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LA SAPIENZA Università degli Studi di Roma I^ FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA Sede Ospedale “Carlo Forlanini” CORSO DI LAUREA 1° LIVELLO FISIOTERAPISTA Anno Accademico 2007/2008 APPUNTI DELLE LEZIONI DI DISCIPLINE DEMO-ETNO-ANTROPOLOGICHE 1

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LA SAPIENZAUniversità degli Studi di Roma

I^ FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIASede Ospedale “Carlo Forlanini”

CORSO DI LAUREA 1° LIVELLO FISIOTERAPISTAAnno Accademico 2007/2008

APPUNTI DELLE LEZIONI DI DISCIPLINE DEMO-ETNO-ANTROPOLOGICHE

Docente: Dott.ssa Maria Marzilli

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LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA

Gli antropologi del Novecento, spinti da curiosità intellettuale verso ogni forma di pensiero e

azione espressa da una collettività e animati da una fiducia empirista nel valore dei dati che

derivavano dall’osservazione diretta, svilupparono le conoscenze dell’Occidente sugli uomini che

vivevano in aree remote, le loro forme di organizzazione, le loro idee, i loro comportamenti.

L’interesse si rivolse a quelle società di piccole dimensioni, con limitate conoscenze tecnologiche,

prive di scrittura, che nell’ottica evoluzionista erano state chiamate “primitive”, perché

ricordavano il più remoto passato dell’umanità.

Il termine “primitivo” si riallacciava all’idea diffusa tra gli occidentali di essere i rappresentanti di

tutto ciò che vi è di più avanzato, mentre gli altri sarebbero espressione di un “prima” in cui le

forme di vita sono più semplici e arretrate.

L’interesse fu quindi rivolto particolarmente ad alcune aree del mondo dove si trovavano molte

società con simili caratteristiche. L’Africa, particolarmente a sud del Sahara, il Pacifico e le

società indigene d’America furono le zone più indagate, mentre minore attenzione fu rivolta a

società non occidentali di grandi tradizioni storiche e culturali con sistemi propri di scrittura,

sistemi religiosi e politici, come esistevano in Estremo Oriente.

Molte aree dell’Occidente sono partecipi di un fenomeno di enorme importanza storica, il contatto

e l’incrocio tra portatori di culture diverse sotto la spinta dei fenomeni migratori. Le dinamiche

interculturali sono un vasto campo di indagine a cui l’antropologia può dare un contributo di

conoscenze sulle culture di origine.

Ambiti di applicazione di conoscenze antropologiche si aprono all’interno dei paesi più sviluppati,

in iniziative a sostegno di minoranze etniche e linguistiche, di aree sociali o territoriali di

emarginazione, di valorizzazione dei patrimoni culturali locali.

L’antropologia, per la sua vocazione ad immergersi in altri contesti culturali, si trova oggi a

guidare un orientamento di analisi teso a spezzare la linearità dello sguardo occidentale su altri,

considerati rispetto a noi esotici, per aprire un dialogo interculturale.

Individuo e società

L’individuo può essere considerato al centro della riflessione sull’uomo in quanto soggetto

pensante e agente. La percezione del mondo esterno, le idee e conoscenze, le azioni hanno un

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riferimento nella consapevolezza che ogni uomo ha di rappresentare qualcosa di unico,

psichicamente e fisicamente distinto dai suoi simili.

Da questo primo livello di identità si sono elaborate teorie filosofiche e scientifiche, affermati

modi di pensare che hanno assegnato all’individuo uno statuto particolare nei confronti

dell’ambiente esterno, del soprannaturale e degli altri uomini, con diversi caratteri nelle varie

culture.

L’antropologia culturale, nata all’interno della cultura occidentale ed erede di quella tradizione di

pensiero, ha rivolto una particolare attenzione all’individuo come singola unità ma sempre nella

sua relazione con altri uomini.

Anche l’ambiente naturale in cui l’uomo vive, riveste notevole interesse per l’antropologia

culturale, sia per i condizionamenti che ne riceve per la sopravvivenza e i modi di vivere, (non

solo quindi l‘abbigliamento e il tipo di abitazione, ma anche la dimensione simbolica, come nei riti

e nelle rappresentazioni di entità spirituali), sia per gli interventi con cui modifica il territorio,

lasciandovi l’impronta della propria cultura. Altre discipline, l’antropologia fisica e biologica e

l‘etologia umana, si dedicano in modo particolare ai rapporti tra l’uomo e l’ambiente.

Il primo rapporto che fonda l’interdipendenza tra gli esseri umani è quello di parentela.

Con il termine parentado si indicano coloro che sono legati per consanguineità o affinità a un

soggetto.

Gruppi sociali estesi, uniti da legami tra loro di vario genere sono presenti nelle forme più diverse.

In molti casi comprendono più famiglie e reti di parentela, sono spesso uniti da una residenza

comune, ma possono essere anche rappresentati da gruppi di interesse che prevalgono sui primi.

In passato si usava il termine “tribù” per indicare le unità politiche dei popoli primitivi,

sottintendendo che i loro membri non fossero legati da un contratto sociale ma da legami di

sangue.

Facendo riferimento solo a legami sociali e a particolarità linguistiche e culturali, ora ci si

riferisce a “popolazioni” o a “nazioni.”

Il concetto di società

Interessante è come si arrivi a definire “ società” un insieme di uomini. Secondo l’antropologo

americano Felix Keesing , “una società è l’aggregazione di individui in popolazioni o gruppi

organizzati.”

L’organizzazione delle società umane deriva dalla condivisione del comportamento

culturale.

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Ciò che rende unitario un semplice aggregato di persone è il riferimento comune a un concetto

centrale che è quello di cultura.

Quando si usa il termine società, si sottolinea il fatto che fra le persone di cui si parla intercorrono

rapporti istituzionalizzati. Vanno messi in risalto i rapporti di parentela, gli scambi economici, le

regole del diritto, i sistemi di potere, i rituali religiosi e la magia. Da questi punti di osservazione

delle relazioni dinamiche tra gli uomini si viene a costruire quel concetto unitario che è una

società.

Evidenziato il processo logico che è alla base di questo concetto, è legittimo usare il termine

“società” con riferimento ad una popolazione definita da un’organizzazione politica, una

delimitazione territoriale e con un riferimento ad aspetti culturali comuni, (la società

eschimese) e più estesi ancora (la società occidentale).

Gli antropologi sociali affermano che ciò che vediamo sono le società umane ed il riferimento ai

caratteri culturali è più sfuggente perché legato a idee, credenze e valori che si possono vedere

solo nelle manifestazioni concrete che si esprimono socialmente.

Gli antropologi culturali ritengono invece che è dallo studio di espressioni culturali, come la

lingua, l’arte, gli stili di vita, la religione, la produzione di oggetti, che si ottiene la prova di

trovarsi di fronte a gruppi unitari identificabili come società.

Ma sul concetto di cultura alla fine vi è tra gli antropologi un accordo tacito, nel senso che è nella

sua viva manifestazione che la cultura acquista una particolare fisionomia. La pluralità delle

culture è esperienza vissuta nella pratica di studio e di ricerca .

Essenziale nell’attività intellettuale di comprensione e interpretazione delle espressioni culturali è

coglierne il significato simbolico. E’ questo significato ad attribuire valore ad azioni e prodotti

sociali e ad attività di singoli.

Si prenderanno in considerazione i simboli pubblici come quelli dei riti religiosi e laici o di

espressioni linguistiche e non quelli a cui gli individui singoli attribuiscono un valore soltanto per

essi.

Cultura e comunicazione

Il carattere dinamico della cultura che si mantiene viva con la interazione continua e gli scambi tra

i suoi membri trova la sua centrale espressione nella comunicazione, che non va interpretata come

un semplice trasferimento di messaggi, ma come sede di un’elaborazione attiva di cultura, che ad

ogni passaggio si rinnova e riceve nuova forza.

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La più ricca e universale è la comunicazione orale presso società prive di scrittura. In quei contesti

hanno potuto emergere la ricchezza di capacità espressive dell’oralità e le potenzialità che in

parte sono affidate a quest’ultima.

Dove non esistono documenti scritti, la tradizione orale è un archivio della memoria collettiva

che si rinnova trasmettendo eventi storici e mitici.

Con la visione si apre un mondo dai contorni indefiniti. Nel suo campo d’azione bisogna includere

non solo ciò che viene percepito dall’occhio ma anche le visioni mentali interiori, non considerate

come esperienze individuali ma come manifestazioni determinate culturalmente, con un significato

sociale e dotate di un potere preciso.

Specialisti della visione sono gli sciamani e gli oracoli, che godono di prestigio presso molte

società asiatiche, africane e americane tradizionali e servendosi di queste loro facoltà svolgono una

importante funzione sociale.

A particolari azioni e oggetti le società attribuiscono un potere simbolico di rappresentazione di

valori. E’ questa la materia prima dei riti, religiosi e laici, in cui è la forma, l’aspetto visibile

esteriore ad esprimere molti dei significati a cui fanno riferimento, in modo che possano essere

comunicati e condivisi collettivamente da uomini e, idealmente, anche dalle entità spirituali a cui

si rivolgono.

Inculturazione

L’ educazione o processi di inculturazione sono percorsi a cui sono sottoposti i membri di una

società costantemente. Questo è l’aspetto dinamico principale della cultura, che la mantiene in vita

e la rinnova attraverso il passaggio di informazioni tra i membri di una società, con la trasmissione

generazionale delle conoscenze e dei valori.

L’inculturazione però non comprende soltanto i processi propriamente educativi e si espande

capillarmente nei più vari momenti delle attività e interazioni sociali e lungo tutto l‘arco della vita

degli individui

Il confronto generazionale è un tema molto dibattuto a cui tutti sono sensibili nella società

moderna. Le rapide trasformazioni nei modi di vita causati dall’urbanizzazione e dalla mobilità

residenziale, le nuove conoscenze in campo scientifico e tecnologico, l’espansione nelle

comunicazioni e nell’informazione pongono i giovani di fronte a prospettive inedite. Questo

sembra aumentare la distanza sociale con la generazione dei genitori e addirittura di chi li precede

in età di pochi anni. E’ un fenomeno caratteristico della modernità e conseguenza

dell’accelerazione della cultura nelle nostre società.

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Si esaminerà quanto accade nel passaggio generazionale in contesti maggiormente legati alla

tradizione. Un classico tema in antropologia, a questo proposito, è quello dei riti di passaggio con

i quali le nuove generazioni vengono iniziate alla condizione di membro a pieno titolo della

propria società, acquisendo le conoscenze necessarie e determinati diritti e doveri. I riti di

iniziazione sono modi in cui si forma il senso di appartenenza di un individuo a un gruppo.

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INCULTURAZIONE E PROCESSI EDUCATIVI

Imitazione e apprendimento

Durante il primo periodo di vita, il bambino riceve una serie di stimoli, sotto forma di

incoraggiamenti e di divieti, nella ricerca di soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri. Sono

questi dei messaggi che orienteranno il suo comportamento e che saranno interiorizzati, andando a

costituire una specifica matrice culturale della sua personalità.

Se nel primo periodo di vita l’inculturazione passa attraverso gesti, azioni, incoraggiamento o

repressione delle attività del bambino, in seguito è il linguaggio il principale veicolo di

comunicazione culturale.

All’apprendimento per imitazione si aggiunge l’apprendimento per insegnamento attraverso la

comunicazione verbale.

La trasmissione culturale e la sua continuità e discontinuità

Ogni società rimane in vita finchè è assicurata la sua riproduzione biologica, ma anche quella

culturale.

La riproduzione biologica è regolata da una serie di norme, divieti e consuetudini che in alcune

strutture sociali prendono forma in sistemi di parentela ed è affidata a quell’istituzione familiare

che molti ritengono sia universalmente presente nei gruppi umani. La sopravvivenza e la crescita

delle nuove generazioni sono oggetto di attenzione da parte di quelle istituzioni, e della società nel

suo complesso. Molta cura viene riservata alla crescita culturale dei nuovi membri di una società,

così da assicurare una continuità intergenerazionale.

Tutto ciò che contribuisce a plasmare culturalmente i membri di una società fa parte di quel

processo chiamato inculturazione. Tale termine comprende tutto quanto viene acquisito da un

individuo in termini di comportamento condiviso dagli altri membri della società a cui appartiene,

e viene quindi a costituire la personalità di base dell’individuo stesso. Con il termine

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socializzazione l’accento si sposta verso l’interazione sociale indicando quei modelli di

comportamento approvati dalla società che entrano a far parte dell’organizzazione sociale.

Essendo la società una realtà viva e mutevole, il processo di inculturazione non ha mai fine e

segue le trasformazioni sociali comunicando le novità in modo che i singoli siano preparati a farle

proprie.

Un aspetto su cui si sono concentrati i primi studi sul tema della trasmissione culturale è quello

della continuità o discontinuità nel ciclo vitale.

La moderna società occidentale sarebbe caratterizzata da accentuata discontinuità, causa di molti

turbamenti, mentre dati riportati da società primitive mostrano come esse privilegino la continuità

con vantaggi per una crescita equilibrata degli individui.

La cultura occidentale accentuerebbe fortemente la differenza fisiologica tra bambini e adulti. “Il

bambino non ha sesso, l’adulto valuta la propria virilità secondo la propria attività sessuale, il

bambino deve essere tenuto al riparo dai fatti brutti della vita, l’adulto deve affrontarli senza

catastrofi psichiche; il bambino deve obbedire l’adulto deve imporre l’obbedienza”, scrive la

Benedict (1970).

La Benedict individua tre contrasti tra i ruoli del bambino e dell’adulto, nella società occidentale:

ruolo e status di responsabile e non responsabile; dominio dipendenza; contrasto tra i ruoli

sessuali.

Responsabile non responsabile – La Bendict nota come nella cultura occidentale i genitori pensino

che nell’infanzia i figli debbano giocare e non lavorare e che un bambino non possa fornire un

contributo lavorativo commisurato alle sue capacità, in un sistema produttivo industriale. In alcune

società invece il bambino segue la madre nei lavori dei campi e gradualmente può iniziare ad

aiutarla assistito con pazienza.

I genitori occidentali quando lodano un bambino per ciò che ha eseguito, lo fanno con

condiscendenza, senza fornirgli un criterio per valutare ciò che ha fatto. In altre società il bambino

viene condizionato ad una partecipazione sociale responsabile, affidandogli compiti adatti alle sue

capacità.

Presso noi occidentali, una persona condizionata nell’infanzia a un tipo di comportamento,

nell’età adulta deve adottare il modello opposto.

Nelle società che adottano il condizionamento continuo, si tende invece ad adottare la massima

reciprocità tra genitori e figli, tra nonni e nipoti. Una consuetudine è il “rapporto di scherzo” che

permette ai piccoli di rivolgersi agli anziani in modo libero. Non si insiste sull’obbedienza quanto

sull’approvazione e la lode.

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Nuove vie di inculturazione

Tratto caratteristico delle società moderne è l’aumento della frequenza di contatti intraculturali e

interculturali. Più intensi sono i modi di comunicazione indiretti affidati all’elettronica. Il sistema

Internet è una rete globale che collega in tempo reale un numero crescente di utenti in tutto il

mondo. La televisione, mette in contatto, attraverso la forza delle immagini, con eventi che

accadono in ogni parte del globo.

Attraverso questi supporti tecnici, l’inculturazione non conosce più confini di tempo né di spazio.

La rete sempre più articolata di informazioni socializzanti in una società in rapido mutamento

culturale dovrebbe collegare tutti i membri della società raggiungibili dai messaggi, all’interno o

esterno delle istituzioni. Dovrebbe funzionare come fattore di omologazione culturale e di

coesione sociale.

Prevalgono invece i fattori di mutamento e di rottura di modelli culturali.

All’inculturazione dei membri nati all’interno di una società si somma quella di chi proviene

dall’esterno, conseguenza dei movimenti migratori caratteristici di quest’epoca storica.

L’inculturazione degli immigrati presenta caratteristiche peculiari, e si distingue da quella

autoctona suddividendosi al proprio interno in base a fattori diversi, primi la cultura, la lingua

d’origine e l’età di ingresso nella società ospitante.

Quanto maggiore è la distanza culturale tra il paese di provenienza e quello di accoglienza, tanto

maggiori sono i problemi da affrontare da parte dell’immigrato per un suo inserimento.

Se l’inserimento dei bambini e degli adolescenti immigrati è facilitato dal loro inserimento in un

curriculum scolastico e dalla frequentazione dei loro coetanei, gli adulti risultano motivati dalla

necessità di comunicare sul luogo di lavoro.

I maggiori problemi vengono dagli anziani, che hanno pochi contatti fuori dall’ambito domestico e

che difficilmente raggiungono un soddisfacente livello di conoscenza della lingua locale. Si crea

così una frattura intergenerazionale che può avere forti effetti negativi.

Educazione interculturale

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In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti e il Canada, il sistema scolastico pubblico ha

dovuto affrontare fin dai suoi inizi i problemi derivanti dalla diversa provenienza culturale degli

studenti.

Quello dell’educazione è forse il più delicato tra gli aspetti della convivenza interetnica.

Di fronte a una prospettiva di globalizzazione di molte questioni riguardanti la vita dei popoli, ai

grandi movimenti migratori, all’infittirsi dei contatti internazionali, quella dell’educazione

interculturale è diventata una necessità che dovrebbe trasformarsi in un obiettivo vitale per lo

sviluppo di tutte le culture.

E’ necessario che l’educazione interculturale sia intesa non come qualcosa di imposto dalle

condizioni storiche contemporanee, ma come la premessa indispensabile per una armoniosa

convivenza tra i popoli.

In Italia, è mutata in pochi anni la percezione dell’immigrazione, e si è passati da un atteggiamento

di emergenza alla convinzione che si tratti di un fenomeno duraturo. Qualcosa di analogo avviene

nelle istituzioni scolastiche, di fronte alla presenza di studenti stranieri. Inizialmente insegnanti e

istituzioni scolastiche si sono posti il problema di inserire i nuovi arrivati nella nostra cultura

attraverso l’insegnamento, insegnando la lingua italiana e avviandoli al processo di apprendimento

previsto per i vari gradi di età.

Quindi anche le nostre istituzioni hanno recepito l’invito del Consiglio d’Europa ad adottare un

modello di “integrazione-interazione” che suggerisce di riconoscere e valorizzare le diversità

culturali.

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DIFFICOLTA’ DELLA COMUNICAZIONE NELLA DIVERSITA’ LINGUISTICA

Per i bambini che arrivano in Italia, così come per gli adulti – anche se per questi ultimi il discorso

da fare è molto più complesso, perché coinvolge, talora, le differenze tra i sessi – dopo un primo

momento di comprensibile shock culturale, imparare la nuova lingua è fondamentale. Inserirsi in

una nuova realtà culturale è strettamente collegato con l’acquisizione della lingua del posto e

pertanto imparare l’italiano è correlato tanto a motivazioni strumentali quanto di natura

psicologica. Le motivazioni strumentali sono abbastanza ovvie e riguardano la necessità prima di

tutto di comunicare, poi di comunicare “bene”, in modo da non essere sempre considerati gli

“estranei”, i “diversi” dai madrelingua italiani. Infine di acquisire una padronanza metalinguistica

tale che consenta loro di affrontare con profitto le lezioni scolastiche, perché il deficit linguistico

non diventi un deficit di apprendimento generale che poi si tramuta inevitabilmente in un deficit

cognitivo, se è vero che la scuola mira non solo a fornire conoscenze, ma anche a creare o

perfezionare meccanismi cognitivi.

Le motivazioni psicologiche riguardano pertanto la motivazione psicologica dell’estraneità:

innanzitutto la deprivazione linguistica, genera una frustrazione che si riflette su tutto il vissuto,

agito e sentito, del ragazzo. Secondariamente, il bambino inizia a costruire la propria identità

basandosi su dei “privativi”, ovvero su ciò che lo allontana dagli italiani. Le conseguenze di ciò

sono spesso rilevanti, perché impediscono al giovane la sua piena autorealizzazione umana.

Se il dato che accomuna gli stranieri neoarrivati è la non conoscenza dell’italiano, la situazione

linguistica può essere estremamente diversa da soggetto a soggetto.

A grandi linee, sembrano essere tre i fattori più significativi che definiscono i differenti profili

linguistici:

a) la lingua di origine, o le lingue di origine, dal momento che il codice orale è spesso

diverso da quello della scolarità e dell’alfabetizzazione

b) la scolarizzazione precedente;

c) l’esposizione alla lingua italiana fuori della scuola.

E’ importante, infatti, poter ricostruire la situazione linguistica dei bambini stranieri perché molto

spesso essi non sono una tabula rasa e ciò che hanno imparato fino al momento del loro arrivo in

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Italia costituisce una riserva di saperi a cui attingere, all’inizio ad esempio mediante la

collaborazione con un mediatore linguistico. Chiedere loro troppo o troppo poco, li spaventa o li

demotiva irrecuperabilmente e i disagi sul piano della costruzione della personalità, che si

riflettono prima di tutto sul loro comportamento e atteggiamento nei confronti della scuola,

influenzano moltissimo lo sviluppo della loro personalità.

Si possono sintetizzare in linea di massima le possibili biografie dei bambini:

1) Monolinguismo italiano (uso orale): quando i bambini sono nati in Italia e i genitori

si sforzano con loro di parlare solo italiano.

2) Bilinguismo italiano/lingua materna (orale): quando i bambini parlano a casa la

lingua d’origine e a scuola la lingua italiana.

3) Monolinguismo: quando il bambino è appena arrivato e conosce (solo) la sua lingua

d’origine, che è stata per lui anche la lingua della scolarizzazione.

4) Situazione di diglossia (usi orali e scritti): quando il bambino ha imparato a comunicare

in una lingua e a scuola ne ha imparata un’altra. E’ il caso soprattutto di bambini che

provengono dalla Tunisia, Marocco o Egitto e che hanno imparato a scuola l’arabo

classico, mentre usano a casa il dialetto marocchino.

5) Bilinguismo/lingua straniera (usi orali e scritti): quando i bambini provengono da un

paese (tipo Filippine o Sri Lanka) dove la lingua della scuola è europea, mentre a casa

vengono utilizzati i dialetti locali.

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INTERETNICITA’ E MULTICULTURALISMO

Movimenti migratori e politiche di accoglienza

E’ stato il fenomeno dell’immigrazione a porre a confronto rappresentanti di culture diverse in uno

stesso territorio, in uno stesso contesto istituzionale, quello del paese di accoglienza. Un contatto

reso spesso difficile da condizioni di difficoltà economiche e di impreparazione.

In pochi decenni, milioni di persone si sono spostate spinte da squilibri demografici, crisi

economiche, eventi politici, da una speranza.

Si sono formate comunità di immigrati uniti da legami familiari, dall’appartenenza culturale,

desiderosi di conservare le loro tradizioni, specialmente religiose. In molti paesi europei si ha la

presenza di gruppi di diversa origine etnica.

I paesi europei hanno adottato politiche diverse per l’inserimento degli immigrati.

Multiculturalismo

L’ideologia multiculturale propone la libera espressione di tutte le culture all’interno di una

nazione, ma non considera la possibilità che le istituzioni dello Stato vengano sostituite da quelle

di una minoranza né che ogni gruppo etnico abbia il proprio sistema di governo, un fatto che

verrebbe considerato come un attentato alla sovranità dello Stato.

Il multiculturalismo garantisce la libertà di culto e incoraggia manifestazioni delle minoranze

etniche in cui esse possano celebrare le proprie tradizioni ed esprimersi nella propria lingua. Tutti

aspetti innocui che non compromettono il sistema sociale controllato dalla maggioranza.

La necessità di prendere posizione rispetto all’incontro con culture esterne ha sollecitato una

riflessione sulle diversità culturali interne. In Italia, de Martino aveva messo in risalto nei suoi

studi la ricchezza e la particolarità della cultura del Meridione. Il suo invito a volgere l’attenzione

a quelle che erano state chiamate “le Indie di quaggiù”, era stato raccolto da antropologi come

Cirese, che avevano evidenziato l’esistenza di “dislivelli interni di cultura” nella società italiana,

retaggio di tradizioni precedenti all’unità nazionale, sopravvissuti a causa di squilibri economici e

sociali.

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La varietà multiculturale interna, italiana ed europea, sembra riemergere ora in termini

rivendicativi, come riscatto da una condizione di identità negata. Ora le identità negate si

presentano, a livello territoriale, come tradizioni locali che sarebbero state sommerse dal

centralismo politico, dall’omologazione culturale dei mezzi di comunicazione di massa, del

mercato, dei processi di globalizzazione.

L’attenzione rivolta agli aspetti dinamici e alle possibilità di trasformazione sociale, ha portato da

parte di alcuni a preferire il concetto di “interculturale” anziché “multiculturale”. Secondo questo

orientamento il termine “multiculturale” suggerisce una situazione statica, priva di incontri fertili,

di difficile convivenza tra gruppi di diversa origine, mentre l’”interculturalità” indicherebbe

conoscenza e scambi reciproci con arricchimento culturale sia dei singoli gruppi sia della società.

Si reputa che sia un’educazione interculturale quella che preparerà i nuovi cittadini ad una pacifica

convivenza nel mondo del futuro.

Problemi di convivenza interetnica

Malgrado gli inviti a considerare una ricchezza le diversità culturali, i singoli gruppi etnici

sembrano preoccuparsi più della propria sopravvivenza culturale che di una possibilità di

convivenza e scambio interculturale.

Nei casi di recente immigrazione, ciò è stato imputato alle difficoltà pratiche, quali la ricerca di un

lavoro e di un’abitazione, e al fatto che i nuovi immigrati sono stati attirati da parenti e amici.

Questi fattori spingono a trovare aiuto all’interno del gruppo col quale si condividono lingua e

abitudini. Nei confronti dell’esterno prevale un atteggiamento di chiusura, diffidenza e a volte

ostilità.

La tendenza a chiudersi in ghetti monoculturali dipende da fattori sociologici, politici, economici,

urbanistici e contribuisce a perpetuare l’isolamento. Una separazione su base culturale prosegue

anche tra le generazioni successive a quella di immigrazione, tanto più quanto prevale l’evitazione

di matrimoni interetnici, o “mixofobia”.

Per il sociologo Peter Blau (1995) i matrimoni misti sono “il paradosso del multiculturalismo”.

Una politica ispirata a favorire i contatti tra i gruppi etnici porterebbe a un numero maggiore di

matrimoni misti e in questo caso le generazioni successive perderebbero le specificità culturali dei

genitori arrivando ad una omologazione con la fine della multiculturalità.

I confini etnici, all’interno di società multiculturali, tendono a persistere oltre che per fattori

emotivi, anche per gli interessi delle stesse comunità a mantenerli.

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Non solo si ha un fenomeno di emarginazione delle minoranze arrivate in seguito da parte della

maggioranza al potere, ma le stesse minoranze tendono a difendere le posizioni conquistate, anche

inferiori, e a trasmetterle all’interno del proprio gruppo etnico. Una vera società multiculturale è

quella in cui si ha un incontro fertile di culture di diversa origine. Si ha allora una fusione o

“meticciato culturale.”

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IDENTITA’ ETNOCENTRISMO RAPPORTI INTERCULTURALI

L’identità , come definizione del sé, viene elaborata a diversi livelli.

L’identità individuale inizia fin dal primo periodo della vita di ognuno di noi, con la

consapevolezza progressiva di esistere come realtà distinta rispetto ad altri vicini a noi, partendo

dalla madre e anche da oggetti che possiamo toccare e vedere con i nostri sensi.

E’ un processo relazionale che definisce sé a partire da ciò che è altro da sé, ed è una dimensione

esplorata in psicologia.

L’antropologia, pur tenendo presente questo aspetto psicologico, si rivolge a un processo più

esteso di formazione di identità e alle sue espressioni nell’agire sociale: quello del senso di

appartenenza a un gruppo esteso di persone, alle quali ci si sente legati da una specie di “comunità

di destino”. Questa identità collettiva condivisa può comprendere una dimensione sociale più o

meno ampia, nazionale, minoritaria o anche sopranazionale.

L’antropologia che ha concentrato l’attenzione su comunità prive di organizzazione statale e di

piccole dimensioni, ha messo in evidenza l’identità etnica, in cui il senso di appartenenza fa

riferimento a un’origine comune che può essere storica o biologica e a modi di vita e credenze

distinti da quelli di altri gruppi, anche da quelli più vicini.

E’ qualcosa che appartiene alla dimensione culturale che ha elaborato e inventato questa forma di

solidarietà introiettata dai membri del gruppo a cui essi sentono di appartenere.

Si esamineranno alcuni tra i vari aspetti che può assumere la messa in relazione della propria

identità collettiva con le espressioni sociali e culturali di altre identità.

Il termine etnocentrismo viene utilizzato per esprimere qualcosa di negativo, moralmente

riprovevole: un senso di superiorità dei propri modi di agire e pensare rispetto a quelli

caratteristici di altre società e gruppi etnici, fonte di pregiudizi nel giudicare i

comportamenti degli altri.

Utilizzato in modo più equilibrato, si è affermato come l’etnocentrismo sia un valore positivo,

perché è a partire dalla percezione del sé che possiamo confrontarci e aprirci al mondo.

Diventa un sentimento pericoloso se non è critico nei nostri confronti ed è causa di pregiudizi

e discriminazioni nei confronti degli altri.

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Un antitodo all’etnocentrismo negativo viene dal relativismo culturale. Secondo questa teoria

ogni cultura va interpretata nei termini che le sono propri, sarebbe scorretto servirci dei

nostri parametri di giudizio per valutare modi di comportamento o pensiero altrui.

Se si dà un’interpretazione equilibrata si assicura il rispetto delle posizioni altrui esprimendo uno

dei fondamenti dell’approccio antropologico che è quello di cercare di calarsi all’interno di una

realtà culturale per comprenderla come la vivono i suoi soggetti.

Per realizzare questo progetto di comprensione dell’altro, occorre che anche gli “altri” siano messi

in condizione di osservare e comprendere allo stesso modo “noi”. Questa reciprocità riconosce la

pari dignità di chi ci appare diverso.

Viviamo in un periodo in cui la conoscenza di culture diverse, da curiosità di pochi e da ristretto

interesse scientifico, è diventata un’urgente necessità per tutti. La comunicazione interculturale è

la base dei rapporti tra gli uomini per un numero maggiore di uomini.

Non si tratta soltanto di sviluppare un atteggiamento psicologico ed etico di apertura, di

disponibilità a ciò che non ci è familiare, che non abbiamo appreso nel nostro ambito culturale.

Occorre dotarsi di conoscenze e affinare una sensibilità a comprendere e interpretare messaggi di

segno diverso, a dialogare con chi ha riferimenti culturali distanti dai nostri. Tutto ciò per una

migliore convivenza umana.

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ETNOCENTRISMI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI CULTURALI

La cultura è uno strumento per orientare l’agire umano nella sfera del già conosciuto, ma può

divenire un limite di fronte al nuovo, anche se si tratta di quella forma di nuovo rappresentata dal

diverso, dall’altro da sé.

Franco Ferrarotti descrive un esempio di atteggiamento “riduzionista”, l’etnocentrismo culturale:

“Il pregiudizio da battere è quello eurocentrico – vale a dire il pregiudizio che scorge e fa valere

nell’Europa occidentale e nel suo modo di vita il termine normativo che corona tutto il processo

storico evolutivo dell’umanità e rispetto al quale ogni altra cultura è da considerarsi solo come

pre-cultura, in cultura o cultura abusiva. In questo senso questa è una cultura che impedisce di

capire gli altri, che si costituisce come cultura auto-consapevole contro le altre. E’ una cultura a

parte, fiera della propria peculiarità – una peculiarità che non tarda a porsi come motivo di

indimostrata superiorità”.

L’etnocentrismo non è un fenomeno circoscritto al continente europeo e non è necessario che la

supposta superiorità sia percepita o sentita. E’ sufficiente che colui che osserva l’altro da sé lo

faccia in base ai propri codici di autoriferimento, utilizzando l’immagine di sé come pietra di

paragone. Non attuando la differenziazione tra il sé e l’altro da sé che è la premessa per ogni sana

relazione.

Si tratta di una non comunicazione, di una relazione conflittuale, o come dice Gregory Bateson

schismogenetica cioè apportatrice di fratture, in quanto messaggio di disconferma nei confronti

dell’altro da sé culturale. L’etnocentrismo è solo una delle patologie di relazione tra culture.

