclusivo (casa, auto). Anche il territorio personale
può essere violato, ma a seconda delle circostanze, l’invasione può essere accettata.
I territori domestici sono aree considerate estensioni di spazio pubblico e vengono utilizzate
abitualmente (bar).
Fa parte della prossemica anche la disposizione fisica, cioè come ci si pone fisicamente rispetto
all’interlocutore. Non sempre i vari tipi di postura possono essere interpretati come atti a
comunicare qualcosa, invece possono semplicemente far emergere uno stato interiore
all’individuo. Altre volte invece, una postura fa parte della comunicazione (tra persone di status
differente, quella di status superiore appare più rilassata del suo interlocutore). La postura varia
anche in relazione al sesso, alla cultura di appartenenza.
Argyle (1979) considerando la postura come indicatore di atteggiamenti interpersonali distingue
due dimensioni principali: l’immediatezza utilizzata verso persone simpatiche, ed ha lo scopo di
ridurre la distanza tra due persone; e il rilassamento usato nei confronti di persone di ceto
inferiore. Ci sono differenze posturali nei rapporti di dominanza-sottomissione).
La postura del corpo indica l’intensità dell’emozione. La rigidità, il portamento, la postura che
esterna superiorità, sono esempi di connessioni tra postura e personalità. Tali connessioni a volte
sono intenzionali. Ogni persona ripete spesso le stesse posture quando le si presenta la stessa
emozione. Legata alla postura è l’orientazione, già definita come l’angolazione secondo cui le
persone si dispongono nello spazio l’una rispetto all’altra. Le principali orientazioni sono fianco a
fianco e di fronte. Nel primo caso indicano rapporti di collaborazione o intimità, nel secondo
indicano rapporti di rivalità o gerarchia. Differenze importanti per quanto riguarda la postura come
comunicazione, sono legate al sesso e alla cultura.
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Tramite il tatto si possono comunicare diversi tipi di atteggiamenti interpersonali. Anche il
contatto corporeo fa parte della prossemica.
Il contatto corporeo
Il contatto corporeo è la forma più antica di comunicazione sociale. I primati e i bambini piccoli
comunicano con le proprie madri utilizzando il contatto corporeo.
Il contatto fisico tra madre e bambino è alla base dell’attaccamento. Il riso, il pianto, il gesto sono
modalità innate del piccolo attraverso le quali egli riesce a catturare l’attenzione della madre e a
realizzare un contatto corporeo con lei. Bambini il cui contatto corporeo con la madre non è stato
sufficiente, diventano ansiosi e agitati.
Gli adulti utilizzano il contatto nei saluti, nei rapporti sessuali e in quelli aggressivi. La quantità e
qualità dei contatti corporei dipendono dall’età, dal sesso, dalla classe sociale. Sono notevoli le
differenze culturali relative alla qualità e al tipo di contatto, e queste seguono regole sociali.
Ci sono altre forme di contatto corporeo che segnalano un’interazione, ma non comunicano
atteggiamenti interpersonali ed hanno elementi comuni nelle varie culture, es. saluti di benvenuto e
di commiato. Il contatto si realizza attraverso l’uso delle mani, delle braccia, della bocca e degli
occhi. Toccare una persona implica la realizzazione di un rapporto attivo e reciproco, in cui
ognuno è sensibile all’altro. Per mezzo del tatto si possono comunicare le proprie emozioni e
atteggiamenti interpersonali, affiliativi, sessuali e aggressivi. Il tatto è usato come segnale di
interazione nella comunicazione verbale.
L’aspetto esteriore.
L’aspetto esteriore è caratterizzato da fattori statici e dinamici.
I fattori statici sono il volto e la conformazione fisica, in quanto stabili e immutevoli.
I fattori dinamici sono l’abbigliamento, il trucco, l’acconciatura, gli accessori scelti, per cui
possono cambiare a seconda dell’immagine che si vuole dare agli altri.
L’aspetto esteriore può essere considerato un elemento della CNV che è sottoposto al controllo
volontario. Dà informazioni sulla personalità e lo stato d’animo delle persone, poiché scaturisce da
varie manipolazioni effettuate dal soggetto su se stesso.
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L’immagine esteriore spesso si rivela una mescolanza dell’immagine che si ha di sé, di quella che
si vorrebbe avere e di quella che si vuole trasmettere. Specialmente quest’ultima include
automaticamente le informazioni sul modo con cui si vuole essere trattati.
Le componenti dell’aspetto esteriore sono i vestiti, i distintivi, gli ornamenti, la pettinatura, il viso,
la pelle, il fisico. Da questi possono emergere le caratteristiche della personalità, lo status sociale,
il gruppo di appartenenza. L’opinione pubblica, riguardo le caratteristiche attraenti del corpo,
condiziona molto e manipola l’immagine corporea e la sua approvazione.
Il modo di vestire e l’aspetto esteriore, fornisce informazioni sul sesso, l’età, il livello
socioeconomico, la propria appartenenza, gli atteggiamenti psicologici e sociali. E’ anche
utilizzato per comunicare atteggiamenti interpersonali come la sessualità, l’aggressività,
atteggiamenti di ribellione, e bisogna evidenziare la grande variazione esistente tra una cultura e
l’altra.
I distintivi, le uniformi, possono essere strumenti per manifestare la propria identità, cultura,
ideologia, potere. Attraverso l’aspetto esteriore ci si può distinguere dagli altri e il trucco, la cura
dei capelli e l’uso di accessori possono essere stratagemmi per valorizzare la propria persona, per
essere più attraenti, comunicando la propria disponibilità sessuale, oppure per segnalare
atteggiamenti conformisti o ribelli e aggressivi nei confronti della società.
La decodifica delle emozioni attraverso la lettura della C.N.V.
L’emozione è una reazione forte, primitiva e affettiva intensa, con insorgenza acuta e di breve
durata, determinata da uno stimolo interno (ricordo piacevole o spiacevole…) o da uno stimolo
ambientale.
La sua comparsa provoca una modificazione a livello somatico, vegetativo e psichico. Le reazioni
fisiologiche a una situazione emozionante investono le funzioni vegetative (circolazione,
respirazione, digestione, secrezione); le funzioni motorie tramite un’ipertensione muscolare, e le
funzioni sensorie (disturbi alla vista o all’udito).
Le reazioni possono essere di diverso tipo: viscerali, espressive (che riguardano la mimica
facciale, gli atteggiamenti del corpo, le abituali forme di comunicazione verbale e non verbale)
psicologiche (si manifestano come riduzione del controllo di sé, difficoltà della capacità di critica
e di articolare logicamente azioni e riflessioni).
La componente che più interessa è quella espressiva che consente la comunicazione
interindividuale ed elabora segnali importanti per lo sviluppo individuale e la coesione sociale.
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Osserviamo l’espressione delle emozioni attraverso la mimica dei nostri simili e ne traiamo
informazioni sul loro stato emotivo e sulla personalità.
Il volto è l’area centrale delle emozioni, essendo una zona altamente espressiva, in grado di
inviare moltissime informazioni (bocca, naso, occhi e la pelle, che riflette gli stati psicologici
come il rossore per la rabbia, o il pallore per la paura).
L’analisi dell’espressione delle emozioni è alla base della conoscenza intuitiva ed empatica che
utilizziamo nella vita di tutti i giorni.
Le emozioni possono trapelare attraverso i gesti, lo sguardo, ma sono di brevissima durata. E’ più
facile riconoscere le emozioni attraverso le espressioni facciali, inoltre sono più riconoscibili le
emozioni manifestate da individui della stessa cultura.
Le risposte emozionali si contraddistinguono per la variabilità nei diversi contesti sociali: alcune
possono essere provocate dallo stimolo scatenante, altre possono essere mediate da meccanismi di
valutazione del soggetto.
Questo controllo nella gestione delle risposte emozionali, avviene sulla base di “regole di
esibizione” o “regole di ostentazione” che rappresentano le modalità comportamentali che
l’individuo ha appreso ad adottare per esprimere una data emozione, in relazione a precise norme
culturali e sociali. Talvolta il controllo è finalizzato ad inibire l’espressione delle emozioni come
quando si temono sanzioni.
Un problema che ci può riguardare da vicino è quello delle emozioni dissimulate. Esse si
manifestano mediante espressioni di brevissima durata, e risultano impercettibili per la maggior
parte degli osservatori. Di solito gli individui, per ricorrere alla dissimulazione, evitano il contatto
oculare, esprimendo così un segnale di falsità.
Ciò che colpisce sono gli elementi di discrepanza fra l’emozione e la corrispondente espressione.
Possiamo riscontrare un contrasto fra l’espressione facciale, quella verbale e quella corporea
dell’emozione, come la sicurezza mostrata da un fermo sorriso può apparirci diversa se viene
contraddetta dal tremore delle dita o della voce.
Alcuni studi hanno posto l’accento sulla percezione dei segnali incoerenti. La ragione di questi
segnali conflittuali, è il tentativo di nascondere un’emozione. Quando segnali verbali e non verbali
sono in conflitto, diventa naturale prestare attenzione alla componente non verbale.
I diversi approcci allo studio della C.N.V.
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Per comprendere il comportamento non verbale, occorre un approccio interdisciplinare: Diverse
discipline si sono interessate ad esso, sviluppando ricerche per favorirne la comprensione.
La linguistica ha individuato la paralinguistica, che si occupa delle variazioni non linguistiche
(tono, timbro, velocità) dell’eloquio.
L’antropologia si occupa di prossemica, che studia lo spazio personale e sociale e il modo in cui
l’uomo lo percepisce.
La sociologia studia le regole del comportamento non verbale nei diversi contesti sociali.
L’etologia parte dal presupposto che il comportamento dipende dalle predisposizioni
filogeneticamente ereditate e dall’adattamento.
La psicologia si occupa della parte non appresa dell’espressione delle emozioni.
Gli autori sottolineano l’importanza di considerare il comportamento non verbale nell’interazione,
e ritengono che vi sia comunicazione a prescindere dall’intenzionalità. Condizioni di base
dell’organismo possono influenzare il comportamento comunicativo, senza ‘intenzione di
comunicare specifici messaggi.
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IL RISCHIO, ELEMENTO CARATTERIZZANTE DELLA SOCIETA’
CONTEMPORANEA
Nei recenti anni si è assistito a trasformazioni riguardanti sia le forme di rischio, sia i soggetti
responsabili per la produzione della sicurezza, sia le tecnologie della sicurezza in rapida
evoluzione.
Ai tradizionali rischi (guerra, crimininalità, catastrofi naturali, epidemie) si sono aggiunti quelli
derivanti dalle catastrofi industriali, il rischio ambientale totale e quello terroristico. La sociologia
contemporanea ha evidenziato la trasformazione delineando il sorgere di un nuovo tipo di sistema
sociale definito società del rischio, riferendosi a Ulrick Beck ed al suo saggio “la società del
rischio”, ed. Carocci, 2000, nel quale il rischio è l’elemento che caratterizza la società
contemporanea. In relazione ai soggetti responsabili di assicurare la produzione di sicurezza, al
soggetto statale centrale si sono aggiunti gli enti pubblici locali, in particolare per le funzioni di
sicurezza urbana e territoriale.
Emergono società private che a vario titolo e con legittimità giuridica di diverso grado si
occupano di sicurezza. Una tendenza non regolata sufficientemente che riguarda sia le compagnie
di investigazione e vigilanza civile, che sono una presenza scontata, sebbene non ancora del tutto
regolata relativamente al conflitto con la privacy, nel settore dei servizi alle imprese ed alle
persone, quanto anche la meno pacifica attività delle security e military companies alle quali
alcuni governi affidano funzioni di servizi militari importanti.
Per ciò che concerne l’evoluzione delle tecnologie, il settore della sicurezza fa registrare lo
sviluppo più rapido. Si spazia dalle tecniche di controllo, che si avvalgono di supporti satellitari
per l’intercettazione, l’identificazione,alle tecnologie di identificazione biometria, alle tecnologie
informatiche per la codifica e decodifica (internet stessa nasce dalla ricerca in campo militare
legata alla sicurezza delle trasmissioni di dati).
Altri ambiti di sviluppo tecnologico e socio-tecnologico riguardano la limitazione e prevenzione
di disastri ambientali, con le tecniche di monitoraggio connesse (aria, acqua, fuoco, alimenti) la
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costruzione di “edifici intelligenti”. Occorre fare una ricognizione delle principali aree di attività
che possono essere presenti nel settore della produzione della sicurezza . per ogni area di attività
viene fornita una descrizione con indicazione dei vari profili professionali tipici con i profili
professionali tipici con relativi percorsi formativi. E’ stigmatizzato un riferimento alla tipologia
dei datori di lavoro caratteristici del settore.
Aree della produzione di sicurezza prese in rassegna:
Building automation, edificio intelligente, “domotica” sistemi software e di videosorveglianza
per la rilevazione, prevenzione di rischi su edifici, aree territoriali.
Per domotica si intende la semplificazione dei sistemi tecnologici presenti nelle case per ridurre i
costi di gestione e di utenza e di aumentare i livelli di sicurezza. Una disciplina che, integrando
diverse tecnologie, consente maggiore sicurezza all’utente, maggiori risparmi e confort nella
propia abitazione. Permette di tenere la casa sotto controllo anche quando non si è presenti. La
domotica aiuta anche a superare le barriere architettoniche, punto questo importante per malati,
anziani e portatori di handicap. I comandi vocali rappresentano un valido aiuto per questi ultimi,
mentre il collegamento dell’impianto domestico con l’esterno permetterà di intervenire in
situazioni di emergenza. Le connessioni permanenti a basso costo, consentono infine di usufruire
di servizi on line e aprono nuove frontiere per il telelavoro.
Telecontrollo, telesorveglianza, teleassistenza:
Ambito di attività in cui rientrano sia la sorveglianza dei grandi impianti industriali o di rete
(acquedotti, reti elettriche e telefoniche) sia i servizi di assistenza in ambito assistenziale e
sanitario a favore delle persone anziane o non autosufficienti. L’analogia tra ambiti in apparenza
così diversi è data dall’articolazione organizzativa dei servizi di telecontrollo, telesorveglianza,
teleassistenza, strutturata in una rete di sensori (ottici, acustici, digitali) periferici e in una centrale
di sorveglianza presidiata da personale in grado di fornire di persona un pronto intervento o di
guidare operazioni di assistenza e autoassistenza tramite canali di comunicazione appositi.
E’ interessante approfondire il fabbisogno professionale in campo sanitario e assistenziale per
individuare fabbisogni professionali non coperti in capo agli Enti Locali, alle strutture sanitarie, al
terzo settore attivo in questi ambiti di attività. Alcuni corsi di laurea in scienze infermieristiche
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contengono moduli appositi per insegnare agli addetti a progettare, sperimentare e sviluppare
modalità di assistenza integrata utilizzando procedure informatiche o di telecontrollo per
l’assistenza post-ospedaliera al paziente chirurgico, al paziente neuropatico, alla puerpera, al
paziente geriatrico. Tutto ciò è finalizzato a ridurre il disagio per il paziente ed i suoi familiari,
mantenendo tuttavia standard assistenziali elevati, ed inoltre persegue il fine della riduzione dei
costi della degenza ospedaliera. I contenuti dei corsi prevedono lo sviluppo di competenze nella
progettazione e management di iniziative nel campo dell’organizzazione e gestione delle residenze
sanitarie assistite, raccordandosi con le altre figure professionali.
Vigilanza, sorveglianza di tipo tradizionale, guardiania ecc.
Per quanto riguarda gli addetti ai servizi di investigazione e vigilanza, alcune profili sono figure
di responsabili, altri sono figure di addetti alla vigilanza, per i quali non è richiesta alcuna
esperienza specifica.
Contractors – operatori della sicurezza in zone di guerra ecc.
E’ un settore di attività in forte espansione, legato all’outsourcing di funzioni di tipo militare.
L’espansione di questo settore è un fenomeno sul quale occorre riflettere a causa dell’assenza, al
momento, di ogni regolazione, le questioni che esso pone concernono la geopolitica ed il diritto
internazionale.
Le funzioni svolte non sono “ufficialmente” di vero e prorio combattimento. Si tratta di attività di
sminamento, protezione di aiuti umanitari, protezione di ambasciate ed altri siti strategici, come i
grandi impianti industriali in aree di crisi, arsenali, addestramento militare, rifornimento di armi,
attività di polizia militare, trasporto di materiale bellico e di personale militare, servizi di scorta,
monitoraggio post-conflitto ed elettorale fino anche a volte al diretto sostegno alle operazioni
militari. Il settore non è regolato e spesso si confonde il confine tra servizi di sicurezza e attività
mercenarie. Non sono soltanto i paesi in guerra ad avvalersi dei servizi delle private military and
security corporation, ne fanno uso anche istituzioni internazionali, il mondo della cooperazione
non governativa e delle organizzazioni umanitarie, i grandi gruppi industriali che vogliono
difendere siti strategici: piattaforme oceaniche, impianti estrattivi, oleodotti, centrali ecc.
Il punto di vista degli esperti è che queste società private, vere e proprie multinazionali della
sicurezza, siano destinate nel giro di pochi anni, a detenere un vero monopolio nella fornitura di
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alcuni servizi militari e di sicurezza, un tempo di competenza esclusiva degli Stati. Ciò in
particolare nei conflitti asimmetrici, dove forze armate nazionali “regolari” si contrappongono a
gruppi militari che non sono emanazione di alcun potere statale riconosciuto a livello
internazionale.
Sicurezza urbana
La sicurezza non può essere una questione limitata alla prevenzione e repressione di polizia, ma
occorre considerare un modello di sicurezza urbana orientata ai concetti di prevenzione sociale, di
sostegno alle relazioni di comunità, di coinvolgimento dei cittadini e, in parallelo di integrazione
delle politiche pubbliche e degli enti preposti alla loro realizzazione. E’ necessaria questa
premessa in un momento in cui la sicurezza si privatizza, in modo tale da essere percepita
socialmente come un bene reperibile su un mercato in forte espansione, un mercato che trova
sostegno in una domanda sociale di protezione che si indirizza soprattutto verso categorie
determinate di soggetti considerati fonti di rischio.
Invece rafforzare l’integrazione delle politiche pubbliche diventa un tema legato alla qualità della
vita, a servizi sociali migliori, progetti di area per il lavoro o lo sviluppo, politiche di intervento
per vittime di violenze o di altri delitti, programmi di risanamento dal degrado urbano, traguardi
ambiziosi nel campo dell’acquisizione di nuove professionalità, piani di contenimento delle aree di
emarginazione. Questo nuovo approccio alla sicurezza solleva questioni centrali riassumibili in tre
punti: 1) cosa si intende esattamente quando si parla, in contesti differenti, di politiche di sicurezza
urbana; 2) quali profili professionali è opportuno promuovere e rafforzare; 3) quale bagaglio di
competenze e quale idea di sé dovrebbe avere un responsabile tecnico di sicurezza urbana.