Infatti il rapporto col diverso rappresenta un fattore di potenziale criticità, che si espone all’azione

di pregiudizi e stereotipi.

Il pre-giudizio è un giudizio a priori, che anticipa la conoscenza dell’altro, si valuta l’altro sulla

base della sua appartenenza ad una categoria. Il pregiudizio può essere favorevole o sfavorevole

verso chi lo subisce.

Il pregiudizio si sposa con lo stereotipo, che è un’immagine costruita su misura.

L’esigenza dell’uomo di stabilire delle regole di preferenza/avversione verso i gruppi sociali

esterni è vecchia quanto l’uomo. Lo psicologo sociale Tajfel sostiene che gli stereotipi avrebbero

una componente cognitiva (legata alla costruzione di schemi cognitivi); una componente

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valoriale (legata a giudizi di valore, del tipo buono/cattivo, bene/male associati ai gruppi sociali

esterni); una componente emotiva (legata agli atteggiamenti di antipatia/simpatia nei confronti

degli altri gruppi).

Le tre componenti costruiscono la relazione di identificazione e appartenenza tra l’individuo ed il

gruppo orientando le relazioni di preferenza/avversione verso i gruppi sociali esterni.

Pertanto, mentre la mobilità sociale assicurata dalla “società aperta” non produrrebbe secondo

Tajfel spazi di attrito tra gruppi sociali collocati in posizioni diverse nella scala gerarchica, le

situazioni sociali che potrebbero scatenare conflitti sociali sarebbero:

a) quando gli appartenenti ad un gruppo hanno difficoltà a definire il proprio posto nella scala

sociale, perché il gruppo sociale è marginale;

b) quando gli appartenenti ai gruppi privilegiati si sentono minacciati dall’ascesa di un gruppo

ritenuto inferiore;

c) quando il gruppo svantaggiato sente ingiusta la propria condizione sociale.

Quando si passa all’analisi dei comportamenti collettivi, si possono osservare una serie di

atteggiamenti di chiusura/repulsione nei confronti del diverso, classificabili col termine xenofobia,

che Marcella Delle Donne ha così definito: “ La xenofobia è un atteggiamento di avversione per

tutto ciò che è straniero, ma a monte di questo odio c’è la paura di chi è percepito come una

minaccia. Il termine xenofobia è formato dalla composizione di due parole greche: xenos =

straniero e fobos = paura, avversione. La xenofobia che può essere una reazione psicologica

“naturale” verso un gruppo percepito come una minaccia, è stata strumentalizzata da molte

ideologie”.

I comportamenti xenofobi non colpiscono solo gli “stranieri” per etnia e provenienza, ma possono

avere per bersaglio tutti i gruppi sociali “diversi”, possono coinvolgere tossicodipendenti,

sieropositivi, prostitute, omosessuali ecc…

Per Michel Wieviorka, quando la patologia della relazione verso l’altro assume connotazioni

razziali e/o etniche, si parla di razzismo. Il razzismo è un fenomeno delle società moderne ed

individualistiche che hanno iniziato a svilupparsi nell’Europa occidentale alla fine del Medioevo.

L’autore partendo da questo presupposto, ha analizzato il rapporto tra razzismo, partecipazione

individualistica alla modernità, affermazione dell’identità sociale, individuando quattro poli che

corrispondono ciascuno ad una particolare modalità di tensione e di opposizione tra i due fattori

analizzati.

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Primo polo: per l’autore il razzismo universalista accompagna la marcia universale della

modernità, quando questa ha l’ambizione di ergersi a punto di riferimento del

progresso, attraverso un “progetto di evangelizzazione globale”.

Secondo polo: corrisponde a quelle situazioni sociali in cui alcuni gruppi o individui, colpiti da

un forte declassamento sociale, sono segnati dalla emarginazione reale o

minacciata. Il razzista in questo caso è colui che perde o rischia di perdere il suo

status o la posizione sociale, o intende proteggersi da una minaccia reale o

presunta di declassamento. Si tratta perciò di un atteggiamento difensivo, ansia

da perdita, che si trasforma in aggressività verso quei gruppi sociali percepiti in

competizione con il proprio gruppo sociale di appartenenza.

Terzo polo: è rappresentato dalla situazione in cui un’identità nazionale, etnica, sociale,

religiosa è abbastanza consolidata da opporsi alla modernità, (il kilt scozzese).

Quarto polo: corrisponde ad atteggiamenti messi in atto da gruppi nell’ambito di tensioni

interculturali ed interetniche. Si tratta del conflitto tra diverse identità culturali

forti.

Un altro terreno critico di analisi delle relazioni con la diversità è quello delle differenze di genere.

La diversità di genere rappresenta un terreno di coltura di microconflittualità e una delle aree

critiche in cui si manifesta la discriminazione che trova terreno fertile in quegli ambiti della vita

sociale dove la posizione della donna è stata a lungo subordinata al potere maschile.

Il movimento femminista ha rimproverato alla cultura maschile dominante di aver costruito una

società fondata sui valori maschili, artatamente mascherati da valori “neutri” e, quindi, universali.

La discriminazione sessuale può assumere toni molto virulenti, sfociando nell’intolleranza, quando

vengono coinvolti i territori dell’omosessualità e del transgenderismo.

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IDENTITA’ - ALTERITA’ - ETNOCENTRISMO

Identità individuale e di gruppo

La questione dell’identità può venire affrontata a partire dal processo di costruzione dell’Ego: la

formazione dalla nascita, e l’affermazione in età adulta, della consapevolezza della propria unicità.

E’ un processo che si svolge nello spazio e nel tempo.

Nello spazio, inizia con la definizione dei confini fisici del proprio corpo e si sviluppa attraverso

la percezione di potersi muovere liberamente portando con sé la propria unicità.

Nel tempo, si sviluppa la percezione che la propria unicità ha una durata che ci accompagnerà

minuto dopo minuto, nell’arco della nostra vita.

Questi processi creano la consapevolezza della propria individualità. L’identità individuale è un

aspetto caratteristico della condizione umana, un aspetto condiviso da tutti gli uomini. Tuttavia la

cultura interviene dando una forma e attribuendo un significato a queste esperienze singolari.

La cultura occidentale ha elaborato un filone di pensiero che ha posto al centro del senso della

condizione umana l’individuo come monade autonoma, espressione di tutto ciò che è umano.

Nella sua espressione estrema si presenta sotto forma di individualismo.

Presso altre culture, in società di piccole dimensioni, ma anche nelle grandi società orientali,

l’identità individuale viene concepita in senso relazionale. Il sé è definito come parte di una

condizione umana condivisa con altri. Il senso di identità condivisa dei membri di una comunità

consolida i legami sociali.

L’osservazione di comportamenti ripetuti che finiscono per apparire tipici di un gruppo

particolare, porterebbero alla definizione di una personalità etnica. E’ un concetto che non

differisce sostanzialmente da quello di “personalità di base”: tutti i membri di un gruppo avrebbero

in comune alcuni tratti basilari della propria personalità.

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Più vago il concetto di identità etnica che, non essendo basato su comportamenti osservati o

riferiti risulterebbe un modo artificioso per distinguere gli appartenenti a un gruppo e etichettarli.

Questa operazione, seguendo il ragionamento di Devereux, porterebbe con sé due aspetti negativi.

I possessori di una identità etnica diversa dalla propria (gli “altri”), finirebbero per essere

etichettati non in base ad elementi neutri, ma con valutazioni ideologiche negative per opposizione

alle proprie (“noi”). La costruzione della propria identità etnica avrebbe luogo a partire dalla

definizione di quella altrui.

Per De Vos (1982) “l’identità etnica di un gruppo di persone consiste nel loro uso di ogni aspetto

della cultura, allo scopo di differenziarsi da altri gruppi.

Per Denis-Constant Martin (1995), il senso di appartenenza sarebbe il risultato di una selezione di

quei sentimenti intorno ai quali si organizza una comune visione del mondo e del rifiuto degli altri.

Sarebbero tre le aree comprese in questa visione del mondo: rapporti con il passato, con lo spazio

e con la cultura.

Il gruppo sente di possedere forti radici nel passato, di avere avuto un ruolo nella storia, di avere

subito persecuzioni o violenze.

Il senso di appartenenza si fonda anche sull’affermazione di radici territoriali: il luogo degli

antenati, delle origini.

Si afferma come particolare uso dello spazio sociale: il luogo dove si possono esprimere i propri

modi di vivere, celebrare i propri riti. Luoghi spesso sentiti come usurpati da altri.

Quanto ai tratti culturali una loro riformulazione in termini di identità prevede una selezione di

quelle tradizioni di un passato che vengono presentate come perenni. A questi tratti culturali viene

attribuita una forte carica affettiva.

Etnicità

Il senso di appartenenza etnico quando si esprime all’interno di Stati nazionali viene denominato

“etnicità”. Le grandi migrazioni hanno portato alla presenza di numerosi gruppi etnici di

provenienza esterna nelle nazioni europee.

Lo spostarsi dell’oggetto di studio ha costretto ad abbandonare il modello che vedeva i gruppi

etnici come unità fisse e chiuse all’interno dei loro territori, e a ripensare la natura dell’identità

etnica.

Porre a fondamento i “sentimenti primordiali” non era più sostenibile, una volta che i gruppi si

erano staccati dalla loro nicchia originaria. La realtà costringeva a mettersi in relazione con altri

gruppi, modi di vivere e con la percezione che gli altri avevano della propria etnicità.

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Sotto il profilo psicologico sono state individuate varie dinamiche di formazione dell’etnicità.

Specialmente in condizioni di marginalità ed estraneità, si creerebbe un bisogno di sicurezza che

trova espressione in un attaccamento in chi è sentito come più simile. Nello stesso tempo si

sviluppa un senso di separazione nei confronti dell’esterno. L’attaccamento si dirige verso le

persone, per creare il senso di una comunità legata da sentimenti condivisi e che si sente unita da

un’origine comune e da uno stesso destino che può perpetuarsi nel tempo.

Anche pressioni e minacce esterne agiscono come rafforzamento del bisogno di sicurezza,

producendo una adesione alle regole del gruppo e una più forte espressione anche esteriore della

propria appartenenza etnica.

L’osservanza dei riti religiosi e l’ostentazione dei simboli della propria tradizione sono i segni di

questa risposta.

Alterità – eterofobia – etnocentrismo

Si può dire che l’identità acquisti significato solo se messa in relazione rispetto a ciò che è altro.

E’ il senso dell’alterità a rendere possibile il formarsi del senso di identità.

Sul piano dell’esperienza sociale, l’alterità viene sperimentata sotto forme diverse, è relativa:

l’altro può essere il fratello, il vicino, lo straniero. Come gli altri sono altri rispetto a noi, noi

siamo altri rispetto agli altri.

Si ha un passaggio cruciale quando dall’alterità si passa alla differenza.

La differenza viene creata attraverso classificazioni fatte nei nostri termini, che consentono di

stabilire dei confronti con modi di pensiero e comportamento propri e altrui. Questo procedimento

trasforma l’altro in diverso.

Mentre la percezione dell’alterità è una premessa necessaria, la definizione delle diversità opera su

un piano dell’esperienza, e non deve risolversi in una discriminazione o imposizione dei propri

modelli: Vi può essere il rischio che rinunciando a conoscere le diversità si rinunci al confronto e

al dialogo.

Per definire il segno con cui viene intesa l’alterità, sono stati introdotti i termini di eterofobia e di

eterofilia, rispettivamente atteggiamento di chiusura e di apertura nei confronti dell’altro.

L’eterofobia designerebbe configurazioni fobiche e aggressive dirette contro gli altri e che

pretendono di legittimarsi con argomenti psicologici, culturali e sociali. Un’estensione del

razzismo biologico.

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L’etnocentrismo è un termine con una connotazione peggiorativa, per indicare un atteggiamento

denigratorio nei confronti degli altri. E’ la valutazione della propria cultura come punto di

riferimento per l’orientamento personale.

L’etnocentrismo positivo è la capacità di valutare la propria cultura come un mezzo per costruire

la propria identità personale in modo rispettoso dell’identità di altri.

Talvolta l’etnocentrismo può presentarsi come rafforzamento della propria identità di gruppo di

fronte a minacce o persecuzioni esterne: un caso è quello degli Ebrei.

La forte carica emotiva legata a queste dinamiche ha portato ad affrontare l’etnocentrismo con

impegno etico per combatterlo.

L’esotismo, l’orientalismo, e la reciprocità dello sguardo

L’opposto dell’etnocentrismo è l’sotismo. In questa corrente che interessa la letteratura, la

narrativa di viaggio, le arti figurative, avvolgendo di un alone di fascino ogni forma di conoscenza

giunta da luoghi e popoli remoti, nell’immaginario l’”altro” assume una posizione privilegiata,

come un involontario protagonista delle fantasie e dei sogni dell’Occidente.

Il termine “esotismo” fu introdotto dal francese Victor Segalen, in un Saggio sull’esotismo nel

1904, e lo definì una “estetica del diverso”. Segalen, in visita a Tahiti scopre il pittore Gauguin, i

cui quadri sono la più alta espressione di un’estetica del diverso. Segalen individua in quella

ricerca di mondi incontaminati dai modi di vita occidentali quella che lui definisce “la sensazione

dell’esotismo: che non è altro che la nozione del differente, la percezione del diverso, la

conoscenza che esiste qualcosa che non siamo noi e il potere di esotismo che non è altro che il

potere di concepire altrimenti” (Segalen, 1983).

In quegli anni iniziavano ad affermarsi in Francia racconti d’atmosfera, ambientati nel Vicino,

Medio ed Estremo Oriente, soffusi di un estetismo decadente, di una sensualità che la società

borghese europea aveva messo al bando, ma che si dilettava di cercare altrove. Un gusto romantico

dell’avventura alla ricerca di sensazioni che affascinavano purchè restassero lontane, riportate dai

pittori, poeti e viaggiatori.

Molti si addentrano nei territori coloniali alla ricerca di sensazioni personali e di ispirazione

letteraria. In molti casi, il versante scientifico di questa attrazione è l’etnologia.

Antropologia e letteratura in queste esperienze restano diverse e separate nel metodo e nelle

motivazioni, ma le unisce il desiderio di conoscere quei mondi lontani. Entrambe erano, come

hanno detto alcuni critici, espressione di eurocentrismo. La descrizione e l’interpretazione fatte nei

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propri termini manifestavano la volontà di appropriarsi intellettualmente di quelle culture, come il

colonialismo faceva con la forza.

Con l’apporto di energie intellettuali, estetiche, culturali e scientifiche si sarebbe formata una

tradizione di pensiero imperialista, con la costruzione di uno stereotipo che condanna l’Oriente ad

essere quello che l’Occidente gli attribuisce. Questa immagine negativa rimarrebbe come uno

stigma sugli individui e sulle società etichettate come “orientali”.

In effetti orientalismo ed esotismo contengono una doppia anima, da una parte l’apertura verso

l’altro, che può assumere forme diverse come fascino, gusto dell’avventura, curiosità o desiderio

di conoscere e studiare le varie espressioni culturali. Dall’altra, la proiezione sull’altro di fantasie,

di categorie morali ed estetiche dell’Occidente, in sintesi l’affermazione dell’eurocentrismo.

Torbido o incontaminato, misterioso o ingenuo, l’esotico è pur sempre una costruzione culturale

dell’Occidente che incasella i modi di vivere degli altri nelle proprie categorie .

L’etnologia stessa è stata presentata come una forma di esotismo. L’antropologia è stata anch’essa

accusata di passate complicità con il colonialismo. La vocazione ad immergersi in altre culture da

parte dell’antropologo, non può reputarsi estranea a quel vasto fenomeno di curiosità nei confronti

del diverso che ha alimentato l’esotismo come esperienza personale sia come progetto di ricerca

scientifica.

Sulle ipotesi di complicità dell’etnologia con il colonialismo, le testimonianze degli antropologi

che lavoravano sul campo all’interno degli imperi coloniali del passato, dimostrano come le

conoscenze che hanno fornito sulle popolazioni assoggettate abbiano contribuito a liberarle da un

assoggettamento culturale e ad affermare una loro dignità e identità culturale.

Se si passa dal livello sociologico a quello cognitivo, nel modo di vedere antropologico si può

scorgere un aspetto di colonizzazione metaforica delle altre culture, con i propri strumenti logici di

pensiero e metodi di acquisizione delle conoscenze. L’eredità più caratterizzante è quella del

positivismo ordinatore e classificatore delle diversità, sicuro della validità oggettiva dei dati

raccolti con l’osservazione.

Una perdita di certezze e di attribuzione di valore assoluto alle proprie conoscenze, sono venuti

dall’impatto con una presenza più forte e vicina alle altre culture.

La perdita delle proprie certezze ha prodotto, nella più recente antropologia, un’apertura verso il

punto di vista dell’altro. L’antropologo mira a non cancellare la propria presenza: cerca di

individuare gli aspetti più significativi culturalmente. E’ testimone e soggetto attivo di

quell’isolamento che erano state le premesse al formarsi dell’esotismo.

Le culture si avvicinano, si confrontano, si aprono, si meticciano. Sono dei fenomeni storici come

quelli dei flussi migratori che esigono un tipo di sguardo reciproco. Non siamo solo più noi ad

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osservare gli altri, ma anche gli altri guardano noi e dall’incrocio di questi diversi punti di vista

nascono nuove costruzioni culturali.

I VANTAGGI DELLA SOCIALITA’

La protezione dai nemici è uno dei più importanti fattori tra quelli che hanno condotto alla

formazione di consociazioni animali, la protezione e difesa della prole hanno preceduto la cura

parentale, cioè la pulizia e nutrizione dei piccoli.

Altro vantaggio della consociazione è la possibilità della divisione del lavoro. Il maschio può

assumersi la protezione della prole, la femmina il compito della nutrizione, pulizia e riscaldamento

dei piccoli. I lupi che vivono in branco cacciano insieme, gli uni sorpassano la selvaggina e le

tagliano la strada, gli altri la inseguono a tergo e la sbranano. La divisione del lavoro raggiunge la

più elevata configurazione negli “stati” degli insetti, nei quali si costituiscono caste diverse con

compiti diversi.

La vita di gruppo permette anche che si formino tradizioni. Presso alcune scimmie, le invenzioni

di alcune vengono imitate dalle altre e conservate di generazione in generazione per tradizione.

Presso gli scimpanzè in libertà esistono abitudini tramandate specifiche di un gruppo. I membri di

una famiglia o di un gruppo si assistono fino a sacrificare la vita e fanno cose che non

necessariamente portano vantaggio all’individuo. Da qui si origina il problema dell’evoluzione del

comportamento altruistico.

Per ciò che riguarda gli animali sociali, si deve soffermare l’attenzione non tanto sul singolo

quanto sul gruppo, nel quale è contenuta la struttura ereditaria del singolo. Un gruppo in cui i

singoli si dedicano alla difesa del gruppo stesso o dei piccoli, potrà propagare il proprio

patrimonio ereditario con maggiore successo rispetto ad un gruppo che non produce individui

pronti alla difesa. Per la stessa ragione, ad esempio, individui che sottraggono tutto il cibo agli altri

o li combattono, hanno in un primo tempo dei vantaggi nel loro gruppo, ma lo indeboliscono come

unità e lo svantaggiano nella lotta concorrenziale con gli altri. Questa variante asociale, può

inizialmente imporsi dentro il gruppo, ma il suo genoma ha poi poco successo.

Le consociazioni animali si possono dividere in due gruppi, a seconda che siano aperte o chiuse.

Consociazioni aperte si hanno quando i consociati permettono l’accesso al gruppo ad altri che

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non vi appartenevano fino a quel momento. Una consociazione chiusa è un’unità intollerante, i

congeneri estranei non vengono immediatamente annessi al suo interno, vengono cacciati se

cercano di annettersi. Ciò significa che i membri della consociazione si conoscono l’uno con

l’altro, o individualmente o per un caratteristico segno proprio a tutti i membri del gruppo.

L’evoluzione del comportamento altruistico è comprensibile sulla base dei principi darwiniani.

Perfino l’appoggio reciproco fino al sacrificio della vita ha importanza per la conservazione della

specie. Nel gruppo zoologico dei vertebrati, lo sviluppo del comportamento di assistenza dovrebbe

essere di recente data, se si considera la storia della terra, lo si osserva già tra i pesci

geologicamente più recenti. Negli anfibi e nei rettili, moduli comportamentali altruistici sembrano

limitati ad alcuni casi rari di difesa e trasporto della prole, mentre gli adulti non si assistono mai

reciprocamente. Pur esistendo alcuni rettili ‘sociali’, in realtà non si rileva, osservandoli alcuna

interazione amichevole. Le iguane delle isole Galapagos, ad esempio giacciono a centinaia, l’una

accanto all’altra, ma l’unico rapporto con le loro compagne si limita ad una occasionale minaccia,

persino il loro corteggiamento è un comportamento di minaccia trasformato. Non si assistono nel

pericolo, non si nutrono, manca ogni nesso individualizzato.

La situazione è completamente diversa nella maggior parte degli uccelli e dei mammiferi, che si

assistono e possono vezzeggiarsi con tutta una serie di moduli comportamentali affettuosi. Con la

loro capacità di cooperare e di essere altruistici, i vertebrati sociali hanno raggiunto un più alto

grado di organizzazione. Infine, su tale progresso si fonda la nostra società umana.

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L’AGGRESSIVITA’ IN ETOLOGIA

I vantaggi dell’intolleranza

Gli animali appartenenti a moltissime specie combattono i congeneri e l’uomo non fa eccezione,

anzi la sua storia è una storia di violenza che caratterizza anche il nostro tempo. Anche se tentiamo

di difendere la tesi della natura sociativa e amichevole dell’uomo, non si può ignorare il carattere

di insocevolezza e di intolleranza che in esso si evidenzia.

E’ opportuno trattare dell’aggressività intraspecifica, quel fenomeno per cui animali di una stessa

specie si combattono fra loro. C’è anche un’aggressività interspecifica, in quanto gli animali da

preda attaccano le loro prede, ma le due forme vanno tenute ben distinte, i due tipi di aggressività

si distinguono già per il decorso motorio, infatti un gatto che aggredisce un topo si comporta in

modo diverso da quando aggredisce un rivale.

R. Dart ha cercato di spiegare l’aggressività dell’uomo moderno con il modo di vita predatorio dei

suoi antenati australopitecini. Queste scimmie antropomorfe, viventi circa un milione e

settecentomila anni fa, uccidevano la preda con ossa di antilope; questa ‘aggressività’ sarebbe la

radice dell’aggressività umana. Robert Ardrey concorda con l’argomentazione di Dart, ma ciò che

trascurano è il fatto che gli animali vegetariani non sono più ‘buoni’ degli animali da preda: i tori

attaccano gli altri tori , i galli sono divenuti simbolo di aggressività. Pertanto un modo di vita

predatorio non è stata la premessa per lo sviluppo dell’aggressività intraspecifica. Questo rende

opportuno lo studio del problema se vi siano dei vantaggi selettivi del comportamento aggressivo.

Vista l’estensione del fenomeno è poco probabile che l‘aggressività sia solamente un sottoprodotto

non funzionale di altre espressioni vitali.

Un vantaggio del comportamento aggressivo proviene dalle lotte fra rivali, molti maschi di

vertebrati si combattono all’epoca degli amori: i più forti e sani risultano selezionati per la

propagazione, cosa importante dove ai maschi spetta la protezione della prole.

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Tornei

Però l’aggressività non porta solo vantaggi per una specie in quanto è sempre possibile che durante

un combattimento un membro della specie rimanga ferito o ucciso e questo non è in linea con la

conservazione della specie. Risparmiare i congeneri è importante quanto combatterli e per queste

due opposte esigenze selettive, negli animali bellicosi si scatena un conflitto che permette loro di

combattere in modo incruento sviluppando regole di torneo ed in effetti i tornei sono molto diffusi

nel regno animale. Ad esempio i serpenti a sonagli non si mordono mai, lottano secondo regole

fisse, anche molti uccelli, pesci e mammiferi combattono a mò di torneo. Però non tutti gli animali

bellicosi seguono questo modulo, nei cani e nei lupi, dopo un reciproco iniziale minacciarsi, il

combattimento mira a diventare cruento, finchè dopo uno scambio di morsi reciproco uno dei due

si riconosce inferiore e cerca scampo nella fuga o in un comportamento di sottomissione.

L’aggressività nell’uomo

Sulla natura dell’aggressività umana i pareri divergono, non c’è accordo sulla diffusione del

fenomeno. Helmuth contesta che l’aggressività sia un fenomeno di estensione mondiale e pone

come esempio gli Eschimesi, gli indiani Zuni ed i Boscimani che sarebbero esenti da aggressività,

pensando probabilmente all’aggressività di gruppo manifestatasi in conflitti armati e non

genericamente all’aggressività. Non gli sarebbe sfuggito altrimenti che gli Eschimesi tengono

tenzoni di canto e battono le loro donne e che gli Zuni hanno riti iniziatici molto crudeli e che

pertanto l’aggressività contrassegna la vita quotidiana di queste popolazioni descritte come

pacifiche. Come esempio di attaccamento alla pace determinato culturalmente vengono indicati gli

Arapesh della Nuova Guinea, ma anche questi non sono privi di aggressività. Margaret Mead

scrive che i ragazzi arapesh vengono educati a scaricare l’ira non su altri ragazzi ma su oggetti.

Vi sono differenze culturali nell’aggressività umana, ma una dimostrazione convincente che un

gruppo umano sia esente completamente da aggressività non è ancora stata data, popoli primitivi e

di cultura non sembrano distinguersi nella loro predisposizione all’aggressività che si esprime

nello stesso modo su tutta la terra. L’atteggiamento aggressivo di imposizione realizzato per

mezzo di ornamenti, armi e incedere virile, mostra gli stessi tratti nelle più diverse culture e la

mimica dell’ira e della minaccia risulta identica in tutte le culture, tanto che persone appartenenti

ad aree culturali più diverse battono il piede in terra se sono irate o stringono i pugni. Ha oltre tutto

diffusione mondiale l’eroicizzazione dell’aggressività, sia in saghe eroiche sia in forma di animali

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aggressivi simbolici (aquila, leone, orso, gallo), sia in blasoni. Nelle festività nazionali si

celebrano avvenimenti storici di tipo aggressivo, il coraggio è considerato dappertutto una virtù.

Come negli animali, anche nell’ uomo l’aggressività porta alla delimitazione territoriale dei gruppi

e al loro interno, alla formazione di ranghi. L’aggressività territoriale ha promosso l’espansione

dell’uomo sulla terra e il suo insediamento anche in zone della terra inospitali. I popoli più

aggressivi o più progrediti nella tecnologia delle armi sospingevano gli altri in territori marginali,

come è stato fino ai tempi moderni con l’ insediamento degli Europei nell’America settentrionale

o in Australia.

Molti tratti del comportamento territoriale umano richiamano un’antica eredità dei Primati, gli

uomini difendono sia territori individuali, compresa la proprietà privata, sia territori di gruppo.

Ogni individuo mostra inclinazione a mantenere le distanze rispetto agli estranei, ad eccezione di

situazioni particolari come strade o adunate di massa, con ciò segue il modello di molti altri

animali sociali che mantengono una distanza individuale. Chi è primo in qualche luogo ha diritti

che noi gli riconosciamo ed è interessante notare come ciò sia ben consolidato nei Primati

superiori, consideriamo certe aree come nostre proprie, permanentemente o transitoriamente, e

siamo portati a reagire con ira a trasgressioni da parte di altri. Una famiglia considera la sua

abitazione e il suo giardino come suo territorio e la comunità di un villaggio considera tale il

villaggio stesso ed i suoi campi. E’ in maniera specifica umano l’irraggiamento dell’aggressività

nel dominio dello spirito, noi difendiamo la proprietà intellettuale e cerchiamo di diffondere

aggressivamente le idee, perfino gli ideali umanitari.

Diffusa nel mondo è la motivazione espansiva, gioiosa dell’aggressività. Esistono molte forme di

“combattimenti ludici” che vanno dagli scacchi al gioco del calcio. Alla base di questo impulso di

gareggiare, vi è una “voglia”, un piacere e probabilmente la pulsione aggressiva abreagisce in

questa maniera, mentre l’accumulo dell’aggressività viene esperito come una tensione sgradevole.

Si può abreagire l’aggressività assistendo ad un film di contenuto aggressivo, ed è evidente che ci

si identifica con quanto accade nel film. La larga offerta di film di contenuto aggressivo, mostra

che esiste un bisogno di ciò, in quanto gli uomini abreagiscono in questo modo gli impulsi

aggressivi. I film sono costruiti in modo da attivare prima, poi abreagire negli spettatori

l‘aggressività, di solito su un “cattivo”. Nella vita quotidiana abreagiamo l’aggressività anche con

operazioni su oggetti surrogati, ad esempio sbattendo una porta o spezzando qualcosa. In alcuni

casi i canti hanno una forte motivazione aggressiva, come nell’area austro-bavarese, dove tenzoni

di canto sono ancora in uso, pertanto quando non si combatte materialmente si trovano altre

valvole di sicurezza.

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Si sono sempre presentati spunti alla ritualizzazione dell’aggressività umana, perfino nei conflitti

bellici. Presso molte culture si sono sviluppate regole di combattimento nel senso del fair play,

della cavalleria. Alla ritualizzazione appartiene il riconoscimento della sottomissione mediante il

risparmio della vita del vinto, cosa che postula una reciproca fiducia. Il vincitore deve poter

confidare che il vinto si attenga alle regole del trattato e non cominci una guerriglia, mentre il

vinto deve potersi attendere di non essere sottoposto ad atti terroristici.

Regnando tra nemici combattenti la sfiducia, bastano singole trasgressioni per dare il via ed una

escalation della sfiducia ed alla deritualizzazione del conflitto.

Se manca la possibilità di abreagire l’aggressività si addiviene ad un accumulo di aggressività che

può portare a periodiche oscillazioni della disponibilità interiore a operazioni di carattere

aggressivo. Noi siamo all’occasione, irosi e pertanto facilmente eccitabili senza che possa esserne

ritenuto responsabile l’ambiente. Questo è un indizio di meccanismi pulsionali che dovrebbero

somigliare a quelli che stanno alla base dell’aggressività animale. Adler, Freud, e Lorenz hanno

spiegato la spontaneità dell’aggressività con l’ipotesi di un istinto aggressivo innato. Questa

ipotesi spiega anche la nostra inclinazione all’aggressione collettiva.

L. Berkowitz ritiene che l’esistenza di una pulsione aggressiva innata apra prospettive spaventose:

“Una pulsione aggressiva innata non può essere fatta scomparire né con riforme sociali, né con

l’eliminazione di ogni frustrazione. Né una piena permissività da parte dei genitori, né

l’adempimento di ogni desiderio, potranno, su tali basi, allontanare completamente il conflitto

interpersonale. Le conseguenze per una politica sociale sono evidenti: civiltà e ordine morale

debbono, in ultima analisi, basarsi sulla violenza e non sull’amore e sulla bontà.

Freud ritiene che l‘aggressività non può essere eliminata, ma può essere neutralizzata con

l’attivazione di tutte quelle forze che servono a costituire legami sentimentali fra uomini. Egli

scrive: “Se l’inclinazione alla guerra è conseguenza della pulsione distruttiva, è ovvio chiamare

alla riscossa contro di essa l’antagonista di questa pulsione: l’ Eros. Tutto ciò che serve a fondare

tra gli uomini legami sentimentali deve antagonizzare la guerra. I legami in questione possono

essere quelli con un oggetto d’amore, anche senza scopo sessuale”.

Ci troviamo di fronte due tesi diverse: quella pessimistica di Berkowitz afferma che, accettando

una pulsione aggressiva innata, solo violenza e repressione possono ottenere civiltà e ordine

morale; al contrario, quella di Freud vede nell’amore l’antagonista naturale dell’aggressività.