Numerose università hanno attivato master di primo e secondo livello in scienze della sicurezza
urbana, politiche della sicurezza urbana e simili, rivolti a laureati in Sociologia, Giurisprudenza o a
persone che già operano nel campo della pubblica amministrazione nei settori legati alla sicurezza
del territorio: vigili urbani, polizia locale ecc.
Questi master hanno lo scopo di formare competenze qualificate e professionalità elevate nella
gestione di progetti di sicurezza urbana diretti alla prevenzione e riduzione dei contesti di illegalità
e disagio urbano, ed inoltre nella gestione delle emergenze territoriali e della percezione di
insicurezza sociale a livello locale. I destinatari sono rispettivamente il personale degli Enti Locali
e della Regione e dei Servizi di Polizia locale. Il master universitario in “politiche della sicurezza
urbana” ha l’obiettivo di dotare di un livello di formazione organica e specializzata persone già
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inserite nei quadri della Pubblica Amministrazione (enti pubblici, comunali, provinciali, regionali)
o dei corpi di polizia (di sicurezza o giudiziaria) e orientate ad affrontare tematiche di sicurezza
che riguardano la polizia locale, la prevenzione dei reati in senso lato, oltre l’ordine pubblico
tradizionale, il “policing” e il controllo del territorio, la mediazione, i rapporti con i cittadini o con
l’opinione pubblica e la percezione dell’insicurezza urbana, legati a specifiche forme di disagio,
minorile, di immigrazione oppure alla gestione di espressioni urbane di inciviltà o di violenza,
connesse a fenomeni come la prostituzione e il suo sfruttamento, o il consumo e spaccio di
stupefacenti.
Sicurezza informatica. Protezione di dati sensibili, bancomat, carte di credito.
I fattori di crescita dell’Information&Communication Technologies (ICT) impongono attenzione
particolare agli aspetti connessi alla sicurezza. L’aumento della domanda di sicurezza informatica
è connesso alla crescita continua di Internet e della connettività cellulare a cui si aggiunge
l’aumento dell’esposizione dell’infrastruttura di trasmissione dell’informazione a incidenti e
attacchi esterni ed interni alle organizzazioni.
Schematicamente si parla a proposito di sicurezza informatica, di sicurezza passiva e sicurezza
attiva.
Per sicurezza passiva si fa riferimento a tecniche e strumenti di tipo difensivo, insieme di
soluzioni che hanno l’obiettivo di impedire che utenti non autorizzati possano accedere a risorse,
sistemi, impianti e dati di natura riservata.
La sicurezza passiva è pertanto un concetto generale che comprende l’accesso a locali protetti,
l’utilizzo di porte di accesso blindate, insieme all’impiego di sistemi di identificazione personale
La sicurezza passiva e attiva sono complementari e indispensabili per raggiungere il livello di
sicurezza desiderato di un sistema.
Le tecniche di attacco sono molte, pertanto è necessario utilizzare diverse tecniche difensive
contemporaneamente per proteggere un sistema informatico, creando molteplici barriere tra
l’obiettivo e l’attaccante.
Frequentemente l’obiettivo dell’attaccante non è rappresentato dai sistemi informatici in sé, quanto
invece dai dati in esso contenuti, pertanto la sicurezza informatica deve preoccuparsi di impedire
l’accesso ad utenti non autorizzati, ma anche a soggetti con autorizzazione limitata a certe
operazioni, per evitare che vengano copiati, modificati o cancellati i dati appartenenti al sistema
informatico.
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Biometria, identificazione personale e controllo degli accessi
La biometria è il settore della biologia che misura e studia statisticamente i dati rilevati sugli esseri
viventi, per trarne comparativamente classificazioni e inferirne leggi. Sistemi biometrici sofisticati
applicati alla sicurezza pubblica ed al controllo delle frontiere, in molti paesi sono già in via di
sperimentazione, ad esempio negli Stati Uniti d’America.
L’identificazione biometrica, o calcolo dei parametri fisici e comportamentali propri di un
individuo, basata sulla scansione di varie parti del corpo, è usata quotidianamente nell’ambito
della sicurezza, come miglior strumento per verificare l’identità di un individuo. Le tecniche più
diffuse di identificazione biometria si basano nella valutazione di A) impronte digitali; B)
geometria della mano; C)caratteristiche della voce; D) tratti somatici; E) caratteristiche dell’iride e
della retina; F) dinamica di apposizione della firma.
Il face recognition, il riconoscimento facciale, e l’iris recognition, l’identificazione dell’iride,
sono metodi già applicati in varie modalità e utilizzi.
Il face recognition funziona tramite un computer che in pochi secondi analizza i dati del volto, la
distanza degli occhi, l’altezza degli zigomi, la posizione di naso e bocca e ne desume una
cartografia facciale. L’iris recognition è un’immagine in bianco e nero della zona che circonda la
pupilla.
Il face e l’iris recognition sono destinati ad entrare nella quotidianità. Numerose aziende
producono e commercializzano sistemi biometrici per la sicurezza, tramite i quali è possibile avere
la massima sicurezza di accesso in determinati luoghi o anche sistemi di identificazioni più pratici
che sostituiscono il badge. I vantaggi sono l’impossibilità di scambio di persona, la sicurezza
assoluta di accesso esclusivo da parte di persone autorizzate in aree riservate, con eliminazione dei
costi dei badge e similari.
L’uso dei sistemi biometrici di sicurezza applicati a questi livelli di quotidianità ha ovviamente
sollevato prese di posizione da parte del Garante della privacy, in quanto l’uso indiscriminato dei
sistemi di identificazione biometrica potrebbe, o ha già portato, alla costruzione di banche dati con
informazioni personali senza che venga autorizzato un esplicito assenso, solo ad esempio per
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essere entrati in banca. Conseguenze dirette di portata più ampia sul piano socio-politico è che il
controllo e l’identificazione personale potrebbero imporsi come l’unico strumento con cui
affrontare le questioni legate alla sicurezza.
Prevenzione e gestione delle emergenze ambientali. Evacuazione, spegnimento di incendi,
logistica, trasporto,protezione ambientale, analisi del rischio idrogeologico, esercitazione e
simulazione.
Che la presenza di un rischio ambientale venga riconosciuta o meno dal singolo individuo dipende
da fattori come l’età, il genere, le abitudini alimentari, il tipo di lavoro, il livello di informazione e
il grado di istruzione. Inoltre numerosi studi hanno evidenziato che anche nell’ambito della
sicurezza ambientale sussiste un rapporto inversamente proporzionale tra esposizione a rischi e
livello socio-economico. Sono in genere i quartieri vicini ai centri di produzione industriale, con
popolazione a basso reddito, ad essere esposti a varie sostanze presenti nell’aria, nell’acqua e nel
terreno.
Le figure professionali che intervengono in caso di emergenze ambientali sono prevalentemente
figure istituzionali, tipo i vigili del fuoco, la polizia municipale, carabinieri, guardie ecologiche,
vigili provinciali. Anche enti e agenzie private negli ultimi anni hanno rivolto il loro interesse a
tematiche di emergenze ambientali e particolarmente la prevenzione. Sono nati percorsi formativi
specifici per coloro che sono intenzionati a ricoprire posizioni professionali, quali quella di
operatore delle professioni tecniche della prevenzione o responsabile ambiente e sicurezza. Chi
opera nei servizi pubblici, con compiti ispettivi e di vigilanza, ricopre spesso il ruolo di ufficiale di
polizia giudiziaria. Le attività di vigilanza sono del tipo più vario e possono riguardare gli
ambienti di vita e di lavoro, la rispondenza delle strutture e degli ambienti alle norme ed ai principi
di sicurezza, la qualità degli alimenti e bevande, l’igiene e la sanità veterinaria, i prodotti
cosmetici, il patrimonio ambientale, gli scarichi ambientali. Rilevante è la figura del responsabile
aziendale per l’ambiente e la sicurezza, che coordina e gestisce il sistema aziendale, al fine di
prevenire i rischi connessi alla produzione. Il responsabile per l’ambiente e la sicurezza deve
possedere conoscenze tossicologiche e competenze nell’ambito sia delle tecnologie produttive
utilizzate, che delle leggi e regolamenti in materia di antinfortunistica e di tutela ambientale. Nella
maggior parte dei casi il responsabile ambiente e sicurezza è un laureato in chimica, in ingegneria
chimica o in chimica ambientale. Sempre più spesso si parla di rischio organizzativo per indicare
situazioni che possono determinare patologie di tipo psicologico e psichiatrico su singoli e gruppi
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di lavoro, dovute a stress, mobbing, burn out ed altre simili circostanze. La prevenzione del rischio
organizzativo chiama in causa professionalità con competenze di altro genere, soprattutto di tipo
psicologico e organizzativo, negoziali e motivazionali.
Comunicazione del rischio, comunicazione in situazione di emergenza.
Pianificare la comunicazione in situazioni di emergenza significa aprire vari canali comunicativi
che possano facilitare processi di scambio tra tutti i soggetti sociali coinvolti, sia nella fase che
precede l’emergenza sia in quella in cui l’emergenza è in atto.
Per avere la certezza che le informazioni trasmesse vengano recepite come affidabili e credibili
occorre instaurare un processo di circolazione delle informazioni che garantisca a tutti i soggetti
un adeguato livello di comprensione, una corretta ricezione del messaggio. L’obiettivo della
comunicazione in una situazione di emergenza è aiutare il pubblico a gestire consapevolmente la
preoccupazione, evitando che si trasformi in paura incontrollata (panico) o in un atteggiamento di
noncuranza totale (meccanismi di difesa, negazione). Le persone pertanto hanno bisogno di sentire
che le istituzioni avvertono il rischio proprio come loro.
L’empatia si alimenta prestando attenzione alla comunicazione verbale (le parole), non verbale
(atteggiamento, postura, sguardo, gestualità) e paraverbale (tono della voce, timbro, sospiri). E’
ovvio che per svolgere le attività relative alla comunicazione del rischio occorrono specifiche
competenze e capacità.
La “comunicazione del rischio” può riguardare le popolazioni che vivono in aree soggette a
rischio idrogeologico o dove sono presenti stabilimenti industriali. I contenuti della comunicazione
di rischio ed emergenza possono vertere su atteggiamenti preventivi (dotazioni, stili di
comportamento, scorte, equipaggiamento) o su comportamenti successivi (evacuazioni,
comportamenti in caso di disastro).
La comunicazione del rischio ovviamente agisce sulle percezioni e gli stati emotivi dei soggetti a
cui è rivolta. Per tali ragioni il profilo di chi si occupa di comunicazione del rischio e di emergenza
comprende competenze in campo sociale e psicologico oltre che comunicativo vero e proprio.
La comunicazione in situazioni di rischio e di emergenza sta evolvendo e specializzando
all’interno del più vasto settore della comunicazione pubblica, materia sulla quale sono proliferati
negli ultimi anni corsi di specializzazione di vario tipo, soprattutto di livello universitario e post-
universitario.
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Gestione di grandi eventi. Grandi assembramenti di persone (concerti, stadio), giornate di
intenso traffico
La gestione dei grandi eventi richiede una valutazione della compatibilità ambientale e di un
processo comunicativo che sappia informare e rassicurare ex ante, in itinere ed ex post. Nella
quotidianità, la comunicazione è spesso l’anello più debole della catena della prevenzione degli
incidenti, e in situazioni “a rischio” come in quelle in cui un numero elevato di persone si
raccoglie, per esempio eventi legati a settori dei convegni, delle grandi mostre, delle arti
figurative, dello spettacolo e della promozione culturale e sportiva. E’ stato attivato un master in
Professionisti in organizzazione e gestione degli eventi con il fine di formare figure professionali
di alto livello dotate di una forte autonomia gestionale e organizzativa, con competenze specifiche
in mediazione e traduzione linguistica, nelle relazioni e comunicazioni interne ed esterne,
nell’organizzazione e gestione delle varie fasi per la realizzazione di eventi.
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ANTROPOLOGIA DEL LUTTO
La morte e i suoi aspetti
La morte si pone come irreversibile dadità che appartiene all’arco del fisiologico/biologico della
persona. E’ un momento drammatico quando passa al livello del vissuto e del coscienziale.
La sua disumanità consiste in un’iniziale ed istintiva inaccettabilità, in quanto essa distrugge alla
base ciò che l’uomo è come vita e ciò che vorrebbe essere perennemente.
L’emergenza di una situazione lacerante porta, per chi muore e per il gruppo cui il morto
appartiene, ad uno smarrimento, ad un trauma di angoscia e di perdita della propria sicurezza
storica. Le varie culture creano meccanismi di difesa e tutela che servono a sciogliere le situazioni
conturbanti rendendole accettabili. L’organizzazione culturale trasforma il rischio di disfacimento
del sé e del mondo in una nuova sicurezza, che è la vittoria della vita messa in crisi.
Sono due i meccanismi che esprimono questa esigenza e la riducono a realtà storica. Il primo
rientra in quella che si può definire la sfera dell’immaginario, del mitico che sostituisce alla realtà
fisiologica della fine la realtà culturale diversa dell’essere proiettati in una nuova vita, in una vita
diversa e, in questo modo, i legami tra morto e gruppo non si interrompono in maniera drastica,
perché il morto sotto specie rinnovata, continua a partecipare la vita di quanti gli appartengono,
oppure può accadere che l’irrequietezza del pensiero di morte si superi attraverso la
consapevolezza laica dell’illusorietà delle situazioni mitiche, accedendo alla coscienza di una
inevitabile naturalità della consunzione finale. Il secondo meccanismo è di tipo rituale-operativo,
appartiene alla sfera dell’azione, del dromenon, ed è rappresentato dai sistemi di lutto. La
connessione fra i due livelli, quello della rappresentazione mitica e quello della ritualità, è molto
stretta.
Il fatto che si giunge all’approfondimento della natura della morte attraverso l’esperienza della
fine altrui, ha un aspetto sociale che crea interrelazioni inconsce tra i membri del gruppo. Il morire
è prima di tutto un fatto personale e sociale. La morte è sempre un dramma che tocca la persona
indipendentemente dai suoi riflessi sociali, che hanno tuttavia una loro pregnanza antropologica.
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L.V. Thomas rileva che benché ogni individuo, anche morendo insieme con gli altri, assume
sempre da solo la propria morte e, benché l’esperienza della morte riguardi gli esseri
singolarizzati, la morte può definirsi come un tutto sociale. L’atto del morire è una realtà socio-
culturale.
R. Blauner esamina il problema della collettivizzazione sotto un diverso profilo sociologico e,
riferendosi alla società preindustriale, rileva che la morte rompe l’equilibrio dinamico della vita
sociale. Una delle conseguenze della morte è un vuoto sociale. Un membro della società, dei
gruppi che la costituiscono è scomparso. Ne risulta una forma di gap nel funzionamento
istituzionale. L’estensione di questo vuoto dipende dall’intensità della posizione che il defunto
aveva nella vita della società. Le famiglie e i gruppi di lavoro sono colpiti più dalla perdita di
persone di mezza età, che da quella dei bambini o di persone anziane.
Risulta che l’osservazione dei dati permette di rappresentarsi il fenomeno della socializzazione del
morire come funzionale delle sole società di livello etnologico, di quelle arcaiche e tradizionali del
periodo preindustriale e di quelle residue di natura folklorica. Lévy Bruhl, sulle esperienze di
morte nelle culture cosiddette “primitive”, aveva chiarito che quando il capo della famiglia o un
altro membro importante moriva, anche il gruppo comincia a morire. Quindi la morte colpisce non
solo il singolo ma anche il gruppo. Le stesse considerazioni sono presenti nelle opere di
Malinowsky, a iniziare dalla esperienza trobriandese. La perdita di un membro significativo in una
comunità numericamente piccola, danneggerebbe il gruppo in modo grave, liberando angoscia di
morte e istinto di difesa comprometterebbe i fondamenti materiali e morali di esso.
Fra società e defunto si istituisce un reciproco scambio. Mediante il cibo il morto è incluso nella
vita del gruppo. Il morto dona sua moglie, la terra del clan a un vivo della sua famiglia al fine di
rivevere assimilandosi a lui e di farlo rivivere assimilandolo a se stesso (scambio simbolico).
L’importanza del ruolo sociale del defunto appare anche nella storia delle culture europee
preindustriali. Fino alla metà dell’Ottocento persiste l’esigenza del morente di sentirsi circondato
da altri, con la conseguenza che la morte divenne un fatto pubblico spettacolare.
J MacManners ridimensiona questo aspetto. Ricorda che allora, erano tanti quelli che vivevano
soli al mondo o nella miseria, e dopo che il curato era andato via, costoro morivano come capitava,
pertanto non si moriva sempre attorniati da tanta gente. Nel Settecento si verificò una reazione
all’usanza di morire in pubblico. In dipendenza di un mutamento culturale di ordine umanitario,
oltre che una certa resistenza illuministica contro i riti cristiani, agì anche la rivolta cristiana contro
l’espressione mondana di lutto.
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La situazione folklorica presenta analogie, almeno fino agli anni in cui essa persisteva non
frammentata o distrutta dalla civiltà postindustriale. A.Van Gennep, riferendosi alla Francia,
affermava che quando avveniva un decesso, le animosità e i rancori si sospendevano. Era la tregua
della vita. Si costituisce una piccola società temporanea di individui psichicamente orientati nello
stesso senso, gli elementi della quale si riuniscono e poi si separano nuovamente secondo un
protocollo fissato dalla tradizione. Quando una persona è in agonia, tutto il villaggio accorre, la
casa si riempie silenziosamente di gente triste. Ciascuno prende posto assumendo un’aria
addolorata, anche quando non vi è sofferenza.
Gli stessi comportamenti sono attestati nelle ricerche folkloriche per l’Italia. L’indicata solidarietà
tra gruppo dei luttuati e collettività, attualmente è entrata in una profonda crisi, che è più sofferta
nelle culture urbane ed incide in misura minore in quelle di origine agro-pastorale. L’uomo è stato
deprivato della connessione del morire con la presenza del gruppo sociale che lo circonda e lo
aiuta ad affrontare meglio l’immediato trauma della perdita ma anche a superare le varie fasi del
cordoglio. Pertanto si è verificata l’esperienza di una radicale solitudine dell’uomo di fronte alla
propria morte e del gruppo familiare. E’ stato osservato che nella società ad industrializzazione
avanzata, la morte ha perduto il suo contesto classico, è sfuggita dalle mani della chiesa che
sembra sempre meno in grado di mantenere il suo secolare controllo su di essa. Secondo W. Fuchs
la crisi della socializzazione può dipendere dalla secolarizzazione e dall’abbandono della
trascendenza, cui, però, si ricorre come pretesto per negare la morte stessa. L’analisi si complica
quando si invoca il concetto freudiano di “rimozione”, e si sostiene come, in E.Fromm che il
nostro tempo nega la morte. Anziché percepire la morte, la sofferenza, il dolore come spinte più
forti alla vita come base della solidarietà umana, l’individuo è portato a rimuovere il sentimento
della morte come uno “scandalo”. Qui è la causa dell’appiattimento di ogni altra esperienza,
dell’inquietudine che oggi pervade tutta l’esistenza, così come si spiega anche perché in America e
altrove si spendano somme altissime per la sepoltura. Per Fuchs il rapporto tra viventi e morti può
essere descritto come dominato dalla tendenza storica alla neutralizzazione, tendenza legata
strettamente a momenti del concetto moderno di morte. Se una volta il morto era rappresentato
non soltanto come agente vivente, ciò che era qualificante, come sinistro nemico dal quale ci si
doveva difendere, o come soccorritore potente la cui volontà poteva essere piegata con preghiere
ed altre pratiche, il rapporto moderno fra viventi e morti assume sempre più il carattere
dell’indifferenza. Una volta che il morto viene depotenziato in cadavere, ciò che è implicito nel
concetto della morte naturale, diviene inutile. I modi di comunicazione col morto e i rapporti fra
viventi e defunti si liberano da legami qualificanti. Sostiene sempre Fuchs che le immagini
razionali della morte, come evento di natura, non sono penetrate nell’impalcatura generale del
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modello di orientamento socioculturale. Il processo storico definito come razionalizzazione,
laicizzazione o profanizzazione, sembra, nei confronti della morte, aver compiuto progressi molto
limitati, se commisurato ad altri ambiti della vita sociale. Nel rapporto tra morto e società moderna
si è conservata la massima misura di arretratezza. Si deve identificare in esso un ambito della vita
sociale che può essere descritto come il più primitivo settore della società industriale.
Ancora nel primo Novecento, fino alla fine della guerra del 1914, in tutto l’Occidente di cultura
latina, cattolica o protestante, la morte di un uomo modificava lo spazio e il tempo di un gruppo
sociale che poteva estendersi all’intera comunità, ad esempio al villaggio. Si chiudevano le
imposte della camera dell’agonizzante, si accendevano i ceri, la casa si riempiva di vicini, parenti
e amici. Dopo la morte un avviso a lutto veniva affisso alla porta. Dall’uscio accostato, sola
apertura della casa non completamente chiusa , entravano tutti coloro che l’amicizia o le
convenienze obbligavano all’ultima visita. Il servizio in chiesa riuniva tutta la comunità, un lento
corteo accompagnava la bara al cimitero. Il periodo di lutto era denso di visite: visite della famiglia
al cimitero, visite di parenti ed amici alla famiglia. Poi, un po’ alla volta la vita riprendeva il suo
corso normale e restavano solo le visite distanziate al cimitero. Il gruppo sociale era stato colpito
dalla morte, e aveva reagito collettivamente, cominciando da familiari più vicini ed arrivando fino
al cerchio più ampio delle relazioni e delle clientele.
Non solo ogni uomo moriva in pubblico, era un avvenimento pubblico la morte di ognuno che
commuoveva l’intera società. Non era solo un individuo che spariva, ma la società che era ferita e
la ferita che doveva cicatrizzarsi. Ph Ariés, cui fanno riferimento queste considerazioni, sostiene
che tale rapporto tra morto e collettività è durato per questo intero millennio e che tutti i
mutamenti non hanno alterato questa immagine fondamentale, né il permanente rapporto tra la
morte e la società. La morte è sempre stata un fatto sociale e pubblico. In molte aree
dell’Occidente questo modello tradizionale residua ancora e non sembra destinato a sparire. In
alcune regioni più industrializzate è emerso un nuovo modo del morire, in contrasto con tutto ciò
che era prima. La società ha espulso la morte comune, eccetto quella degli uomini di stato o di
personaggi pubblici, che però diviene non produttrice di una reale ondata di diretta partecipazione
e commozione, ma assume il tono di una celebrazione di etichetta, un’occasione dell’ esibirsi e
dell’essere presente. Fuori di questi eccezionali casi, deprivati dell’impulso delle reali e intime
commozioni e del sentimento fondamentale secondo il quale la morte dell’altro suscita in noi il
pensiero della propria morte, tutto si è banalizzato. La società non avverte più la necessità di una
pausa delle proprie attività, la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. Un
aspetto che emerge nella situazione urbana attuale, secondo Ariès, sembrerebbe essere quello di
una menzogna, della prevalenza di una insignificante ed abitudinaria etichetta. Si recita la
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commedia del “nulla è cambiato”, la “vita continua come prima”. E’ una dissimulazione che
annulla tutti i segni che una volta allarmavano il malato, in modo particolare lo spettacolo della
manifestazione pubblica che accompagnava la morte, a cominciare dalla presenza del prete.
Dall’inizio del Novecento anche nelle famiglie cattoliche più osservanti, è subentrata l’abitudine a
chiamare il prete al capezzale del malato solo quando la sua presenza non poteva più
impressionarlo, o quando aveva perduto conoscenza, o quando era già morto.
Il morire non appartiene più all’agonizzante o alla sua famiglia, essendo esso gestito dal
management ospedaliero che tratta la morte come evento che deve evitare ogni impaccio possibile
e deve verificarsi preferibilmente in assenza degli altri. E’ conosciuto, come risultato estremo di
questa involuzione, il sistema americano delle funeral- homes, dove il defunto, reso insensibile
oggetto dei traffici di gestori specialisti del cadavere, sottratto il morto all’ospedale, ne fanno una
merce immettendola in una specie di catena di produzione che va dall’imbalsamazione a
imbellettamenti ripugnanti, alla ricostruzione anatomica di alcune parti, all’esposizione in bara o
su poltrona, in locali predisposti in forma di cappella o di salone addobbato, dove i visitatori vanno
a rendere omaggio di etichetta al suono di musiche funebri, passando in ultimo a un banchetto
collettivo. L’involuzione dei costumi funebri statunitensi è stata denunciata da Jessica Mitford, nei
primi anni Sessanta, provocando durissime reazioni da parte dell’organizzazione dei funeral
directors e degli industriali del cadavere che l’accusarono di comunismo e carenza di patriottismo.
Mitford evidenziava lo spirito commerciale che domina la grande impresa del cadavere, in cui
circolano milioni di dollari, con tariffe imposte criminalmente attraverso la sollecitazione di mode
e gusti, che riguardano gli oltre sessanta “servizi” inventati intorno al cadavere da sfruttare,
dall’imbalsamazione al commercio di vari tipi di scarpe per morto, di cripte e bare, di tipi di avvisi
funebri, di ricevimenti, in un capovolgimento totale del rapporto uomo-morto. In questo caso
particolare che nasce dall’invadenza di un’incultura radicale delle masse statunitensi, la morte non
è più occasione di apertura di un rapporto con la collettività, ma solo un’esibizione di ricchezza e
di ostentazione, di dimostrazione volgare del proprio potere economico, come le feste americane
di presentazione della diciottenne in società o quelle che accompagnano le presentazioni di
uomini politici alle elezioni. Ragon è del parere che dalle società selvagge a quelle moderne il
degrado è irreversibile. I morti cessano di esistere, sono respinti fuori dalla circolazione simbolica
del gruppo. Non sono più ritenuti esseri a pieno titolo, e vengono spinti sempre più lontano dal
mondo dei vivi, dal centro alla periferia e infine in nessun posto, come accade nelle metropoli
contemporanee. Essere morti diventa una disturbante anomalia, la morte è una devianza incurabile.
Per J. Baudrillard la morte ha perduto il valore di scambio. Ha perduto la sua falce ed il suo
orologio, ha perduto i Cavalieri dell’Apocalisse, i giochi grotteschi e macabri del Medioevo. Si
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trattava di un folklore e di una festa attraverso i quali la morte si scambiava ancora con “simbolica
efficacia” presso i primitivi e come fantasma collettivo sul frontone delle cattedrali o i giochi
condivisi dell’inferno. Si può dire che fin quando esiste un inferno, esiste un piacere. La sua
scomparsa dall’immaginario collettivo è il segno della sua interiorizzazione psicologica, quando la
morte finisce di essere la grande mietitrice per diventare angoscia di morte. Però bisogna
procedere con cautela su queste argomentazioni di Baudrillard, perché le proiezioni figurative di
morte, anche mutando nei tempi, restano sempre inserite in una immutabile ed universale angoscia
di morte. Oltre tutto poi non si riesce a misurare nella loro reale consistenza questi processi di
mutazione. Sembrerebbe che la nuova mentalità moderna e postindustriale non abbia avuto effetti
e conviva con quella arcaica. Sostanzialmente, afferma Thomas che, se si può parlare di un
modello moderno del rituale funebre, lo si può occasionalmente osservare nell’ambiente urbano,
più in particolare forse negli strati borghesi della società. All’opposto, nell’ambiente rurale e
presso gente semplice può accadere di trovare l’impronta della tradizione. Nei paesi moderni
inoltre, l’eredità culturale resta più o meno pregnante, ed in effetti i paesi latini o slavi della
vecchia Europa, il Giappone e l’America latina, non hanno affatto liquidato i costumi ancestrali
anche in seno alle grandi città. E’ noto che nelle campagne, e specialmente nei paesi mediterranei,
la solidarietà di villaggio ha ancora un ruolo in occasione della morte, sono ancora molti gli
uomini e le donne che vogliono essere seppelliti con i loro oggetti utili.
Il fatto essenziale in questi spesso intricati giudizi, è l’emergenza di uno stato di transito culturale
che va dai residui arcaici conservati nelle varie culture e il sentimento di una anonimia del morire,
a motivo del declino della presenza della collettività. L’aspetto nuovo che accompagna questo
fenomeno che avanza sia nelle città sia nelle campagne, consiste nella sostituzione della casa come
luogo naturale della morte con l’ospedale, nel quale l’isolamento è totale ed angosciante come
risulta dalle numerose ricerche compiute da medici, psicologi e sociologi sugli stadi terminali delle
persone ospedalizzate. Nella sua esperienza da medico E. Kubler-Ross afferma che > il morire
diviene desolato e impersonale perché il malato è spesso allontanato dall’ambiente familiare e
portato in fretta al pronto soccorso. Solo coloro che lo hanno vissuto possono conoscere il disagio
e la freddezza inevitabile di un tale trasporto che è solo l’inizio di una lunga prova, dura da
sopportare quando si sta bene, difficile da esprimere in parole quando il rumore, la luce, le scosse
e le voci superano la capacità di sopportazione del paziente. Il viaggio all’ospedale è il primo
episodio del morire, come lo è per molti, non per dire che non si dovrebbero salvare le vite, se con
un ricovero ospedaliero si possono salvare, ma per fissare l’attenzione sull’esperienza del malato,
sui suoi bisogni e le sue razioni. Quando un paziente è seriamente ammalato, è spesso trattato
come una persona che non abbia alcun diritto di avere un’opinione, non è una persona. Se tenterà
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di ribellarsi verrà trattato a base di sedativi e dopo ore di attesa sarà trasportato nella sala
operatoria o al centro di rianimazione divenendo un oggetto di grande interesse ed investimento
finanziario. Può desiderare che una sola persona si fermi un momento per poterle chiedere una
cosa soltanto, ma avrà una dozzina di persone sempre intorno, affaccendate e preoccupate del suo
ritmo cardiaco, del polso, dell’elettrocardiogramma, delle sue funzioni polmonari, delle sue
secrezioni o escrezioni, ma non di lui come essere umano<.
Dal libro di Salvatore Natoli: “L’esperienza del dolore”, il cui contenuto affronta il problema
della morte ed è riportato sinteticamente in questo capitolo, risulta che nelle società arcaiche la
morte era pertanto concepita come un evento collettivo, un trauma che colpiva la comunità anche
se non rescindeva completamente i legami, in quanto vivi e morti comunicavano tra loro, oltre la
morte. Questo “oltre la morte” non è stato concepito sempre come la migliore vita, che prende la
forma della “miglior vita”, della “vita eterna”, nella tradizione cristiana. In Cristo la morte è vinta,
nel Cristianesimo non si muore più veramente e la morte vera è quella eterna, la dannazione. Però
la morte, a partire dalla tradizione antica era concepita in modo completamente diverso, come un
evento naturale e in quanto naturale non può essere vinta, ma cessa di essere scandalosa. Nelle
società contemporanee, la vita si difende dalla morte, rimuovendola, fino ad ignorare il morente.
Ma la morte non può essere cancellata, si può solo non farla apparire.
Nella morte si è sempre soli ma non è un danno il fatto in sé, se la rimozione della morte ammala
la società di falso ottimismo, la sobrietà, la morte privata ed il pudore danno alla morte una più
alta dignità che un cordoglio pubblico, senza amore e ritualizzato. Però la morte in segretezza è
bella se non è abbandono. Per morire bene occorre morire per qualcuno, il che significa
consegnarsi a qualcuno, potersi lasciare in eredità, non lasciare un’eredità, essere accolti nella vita
da altri e continuare a vivere in loro malgrado la morte.
La morte viene vista anche come evento collettivo, nel rito e questo aspetto si può conciliare con il
dolore individuale delle persone che erano più vicine al defunto. E’ un importante rapporto tra
l’individuale ed il collettivo in quanto riguarda proprio il modo di vivere la morte, il vissuto della
morte, che nelle epoche del mondo non è stato sempre uguale, come si differenzia nelle diverse
civiltà del mondo, perché il tema della individualità, della morte come morte solo mia, è recente a
confronto della storia dell’umanità, in quanto nelle società arcaiche la morte era un fatto collettivo,
perché la società era più integrata. In queste società si viveva insieme, c’era una continuità di ritmi
di vita e di spazi. In siffatte società c’era una interazione continua, era difficile trovare la
solitudine. La morte era sì patita dall’individuo, ma lo era anche e soprattutto dalla comunità che
viveva come una perdita, come una ferita la morte di un suo membro. E la comunità si risarciva da
questa perdita con i rituali di morte attraverso i quali i membri della comunità si stringevano.
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Anche nelle più recenti società, dove sussistono residui arcaici, nella morte si verifica il fenomeno
del dare, delle visite del portare il cibo ai parenti, presso i quali è avvenuto l’evento mortuario,
fenomeni che nella nostra società sono meno presenti rispetto a quelle arcaiche, dove tutta la
società si stringeva a comunità nei confronti della morte. Anche il rapporto con colui che moriva
era diverso da come lo concepiamo oggi, per noi oggi la morte è un fatto naturale, si torna alla
terra. Non era così nelle società arcaiche perché la morte non era poi concepita in modo molto
naturale, ma come una uccisione, in alcune società era considerata come un omicidio. In tedesco
ad esempio morte si dice Tod, che deriva dal verbo toten, significa uccidere, pertanto la morte è
come se non fosse una curvatura della natura, ma è come se venisse dall’esterno è l’effetto di
un’uccisione e il morto, continuava a vivere come spirito. Sussisteva quindi un rapporto di
comunità non solo tra i viventi, ma tra vivi e morti, perché i morti, in quanto spiriti vaganti
potevano tornare e anche vendicarsi dei vivi per le offese che avevano da loro ricevuto da vivi.
Quindi mentre nelle società arcaiche la morte creava una ferita nella comunità, nell’evoluzione
verso la modernità è avvenuta in modo sempre maggiore una personalizzazione della morte, è
diventata sempre di più un’esperienza individuale.
Già nei secoli cristiani si assiste ad una individualizzazione della morte, nel senso che il soggetto
che muore, è lui ad essere destinato alla salvezza o alla dannazione, è lui il titolare e pertanto
l’elemento della propria salvezza. Nel Cristianesimo quindi, il protagonismo nella morte diventa
molto importante, anche se resta sempre presente la comunità.
Nella modernità si sviluppa sempre più il tema della naturalità della morte, che era già presente nel
mondo antico. La morte era disgregazione e aggregazione, quindi non era una forza esterna che
uccideva, ma la natura, dentro di sé, aveva il germe della morte. Ogni uomo muore perché la morte
matura dentro di lui, è quindi presente la dimensione di naturalità della morte, nella modernità
invece accade che nel momento stesso in cui l’uomo assume come ovvia la naturalità della morte e
non crede più “nell’altro mondo” e molti non ci credono, non si crede più all’altra vita, quella
eterna, e pertanto la morte è naturale e dovrebbe essere più facilmente accettata. Ma tutto ciò non è
avvenuto perché parallelamente alla persuasione che la morte è naturale, si è sviluppata la tecnica
che ha la possibilità di differire la morte in quanto è avvenuto un prolungamento della vita e
persino nella situazione di malattia c’è la possibilità di durare a lungo in essa, con la possibilità di
ridurre il dolore, e pertanto la possibilità che la tecnica abbia il potere di differire la morte. Per
quanto pensata come naturale, la morte è vissuta come innaturale perché la tecnica può differirla.
La dimensione della soggettività, allora, del destino del soggetto rispetto alla morte, viene giocata
anche come rapporto dell’individuo rispetto alla tecnica, e il risultato è che l’uomo affidato alla
tecnica , è sottratto alla comunità.
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E’ una contraddizione che va considerata il fatto che nella nostra società da una parte c’è un
tentativo di fuggire la morte e tenerla nascosta, mentre dall’altra viene mandata in onda in
televisione, spettacolarizzata per questioni di audience. Tale problema è presente nelle nostre
società, perché la morte resta sempre un fattore drammatico. E’ lo spettacolo della vanità, la vita
che si dissolve, mentre la vita non vuole morire, anche se la morte è naturale, il vivente fino a che
vive, non vuole morire. E’ pertanto presente un elemento traumatico nella morte, un trauma che
spinge l’uomo a interrogarsi sul senso della sua esistenza. Oggi viviamo in una società in cui nella
quotidianità della vita la morte non si incontra più. Nelle società arcaiche ma anche in quelle più
recenti, come quelle dei nostri genitori e soprattutto dei nostri nonni, la morte si incontrava nella
vita, in quanto il malato era in casa, c’era un’assistenza del paziente, si vedeva morire la persona,
si stava fuori per varie ragioni ma poi si tornava, c’era dunque un contatto fisico con la morte.