Occorrerebbe stabilire chi dei due ha ragione. Berkowitz vede il lato dinamico della pulsione

aggressiva sempre in agguato, e dunque dominabile solo con la repressione. Come mediante

ricompense di atti aggressivi si può educare ad un’aggressività sempre crescente, così con

punizioni si può reprimere l’aggressività. Però un tale metodo di pacificazione lede la capacità di

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iniziativa che è correlata positivamente con l’aggressività. Ci accaniamo in un compito,

“aggrediamo” problemi e li “dominiamo”. Già la lingua quotidiana esprime il fatto che gli atti

creativi di cultura vengono nutriti dall’aggressività. E’ questo uno dei motivi per cui oggi si

esamina con occhio critico la “società dell’efficienza”, che viene respinta dai propugnatori di una

società pacifica in quanto incrementata dall’aggressività. Misure repressive giovano solo

parzialmente a scongiurare l’aggressività. Si sa che la repressione degli istinti ha per effetto

fenomeni degenerativi del meccanismo fisiologico dell’aggressività, in quanto una certa

disponibilità all’aggressione rimane, ed è più pronta ad approfittare delle occasioni che si

presentino quanto più a lungo sia stata impedita la possibilità di abreagirla. Una riduzione

dell’aggressività è possibile mentre una eliminazione completa no. Perciò come dice Freud è un

“peccato di educazione” il non preparare l’uomo a quell’aggressività con cui dovrà scontrarsi.

L’abreazione dell’aggressività accumulata non deve necessariamente essere ottenuta con uno

scontro tra uomini, anche un compito comunitario consuma aggressività. Si possono anche

coltivare costumi che fungono da valvola di sicurezza, atti a derivare l’aggressività, con diverse

modalità, come ad esempio l’antagonismo sportivo. Per questa strada l’aggressività è più

controllabile, ma solamente se si portano a pieno dispiegamento i suoi antagonisti naturali. Senza

l’attivazione di quelle energie che Freud chiama “libidiche” il suo controllo non sarà possibile.

Gerarchia di rango

L’elaborazione di una gerarchia di rango presuppone due disponibilità che mancano nelle specie

animali di vita solitaria: gli individui debbono mostrare in primo luogo aspirazioni al rango e

debbono mostrare la disponibilità a subordinarsi se non possono raggiungere i gradi più alti.

Nell’uomo tutte e due queste disponibilità sono dimostrabili. Vance Packard ha evidenziato come

noi uomini aspiriamo al rango e marchiamo il raggiungimento di ogni gradino della piramide con

speciali simboli di status.

L’appello allo status è un fattore efficace di pubblicità perché, quando uno non ha raggiunto

ancora un alto livello di rango, ne mima i contrassegni, vestendosi come gli appartenenti al livello

superiore , procurandosi gli stessi tipi di auto, portando gli stessi ornamenti. Morris ha richiamato

l’attenzione sul “mimetismo di rango”: si segue il modello dei più alti in rango nella moda, nei

costumi e nell’ornamento, il che stimola quelli a inventare nuove mode per tornare a distinguersi

dal loro prossimo.

O. Koenig dimostra che le uniformi di Stati vittoriosi sono spesso imitate: le uniformi degli ussari

ungheresi trovò imitatori in Austria, Germania, Russia e Francia. Gli ungheresi avevano imitato

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l’uniforme di quei famigerati reparti turchi della Guardia che, drogati con oppio, si gettavano

primi nella mischia e costituivano la guardia del corpo dei più alti dignitari. Il più forte viene

quindi spesso imitato.

Il fatto che non si sia potuto tradurre in pratica il modello di una società senza livelli di rango

dimostra che bisogna ravvisare una predisposizione innata che trasciniamo con noi quale eredità

dei Primati. Nella consociazione individualizzata a decidere la posizione di rango sono qualità

umane, come l’amore del prossimo, il sapere, e non solo l’aggressività.

Nei piccoli gruppi individualizzati in cui ognuno conosce bene gli altri, è difficile che un membro

del gruppo possa dare l’illusione di queste qualità senza possederle. Nelle comunità anonime le

cose vanno in modo del tutto diverso.

Premessa per la elaborazione di una gerarchia di rango è la disponibilità alla subordinazione, che

si fonda sul timore dei più alti in grado. Gli animali solitari non conoscono tale disponibilità. La

gerarchia di rango è un mezzo di ordinamento sociale e quindi di controllo dell’aggressività.

L’età avanzata viene equiparata alla saggezza, questo era sensato prima, quando i vecchi erano

veramente in possesso di una esperienza di vita più ricca e di un’accumulazione del sapere. Oggi

invece l’incremento della durata della vita porta a fare sì che posizioni sociali di decisiva

importanza possano esser occupate da persone segnate da degenerazione senile. In politica, i cui

dirigenti più alti non conoscono età di pensionamento, tutto questo è deplorevole e dannoso. Un

innato timore reverenziale verso la vecchiaia, in tal caso ci conduce in un vicolo cieco.

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ANCORAMENTO BIOLOGICO DELLE NORME ETICHE

Il valore

E’ opportuno chiederci che cosa è bene e che cosa è male. Fino ad ora la trattazione è stata limitata

ai vantaggi selezionistici ed è risultato che alcuni moduli comportamentali, come ad esempio

quelli altruistici, sono un vantaggio per la conservazione della specie, mentre altri, come

l’uccisione dei congeneri, sono svantaggiosi. Esprimendo un giudizio di valore, si potrebbe

designare come male tutto quanto contrasta la conservazione della specie.

Forse ci regoliamo inconsciamente quando valutiamo negativamente le pulsioni che inclinano alla

degenerazione patologica e mettono in pericolo la nostra vita consociata, in particolare il caso

dell’aggressività. Ci chiediamo da dove viene al singolo il sapere che cosa deve o non deve fare.

Forse impara i divieti o li deduce ponendosi la domanda se possa volere che altri agiscano come

ora lui volentieri agirebbe. Forse potremmo domandarci se sentiamo aprioristicamente ciò che è

bene o male.

La teologia morale assume che l’uomo senta come comandamento che egli deve astenersi dal male

e fare il bene, e questo dovrebbe essere innato in lui. La teologia morale cerca di leggere nella

natura l’ordinamento voluto da Dio. La dottrina teologica del diritto naturale ritiene che il mondo

creato rappresenti la realizzazione di idee divine. La natura rivelerebbe la volontà di Dio, da essa

verrebbero le unità di misura, cioè le leggi morali naturali. Chi vuole orientarsi sulla natura e

derivare da essa norme etiche, non può appoggiarsi a conoscenze parziali con il rischio di

smarrirsi. Un esempio è la discussione attuale sulla liceità dei vari metodi anticoncezionali. Dal

dato che l’amplesso negli animali serve alla propagazione della specie, i teologi morali hanno

concluso che anche per l’uomo sia stata questa l’intenzione divina e che quindi si debba respingere

ogni metodo anticoncezionale perché lesivo di quell’ordinamento divino. E’ stato così trascurato il

fatto che nell’uomo, l’amplesso adempie ad una nuova funzione di costituzione di partnership.

Ciò che contrasta con la conservazione della specie può essere valutato negativamente, ma bisogna

chiedersi se esiste una gerarchia di valori e se per esempio la compassione o l’amore del prossimo

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sono mozioni più nobili del desiderio di aggressione. Quando un gruppo umano ne stermina un

altro, si potrebbe dire che il vincitore è biologicamente più adatto di chi ha perso e che è giusto che

il più valido si imponga in tal modo.

Probabilmente nessun biologo considera la natura completamente spoglia di valori. Parliamo di

evoluzione superiore degli organismi nel corso della filogenesi, di animali inferiori e superiori

intendendo “differenziati”. Quelle pulsioni consociative il cui correlato soggettivo è l’amore del

prossimo, sono di data più recente che l’aggressività e hanno anche condotto ad una

differenziazione enorme del nostro comportamento sociale.

Il dispiegamento della cultura umana si fonda sulla collaborazione e sull’appoggio reciproco. Con

la capacità dell’amore, i vertebrati superiori sono maturati al di là dell’aggressività , hanno

raggiunto un livello evolutivo ‘superiore’. Gli uomini hanno l’inclinazione a rispondere con

reazioni violente di espulsione a minoranze devianti esternamente dalla maggioranza. I demagoghi

si sono richiamati al sano sentimento “popolare” quando volevano spingere alla repressione delle

minoranze. E’ questa una inclinazione che dimostrano i bambini anche in tenera età quando

scherniscono i compagni di gioco claudicanti o balbuzienti. Questo comportamento costringe

all’equiparazione coloro che possono adattarvisi e ciò può essere stato un tempo un vantaggio

selezionistico perché rafforzava l’unità del gruppo. Oggi però tutto questo non ha alcun vantaggio,

in una società che presenta una così differenziata divisione del lavoro, la dotazione degli outsiders

è di grande valore. Abbiamo inoltre raggiunto un livello di coscienza che ci permette di

riconoscere che anche i nostri congeneri devianti dalla norma sono sostanzialmente identici a noi.

Questa coscienza deve essere illuminata ulteriormente perché è l’unico mezzo di dominare la

nostra arcaica intolleranza.

L’inibizione dell’aggressività

Il comandamento “Non uccidere” si trova in varie forme presso tutti i popoli, non è mai permesso

in alcun luogo, uccidere un altro uomo, e questo è comprensibile per ragioni di funzionalità e non

sarebbe immaginabile senza una simile regolazione una convivenza sociale umana. Ma ciò che

interessa è se noi aderiamo solo razionalmente a questa legge o se seguiamo anche delle

inclinazioni innate. Sarebbe meglio se fosse vera quest’ultima ipotesi, perché le speranze in una

convivenza pacifica sarebbero meglio fondate che se alla fedeltà alla legge ci conducessero solo la

costrizione e la pura ragione.

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Presso diversi animali, l’uccisione dei congeneri viene impedita dal mantenimento di regole di

combattimento e dall’esistenza di meccanismi inibitori dell’aggressività. Molti animali possono

sottomettersi al congenere nel corso dello scontro. I loro atteggiamenti di sottomissione

inibiscono la continuazione dell’attacco. Questi moduli di comportamento “similmorali” in questi

animali sono innati. Gli uomini piangono e si lamentano in modi che, pur nelle diverse culture,

sono identici. Muovono a compassione il mostrarsi abbandonato, debole ed il comportarsi in modo

infantile. Il nostro segnale più importante di amicizia è il sorriso e con questo modulo

comportamentale innato siamo in condizione di amicarci persone sconosciute. Un sorriso disarma.

Le caratteristiche infantili hanno di per sé un’azione acquietante. Possiamo ottenere

l’acquietamento con pochi segnali e in pochi secondi, è sorprendente quanto presto si possa

placare una persona infuriata in modo violento con un sorriso, con un comportamento sottomesso.

Gli appelli che muovono a compassione e acquietano non bastano però sempre ad impedire

l’uccisione di un congenere e sorge il problema del perchè ciò avvenga. Lorenz pensa che

solamente nei confronti degli uomini a noi noti siamo inibiti nell’aggressione. Un sentimento di

amore e di amicizia ci legherebbe solamente con singoli individui. Verso gli estranei siamo meno

inibiti e meno tolleranti, è una predisposizione innata che condividiamo con quei mammiferi che

formano associazioni esclusive cui appartengono anche scimmie del Vecchio Mondo. Ma presso

questi animali lo scontro aggressivo non porta di norma all’uccisione. Nessun osservatore ha

descritto un antropomorfo che, in libertà, ne uccidesse un altro. Nell’uomo le cose vanno in modo

diverso. Premessa all’efficacia di gesti acquietanti di sottomissione è che chi viene attaccato abbia

tempo sufficiente a trasmettere il segnale e che l’avversario lo possa percepire. Questa premessa

non c’è quando degli uomini si precipitano l’uno sull’altro armati. Troviamo infatti i primi crani

lesi con la comparsa delle prime armi. Le nostre inibizioni innate dell’aggressività sono intonate

alle nostre strutture biologiche, quando gli uomini si aggrediscono con le mani nude, l’uno può

sottomettersi suscitando compassione. Con l’invenzione della prima arma, la situazione è cambiata

e possiamo dedurre che allora l’uomo si sia trovato in uno stato di crisi simile a quello nostro

nell’era atomica. Ai nostri antenati riuscì di adattarsi, ma ogni nuova arma pose sempre loro il

problema di inventare controlli culturali nuovi. Lo sviluppo di regole cavalleresche di

comportamento è proceduto sempre a stento dietro a quello della tecnologia delle armi.

Un’arma permette di uccidere rapidamente a distanza, il tiratore non è consapevole di stare per

uccidere un congenere, mira solo ad una macchia che si staglia nel paesaggio e deve solamente

piegare un dito. Che ciò abbia conseguenze disastrose per un altro uomo non può non influire sul

suo sentimento e se si volesse esigere da un pilota di un bombardiere di uccidere singole persone,

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egli sarebbe sconvolto da un tale pensiero. Lo sviluppo della tecnica ha superato le nostre

inibizioni innate.

Probabilmente ancora più gravemente della invenzione delle armi, pesa la capacità che ha l’uomo

di degradare l’avversario, grazie all’intelletto gli uomini possono convincersi che l’avversario non

è un uomo, ma un animale, un bruto pericoloso, e non sarebbe solo lecito, ma doveroso ucciderlo.

Una ricerca su fumetti di guerra americani ha fatto risultare che persino le grida di morte e di

terrore degli Americani erano presentate come diverse da quelle degli avversari. Inoltre, affinché il

guerriero, attraverso il contatto con il nemico, non possa accorgersi che questi è un uomo come lui,

vengono emanate leggi severe per impedire la fraternizzazione per reprimere ogni rapporto col

nemico anche dopo la sua resa. Se l’uomo non fosse disponibile al contatto e, fino ad un certo

grado inibito nell’attaccare ogni congenere, sarebbe inutile un apparato così potente per la

propaganda di guerra. Si desume che basti riconoscere che anche gli altri sono uomini per inibire

la disponibilità all’attacco e risvegliare la disponibilità a stabilire legami. Pertanto un rapporto

individualizzato non è assolutamente unica premessa dell’inibizione dell’aggressività, benché la

promuova notevolmente. Il danno prodotto dalla degradazione dell’avversario non è solo nel

marchiarlo come un bruto, ma nel risvegliare la paura e la sfiducia e la paura sbarra le porte. I

popoli primitivi spesso sono aggressivi verso gli estranei solo per paura. Anche di fronte ad ignoti

l’uomo è dotato di inibizioni dell’aggressività, finchè non innalzi barriere che impediscano i

contatti e non impieghi armi che lo distanzino dall’avversario al punto da impedirgli di prendere

atto delle sue reazioni umane. Dei fattori addotti che permettono all’uomo di superare le inibizioni

innate, forse quello che consiste nella capacità di degradare i congeneri è il più pericoloso. E’

questa capacità di mettere la compassione fuori circuito che rende l’uomo un assassino a sangue

freddo.

La lealtà e l’ubbidienza

L’attitudine a provare compassione è innata in noi, però è ancora poco certo quanto altri

comportamenti fondamentali etici siano determinati da adattamenti filogenetici. Colpisce il fatto

che certe virtù hanno valore al di là della cerchia di ogni singola cultura, come ad esempio il

coraggio, la fedeltà all’amico, la disponibilità al sacrificio e l’ubbidienza. Fatti simili possono

essere sviluppi culturali paralleli, ma per quanto riguarda l’ubbidienza all’autorità, si dispone di

una indagine sperimentale che dimostra come questa predisposizione sia innata nell’uomo.

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L’ubbidienza all’autorità era ed è in diverse culture un valore etico. Ancora oggi, ordini spirituali

chiedono la cieca sottomissione. Ancora oggi, il fatto che Abramo fosse pronto ad uccidere il

figlio, sovrasta come simbolo terribile la nostra cultura occidentale. L’atteggiamento di cieca

obbedienza all’autorità d’altra parte, viene sempre più respinto, l’ubbidienza è giustificata solo

dalla ragionevolezza, ma anche presso culture che sostengono questo ideale, la prontezza ad

ubbidire può in particolari condizioni confliggere con la compassione.

La disponibilità all’ubbidienza è una inclinazione umana pericolosa, è anche essa, come la

disponibilità a subordinarsi, un valore etico, ma può portare l’uomo a divenire uno strumento privo

di volontà propria. Si deve essere consci, se si vuole reagire.

Un’altra predisposizione è quella alla fedeltà di gruppo di cui si fa spesso un cattivo uso. Che si

soccorrano gli amici e si sia leali verso il proprio gruppo è un fatto positivo. Lorenz descrive come

gli uomini in caso di pericolo dall’esterno, si schierino a fianco dei membri del loro gruppo fino al

sacrificio della vita, sacrificio che è accompagnato dall’emozione dell’ “entusiasmo” e da moduli

motori arcaici concomitanti. La pulsione all’assistenza viene sfruttata, ogni dittatura sa come

attivare il comportamento di assistenza agitando falsamente l’ombra di un pericolo, come ottenere

l’unità del gruppo, la cui aggressività si rivolge contro il nemico. Non dovremmo cedere a tutte le

inclinazioni che sono innate in noi, e ciò vale soprattutto per l’obbedienza e la lealtà, infatti tutte e

due queste predisposizioni si prestano ad abuso da parte di demagoghi, e pertanto rivestono valore

etico solamente a certe condizioni. Esse sono meno valutabili delle inclinazioni innate che

antagonizzano l’aggressività.

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GLI ANTAGONISTI DELL’AGGRESSIVITA’

Riti che fondano un legame e pulsioni sociative

Il fatto che un gruppo di animali si stringa in una consociazione presuppone non solo l’esistenza di

moduli comportamentali che fondano un legame e sono quindi acquietanti l’aggressività, ma anche

un’appetizione del singolo animale alla vicinanza del congenere e quindi la necessità di cercare e

mantenere la vicinanza. La ricerca di protezione è uno dei motivi potenti del collegamento ai

congeneri, forse uno dei più antichi. I vertebrati superiori cercano rifugio prima di tutto presso la

madre, e ciò vale per i polli come per gli uomini. Il congenere diventa la meta della fuga, la sua

vicinanza significa un sicuro riparo, è per questo che il rafforzamento del legame con un membro

del gruppo si realizza tramite una motivazione ansiosa.

Anche nell’uomo, la paura rafforza i legami di gruppo. Probabilmente il legame tramite la

pulsione alla fuga è molto antico. Il vincolo che unisce il bambino alla madre dovrebbe essere

motivato in origine così, si tratta di un legame istintivo, e non acquisito tramite la cura alimentare

come viene a volte affermato. I bambini che crescono in nidi di infanzia si stringono ai coetanei e

cercano una protezione reciproca anche se non si nutrono mai l’un l’altro. Il bambino, per la madre

non rappresenta il congenere ma un oggetto di assistenza. In tutti i vertebrati, i piccoli trasmettono

alcuni segnali che scatenano l’assistenza e che possono essere olfattivi, acustici o ottici.

Konrad Lorenz pensa che l’amicizia, il collegamento di individui in una comunità di difesa, sia

stato il punto di inizio dello sviluppo di rapporti individualizzati. Egli scrive: “Il legame personale,

l’amore, è sorto in molti casi, dall’aggressività intraspecifica e tramite la ritualizzazione di un

attacco o di una minaccia nuovamente orientati”. Tale spiegazione si basa sull’osservazione che

presso molti animali, i moduli comportamentali della minaccia rafforzano il legame fra i partner e

vengono impiegati come riti di saluto. Le oche cenerine accoppiate si salutano con il “grido di

trionfo”, durante il quale i due colli, l’uno accanto all’altro, compiono un gesto come di minaccia,

nel senso che si minaccia in comune un terzo, e questo unisce i due partner. Ma questo rito

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aggressivo ha acquisito la capacità di fondare legami, di tenere insieme gruppi di individui che si

conoscono.

Queste osservazioni sulle oche cenerine portano Lorenz a dedurre che l’amore sia figlio

dell’aggressività e a suo parere la testimonianza è anche il fatto che l’aggressività intraspecifica è

più antica di milioni di anni dell’amicizia personale e dell’amore.

Si può affermare che esiste l’aggressività intraspecifica senza il suo antagonista che è l’amore, ma

non esiste amore senza aggressività. Si può anche constatare che se è vero che non esiste amicizia

senza aggressività, non esiste amicizia senza cura della prole, a parte rare eccezioni. Non si

conoscono casi di animali che si siano collegati solo tramite l’aggressività, senza

contemporaneamente presentare la cura della prole.

Come il fatto che l’efficacia di un saluto-minaccia, presso gli animali postula sempre un legame,

sembra indicare che l’amore non è in primo luogo figlio dell’aggressività, ma nato insieme allo

sviluppo della cura della prole, che ne richiede la difesa. E poiché il gruppo può essere considerato

come una famiglia allargata, la difesa di gruppo deriva dalla difesa della prole e della famiglia.

La cura della prole condiziona la partnership individuale e l’assistenza individualizzata ai piccoli,

offrendo le premesse per una vita sociale differenziata.

Una forte motivazione della ricerca del contatto risulta dalla pulsione sessuale, antica quanto

l’aggressività.

Bisogna chiedersi se possa costituirsi un legame duraturo con i congeneri anche tramite la pulsione

sessuale. Si nota che ciò si verifica più raramente di quello che ci si attenderebbe, e una di queste

eccezioni è l’uomo.

Gli animali sociali utilizzano riti tratti dal repertorio sessuale in funzione di acquietamento, ma un

legame duraturo attraverso la pulsione sessuale viene costituito solo presso l’uomo e alcune

scimmie, ed è stato sviluppato secondariamente al rafforzamento del legame.

La pulsione sessuale pertanto è raramente un mezzo usato per ottenere il legame, ma appunto

presso noi uomini compete a questa pulsione una funzione importante, benché sia una delle più

antiche pulsioni, non ha dato avvio allo sviluppo di legami individualizzati duraturi, tranne rare

eccezioni. L’amore non si radica nella sessualità, ma si serve di essa per un rafforzamento

secondario del legame.

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I LEGAMI TRA GLI UOMINI

Appello all’assistenza e appello infantile nel comportamento umano

L’abitudine di fondare un’amicizia con doni alimentari è una cosa che già i bambini di un anno

tentano di fare e tale comportamento è così regolare che si tende a considerarlo fondato su una

base innata. Porgere doni alimentari, nell’uomo ha indubbiamente una funzione di fondazione del

legame e di acquietamento dell’aggressività. Il pasto comune fonda presso molti popoli primitivi,

un legame di amicizia, e ciò è utilizzato in molti riti sociativi.

In relazione ai riti di saluto ci sono esempi di genere ritualcomparativo. Si può stabilire che i riti

derivati dall’alimentazione della prole sono stati adottati per fondare legami, bacio e dono sono le

forme ritualizzate più diffuse di operazioni alimentari.

In ogni cultura è comune l’accarezzarsi, in tal modo si consolano i bambini e gli adulti amici che

sentano pena. Altro atteggiamento diffuso della consolazione e dell’acquietamento è l’abbraccio.

E’ facile riconoscerlo come atteggiamento protettivo materno ritualizzato ad atteggiamento

consolatorio e di saluto, ed ha importanza anche nei preludi erotici.

Come si è constatato, molti moduli comportamentali che si consideravano sessuali, come le

carezza o i baci, sono per la loro origine operazioni della cura parentale. La cura parentale

ritualizzata si esprime anche verbalmente, assicurazioni di protezione e espressioni acquietanti

appartengono al repertorio dei dialoghi teneri, un repertorio che sembra essere programmato

tramite adattamenti filogenetici. Il vocabolario cambia di cultura in cultura, ma ciò che viene detto

dovrebbe essere stereotipico. Nell’uomo, la conversazione viene coltivata in funzione di rituale

sociativo. La conversazione comporta l’informazione sociale che ci si interessa al partner e a

quello che lo riguarda. Morris ha definito questo genere di conversazioni “conversazioni di

pulizia”, perché la loro funzione è costituire un contatto amichevole. Queste conversazioni

affondano probabilmente le loro radici nel rapporto madre-figlio, con precisione in quelle

conversazioni semplici che hanno come scopo il sentire la voce l’uno dell’altro.

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L’adulto si comporta in certe situazioni come se fosse un bambino. Questi fenomeni regressivi

appartengono al normale repertorio etologico degli animali, e anche nell’uomo, quando ha

necessità di appoggio si scatena un comportamento tenero, cade nel ruolo infantile. Tali

regressioni non sono patologiche, di patologia si può parlare solamente nel caso in cui l’individuo

non riesca più ad uscire da quel ruolo.

Il legame sessuale

Si può stabilire che per quanto riguarda l’uomo, la natura ha sfruttato tutte le possibilità di fondare

e rafforzare il legame. Oltre ai già menzionati meccanismi sociativi per l’unione eterosessuale ha

sfruttato fortemente il comportamento sessuale. La necessità di dare fondo a questa possibilità si è

proposta a causa del lungo sviluppo giovanile dell’uomo. Fino al quattordicesimo anno i bambini

debbono essere assistiti, e nei primi anni sono dipendenti dalle cure materne. La madre a sua volta

ha necessità di un parziale sgravio di lavoro da parte dell’uomo, in relazione al reperimento del

cibo e per la protezione, deve pertanto legare emozionalmente l’uomo a sé per lungo tempo. A

questo scopo si presta l’istinto sessuale. Sulla base dell’adempimento di un desiderio istintuale, un

legame può rafforzarsi, ma ciò presuppone che la donna sia in grado di poter soddisfare, per la

maggior parte del tempo, i desideri istintuali dell’uomo, il che richiede nuovi adattamenti

fisiologici nella donna. Nella maggior parte dei mammiferi, disponibilità all’accoppiamento ed al

concepimento cadono, insieme, nei pochi giorni fecondi del periodo di calore. L’amplesso nei

mammiferi è quasi sempre al servizio della procreazione. Affinché potesse conservare, nell’uomo,

la funzione inerente all’unione dei partner, era necessario che fosse liberato dalla rigida

dipendenza dal ciclo della fertilità. Per una serie di particolarità fisiologiche, la donna è in grado di

soddisfare il desiderio istintuale dell’uomo anche al di fuori dei giorni fecondi, è pronta al rapporto

sessuale per propria inclinazione e lega a sé l’uomo tramite la gratificazione sessuale.

Nello studio di ciò che secondo regole in noi innate, guida il nostro comportamento sessuale,

incontriamo il tabù dell’incesto. Le relazioni sessuali sono permesse, entro il nucleo familiare, solo

fra coniugi ed a questo nessuna cultura fa eccezione. Negli animali quei meccanismi che

impediscono l’incesto non sono necessari perché la loro maggiore mobilità provvede ad una

mescidazione sufficiente all’interno della popolazione. La famiglia si disperde al divezzamento dei

giovani e poiché non si resta insieme, lo scambio genetico all’interno della popolazione è

assicurato. Solo dove il vincolo familiare è molto sviluppato esiste il pericolo di unioni

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consanguinee regolari, e in questi casi troviamo anche un’inibizione innata ad accoppiarsi con

genitori o fratelli.

La comunità di lotta

L’aggressività ridestata contro un nemico comune ha un valore sociativo, l’uomo forma una

comunità di lotta e solo negli animali dotati di cura parentale si formano comunità di lotta che

comportano il soccorso reciproco. L’aggressività diviene un coesivo di gruppo in via secondaria,

passando per la difesa della prole e, in questa forma, lega anche molti primati sociali. Come

primati viventi in gruppi chiusi, noi tendiamo a stringerci l’uno all’altro in caso di pericolo, la

difesa o l’aggressione comune fondano un legame forte. Persino i ritualizzati giochi agonistici

(calcio e simili) uniscono i gruppi. Inoltre è interessante notare come i simboli che servono alla

coesione di un gruppo anonimo siano di natura aggressiva. Armi araldiche che portano animali da

preda e bellicosi, come l’orso, il leone, il gallo, il lupo e l’aquila, monumenti commemorativi di

vittorie e della liberazione di nazioni giovani.

La simbolica dell’aggressività ha una parte importante anche nel comportamento di saluto

dell’uomo. Accanto al saluto minaccioso, come dimostrazione della propria forza, vediamo

atteggiamenti di saluto-minaccia che esprimono la disponibilità ad un combattimento comune

come il saluto a pugno chiuso. Una forma di minaccia sociativa e ritualizzata, il riso, è innata e

questo movimento espressivo è nato probabilmente da un comportamento che definiamo “odio”.

Molti animali sociali minacciano un estraneo o un congenere in comune, e molte scimmie che

vivono in gruppo lo fanno, mostrando i denti ed emettendo versi di minaccia. Tutti e due questi

elementi sono contenuti nel nostro riso, che indubbiamente è molto motivato in senso aggressivo.

Si ride di qualcuno, si deride qualcuno, e tutto questo lo si fa volentieri in comune con altri. Chi

ride insieme ad altri si sente collegato ad essi tramite questo “odio” ritualizzato. Per legare un

gruppo tramite l’aggressività, si utilizzano spesso capri espiatori, essi vengono coscientemente

individuati con lo scopo di rafforzare una consociazione nuova.

L’identificazione attraverso l’aggressività è pericolosa per il suo forte impegno emozionale.

Spesso difendiamo in nostri ideali con un impegno simile a quello con cui proteggiamo i nostri

figli e, in un certo modo, gli ideali sono davvero i figli del nostro spirito.

Catastrofi naturali e altri avvenimenti unificano l’uomo in opere comuni, ed è dimostrata la

capacità umana di coesione costruttiva. E’ interessante notare che gli individui di sesso maschile

sembrano in modo particolare essere dotati emozionalmente per tali coesioni. I maschi mostrano

inclinazione a stringersi ai congeneri escludendo la donna. Probabilmente questa capacità di

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amicizia maschile si è sviluppata dalla necessità di cacce e combattimenti comunitari. Questa

inclinazione, ancora oggi vive nel club, nelle bevute in comune e nelle società segrete. Il legame di

amicizia è fortemente colorito di emotività, ma non di genere sessuale, e viene rafforzato da

avventure vissute insieme, come appunto la caccia e il combattimento, ma a ciò è pertinente anche

la bevuta e la mangiata in comune, da cui si può notare quanto siano profonde le radici della

socialità.

Collegamento tramite la paura

Un animale giovane fugge verso la madre quando si sente minacciato, gli adulti fuggono l’uno

verso l’altro quando si sentono inquieti. La paura ha efficacia sociativa in due modi: 1) con

l’attivazione della fuga di un individuo verso l’altro; 2) con lo scatenamento dell’aggressività

collettiva. Il legame acquisito attraverso la paura è forse il più antico presso i vertebrati. La paura è

restata una forza sociativa che viene spesso sfruttata da uomini politici, e capi religiosi. Gli uomini

politici agitano la paura per i nemici e per il caos, perché l’ordine ci dà un sentimento di essere

orientati, e perciò di sicurezza.

Tramite la paura viene indotto un rapporto genitori-figlio, nel quale il superiore in rango si

comporta paternamente, l’inferiore in modo infantilmente dipendente. La sociazione ansiosa ha

molta importanza nella religione cristiana. Con il concetto di peccato originale e la minaccia di

dannazione eterna si uniscono gli uomini al dio padre. La sociazione tramite il terrore è infine una

strategia dei tiranni, gli uomini si sottomettono a un capo crudele e gli prestano fedeltà e

devozione.

Il saluto

Compito del saluto è fondare un legame o mantenerlo e di acquietare l’aggressività. Al complesso

del comportamento del saluto, appartiene anche il congedo, con il quale si rafforza il rapporto per

il futuro con riti amichevoli. L’acquietamento è un’altra funzione di questo comportamento. Chi

prende congedo viene a trovarsi dal momento della partenza, in una posizione malsicura, non è in

grado di tenere d’occhio il partner che potrebbe accusarlo ad esempio di qualche cosa.

Nella vita dell’uomo il significato di acquietamento che compete al saluto è evidente. Se non si

saluta, si scatena l’aggressività persino nella cerchia familiare, mentre un gesto o una parola

amichevole di saluto può allentare una tensione. La risposta al saluto è una conferma importante

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della disponibilità al contatto e comporta un impegno, perciò un saluto restituito è garanzia di

sicurezza.

Si è già detto che il sorriso ha una funzione di acquietamento. Un sorriso disarma. Dato che nel

sorridere si mostrano i denti si è supposto che si tratti di un movimento di minaccia ritualizzato

che, durante l’evoluzione, abbia invertito il suo significato in quello opposto.