Con la tecnica, il malato, il morente è sottratto perché è affidato al competente. Di conseguenza
per quanto ci siano relazioni d’affetto, non c’è il contatto fisico con la morte che gestita dalla
tecnica, viene sottratta all’ordinario della vita. E nella vita di ogni giorno si cerca di far sparire la
morte. Le immagini che ci vengono proposte sono immagini di bellezza, vitali, si dà un’immagine
di sanità, eppure la morte c’è, è presente, lo è con eventi terribili e questa morte appare allora nella
forma della rappresentazione, dell’epopea del macabro. La morte diventa qualcosa di
rappresentato ma non di vissuto, è resa visibile, ma contemporaneamente è resa finta, in quanto
non entra nella quotidianità della vita, ma è talmente spettacolarizzata da sembrare inverosimile, è
ridotta a film e quando entra nella vita, è anche falsificata. Il vero problema di incontrar la morte è
la responsabilità dell’altro, del suo dolore, mentre troppo spesso siamo irresponsabili rispetto al
dolore che abbiamo intorno, anzi ci eccitiamo con il macabro e con il terrore, infatti nella
filmologia contemporanea il terrore è diventato un ingrediente shock, si ricerca un effetto shock
sul soggetto, pertanto è questa la dimensione di falsificazione della morte.
Spesso le religioni sono state un tentativo di superare la paura della morte, come si è cercato di
fare anche con atteggiamenti laici, al di fuori della religione. Tale paura è inevitabile, nel senso
che il vivente, in quanto “potenza ad esistere” (questo vuol dire vita), è colui che appunto rifiuta la
morte, la vita rifiuta la morte, ma noi siamo una quantità di “potenza finita”, e la scoperta della
naturalità della morte, che la morte è naturale, denota che l’uomo ha compreso che la morte
matura dentro di noi. La vita cresce, ma alla fine si dissolve, e ciò è inevitabile, ma il fatto che la
morte sia inevitabile, non significa che divenga accettabile, pertanto la vita umana è sempre questo
combattimento tra la vita e la morte. La personalità cresce e si struttura meglio, se si porta
all’altezza della morte, che non è quella che viene alla fine, bensì le molte morti che attraversano
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la vita, tipo i desideri mancati, gli amori falliti o i progetti irrealizzati., ma a fronte di tutto ciò
l’uomo ha risorse, può rilanciarsi, noi nella vita abbiamo quindi la possibilità di molte resurrezioni.
La morte in senso definitivo avviene quando questa nostra forza si affievolisce e finisce. Ci sono
in questo caso due punti di vista:
1) La morte verrà, è naturale, quindi per me il compito più elevato non è quello di allontanare
la morte che viene alla fine, ma di realizzare nel migliore dei modi questa mia vita,
considerando che la morte è naturale, proprio per l’ineluttabilità del mio morire, devo vivere
questa vita con pienezza cercando di valorizzarla al massimo.
2) Proprio a causa di tale ineluttabilità, la vita non vale nulla e allora c’è la necessità di una
compensazione, il bisogno di un al di là che compensi questa vita, che, se è strutturata ai fini
della morte, non avrebbe senso.
Sono due modi divergenti di concepire e di esperire la morte. L’antropologia del credente è una
antropologia che non sopporta la morte, mentre quella del non credente si porta all’altezza della
morte.
La dimensione dell’ignoto
La dimensione dell’ignoto è quella dell’oltre, è quella per cui c’è fin dalle origini una stretta
intimità tra la morte ed il sacro. Ci si chiede se la morte è l’ultima linea delle cose, oppure se è un
confine che ci spinge verso una ulteriorità. Si può affermare: “Mi toglierei la vita se non ci fosse
la dimensione dell’oltre”. La società contemporanea sta perdendo sempre più la dimensione
dell’oltre, quando va bene può rimanere la dimensione del ricordo. Sappiamo che tra i tanti
business, esiste oggi quello mortuario, un’azienda che vende casse da morto è detta Pompe
Funebri, e quindi prendiamo atto che è presente un business, una industrializzazione della morte,
ma intesa non nel senso dell’oltre, ma in quello dell’impacchettare bene il morto, una spedizione
elegante per la spedizione, dove lì c’è un destinatario che non c’è qui.
Afferma Epicuro quando allontana la paura della morte: “Quando c’è la morte non ci siamo noi,
quando ci siamo noi non c’è la morte, quindi la morte non è un male”. Questa concezione di
Epicuro è diventata quella delle culture non religiose contemporanee, una concezione che non
vede nella morte il punto drammatico vero della vita, un punto di battaglia. Importante a questo
punto diventa quanto esposto prima sul fatto che la morte che l’uomo incontra è quella che
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incontra nella vita. E’ nell’esperienza del dolore che è presente la morte, è nel dolore che c’è
l’esperienza della perdita, pur verificandosi poi l’esperienza finale.
Il progetto di perdersi del tutto è importante, noi viviamo la nostra morte finale come importante
perché la anticipiamo nella vita.
Heidegger parlava di anticipazione della morte, in quanto nel nostro progetto di vita, consci che
c’è la morte, noi la anticipiamo e pertanto diventa importante, non quando verrà, ma il suo essere
sempre presente nella vita di ognuno come estrema possibilità. Esiste nella liturgia cristiana-
cattolica, una formula: media vita in morte sumus, cioè siamo nella morte al centro della vita, e
allora in tal senso, la morte ci appartiene, come nostro ultimo confine, come la nostra più propria
possibilità. In questo senso allora la viviamo, ma la viviamo veramente incontrandola nella vita,
in quelle piccole o grandi morti che sono le nostre sofferenze, rispetto alle quali non dobbiamo
essere pessimisti, è sempre presente una possibilità di risorgere. La potenza che noi siamo, può
vincere.
E’ importante come si muore, ne è già stato parlato in questo contesto quando si è accennato al “si
muore per altri”, quando si muore sempre per qualcuno. Ci può essere anche una bella morte,
quando nel morire non si lascia in eredità qualcosa, ma si lascia se stessi, cioè quando qualcuno
accoglie in sé il morente come per continuare il suo compito. Per morire bene bisogna vivere bene,
e qui si evidenzia il problema di oggi che si concretizza con la solitudine. Si parla di solitudine del
morente, ma la solitudine del morente inizia molto prima, perché nella vita i legami forti sono
sempre di meno. I legami familiari, affettivi sono sostituiti e consumati dalla giovinezza, ma arriva
il momento in cui questi legami non ci sono e si resta soli. Si muore soli perché si è vissuti soli.
Estetica della morte
Esiste una possibilità estetica della morte ed è possibile solo se l‘uomo ha saputo costruirsi uno
stile della vita, cioè la capacità di reggere al dolore, di formarsi , di avere legami, affetti, coltivare
amicizie, sentirsi nel legame con gli altri. In questo senso, alla fine della vita si può affermare che
si è vissuti bene, che si può lasciare qualcosa agli altri, un ricordo di noi che gli aiuti a vivere. E’
questo il modo oggi per il non credente, di vivere bene, nel significato di lasciare una continuità,
mentre ci si va spegnendo, si alimenta qualcosa che invece cresce, è il miglior modo per durare e
chi muore in siffatto modo, muore bene e la sua morte è estetica.
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Il suicidio
Anche il suicidio potrebbe essere considerata una morte estetica, ma ha la caratteristica
dell’onnipotenza, mentre ciò che bisognerebbe evitare è accettare la morte, ed il modo più alto di
affrontare la morte, è accettarla con dignità, cedendo appunto la propria vita ad altri, mentre nel
suicidio c’è un delirio di presunzione. Si potrebbe definire il suicidio una volontà di potenza, una
pretesa di assoluto, il suicidio come una rinuncia alla vita perché è insopportabile, ed una pretesa
di vita che non è quella che noi viviamo.
Il suicidio assistito
Nel suicidio assistito che è poi una forma di eutanasia, si presenta un problema diverso, perché
bisogna ragionare sulla responsabilità che ha il soggetto nel suo morire. La forma è: morire bene.
Cioè stabilire fino a che punto è giusto che un individuo che perde la sua personalità, che è
straziato dal dolore, umiliato dalla malattia debba proseguire nella sua vita. Tale problema si pone
incalzante in una società come la nostra, in cui la morte può essere differita dalla tecnica. Il
problema si pone allora in termini di dignità, domandandoci se possiamo far sopravvivere un
corpo quando avviene la dissoluzione del soggetto, oppure se l’uomo esiste fin quando è un
soggetto. Il problema dell’eutanasia si può porre in tali termini, e siccome il soggetto che soffre è
espropriato da sé a causa della malattia stessa, ci si chiederà fino a che punto riesca a dominare
questa sua fine. In questa incertezza l’eutanasia può configurarsi come un atto di dignità, ma anche
come un modo per liquidare chi sta morendo, perché coloro che stanno accanto al morente non
reggono la sua morte. E’ importante considerare l’eutanasia all’interno di questa oscillazione e di
questa ambiguità.
Sacralizzazione della morte
Il desiderio di sacralizzare la morte, probabilmente nelle nostre società è molto meno presente che
non in altre, soprattutto nella società cristiana. S’è parlato della confezione del morto, che non è
sacralizzazione, è correttezza, eleganza e anche un modo per fissare il ricordo.
Molti simboli cristiani sono, nella nostra società soprattutto, diventati segni decorativi, abitudini
residuali più che convinzioni. Un contenitore era usato per l’Estrema Unzione, e conteneva
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l’oleum infirmorum, ossia l’olio degli infermi e, (anche oggi per i credenti lo è), quando questo
oggetto contenente l’olio veniva usato, si accompagnava il morente verso il transito. In questo
contesto la parola “sacro” significava moltissimo, dove, nel momento della morte, non c’era la
fine di tutto, ma un “a rivederci”, un ritrovarsi in patria, come dice la liturgia cristiana. Era
presente quindi il dolore per un congedo momentaneo, il trauma, il dolore della morte, c’era, ma
c’era pur sempre la speranza di rincontrarsi. Quindi è così che avviene la sacralizzazione della
morte nella società cristiana, ed in quelle arcaiche, come già esposto, era sacralizzata perché il
morto poteva tornare. Tutto ciò non esiste più perché il morto si può impacchettare e l’unico modo
attraverso cui il morto può vivere è nella memoria di chi sopravvive.
Il morire per gli altri
Morire per gli altri vuol significare il mettersi dalla parte del morente. Il morente patisce la sua
morte, il che vuol significare che patisce nella morte il distacco dal mondo, da quelli che lascia,
perché altrimenti non patirebbe la morte, la morte come abbandono della vita, e quindi come
distacco dagli altri. Questo riguarda chi muore, e come è già stato detto, l’altro, quello che vede la
morte, patisce la perdita dell’altro, tutto quello che può o che potrebbe fare con lui. Pertanto nella
separazione, (morte come esperienza della separazione), è sempre un morire per qualcuno, dalla
parte di chi muore l’abbandono del mondo, per chi sopravvive la perdita dell’altro. La morte è
esperienza del legame.
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LE PATOLOGIE DELL’ANZIANO
L’INTERRELAZIONE, IL RAPPORTO COMUNICATIVO - TERAPIE
L’invecchiamento è un processo che interessa tutti gli organismi viventi e che comporta
modificazioni biologiche. Nell’uomo si assiste a tali modificazioni del corpo e delle sue funzioni,
seguite da un processo di adattamento psicofisico già dopo i 30 anni. Il fenomeno è graduale e
progressivo, anche se variabile per ogni individuo.
L’invecchiamento fisico
L’invecchiamento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno importante della nostra
società. Rispetto al passato non è variata la durata massima della vita umana, ma si è modificata la
percentuale degli individui che raggiungono l’età avanzata. Gli anziani sono sempre più numerosi
e raggiungono la vecchiaia in condizioni di salute migliori, merito del progresso sia delle
conoscenze scientifiche (riduzione della mortalità per malattie infettive) che delle condizioni
socio-economiche (miglioramento dell’igiene e dell’alimentazione).
Esiste tutt’oggi difficoltà a stabilire l’inizio del processo di invecchiamento, processo
caratterizzato dall’aumento dei processi distruttivi su quelli costruttivi a carico del nostro
organismo.
Si suole considerare le seguenti fasce di età:
1) età di mezzo o presenile 45 – 65 anni: gli eventi biologici caratteristici sono la menopausa per
la donna e l’andropausa per l’uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei
grassi nel sangue, della glicemia, predisposizione all’ipertensione arteriosa).
2) senescenza graduale 65 – 75 anni: comunemente si indica l’età corrispondente all’inizio della
vecchiaia a 65 anni.
3) senescenza conclamata, 75 – 90 anni: in passato individui di età superiore ai 65 anni
mostravano riduzione dell’efficienza psicofisica, ai nostri giorni si assiste alla comparsa di
ultrasessantacinquenni efficienti, e si può ridefinire anziano l’ultrasettantacinquenne.
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In questo periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a determinare interventi
sociali e riabilitativi.
Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) ed una
diminuzione dell’efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e
predisposizione ad una serie di disturbi.
L’invecchiamento psichico
La psicologia dell’invecchiamento si occupa dell’anziano nella sua globalità: analogamente ad
ogni fase della vita umana non si può prescindere dall’importanza della componente affettiva che
determina la modalità di risposta agli eventi della vita.
Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso peggiorativo, ma si può
affermare che non esiste un parallelismo fra le modificazioni delle funzioni in individui diversi
(eterocronia).
La modalità di invecchiamento non può prescindere dalla personalità e dalle esperienze, la
vecchiaia rappresenta la sintesi del significato dell’esistenza: è nella vecchiaia che si può
raggiungere la saggezza.
Già nell’antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata da deterioramento
mentale permanente, in particolare dal declino patologico delle capacità intellettuali e
dell’adeguato controllo dell’emotività (demenza).
Catone e Seneca affermano che la vecchiaia non è solo un processo necessariamente legato al
decadimento globale dell’organismo umano, ma sottolineano in particolare l’importanza di
coltivare molti interessi, fonte di frutti meravigliosi.
Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni creative proprio nella
vecchiaia; studi condotti con modalità diverse hanno dato risultati diversi rispetto al passato:
l’anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad es.
mediante l’allenamento mentale, e se motivato.
Studi anatomo-patologici sul cervello mostrano che nell’invecchiamento si ha una sclerosi
progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono presenti modificazioni cerebrali. Ciò a
conferma della variabilità del processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui.
Attualmente si ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (sinaptogenesi).
Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che con l’avanzare dell’età
diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentramento, frequentemente
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compaiono alterazioni dello stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è
dimostrato che l’anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente.
La biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata funzionalità cerebrale anche
nella senescenza, anzi molte opere di scrittori, filosofi, artisti, compiute alla fine dell’esistenza,
rappresentano il coronamento di tutti i lavori precedenti.
Fattori che influenzano i processi di invecchiamento
1) fattori genetici, anche il sesso può essere un fattore predisponente (il maschio invecchia più
precocemente)
2) educazione e livello culturale che consentono di trovare più facilmente delle alternative di vita
alla pensione, di creare delle strategie di sopravvivenza
3) benessere economico
4) interazione e comunicazione
5) comparsa di malattie invalidanti: l’anziano vive come intrinseca la sua malattia, il suo
vissuto è che la malattia appartenga al suo destino
6) stile personale di vita: cioè subire o vivere la vita
7) appartenenza ad un nucleo socio-familiare: cioè il gruppo, mediante atteggiamenti di
conferma o svalutativi, evidenzia gli aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia
8) eventi drammatici: la scomparsa di figure di riferimento
9) sradicamento dal proprio luogo di origine
E’ evidente l’importanza dei fattori sociali.
La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne attraverso i canali sensoriali.
E’ quindi legata a due fattori: l’integrazione delle informazioni che avviene a livello del sistema
nervoso centrale e l’assimilazione legata ai sensi legata al sistema nervoso periferico. La vista e
l’udito sono spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità percettiva.
Sulla base del principio di costanza percettiva che dice che la percezione si mantiene costante
nel processo di invecchiamento, il cervello cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad
una perdita sensoriale stimolando i sensi rimasti integri (principio di conservazione).
Con l’avanzare degli anni si affina la capacità di rispondere alla diminuzione di alcune funzioni
psicofisiche utilizzando le conoscenze e le esperienze apprese nella vita.
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E’ stato dimostrato che l’attività percettiva migliora se migliorano le condizioni in cui l’attività
percettiva stessa si svolge: l’ambiente esterno, la società, ma soprattutto il gruppo familiare può
stimolare l’interesse, dare spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità dell’anziano.
La comunicazione, e quindi le relazioni interpersonali che permettono una vita sociale, dipendono
dalla possibilità di percezione. E’ noto che l’anziano mantiene integra la memoria.
La motivazione, in tutte le età è la spinta propulsiva fondamentale del comportamento,
insostituibile strumento di apprendimento. Persino l’utilizzo del computer, strumento estraneo alla
cultura dell’anziano, può essere appreso qualora l’anziano sia motivato a farlo.
L’affettività. Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere l’interazione
con l’ambiente esterno, l’anziano deve essere in grado di comunicare. Perchè ciò avvenga non si
può prescindere dall’importanza dell’affettività, del riconoscimento del suo valore all’interno del
nucleo sociale in cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell’agire quotidiano, nell’essere
al mondo.
La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica più frequente nell’età
senile, comporta la rinuncia alla vita: l’aspettativa di vita è statisticamente limitata, la società invia
messaggi di inutilità, si capisce come la volontà di vita dell’anziano per essere mantenuta necessita
dell’affetto dei propri cari che affermano l’importanza della sua esistenza.
La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età avanzata, ma questo è
vero anche dal punto di vista fisiologico. L’esercizio sessuale è fondamentale, come quello di
qualsiasi altra funzione organica. Tuttavia è ancora diffuso il pregiudizio culturale che considera la
sessualità in età senile come indecorosa, come se l’anziano non potesse sentire e vivere le proprie
emozioni.
La creatività
Per invecchiare senza sviluppare demenza è necessario che l’anziano mantenga attive le funzioni
cerebrali. Per creatività si intende l’espressione di sé stesso, le cui modalità di esecuzione sono
vastissime.
La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E’ fondamentale per la sua crescita.
Ma la creatività diminuisce sempre di più in una società “ratioforma”, come la nostra, che
privilegia la forma, il pensare secondo una logica comune, non il differenziarsi.
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Nell’età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole azioni quotidiane, come
nella creazione di pietanze originali. Questo può valere in diverse condizioni di aggregazione:
all’interno della coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto interessanti sono le
iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista psicologo può rappresentare un
valido aiuto per l’anziano nel riconoscere e svelare le potenzialità creative. Qualora vengano
evidenziate le capacità creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente.
Il rapporto nonno-nipote
Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote. Esiste spesso la difficoltà di esprimersi dei bambini
con i propri genitori impegnati a lavorare. La relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità
di espressione di entrambi. Il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi del
passato modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più piacevoli con un pizzico di
invenzione.
Il racconto di episodi passati diventa strumento per stimolare la funzione creativa.
L’interazione nonno-nipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziani non
rappresenta una soluzione utile.
Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e scelte in chiave positiva,
evidenziando le qualità residue utili al fine di esprimere se stessi. L’anziano dovrebbe essere
sempre messo nelle condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concrete.
Le speranze e i timori
Il timore più grande per l’anziano non è la morte, che magari rifiuta inconsapevolmente, ma è
piuttosto la malattia, l’abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto
da parte del suo nucleo familiare.
Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte scientifiche allungano la durata della vita.
Nei paesi industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre più una percentuale
importante. E’ indispensabile che la longevità sia caratterizzata da anni di salute e non di malattia,
invalidità e dipendenza.
Bisogna considerare tre aspetti collegati tra loro:
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Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le risorse
psicofisiche, quindi di ridurre le necessità di trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione.
E’ necessario stimolare i rapporti con l’esterno, insegnare la geragogia, inserire nel mondo del
lavoro la possibilità di avere l’età di pensionamento flessibile, stimolare il volontariato, non solo
verso coetanei della terza età, ma anche utilizzando l’esperienza dell’anziano utile per
l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Si potrà allora affermare che invecchiare è un
crescere ancora, un recuperare la propria espressione.
Terapeutico: l’anziano presenta spesso la compromissione di più organi, la cui terapia consiste
nella somministrazione di più farmaci. Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in
particolare di psicofarmaci. Analogamente ai bambini irrequieti, agli anziani depressi vengono
somministrate sostanza farmacologiche.
Attualmente si è mostrata efficace associare, o sostituire, quando possibile alla terapia con
psicofarmaci, la psicoterapia sistemica che aiuta a creare forme di strategie comportamentali più
adatte ai bisogni individuali. La depressione è la reazione ad una situazione che appare senza via
d’uscita, ed esistono tecniche che vengono proposte per riportare l’anziano ad una realtà che può
ancora arricchire.
Riabilitativo: le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo importante nel ridurre i tempi di
degenza nei reparti ospedalieri, con sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la
sanità. Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a dura prova il suo fragile
equilibrio. L’allontanamento dalle mura domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà,
il ricovero appare come un evento drammatico che può comportare la morte.
Gli anziani che necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase acuta di una malattia possono
venire seguiti a livello extraospedaliero mediante il servizio di Assistenza Domiciliare Integrata.
Nel caso di grave compromissione psicofisica negli istituti di lungodegenza riabilitativa e nelle
residenze sanitarie assistenziali.
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Quando essere vecchi significava saggezza
Umberto Galimberti in un suo scritto afferma che la vecchiaia non è solo un destino biologico, ma
anche storico-culturale. Quando si aveva la concezione ciclica del tempo e ogni anno il ritmo delle
stagioni si ripeteva sempre uguale a se stesso, chi aveva visto di più, sapeva anche di più. Infatti
per Platone “conoscere è ricordare”, e il vecchio nell’accumulare ricordi era ricco di conoscenza.
Con la concezione progressiva, lineare del tempo, non più ciclico nella sua ripetizione, ma simile
ad una freccia scagliata in un futuro senza meta, la vecchiaia non è più considerata un deposito di
sapere, ma ritardo, inadeguatezza, ansia per le novità che non si riescono più a controllare nella
loro assillante e rapida successione. Il sociologo Max Weber, nel 1919 già affermava: “A
differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi gli uomini non muoiono più sazi della
loro vita, ma semplicemente stanchi”.
Pertanto la vecchiaia è dura da vivere, non solo per il decadimento biologico ed il
condizionamento storico-culturale, ma anche per una serie di destrutturazioni tra l’Io e il mondo
circostante che impoverisce le relazioni e rende l’affettività falsa. Nel vecchio, l’amore che Freud
ha ritenuto come antitesi alla morte, non si estingue, con “amore” si intende eros e sessualità, di
cui c’è rimpianto e ricordo. I vecchi cessano di essere riconosciuti come soggetti erotici e questo
costituisce ancora una destrutturazione che separa il loro Io dalla pulsione d’amore.
Nel tentativo disperato di opporsi alla legge di natura, che vuole il declino degli individui
inesorabilmente, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare all’erta continuamente per cogliere
ogni giorno il più piccolo segno di declino. Depressione, ansia, ipocondria e ossessività sono
compagne dei suoi giorni, ed i suoi feticci diventano la dieta, la bilancia, la palestra, lo specchio.
La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, pertanto Hillman scrive che, per il bene dell’umanità
“bisognerebbe proibire la chirurgia estetica e considerare il lifting un crimine contro l’umanità”
perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, incrementa quel mito della giovinezza
che designa la vecchiaia come anticamera della morte.
Ci sono due idee malate a sostegno del mito della giovinezza, che regolano la cultura occidentale
rendendo l’età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore
economico che, ignorando tutti gli altri valori, collegano la vecchiaia all’inutilità, e l’inutilità
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all’attesa della morte. Eppure il danno che si produce è enorme quando le facce che invecchiano
hanno scarsa visibilità, quando esposte alla vista pubblica sono solamente facce truccate, depilate e
rese telegeniche per garantire un prodotto mercantile e politico, perché oggi anche la politica vuole
la sua telegenìa. La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si cela un
volto trattato chirurgicamente è una falsificazione che fa trasparire l’insicurezza di chi non ha il
coraggio di esporsi con la propria faccia.
Se si smaschera il mito della giovinezza e si curano le idee malate che ha diffuso sulla vecchiaia la
nostra cultura, si potrebbero individuare in essa due virtù: quella del “carattere” e quella
dell’”amore”. La virtù del carattere la segnala Hillman ne La forza del carattere ed. Adelphi in cui
afferma: “Invecchiando io rivelo il mio carattere, non la mia morte”, e per carattere devo pensare a
ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama “faccia” perché la “faccio” proprio io, con le
abitudini contratte nella vita, le amicizie frequentate, le ambizioni inseguite, gli amori incontrati e
sognati, i figli generati. E l’amore che, come sostiene Manlio Sgalambro nel Trattato dell’età ed.
Adelphi, non cerca ripari, non si rifugia nella “giovinezza interiore”, luogo malfamato, ma si
rivolge alla “sacra carne del vecchio” che contrappone a quella del giovane, pura res extensa
buona per la riproduzione. “L’eros scaturisce da ciò che sei, non dalle fattezze del tuo corpo,
scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente cos’è l’amore fine a se
stesso”. Una sessualità totale subentra a quella genitale. Si annida qui il segreto dell’età, dove lo
spirito della vita guizza dentro come una folgore, lasciando muta la giovinezza, incapace di capire.
Forse il carattere e l’amore hanno necessità di quegli anni in più che la lunga durata della vita oggi
ci concede per vedere quello che le generazioni precedenti, tranne eccezioni, non hanno potuto
vedere, e per precisare, quello che uno è al di là di quello che fa, al di là di quello che tenta di
apparire, al di là di quei contatti d’amore che la giovinezza brucia, senza conoscere.
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PARTNERSHIP E FIDUCIA NELLA RELAZIONE MEDICO – PAZIENTE
Dal paternalismo alla cooperazione
Trasformazioni
La dipendenza del paziente dall’autorità professionale del medico è tradizionale. Da tempi remoti
il dovere del medico è soccorrere e quello del paziente è accogliere il suo aiuto come se provenisse
da un ministro di culto, con poteri di vita e di morte: Il medico agisce per procurare un giovamento
contro il disordine provocato dalla malattia. La sua responsabilità professionale è più religiosa che
giuridica, perciò in caso di errore gli è garantita l’impunità. Il paziente si deve adattare all’autorità
del medico subordinandosi a lui.
Il cristianesimo ha promosso l’immagine del medico buon samaritano che guida il paziente verso
la guarigione. In tal modo medicina e salute restano doni di Dio staccati dalla quotidianità e dal
contesto in cui la malattia si inserisce. In questa tradizione il paziente non ha alcun mezzo per
opporsi alle decisioni del curante. Fino al XIX sec. il paziente viene considerato come un
adolescente, maturo per alcune decisioni e non per altre. Il soggetto ha diritto di scelta a sovranità
limitata sul campo della clinica. Il paternalismo, non scompare con la modernità, ma si incrina:
Scoperto il potere dell’intelletto e l’esistenza di diritti uguali per tutti, l’individuo può disporre di
sé e fare scelte personali.
I cambiamenti sociali che hanno favorito la trasformazione del rapporto paternalistico ad una
relazione di partnership, possono essere così riassunti:
a) I cambiamenti nel rapporto M/P sono frutto dello sviluppo, in una società laica, pluralista e
democratica, del concetto di libertà e autonomia dell’individuo. Per ogni atto medico è necessario
un consenso libero ed informato.
b) Spinte socio-storiche hanno cambiato la collocazione della medicina. Da una scienza d’élite ad
un contesto di maggiore uguaglianza e democrazia.
c) Il medico ha perso l’autorità di colui che assume le decisioni in tutti gli aspetti della cura della
salute.
d) La tecnologia ha aumentato la complessità dei trattamenti e delle scelte da compiere.
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e) L’aspetto economico è sempre più importante nel condizionare le decisioni. C’è una
responsabilità maggiore per un appropriato uso delle risorse, e il medico deve pertanto bilanciare il
suo impegno verso l’individuo con i doveri verso l’intera società.
Man mano che nel tempo, il rapporto medico-paziente subisce trasformazioni, avviene
un’evoluzione dalla dipendenza alla partnership. Questo cambiamento è frutto spesso dell’operato
del medico che incoraggia il paziente ad una maggiore autosufficienza, verso la responsabilità di
assumere responsabilità nei confronti della propria salute e un utilizzo oculato delle risorse. Si ha
un modello di relazione medico-paziente che vede rispettata la persona come soggetto in diritto di
fare scelte e avere punti di vista personali. L’alleanza di lavoro che si determina, crea una
situazione di comfort reciproco favorendo accettazione e comprensione reciproche oltre
all’attenzione alle responsabilità sociali.
La difficoltà di tale prospettiva è nel mantenere equilibrio tra le esigenze del paziente che cerca da
un lato autonomia e dall’altro sostegno. Lo stesso medico è oggetto di contraddizioni, in quanto da
una parte è disposto ad una totale delega di responsabilità, ma dall’altra è allarmato per la
conseguente perdita di autorità.
I modelli
Modello paternalistico
Il medico decide, il paziente esegue passivamente le disposizioni dell’autorità professionale. In
tale
rapporto il paziente si comporta come un bambino che dipende dal suo maestro ed il risultato
deriverà dalle capacità persuasorie del clinico, in quanto in possesso della conoscenza mentre il
malato ne è all’oscuro. L’uno può infliggere sollievo o dolore, può limitare la libertà fisica
dell’altro attraverso un ricovero o imposizione di regole. Tale pressione esercitata in modo
“naturale” sul paziente è definita da Balint “la funzione apostolica del medico”. A questo ruolo del
medico si affianca quello del paziente che si sente in obbligo di collaborare, obbedire, fare il
bravo. Il medico viene così gratificato dalla posizione di sottomissione del paziente finendo per
sentirsi onnipotente.
Modello condiviso
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Il concetto di partnership comporta uguaglianza nel potere e nella responsabilità. Il Paziente deve
ricevere un’informazione che gli dica qual è il trattamento migliore per lui per poterlo confrontare
con quello che preferirebbe ottenere. E’ necessario che il medico usi gentilezza, buona
comunicazione, che attui la cooperazione cercando di comprendere qual è il “bene” che desidera il
paziente.
La caratteristica del modello di partnership è la natura interattiva in cui paziente e medico
stabiliscono in parallelo le fasi del processo di decisione. Entrambi rivelano le loro preferenze ed
esprimono il loro parere.
Il modello informato
Il paziente, dopo che il medico ha esposto le opzioni sceglie da solo. La comunicazione in questo
caso è ad una sola via, dal medico al paziente. Il malato ottiene informazioni dettagliate su
benefici e rischi e decide da solo. Il trasferimento di informazioni è l’unico contributo del medico,
che si limita a fornire indicazioni ed alternative senza esprimere personali opinioni, cercando di
non influenzare le conclusioni del paziente.
E’ un modello estremo in cui la libertà del paziente è massima ed il medico assume soltanto il
ruolo di tecnico esecutore. Tale modello, in cui il paziente sembra poter fare a meno del medico,
sembra rientrare nell’ambito dell’evoluzione darwiniana, dove il rapporto di partnership è solo la
tappa intermedia di una trasformazione inarrestabile, le cui conseguenze sarebbero come quelle
introdotte da internet o dalla nuova genetica.
La realtà
Ovviamente nella realtà i vari modelli sfumano l’uno nell’altro rendendo il panorama più
complesso. Il modello reale con il paziente è intermedio, la flessibilità dei protagonisti è necessaria
per poter procedere ad uno scambio che dia accettabili risultati sul piano pratico. Per affrontare i
piccoli problemi quotidiani non si può fare ricorso a manovre complicate per arrivare a decisioni
condivise, mentre quando si presenta un problema serio e sono presenti varie opzioni, quando la
posta in gioco è alta e non esiste il trattamento giusto, è importante che i valori del paziente siano
resi espliciti e considerati con lui nella scelta. Nei casi in cui una decisione può avere conseguenze
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importanti, il paziente è spesso teso ed emozionato, ha bisogno di calma e di tempo, deve essere
aiutato per far emergere la sua capacità di scegliere.
Ogni scelta viene condizionata da vari fattori:
a) Informazioni provenienti da altre fonti oltre quelle mediche, forniscono quantità di dati non
sempre fruibili da un punto di vista critico.
b) Le case farmaceutiche si rivolgono direttamente al paziente attraverso i media:
c) La maggior parte delle decisioni viene presa relativamente a malattie spesso auto risolutive di
cui non si conosce il decorso e la natura.
d) Il consumismo medico è aumentato fino al punto da provocare nel paziente irrealistiche
aspettative. La psicologia sociale evidenzia come una dicotomia tra le aspettative e la realtà
provochi disagio emozionale e come la soddisfazione dipenda dal grado di congruenza tra
aspettative e realtà.
d) L’enfasi mostrata per il progresso tecnologico porta a credere che la medicina possa fare
miracoli provocando aspettative enormi. Quando si comunica che la realtà è diversa e che
anche banali malattie non hanno soluzione, si provoca la delusione dell’utente che finisce per
provare diffidenza e rabbia nei confronti delle discipline mediche e dei medici.
La difficoltà a prendere una decisione, per il paziente si somma ad altri aspetti della realtà, che gli
rendono difficoltoso orientarsi nel campo della salute. L’aumento del numero dei medici
specialisti (che si occupano di una singola persona o patologia) causa la frammentazione del
paziente. La sua fatica ad instaurare un solido rapporto di fiducia con un singolo medico provoca
fraintendimenti e incomprensioni.
Nei luoghi di ricovero le cure spesso sono fornite in maniera anonima da sconosciuti che vogliono
imporre una autorità messa ormai in discussione anche a livello sociale e che non si dimostra
convincente quando è necessario scegliere la migliore tra le numerose terapie o diagnosi, oppure
quando è necessaria una corretta informazione mirata ad un consenso non limitato alla firma di un
modulo.
Affinché un rapporto sia davvero condiviso è necessario che il medico sia disposto a mettere in
comune col paziente non solo le scelte, ma anche le condizioni di dubbio e di ignoranza,
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ricordando che alcuni soggetti, messi di fronte all’incertezza vengono incoraggiati a prendere
decisioni, mentre altri diventano incapaci di scegliere perché presi dall’ ansia.
Opzioni del paziente
Comunicazione – Informazione – Decisione
I medici dovrebbero prescrivere informazioni oltre che ricette. In effetti, quando un paziente
prende una decisione in seguito di una esaustiva informazione, sono migliori gli esiti e più bassi i
costi.
Nell’incontro, medico e paziente, sono detentori di abilità che permettono di instaurare un legame
di cooperazione e intersoggettività. Il paziente è esperto di se stesso, delle circostanze sociali in cui
si sviluppa la malattia, del suo corpo, della sua personale esperienza di malattia, di valori e di
preferenze.
Malgrado l’enfasi sulla necessità che decisioni, scelte e responsabilità siano condivise nel rapporto
con i medici, molti pazienti non dichiarano le loro preferenze o non prendono parte attiva alla
gestione della propria salute.
- I giovani sono più critici ed esprimono maggiormente la loro volontà;
- Gli anziani ed i malati più seri preferiscono essere guidati perché abituati ad un modello più
paternalistico di rapporto con il medico, oppure temono di prendere decisioni sbagliate.
- La preferenza del paziente su un approccio più direttivo o più collaborativo, varia in base all’età,
alla condizione sociale, al fatto di essere o no fumatore (i fumatori vogliono decidere di più) e
dal fatto che sia presente un problema fisico o psicologico.
- Quando il paziente ritenga di avere un buon insight e quando è alle prese con malattie mentali
(es. depressione) o cambiamento di stile di vita, preferisce contribuire alle scelte ritenendo di
saperne di sé più del medico.
Se il medico dedica al malato un tempo adeguato potrà distinguere chi assume un ruolo più attivo
da chi sceglie un ruolo inerte. Un tempo troppo breve della visita può essere elemento di strappo
nel rapporto, una terminologia medica difficile per il paziente frappone ostacoli alla
comprensione e rappresenta un elemento di potere che vanifica il costituirsi di un’atmosfera
favorevole alle decisioni consapevoli.
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Malgrado l’idea che tutti desiderino partecipare alle scelte, non sembra molto evidente che i
pazienti vogliano collaborare davvero attivamente alle decisioni. Il consumismo ha abituato le
persone a voler sapere di più, ma non le ha impegnate ad una maggiore responsabilizzazione.
Per il medico è più saggio non generalizzare ed orientarsi ad ogni singolo paziente per capire il
livello di coinvolgimento che ciascuno desidera. Uno stesso individuo pretenderà maggiore o
minore coinvolgimento a seconda del problema che deve affrontare ed in base ai suoi eventi di
vita, al momento che attraversa, alle condizioni di contesto. Potrà accadere che il medico, nella
stessa giornata si comporti diversamente con ciascuno dei pazienti.