Il saluto oculare, rapido sollevamento delle sopracciglia ricorre presso i più diversi popoli, si tratta

di un segno amichevole e costituisce una ritualizzazione dell’espressione di lieta sorpresa. Quando

siamo sorpresi alziamo le sopracciglia, fatto che da un lato è stato ritualizzato a minaccia, esempio

un’occhiata di ammonimento nella quale le sopracciglia restano sollevate e lo sguardo fissa un

eventuale colpevole, dall’altro lato, il saluto oculare invece è stato ritualizzato in segno

amichevole. Le sopracciglia vengono alzate solo brevemente, inviando un segnale di

riconoscimento e sorpresa. Manca la fissità minacciosa dello sguardo ed il sorriso dice che ci si

rallegra di vedere l’altra persona.

L’accennare col capo non è nato solo dalla situazione di saluto, ma anche come gesto di assenso.

Secondo la sua origine, l’accennare col capo è un inchino ritualizzato a gesto, quindi un gesto di

sottomissione.

Forme meno ritualizzate della sottomissione sono l’inchino, il cadere in ginocchio, il prostrarsi ai

piedi di qualcuno. L’inchino si trova presso di noi come saluto più devoto.

Dal cenno del capo fino alla prostrazione si trovano tutti i gradi di trapasso della sottomissione, e il

comportamento si conforma a quello osservato in altri vertebrati. Ci si fa piccoli, la qual cosa è

l’antitesi dell’atteggiamento di imposizione e minaccia.

Nel comportamento di saluto dell’uomo rientra il levarsi il cappello ed i guanti. La loro origine

deriva dal fatto che un tempo, salutando, ci si toglieva la copertura protettiva del capo, l’elmo, così

ci si privava della propria protezione, e questa prova di fiducia è diventata il gesto comune ancora

oggi. La stessa cosa vale per i guanti, che, nel medioevo, erano di ferro, e proteggevano chi

combatteva, questo spiega perché tale usanza riguarda solo gli uomini e non le donne.

La stretta di mano esiste nelle aree culturali più diverse, ed il gesto, in primo luogo dovrebbe

fondarsi sul fatto che, quando aiutiamo i nostri bambini, porgiamo loro la mano, pertanto dare e

prendere la mano sembra essere una ritualizzazione di un’operazione alimentare, invece di cibo, si

regala contatto somatico che tranquillizza e gratifica. Nel dare la mano sono implicati altri

elementi, infatti non ci limitiamo a porgere solamente la mano per un tocco, ma spesso

avvolgiamo con essa quella del partner, la premiamo e la scuotiamo e anche questo

comportamento lo possiamo osservare con varianti presso altri popoli. In questa forma della presa

di contatto si nasconde una dimostrazione di forza, spesso il premere e scuotere la mano è una

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specie di duello. Elementi aggressivi sono contenuti in molti riti di saluto umano e sono descritti

come “saluto guerriero”. Sono dimostrazioni di capacità bellica con le quali da un lato si cerca di

acquisire rispetto, dall’altro si esprime che non si nutre alcuna cattiva intenzione. Dimostrazioni

aggressive del genere, tuttavia, riguardano quasi esclusivamente il saluto maschile, in quanto sono

gli uomini a sentire maggiormente l’inclinazione a fondare una comunità di lotta.

Forse quasi ovunque è d’uso invitare forestieri a prendere parte ai pasti o ad inviare loro in regalo

generi alimentari. Presso i popoli più diversi si offrono agli ospiti generi alimentari e doni come

saluto. Anche il commercio è spesso uno strumento per allacciare legami d’amicizia fra individui o

tribù, e questo è più importante dello scambio di merci in sé. La ritualizzazione più spinta del

regalo si verifica quando auguriamo bene al nostro prossimo. L’augurio è un dono verbale che si

può esprimere a voce o spedire per posta.

I moduli comportamentali osservabili nei riti di saluto, emergono spesso nei riti religiosi. Con

spiriti e divinità ci si comporta come se fossero di specie umana, li si nutre con alimenti vari, si

offrono fiori e incensi, ci si inchina davanti a loro. Anche il pasto comune ha grande importanza

nei riti religiosi di molti popoli. L’ultima cena di Cristo fondò simbolicamente, al momento del

congedo, il legame per il futuro.

Le feste sono intese a rinsaldare un’alleanza tra gli uomini esistono presso diversi popoli e sono

connesse con una esibizione di forza e imbandigioni. Gare sportive sono spesso parte integrante

delle feste e servono alla derivazione rituale dell’aggressività. La dimostrazione del proprio valore

porta spesso ad aberrazioni. Ospitanti e ospitati cercano a volte di sopraffarsi vicenda. Lo

sviluppo più degenerativo si aveva nelle feste degli indiani Kwaikiutl dell’isola di Vancouver nel

Nordamerica, cioè in quelle feste chiamate potlatch che rappresentavano una dimostrazione della

propria superiorità davanti agli invitati. Si cercava di soverchiare gli ospiti, li si ospitava con

grande dispendio, si gettava olio sul fuoco, si incendiavano canoe, si uccidevano schiavi e si

rompevano preziosi piatti di rame. Gli sfidati dovevano a loro volta contraccambiare, per non

perdere di dignità. La festa rivela, in questo caso, un carattere aggressivo, è divenuta una valvola

di sicurezza, un torneo per derivare l’aggressività. Dare un potlatch non rappresentava solo un

accrescimento di sé, ma anche una dimostrazione di rispetto per gli ospiti, e pertanto non suscita

solo rivalità, ma anche reciproca riconoscenza. Questo tipo di festa, a volte, con l’escaletion dei

“rilanci” reciproci, porta a dei dissidi, ma il più delle volte resta il carattere “sportivo”, infatti, di

volta in volta, nel gruppo si conferma la coesione tramite la dimostrazione di potenza. In fondo

l’elemento aggressivo dell’ostentazione è presente in ogni cocktail party, in ogni ricevimento

ufficiale e nei Giochi Olimpici. In queste occasioni, come nel potlatch l’ospite cerca di superare i

suoi predecessori.

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Nelle feste di gruppi familiari, la componente di imposizione recede, si fanno regali per battesimi,

matrimoni, compleanni, a Natale ed in altre occasioni. La componente competitiva è comunque

presente anche in queste feste familiari, da noi, specialmente nelle feste natalizie, ma non per

questo si possono ignorare i lati positivi di tali feste che servono alla fraternizzazione. Di valore

dubbio sono solo le festività nazionali che esaltano avvenimenti aggressivi e uniscono un gruppo

tramite l’antagonismo con un altro gruppo. Seminano diffidenza, risvegliano la paura e pertanto

possono incitare all’odio e all’intolleranza.

CONSOCIAZIONE INDIVIDUALIZZATA E COMUNITA’ ANONIMA

Presso i popoli primitivi, che vivono in piccoli gruppi, e fra noi, ancora oggi nei piccoli villaggi di

montagna, gli abitanti si conoscono, i forestieri vengono respinti, spesso combattuti, nel caso

migliore sono tollerati.

Dentro le consociazioni individualizzate domina la confidenza, ma questo non significa che in

esse non si dia aggressività interna, anche se questa viene neutralizzata dalla competitività e

dall’aspirazione al rango. Inoltre, poiché il legame della conoscenza personale è acquietante, gli

scontri all’interno di un gruppo raramente raggiungono intensità minacciose.

Con lo sviluppo della civiltà, le consociazioni individualizzate, nelle città e nelle comunità tribali,

si trasformarono in comunità anonime. In una città non era possibile che tutti si conoscessero e

d’altra parte non ci si poteva segregare dagli estranei come avveniva prima. L’uomo dovette

imparare a convivere con estranei, con tutta una serie di problemi conseguenti. Si sa che il legame

della conoscenza personale acquieta l’aggressività. In comunità piccole non disturba che qualcuno

appaia in abbigliamento bellicoso, gli uomini possono portare armi, ognuno può dimostrare la

propria capacità di lotta e se gli individui non fossero legati da amicizia, si scatenerebbe una

controaggressività, invece la minaccia è fatta in nome della comunità cui ci si sente collegati.

L’aggressività è orientata contro gli estranei al gruppo, verso l’esterno.

Nelle consociazioni anonime invece ogni atteggiamento di imposizione scatena aggressività che

non viene acquietata dal legame della conoscenza personale. Tutto questo disturberebbe la

convivenza, si nota infatti che l’uomo ne tiene conto e adattandosi alla società di massa elimina gli

atteggiamenti di imposizione maschile. In ogni civiltà si osserva un processo di opacamento

dell’aspetto dell’uomo, il suo abito diviene semplice, gli ornamenti ridotti, le armi deposte e un

atteggiamento spavaldo è soggetto al disprezzo sociale. Il disprezzo dell’imposizione individuale

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comporta frustrazioni per il singolo, è infatti frequente la ribellione dei giovani che assumono un

atteggiamento esasperatamente individualistico. L’unione di uomini si realizza in consociazioni

anonime tramite simboli e interessi comuni, entrano in azione gli stessi meccanismi sociativi che

agiscono nella famiglia. Congeneri ignoti diventano “fratelli”, il capo dello Stato “padre della

patria”. Le feste popolari, come quelle di fraternizzazione sono organizzate sul modello delle feste

familiari. Nelle festività nazionali si accentua di più la forza sociativa dell’aggressività.

Nelle comunità anonime si viene adottati più facilmente che nelle comunità individualizzate.

L’esclusività non è insuperabile, l’uomo tramite interessi comuni, può sentirsi legato a tutta

l’umanità e questo sentimento di unione cresce col crescere delle possibilità di comunicare.

I demagoghi cercano di costruire falsi scopi di ostilità e di degradare gli avversari per distogliere

l’attenzione dalle difficoltà interne. Ma la degradazione dell’avversario diviene più difficile dal

momento in cui è sempre più difficile erigere barriere alla comunicazione. L’ideologizzazione

dello ‘schema del nemico’ crea sfiducia mortale e rafforza la coesione di gruppo tramite

l’antagonismo con gli altri e la paura, mentre gli strumenti di comunicazione e l’aumento dei

contatti personali tra uomini e ideologie diverse, aiutano ad eliminare la sfiducia.

L’ideologizzazione è espressione della nostra tendenza a formare gruppi chiusi, mentre dobbiamo

dare maggior peso alle forze sociative.

In una consociazione anonima ci sentiamo meno legati ai congeneri a noi ignoti rispetto a quelli

che conosciamo: Ci sentiamo meno ‘obbligati’ verso gli estranei e gli scontri sono più duri, cosa

che appare chiaramente nelle lotte per le posizioni di rango, ad esempio si cerca di acquistare

elettori facendosi passare per persone affabili, paterne e, pur sapendo che è un inganno, è tuttavia

difficile da scoprire in comunità anonime.

La persona aggressiva e priva di scrupoli sa bene mimetizzare le proprie carenze sociali, ha, nella

comunità anonima possibilità maggiori di giungere a posizioni elevate di quante ne abbia nelle

comunità individualizzate. La tendenza alla corruzione è maggiore nelle comunità anonime

rispetto a quelle individualizzate.

Conseguenza dell’atteggiamento critico dell’uomo moderno è la minore disponibilità a

riconoscere l’autorità. Coloro che la rappresentano non sono più sicuri del proprio ruolo, il loro

sapere invecchia più rapidamente delle loro possibilità di aggiornarsi, hanno meno da offrire ai

giovani di quanto un tempo avessero i loro padri, e la carenza di direzione incoraggia

l’aggressività. Poiché esiste un bisogno dell’autorità, si cercano dei surrogati il più possibile

lontani o già defunti e pertanto facilmente idealizzabili.

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LA COMUNICAZIONE ED IL SUO SIGNIFICATO

Comunicazione

L’attività dell’uomo, al di là di quella manuale, è attività di relazione. Relazione con se stesso,

quando pensa o ragiona. Relazione con gli altri quando parla e scrive. Relazione per gli altri

quando dipinge, disegna, canta suona.

L’uomo è coinvolto in un processo associativo e deve comunicare con gli altri uomini, senza la

comunicazione non possono esistere né associazione né relazione

Comunicare vuol dire trasmettere delle informazioni per mezzo di messaggi utilizzando un codice

che è fatto di segnali o segni e tutti gli esseri viventi comunicano attraverso dei segni. Il

linguaggio è l’insieme dei segni organizzato in un sistema.

Il linguaggio verbale è il mezzo più diretto di comunicazione, è il modo più usato con il quale

l’uomo riesce a rendere intelligibile ad altri il proprio pensiero e gli permette di socializzarsi..

Quindi comunicare significa far capire ad altri il nostro messaggio attraverso parole, immagini e

gesti. Obiettivo della comunicazione è far recepire un messaggio all’interlocutore affinché

intraprenda un’azione o sia sensibilizzato ad un certo comportamento.

Espressione verbale

La comunicazione è trasmissione di un messaggio, l’espressione vuol dire scegliere e usare un

codice (linguaggio) e un canale di emissione (orale, scritto, gestuale, sonoro, visivo).

L’espressione è la forma in cui si manifesta la comunicazione, è il modo di rendere visibile quel

messaggio, che è il prodotto del processo di formazione della comunicazione.

Il processo di comunicazione può essere identificato da uno schema di telecomunicazioni, in cui

un individuo “emittente” vuole trasmettere un’idea ad un individuo “ricevente”.

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L’EMITTENTE elabora il messaggio (pensa) – lo codifica (usa un linguaggio) – lo emette

attraverso certi canali (parla).

Il RICEVENTE riceve il messaggio (ascolta) – lo codifica (lo interpreta) – ne prende conoscenza

(ci ragiona).

La qualità della ricezione del messaggio trasmesso dipende dalla distanza tra l’emittente e il

ricevente e la distanza può provocare fenomeni di distorsione tra l’intenzione dell’emittente del

messaggio e la sua corretta comprensione da parte del ricevente.

I fattori che influenzano sul piano quali-quantitativo l’emissione e la ricezione dei messaggi

possono essere:

TECNICI cioè conoscenza del codice (linguaggio adottato), sensibilità grammaticale, pronuncia

ed articolazione, mobilità mentale ovvero mobilità di pensiero, e mobilità orale ovvero velocità di

parola.

INTELLETUALI grado di acculturamento, capacità di ragionamento astratto, potenzialità di

ideazione, organizzazione del ragionamento.

SOCIALI differenza di classe, diverso livello gerarchico.

AMBIENTALI rumori, interruzioni.

Per diminuire l’effetto di distorsione occorre diminuire la distanza tra l’emittente ed il ricevente,

quindi non assumere un atteggiamento di superiorità, evitare tono ed atteggiamento di autorità,

adottare un linguaggio comprensibile dal ricevente, perfezionare pronuncia e articolazione,

formulare il messaggio in modo chiaro. Occorre organizzare il linguaggio in modo logico dando

concisione al discorso senza usare aggettivi in eccesso, mantenendosi in tema e adottare

espressioni di facilitazione (prego, per favore, grazie) e migliorare l’ambiente, in quanto se si

comunica in ambiente rumoroso o disturbato continuamente da interruzioni il processo di

comunicazione non viene mantenuto

Il fenomeno del bloccaggio nella comunicazione, cioè l’impossibilità nell’esprimersi si avrà

quando non si conosce sufficientemente una lingua o un gergo e non ci si esprime in modo

efficace, quando non si conoscono le regole grammaticali (per una lingua) o il sistema che correla

i segni (linguaggio musicale), esprimersi con esso diventa un balbettio, o quando è presente

l’incapacità di formulare un ragionamento astratto, si mantiene l’espressione ad un livello

elementare, come quello dei primi anni dell’infanzia o dei ritardati mentali. Ci si esprimerà bene

quando saranno rimossi gli ostacoli tecnici e psico-intelletuali.

Esistono difetti di sviluppo intellettuale o fisici che impediscono di parlare e l’espressione non può

avere luogo, ugualmente accade quando ci si avvale della propria posizione gerarchica, sociale, del

proprio bagaglio culturale per imporre l’accettazione di un messaggio, in tal caso si provocherà

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diffidenza, opposizione e rifiuto da parte dell’interlocutore, lo stesso dicasi quando si comunica in

un ambiente rumoroso o disturbato da interruzioni che non consente di mantenere costante il

processo, ad esempio squilli di telefono o voci fuori campo.

Sviluppare le attitudini intellettuali all’espressione verbale, vuole dire:

- far generare le idee o solo risvegliarle e trovare le parole che le rappresentano, dando modo

all’individuo di potersi esprimere;

- sistemare le idee, cioè il pensiero, in un quadro logico di correlazione;

- dare concisione al discorso, attenendosi al concetto - base del tema ed evitando

barocchismi, preziosità e sbavature inutili

- collegare la forma alla dimensione relazionale dell’espressione, adottando un

atteggiamento favorevole alla comunicazione;

- cercare i mezzi logici che aiutino a far conoscere e a far comprendere qualcosa a qualcuno;

- riuscire a convincere qualcuno di un’opinione da noi espressa grazie alla forza delle tesi a

sostegno (argomenti);

- evidenziare quanto l’espressione è indivisibile dalla comunicazione, utilizzandola per

favorire l’obiettivo della comunicazione, che consiste nel trasmettere e nel far ricevere un

messaggio dato;

- evitare di trasformare l’espressione orale, che ha come scopo una comunicazione bilaterale,

cioè un dialogo, un colloquio, in un “recital” oratorio personale. Molte persone amano più

ascoltarsi che ascoltare, mentre la comunicazione, il cui mezzo è l’espressione, vuol dire

parlare per essere ascoltati, ascoltare per poi poter parlare.

Mettersi in situazione di comunicazione interpersonale significa aprirsi al “sociale”, svelar

qualcosa di noi stessi ad altri, sentirsi parte di un collettivo.

In una situazione di comunicazione, l’individuo non deve togliere all’altro la sua parte, in

quanto in questo caso, il processo che è sempre bilaterale, viene ad essere squilibrato e limita

l’efficacia nel quadro più ampio della comunicazione.

Se un individuo sa presentare un atteggiamento favorevole alla comunicazione, spiegare

qualcosa qualcuno, convincere qualcuno di un’opinione con degli argomenti, saper parlare ed

essere ascoltato, non solo è capace di integrare fattori tecnici e psico-intelletuali per produrre

una buona comunicazione,ma aiuta se stesso a superare ed a rimuovere quegli ostacoli psico-

emotivi, che spesso rappresentano le cause nascoste di bloccaggi nella comunicazione.

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E’ vero che quanto più un individuo si sente sicuro, delle proprie capacità razionali a trarsi

d’impaccio nelle diverse situazioni, tanto meno subisce il condizionamento di quella parte

oscura della psiche in cui sono registrate le sue paure e le sue debolezze. In quanto per la

complessità della natura psichica dell’uomo, tutto ciò che lo rassicura, lo apre al mondo, e

quindi alla comunicazione; tutto ciò che lo spaventa, lo allontana, quindi lo porta alla

incomunicabilità ed all’alienazione.

Se l’emittente vuole che il suo messaggio sia interpretato quantitativamente e qualitativamente,

da parte del destinatario, compreso qual è il livello di possibilità espressiva del ricevente, cioè

la “sua” conoscenza della lingua, la sua capacità di seguire l’impostazione logica di un

discorso, deve adottare il codice (o linguaggio) appropriato.

Parlare di linguaggio appropriato alla capacità di comprensione dell’interlocutore significa

dare un’interpretazione onnicomprensiva della parola codice.

Così parlare in dialetto, utilizzare un linguaggio professionale di uso ristretto, esprimersi in

gergo (tecnico, scientifico, sportivo), adottare un particolare tipo di linguaggio, significa usare

un certo tipo di codice.

Quando la scelta è dettata da criteri razionali e non da motivazioni affettive, dovrebbe fondarsi

sui seguenti criteri:

a) il linguaggio del destinatario, b) il linguaggio imposto dall’obiettivo a cui è volto il

messaggio, c) il linguaggio richiesto dalle circostanze nelle quali si comunica, cioè dal

contesto socio-culturale.

Pertanto, se esiste una codificazione di E (emittente) ed una decodificazione di R (ricevente),

E deve usare un codice comprensibile (cioè decodificabile) ad R in cui i “ segni abbiano lo

stesso significato per entrambi.

Processi psico-intellettuali generati dal rapporto di comunicazione.

Nel rapporto bilaterale della comunicazione si generano processi psico-intellettuali, che

trovano nel sistema di riferimento di ciascuno la loro matrice ideologica.

Se il sistema di riferimento dell’individuo è la “sua” cultura, cioè la somma dei valori, radicati

nella sua psiche per tradizione familiare, ambiente sociale, acquisizione di informazioni e di

nozioni, ed ideologia accettata o imposta, quando si vuole che uno scambio comunicativo sia

veramente aperto, si deve cercare di percepire il sistema di riferimento dell’”altro”, valutarne i

contenuti, operando una selezione di essi accettando quelli che non si oppongono radicalmente

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e scartando gli altri, che possono indurre ad un bloccaggio o ad un conflitto. Si tratta di cercare

i punti di contatto ed evitare quelli di attrito. Non si può chiedere a nessuno di rinunciare ai

valori in cui crede, ma poiché “la tendenza a valutare è il principale problema della

comunicazione, in quanto ciascuno è portato ad emetter giudizi di valore secondo uno schema

di riferimento personale su quanto è detto da altri” (C. Rogers, 1977), lo sforzo che l’individuo

deve fare quando vuole stabilire un rapporto di comunicazione con un altro, consiste nel

mediare tra il proprio sistema e quello dell’altro, astenendosi di trarre dal confronto giudizi

assoluti e irrevocabili.

La comunicazione può essere resa difficile non solo dalla volontà di nascondere o deformare

un’informazione per evitare una situazione conflittuale, ma anche dall’incapacità psicologica

di fornirla dovuta a vincoli intellettuali ed affettivi che hanno origine nel sistema di riferimento

individuale. Si possono trovare esempi di questo tipo di bloccaggio nella vita quotidiana, come

il rifiuto di accettare un confronto dialettico in politica con l’oppositore, o eludere una

spiegazione, ad un bambino, che crea disagio a un genitore o un insegnante.

Fuggire un problema, rifugiarsi nel dogma, erigersi a giudice, sono modi per impedire o

interrompere la comunicazione interumana.

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LA COMUNICAZIONE NON VERBALE

Ognuno di noi accompagna le proprie conversazioni con gesti, espressioni del viso e altri

segnali che concorrono a far cogliere al nostro interlocutore il significato che vogliamo

attribuire alle nostre parole. Anche parlando al telefono manteniamo questa pratica e spesso

possono essere provocati equivoci dall’impossibilità da parte dell’interlocutore di cogliere

questi importanti segnali. Non è un caso che tra gli utilizzatori della posta elettronica, mezzo di

comunicazione che permette scambi informali e veloci, ma che elimina anche la possibilità di

cogliere l’intonazione vocale, si è diffuso un sistema di segni convenzionali che traducono le

espressioni non verbali. Ad esempio la sequenza delle “emoticone”, (segni o faccine (:-) ),

avvisa l’interlocutore del fatto che ciò che si è scritto è da intendersi in modo scherzoso o

ironico.

Svariati tipi di comportamenti fanno parte di questo sistema di comunicazione non verbale

(CNV). E’ stato rilevato che le persone possono produrre circa 20.000 espressioni diverse del

viso e circa 1000 variazioni paralinguisitiche.

Questa varietà di segnali che accompagna l’interazione comunicativa può essere organizzata in

tre categorie: 1) i segnali paralinguistici 2) le espressioni del volto 3) il comportamento

spaziale.

1) Segnali paralinguistici. Sono quelli che produciamo con la voce nel pronunciare le parole.

Questi riguardano in primo luogo la qualità della voce: es. l’intonazione che si dà al discorso

modulando l’intensità, portando sottolineature o congiungendo tra loro diverse unità di

discorso. Anche le vocalizzazioni che vengono introdotte nel discorso contribuiscono a dargli

un preciso significato: il riso, il pianto, i sospiri, le pause forniscono all’interlocutore

informazioni utili su chi sta parlando e su ciò che vuole comunicare.

La paralinguistica riguarda pertanto il come qualcosa viene detto, quindi il tono della voce

e le sue variazioni, il ritmo, il volume, le esitazioni.

E’ la paralinguistica la responsabile del diverso significato che una parola può assumere,

nonostante presenti lo stesso contenuto verbale. Con il paralinguaggio è possibile contraddire il

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contenuto verbale, attraverso variazioni del timbro, dell’intonazione e del ritmo che indicano

spesso lo stato emozionale di chi comunica.

2) Espressioni del volto. Sono l’insieme dei segnali più importanti circa le emozioni e gli

atteggiamenti verso gli altri. Molti psicologi sono d’accordo nel riconoscere l’esistenza di un

certo numero di emozioni fra le altre (si parla in genere di sei emozioni di base: felicità,

sorpresa, tristezza, paura, disgusto e rabbia) alle quali sono associati determinati movimenti dei

muscoli facciali che provocano espressioni universalmente riconoscibili, quindi non

influenzate dal contesto culturale nel quale si manifestano. Al di là di queste emozioni di base,

esistono tuttavia regole di tipo culturale che riguardano il controllo della loro espressione nelle

varie situazioni: per esempio nella nostra cultura viene ritenuto naturale piangere ad un

funerale, e non altrettanto ad una festa.

In questa categoria si può classificare anche il contatto visivo. Molte informazioni passano

attraverso gli sguardi che le persone si scambiano, la prima delle quali è senza dubbio

l’interesse.

Le persone che hanno occasione di parlare in pubblico possono notare che dopo una breve

esplorazione della platea, lo sguardo dell’oratore finisce per indugiare in modo particolare su

quegli ascoltatori che gli mantengono il contatto visivo in modo più costante. Il contatto

visivo, manifestando l’interesse, finisce per essere gratificante e indurre atteggiamenti

amichevoli. Per lo stesso motivo alcuni di noi provano disagio quando si trovano a parlare con

qualcuno che indossa occhiali da sole molto scuri. La durata del contatto visivo ha però un

limite, oltre il quale perde ogni sua connotazione gratificante, provocando invece ansia e

imbarazzo. Tale soglia dipende dal grado di intimità fra i partecipanti all’interazione: più i

partner intrattengono una relazione di intimità, maggiore sarà la durata del contatto visivo

vissuta come segnale di interesse e viceversa.

Il volto è la parte del corpo maggiormente coinvolta nella comunicazione non verbale. Le

espressioni del volto si sono sviluppate in forma di movimenti finalizzati, come il mostrare i

denti, spalancare gli occhi per vedere meglio. Nel corso dell’evoluzione queste espressioni del

volto sono diventate segnali convenzionali delle interazioni sociali, ed il volto è diventato area

di comunicazione.

Dal punto di vista anatomico il volto è composto di tre aree: la regione frontale con fronte e

sopracciglia; la parte mediana: occhi, naso, guance, labbro superiore; la parte della bocca:

labbro inferiore e mento.

Parte frontale: la fronte con le sue rughe e le sopracciglia ci può dare informazioni sui

processi mentali analitici e su quelli attentivi.

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Parte mediana: del volto definirebbe il “senso del volto”, e ci può illuminare

sull’atteggiamento che il soggetto ha nei confronti del mondo esterno. (occhi, naso, guance,

labbro superiore).

Parte della bocca: Il mento manifesterebbe la vita istintuale, correlato alla capacità di

autoaffermarsi. Il mento proteso in avanti è caratteristico di una persona che vuole affermarsi,

dominare. La posizione delle labbra ci può dire se una persona si apre nei confronti

dell’ambiente o se tende a chiudersi. Avere le labbra serrate può essere un segno di chiusura,

volontà di non comunicare. Atteggiamenti di rifiuto o disgusto si possono manifestare con il

sollevamento di una narice e del labbro superiore. La bocca è coinvolta nei processi di

ricezione ed espulsione nei confronti del mondo.

Le espressioni del volto, quindi, svolgono un ruolo importante nella comunicazione delle

emozioni.

Diversamente dall’espressione del volto e dei gesti, le persone utilizzano lo sguardo

soprattutto per vedere e ricevere informazioni e non per comunicare, tuttavia, senza volerlo

inviano messaggi.

Lo sguardo è costituito da vari elementi: alcuni fisiologici e involontari, come il battito delle

ciglia, la dilatazione della pupilla, altri, invece, vengono utilizzati in modo consapevole. E’ il

caso dei movimenti degli occhi.

Lo sguardo è parte integrante dell’espressione del volto ed è l’elemento più espressivo, è un

utile supporto alla comunicazione verbale e un ottimo feedback durante una conversazione. Le

persone, durante una conversazione, si guardano per raccogliere informazioni. Quando due

persone si parlano, esse guardano l’una verso l’altra. Gli individui rivolgono più facilmente lo

sguardo a persone verso le quali provano simpatia. Un sentimento positivo verso l’altro, fa

aumentare il contatto visivo, mentre l’imbarazzo lo fa diminuire. Lo sguardo o il fuggire lo

sguardo, si possono considerare forme di avvicinamento o di allontanamento.

Lo sguardo assume funzione di regolazione durante le conversazioni, aiutando a stabilire i

turni, fornendo un feedback su come il messaggio è stato ricevuto da colui che ascolta.

Non guardare l’altro denota indifferenza, guardarlo troppo causa imbarazzo, evitare lo sguardo

di qualcuno può significare vergogna o evitare un’intrusione.

Nella comunicazione si hanno, da una parte, forze tese a stabilire un contatto visivo e,

dall’altra, forze tese ad evitarlo.

3) Comportamento spaziale. Riguarda la posizione del corpo, i gesti, il contatto fisico fra coloro

che parlano. Il contatto fisico, costituisce in modo particolare la forma più primitiva di

comunicazione sia fra gli uomini che fra gli animali, precede infatti l’apprendimento del

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linguaggio verbale. Il significato attribuibile al contatto fisico dipende dai fattori di contesto

(culturali e di situazione) e dalla relazione esistente fra i partner dell’interazione: lo stesso

gesto può indicare cose diverse a seconda che esso avvenga tra un genitore e il figlio o tra due

fidanzati o ancora tra due persone che si sono appena presentate.

Tuttavia al di là dei contatti a significato esplicitamente aggressivo (pugni, schiaffi, calci

spintoni), si possono riconoscere alcuni significati principali che essi veicolano: sentimenti

positivi (affetto, rassicurazione, interesse sessuale); controllo (attirare l’attenzione), scherzo o

gioco; ritualità (scambiarsi una stretta di mano); accompagnamento di un compito (coreografo

che corregge la posizione della ballerina). A tale proposito alcuni studi mostrano che il

contatto fisico ha conseguenze positive nella interazione.

Elemento importante per quanto attiene ai comportamenti spaziali riguarda la distanza che

viene mantenuta fra i partner dell’interazione. La distanza interpersonale in termini

propriamente spaziali viene in genere utilizzata per regolare il grado di intimità fra le persone.

L’avvicinamento eccessivo di una persona che non si percepisce come particolarmente intima

o l’eccessivo allontanamento di una persona che al contrario percepiamo come molto intima

procura un certo stress e il tentativo di ristabilire l’equilibrio.

Alcuni studiosi sostengono che ogni persona percepisce quattro zone di distanza progressiva alle

quali “mantenere” gli altri, a seconda del livello di intimità raggiunto nella relazione: la zona

intima, personale, sociale, pubblica. L’incontro con uno sconosciuto che chiede

un’informazione per strada, non può oltrepassare la soglia della zona personale senza essere

percepita come minacciosa. Allo stesso modo, il tragitto in ascensore con persone sconosciute

procura sempre un certo imbarazzo perché i limiti spaziali costringono le persone a violare queste

distanze. Esse variano anche in dipendenza di fattori culturali, di età e di sesso: i bambini ad

esempio tollerano distanze più accorciate degli adulti, mentre nel Sud dell’Europa, in generale, si

tollerano distanze più ravvicinate rispetto al Nord e le donne interagiscono in modo più

ravvicinato degli uomini, soprattutto con altre donne.

Infine, in particolare nella nostra cultura, assumono grande rilevanza i gesti che le persone fanno

con le mani per accompagnare le conversazioni. Anche in questo caso i gesti possono assumere

molti significati, sia sul piano dell’espressione che su quello della regolazione dell’interazione.

Si può pertanto sostenere che il comportamento non verbale, favorisce il raggiungimento di diversi

scopi che possono essere così classificati:

1) fornire informazioni sullo stato d’animo e sull’atteggiamento reciproco dei partecipanti

all’interazione;

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2) regolare l’interazione attraverso la segnalazione e l’anticipazione nei turni di presa di parola;

3) esprimere il grado di intimità tra i parlanti;

4) stabilire il grado di dominanza e controllo tra i partner;

5) presentare se stessi.