In un rapporto di partnership tra medico e paziente, capacità umane, informazioni complete,
comunicazione efficace, abilità ad ottenere fiducia, sono elementi che promuovono l’evoluzione
del rapporto dalla dipendenza verso la collaborazione facilitando le decisioni, l’espressione delle
opinioni, la valutazione dei rischi.
Comunicazione
Secondo Habermas quando si comunica si hanno pretese di validità universale che riguardano la
chiarezza, la veridicità, l’onestà che nella situazione discorsiva dovrebbero essere presenti e
rispettati integralmente.
I più frequenti schemi di comunicazione utilizzati dalla coppia clinica sono i seguenti:
- Rigidamente biomedica: le comunicazioni si limitano ai fatti esclusivamente clinici:
- Biomedico allargato: c’è qualche apertura nei confronti di alcuni aspetti di contesto.
- Biopsicosociale: il medico considera il paziente immerso nel suo contesto sociale ed è
disponibile ad accogliere e ad inviare comunicazioni che si riferiscono alla intera vita della
persona.
- Consumistico: caratterizzato da un uso del medico che deve rispondere alle domande del
paziente in termini strettamente limitati alle sue esigenze.
Quando un medico ed un paziente comunicano tra loro, non si trasmettono dei dati asettici, si
scambiano altri messaggi sotto forma di emozioni, valutazioni sulla relazione in corso tramite
comunicazioni implicite, impulsi e pensieri non consci. Ogni azione, ogni movimento fisico
assume una funzione di comunicazione. Il medico deve esserne consapevole così da poter
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utilizzare questa risorsa per diventare “Un negoziatore, un consulente, agente del cambiamento e
manager della sicurezza”.
Comunicazioni confuse producono mezze verità che affondano le radici nel terreno
dell’informazione mancante (Mitchell 1996).
Il paziente ha bisogno di demitizzazione, di comunicazioni chiare, di verità. E’ necessario renderlo
più abile ad esprimersi sia prestandogli ascolto, sia suggerendogli maggiore consapevolezza dei
suoi modi di narrarsi, sia discutendo con lui il significato delle parole usate per spiegare il
malessere.
Non ci si preoccupa degli elementi che favoriscono o inibiscono le persone a chiedere chiarimenti
e informazioni. Spesso il paziente sente di non avere a disposizione una situazione ambientale
favorevole a porre domande in quanto il tempo è limitato, lo studio affollato, il medico interrompe
subito. E’ meglio tacere o assumere le informazioni che si possono ottenere con più calma dai
media, dal vicino di casa o dal farmacista.
Informazione
La struttura delle conversazioni che forniscono informazioni mostra che le persone che stanno
dialogando conoscono cose diverse e condividono un argomento comune. Una conversazione
efficace implica che siano riconosciute ed affrontate le parti mancanti di una conoscenza e
credenza condivise (Fonagy).
Quando il paziente riceve informazioni in modo adeguato, è più probabile che prenda decisioni
autonome, diverse da quelle del medico. Nelle informazioni fornite al paziente si sottolineano di
solito gli aspetti positivi e si sottostimano i rischi o gli effetti collaterali. Si tende inoltre a dare
suggerimenti prescrittivi piuttosto che facilitanti.
Invece si dovrebbero dare indicazioni sulla storia naturale della malattia e sui risultati che si
possono ottenere realisticamente per modificarne il decorso.
Il materiale stampato che si distribuisce negli studi medici è spesso inadeguato, semplicistico e
consolatorio o, all’opposto, troppo tecnico ed incomprensibile.
La tecnologia interattiva e l’ascolto di narrazioni audio coinvolgono maggiormente il paziente con
un aumento della comprensione del problema. Se il soggetto si sente implicato, gli si riduce il
conflitto decisionale e lo si stimola ad un ruolo più attivo nel prendere decisioni senza aumentarne
l’ansia e riducendo così l’incertezza nelle scelte.
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Decisioni – valori – opinioni – rischi
Le decisioni si basano su una valutazione dei rischi, sui valori personali, sulle opinioni. Se il
paziente sceglie in modo contrario alle convinzioni del medico, è importante impostare discussioni
senza pregiudizi. Il paziente ha filtrato le informazioni attraverso il suo sistema di credenze ed ha
deciso se ciò che gli viene raccomandato è desiderabile nel contesto della sua vita quotidiana. E’
quindi importante che il medico ne identifichi i valori, che possono variare da una volta all’altra di
fronte a scelte differenti e si basano su convinzioni individuali, soggettive.
I valori che guidano le scelte sono:
a) Convenienza: quale opzione è più breve e rapida?
b) Sicurezza; che cosa dà maggiori garanzie di risolvere la malattia?
c) Sopravvivenza: quanto è lunga la sopravvivenza a seconda della decisione?
d) Salute: fino a che punto è possibile tornare alla normalità?
e) Integrità del corpo: quale scelta manterrà al corpo la maggiore integrità?
Importante per prendere una decisione che riguarda la salute è la conoscenza di che cosa è più
probabile che accada, eppure di fronte ad una decisone così importante chi è malato è spesso
confuso e pertanto incompetente. Se è coinvolto in una scelta consapevole, esiste la possibilità che
essa corrisponda meglio ai suoi valori, se si tiene conto dell’elemento temporale, valore molto
personale, forse la sua scelta sarà più ponderata. Certamente non tutti i casi sono uguali e non può
esserci un approccio standardizzato per tutti, ci sono situazioni in cui è più facile mettere al
corrente il paziente e altre in cui è possibile farne a meno.
Le situazioni in cui è d’obbligo rendere esplicite le scelte del paziente (Taylor 2000) sono:
Quando ci sono differenze rilevanti nell’esito della malattia (morte rispetto a usabilità)
Quando ci sono grandi differenze tra le probabilità di complicazioni dei vari trattamenti
Quando la scelta implica compromessi tra gli esiti a breve e a lungo termine
Quando da una delle scelte può derivare una piccola speranza in una grave situazione
Quando l’apparente differenza tra opzioni è marginale
Quando un paziente è particolarmente poco propenso ad assumersi dei rischi
Quando un paziente attribuisce una importanza insolita a certi possibili risultati
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Il medico è abituato ad un repertorio di valutazioni sempre uguali sulla base della sua esperienza.
Quando la decisione viene concessa al paziente cambia tutto, si ritiene che egli non abbia i mezzi
per giudicare consapevolmente i fatti, inoltre il modo in cui le opzioni gli vengono presentate
hanno un’importanza critica nel determinare la sua scelta. Le decisioni dipendono dalle indicazioni
mediche, dipendono soprattutto dalle preferenze del soggetto, dal suo giudizio sulla qualità della
vita e da circostanze legate alle sue credenze sociali e religiose. Le persone compiono scelte
differenziate anche nei vari stadi della malattia, pertanto non si può utilizzare un criterio rigido.
Per giungere ad una decisione condivisa, anche il paziente deve possedere competenze, deve
sapere che tipo di rapporto vuole, essere consapevole di ciò che capita, saper chiedere e sapere
cosa vuole sapere.
Molti medici credono di potersi limitare a fornire una informazione corretta senza partecipazione
personale, mantenendo un atteggiamento estraneo.
La presentazione neutrale viene considerata l’ideale rispetto a quella che enfatizza i lati positivi o
negativi di una scelta, ma bisogna chiedersi se esista o sia un miraggio.
La neutralità nelle scelte terapeutiche o diagnostiche da un lato si associa al mito della non
direttività evitando la manipolazione, come atteggiamento di rispetto nei confronti del paziente e
della sua autonomia, mentre dall’altro si identifica con la possibilità di assumere una posizione
“meta” e di cogliere quanto sta accadendo nella scena terapeutica come continuamente
condeterminato da tutti e due gli attori.
Una concreta condivisione migliora i risultati dell’incontro.
Ci sono persone che non vogliono correre alcun rischio, altre che accettano di bilanciare rischio e
beneficio ed alcune che sono disponibili agli azzardi. La scelta definitiva di fronte a un dilemma
medico può emergere da un negoziato che avviene prima all’interno del nucleo familiare e poi tra
un medico partecipe ed un paziente fiducioso.
Alcuni medici affermano di spiegare tutto ma di mettere le cose in modo che alla fine il paziente
finisce per fare quello che vogliono loro. Spiegazioni su infermità e trattamento vengono
presentati in maniera manipolatoria. Il medico smaliziato è consapevole di quanto la forma con cui
presenta i fatti possa modificare le valutazioni del paziente e quanto molto spesso egli debba
decidere in una situazione dominata dall’ansia di una notizia inquietante appena ricevuta.
In tali condizioni è normale che il malato si affidi a qualcuno che lo sollevi dalla fatica di
scegliere proprio nel momento più critico.
Occorre evitare sia il percorso della neutralità assoluta, sia quello della mistificazione sleale, verso
un orientamento in cui vigano onestà intellettuale e consapevolezza partecipe della soggettività.
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SITUAZIONI DI SVANTAGGIO IN SOGGETTI CON PATOLOGIE LIMITATIVE
DELLA DEAMBULAZIONE, DELLA VISTA, DELL’UDITO E DELLA PAROLA
Disabili motori
Disabili della vista
Disabili dell'udito
Disabili mentali/cognitivi
Epilettici e Autistici
Premessa
Le menomazioni fisiche sono di svariata natura. Spesso le menomazioni visibili sembrano più
serie di quanto lo siano effettivamente. È quasi incredibile come, invece, si riesca ad adattarvisi: vi
sono sciatori con una sola gamba, nuotatori privi degli arti inferiori, casalinghe con un solo
braccio, paralitici esperti in elettronica e così via. Queste persone, con le capacità loro rimaste,
sono riuscite a sviluppare nuove abilità e a compensare la perdita subita. Di contro altre
menomazioni, come ad esempio quella di chi è debole di vista (ipovedente) o sordo, poiché non
sono evidenti, molte volte non vengono prese in considerazione.
Il materiale che segue, è stato preparato in Svizzera da un équipe di esperti del settore
dell’Educazione Speciale. Si tratta di suggerimenti utili per avvicinare, comunicare ed
eventualmente aiutare una persona disabile. Sono stati individuate cinque categorie di disabili
(disabili motori, disabili della vista, disabili dell'udito, disabili mentali/cognitivi, epilettici e
autistici) con suggerimenti mirati su come rapportarsi correttamente con loro.
Disabili motori (persone con problemi agli arti)
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Esiste una grande differenza tra persone paralizzate negli arti inferiori (paraplegici) e invalidi che
non possono usare né gambe né braccia (tetraplegici). I primi sono pienamente efficienti nella
parte superiore del corpo, mentre gli altri spesso dipendono dall'aiuto altrui in molte situazioni
quotidiane (mangiare, vestirsi, azionare la carrozzella per muoversi, scrivere, ecc.). Anche nel caso
di problemi che riguardano gli arti superiori, diverso è il caso di chi dispone ancora di un braccio
(che può ad esempio radersi, vestirsi e perfino guidare l'automobile) rispetto a chi ne è privo. Chi
invece ha menomazioni alle mani ha bisogno di essere aiutato solo in azioni particolari, ad
esempio stappare una bottiglia, aprire una lattina, tagliare il pane o portare oggetti. Le persone con
difficoltà di deambulazione in genere apprezzano chi si adegua alla loro andatura, chi le protegge
nella calca, le aiuta a salire le scale o a portare oggetti e chi li soccorre quando il fondo stradale è
difficile, soprattutto in inverno. Uno dei loro maggiori problemi è salire o scendere dai mezzi
pubblici.
Molte di queste persone possono essere a disagio per il comportamento della gente nei loro
confronti. Soprattutto il disabile su sedia a rotelle può incontrare persone che gli danno del tu,
battendogli familiarmente una mano sulla spalla, accarezzandolo e parlandogli come a un
bambino. Altri lo ignorano completamente, intrattenendosi solo con il suo accompagnatore. I
disabili costretti ad usare le stampelle possono necessitare di aiuto per sedersi o alzarsi, nonché per
superare l'ostacolo delle scale. Il solo atto di porgere la mano costituisce per molti di loro un
problema. Alcuni non sanno dove appoggiare le grucce, altri non possono privarsene senza correre
il rischio di perdere l'equilibrio.
Come comportarsi con i disabili motori
Parlando in particolare di persone su sedia a rotelle, ricordiamo che più si è naturali, più tutto
diventa semplice. Ecco alcuni suggerimenti.
Regola principale: trattate l'individuo in carrozzella da pari a pari: non fare mai nulla senza prima
chiedergli che cosa desidera.
Se è accompagnato da una persona, evitate di rivolgervi principalmente o solo al suo
accompagnatore. Se invece lo state accompagnando, evitate atteggiamenti troppo protettivi,
se un bambino o un'altra persona parla direttamente a lui, consideratelo come un fatto
normale.
105
Il disabile ha piacere di vedere con chi parla senza dover allungare il collo: in caso di
colloqui prolungati sedete alla sua stessa altezza.
Tra la folla, spingete la carrozzella con prudenza. Il disabile sarebbe molto imbarazzato se
andasse a urtare qualcuno.
Nell'attraversare una strada con traffico intenso e nel superare i gradini, la persona su sedia
a rotelle si sente completamente nelle mani dell'accompagnatore: una discesa rapida
diventa un incubo.
Disabili della vista (ciechi e ipovedenti)
La cecità è una delle menomazioni più facilmente "constatabili": basta chiudere gli occhi. La realtà
però è ben diversa. Chi vede, infatti, ricorda tutto quanto hanno captato i suoi occhi: sa come è
fatto un bicchiere, come funziona un ascensore, come si compone un numero telefonico, come si
usa la cucina a gas e mille altre cose ancora. In questo senso esiste anche una differenza tra chi è
cieco dalla nascita e chi lo diventa in seguito a incidente o malattia. Se il secondo caso, per molti
versi, è più traumatico, nel primo occorre trovare la capacità di inventarsi un mondo intero. Ignora
forme e colori e deve servirsi di tutti gli altri sensi per potersi orientare nell'ambiente che lo
circonda. Ciò crea loro numerosi problemi. Il cieco non può, per esempio, leggere in uno sguardo
o interpretare un gesto. Non gli servono né i "qui" né i "là", non può scorgere né un cenno del capo
né un sorriso, non vede da che parte si apre una porta. Inoltre, se il rumore della strada è
assordante, ha spesso difficoltà nel districarsi in mezzo al traffico. Se accompagnato, molte volte
vive nel timore di perdere la sua guida.
La presenza del bordo del marciapiede, che costituisce un ostacolo per la persona su sedia a
rotelle, rappresenta invece per il cieco un valido aiuto per orientarsi. Perciò le zone pedonali
livellate - che nelle città si vanno sempre più diffondendo - sono molto utili per gli invalidi in
carrozzella, per i ciechi costituiscono purtroppo uno svantaggio. Chi è privo della vista ha spesso
difficoltà a partecipare a colloqui, in quanto non sa a chi si deve "rivolgere". Se non conosce la
ragione per cui attorno a lui si ride, diventa insicuro. In poche parole, il cieco ha sempre bisogno di
spiegazioni. Per tutti questi motivi, nei ciechi gli altri sensi si sviluppano maggiormente e meglio.
Con l'andare del tempo il cieco acquista, per esempio, un'eccellente sensibilità tattile (chi però si
lascia toccare volentieri?) o una particolare percezione dei rumori. Nella maggior parte dei casi
riconosce la gente dalla voce. Eppure, malgrado tutte queste capacità, è errato ritenere che i ciechi
possiedano una specie di sesto senso! Molti ciechi vivono in modo autonomo o riescono a
cavarsela bene con l'ausilio del bastone bianco o del cane guida. A prescindere dalla loro
106
menomazione, i ciechi sono del tutto uguali agli altri. Poiché però di solito i loro rapporti con il
mondo esterno sono in parte limitati, rischiano di sentirsi soli e abbandonati.
Per gli ipovedenti le cose vanno un po' meglio, ma la loro vita è pur sempre molto difficile.
Possono, è vero, distinguere luci e ombre oppure i contorni dell'oggetto ma, ad esempio,
riconoscono una scala solo dal basso verso l'alto e se devono scendere una rampa fanno fatica a
trovare il primo gradino. E, poiché la loro menomazione non è così evidente, spesso non viene
presa in considerazione.
Come comportarsi con i disabili della vista
Anche in questo caso, è essenziale la naturalezza. Per facilitare i rapporti, è inoltre importante
osservare essenzialmente i punti seguenti.
Avvicinandovi a un cieco, fatevi notare per tempo. Tenente presente che non vi vede e non
conosce la vostra identità. Ditegli quindi anzitutto chi siete.
Non si dovrebbe mai prendere un cieco per un braccio e guidarlo. Offritegli invece il
vostro braccio, che afferrerà al di sopra del gomito. In tal modo non occorrerà suggerirgli
la direzione: con la vostra guida si orienterà. Lo si dovrà precedere soltanto in punti stretti.
Non dimenticate che non può vedere un sorriso o un cenno del capo. Dovete perciò
parlargli.
Avvertitelo quando si sta per attraversare una strada, per lasciare o raggiungere un
marciapiede.
Non allontanatevi mai senza aver preso commiato. È per lui penoso accorgersi di parlare a
una persona che nel frattempo si è allontanata.
Non seguitelo mai con l'intenzione di aiutarlo in caso di necessità. Egli percepisce la
vostra presenza e si sente a disagio.
Per aiutare un cieco a salire su un mezzo di trasporto pubblico, basta mettergli una mano
sulla maniglia o sul corrimano e avvisarlo se un gradino è particolarmente alto. Trattandosi
di una scala, fategli notare il primo e l'ultimo gradino.
Se desiderate offrirgli un posto a sedere, fategli poggiare semplicemente una mano sullo
schienale della sedia. Trattandosi di una poltrona, occorre accompagnare la mano al
bracciolo e precisare da quale parte è la poltrona stessa.
Quando deve salire su una automobile, fategli posare una mano sul bordo superiore della
portiera aperta. Con l'altra il cieco si orienterà, toccando il tetto della vettura, poi prenderà
posto.
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Se dovesse aver perso l'orientamento, elencategli semplicemente ciò che gli sta davanti,
dietro, a destra e a sinistra.
Il cieco e il suo cane guida costituiscono un insieme perfettamente affiatato: il cane non va
distratto dal suo compito. Porgete quindi il vostro aiuto solo se espressamente richiesto.
Trovandovi a tavola con un cieco, chiedetegli se potete essergli d'aiuto. Spiegategli che
cosa c'è nel piatto e come sono disposti i cibi sull'esempio di un quadrante d'orologio. Così
gli potrete per esempio dire: i legumi sono sulle ore 6, la salsiccia sulle ore 10, e così via.
Indicategli dove si trova il bicchiere e non riempiteglielo troppo. Se fuma, porgetegli un
posacenere.
Nel dargli qualcosa, chiamatelo per nome e toccatelo leggermente.
Per i ciechi e i deboli di vista l'ordine è molto importante: ogni cosa ha il suo preciso posto.
Nella loro abitazione, mettete sempre al loro posto gli oggetti usati.
Se in un locale, cui sono abituati, viene spostato un oggetto, devono saperlo.
Se li aiutate a togliersi il mantello, dite sempre dove lo posate o l'appendete. In treno,
avvisategli che il bagaglio si trova nella reticella proprio sopra di loro.
Se volete leggere a un cieco un articolo di giornale, elencategli dapprima i titoli, affinché
possa scegliere quello che gli interessa.
Le auto parcheggiate sul marciapiede possono rappresentare per il cieco ostacoli pericolosi.
Ai ciechi parlate sempre con la massima naturalezza e il tono di voce abituale.
Disabili dell’udito (sordi e deboli di udito)
In passato i sordi erano anche muti e venivano perciò chiamati "sordomuti". Mentre la sordità è
perlopiù inguaribile, attraverso una speciale rieducazione terapeutica i muti, con la lettura labiale,
acquistano l'uso della parola. In tal modo da "sordomuti" diventano "sordoparlanti". A volte
imparano anche le lingue straniere. Imparare una lingua servendosi di 25 lettere mai udite è un
lavoro enorme. Tuttavia con l'osservazione acuta e lunghi anni d'esercizio la maggior parte ci
riesce. Il vocabolario del sordoparlante rimane comunque limitato. Conosce soprattutto espressioni
concrete (come molle, duro, quadrato, rotondo), mentre spesso gli mancano quelle astratte.
Incontra difficoltà quando si trova di fronte a sottigliezze linguistiche, come ad esempio
"avvenente", "attraente", o "grazioso" invece di "bello". Siccome non conosce la propria voce,
parla più o meno senza modulazioni e spesso in un tono insolito. Gli manca perlopiù anche la
varietà dei costrutti sintattici. Nonostante queste limitazioni, nella vita di ogni giorno è difficile
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distinguerlo da coloro che ci sentono: anche la sordità è una menomazione invisibile. Poiché a
nessuno piace passare per minorato, il sordo cerca di nascondere più che può la propria
menomazione, per esempio approvando con un cenno del capo anche se non ha compreso nulla di
ciò che si è detto. Per non essere costretto a rispondere, in certi casi evita la gente, esattamente
come si comportano le persone che odono nei suoi confronti, in quanto non osano parlargli. Per
questi motivi, a molti sordi viene a mancare proprio ciò di cui hanno maggiormente bisogno: il
contatto umano, l'occasione di parlare e la possibilità di esprimere i propri sentimenti. Per colui
che non sente, anche la lingua madre è praticamente straniera. Minori sono le occasioni di parlare,
maggiore è il pericolo di perdere la parola. Quindi, se conoscete o incontrate una persona affetta
da sordità, cercate di intrattenervi con lei. Al di là della loro disabilità, i sordi possono partecipare
alla vita normale, esercitano le più svariate professioni e sono, soprattutto tra di loro, persone
allegre e socievoli.
Come comportarsi con i disabili dell’udito
Non parlate mai in dialetto: nelle apposite scuole, il sordo impara solo la lingua
scritta, che gli permette anche di leggere.
Fate in modo che il vostro viso sia sufficientemente illuminato, in quanto egli è
abituato a leggere le parole dal movimento delle labbra.
Non è necessario alzare il tono della voce più del normale: il sordo riesce a capirci
anche se non emettiamo alcun suono.
Non parlate troppo in fretta, ma neanche troppo lentamente; parlate in modo chiaro,
tuttavia senza esagerare.
Sono preferibili concetti chiari e frasi semplici.
Una mimica non esagerata gli consente di capire meglio. I gesti specifici del
linguaggio normativo dei sordomuti vanno usati soltanto da chi li conosce bene.
Ricordate che i sordi non possono seguire contemporaneamente i movimenti delle
vostre labbra e i gesti o la spiegazione di un procedimento lavorativo. Si deve
quindi dapprima indicare o eseguire, poi spiegare.
In presenza di un sordo, non parlate di lui con altri. Dato che non ode, osserva
attentamente ogni movimento e ogni sguardo onde potrebbe trarne conclusioni
errate.
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Le parole non sempre sono il mezzo migliore per comunicare con un sordo. Spesso
è più eloquente un cenno amichevole, l’invito a prendere un caffè, ecc.
Spesso il sordo vede e avverte con straordinaria sensibilità ciò che non sente. Tale
prerogativa può influire sul suo comportamento.
Ogni persona priva dell’udito è lieta se si cerca di parlare o di farla entrare in una
conversazione: provateci!
Accertatevi che il debole d’udito abbia ben capito tutto. Ciò è particolarmente
importante in caso di accordi. Se necessario, ripetete quanto detto eventualmente
con altre parole o formulando le frasi diversamente.
Cercate di far partecipare il debole d’udito alla conversazione di gruppo e
informatelo sul tema di discussione, se necessario con brevi cenni scritti.
Aiutatelo sul posto di lavoro, avendo cura che riceva in modo esatto le informazioni
e le comunicazioni importanti.
Non scordatevi che, per seguire il filo del discorso, il debole d’udito deve
concentrarsi al massimo e quindi si stanca più rapidamente di una persona normale.
Se la conversazione è lunga, fate di tanto in tanto una pausa.
Incoraggiate chi sente poco a sfruttare ogni possibilità di aiuto disponibile (consultazione di
otoiatri, applicazione di apparecchi acustici, terapie d’ascolto). Ciò gli consentirà di migliorare i
contatti umani.
Disabili mentali / cognitivi
Anche per questi disabili è necessario il contatto con le persone normodotate. Generalmente il
disabile mentale facilita i rapporti: per natura non è né inibito né diffidente, ma disponibile. La sua
intelligenza ridotta non deve però indurre a parlargli un linguaggio infantile, in quanto il più
debole di mente capisce spesso molto più di quanto si supponga. Molti hanno inoltre una memoria
particolarmente buona. Non è giusto che a un debole di mente adulto si dia del “tu” come a un
bambino, anche se ha un’intelligenza a livello puerile. Ha diritto al “Lei” esattamente come
qualsiasi maggiorenne normale, a meno che non si convenga di adottare reciprocamente il “tu”.
Nei rapporti con il disabile mentale va considerato che non agisce con la ragione. Il suo animo è
comunque aperto alla bontà e alla comprensione. I bambini subnormali reagiscono con estrema
sensibilità alle dimostrazioni d’affetto e alla lode. In seno alla propria famiglia hanno quindi la
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migliore possibilità di svilupparsi. Il rapporto con loro richiede spesso molta pazienza. Le cose
vanno costantemente ripetute. Non si deve mai chiedere troppo in una volta bisogna procedere
lentamente e gradatamente, mostrando loro come va eseguita un’azione completamente nuova. E
naturalmente non si devono tralasciare controlli e lodi. Non siate parchi di complimenti: ogni
buona parola infonde loro fiducia in se stessi e li incita a progredire.
Come comportarsi con i disabili mentali
Rispondete sempre alle loro domande, anche se talvolta sono imbarazzanti o vengono poste
ad alta voce.
Molti disabili mentali si servono dei mezzi di trasporto pubblici in modo del tutto
autonomo e conoscono esattamente il loro percorso. In prossimità della meta, temendo di
andare oltre, si precipitano con timor panico verso l’uscita. Una deviazione dal tragitto
normale può disorientare completamente un disabile mentale: nella maggior parte dei casi
non è più capace di ritrovare la via di casa. In una situazione del genere chiedetegli dov’è
diretto oppure il suo numero di telefono e avvertite quindi i responsabili.
I bambini hanno un rapporto con i disabili mentali più naturale degli adulti. Perciò non
impedite mai a un bambino di giocare con un compagno disabile.
Sul posto di lavoro motivate il collaboratore mentalmente disabile; trasmettetegli il
messaggio che si ha bisogno di lui e che ha un compito ben determinato da svolgere.
Epilettici
L’epilessia è una parola che più o meno tutti hanno sentito pronunciare, ma di cui molte persone
non conoscono veramente il significato. La prima domanda da farsi è: cos'è una crisi epilettica?
La crisi epilettica rappresenta la manifestazione tipica della malattia; è scatenata da un improvviso
eccesso di attività delle cellule del cervello. Le crisi epilettiche possono essere paragonate ad una
scarica imprevista di impulsi elettrici non controllati, nel cervello o in parte di esso. La scarica
inizia all’improvviso e termina più o meno rapidamente. Fra una crisi e l’altra generalmente non è
presente alcun disturbo. Perché si possa parlare di epilessia, è necessario che compaiano almeno
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due crisi e che la crisi si presenti nel tempo a intervalli più o meno lunghi. Le crisi epilettiche
possono manifestarsi in tanti diversi modi, con disturbi improvvisi della coscienza, con movimenti
o con sensazioni insolite, a seconda dell’area del cervello colpita. Esistono, per esempio, aree che
controllano i movimenti, il ritmo del cuore e del respiro, centri nei quali si formano il linguaggio e
le emozioni, altri che sono essenziali per la memoria, l’apprendimento e il pensiero. Quando
pensiamo all’epilessia, ci vengono subito in mente la perdita di coscienza, la caduta a terra e la
comparsa di scosse in tutto il corpo, caratteristiche della “crisi del grande male”. Tuttavia esistono
tante forme della malattia, specialmente nel bambino: la conoscenza delle diverse manifestazioni è
estremamente importante perché molte volte l’andamento della malattia diventa nettamente più
favorevole se è identificata in tempo e opportunamente trattata.
Circa 5-10 bambini ogni 100 si ammalano di epilessia.
In circa il 20% dei pazienti l’epilessia compare entro i primi 5 anni di vita; nel 50% dei
casi si sviluppa prima dei 25 anni. Nel 65-85% dei bambini affetti da epilessia non è
possibile identificare una possibile causa specifica della malattia. Un terzo circa dei
bambini affetti da epilessia guarisce entro l’adolescenza.
Grazie ai progressi terapeutici conseguiti negli ultimi anni, in oltre la metà delle persone è già
possibile ottenere una remissione della malattia dopo il primo anno. In ogni caso, tutte le persone
che si ammalano di epilessia possono essere aiutate a non avere ricadute e ad affrontare i problemi
della vita quotidiana; e oggi si può migliorare l’andamento della malattia, perché sta migliorando il
modo di utilizzare i farmaci e di intervenire sulla persona. In particolare, se si ha un bambino con
epilessia è importante il prezioso contributo di tutta la famiglia. A volte i genitori tendono ad
essere ansiosi e “iperprotettivi” nei confronti di un figlio affetto da epilessia. Tale atteggiamento
può essere dannoso per lo sviluppo del senso di autostima, può creare nel bambino eccessivi
imbarazzi e paura di essere trattato in maniera diversa dai compagni per via della sua particolare
condizione. E' importante parlare apertamente con il bambino e rassicurarlo perché ciò aiuta
ad accettare il proprio disturbo e a vivere serenamente come tutti gli altri bambini.
Informazioni utili nel caso di una crisi epilettica
In presenza di una crisi le cose da fare sono le seguenti:
Se la persona cade, tenerla distesa su un fianco senza bloccarle i movimenti
Metterle qualcosa di morbido sotto la testa
Osservare bene che cosa succede durante la crisi
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Aspettare che la crisi passi
Tranquillizzare la persona quando si riprende
E soprattutto non spaventarsi!
Nel corso di una crisi è consigliabile chiamare il medico soltanto quando:
La crisi dura più di 5 minuti
La persona stenta a riprendersi
Manifesta una seconda crisi
Ha difficoltà a respirare
Sono evidenti lesioni o ferite.
Autistici
Le persone autistiche hanno diversi comportamenti. Alcuni sono molto ripiegati su se stessi e sono
quelli che hanno fatto coniare questo termine autismo. Altri hanno dei comportamenti più legati a
una necessità di ripetere gesti, parole, di avere riferimenti costanti ripetitivi. Non sembrano tanto
ripiegati su loro stessi quanto organizzati in una forma quasi coattiva, che non permette loro di
liberarsi o di affrontare facilmente le situazioni nuove. L’autismo ha quindi al suo interno
caratteristiche differenti – per questo, alcuni studiosi preferiscono parlare di autismi - e può essere
ricondotto a una difficoltà: la reciprocità. Le persone autistiche hanno delle difficoltà a stabilire
delle reciprocità. È utile sapere che avere dei comportamenti chiari, dei riferimenti costanti, un
quadro organizzato di tempo e spazio, aiuta la persona autistica: permette, per esempio, di stabilire
delle buone relazioni. La comunicazione è una ricerca ed è facilitata se vi è chiarezza di
riferimento agli oggetti, allo spazio, al tempo. È agevolata anche se il nostro stesso modo di porci
nei confronti di una persona autistica è capace di superare l’impaccio e la paura, sviluppando una
certa chiarezza di espressione. Se anche non è recepita immediatamente, si apre alla possibilità a
che sia recepita in seguito. Non sempre la ricezione della comunicazione è manifesta, proprio per
questa difficoltà di reciprocità. E’ quindi necessario vivere una situazione con perseveranza. Nella
perseveranza, la considerazione dell’altro e della sua dignità umana, dovrebbe portare ad escludere
comportamenti violenti o persecutori, per scegliere invece atteggiamenti chiari e dolci, fermi e
tranquilli, ripetuti e aperti al nuovo.
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PER UN CORRETTO RAPPORTO CON LA DISABILITA'
Il rapporto fra individuo disabile e disabilità
La perdita di autonomia
La curiosità della gente
No alla compassione
La capacità di aiutare
La menomazione invisibile
Le regole della vita civile
Le buone prassi
In queste pagine si affronta il problema in un duplice aspetto, parlando sia delle relazioni fra
persone disabili e persone non disabili, sia del rapporto dello stesso soggetto disabile con la
propria disabilità. Anche la persona disabile ha infatti un rapporto con la disabilità. Il termine
disabilità, a volte viene sostituito da diversa abilità, diversamente abile. E’ giusto, ed indica già
uno sviluppo di questo tema: quale rapporto? Il rapporto è alla ricerca del superamento
dell’immagine che blocca, per invece scoprire e valorizzare qualcosa. Ma il tutto si complica se la
scoperta è difficile e se anche realizzandola si tende a non prendere in considerazione la disabilità
banalizzandola e perdendone il senso, nella costruzione della relazione.
Il rapporto fra individuo disabile e disabilita'
Chi ha una menomazione, deve considerare la propria vita in termini diversi da chi non ce l'ha. Ma
la diversità non sta nel negare uguali aspirazioni, uguali bisogni; sta nel capire che occorre un
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percorso originale. E’ come se l’immagine dell’altro o dell’altra venisse percepita dalla persona
disabile con la necessità di subire una trasformazione. Se, ad esempio, il percorso della mano abile
per raggiungere un oggetto è immediato, per il disabile l’immagine non può essere imitata senza
un adattamento particolare o, se vogliamo usare un termine noto, speciale. Deve in qualche modo
adattare quel percorso, o quel movimento, che vede fare in maniera istintivamente diretta, alla
propria situazione, e quindi deve compiere delle riorganizzazioni delle informazioni che gli
giungono semplicemente vivendo accanto ad altri. E così può essere per quanto riguarda le
conquiste quotidiane degli oggetti di cui un disabile può avere bisogno. Può organizzare la propria
memoria in modo tale da non basarsi unicamente sulle proprie facoltà, ma avere un aiuto
organizzativo in oggetti materiali, così come chiunque, disabile o meno, può utilizzare un’agenda
per ricordarsi le scadenze e gli impegni.
Forse l’agenda va personalizzata, va organizzata in una maggiore possibilità di autonomia. Questa
attività di ri-organizzazione delle informazioni che giungono a una persona disabile, è un percorso
di apprendimento vero e proprio, ma non di tipo scolastico. Può avvenire anche all’interno dei
percorsi scolastici, ma non necessariamente. Ed è più marcato quando la menomazione, la
disabilità, nasce da un evento traumatico che interrompe il percorso di normalità: un incidente sul
lavoro, un incidente domestico, un incidente stradale. Da qui nascono delle situazioni che hanno
caratteristiche diverse rispetto a quelle proprie di disabili dalla nascita.
Vi sono problemi di accettazione della situazione. Per un disabile, divenuto tale a seguito di un
evento traumatico, vi può essere una difficile accettazione della stabilità della propria disabilità,
ritenendola una fase transitoria, quindi non impegnandosi a organizzare la sua vita sulle
conseguenze permanenti. Oppure vi possono essere delle umanissime ragioni di disperazione per
la condizione in cui ci si trova improvvisamente e una eccessiva richiesta ad altri, perché risolvano
i propri problemi. Questo punto è comune a chi, disabile, vive o ha vissuto in una dimensione che
abbiamo l’abitudine di chiamare assistenziale, una dimensione che è, cioè, costruita attorno alla
disabilità come elemento permanente e quindi con la necessità, altrettanto permanente, che gli altri
si preoccupino di organizzarsi per dare: per dare aiuto, sussidi, risposte, per risolvere i bisogni.
Questo porta molte volte a considerare la propria disabilità come un buon motivo per rimanere un
po’ infantili. Ed è il soggetto disabile che può vivere questa situazione di richiesta continua perché
gli altri risolvano i suoi problemi. Questa situazione è negata, molte volte, ritenendo che sia una
ingiusta accusa nei confronti di chi è disabile. Di fatto è una situazione problematica che non può
essere estesa fuori misura né può far diventare la disabilità una negazione. Sicuramente chi ha
delle sofferenze e chi risolve o pensa di aver risolto le proprie in una situazione che chiamiamo
assistenziale, può rischiare quello che viene chiamato il vittimismo, cioè la possibilità che nasca
115
una considerazione positiva del proprio ruolo di vittima. Il soggetto, essendo vittima, organizza
continui e (nella propria aspettativa) permanenti risarcimenti alla sua condizione, evitando di
uscirne, trascurando quindi di ridurre gli handicap, proprio perché tale riduzione potrebbe
comportare la perdita dei vantaggi secondari. Questa è una condizione indotta nei disabili. E’ una
società, la nostra, che ha strutture violente anche quando la violenza non si esprime con delle
azioni in forma diretta: è una violenza sottile che induce il disabile a chiudersi nella propria
condizione di disabile. E quindi questo primo punto va rivolto direttamente a coloro che sono
disabili perché acquisiscano una coscienza dei rischi che possono essere insiti nel rapporto con la
propria disabilità. L’handicappato, il disabile, non ha vita facile: deve imparare molte cose e deve
imparare a diffidare della propria condizione di disabile, non farla diventare una scusante o un
alibi, né tanto meno un “buono” per l’assistenzialismo.