Si è sostenuto che questi comportamenti supportano e integrano la parte propriamente verbale

dell’interazione. Non sempre, però, il contenuto verbale della conversazione, che è totalmente

sotto il controllo personale, e i nostri comportamenti non verbali esprimono messaggi coerenti.

Dobbiamo infatti tenere presente che i segnali del corpo, le espressioni del viso ecc. non sono

sempre sotto il controllo personale, e quindi possono tradire le emozioni e sensazioni reali che si

tentano di dissimulare nel discorso. Rende più problematica questa situazione il fatto che i

comportamenti non verbali risultano più visibili per l’interlocutore, che darà ad essi maggior

credito di quello che dà alle nostre parole.

A mostrare la nostra ansia, anche quando vorremmo apparire tranquilli e ci sforziamo di sorridere,

saranno i gesti di nervosismo, sudorazione della pelle, inclinazione della voce.

L’espressione del volto infatti è l’aspetto più facile da controllare.

Inoltre con lo sguardo si possono definire la distanza e l’intimità desiderate nel rapporto

interpersonale. Lo sguardo esprime l’esigenza di comunicare con l’altro. Evitare lo sguardo è

segno di indifferenza o timore nei confronti di chi ci è vicino.

Le modalità con cui si cerca o si evita il contatto corporeo, possono rivelare l‘atteggiamento

verso l’altro. Il contatto corporeo, come lo sguardo, può attivare comunicazioni. Toccare

l’altro(allo contatto) o toccare parti del proprio corpo,(autocontatto), possono indicare il desiderio

di avere vicino il corpo dell’altro; nel caso dell’autocontatto il proprio corpo è toccato in

sostituzione di quello altrui.

Se la ricerca del contatto può rappresentare il superamento delle barriere protettive che l’individuo

innalza intorno a sé, essendo il corpo un territorio inviolabile, intimo e privato, il rifiuto di contatto

fisico può esprimere un atteggiamento di chiusura nei confronti dell’ambiente.

Postura e l’orientazione del corpo nello spazio possono svolgere un ruolo significativo

nell’espressione degli atteggiamenti.

Stare seduti o in piedi, vicino o lontano, di fronte o lateralmente a qualcuno, consente alle persone

di comunicare atteggiamenti di dominanza o sottomissione, di affiliazione o ostilità, rapporti di

collaborazione, intimità e differenze di status. Un’orientazione più diretta e un atteggiamento

rilassato, con gambe e braccia non incrociate, possono essere il segno di una disposizione positiva

verso l’altro; l’atto di voltare le spalle può essere il segno di un rifiuto.

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Shaflen (1964) individua tre modalità di posizioni del corpo legate ai diversi atteggiamenti

relazionali: posizione inclusiva o non inclusiva, orientazione “vis à vis” o parallela e congruenza

o incongruenza posturale.

a) la posizione inclusiva o non inclusiva delimita i confini dell’attività di gruppo o della coppia

interagente, delimitandone l’accesso agli estranei. Un esempio è la posizione circolare del

gruppo che definisce chi è nel gruppo e chi ne è fuori.

b) l’orientazione “vis à vis”, cioè frontale, è caratteristica della comunicazione in cui c’è uno

scambio di informazione o di sentimenti. Mentre quella parallela indica un atteggiamento di

alleanza, di collaborazione tra gli interagenti.

c) la congruenza o l’incongruenza posturale caratterizza l’assunzione di posizioni identiche,

tipiche di coloro che sono in sintonia, che condividono opinioni, oppure all’opposto, che sono

in disaccordo rispetto al gruppo.

L’elemento più comunicativo per presentare se stessi agli altri è l’aspetto fisico. Noi siamo il

nostro corpo, la nostra storia è memorizzata e raccontata dal nostro corpo.

La prossemica

Hall (1925) definisce prossemica lo studio degli aspetti spaziali della presentazione sociale. Il

primo indicatore a cui bisogna prestare attenzione è la distanza interpersonale, poichè a seconda

del tipo di rapporto che si ha con il partner tale distanza varia.

La quantità dello spazio che le persone lasciano tra di loro comunica qualcosa.

Argyle (1979) riconosce vari tipi di comportamento spaziale:

1) La vicinanza determinata dalla distanza tra due persone. Secondo Hall può essere una distanza

intima, personale, sociale pubblica. Durante un incontro ci sono vari cambiamenti nella

vicinanza.

2) L’orientazione riguarda l’angolazione secondo cui le persone si situano nello spazio l’una

rispetto all’altra; vi è una relazione diversa tra la vicinanza e l’orientazione, infatti questi sono

indici alternativi dell’intimità.

3) Il movimento nell’ambiente fisico indica delle aree che sono il territorio di alcune persone,

spostarsi nel territorio di un altro e lasciare il proprio, sono esempi di atti sociali.

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Il comportamento spaziale comunica diversi atteggiamenti interpersonali, e gradi di vicinanza più

elevati sono decodificati in termini di gradimento: se una persona si avvicina troppo, l’altra si

sentirà a disagio e si ritrarrà, questo non accade se il rapporto tra gli interlocutori permette una

distanza molto ravvicinata.

La dominanza è un elemento che condiziona il grado di vicinanza, nei confronti di persone di alto

status sociale: infatti si mantiene una certa distanza; mentre la vicinanza è maggiore tra persone

dello stesso status sociale. L’uso di spazi che hanno un valore simbolico (l’altezza) è la modalità

con cui maggiormente si segnala la dominanza.

Come afferma Argyle (1979) il comportamento spaziale si attua in riferimento al territorio, e

distingue tre tipi di territorio: lo spazio personale è l’area circostante il corpo, la sua invasione è

molto fastidiosa, ma in certe circostanze deve essere tollerata (mezzi pubblici); il territorio

personale, è l’area che l’individuo ha in uso esclusivo (casa, auto). Anche il territorio personale

può essere violato, ma a seconda delle circostanze, l’invasione può essere accettata.

I territori domestici sono aree considerate estensioni di spazio pubblico e vengono utilizzate

abitualmente (bar).

Fa parte della prossemica anche la disposizione fisica, cioè come ci si pone fisicamente rispetto

all’interlocutore. Non sempre i vari tipi di postura possono essere interpretati come atti a

comunicare qualcosa, invece possono semplicemente far emergere uno stato interiore

all’individuo. Altre volte invece, una postura fa parte della comunicazione (tra persone di status

differente, quella di status superiore appare più rilassata del suo interlocutore). La postura varia

anche in relazione al sesso, alla cultura di appartenenza.

Argyle (1979) considerando la postura come indicatore di atteggiamenti interpersonali distingue

due dimensioni principali: l’immediatezza utilizzata verso persone simpatiche, ed ha lo scopo di

ridurre la distanza tra due persone; e il rilassamento usato nei confronti di persone di ceto

inferiore. Ci sono differenze posturali nei rapporti di dominanza-sottomissione).

La postura del corpo indica l’intensità dell’emozione. La rigidità, il portamento, la postura che

esterna superiorità, sono esempi di connessioni tra postura e personalità. Tali connessioni a volte

sono intenzionali. Ogni persona ripete spesso le stesse posture quando le si presenta la stessa

emozione. Legata alla postura è l’orientazione, già definita come l’angolazione secondo cui le

persone si dispongono nello spazio l’una rispetto all’altra. Le principali orientazioni sono fianco a

fianco e di fronte. Nel primo caso indicano rapporti di collaborazione o intimità, nel secondo

indicano rapporti di rivalità o gerarchia. Differenze importanti per quanto riguarda la postura come

comunicazione, sono legate al sesso e alla cultura.

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Tramite il tatto si possono comunicare diversi tipi di atteggiamenti interpersonali. Anche il

contatto corporeo fa parte della prossemica.

Il contatto corporeo

Il contatto corporeo è la forma più antica di comunicazione sociale. I primati e i bambini piccoli

comunicano con le proprie madri utilizzando il contatto corporeo.

Il contatto fisico tra madre e bambino è alla base dell’attaccamento. Il riso, il pianto, il gesto sono

modalità innate del piccolo attraverso le quali egli riesce a catturare l’attenzione della madre e a

realizzare un contatto corporeo con lei. Bambini il cui contatto corporeo con la madre non è stato

sufficiente, diventano ansiosi e agitati.

Gli adulti utilizzano il contatto nei saluti, nei rapporti sessuali e in quelli aggressivi. La quantità e

qualità dei contatti corporei dipendono dall’età, dal sesso, dalla classe sociale. Sono notevoli le

differenze culturali relative alla qualità e al tipo di contatto, e queste seguono regole sociali.

Ci sono altre forme di contatto corporeo che segnalano un’interazione, ma non comunicano

atteggiamenti interpersonali ed hanno elementi comuni nelle varie culture, es. saluti di benvenuto e

di commiato. Il contatto si realizza attraverso l’uso delle mani, delle braccia, della bocca e degli

occhi. Toccare una persona implica la realizzazione di un rapporto attivo e reciproco, in cui

ognuno è sensibile all’altro. Per mezzo del tatto si possono comunicare le proprie emozioni e

atteggiamenti interpersonali, affiliativi, sessuali e aggressivi. Il tatto è usato come segnale di

interazione nella comunicazione verbale.

L’aspetto esteriore.

L’aspetto esteriore è caratterizzato da fattori statici e dinamici.

I fattori statici sono il volto e la conformazione fisica, in quanto stabili e immutevoli.

I fattori dinamici sono l’abbigliamento, il trucco, l’acconciatura, gli accessori scelti, per cui

possono cambiare a seconda dell’immagine che si vuole dare agli altri.

L’aspetto esteriore può essere considerato un elemento della CNV che è sottoposto al controllo

volontario. Dà informazioni sulla personalità e lo stato d’animo delle persone, poiché scaturisce da

varie manipolazioni effettuate dal soggetto su se stesso.

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L’immagine esteriore spesso si rivela una mescolanza dell’immagine che si ha di sé, di quella che

si vorrebbe avere e di quella che si vuole trasmettere. Specialmente quest’ultima include

automaticamente le informazioni sul modo con cui si vuole essere trattati.

Le componenti dell’aspetto esteriore sono i vestiti, i distintivi, gli ornamenti, la pettinatura, il viso,

la pelle, il fisico. Da questi possono emergere le caratteristiche della personalità, lo status sociale,

il gruppo di appartenenza. L’opinione pubblica, riguardo le caratteristiche attraenti del corpo,

condiziona molto e manipola l’immagine corporea e la sua approvazione.

Il modo di vestire e l’aspetto esteriore, fornisce informazioni sul sesso, l’età, il livello

socioeconomico, la propria appartenenza, gli atteggiamenti psicologici e sociali. E’ anche

utilizzato per comunicare atteggiamenti interpersonali come la sessualità, l’aggressività,

atteggiamenti di ribellione, e bisogna evidenziare la grande variazione esistente tra una cultura e

l’altra.

I distintivi, le uniformi, possono essere strumenti per manifestare la propria identità, cultura,

ideologia, potere. Attraverso l’aspetto esteriore ci si può distinguere dagli altri e il trucco, la cura

dei capelli e l’uso di accessori possono essere stratagemmi per valorizzare la propria persona, per

essere più attraenti, comunicando la propria disponibilità sessuale, oppure per segnalare

atteggiamenti conformisti o ribelli e aggressivi nei confronti della società.

La decodifica delle emozioni attraverso la lettura della C.N.V.

L’emozione è una reazione forte, primitiva e affettiva intensa, con insorgenza acuta e di breve

durata, determinata da uno stimolo interno (ricordo piacevole o spiacevole…) o da uno stimolo

ambientale.

La sua comparsa provoca una modificazione a livello somatico, vegetativo e psichico. Le reazioni

fisiologiche a una situazione emozionante investono le funzioni vegetative (circolazione,

respirazione, digestione, secrezione); le funzioni motorie tramite un’ipertensione muscolare, e le

funzioni sensorie (disturbi alla vista o all’udito).

Le reazioni possono essere di diverso tipo: viscerali, espressive (che riguardano la mimica

facciale, gli atteggiamenti del corpo, le abituali forme di comunicazione verbale e non verbale)

psicologiche (si manifestano come riduzione del controllo di sé, difficoltà della capacità di critica

e di articolare logicamente azioni e riflessioni).

La componente che più interessa è quella espressiva che consente la comunicazione

interindividuale ed elabora segnali importanti per lo sviluppo individuale e la coesione sociale.

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Osserviamo l’espressione delle emozioni attraverso la mimica dei nostri simili e ne traiamo

informazioni sul loro stato emotivo e sulla personalità.

Il volto è l’area centrale delle emozioni, essendo una zona altamente espressiva, in grado di

inviare moltissime informazioni (bocca, naso, occhi e la pelle, che riflette gli stati psicologici

come il rossore per la rabbia, o il pallore per la paura).

L’analisi dell’espressione delle emozioni è alla base della conoscenza intuitiva ed empatica che

utilizziamo nella vita di tutti i giorni.

Le emozioni possono trapelare attraverso i gesti, lo sguardo, ma sono di brevissima durata. E’ più

facile riconoscere le emozioni attraverso le espressioni facciali, inoltre sono più riconoscibili le

emozioni manifestate da individui della stessa cultura.

Le risposte emozionali si contraddistinguono per la variabilità nei diversi contesti sociali: alcune

possono essere provocate dallo stimolo scatenante, altre possono essere mediate da meccanismi di

valutazione del soggetto.

Questo controllo nella gestione delle risposte emozionali, avviene sulla base di “regole di

esibizione” o “regole di ostentazione” che rappresentano le modalità comportamentali che

l’individuo ha appreso ad adottare per esprimere una data emozione, in relazione a precise norme

culturali e sociali. Talvolta il controllo è finalizzato ad inibire l’espressione delle emozioni come

quando si temono sanzioni.

Un problema che ci può riguardare da vicino è quello delle emozioni dissimulate. Esse si

manifestano mediante espressioni di brevissima durata, e risultano impercettibili per la maggior

parte degli osservatori. Di solito gli individui, per ricorrere alla dissimulazione, evitano il contatto

oculare, esprimendo così un segnale di falsità.

Ciò che colpisce sono gli elementi di discrepanza fra l’emozione e la corrispondente espressione.

Possiamo riscontrare un contrasto fra l’espressione facciale, quella verbale e quella corporea

dell’emozione, come la sicurezza mostrata da un fermo sorriso può apparirci diversa se viene

contraddetta dal tremore delle dita o della voce.

Alcuni studi hanno posto l’accento sulla percezione dei segnali incoerenti. La ragione di questi

segnali conflittuali, è il tentativo di nascondere un’emozione. Quando segnali verbali e non verbali

sono in conflitto, diventa naturale prestare attenzione alla componente non verbale.

I diversi approcci allo studio della C.N.V.

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Per comprendere il comportamento non verbale, occorre un approccio interdisciplinare: Diverse

discipline si sono interessate ad esso, sviluppando ricerche per favorirne la comprensione.

La linguistica ha individuato la paralinguistica, che si occupa delle variazioni non linguistiche

(tono, timbro, velocità) dell’eloquio.

L’antropologia si occupa di prossemica, che studia lo spazio personale e sociale e il modo in cui

l’uomo lo percepisce.

La sociologia studia le regole del comportamento non verbale nei diversi contesti sociali.

L’etologia parte dal presupposto che il comportamento dipende dalle predisposizioni

filogeneticamente ereditate e dall’adattamento.

La psicologia si occupa della parte non appresa dell’espressione delle emozioni.

Gli autori sottolineano l’importanza di considerare il comportamento non verbale nell’interazione,

e ritengono che vi sia comunicazione a prescindere dall’intenzionalità. Condizioni di base

dell’organismo possono influenzare il comportamento comunicativo, senza ‘intenzione di

comunicare specifici messaggi.

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IL RISCHIO, ELEMENTO CARATTERIZZANTE DELLA SOCIETA’

CONTEMPORANEA

Nei recenti anni si è assistito a trasformazioni riguardanti sia le forme di rischio, sia i soggetti

responsabili per la produzione della sicurezza, sia le tecnologie della sicurezza in rapida

evoluzione.

Ai tradizionali rischi (guerra, crimininalità, catastrofi naturali, epidemie) si sono aggiunti quelli

derivanti dalle catastrofi industriali, il rischio ambientale totale e quello terroristico. La sociologia

contemporanea ha evidenziato la trasformazione delineando il sorgere di un nuovo tipo di sistema

sociale definito società del rischio, riferendosi a Ulrick Beck ed al suo saggio “la società del

rischio”, ed. Carocci, 2000, nel quale il rischio è l’elemento che caratterizza la società

contemporanea. In relazione ai soggetti responsabili di assicurare la produzione di sicurezza, al

soggetto statale centrale si sono aggiunti gli enti pubblici locali, in particolare per le funzioni di

sicurezza urbana e territoriale.

Emergono società private che a vario titolo e con legittimità giuridica di diverso grado si

occupano di sicurezza. Una tendenza non regolata sufficientemente che riguarda sia le compagnie

di investigazione e vigilanza civile, che sono una presenza scontata, sebbene non ancora del tutto

regolata relativamente al conflitto con la privacy, nel settore dei servizi alle imprese ed alle

persone, quanto anche la meno pacifica attività delle security e military companies alle quali

alcuni governi affidano funzioni di servizi militari importanti.

Per ciò che concerne l’evoluzione delle tecnologie, il settore della sicurezza fa registrare lo

sviluppo più rapido. Si spazia dalle tecniche di controllo, che si avvalgono di supporti satellitari

per l’intercettazione, l’identificazione,alle tecnologie di identificazione biometria, alle tecnologie

informatiche per la codifica e decodifica (internet stessa nasce dalla ricerca in campo militare

legata alla sicurezza delle trasmissioni di dati).

Altri ambiti di sviluppo tecnologico e socio-tecnologico riguardano la limitazione e prevenzione

di disastri ambientali, con le tecniche di monitoraggio connesse (aria, acqua, fuoco, alimenti) la

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costruzione di “edifici intelligenti”. Occorre fare una ricognizione delle principali aree di attività

che possono essere presenti nel settore della produzione della sicurezza . per ogni area di attività

viene fornita una descrizione con indicazione dei vari profili professionali tipici con i profili

professionali tipici con relativi percorsi formativi. E’ stigmatizzato un riferimento alla tipologia

dei datori di lavoro caratteristici del settore.

Aree della produzione di sicurezza prese in rassegna:

Building automation, edificio intelligente, “domotica” sistemi software e di videosorveglianza

per la rilevazione, prevenzione di rischi su edifici, aree territoriali.

Per domotica si intende la semplificazione dei sistemi tecnologici presenti nelle case per ridurre i

costi di gestione e di utenza e di aumentare i livelli di sicurezza. Una disciplina che, integrando

diverse tecnologie, consente maggiore sicurezza all’utente, maggiori risparmi e confort nella

propia abitazione. Permette di tenere la casa sotto controllo anche quando non si è presenti. La

domotica aiuta anche a superare le barriere architettoniche, punto questo importante per malati,

anziani e portatori di handicap. I comandi vocali rappresentano un valido aiuto per questi ultimi,

mentre il collegamento dell’impianto domestico con l’esterno permetterà di intervenire in

situazioni di emergenza. Le connessioni permanenti a basso costo, consentono infine di usufruire

di servizi on line e aprono nuove frontiere per il telelavoro.

Telecontrollo, telesorveglianza, teleassistenza:

Ambito di attività in cui rientrano sia la sorveglianza dei grandi impianti industriali o di rete

(acquedotti, reti elettriche e telefoniche) sia i servizi di assistenza in ambito assistenziale e

sanitario a favore delle persone anziane o non autosufficienti. L’analogia tra ambiti in apparenza

così diversi è data dall’articolazione organizzativa dei servizi di telecontrollo, telesorveglianza,

teleassistenza, strutturata in una rete di sensori (ottici, acustici, digitali) periferici e in una centrale

di sorveglianza presidiata da personale in grado di fornire di persona un pronto intervento o di

guidare operazioni di assistenza e autoassistenza tramite canali di comunicazione appositi.

E’ interessante approfondire il fabbisogno professionale in campo sanitario e assistenziale per

individuare fabbisogni professionali non coperti in capo agli Enti Locali, alle strutture sanitarie, al

terzo settore attivo in questi ambiti di attività. Alcuni corsi di laurea in scienze infermieristiche

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contengono moduli appositi per insegnare agli addetti a progettare, sperimentare e sviluppare

modalità di assistenza integrata utilizzando procedure informatiche o di telecontrollo per

l’assistenza post-ospedaliera al paziente chirurgico, al paziente neuropatico, alla puerpera, al

paziente geriatrico. Tutto ciò è finalizzato a ridurre il disagio per il paziente ed i suoi familiari,

mantenendo tuttavia standard assistenziali elevati, ed inoltre persegue il fine della riduzione dei

costi della degenza ospedaliera. I contenuti dei corsi prevedono lo sviluppo di competenze nella

progettazione e management di iniziative nel campo dell’organizzazione e gestione delle residenze

sanitarie assistite, raccordandosi con le altre figure professionali.

Vigilanza, sorveglianza di tipo tradizionale, guardiania ecc.

Per quanto riguarda gli addetti ai servizi di investigazione e vigilanza, alcune profili sono figure

di responsabili, altri sono figure di addetti alla vigilanza, per i quali non è richiesta alcuna

esperienza specifica.

Contractors – operatori della sicurezza in zone di guerra ecc.

E’ un settore di attività in forte espansione, legato all’outsourcing di funzioni di tipo militare.

L’espansione di questo settore è un fenomeno sul quale occorre riflettere a causa dell’assenza, al

momento, di ogni regolazione, le questioni che esso pone concernono la geopolitica ed il diritto

internazionale.

Le funzioni svolte non sono “ufficialmente” di vero e prorio combattimento. Si tratta di attività di

sminamento, protezione di aiuti umanitari, protezione di ambasciate ed altri siti strategici, come i

grandi impianti industriali in aree di crisi, arsenali, addestramento militare, rifornimento di armi,

attività di polizia militare, trasporto di materiale bellico e di personale militare, servizi di scorta,

monitoraggio post-conflitto ed elettorale fino anche a volte al diretto sostegno alle operazioni

militari. Il settore non è regolato e spesso si confonde il confine tra servizi di sicurezza e attività

mercenarie. Non sono soltanto i paesi in guerra ad avvalersi dei servizi delle private military and

security corporation, ne fanno uso anche istituzioni internazionali, il mondo della cooperazione

non governativa e delle organizzazioni umanitarie, i grandi gruppi industriali che vogliono

difendere siti strategici: piattaforme oceaniche, impianti estrattivi, oleodotti, centrali ecc.

Il punto di vista degli esperti è che queste società private, vere e proprie multinazionali della

sicurezza, siano destinate nel giro di pochi anni, a detenere un vero monopolio nella fornitura di

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alcuni servizi militari e di sicurezza, un tempo di competenza esclusiva degli Stati. Ciò in

particolare nei conflitti asimmetrici, dove forze armate nazionali “regolari” si contrappongono a

gruppi militari che non sono emanazione di alcun potere statale riconosciuto a livello

internazionale.

Sicurezza urbana

La sicurezza non può essere una questione limitata alla prevenzione e repressione di polizia, ma

occorre considerare un modello di sicurezza urbana orientata ai concetti di prevenzione sociale, di

sostegno alle relazioni di comunità, di coinvolgimento dei cittadini e, in parallelo di integrazione

delle politiche pubbliche e degli enti preposti alla loro realizzazione. E’ necessaria questa

premessa in un momento in cui la sicurezza si privatizza, in modo tale da essere percepita

socialmente come un bene reperibile su un mercato in forte espansione, un mercato che trova

sostegno in una domanda sociale di protezione che si indirizza soprattutto verso categorie

determinate di soggetti considerati fonti di rischio.

Invece rafforzare l’integrazione delle politiche pubbliche diventa un tema legato alla qualità della

vita, a servizi sociali migliori, progetti di area per il lavoro o lo sviluppo, politiche di intervento

per vittime di violenze o di altri delitti, programmi di risanamento dal degrado urbano, traguardi

ambiziosi nel campo dell’acquisizione di nuove professionalità, piani di contenimento delle aree di

emarginazione. Questo nuovo approccio alla sicurezza solleva questioni centrali riassumibili in tre

punti: 1) cosa si intende esattamente quando si parla, in contesti differenti, di politiche di sicurezza

urbana; 2) quali profili professionali è opportuno promuovere e rafforzare; 3) quale bagaglio di

competenze e quale idea di sé dovrebbe avere un responsabile tecnico di sicurezza urbana.

Numerose università hanno attivato master di primo e secondo livello in scienze della sicurezza

urbana, politiche della sicurezza urbana e simili, rivolti a laureati in Sociologia, Giurisprudenza o a

persone che già operano nel campo della pubblica amministrazione nei settori legati alla sicurezza

del territorio: vigili urbani, polizia locale ecc.

Questi master hanno lo scopo di formare competenze qualificate e professionalità elevate nella

gestione di progetti di sicurezza urbana diretti alla prevenzione e riduzione dei contesti di illegalità

e disagio urbano, ed inoltre nella gestione delle emergenze territoriali e della percezione di

insicurezza sociale a livello locale. I destinatari sono rispettivamente il personale degli Enti Locali

e della Regione e dei Servizi di Polizia locale. Il master universitario in “politiche della sicurezza

urbana” ha l’obiettivo di dotare di un livello di formazione organica e specializzata persone già

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inserite nei quadri della Pubblica Amministrazione (enti pubblici, comunali, provinciali, regionali)

o dei corpi di polizia (di sicurezza o giudiziaria) e orientate ad affrontare tematiche di sicurezza

che riguardano la polizia locale, la prevenzione dei reati in senso lato, oltre l’ordine pubblico

tradizionale, il “policing” e il controllo del territorio, la mediazione, i rapporti con i cittadini o con

l’opinione pubblica e la percezione dell’insicurezza urbana, legati a specifiche forme di disagio,

minorile, di immigrazione oppure alla gestione di espressioni urbane di inciviltà o di violenza,

connesse a fenomeni come la prostituzione e il suo sfruttamento, o il consumo e spaccio di

stupefacenti.

Sicurezza informatica. Protezione di dati sensibili, bancomat, carte di credito.

I fattori di crescita dell’Information&Communication Technologies (ICT) impongono attenzione

particolare agli aspetti connessi alla sicurezza. L’aumento della domanda di sicurezza informatica

è connesso alla crescita continua di Internet e della connettività cellulare a cui si aggiunge

l’aumento dell’esposizione dell’infrastruttura di trasmissione dell’informazione a incidenti e

attacchi esterni ed interni alle organizzazioni.

Schematicamente si parla a proposito di sicurezza informatica, di sicurezza passiva e sicurezza

attiva.

Per sicurezza passiva si fa riferimento a tecniche e strumenti di tipo difensivo, insieme di

soluzioni che hanno l’obiettivo di impedire che utenti non autorizzati possano accedere a risorse,

sistemi, impianti e dati di natura riservata.

La sicurezza passiva è pertanto un concetto generale che comprende l’accesso a locali protetti,

l’utilizzo di porte di accesso blindate, insieme all’impiego di sistemi di identificazione personale

La sicurezza passiva e attiva sono complementari e indispensabili per raggiungere il livello di

sicurezza desiderato di un sistema.

Le tecniche di attacco sono molte, pertanto è necessario utilizzare diverse tecniche difensive

contemporaneamente per proteggere un sistema informatico, creando molteplici barriere tra

l’obiettivo e l’attaccante.

Frequentemente l’obiettivo dell’attaccante non è rappresentato dai sistemi informatici in sé, quanto

invece dai dati in esso contenuti, pertanto la sicurezza informatica deve preoccuparsi di impedire

l’accesso ad utenti non autorizzati, ma anche a soggetti con autorizzazione limitata a certe

operazioni, per evitare che vengano copiati, modificati o cancellati i dati appartenenti al sistema

informatico.

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Biometria, identificazione personale e controllo degli accessi

La biometria è il settore della biologia che misura e studia statisticamente i dati rilevati sugli esseri

viventi, per trarne comparativamente classificazioni e inferirne leggi. Sistemi biometrici sofisticati

applicati alla sicurezza pubblica ed al controllo delle frontiere, in molti paesi sono già in via di

sperimentazione, ad esempio negli Stati Uniti d’America.

L’identificazione biometrica, o calcolo dei parametri fisici e comportamentali propri di un

individuo, basata sulla scansione di varie parti del corpo, è usata quotidianamente nell’ambito

della sicurezza, come miglior strumento per verificare l’identità di un individuo. Le tecniche più

diffuse di identificazione biometria si basano nella valutazione di A) impronte digitali; B)

geometria della mano; C)caratteristiche della voce; D) tratti somatici; E) caratteristiche dell’iride e

della retina; F) dinamica di apposizione della firma.

Il face recognition, il riconoscimento facciale, e l’iris recognition, l’identificazione dell’iride,

sono metodi già applicati in varie modalità e utilizzi.

Il face recognition funziona tramite un computer che in pochi secondi analizza i dati del volto, la

distanza degli occhi, l’altezza degli zigomi, la posizione di naso e bocca e ne desume una

cartografia facciale. L’iris recognition è un’immagine in bianco e nero della zona che circonda la

pupilla.

Il face e l’iris recognition sono destinati ad entrare nella quotidianità. Numerose aziende

producono e commercializzano sistemi biometrici per la sicurezza, tramite i quali è possibile avere

la massima sicurezza di accesso in determinati luoghi o anche sistemi di identificazioni più pratici

che sostituiscono il badge. I vantaggi sono l’impossibilità di scambio di persona, la sicurezza

assoluta di accesso esclusivo da parte di persone autorizzate in aree riservate, con eliminazione dei

costi dei badge e similari.

L’uso dei sistemi biometrici di sicurezza applicati a questi livelli di quotidianità ha ovviamente

sollevato prese di posizione da parte del Garante della privacy, in quanto l’uso indiscriminato dei

sistemi di identificazione biometrica potrebbe, o ha già portato, alla costruzione di banche dati con

informazioni personali senza che venga autorizzato un esplicito assenso, solo ad esempio per

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essere entrati in banca. Conseguenze dirette di portata più ampia sul piano socio-politico è che il

controllo e l’identificazione personale potrebbero imporsi come l’unico strumento con cui

affrontare le questioni legate alla sicurezza.

Prevenzione e gestione delle emergenze ambientali. Evacuazione, spegnimento di incendi,

logistica, trasporto,protezione ambientale, analisi del rischio idrogeologico, esercitazione e

simulazione.

Che la presenza di un rischio ambientale venga riconosciuta o meno dal singolo individuo dipende

da fattori come l’età, il genere, le abitudini alimentari, il tipo di lavoro, il livello di informazione e

il grado di istruzione. Inoltre numerosi studi hanno evidenziato che anche nell’ambito della

sicurezza ambientale sussiste un rapporto inversamente proporzionale tra esposizione a rischi e

livello socio-economico. Sono in genere i quartieri vicini ai centri di produzione industriale, con

popolazione a basso reddito, ad essere esposti a varie sostanze presenti nell’aria, nell’acqua e nel

terreno.

Le figure professionali che intervengono in caso di emergenze ambientali sono prevalentemente

figure istituzionali, tipo i vigili del fuoco, la polizia municipale, carabinieri, guardie ecologiche,

vigili provinciali. Anche enti e agenzie private negli ultimi anni hanno rivolto il loro interesse a

tematiche di emergenze ambientali e particolarmente la prevenzione. Sono nati percorsi formativi

specifici per coloro che sono intenzionati a ricoprire posizioni professionali, quali quella di

operatore delle professioni tecniche della prevenzione o responsabile ambiente e sicurezza. Chi

opera nei servizi pubblici, con compiti ispettivi e di vigilanza, ricopre spesso il ruolo di ufficiale di

polizia giudiziaria. Le attività di vigilanza sono del tipo più vario e possono riguardare gli

ambienti di vita e di lavoro, la rispondenza delle strutture e degli ambienti alle norme ed ai principi

di sicurezza, la qualità degli alimenti e bevande, l’igiene e la sanità veterinaria, i prodotti

cosmetici, il patrimonio ambientale, gli scarichi ambientali. Rilevante è la figura del responsabile

aziendale per l’ambiente e la sicurezza, che coordina e gestisce il sistema aziendale, al fine di

prevenire i rischi connessi alla produzione. Il responsabile per l’ambiente e la sicurezza deve

possedere conoscenze tossicologiche e competenze nell’ambito sia delle tecnologie produttive

utilizzate, che delle leggi e regolamenti in materia di antinfortunistica e di tutela ambientale. Nella

maggior parte dei casi il responsabile ambiente e sicurezza è un laureato in chimica, in ingegneria

chimica o in chimica ambientale. Sempre più spesso si parla di rischio organizzativo per indicare

situazioni che possono determinare patologie di tipo psicologico e psichiatrico su singoli e gruppi

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di lavoro, dovute a stress, mobbing, burn out ed altre simili circostanze. La prevenzione del rischio

organizzativo chiama in causa professionalità con competenze di altro genere, soprattutto di tipo

psicologico e organizzativo, negoziali e motivazionali.