La perdita di autonomia
L’autonomia può essere intesa come una capacità di fare. Riteniamo che si debba invece parlare, e
agire di conseguenza, con riferimento a una capacità di organizzare. Per questo riteniamo che il
passaggio alla condizione adulta di una persona disabile significhi consegnare le chiavi della
propria organizzazione alla stessa persona disabile, in modo tale che possa coordinare i propri
bisogni e le risposte. Anche non sapendo fare una determinata azione, ha la possibilità di
organizzare coloro che fanno. E la necessità è quella che ciò avvenga in maniera tale da non essere
un ingombro, da non risultare un peso. Noi abbiamo molti esempi di disabili che hanno una
particolare dote nel chiedere agli altri in modo tale che la stessa richiesta si trasformi da qualcosa
da ricevere in qualcosa che viene dato agli altri: permettono agli altri di avere un guadagno nel
rispondere alle loro esigenze. Vi sono situazioni in cui l’autonomia ha bisogno di una certa
organizzazione che può indurre a dipendenza, perché può abituarsi ad avere come sussidio sempre
lo stesso personale e gli stessi aiuti umani. Quello che dobbiamo cercare è, invece, la possibilità di
allargare gli aiuti a una rete sociale. Dobbiamo pensare alla costruzione di una rete sociale che
permetta all’autonomia di svilupparsi con maggiori sostegni ottenuti dall’ambiente di vita.
L a curiosita' della gente
Il rapporto tra disabili e non disabili è spesso caratterizzato da una curiosità invadente e da una
mancanza di attenzione per gli aspetti di privatezza che sono necessari per la vita di tutti. Se, ad
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esempio, un disabile, uomo o donna, deve servirsi di un ausilio per la comunicazione, un rischio
che può correre è quello di dovere esibire la comunicazione sempre a tutti coloro che sono
presenti, senza potere riservare la stessa unicamente a quelli che ritiene di dovere prendere come
interlocutori confidenziali. L’esibizione alla curiosità è uno dei punti su cui vorremmo richiamare
l’attenzione.
N o alla compassione
Essere oggetto di compassione da parte degli altri in maniera permanente è una perdita di dignità
reciproca. L’atteggiamento pietistico nei confronti di una persona disabile significa pensare
sostanzialmente in termini di "poverino" o "poverina", ed è una modalità di rendere l’altro
stabilmente inferiore, subordinato. Fa scattare delle ribellioni o degli adattamenti nocivi ai
rapporti. La ricerca di comprensione può essere a volte anche caratterizzata dalla necessità di
vincere la resistenza al dover far ripetere le cosa a un disabile che parla con delle difficoltà a
essere capito o capita. A volte succede che chi ascolta ritiene di non dover chiedere di ripetere,
accetta quello che arriva senza capirlo, sorride e non ha capito; e questo è un grave limite che va
nell’ordine della compassione, poco utile se non addirittura dannosa. Il compianto per l’altro fa sì
che l’altro diventi non solo disabile ma soprattutto marginale e, anche non volendolo, soggetto
che chiede l’elemosina, povero alla porta dei ricchi abili.
L a capacita' di aiutare
Aiutare è importante, aiutarsi è più importante. Mantenere aperta una possibilità di reciprocità
dell’aiuto significa evitare di trasformare i rapporti in rigide organizzazioni di aiuto che possono
suscitare vittimismo. Se un handicappato, uomo o donna, ha bisogno di essere aiutato negli
spostamenti, l’aiuto va fatto in maniera discreta, senza spettacolarizzare quello che si fa ma
cercando di mantenerlo nella dimensione della riservatezza, evitando gesti clamorosi che possono
infastidire, confidenze eccessive che sarebbero legate a una conoscenza e a un’amicizia che non
c’è. Prendere una persona quasi in braccio non è certamente e sicuramente far provare a quella
persona un piacere: può essere imbarazzante. Eppure succede che vi siano tante volte situazioni in
cui il civismo venga sostituito nella mente di chi non è invalido, non è disabile, dalla voglia di
117
eroismo: non osservare le regole del civismo ed essere pronti a portare in braccio l’altro, disabile,
per permettergli di raggiungere un certo luogo. No, non è questo quello che una persona disabile
desidera, e non è neanche quello che può far bene alla costruzione di un rapporto utile a tutti.
L a menomazione invisibile
A volte abbiamo a che fare con soggetti che hanno delle difficoltà e non sono immediatamente
percepiti come disabili; e quindi possono esservi risposte inadeguate, brusche, impazienti, perché
non ci siamo accorti che l’altro, uomo o donna, è - ad esempio - sordo, o sorda, oppure non vede
bene, ha delle difficoltà a mettere a fuoco il foglio su cui sono segnate le spiegazioni per un certo
servizio. Noi potremmo dare l’impressione di essere bruschi, impazienti, duri, e poi, se
improvvisamente ci accorgiamo che l’altro ha qualche disabilità, siamo presi da un senso di colpa
che può rendere ancora più difficile un rapporto. Cosa fare? Parlare, dire con franchezza quello
che è accaduto e chiedere scusa; questo a volte serve proprio ad alleggerire una tensione che,
molto probabilmente, è reciproca. E’ difficile per chi ha una disabilità invisibile, uomo o donna
che sia, immediatamente dire: “Attento tu che mi guardi, tu che mi ascolti!. Attento, perché sono
un o una disabile”. E’ difficile: non è proponibile, non è esigibile. Se nella relazione scatta questa
difficoltà si può, molto più facilmente di tante difficili azioni di recupero senza parole, parlare e,
chiedendo scusa, riparare.
Le regole della vita civile
Non abbiamo molte regole da osservare, ma alcune sono fondamentali: ricordiamoci! Andando in
automobile:se c’è un posteggio con il contrassegno per persone disabili, rispettiamolo. Non
pensiamo: “Visto che non c’è nessun disabile nelle vicinanze mi è più comodo appoggiare la mia
automobile qui che non cinquanta metri più in là”. Atteniamoci invece a questo segnale.
Prendiamolo come un elemento stabile nella nostra condotta di persone civili che hanno capito
come la realtà sia anche fatta di disabili. Facendo invece un’operazione che ritiene che tanto il
disabile sia un’eccezione, noi potremmo mettere in difficoltà proprio chi, disabile, sta arrivando
alla stazione di servizio con la necessità di potere rapidamente accedere – per esempio – alla
toilette, e non riesce a trovare il posto macchina adatto, con gli spazi attorno utili per scendere
dall’automobile; se è solo o sola e gli viene negata questa organizzazione nelle sue possibilità, non
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può far scendere la carrozzella e montarci sopra, e di conseguenza non può accedere alla toilette,
andare al bar… Ricordiamoci che:i marciapiedi e i portici, sono fatti per il transito del passante
agile che può anche districarsi tra biciclette, motorini e ostacoli vari, ma non solo. Servono anche
alla persona cieca che procede con un bastone, esplora, ma ha bisogno di uno spazio sempre
transitabile (non di un percorso di guerra!) o alla persona in carrozzella che ha bisogno dello
spazio per passare, o a chi deve appoggiarsi alle stampelle. L’ingombro sui marciapiedi, causato
da una macchina posteggiata dove non dovrebbe o da una bicicletta messa di traverso, non è il
segno di un buon aiuto civile. E’ segno di una grave disattenzione.
I passaggi delle carrozzelle per accedere agli uffici: a volte non si pensa, ed è colpevole questa
spensieratezza, che per accedere a un edificio da una strada, bisogna lasciare dei varchi a chi in
carrozzella deve avere spazio sufficiente per transitare. E invece i varchi sono chiusi da uno
schieramento di motociclette, di biciclette, di motorini. Anche questo è un grave fatto di
disattenzione colpevole. Queste piccole regole nell’organizzazione della vita civile sono
assolutamente trascurate nel nostro paese. Abbiamo un triste primato: l’inosservanza di queste
poche, semplici attenzioni, costanti, non straordinarie.
L e buone prassi
Ormai entrata nell’uso comune delle lingue europee, l’espressione “buone prassi” indica le azioni
necessari a trasformare le organizzazioni culturali, sociali, istituzionali, perché tengano conto di
una realtà completa e non amputata. Amputata di che cosa? Di tutto ciò che non rientra nel
concetto di normalità, e che proprio per questo sparisce dall’attenzione di chi costruisce quelle
organizzazioni. Sembra un discorso scontato, ma non è così. Chi progetta la rete dei trasporti, i
servizi bancari e postali, le stazioni ferroviarie, le biblioteche e le aule universitarie ha in mente
degli "standard": un’astratta “gente normale”. E non già una realtà che contiene concretissime
differenze, tra queste, le disabilità. Adottare buone prassi significa quindi sforzarsi di conoscere
meglio la realtà, per progettare strutture più utili e funzionali e che si perfezionano di giorno in
giorno. Le stazioni ferroviarie ne sono un esempio:più volte abbiamo rilevato, con il contributo
di persone disabili, che il personale delle ferrovie ha una disposizione d’animo assai positiva, ed è
quindi capace di risolvere molte situazioni difficili. Spesso ciò avviene grazie ad un modello
organizzativo che non è presente in tutte le stazioni ma, dove è presente, è costruito secondo l’idea
di percorsi diversi per esigenze diverse.
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Chi ha una disabilità dovrebbe segnalarsi per tempo, possibilmente con un certo anticipo, per
potere usufruire di servizi personalizzati: accesso al binario attraverso vie diverse da quelle degli
altri viaggiatori, possibilità di accesso a un bagno attrezzato e riservato ecc. Condizioni che, a
guardar bene, possono essere utili non solo ai disabili conclamati, ma pure agli anziani, a chi ha
una gamba ingessata, alle donne incinte o con bambini piccoli da controllare, a chi non riesce a
portare il proprio bagaglio, o ancora a chi parla un’altra lingua e appartiene a un’altra cultura.
Pesino fare il biglietto non è sempre così facile per tutti. Certo, una stazione ferroviaria non si
modifica con un colpo di bacchetta magica. E’ però possibile avere in testa un modello ideale e
sfruttare ogni occasione di ammodernamento o di manutenzione per costruire delle buone prassi.
Riconoscere una realtà nella sua ricchezza e nella sua complessità è dunque il fondamento delle
buone prassi. Ma questa non è un’operazione semplicissima. Perché? Il difetto di molti problemi
non è quello di essere insolubili ma quello di essere urgenti. Le stesse persone disabili potrebbero
richiedere qui ed ora percorsi speciali, con disponibilità, sostegni e ausili particolari, piste
facilitate….. La soddisfazione immediata del bisogno, il superamento quale che sia dell’ostacolo –
costi quel che costi e non importa come – non valgono infatti per la progettazione e la creazione di
un sistema organizzativo che elimini o riduca al minimo gli ostacoli. Per questo le persone disabili
devono essere pienamente coinvolte nel momento della progettazione di tale sistema e nella
comprensione logica che governa le buone prassi. Ma una buona prassi esige anche capacità di
conversione delle attitudini e delle abitudini da parte di molte professioni, si potrebbe dire di tutte.
E’ evidente, o dovrebbe ormai esserlo, che le buone prassi riguardano l’organizzazione sociale nel
suo complesso e quindi tutti coloro che ne fanno parte, compresi quelli che mai avrebbero creduto
di doversi occupare di persone disabili. Le buone prassi nascono da un atteggiamento culturale
che vorremmo si diffondesse: quello di chi si sente responsabile, e cerca nelle proprie vicende
umane la competenza da riconvertire in funzione di una rete sociale a cui tutti apparteniamo.
Perché tutti apparteniamo a un gruppo umano che ha bisogni simili, e in questo “noi” vi è tanto la
persona disabile quanto quella atleticamente prestante, tanto la persona giovane quanto quella che
ha una età avanzata, che ha difficoltà di realizzare i suoi compiti, in autonomia, che ha bisogno
degli altri. La persona molto capace di far da sé e la persona molto bisognosa dell’aiuto degli altri
hanno bisogni comuni. E questa è la larga base della piramide. Ciascuno, poi, porterà il suo
vertice verso bisogni più individualizzati, ma sempre appoggiando i piedi su questa base comune.
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INDICE
LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA pag. 2
Individuo e società pag. 2
Il concetto di società pag. 3
Cultura e comunicazione pag. 4
Inculturazione pag. 5
INCULTURAZIONE E PROCESSI EDUCATIVI pag. 7
Imitazione e apprendimento pag. 7
La trasmissione culturale e la sua continuità e discontinuità pag. 7
Nuove vie di inculturazione pag. 9
Educazione interculturale pag. 9
DIFFICOLTA’ DELLA COMUNICAZIONE
NELLA DIVERSITA’ LINGUISTICA pag. 11
INTERETNICITA’ E MULTICULTURALISMO pag. 13
Movimenti migratori e politiche di accoglienza pag. 13
Multiculturalismo pag. 13
Problemi di convivenza interetnica pag. 14
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IDENTITA’ ETNOCENTRISMO RAPPORTI INTERCULTURALI pag. 16
ETNOCENTRISMI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI CULTURALI pag. 18
IDENTITA’ – ALTERITA’ – ETNOCENTRISMO pag. 21
Identità individuale e di gruppo pag. 21
Etnicità pag. 22
Alterità- eterofobia-etnocentrismo pag. 23
L’esotismo, l’orientalismo e la reciprocità dello sguardo pag. 24
I VANTAGGI DELLA SOCIALITA’ pag. 26
L’AGGRESSIVITA’ IN ETOLOGIA pag. 28
I vantaggi dell’intolleranza pag. 28
Tornei pag. 28
L’aggressività nell’uomo pag. 29
Gerarchia di rango pag. 32
ANCORAMENTO BIOLOGICO ALLE NORME ETICHE pag. 34
Il valore pag. 34
L’inibizione dell’aggressività pag. 35
La lealtà e l’ubbidienza pag. 37
GLI ANTAGONISTI DELL’AGGRESSIVITA’ pag. 39
Riti che fondano un legame e pulsioni sociative pag. 39
I LEGAMI TRA GLI UOMINI pag. 41
Appello all’assistenza e appello infantile nel comportamento umano pag. 41
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Il legame sessuale pag. 42
La comunità di lotta pag. 42
Collegamento tramite la paura pag. 44
Il saluto pag. 44
CONSOCIAZIONE INDIVIDUALIZZATA E COMUNITA’ ANONIMA pag. 47
LA COMUNICAZIONE ED IL SUO SIGNIFICATO pag. 49
Comunicazione pag. 49
Espressione verbale pag. 49
Processi psico-intellettuali generati dal rapporto di comunicazione pag. 52
LA COMUNICAZIONE NON VERBALE pag. 54
La prossemica pag. 59
Il contatto corporeo pag. 61
L’aspetto esteriore pag. 61
La decodifica delle emozioni attraverso la lettura della C.N.V pag. 62
I diversi approcci allo studio della C.N.V. pag. 63
IL RISCHIO, ELEMENTO CARATTERIZZANTE
DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA pag. 65
Aree della produzione di sicurezza prese in rassegna pag. 66
Teleontrollo, telesorveglianza, teleassistenza pag. 66
Vigilanza, sorveglianza di tipo tradizionale, guardiania ecc. pag. 67
Contractors-operatori della sicurezza in zone di guerra ecc. pag. 67
Sicurezza urbana pag. 68
Sicurezza informatica. Protezione dei dati sensibili,
bancomat, carte di credito pag. 69
Biometria, identificazione personale e controllo degli accessi pag. 70
Prevenzione e gestione delle emergenze ambientali pag. 71
Comunicazione del rischio, comunicazione in situazione di emergenza pag. 72
Gestione dei grandi eventi. Grandi assembramenti di persone ecc. pag. 73
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ANTROPOLOGIA DEL LUTTO pag. 74
La morte e i suoi aspetti pag. 74
La dimensione dell’ignoto pag. 83
Estetica della morte pag. 84
Il suicidio pag. 84
Il suicidio assistito pag. 85
Sacralizzazione della morte pag. 85
Il morire per gli altri pag. 86
LE PATOLOGIE DELL’ANZIANO, L’INTERRELAZIONE,
IL RAPPORTO COMUNICATIVO-TERAPIE pag. 87
L’invecchiamento fisico pag. 87
L’invecchiamento psichico pag. 88
Fattori che influenzano i processi di invecchiamento pag. 89
La creatività pag. 90
Il rapporto nonno-nipote pag. 91
Le speranze e i timori pag. 91
QUANDO ESSERE VECCHI SIGNIFICAVA SAGGEZZA pag. 93
PARTNERSHIP E FIDUCIA NELLA RELAZIONE
MEDICO-PAZIENTE. Dal paternalismo alla cooperazione pag. 95
Trasformazioni pag. 95
I modelli pag. 96
La realtà pag. 97
Opzioni del paziente pag. 99
Comunicazione pag. 100
Informazione pag. 101
Decisioni-valori-opinioni-rischi pag. 101
SITUAZIONI DI SVANTAGGIO IN SOGGETTI
CON PATOLOGIE LIMITATIVE pag. 104
Premessa pag. 104
Disabili motori (persone con problemi agli arti) pag. 104
Come comportarsi con i disabili motori pag. 105
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Disabili della vista (ciechi e ipovedenti) pag. 106
Come comportarsi con i disabili della vista pag. 107
Disabili dell’udito (sordi e deboli di udito) pag. 108
Come comportarsi con i disabili dell’udito pag. 109
Disabili mentali /cognitivi pag. 110
Come comportarsi con i disabili mentali pag. 111
Epilettici pag. 111
Informazioni utili nel caso di una crisi epilettica pag. 112
Autistici pag. 113
PER UN CORRETTO RAPPORTO CON LA DISABILITA’ pag. 114
Il rapporto fra individuo disabile e disabilità pag. 114
La perdita di autonomia pag. 116
La curiosità della gente pag. 116
No alla compassione pag. 117
La capacità di aiutare pag. 117
La menomazione invisibile pag. 117
Le regole della vita civile pag. 118
Le buone prassi pag. 119
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