Comunicazione del rischio, comunicazione in situazione di emergenza.

Pianificare la comunicazione in situazioni di emergenza significa aprire vari canali comunicativi

che possano facilitare processi di scambio tra tutti i soggetti sociali coinvolti, sia nella fase che

precede l’emergenza sia in quella in cui l’emergenza è in atto.

Per avere la certezza che le informazioni trasmesse vengano recepite come affidabili e credibili

occorre instaurare un processo di circolazione delle informazioni che garantisca a tutti i soggetti

un adeguato livello di comprensione, una corretta ricezione del messaggio. L’obiettivo della

comunicazione in una situazione di emergenza è aiutare il pubblico a gestire consapevolmente la

preoccupazione, evitando che si trasformi in paura incontrollata (panico) o in un atteggiamento di

noncuranza totale (meccanismi di difesa, negazione). Le persone pertanto hanno bisogno di sentire

che le istituzioni avvertono il rischio proprio come loro.

L’empatia si alimenta prestando attenzione alla comunicazione verbale (le parole), non verbale

(atteggiamento, postura, sguardo, gestualità) e paraverbale (tono della voce, timbro, sospiri). E’

ovvio che per svolgere le attività relative alla comunicazione del rischio occorrono specifiche

competenze e capacità.

La “comunicazione del rischio” può riguardare le popolazioni che vivono in aree soggette a

rischio idrogeologico o dove sono presenti stabilimenti industriali. I contenuti della comunicazione

di rischio ed emergenza possono vertere su atteggiamenti preventivi (dotazioni, stili di

comportamento, scorte, equipaggiamento) o su comportamenti successivi (evacuazioni,

comportamenti in caso di disastro).

La comunicazione del rischio ovviamente agisce sulle percezioni e gli stati emotivi dei soggetti a

cui è rivolta. Per tali ragioni il profilo di chi si occupa di comunicazione del rischio e di emergenza

comprende competenze in campo sociale e psicologico oltre che comunicativo vero e proprio.

La comunicazione in situazioni di rischio e di emergenza sta evolvendo e specializzando

all’interno del più vasto settore della comunicazione pubblica, materia sulla quale sono proliferati

negli ultimi anni corsi di specializzazione di vario tipo, soprattutto di livello universitario e post-

universitario.

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Gestione di grandi eventi. Grandi assembramenti di persone (concerti, stadio), giornate di

intenso traffico

La gestione dei grandi eventi richiede una valutazione della compatibilità ambientale e di un

processo comunicativo che sappia informare e rassicurare ex ante, in itinere ed ex post. Nella

quotidianità, la comunicazione è spesso l’anello più debole della catena della prevenzione degli

incidenti, e in situazioni “a rischio” come in quelle in cui un numero elevato di persone si

raccoglie, per esempio eventi legati a settori dei convegni, delle grandi mostre, delle arti

figurative, dello spettacolo e della promozione culturale e sportiva. E’ stato attivato un master in

Professionisti in organizzazione e gestione degli eventi con il fine di formare figure professionali

di alto livello dotate di una forte autonomia gestionale e organizzativa, con competenze specifiche

in mediazione e traduzione linguistica, nelle relazioni e comunicazioni interne ed esterne,

nell’organizzazione e gestione delle varie fasi per la realizzazione di eventi.

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ANTROPOLOGIA DEL LUTTO

La morte e i suoi aspetti

La morte si pone come irreversibile dadità che appartiene all’arco del fisiologico/biologico della

persona. E’ un momento drammatico quando passa al livello del vissuto e del coscienziale.

La sua disumanità consiste in un’iniziale ed istintiva inaccettabilità, in quanto essa distrugge alla

base ciò che l’uomo è come vita e ciò che vorrebbe essere perennemente.

L’emergenza di una situazione lacerante porta, per chi muore e per il gruppo cui il morto

appartiene, ad uno smarrimento, ad un trauma di angoscia e di perdita della propria sicurezza

storica. Le varie culture creano meccanismi di difesa e tutela che servono a sciogliere le situazioni

conturbanti rendendole accettabili. L’organizzazione culturale trasforma il rischio di disfacimento

del sé e del mondo in una nuova sicurezza, che è la vittoria della vita messa in crisi.

Sono due i meccanismi che esprimono questa esigenza e la riducono a realtà storica. Il primo

rientra in quella che si può definire la sfera dell’immaginario, del mitico che sostituisce alla realtà

fisiologica della fine la realtà culturale diversa dell’essere proiettati in una nuova vita, in una vita

diversa e, in questo modo, i legami tra morto e gruppo non si interrompono in maniera drastica,

perché il morto sotto specie rinnovata, continua a partecipare la vita di quanti gli appartengono,

oppure può accadere che l’irrequietezza del pensiero di morte si superi attraverso la

consapevolezza laica dell’illusorietà delle situazioni mitiche, accedendo alla coscienza di una

inevitabile naturalità della consunzione finale. Il secondo meccanismo è di tipo rituale-operativo,

appartiene alla sfera dell’azione, del dromenon, ed è rappresentato dai sistemi di lutto. La

connessione fra i due livelli, quello della rappresentazione mitica e quello della ritualità, è molto

stretta.

Il fatto che si giunge all’approfondimento della natura della morte attraverso l’esperienza della

fine altrui, ha un aspetto sociale che crea interrelazioni inconsce tra i membri del gruppo. Il morire

è prima di tutto un fatto personale e sociale. La morte è sempre un dramma che tocca la persona

indipendentemente dai suoi riflessi sociali, che hanno tuttavia una loro pregnanza antropologica.

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L.V. Thomas rileva che benché ogni individuo, anche morendo insieme con gli altri, assume

sempre da solo la propria morte e, benché l’esperienza della morte riguardi gli esseri

singolarizzati, la morte può definirsi come un tutto sociale. L’atto del morire è una realtà socio-

culturale.

R. Blauner esamina il problema della collettivizzazione sotto un diverso profilo sociologico e,

riferendosi alla società preindustriale, rileva che la morte rompe l’equilibrio dinamico della vita

sociale. Una delle conseguenze della morte è un vuoto sociale. Un membro della società, dei

gruppi che la costituiscono è scomparso. Ne risulta una forma di gap nel funzionamento

istituzionale. L’estensione di questo vuoto dipende dall’intensità della posizione che il defunto

aveva nella vita della società. Le famiglie e i gruppi di lavoro sono colpiti più dalla perdita di

persone di mezza età, che da quella dei bambini o di persone anziane.

Risulta che l’osservazione dei dati permette di rappresentarsi il fenomeno della socializzazione del

morire come funzionale delle sole società di livello etnologico, di quelle arcaiche e tradizionali del

periodo preindustriale e di quelle residue di natura folklorica. Lévy Bruhl, sulle esperienze di

morte nelle culture cosiddette “primitive”, aveva chiarito che quando il capo della famiglia o un

altro membro importante moriva, anche il gruppo comincia a morire. Quindi la morte colpisce non

solo il singolo ma anche il gruppo. Le stesse considerazioni sono presenti nelle opere di

Malinowsky, a iniziare dalla esperienza trobriandese. La perdita di un membro significativo in una

comunità numericamente piccola, danneggerebbe il gruppo in modo grave, liberando angoscia di

morte e istinto di difesa comprometterebbe i fondamenti materiali e morali di esso.

Fra società e defunto si istituisce un reciproco scambio. Mediante il cibo il morto è incluso nella

vita del gruppo. Il morto dona sua moglie, la terra del clan a un vivo della sua famiglia al fine di

rivevere assimilandosi a lui e di farlo rivivere assimilandolo a se stesso (scambio simbolico).

L’importanza del ruolo sociale del defunto appare anche nella storia delle culture europee

preindustriali. Fino alla metà dell’Ottocento persiste l’esigenza del morente di sentirsi circondato

da altri, con la conseguenza che la morte divenne un fatto pubblico spettacolare.

J MacManners ridimensiona questo aspetto. Ricorda che allora, erano tanti quelli che vivevano

soli al mondo o nella miseria, e dopo che il curato era andato via, costoro morivano come capitava,

pertanto non si moriva sempre attorniati da tanta gente. Nel Settecento si verificò una reazione

all’usanza di morire in pubblico. In dipendenza di un mutamento culturale di ordine umanitario,

oltre che una certa resistenza illuministica contro i riti cristiani, agì anche la rivolta cristiana contro

l’espressione mondana di lutto.

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La situazione folklorica presenta analogie, almeno fino agli anni in cui essa persisteva non

frammentata o distrutta dalla civiltà postindustriale. A.Van Gennep, riferendosi alla Francia,

affermava che quando avveniva un decesso, le animosità e i rancori si sospendevano. Era la tregua

della vita. Si costituisce una piccola società temporanea di individui psichicamente orientati nello

stesso senso, gli elementi della quale si riuniscono e poi si separano nuovamente secondo un

protocollo fissato dalla tradizione. Quando una persona è in agonia, tutto il villaggio accorre, la

casa si riempie silenziosamente di gente triste. Ciascuno prende posto assumendo un’aria

addolorata, anche quando non vi è sofferenza.

Gli stessi comportamenti sono attestati nelle ricerche folkloriche per l’Italia. L’indicata solidarietà

tra gruppo dei luttuati e collettività, attualmente è entrata in una profonda crisi, che è più sofferta

nelle culture urbane ed incide in misura minore in quelle di origine agro-pastorale. L’uomo è stato

deprivato della connessione del morire con la presenza del gruppo sociale che lo circonda e lo

aiuta ad affrontare meglio l’immediato trauma della perdita ma anche a superare le varie fasi del

cordoglio. Pertanto si è verificata l’esperienza di una radicale solitudine dell’uomo di fronte alla

propria morte e del gruppo familiare. E’ stato osservato che nella società ad industrializzazione

avanzata, la morte ha perduto il suo contesto classico, è sfuggita dalle mani della chiesa che

sembra sempre meno in grado di mantenere il suo secolare controllo su di essa. Secondo W. Fuchs

la crisi della socializzazione può dipendere dalla secolarizzazione e dall’abbandono della

trascendenza, cui, però, si ricorre come pretesto per negare la morte stessa. L’analisi si complica

quando si invoca il concetto freudiano di “rimozione”, e si sostiene come, in E.Fromm che il

nostro tempo nega la morte. Anziché percepire la morte, la sofferenza, il dolore come spinte più

forti alla vita come base della solidarietà umana, l’individuo è portato a rimuovere il sentimento

della morte come uno “scandalo”. Qui è la causa dell’appiattimento di ogni altra esperienza,

dell’inquietudine che oggi pervade tutta l’esistenza, così come si spiega anche perché in America e

altrove si spendano somme altissime per la sepoltura. Per Fuchs il rapporto tra viventi e morti può

essere descritto come dominato dalla tendenza storica alla neutralizzazione, tendenza legata

strettamente a momenti del concetto moderno di morte. Se una volta il morto era rappresentato

non soltanto come agente vivente, ciò che era qualificante, come sinistro nemico dal quale ci si

doveva difendere, o come soccorritore potente la cui volontà poteva essere piegata con preghiere

ed altre pratiche, il rapporto moderno fra viventi e morti assume sempre più il carattere

dell’indifferenza. Una volta che il morto viene depotenziato in cadavere, ciò che è implicito nel

concetto della morte naturale, diviene inutile. I modi di comunicazione col morto e i rapporti fra

viventi e defunti si liberano da legami qualificanti. Sostiene sempre Fuchs che le immagini

razionali della morte, come evento di natura, non sono penetrate nell’impalcatura generale del

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modello di orientamento socioculturale. Il processo storico definito come razionalizzazione,

laicizzazione o profanizzazione, sembra, nei confronti della morte, aver compiuto progressi molto

limitati, se commisurato ad altri ambiti della vita sociale. Nel rapporto tra morto e società moderna

si è conservata la massima misura di arretratezza. Si deve identificare in esso un ambito della vita

sociale che può essere descritto come il più primitivo settore della società industriale.

Ancora nel primo Novecento, fino alla fine della guerra del 1914, in tutto l’Occidente di cultura

latina, cattolica o protestante, la morte di un uomo modificava lo spazio e il tempo di un gruppo

sociale che poteva estendersi all’intera comunità, ad esempio al villaggio. Si chiudevano le

imposte della camera dell’agonizzante, si accendevano i ceri, la casa si riempiva di vicini, parenti

e amici. Dopo la morte un avviso a lutto veniva affisso alla porta. Dall’uscio accostato, sola

apertura della casa non completamente chiusa , entravano tutti coloro che l’amicizia o le

convenienze obbligavano all’ultima visita. Il servizio in chiesa riuniva tutta la comunità, un lento

corteo accompagnava la bara al cimitero. Il periodo di lutto era denso di visite: visite della famiglia

al cimitero, visite di parenti ed amici alla famiglia. Poi, un po’ alla volta la vita riprendeva il suo

corso normale e restavano solo le visite distanziate al cimitero. Il gruppo sociale era stato colpito

dalla morte, e aveva reagito collettivamente, cominciando da familiari più vicini ed arrivando fino

al cerchio più ampio delle relazioni e delle clientele.

Non solo ogni uomo moriva in pubblico, era un avvenimento pubblico la morte di ognuno che

commuoveva l’intera società. Non era solo un individuo che spariva, ma la società che era ferita e

la ferita che doveva cicatrizzarsi. Ph Ariés, cui fanno riferimento queste considerazioni, sostiene

che tale rapporto tra morto e collettività è durato per questo intero millennio e che tutti i

mutamenti non hanno alterato questa immagine fondamentale, né il permanente rapporto tra la

morte e la società. La morte è sempre stata un fatto sociale e pubblico. In molte aree

dell’Occidente questo modello tradizionale residua ancora e non sembra destinato a sparire. In

alcune regioni più industrializzate è emerso un nuovo modo del morire, in contrasto con tutto ciò

che era prima. La società ha espulso la morte comune, eccetto quella degli uomini di stato o di

personaggi pubblici, che però diviene non produttrice di una reale ondata di diretta partecipazione

e commozione, ma assume il tono di una celebrazione di etichetta, un’occasione dell’ esibirsi e

dell’essere presente. Fuori di questi eccezionali casi, deprivati dell’impulso delle reali e intime

commozioni e del sentimento fondamentale secondo il quale la morte dell’altro suscita in noi il

pensiero della propria morte, tutto si è banalizzato. La società non avverte più la necessità di una

pausa delle proprie attività, la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. Un

aspetto che emerge nella situazione urbana attuale, secondo Ariès, sembrerebbe essere quello di

una menzogna, della prevalenza di una insignificante ed abitudinaria etichetta. Si recita la

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commedia del “nulla è cambiato”, la “vita continua come prima”. E’ una dissimulazione che

annulla tutti i segni che una volta allarmavano il malato, in modo particolare lo spettacolo della

manifestazione pubblica che accompagnava la morte, a cominciare dalla presenza del prete.

Dall’inizio del Novecento anche nelle famiglie cattoliche più osservanti, è subentrata l’abitudine a

chiamare il prete al capezzale del malato solo quando la sua presenza non poteva più

impressionarlo, o quando aveva perduto conoscenza, o quando era già morto.

Il morire non appartiene più all’agonizzante o alla sua famiglia, essendo esso gestito dal

management ospedaliero che tratta la morte come evento che deve evitare ogni impaccio possibile

e deve verificarsi preferibilmente in assenza degli altri. E’ conosciuto, come risultato estremo di

questa involuzione, il sistema americano delle funeral- homes, dove il defunto, reso insensibile

oggetto dei traffici di gestori specialisti del cadavere, sottratto il morto all’ospedale, ne fanno una

merce immettendola in una specie di catena di produzione che va dall’imbalsamazione a

imbellettamenti ripugnanti, alla ricostruzione anatomica di alcune parti, all’esposizione in bara o

su poltrona, in locali predisposti in forma di cappella o di salone addobbato, dove i visitatori vanno

a rendere omaggio di etichetta al suono di musiche funebri, passando in ultimo a un banchetto

collettivo. L’involuzione dei costumi funebri statunitensi è stata denunciata da Jessica Mitford, nei

primi anni Sessanta, provocando durissime reazioni da parte dell’organizzazione dei funeral

directors e degli industriali del cadavere che l’accusarono di comunismo e carenza di patriottismo.

Mitford evidenziava lo spirito commerciale che domina la grande impresa del cadavere, in cui

circolano milioni di dollari, con tariffe imposte criminalmente attraverso la sollecitazione di mode

e gusti, che riguardano gli oltre sessanta “servizi” inventati intorno al cadavere da sfruttare,

dall’imbalsamazione al commercio di vari tipi di scarpe per morto, di cripte e bare, di tipi di avvisi

funebri, di ricevimenti, in un capovolgimento totale del rapporto uomo-morto. In questo caso

particolare che nasce dall’invadenza di un’incultura radicale delle masse statunitensi, la morte non

è più occasione di apertura di un rapporto con la collettività, ma solo un’esibizione di ricchezza e

di ostentazione, di dimostrazione volgare del proprio potere economico, come le feste americane

di presentazione della diciottenne in società o quelle che accompagnano le presentazioni di

uomini politici alle elezioni. Ragon è del parere che dalle società selvagge a quelle moderne il

degrado è irreversibile. I morti cessano di esistere, sono respinti fuori dalla circolazione simbolica

del gruppo. Non sono più ritenuti esseri a pieno titolo, e vengono spinti sempre più lontano dal

mondo dei vivi, dal centro alla periferia e infine in nessun posto, come accade nelle metropoli

contemporanee. Essere morti diventa una disturbante anomalia, la morte è una devianza incurabile.

Per J. Baudrillard la morte ha perduto il valore di scambio. Ha perduto la sua falce ed il suo

orologio, ha perduto i Cavalieri dell’Apocalisse, i giochi grotteschi e macabri del Medioevo. Si

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trattava di un folklore e di una festa attraverso i quali la morte si scambiava ancora con “simbolica

efficacia” presso i primitivi e come fantasma collettivo sul frontone delle cattedrali o i giochi

condivisi dell’inferno. Si può dire che fin quando esiste un inferno, esiste un piacere. La sua

scomparsa dall’immaginario collettivo è il segno della sua interiorizzazione psicologica, quando la

morte finisce di essere la grande mietitrice per diventare angoscia di morte. Però bisogna

procedere con cautela su queste argomentazioni di Baudrillard, perché le proiezioni figurative di

morte, anche mutando nei tempi, restano sempre inserite in una immutabile ed universale angoscia

di morte. Oltre tutto poi non si riesce a misurare nella loro reale consistenza questi processi di

mutazione. Sembrerebbe che la nuova mentalità moderna e postindustriale non abbia avuto effetti

e conviva con quella arcaica. Sostanzialmente, afferma Thomas che, se si può parlare di un

modello moderno del rituale funebre, lo si può occasionalmente osservare nell’ambiente urbano,

più in particolare forse negli strati borghesi della società. All’opposto, nell’ambiente rurale e

presso gente semplice può accadere di trovare l’impronta della tradizione. Nei paesi moderni

inoltre, l’eredità culturale resta più o meno pregnante, ed in effetti i paesi latini o slavi della

vecchia Europa, il Giappone e l’America latina, non hanno affatto liquidato i costumi ancestrali

anche in seno alle grandi città. E’ noto che nelle campagne, e specialmente nei paesi mediterranei,

la solidarietà di villaggio ha ancora un ruolo in occasione della morte, sono ancora molti gli

uomini e le donne che vogliono essere seppelliti con i loro oggetti utili.

Il fatto essenziale in questi spesso intricati giudizi, è l’emergenza di uno stato di transito culturale

che va dai residui arcaici conservati nelle varie culture e il sentimento di una anonimia del morire,

a motivo del declino della presenza della collettività. L’aspetto nuovo che accompagna questo

fenomeno che avanza sia nelle città sia nelle campagne, consiste nella sostituzione della casa come

luogo naturale della morte con l’ospedale, nel quale l’isolamento è totale ed angosciante come

risulta dalle numerose ricerche compiute da medici, psicologi e sociologi sugli stadi terminali delle

persone ospedalizzate. Nella sua esperienza da medico E. Kubler-Ross afferma che > il morire

diviene desolato e impersonale perché il malato è spesso allontanato dall’ambiente familiare e

portato in fretta al pronto soccorso. Solo coloro che lo hanno vissuto possono conoscere il disagio

e la freddezza inevitabile di un tale trasporto che è solo l’inizio di una lunga prova, dura da

sopportare quando si sta bene, difficile da esprimere in parole quando il rumore, la luce, le scosse

e le voci superano la capacità di sopportazione del paziente. Il viaggio all’ospedale è il primo

episodio del morire, come lo è per molti, non per dire che non si dovrebbero salvare le vite, se con

un ricovero ospedaliero si possono salvare, ma per fissare l’attenzione sull’esperienza del malato,

sui suoi bisogni e le sue razioni. Quando un paziente è seriamente ammalato, è spesso trattato

come una persona che non abbia alcun diritto di avere un’opinione, non è una persona. Se tenterà

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di ribellarsi verrà trattato a base di sedativi e dopo ore di attesa sarà trasportato nella sala

operatoria o al centro di rianimazione divenendo un oggetto di grande interesse ed investimento

finanziario. Può desiderare che una sola persona si fermi un momento per poterle chiedere una

cosa soltanto, ma avrà una dozzina di persone sempre intorno, affaccendate e preoccupate del suo

ritmo cardiaco, del polso, dell’elettrocardiogramma, delle sue funzioni polmonari, delle sue

secrezioni o escrezioni, ma non di lui come essere umano<.

Dal libro di Salvatore Natoli: “L’esperienza del dolore”, il cui contenuto affronta il problema

della morte ed è riportato sinteticamente in questo capitolo, risulta che nelle società arcaiche la

morte era pertanto concepita come un evento collettivo, un trauma che colpiva la comunità anche

se non rescindeva completamente i legami, in quanto vivi e morti comunicavano tra loro, oltre la

morte. Questo “oltre la morte” non è stato concepito sempre come la migliore vita, che prende la

forma della “miglior vita”, della “vita eterna”, nella tradizione cristiana. In Cristo la morte è vinta,

nel Cristianesimo non si muore più veramente e la morte vera è quella eterna, la dannazione. Però

la morte, a partire dalla tradizione antica era concepita in modo completamente diverso, come un

evento naturale e in quanto naturale non può essere vinta, ma cessa di essere scandalosa. Nelle

società contemporanee, la vita si difende dalla morte, rimuovendola, fino ad ignorare il morente.

Ma la morte non può essere cancellata, si può solo non farla apparire.

Nella morte si è sempre soli ma non è un danno il fatto in sé, se la rimozione della morte ammala

la società di falso ottimismo, la sobrietà, la morte privata ed il pudore danno alla morte una più

alta dignità che un cordoglio pubblico, senza amore e ritualizzato. Però la morte in segretezza è

bella se non è abbandono. Per morire bene occorre morire per qualcuno, il che significa

consegnarsi a qualcuno, potersi lasciare in eredità, non lasciare un’eredità, essere accolti nella vita

da altri e continuare a vivere in loro malgrado la morte.

La morte viene vista anche come evento collettivo, nel rito e questo aspetto si può conciliare con il

dolore individuale delle persone che erano più vicine al defunto. E’ un importante rapporto tra

l’individuale ed il collettivo in quanto riguarda proprio il modo di vivere la morte, il vissuto della

morte, che nelle epoche del mondo non è stato sempre uguale, come si differenzia nelle diverse

civiltà del mondo, perché il tema della individualità, della morte come morte solo mia, è recente a

confronto della storia dell’umanità, in quanto nelle società arcaiche la morte era un fatto collettivo,

perché la società era più integrata. In queste società si viveva insieme, c’era una continuità di ritmi

di vita e di spazi. In siffatte società c’era una interazione continua, era difficile trovare la

solitudine. La morte era sì patita dall’individuo, ma lo era anche e soprattutto dalla comunità che

viveva come una perdita, come una ferita la morte di un suo membro. E la comunità si risarciva da

questa perdita con i rituali di morte attraverso i quali i membri della comunità si stringevano.

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Anche nelle più recenti società, dove sussistono residui arcaici, nella morte si verifica il fenomeno

del dare, delle visite del portare il cibo ai parenti, presso i quali è avvenuto l’evento mortuario,

fenomeni che nella nostra società sono meno presenti rispetto a quelle arcaiche, dove tutta la

società si stringeva a comunità nei confronti della morte. Anche il rapporto con colui che moriva

era diverso da come lo concepiamo oggi, per noi oggi la morte è un fatto naturale, si torna alla

terra. Non era così nelle società arcaiche perché la morte non era poi concepita in modo molto

naturale, ma come una uccisione, in alcune società era considerata come un omicidio. In tedesco

ad esempio morte si dice Tod, che deriva dal verbo toten, significa uccidere, pertanto la morte è

come se non fosse una curvatura della natura, ma è come se venisse dall’esterno è l’effetto di

un’uccisione e il morto, continuava a vivere come spirito. Sussisteva quindi un rapporto di

comunità non solo tra i viventi, ma tra vivi e morti, perché i morti, in quanto spiriti vaganti

potevano tornare e anche vendicarsi dei vivi per le offese che avevano da loro ricevuto da vivi.

Quindi mentre nelle società arcaiche la morte creava una ferita nella comunità, nell’evoluzione

verso la modernità è avvenuta in modo sempre maggiore una personalizzazione della morte, è

diventata sempre di più un’esperienza individuale.

Già nei secoli cristiani si assiste ad una individualizzazione della morte, nel senso che il soggetto

che muore, è lui ad essere destinato alla salvezza o alla dannazione, è lui il titolare e pertanto

l’elemento della propria salvezza. Nel Cristianesimo quindi, il protagonismo nella morte diventa

molto importante, anche se resta sempre presente la comunità.

Nella modernità si sviluppa sempre più il tema della naturalità della morte, che era già presente nel

mondo antico. La morte era disgregazione e aggregazione, quindi non era una forza esterna che

uccideva, ma la natura, dentro di sé, aveva il germe della morte. Ogni uomo muore perché la morte

matura dentro di lui, è quindi presente la dimensione di naturalità della morte, nella modernità

invece accade che nel momento stesso in cui l’uomo assume come ovvia la naturalità della morte e

non crede più “nell’altro mondo” e molti non ci credono, non si crede più all’altra vita, quella

eterna, e pertanto la morte è naturale e dovrebbe essere più facilmente accettata. Ma tutto ciò non è

avvenuto perché parallelamente alla persuasione che la morte è naturale, si è sviluppata la tecnica

che ha la possibilità di differire la morte in quanto è avvenuto un prolungamento della vita e

persino nella situazione di malattia c’è la possibilità di durare a lungo in essa, con la possibilità di

ridurre il dolore, e pertanto la possibilità che la tecnica abbia il potere di differire la morte. Per

quanto pensata come naturale, la morte è vissuta come innaturale perché la tecnica può differirla.

La dimensione della soggettività, allora, del destino del soggetto rispetto alla morte, viene giocata

anche come rapporto dell’individuo rispetto alla tecnica, e il risultato è che l’uomo affidato alla

tecnica , è sottratto alla comunità.

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E’ una contraddizione che va considerata il fatto che nella nostra società da una parte c’è un

tentativo di fuggire la morte e tenerla nascosta, mentre dall’altra viene mandata in onda in

televisione, spettacolarizzata per questioni di audience. Tale problema è presente nelle nostre

società, perché la morte resta sempre un fattore drammatico. E’ lo spettacolo della vanità, la vita

che si dissolve, mentre la vita non vuole morire, anche se la morte è naturale, il vivente fino a che

vive, non vuole morire. E’ pertanto presente un elemento traumatico nella morte, un trauma che

spinge l’uomo a interrogarsi sul senso della sua esistenza. Oggi viviamo in una società in cui nella

quotidianità della vita la morte non si incontra più. Nelle società arcaiche ma anche in quelle più

recenti, come quelle dei nostri genitori e soprattutto dei nostri nonni, la morte si incontrava nella

vita, in quanto il malato era in casa, c’era un’assistenza del paziente, si vedeva morire la persona,

si stava fuori per varie ragioni ma poi si tornava, c’era dunque un contatto fisico con la morte.

Con la tecnica, il malato, il morente è sottratto perché è affidato al competente. Di conseguenza

per quanto ci siano relazioni d’affetto, non c’è il contatto fisico con la morte che gestita dalla

tecnica, viene sottratta all’ordinario della vita. E nella vita di ogni giorno si cerca di far sparire la

morte. Le immagini che ci vengono proposte sono immagini di bellezza, vitali, si dà un’immagine

di sanità, eppure la morte c’è, è presente, lo è con eventi terribili e questa morte appare allora nella

forma della rappresentazione, dell’epopea del macabro. La morte diventa qualcosa di

rappresentato ma non di vissuto, è resa visibile, ma contemporaneamente è resa finta, in quanto

non entra nella quotidianità della vita, ma è talmente spettacolarizzata da sembrare inverosimile, è

ridotta a film e quando entra nella vita, è anche falsificata. Il vero problema di incontrar la morte è

la responsabilità dell’altro, del suo dolore, mentre troppo spesso siamo irresponsabili rispetto al

dolore che abbiamo intorno, anzi ci eccitiamo con il macabro e con il terrore, infatti nella

filmologia contemporanea il terrore è diventato un ingrediente shock, si ricerca un effetto shock

sul soggetto, pertanto è questa la dimensione di falsificazione della morte.

Spesso le religioni sono state un tentativo di superare la paura della morte, come si è cercato di

fare anche con atteggiamenti laici, al di fuori della religione. Tale paura è inevitabile, nel senso

che il vivente, in quanto “potenza ad esistere” (questo vuol dire vita), è colui che appunto rifiuta la

morte, la vita rifiuta la morte, ma noi siamo una quantità di “potenza finita”, e la scoperta della

naturalità della morte, che la morte è naturale, denota che l’uomo ha compreso che la morte

matura dentro di noi. La vita cresce, ma alla fine si dissolve, e ciò è inevitabile, ma il fatto che la

morte sia inevitabile, non significa che divenga accettabile, pertanto la vita umana è sempre questo

combattimento tra la vita e la morte. La personalità cresce e si struttura meglio, se si porta

all’altezza della morte, che non è quella che viene alla fine, bensì le molte morti che attraversano

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la vita, tipo i desideri mancati, gli amori falliti o i progetti irrealizzati., ma a fronte di tutto ciò

l’uomo ha risorse, può rilanciarsi, noi nella vita abbiamo quindi la possibilità di molte resurrezioni.

La morte in senso definitivo avviene quando questa nostra forza si affievolisce e finisce. Ci sono

in questo caso due punti di vista:

1) La morte verrà, è naturale, quindi per me il compito più elevato non è quello di allontanare

la morte che viene alla fine, ma di realizzare nel migliore dei modi questa mia vita,

considerando che la morte è naturale, proprio per l’ineluttabilità del mio morire, devo vivere

questa vita con pienezza cercando di valorizzarla al massimo.

2) Proprio a causa di tale ineluttabilità, la vita non vale nulla e allora c’è la necessità di una

compensazione, il bisogno di un al di là che compensi questa vita, che, se è strutturata ai fini

della morte, non avrebbe senso.

Sono due modi divergenti di concepire e di esperire la morte. L’antropologia del credente è una

antropologia che non sopporta la morte, mentre quella del non credente si porta all’altezza della

morte.

La dimensione dell’ignoto

La dimensione dell’ignoto è quella dell’oltre, è quella per cui c’è fin dalle origini una stretta

intimità tra la morte ed il sacro. Ci si chiede se la morte è l’ultima linea delle cose, oppure se è un

confine che ci spinge verso una ulteriorità. Si può affermare: “Mi toglierei la vita se non ci fosse

la dimensione dell’oltre”. La società contemporanea sta perdendo sempre più la dimensione

dell’oltre, quando va bene può rimanere la dimensione del ricordo. Sappiamo che tra i tanti

business, esiste oggi quello mortuario, un’azienda che vende casse da morto è detta Pompe

Funebri, e quindi prendiamo atto che è presente un business, una industrializzazione della morte,

ma intesa non nel senso dell’oltre, ma in quello dell’impacchettare bene il morto, una spedizione

elegante per la spedizione, dove lì c’è un destinatario che non c’è qui.

Afferma Epicuro quando allontana la paura della morte: “Quando c’è la morte non ci siamo noi,

quando ci siamo noi non c’è la morte, quindi la morte non è un male”. Questa concezione di

Epicuro è diventata quella delle culture non religiose contemporanee, una concezione che non

vede nella morte il punto drammatico vero della vita, un punto di battaglia. Importante a questo

punto diventa quanto esposto prima sul fatto che la morte che l’uomo incontra è quella che

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incontra nella vita. E’ nell’esperienza del dolore che è presente la morte, è nel dolore che c’è

l’esperienza della perdita, pur verificandosi poi l’esperienza finale.

Il progetto di perdersi del tutto è importante, noi viviamo la nostra morte finale come importante

perché la anticipiamo nella vita.

Heidegger parlava di anticipazione della morte, in quanto nel nostro progetto di vita, consci che

c’è la morte, noi la anticipiamo e pertanto diventa importante, non quando verrà, ma il suo essere

sempre presente nella vita di ognuno come estrema possibilità. Esiste nella liturgia cristiana-

cattolica, una formula: media vita in morte sumus, cioè siamo nella morte al centro della vita, e

allora in tal senso, la morte ci appartiene, come nostro ultimo confine, come la nostra più propria

possibilità. In questo senso allora la viviamo, ma la viviamo veramente incontrandola nella vita,

in quelle piccole o grandi morti che sono le nostre sofferenze, rispetto alle quali non dobbiamo

essere pessimisti, è sempre presente una possibilità di risorgere. La potenza che noi siamo, può

vincere.

E’ importante come si muore, ne è già stato parlato in questo contesto quando si è accennato al “si

muore per altri”, quando si muore sempre per qualcuno. Ci può essere anche una bella morte,

quando nel morire non si lascia in eredità qualcosa, ma si lascia se stessi, cioè quando qualcuno

accoglie in sé il morente come per continuare il suo compito. Per morire bene bisogna vivere bene,

e qui si evidenzia il problema di oggi che si concretizza con la solitudine. Si parla di solitudine del

morente, ma la solitudine del morente inizia molto prima, perché nella vita i legami forti sono

sempre di meno. I legami familiari, affettivi sono sostituiti e consumati dalla giovinezza, ma arriva

il momento in cui questi legami non ci sono e si resta soli. Si muore soli perché si è vissuti soli.

Estetica della morte

Esiste una possibilità estetica della morte ed è possibile solo se l‘uomo ha saputo costruirsi uno

stile della vita, cioè la capacità di reggere al dolore, di formarsi , di avere legami, affetti, coltivare

amicizie, sentirsi nel legame con gli altri. In questo senso, alla fine della vita si può affermare che

si è vissuti bene, che si può lasciare qualcosa agli altri, un ricordo di noi che gli aiuti a vivere. E’

questo il modo oggi per il non credente, di vivere bene, nel significato di lasciare una continuità,

mentre ci si va spegnendo, si alimenta qualcosa che invece cresce, è il miglior modo per durare e

chi muore in siffatto modo, muore bene e la sua morte è estetica.

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Il suicidio

Anche il suicidio potrebbe essere considerata una morte estetica, ma ha la caratteristica

dell’onnipotenza, mentre ciò che bisognerebbe evitare è accettare la morte, ed il modo più alto di

affrontare la morte, è accettarla con dignità, cedendo appunto la propria vita ad altri, mentre nel

suicidio c’è un delirio di presunzione. Si potrebbe definire il suicidio una volontà di potenza, una

pretesa di assoluto, il suicidio come una rinuncia alla vita perché è insopportabile, ed una pretesa

di vita che non è quella che noi viviamo.

Il suicidio assistito

Nel suicidio assistito che è poi una forma di eutanasia, si presenta un problema diverso, perché

bisogna ragionare sulla responsabilità che ha il soggetto nel suo morire. La forma è: morire bene.

Cioè stabilire fino a che punto è giusto che un individuo che perde la sua personalità, che è

straziato dal dolore, umiliato dalla malattia debba proseguire nella sua vita. Tale problema si pone

incalzante in una società come la nostra, in cui la morte può essere differita dalla tecnica. Il

problema si pone allora in termini di dignità, domandandoci se possiamo far sopravvivere un

corpo quando avviene la dissoluzione del soggetto, oppure se l’uomo esiste fin quando è un

soggetto. Il problema dell’eutanasia si può porre in tali termini, e siccome il soggetto che soffre è

espropriato da sé a causa della malattia stessa, ci si chiederà fino a che punto riesca a dominare

questa sua fine. In questa incertezza l’eutanasia può configurarsi come un atto di dignità, ma anche

come un modo per liquidare chi sta morendo, perché coloro che stanno accanto al morente non

reggono la sua morte. E’ importante considerare l’eutanasia all’interno di questa oscillazione e di

questa ambiguità.

Sacralizzazione della morte

Il desiderio di sacralizzare la morte, probabilmente nelle nostre società è molto meno presente che

non in altre, soprattutto nella società cristiana. S’è parlato della confezione del morto, che non è

sacralizzazione, è correttezza, eleganza e anche un modo per fissare il ricordo.

Molti simboli cristiani sono, nella nostra società soprattutto, diventati segni decorativi, abitudini

residuali più che convinzioni. Un contenitore era usato per l’Estrema Unzione, e conteneva

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l’oleum infirmorum, ossia l’olio degli infermi e, (anche oggi per i credenti lo è), quando questo

oggetto contenente l’olio veniva usato, si accompagnava il morente verso il transito. In questo

contesto la parola “sacro” significava moltissimo, dove, nel momento della morte, non c’era la

fine di tutto, ma un “a rivederci”, un ritrovarsi in patria, come dice la liturgia cristiana. Era

presente quindi il dolore per un congedo momentaneo, il trauma, il dolore della morte, c’era, ma

c’era pur sempre la speranza di rincontrarsi. Quindi è così che avviene la sacralizzazione della

morte nella società cristiana, ed in quelle arcaiche, come già esposto, era sacralizzata perché il

morto poteva tornare. Tutto ciò non esiste più perché il morto si può impacchettare e l’unico modo

attraverso cui il morto può vivere è nella memoria di chi sopravvive.

Il morire per gli altri

Morire per gli altri vuol significare il mettersi dalla parte del morente. Il morente patisce la sua

morte, il che vuol significare che patisce nella morte il distacco dal mondo, da quelli che lascia,

perché altrimenti non patirebbe la morte, la morte come abbandono della vita, e quindi come

distacco dagli altri. Questo riguarda chi muore, e come è già stato detto, l’altro, quello che vede la

morte, patisce la perdita dell’altro, tutto quello che può o che potrebbe fare con lui. Pertanto nella

separazione, (morte come esperienza della separazione), è sempre un morire per qualcuno, dalla

parte di chi muore l’abbandono del mondo, per chi sopravvive la perdita dell’altro. La morte è

esperienza del legame.

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LE PATOLOGIE DELL’ANZIANO

L’INTERRELAZIONE, IL RAPPORTO COMUNICATIVO - TERAPIE

L’invecchiamento è un processo che interessa tutti gli organismi viventi e che comporta

modificazioni biologiche. Nell’uomo si assiste a tali modificazioni del corpo e delle sue funzioni,

seguite da un processo di adattamento psicofisico già dopo i 30 anni. Il fenomeno è graduale e

progressivo, anche se variabile per ogni individuo.

L’invecchiamento fisico

L’invecchiamento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno importante della nostra

società. Rispetto al passato non è variata la durata massima della vita umana, ma si è modificata la

percentuale degli individui che raggiungono l’età avanzata. Gli anziani sono sempre più numerosi

e raggiungono la vecchiaia in condizioni di salute migliori, merito del progresso sia delle

conoscenze scientifiche (riduzione della mortalità per malattie infettive) che delle condizioni

socio-economiche (miglioramento dell’igiene e dell’alimentazione).

Esiste tutt’oggi difficoltà a stabilire l’inizio del processo di invecchiamento, processo

caratterizzato dall’aumento dei processi distruttivi su quelli costruttivi a carico del nostro

organismo.

Si suole considerare le seguenti fasce di età:

1) età di mezzo o presenile 45 – 65 anni: gli eventi biologici caratteristici sono la menopausa per

la donna e l’andropausa per l’uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei

grassi nel sangue, della glicemia, predisposizione all’ipertensione arteriosa).

2) senescenza graduale 65 – 75 anni: comunemente si indica l’età corrispondente all’inizio della

vecchiaia a 65 anni.

3) senescenza conclamata, 75 – 90 anni: in passato individui di età superiore ai 65 anni

mostravano riduzione dell’efficienza psicofisica, ai nostri giorni si assiste alla comparsa di

ultrasessantacinquenni efficienti, e si può ridefinire anziano l’ultrasettantacinquenne.

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In questo periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a determinare interventi

sociali e riabilitativi.

Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) ed una

diminuzione dell’efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e

predisposizione ad una serie di disturbi.

L’invecchiamento psichico

La psicologia dell’invecchiamento si occupa dell’anziano nella sua globalità: analogamente ad

ogni fase della vita umana non si può prescindere dall’importanza della componente affettiva che

determina la modalità di risposta agli eventi della vita.

Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso peggiorativo, ma si può

affermare che non esiste un parallelismo fra le modificazioni delle funzioni in individui diversi

(eterocronia).

La modalità di invecchiamento non può prescindere dalla personalità e dalle esperienze, la

vecchiaia rappresenta la sintesi del significato dell’esistenza: è nella vecchiaia che si può

raggiungere la saggezza.

Già nell’antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata da deterioramento

mentale permanente, in particolare dal declino patologico delle capacità intellettuali e

dell’adeguato controllo dell’emotività (demenza).

Catone e Seneca affermano che la vecchiaia non è solo un processo necessariamente legato al

decadimento globale dell’organismo umano, ma sottolineano in particolare l’importanza di

coltivare molti interessi, fonte di frutti meravigliosi.

Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni creative proprio nella

vecchiaia; studi condotti con modalità diverse hanno dato risultati diversi rispetto al passato:

l’anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad es.

mediante l’allenamento mentale, e se motivato.

Studi anatomo-patologici sul cervello mostrano che nell’invecchiamento si ha una sclerosi

progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono presenti modificazioni cerebrali. Ciò a

conferma della variabilità del processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui.

Attualmente si ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (sinaptogenesi).

Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che con l’avanzare dell’età

diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentramento, frequentemente

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compaiono alterazioni dello stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è

dimostrato che l’anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente.

La biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata funzionalità cerebrale anche

nella senescenza, anzi molte opere di scrittori, filosofi, artisti, compiute alla fine dell’esistenza,

rappresentano il coronamento di tutti i lavori precedenti.

Fattori che influenzano i processi di invecchiamento

1) fattori genetici, anche il sesso può essere un fattore predisponente (il maschio invecchia più

precocemente)

2) educazione e livello culturale che consentono di trovare più facilmente delle alternative di vita

alla pensione, di creare delle strategie di sopravvivenza

3) benessere economico

4) interazione e comunicazione

5) comparsa di malattie invalidanti: l’anziano vive come intrinseca la sua malattia, il suo

vissuto è che la malattia appartenga al suo destino

6) stile personale di vita: cioè subire o vivere la vita

7) appartenenza ad un nucleo socio-familiare: cioè il gruppo, mediante atteggiamenti di

conferma o svalutativi, evidenzia gli aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia

8) eventi drammatici: la scomparsa di figure di riferimento

9) sradicamento dal proprio luogo di origine

E’ evidente l’importanza dei fattori sociali.

La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne attraverso i canali sensoriali.

E’ quindi legata a due fattori: l’integrazione delle informazioni che avviene a livello del sistema

nervoso centrale e l’assimilazione legata ai sensi legata al sistema nervoso periferico. La vista e

l’udito sono spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità percettiva.

Sulla base del principio di costanza percettiva che dice che la percezione si mantiene costante

nel processo di invecchiamento, il cervello cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad

una perdita sensoriale stimolando i sensi rimasti integri (principio di conservazione).

Con l’avanzare degli anni si affina la capacità di rispondere alla diminuzione di alcune funzioni

psicofisiche utilizzando le conoscenze e le esperienze apprese nella vita.

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E’ stato dimostrato che l’attività percettiva migliora se migliorano le condizioni in cui l’attività

percettiva stessa si svolge: l’ambiente esterno, la società, ma soprattutto il gruppo familiare può

stimolare l’interesse, dare spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità dell’anziano.

La comunicazione, e quindi le relazioni interpersonali che permettono una vita sociale, dipendono

dalla possibilità di percezione. E’ noto che l’anziano mantiene integra la memoria.

La motivazione, in tutte le età è la spinta propulsiva fondamentale del comportamento,

insostituibile strumento di apprendimento. Persino l’utilizzo del computer, strumento estraneo alla

cultura dell’anziano, può essere appreso qualora l’anziano sia motivato a farlo.

L’affettività. Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere l’interazione

con l’ambiente esterno, l’anziano deve essere in grado di comunicare. Perchè ciò avvenga non si

può prescindere dall’importanza dell’affettività, del riconoscimento del suo valore all’interno del

nucleo sociale in cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell’agire quotidiano, nell’essere

al mondo.

La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica più frequente nell’età

senile, comporta la rinuncia alla vita: l’aspettativa di vita è statisticamente limitata, la società invia

messaggi di inutilità, si capisce come la volontà di vita dell’anziano per essere mantenuta necessita

dell’affetto dei propri cari che affermano l’importanza della sua esistenza.

La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età avanzata, ma questo è

vero anche dal punto di vista fisiologico. L’esercizio sessuale è fondamentale, come quello di

qualsiasi altra funzione organica. Tuttavia è ancora diffuso il pregiudizio culturale che considera la

sessualità in età senile come indecorosa, come se l’anziano non potesse sentire e vivere le proprie

emozioni.

La creatività

Per invecchiare senza sviluppare demenza è necessario che l’anziano mantenga attive le funzioni

cerebrali. Per creatività si intende l’espressione di sé stesso, le cui modalità di esecuzione sono

vastissime.

La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E’ fondamentale per la sua crescita.

Ma la creatività diminuisce sempre di più in una società “ratioforma”, come la nostra, che

privilegia la forma, il pensare secondo una logica comune, non il differenziarsi.

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Nell’età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole azioni quotidiane, come

nella creazione di pietanze originali. Questo può valere in diverse condizioni di aggregazione:

all’interno della coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto interessanti sono le

iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista psicologo può rappresentare un

valido aiuto per l’anziano nel riconoscere e svelare le potenzialità creative. Qualora vengano

evidenziate le capacità creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente.

Il rapporto nonno-nipote

Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote. Esiste spesso la difficoltà di esprimersi dei bambini

con i propri genitori impegnati a lavorare. La relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità

di espressione di entrambi. Il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi del

passato modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più piacevoli con un pizzico di

invenzione.

Il racconto di episodi passati diventa strumento per stimolare la funzione creativa.

L’interazione nonno-nipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziani non

rappresenta una soluzione utile.

Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e scelte in chiave positiva,

evidenziando le qualità residue utili al fine di esprimere se stessi. L’anziano dovrebbe essere

sempre messo nelle condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concrete.

Le speranze e i timori

Il timore più grande per l’anziano non è la morte, che magari rifiuta inconsapevolmente, ma è

piuttosto la malattia, l’abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto

da parte del suo nucleo familiare.

Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte scientifiche allungano la durata della vita.

Nei paesi industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre più una percentuale

importante. E’ indispensabile che la longevità sia caratterizzata da anni di salute e non di malattia,

invalidità e dipendenza.

Bisogna considerare tre aspetti collegati tra loro:

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Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le risorse

psicofisiche, quindi di ridurre le necessità di trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione.

E’ necessario stimolare i rapporti con l’esterno, insegnare la geragogia, inserire nel mondo del

lavoro la possibilità di avere l’età di pensionamento flessibile, stimolare il volontariato, non solo

verso coetanei della terza età, ma anche utilizzando l’esperienza dell’anziano utile per

l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Si potrà allora affermare che invecchiare è un

crescere ancora, un recuperare la propria espressione.

Terapeutico: l’anziano presenta spesso la compromissione di più organi, la cui terapia consiste

nella somministrazione di più farmaci. Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in

particolare di psicofarmaci. Analogamente ai bambini irrequieti, agli anziani depressi vengono

somministrate sostanza farmacologiche.

Attualmente si è mostrata efficace associare, o sostituire, quando possibile alla terapia con

psicofarmaci, la psicoterapia sistemica che aiuta a creare forme di strategie comportamentali più

adatte ai bisogni individuali. La depressione è la reazione ad una situazione che appare senza via

d’uscita, ed esistono tecniche che vengono proposte per riportare l’anziano ad una realtà che può

ancora arricchire.

Riabilitativo: le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo importante nel ridurre i tempi di

degenza nei reparti ospedalieri, con sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la

sanità. Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a dura prova il suo fragile

equilibrio. L’allontanamento dalle mura domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà,

il ricovero appare come un evento drammatico che può comportare la morte.

Gli anziani che necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase acuta di una malattia possono

venire seguiti a livello extraospedaliero mediante il servizio di Assistenza Domiciliare Integrata.

Nel caso di grave compromissione psicofisica negli istituti di lungodegenza riabilitativa e nelle

residenze sanitarie assistenziali.

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Quando essere vecchi significava saggezza

Umberto Galimberti in un suo scritto afferma che la vecchiaia non è solo un destino biologico, ma

anche storico-culturale. Quando si aveva la concezione ciclica del tempo e ogni anno il ritmo delle

stagioni si ripeteva sempre uguale a se stesso, chi aveva visto di più, sapeva anche di più. Infatti

per Platone “conoscere è ricordare”, e il vecchio nell’accumulare ricordi era ricco di conoscenza.

Con la concezione progressiva, lineare del tempo, non più ciclico nella sua ripetizione, ma simile

ad una freccia scagliata in un futuro senza meta, la vecchiaia non è più considerata un deposito di

sapere, ma ritardo, inadeguatezza, ansia per le novità che non si riescono più a controllare nella

loro assillante e rapida successione. Il sociologo Max Weber, nel 1919 già affermava: “A

differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi gli uomini non muoiono più sazi della

loro vita, ma semplicemente stanchi”.

Pertanto la vecchiaia è dura da vivere, non solo per il decadimento biologico ed il

condizionamento storico-culturale, ma anche per una serie di destrutturazioni tra l’Io e il mondo

circostante che impoverisce le relazioni e rende l’affettività falsa. Nel vecchio, l’amore che Freud

ha ritenuto come antitesi alla morte, non si estingue, con “amore” si intende eros e sessualità, di

cui c’è rimpianto e ricordo. I vecchi cessano di essere riconosciuti come soggetti erotici e questo

costituisce ancora una destrutturazione che separa il loro Io dalla pulsione d’amore.

Nel tentativo disperato di opporsi alla legge di natura, che vuole il declino degli individui

inesorabilmente, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare all’erta continuamente per cogliere

ogni giorno il più piccolo segno di declino. Depressione, ansia, ipocondria e ossessività sono

compagne dei suoi giorni, ed i suoi feticci diventano la dieta, la bilancia, la palestra, lo specchio.

La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, pertanto Hillman scrive che, per il bene dell’umanità

“bisognerebbe proibire la chirurgia estetica e considerare il lifting un crimine contro l’umanità”

perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, incrementa quel mito della giovinezza

che designa la vecchiaia come anticamera della morte.

Ci sono due idee malate a sostegno del mito della giovinezza, che regolano la cultura occidentale

rendendo l’età avanzata più spaventosa di quello che è: il primato del fattore biologico e del fattore

economico che, ignorando tutti gli altri valori, collegano la vecchiaia all’inutilità, e l’inutilità

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all’attesa della morte. Eppure il danno che si produce è enorme quando le facce che invecchiano

hanno scarsa visibilità, quando esposte alla vista pubblica sono solamente facce truccate, depilate e

rese telegeniche per garantire un prodotto mercantile e politico, perché oggi anche la politica vuole

la sua telegenìa. La faccia del vecchio è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si cela un

volto trattato chirurgicamente è una falsificazione che fa trasparire l’insicurezza di chi non ha il

coraggio di esporsi con la propria faccia.

Se si smaschera il mito della giovinezza e si curano le idee malate che ha diffuso sulla vecchiaia la

nostra cultura, si potrebbero individuare in essa due virtù: quella del “carattere” e quella

dell’”amore”. La virtù del carattere la segnala Hillman ne La forza del carattere ed. Adelphi in cui

afferma: “Invecchiando io rivelo il mio carattere, non la mia morte”, e per carattere devo pensare a

ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama “faccia” perché la “faccio” proprio io, con le

abitudini contratte nella vita, le amicizie frequentate, le ambizioni inseguite, gli amori incontrati e

sognati, i figli generati. E l’amore che, come sostiene Manlio Sgalambro nel Trattato dell’età ed.

Adelphi, non cerca ripari, non si rifugia nella “giovinezza interiore”, luogo malfamato, ma si

rivolge alla “sacra carne del vecchio” che contrappone a quella del giovane, pura res extensa

buona per la riproduzione. “L’eros scaturisce da ciò che sei, non dalle fattezze del tuo corpo,

scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente cos’è l’amore fine a se

stesso”. Una sessualità totale subentra a quella genitale. Si annida qui il segreto dell’età, dove lo

spirito della vita guizza dentro come una folgore, lasciando muta la giovinezza, incapace di capire.

Forse il carattere e l’amore hanno necessità di quegli anni in più che la lunga durata della vita oggi

ci concede per vedere quello che le generazioni precedenti, tranne eccezioni, non hanno potuto

vedere, e per precisare, quello che uno è al di là di quello che fa, al di là di quello che tenta di

apparire, al di là di quei contatti d’amore che la giovinezza brucia, senza conoscere.

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PARTNERSHIP E FIDUCIA NELLA RELAZIONE MEDICO – PAZIENTE

Dal paternalismo alla cooperazione

Trasformazioni

La dipendenza del paziente dall’autorità professionale del medico è tradizionale. Da tempi remoti

il dovere del medico è soccorrere e quello del paziente è accogliere il suo aiuto come se provenisse

da un ministro di culto, con poteri di vita e di morte: Il medico agisce per procurare un giovamento

contro il disordine provocato dalla malattia. La sua responsabilità professionale è più religiosa che

giuridica, perciò in caso di errore gli è garantita l’impunità. Il paziente si deve adattare all’autorità

del medico subordinandosi a lui.

Il cristianesimo ha promosso l’immagine del medico buon samaritano che guida il paziente verso

la guarigione. In tal modo medicina e salute restano doni di Dio staccati dalla quotidianità e dal

contesto in cui la malattia si inserisce. In questa tradizione il paziente non ha alcun mezzo per

opporsi alle decisioni del curante. Fino al XIX sec. il paziente viene considerato come un

adolescente, maturo per alcune decisioni e non per altre. Il soggetto ha diritto di scelta a sovranità

limitata sul campo della clinica. Il paternalismo, non scompare con la modernità, ma si incrina:

Scoperto il potere dell’intelletto e l’esistenza di diritti uguali per tutti, l’individuo può disporre di

sé e fare scelte personali.

I cambiamenti sociali che hanno favorito la trasformazione del rapporto paternalistico ad una

relazione di partnership, possono essere così riassunti:

a) I cambiamenti nel rapporto M/P sono frutto dello sviluppo, in una società laica, pluralista e

democratica, del concetto di libertà e autonomia dell’individuo. Per ogni atto medico è necessario

un consenso libero ed informato.

b) Spinte socio-storiche hanno cambiato la collocazione della medicina. Da una scienza d’élite ad

un contesto di maggiore uguaglianza e democrazia.

c) Il medico ha perso l’autorità di colui che assume le decisioni in tutti gli aspetti della cura della

salute.

d) La tecnologia ha aumentato la complessità dei trattamenti e delle scelte da compiere.

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e) L’aspetto economico è sempre più importante nel condizionare le decisioni. C’è una

responsabilità maggiore per un appropriato uso delle risorse, e il medico deve pertanto bilanciare il

suo impegno verso l’individuo con i doveri verso l’intera società.

Man mano che nel tempo, il rapporto medico-paziente subisce trasformazioni, avviene

un’evoluzione dalla dipendenza alla partnership. Questo cambiamento è frutto spesso dell’operato

del medico che incoraggia il paziente ad una maggiore autosufficienza, verso la responsabilità di

assumere responsabilità nei confronti della propria salute e un utilizzo oculato delle risorse. Si ha

un modello di relazione medico-paziente che vede rispettata la persona come soggetto in diritto di

fare scelte e avere punti di vista personali. L’alleanza di lavoro che si determina, crea una

situazione di comfort reciproco favorendo accettazione e comprensione reciproche oltre

all’attenzione alle responsabilità sociali.

La difficoltà di tale prospettiva è nel mantenere equilibrio tra le esigenze del paziente che cerca da

un lato autonomia e dall’altro sostegno. Lo stesso medico è oggetto di contraddizioni, in quanto da

una parte è disposto ad una totale delega di responsabilità, ma dall’altra è allarmato per la

conseguente perdita di autorità.

I modelli

Modello paternalistico

Il medico decide, il paziente esegue passivamente le disposizioni dell’autorità professionale. In

tale

rapporto il paziente si comporta come un bambino che dipende dal suo maestro ed il risultato

deriverà dalle capacità persuasorie del clinico, in quanto in possesso della conoscenza mentre il

malato ne è all’oscuro. L’uno può infliggere sollievo o dolore, può limitare la libertà fisica

dell’altro attraverso un ricovero o imposizione di regole. Tale pressione esercitata in modo

“naturale” sul paziente è definita da Balint “la funzione apostolica del medico”. A questo ruolo del

medico si affianca quello del paziente che si sente in obbligo di collaborare, obbedire, fare il

bravo. Il medico viene così gratificato dalla posizione di sottomissione del paziente finendo per

sentirsi onnipotente.

Modello condiviso

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Il concetto di partnership comporta uguaglianza nel potere e nella responsabilità. Il Paziente deve

ricevere un’informazione che gli dica qual è il trattamento migliore per lui per poterlo confrontare

con quello che preferirebbe ottenere. E’ necessario che il medico usi gentilezza, buona

comunicazione, che attui la cooperazione cercando di comprendere qual è il “bene” che desidera il

paziente.

La caratteristica del modello di partnership è la natura interattiva in cui paziente e medico

stabiliscono in parallelo le fasi del processo di decisione. Entrambi rivelano le loro preferenze ed

esprimono il loro parere.

Il modello informato

Il paziente, dopo che il medico ha esposto le opzioni sceglie da solo. La comunicazione in questo

caso è ad una sola via, dal medico al paziente. Il malato ottiene informazioni dettagliate su

benefici e rischi e decide da solo. Il trasferimento di informazioni è l’unico contributo del medico,

che si limita a fornire indicazioni ed alternative senza esprimere personali opinioni, cercando di

non influenzare le conclusioni del paziente.

E’ un modello estremo in cui la libertà del paziente è massima ed il medico assume soltanto il

ruolo di tecnico esecutore. Tale modello, in cui il paziente sembra poter fare a meno del medico,

sembra rientrare nell’ambito dell’evoluzione darwiniana, dove il rapporto di partnership è solo la

tappa intermedia di una trasformazione inarrestabile, le cui conseguenze sarebbero come quelle

introdotte da internet o dalla nuova genetica.

La realtà

Ovviamente nella realtà i vari modelli sfumano l’uno nell’altro rendendo il panorama più

complesso. Il modello reale con il paziente è intermedio, la flessibilità dei protagonisti è necessaria

per poter procedere ad uno scambio che dia accettabili risultati sul piano pratico. Per affrontare i

piccoli problemi quotidiani non si può fare ricorso a manovre complicate per arrivare a decisioni

condivise, mentre quando si presenta un problema serio e sono presenti varie opzioni, quando la

posta in gioco è alta e non esiste il trattamento giusto, è importante che i valori del paziente siano

resi espliciti e considerati con lui nella scelta. Nei casi in cui una decisione può avere conseguenze

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importanti, il paziente è spesso teso ed emozionato, ha bisogno di calma e di tempo, deve essere

aiutato per far emergere la sua capacità di scegliere.

Ogni scelta viene condizionata da vari fattori:

a) Informazioni provenienti da altre fonti oltre quelle mediche, forniscono quantità di dati non

sempre fruibili da un punto di vista critico.

b) Le case farmaceutiche si rivolgono direttamente al paziente attraverso i media:

c) La maggior parte delle decisioni viene presa relativamente a malattie spesso auto risolutive di

cui non si conosce il decorso e la natura.

d) Il consumismo medico è aumentato fino al punto da provocare nel paziente irrealistiche

aspettative. La psicologia sociale evidenzia come una dicotomia tra le aspettative e la realtà

provochi disagio emozionale e come la soddisfazione dipenda dal grado di congruenza tra

aspettative e realtà.

d) L’enfasi mostrata per il progresso tecnologico porta a credere che la medicina possa fare

miracoli provocando aspettative enormi. Quando si comunica che la realtà è diversa e che

anche banali malattie non hanno soluzione, si provoca la delusione dell’utente che finisce per

provare diffidenza e rabbia nei confronti delle discipline mediche e dei medici.

La difficoltà a prendere una decisione, per il paziente si somma ad altri aspetti della realtà, che gli

rendono difficoltoso orientarsi nel campo della salute. L’aumento del numero dei medici

specialisti (che si occupano di una singola persona o patologia) causa la frammentazione del

paziente. La sua fatica ad instaurare un solido rapporto di fiducia con un singolo medico provoca

fraintendimenti e incomprensioni.

Nei luoghi di ricovero le cure spesso sono fornite in maniera anonima da sconosciuti che vogliono

imporre una autorità messa ormai in discussione anche a livello sociale e che non si dimostra

convincente quando è necessario scegliere la migliore tra le numerose terapie o diagnosi, oppure

quando è necessaria una corretta informazione mirata ad un consenso non limitato alla firma di un

modulo.

Affinché un rapporto sia davvero condiviso è necessario che il medico sia disposto a mettere in

comune col paziente non solo le scelte, ma anche le condizioni di dubbio e di ignoranza,

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ricordando che alcuni soggetti, messi di fronte all’incertezza vengono incoraggiati a prendere

decisioni, mentre altri diventano incapaci di scegliere perché presi dall’ ansia.

Opzioni del paziente

Comunicazione – Informazione – Decisione

I medici dovrebbero prescrivere informazioni oltre che ricette. In effetti, quando un paziente

prende una decisione in seguito di una esaustiva informazione, sono migliori gli esiti e più bassi i

costi.

Nell’incontro, medico e paziente, sono detentori di abilità che permettono di instaurare un legame

di cooperazione e intersoggettività. Il paziente è esperto di se stesso, delle circostanze sociali in cui

si sviluppa la malattia, del suo corpo, della sua personale esperienza di malattia, di valori e di

preferenze.

Malgrado l’enfasi sulla necessità che decisioni, scelte e responsabilità siano condivise nel rapporto

con i medici, molti pazienti non dichiarano le loro preferenze o non prendono parte attiva alla

gestione della propria salute.

- I giovani sono più critici ed esprimono maggiormente la loro volontà;

- Gli anziani ed i malati più seri preferiscono essere guidati perché abituati ad un modello più

paternalistico di rapporto con il medico, oppure temono di prendere decisioni sbagliate.

- La preferenza del paziente su un approccio più direttivo o più collaborativo, varia in base all’età,

alla condizione sociale, al fatto di essere o no fumatore (i fumatori vogliono decidere di più) e

dal fatto che sia presente un problema fisico o psicologico.

- Quando il paziente ritenga di avere un buon insight e quando è alle prese con malattie mentali

(es. depressione) o cambiamento di stile di vita, preferisce contribuire alle scelte ritenendo di

saperne di sé più del medico.

Se il medico dedica al malato un tempo adeguato potrà distinguere chi assume un ruolo più attivo

da chi sceglie un ruolo inerte. Un tempo troppo breve della visita può essere elemento di strappo

nel rapporto, una terminologia medica difficile per il paziente frappone ostacoli alla

comprensione e rappresenta un elemento di potere che vanifica il costituirsi di un’atmosfera

favorevole alle decisioni consapevoli.

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Malgrado l’idea che tutti desiderino partecipare alle scelte, non sembra molto evidente che i

pazienti vogliano collaborare davvero attivamente alle decisioni. Il consumismo ha abituato le

persone a voler sapere di più, ma non le ha impegnate ad una maggiore responsabilizzazione.

Per il medico è più saggio non generalizzare ed orientarsi ad ogni singolo paziente per capire il

livello di coinvolgimento che ciascuno desidera. Uno stesso individuo pretenderà maggiore o

minore coinvolgimento a seconda del problema che deve affrontare ed in base ai suoi eventi di

vita, al momento che attraversa, alle condizioni di contesto. Potrà accadere che il medico, nella

stessa giornata si comporti diversamente con ciascuno dei pazienti.

In un rapporto di partnership tra medico e paziente, capacità umane, informazioni complete,

comunicazione efficace, abilità ad ottenere fiducia, sono elementi che promuovono l’evoluzione

del rapporto dalla dipendenza verso la collaborazione facilitando le decisioni, l’espressione delle

opinioni, la valutazione dei rischi.

Comunicazione

Secondo Habermas quando si comunica si hanno pretese di validità universale che riguardano la

chiarezza, la veridicità, l’onestà che nella situazione discorsiva dovrebbero essere presenti e

rispettati integralmente.

I più frequenti schemi di comunicazione utilizzati dalla coppia clinica sono i seguenti:

- Rigidamente biomedica: le comunicazioni si limitano ai fatti esclusivamente clinici:

- Biomedico allargato: c’è qualche apertura nei confronti di alcuni aspetti di contesto.

- Biopsicosociale: il medico considera il paziente immerso nel suo contesto sociale ed è

disponibile ad accogliere e ad inviare comunicazioni che si riferiscono alla intera vita della

persona.

- Consumistico: caratterizzato da un uso del medico che deve rispondere alle domande del

paziente in termini strettamente limitati alle sue esigenze.

Quando un medico ed un paziente comunicano tra loro, non si trasmettono dei dati asettici, si

scambiano altri messaggi sotto forma di emozioni, valutazioni sulla relazione in corso tramite

comunicazioni implicite, impulsi e pensieri non consci. Ogni azione, ogni movimento fisico

assume una funzione di comunicazione. Il medico deve esserne consapevole così da poter

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utilizzare questa risorsa per diventare “Un negoziatore, un consulente, agente del cambiamento e

manager della sicurezza”.

Comunicazioni confuse producono mezze verità che affondano le radici nel terreno

dell’informazione mancante (Mitchell 1996).

Il paziente ha bisogno di demitizzazione, di comunicazioni chiare, di verità. E’ necessario renderlo

più abile ad esprimersi sia prestandogli ascolto, sia suggerendogli maggiore consapevolezza dei

suoi modi di narrarsi, sia discutendo con lui il significato delle parole usate per spiegare il

malessere.

Non ci si preoccupa degli elementi che favoriscono o inibiscono le persone a chiedere chiarimenti

e informazioni. Spesso il paziente sente di non avere a disposizione una situazione ambientale

favorevole a porre domande in quanto il tempo è limitato, lo studio affollato, il medico interrompe

subito. E’ meglio tacere o assumere le informazioni che si possono ottenere con più calma dai

media, dal vicino di casa o dal farmacista.

Informazione

La struttura delle conversazioni che forniscono informazioni mostra che le persone che stanno

dialogando conoscono cose diverse e condividono un argomento comune. Una conversazione

efficace implica che siano riconosciute ed affrontate le parti mancanti di una conoscenza e

credenza condivise (Fonagy).

Quando il paziente riceve informazioni in modo adeguato, è più probabile che prenda decisioni

autonome, diverse da quelle del medico. Nelle informazioni fornite al paziente si sottolineano di

solito gli aspetti positivi e si sottostimano i rischi o gli effetti collaterali. Si tende inoltre a dare

suggerimenti prescrittivi piuttosto che facilitanti.

Invece si dovrebbero dare indicazioni sulla storia naturale della malattia e sui risultati che si

possono ottenere realisticamente per modificarne il decorso.

Il materiale stampato che si distribuisce negli studi medici è spesso inadeguato, semplicistico e

consolatorio o, all’opposto, troppo tecnico ed incomprensibile.

La tecnologia interattiva e l’ascolto di narrazioni audio coinvolgono maggiormente il paziente con

un aumento della comprensione del problema. Se il soggetto si sente implicato, gli si riduce il

conflitto decisionale e lo si stimola ad un ruolo più attivo nel prendere decisioni senza aumentarne

l’ansia e riducendo così l’incertezza nelle scelte.

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Decisioni – valori – opinioni – rischi

Le decisioni si basano su una valutazione dei rischi, sui valori personali, sulle opinioni. Se il

paziente sceglie in modo contrario alle convinzioni del medico, è importante impostare discussioni

senza pregiudizi. Il paziente ha filtrato le informazioni attraverso il suo sistema di credenze ed ha

deciso se ciò che gli viene raccomandato è desiderabile nel contesto della sua vita quotidiana. E’

quindi importante che il medico ne identifichi i valori, che possono variare da una volta all’altra di

fronte a scelte differenti e si basano su convinzioni individuali, soggettive.

I valori che guidano le scelte sono:

a) Convenienza: quale opzione è più breve e rapida?

b) Sicurezza; che cosa dà maggiori garanzie di risolvere la malattia?

c) Sopravvivenza: quanto è lunga la sopravvivenza a seconda della decisione?

d) Salute: fino a che punto è possibile tornare alla normalità?

e) Integrità del corpo: quale scelta manterrà al corpo la maggiore integrità?

Importante per prendere una decisione che riguarda la salute è la conoscenza di che cosa è più

probabile che accada, eppure di fronte ad una decisone così importante chi è malato è spesso

confuso e pertanto incompetente. Se è coinvolto in una scelta consapevole, esiste la possibilità che

essa corrisponda meglio ai suoi valori, se si tiene conto dell’elemento temporale, valore molto

personale, forse la sua scelta sarà più ponderata. Certamente non tutti i casi sono uguali e non può

esserci un approccio standardizzato per tutti, ci sono situazioni in cui è più facile mettere al

corrente il paziente e altre in cui è possibile farne a meno.

Le situazioni in cui è d’obbligo rendere esplicite le scelte del paziente (Taylor 2000) sono:

Quando ci sono differenze rilevanti nell’esito della malattia (morte rispetto a usabilità)

Quando ci sono grandi differenze tra le probabilità di complicazioni dei vari trattamenti

Quando la scelta implica compromessi tra gli esiti a breve e a lungo termine

Quando da una delle scelte può derivare una piccola speranza in una grave situazione

Quando l’apparente differenza tra opzioni è marginale

Quando un paziente è particolarmente poco propenso ad assumersi dei rischi

Quando un paziente attribuisce una importanza insolita a certi possibili risultati

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Il medico è abituato ad un repertorio di valutazioni sempre uguali sulla base della sua esperienza.

Quando la decisione viene concessa al paziente cambia tutto, si ritiene che egli non abbia i mezzi

per giudicare consapevolmente i fatti, inoltre il modo in cui le opzioni gli vengono presentate

hanno un’importanza critica nel determinare la sua scelta. Le decisioni dipendono dalle indicazioni

mediche, dipendono soprattutto dalle preferenze del soggetto, dal suo giudizio sulla qualità della

vita e da circostanze legate alle sue credenze sociali e religiose. Le persone compiono scelte

differenziate anche nei vari stadi della malattia, pertanto non si può utilizzare un criterio rigido.

Per giungere ad una decisione condivisa, anche il paziente deve possedere competenze, deve

sapere che tipo di rapporto vuole, essere consapevole di ciò che capita, saper chiedere e sapere

cosa vuole sapere.

Molti medici credono di potersi limitare a fornire una informazione corretta senza partecipazione

personale, mantenendo un atteggiamento estraneo.

La presentazione neutrale viene considerata l’ideale rispetto a quella che enfatizza i lati positivi o

negativi di una scelta, ma bisogna chiedersi se esista o sia un miraggio.

La neutralità nelle scelte terapeutiche o diagnostiche da un lato si associa al mito della non

direttività evitando la manipolazione, come atteggiamento di rispetto nei confronti del paziente e

della sua autonomia, mentre dall’altro si identifica con la possibilità di assumere una posizione

“meta” e di cogliere quanto sta accadendo nella scena terapeutica come continuamente

condeterminato da tutti e due gli attori.

Una concreta condivisione migliora i risultati dell’incontro.

Ci sono persone che non vogliono correre alcun rischio, altre che accettano di bilanciare rischio e

beneficio ed alcune che sono disponibili agli azzardi. La scelta definitiva di fronte a un dilemma

medico può emergere da un negoziato che avviene prima all’interno del nucleo familiare e poi tra

un medico partecipe ed un paziente fiducioso.

Alcuni medici affermano di spiegare tutto ma di mettere le cose in modo che alla fine il paziente

finisce per fare quello che vogliono loro. Spiegazioni su infermità e trattamento vengono

presentati in maniera manipolatoria. Il medico smaliziato è consapevole di quanto la forma con cui

presenta i fatti possa modificare le valutazioni del paziente e quanto molto spesso egli debba

decidere in una situazione dominata dall’ansia di una notizia inquietante appena ricevuta.

In tali condizioni è normale che il malato si affidi a qualcuno che lo sollevi dalla fatica di

scegliere proprio nel momento più critico.

Occorre evitare sia il percorso della neutralità assoluta, sia quello della mistificazione sleale, verso

un orientamento in cui vigano onestà intellettuale e consapevolezza partecipe della soggettività.

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SITUAZIONI DI SVANTAGGIO IN SOGGETTI CON PATOLOGIE LIMITATIVE

DELLA DEAMBULAZIONE, DELLA VISTA, DELL’UDITO E DELLA PAROLA

Disabili motori

Disabili della vista

Disabili dell'udito

Disabili mentali/cognitivi

Epilettici e Autistici

Premessa

Le menomazioni fisiche sono di svariata natura. Spesso le menomazioni visibili sembrano più

serie di quanto lo siano effettivamente. È quasi incredibile come, invece, si riesca ad adattarvisi: vi

sono sciatori con una sola gamba, nuotatori privi degli arti inferiori, casalinghe con un solo

braccio, paralitici esperti in elettronica e così via. Queste persone, con le capacità loro rimaste,

sono riuscite a sviluppare nuove abilità e a compensare la perdita subita. Di contro altre

menomazioni, come ad esempio quella di chi è debole di vista (ipovedente) o sordo, poiché non

sono evidenti, molte volte non vengono prese in considerazione.

Il materiale che segue, è stato preparato in Svizzera da un équipe di esperti del settore

dell’Educazione Speciale. Si tratta di suggerimenti utili per avvicinare, comunicare ed

eventualmente aiutare una persona disabile. Sono stati individuate cinque categorie di disabili

(disabili motori, disabili della vista, disabili dell'udito, disabili mentali/cognitivi, epilettici e

autistici) con suggerimenti mirati su come rapportarsi correttamente con loro.

Disabili motori (persone con problemi agli arti)

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Esiste una grande differenza tra persone paralizzate negli arti inferiori (paraplegici) e invalidi che

non possono usare né gambe né braccia (tetraplegici). I primi sono pienamente efficienti nella

parte superiore del corpo, mentre gli altri spesso dipendono dall'aiuto altrui in molte situazioni

quotidiane (mangiare, vestirsi, azionare la carrozzella per muoversi, scrivere, ecc.). Anche nel caso

di problemi che riguardano gli arti superiori, diverso è il caso di chi dispone ancora di un braccio

(che può ad esempio radersi, vestirsi e perfino guidare l'automobile) rispetto a chi ne è privo. Chi

invece ha menomazioni alle mani ha bisogno di essere aiutato solo in azioni particolari, ad

esempio stappare una bottiglia, aprire una lattina, tagliare il pane o portare oggetti. Le persone con

difficoltà di deambulazione in genere apprezzano chi si adegua alla loro andatura, chi le protegge

nella calca, le aiuta a salire le scale o a portare oggetti e chi li soccorre quando il fondo stradale è

difficile, soprattutto in inverno. Uno dei loro maggiori problemi è salire o scendere dai mezzi

pubblici.

Molte di queste persone possono essere a disagio per il comportamento della gente nei loro

confronti. Soprattutto il disabile su sedia a rotelle può incontrare persone che gli danno del tu,

battendogli familiarmente una mano sulla spalla, accarezzandolo e parlandogli come a un

bambino. Altri lo ignorano completamente, intrattenendosi solo con il suo accompagnatore. I

disabili costretti ad usare le stampelle possono necessitare di aiuto per sedersi o alzarsi, nonché per

superare l'ostacolo delle scale. Il solo atto di porgere la mano costituisce per molti di loro un

problema. Alcuni non sanno dove appoggiare le grucce, altri non possono privarsene senza correre

il rischio di perdere l'equilibrio.

Come comportarsi con i disabili motori

Parlando in particolare di persone su sedia a rotelle, ricordiamo che più si è naturali, più tutto

diventa semplice. Ecco alcuni suggerimenti.

Regola principale: trattate l'individuo in carrozzella da pari a pari: non fare mai nulla senza prima

chiedergli che cosa desidera.

Se è accompagnato da una persona, evitate di rivolgervi principalmente o solo al suo

accompagnatore. Se invece lo state accompagnando, evitate atteggiamenti troppo protettivi,

se un bambino o un'altra persona parla direttamente a lui, consideratelo come un fatto

normale.

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Il disabile ha piacere di vedere con chi parla senza dover allungare il collo: in caso di

colloqui prolungati sedete alla sua stessa altezza.

Tra la folla, spingete la carrozzella con prudenza. Il disabile sarebbe molto imbarazzato se

andasse a urtare qualcuno.

Nell'attraversare una strada con traffico intenso e nel superare i gradini, la persona su sedia

a rotelle si sente completamente nelle mani dell'accompagnatore: una discesa rapida

diventa un incubo.

Disabili della vista (ciechi e ipovedenti)

La cecità è una delle menomazioni più facilmente "constatabili": basta chiudere gli occhi. La realtà

però è ben diversa. Chi vede, infatti, ricorda tutto quanto hanno captato i suoi occhi: sa come è

fatto un bicchiere, come funziona un ascensore, come si compone un numero telefonico, come si

usa la cucina a gas e mille altre cose ancora. In questo senso esiste anche una differenza tra chi è

cieco dalla nascita e chi lo diventa in seguito a incidente o malattia. Se il secondo caso, per molti

versi, è più traumatico, nel primo occorre trovare la capacità di inventarsi un mondo intero. Ignora

forme e colori e deve servirsi di tutti gli altri sensi per potersi orientare nell'ambiente che lo

circonda. Ciò crea loro numerosi problemi. Il cieco non può, per esempio, leggere in uno sguardo

o interpretare un gesto. Non gli servono né i "qui" né i "là", non può scorgere né un cenno del capo

né un sorriso, non vede da che parte si apre una porta. Inoltre, se il rumore della strada è

assordante, ha spesso difficoltà nel districarsi in mezzo al traffico. Se accompagnato, molte volte

vive nel timore di perdere la sua guida.

La presenza del bordo del marciapiede, che costituisce un ostacolo per la persona su sedia a

rotelle, rappresenta invece per il cieco un valido aiuto per orientarsi. Perciò le zone pedonali

livellate - che nelle città si vanno sempre più diffondendo - sono molto utili per gli invalidi in

carrozzella, per i ciechi costituiscono purtroppo uno svantaggio. Chi è privo della vista ha spesso

difficoltà a partecipare a colloqui, in quanto non sa a chi si deve "rivolgere". Se non conosce la

ragione per cui attorno a lui si ride, diventa insicuro. In poche parole, il cieco ha sempre bisogno di

spiegazioni. Per tutti questi motivi, nei ciechi gli altri sensi si sviluppano maggiormente e meglio.

Con l'andare del tempo il cieco acquista, per esempio, un'eccellente sensibilità tattile (chi però si

lascia toccare volentieri?) o una particolare percezione dei rumori. Nella maggior parte dei casi

riconosce la gente dalla voce. Eppure, malgrado tutte queste capacità, è errato ritenere che i ciechi

possiedano una specie di sesto senso! Molti ciechi vivono in modo autonomo o riescono a

cavarsela bene con l'ausilio del bastone bianco o del cane guida. A prescindere dalla loro

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menomazione, i ciechi sono del tutto uguali agli altri. Poiché però di solito i loro rapporti con il

mondo esterno sono in parte limitati, rischiano di sentirsi soli e abbandonati.

Per gli ipovedenti le cose vanno un po' meglio, ma la loro vita è pur sempre molto difficile.

Possono, è vero, distinguere luci e ombre oppure i contorni dell'oggetto ma, ad esempio,

riconoscono una scala solo dal basso verso l'alto e se devono scendere una rampa fanno fatica a

trovare il primo gradino. E, poiché la loro menomazione non è così evidente, spesso non viene

presa in considerazione.

Come comportarsi con i disabili della vista

Anche in questo caso, è essenziale la naturalezza. Per facilitare i rapporti, è inoltre importante

osservare essenzialmente i punti seguenti.

Avvicinandovi a un cieco, fatevi notare per tempo. Tenente presente che non vi vede e non

conosce la vostra identità. Ditegli quindi anzitutto chi siete.

Non si dovrebbe mai prendere un cieco per un braccio e guidarlo. Offritegli invece il

vostro braccio, che afferrerà al di sopra del gomito. In tal modo non occorrerà suggerirgli

la direzione: con la vostra guida si orienterà. Lo si dovrà precedere soltanto in punti stretti.

Non dimenticate che non può vedere un sorriso o un cenno del capo. Dovete perciò

parlargli.

Avvertitelo quando si sta per attraversare una strada, per lasciare o raggiungere un

marciapiede.

Non allontanatevi mai senza aver preso commiato. È per lui penoso accorgersi di parlare a

una persona che nel frattempo si è allontanata.

 Non seguitelo mai con l'intenzione di aiutarlo in caso di necessità. Egli percepisce la

vostra presenza e si sente a disagio.

Per aiutare un cieco a salire su un mezzo di trasporto pubblico, basta mettergli una mano

sulla maniglia o sul corrimano e avvisarlo se un gradino è particolarmente alto. Trattandosi

di una scala, fategli notare il primo e l'ultimo gradino.

Se desiderate offrirgli un posto a sedere, fategli poggiare semplicemente una mano sullo

schienale della sedia. Trattandosi di una poltrona, occorre accompagnare la mano al

bracciolo e precisare da quale parte è la poltrona stessa.

Quando deve salire su una automobile, fategli posare una mano sul bordo superiore della

portiera aperta. Con l'altra il cieco si orienterà, toccando il tetto della vettura, poi prenderà

posto.

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 Se dovesse aver perso l'orientamento, elencategli semplicemente ciò che gli sta davanti,

dietro, a destra e a sinistra.

Il cieco e il suo cane guida costituiscono un insieme perfettamente affiatato: il cane non va

distratto dal suo compito. Porgete quindi il vostro aiuto solo se espressamente richiesto.

Trovandovi a tavola con un cieco, chiedetegli se potete essergli d'aiuto. Spiegategli che

cosa c'è nel piatto e come sono disposti i cibi sull'esempio di un quadrante d'orologio. Così

gli potrete per esempio dire: i legumi sono sulle ore 6, la salsiccia sulle ore 10, e così via.

Indicategli dove si trova il bicchiere e non riempiteglielo troppo. Se fuma, porgetegli un

posacenere.

Nel dargli qualcosa, chiamatelo per nome e toccatelo leggermente.

Per i ciechi e i deboli di vista l'ordine è molto importante: ogni cosa ha il suo preciso posto.

Nella loro abitazione, mettete sempre al loro posto gli oggetti usati.

Se in un locale, cui sono abituati, viene spostato un oggetto, devono saperlo.

Se li aiutate a togliersi il mantello, dite sempre dove lo posate o l'appendete. In treno,

avvisategli che il bagaglio si trova nella reticella proprio sopra di loro.

Se volete leggere a un cieco un articolo di giornale, elencategli dapprima i titoli, affinché

possa scegliere quello che gli interessa.

Le auto parcheggiate sul marciapiede possono rappresentare per il cieco ostacoli pericolosi.

Ai ciechi parlate sempre con la massima naturalezza e il tono di voce abituale.

Disabili dell’udito (sordi e deboli di udito)

In passato i sordi erano anche muti e venivano perciò chiamati "sordomuti". Mentre la sordità è

perlopiù inguaribile, attraverso una speciale rieducazione terapeutica i muti, con la lettura labiale,

acquistano l'uso della parola. In tal modo da "sordomuti" diventano "sordoparlanti". A volte

imparano anche le lingue straniere. Imparare una lingua servendosi di 25 lettere mai udite è un

lavoro enorme. Tuttavia con l'osservazione acuta e lunghi anni d'esercizio la maggior parte ci

riesce. Il vocabolario del sordoparlante rimane comunque limitato. Conosce soprattutto espressioni

concrete (come molle, duro, quadrato, rotondo), mentre spesso gli mancano quelle astratte.

Incontra difficoltà quando si trova di fronte a sottigliezze linguistiche, come ad esempio

"avvenente", "attraente", o "grazioso" invece di "bello". Siccome non conosce la propria voce,

parla più o meno senza modulazioni e spesso in un tono insolito. Gli manca perlopiù anche la

varietà dei costrutti sintattici. Nonostante queste limitazioni, nella vita di ogni giorno è difficile

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distinguerlo da coloro che ci sentono: anche la sordità è una menomazione invisibile. Poiché a

nessuno piace passare per minorato, il sordo cerca di nascondere più che può la propria

menomazione, per esempio approvando con un cenno del capo anche se non ha compreso nulla di

ciò che si è detto. Per non essere costretto a rispondere, in certi casi evita la gente, esattamente

come si comportano le persone che odono nei suoi confronti, in quanto non osano parlargli. Per

questi motivi, a molti sordi viene a mancare proprio ciò di cui hanno maggiormente bisogno: il

contatto umano, l'occasione di parlare e la possibilità di esprimere i propri sentimenti. Per colui

che non sente, anche la lingua madre è praticamente straniera. Minori sono le occasioni di parlare,

maggiore è il pericolo di perdere la parola. Quindi, se conoscete o incontrate una persona affetta

da sordità, cercate di intrattenervi con lei. Al di là della loro disabilità, i sordi possono partecipare

alla vita normale, esercitano le più svariate professioni e sono, soprattutto tra di loro, persone

allegre e socievoli.

Come comportarsi con i disabili dell’udito

Non parlate mai in dialetto: nelle apposite scuole, il sordo impara solo la lingua

scritta, che gli permette anche di leggere.

Fate in modo che il vostro viso sia sufficientemente illuminato, in quanto egli è

abituato a leggere le parole dal movimento delle labbra.

Non è necessario alzare il tono della voce più del normale: il sordo riesce a capirci

anche se non emettiamo alcun suono.

Non parlate troppo in fretta, ma neanche troppo lentamente; parlate in modo chiaro,

tuttavia senza esagerare.

Sono preferibili concetti chiari e frasi semplici.

Una mimica non esagerata gli consente di capire meglio. I gesti specifici del

linguaggio normativo dei sordomuti vanno usati soltanto da chi li conosce bene.

Ricordate che i sordi non possono seguire contemporaneamente i movimenti delle

vostre labbra e i gesti o la spiegazione di un procedimento lavorativo. Si deve

quindi dapprima indicare o eseguire, poi spiegare.

In presenza di un sordo, non parlate di lui con altri. Dato che non ode, osserva

attentamente ogni movimento e ogni sguardo onde potrebbe trarne conclusioni

errate.

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Le parole non sempre sono il mezzo migliore per comunicare con un sordo. Spesso

è più eloquente un cenno amichevole, l’invito a prendere un caffè, ecc.

Spesso il sordo vede e avverte con straordinaria sensibilità ciò che non sente. Tale

prerogativa può influire sul suo comportamento.

Ogni persona priva dell’udito è lieta se si cerca di parlare o di farla entrare in una

conversazione: provateci!

Accertatevi che il debole d’udito abbia ben capito tutto. Ciò è particolarmente

importante in caso di accordi. Se necessario, ripetete quanto detto eventualmente

con altre parole o formulando le frasi diversamente.

Cercate di far partecipare il debole d’udito alla conversazione di gruppo e

informatelo sul tema di discussione, se necessario con brevi cenni scritti.

Aiutatelo sul posto di lavoro, avendo cura che riceva in modo esatto le informazioni

e le comunicazioni importanti.

Non scordatevi che, per seguire il filo del discorso, il debole d’udito deve

concentrarsi al massimo e quindi si stanca più rapidamente di una persona normale.

Se la conversazione è lunga, fate di tanto in tanto una pausa.

Incoraggiate chi sente poco a sfruttare ogni possibilità di aiuto disponibile (consultazione di

otoiatri, applicazione di apparecchi acustici, terapie d’ascolto). Ciò gli consentirà di migliorare i

contatti umani.

Disabili mentali / cognitivi

Anche per questi disabili è necessario il contatto con le persone normodotate. Generalmente il

disabile mentale facilita i rapporti: per natura non è né inibito né diffidente, ma disponibile. La sua

intelligenza ridotta non deve però indurre a parlargli un linguaggio infantile, in quanto il più

debole di mente capisce spesso molto più di quanto si supponga. Molti hanno inoltre una memoria

particolarmente buona. Non è giusto che a un debole di mente adulto si dia del “tu” come a un

bambino, anche se ha un’intelligenza a livello puerile. Ha diritto al “Lei” esattamente come

qualsiasi maggiorenne normale, a meno che non si convenga di adottare reciprocamente il “tu”.

Nei rapporti con il disabile mentale va considerato che non agisce con la ragione. Il suo animo è

comunque aperto alla bontà e alla comprensione. I bambini subnormali reagiscono con estrema

sensibilità alle dimostrazioni d’affetto e alla lode. In seno alla propria famiglia hanno quindi la

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migliore possibilità di svilupparsi. Il rapporto con loro richiede spesso molta pazienza. Le cose

vanno costantemente ripetute. Non si deve mai chiedere troppo in una volta bisogna procedere

lentamente e gradatamente, mostrando loro come va eseguita un’azione completamente nuova. E

naturalmente non si devono tralasciare controlli e lodi. Non siate parchi di complimenti: ogni

buona parola infonde loro fiducia in se stessi e li incita a progredire.

Come comportarsi con i disabili mentali

Rispondete sempre alle loro domande, anche se talvolta sono imbarazzanti o vengono poste

ad alta voce.

 Molti disabili mentali si servono dei mezzi di trasporto pubblici in modo del tutto

autonomo e conoscono esattamente il loro percorso. In prossimità della meta, temendo di

andare oltre, si precipitano con timor panico verso l’uscita. Una deviazione dal tragitto

normale può disorientare completamente un disabile mentale: nella maggior parte dei casi

non è più capace di ritrovare la via di casa. In una situazione del genere chiedetegli dov’è

diretto oppure il suo numero di telefono e avvertite quindi i responsabili.

I bambini hanno un rapporto con i disabili mentali più naturale degli adulti. Perciò non

impedite mai a un bambino di giocare con un compagno disabile.

Sul posto di lavoro motivate il collaboratore mentalmente disabile; trasmettetegli il

messaggio che si ha bisogno di lui e che ha un compito ben determinato da svolgere.

Epilettici

L’epilessia è una parola che più o meno tutti hanno sentito pronunciare, ma di cui molte persone

non conoscono veramente il significato. La prima domanda da farsi è: cos'è una crisi epilettica?

La crisi epilettica rappresenta la manifestazione tipica della malattia; è scatenata da un improvviso

eccesso di attività delle cellule del cervello. Le crisi epilettiche possono essere paragonate ad una

scarica imprevista di impulsi elettrici non controllati, nel cervello o in parte di esso. La scarica

inizia all’improvviso e termina più o meno rapidamente. Fra una crisi e l’altra generalmente non è

presente alcun disturbo. Perché si possa parlare di epilessia, è necessario che compaiano almeno

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due crisi e che la crisi si presenti nel tempo a intervalli più o meno lunghi. Le crisi epilettiche

possono manifestarsi in tanti diversi modi, con disturbi improvvisi della coscienza, con movimenti

o con sensazioni insolite, a seconda dell’area del cervello colpita. Esistono, per esempio, aree che

controllano i movimenti, il ritmo del cuore e del respiro, centri nei quali si formano il linguaggio e

le emozioni, altri che sono essenziali per la memoria, l’apprendimento e il pensiero. Quando

pensiamo all’epilessia, ci vengono subito in mente la perdita di coscienza, la caduta a terra e la

comparsa di scosse in tutto il corpo, caratteristiche della “crisi del grande male”. Tuttavia esistono

tante forme della malattia, specialmente nel bambino: la conoscenza delle diverse manifestazioni è

estremamente importante perché molte volte l’andamento della malattia diventa nettamente più

favorevole se è identificata in tempo e opportunamente trattata.

Circa 5-10 bambini ogni 100 si ammalano di epilessia.

In circa il 20% dei pazienti l’epilessia compare entro i primi 5 anni di vita; nel 50% dei

casi si sviluppa prima dei 25 anni. Nel 65-85% dei bambini affetti da epilessia non è

possibile identificare una possibile causa specifica della malattia. Un terzo circa dei

bambini affetti da epilessia guarisce entro l’adolescenza.

Grazie ai progressi terapeutici conseguiti negli ultimi anni, in oltre la metà delle persone è già

possibile ottenere una remissione della malattia dopo il primo anno. In ogni caso, tutte le persone

che si ammalano di epilessia possono essere aiutate a non avere ricadute e ad affrontare i problemi

della vita quotidiana; e oggi si può migliorare l’andamento della malattia, perché sta migliorando il

modo di utilizzare i farmaci e di intervenire sulla persona. In particolare, se si ha un bambino con

epilessia è importante il prezioso contributo di tutta la famiglia. A volte i genitori tendono ad

essere ansiosi e “iperprotettivi” nei confronti di un figlio affetto da epilessia. Tale atteggiamento

può essere dannoso per lo sviluppo del senso di autostima, può creare nel bambino eccessivi

imbarazzi e paura di essere trattato in maniera diversa dai compagni per via della sua particolare

condizione. E' importante parlare apertamente con il bambino e rassicurarlo perché ciò aiuta

ad accettare il proprio disturbo e a vivere serenamente come tutti gli altri bambini.

Informazioni utili nel caso di una crisi epilettica

In presenza di una crisi le cose da fare sono le seguenti:

Se la persona cade, tenerla distesa su un fianco senza bloccarle i movimenti

Metterle qualcosa di morbido sotto la testa

Osservare bene che cosa succede durante la crisi

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Aspettare che la crisi passi

Tranquillizzare la persona quando si riprende

E soprattutto non spaventarsi!

Nel corso di una crisi è consigliabile chiamare il medico soltanto quando:

La crisi dura più di 5 minuti

La persona stenta a riprendersi

Manifesta una seconda crisi

Ha difficoltà a respirare

Sono evidenti lesioni o ferite.

Autistici

Le persone autistiche hanno diversi comportamenti. Alcuni sono molto ripiegati su se stessi e sono

quelli che hanno fatto coniare questo termine autismo. Altri hanno dei comportamenti più legati a

una necessità di ripetere gesti, parole, di avere riferimenti costanti ripetitivi. Non sembrano tanto

ripiegati su loro stessi quanto organizzati in una forma quasi coattiva, che non permette loro di

liberarsi o di affrontare facilmente le situazioni nuove. L’autismo ha quindi al suo interno

caratteristiche differenti – per questo, alcuni studiosi preferiscono parlare di autismi - e può essere

ricondotto a una difficoltà: la reciprocità. Le persone autistiche hanno delle difficoltà a stabilire

delle reciprocità. È utile sapere che avere dei comportamenti chiari, dei riferimenti costanti, un

quadro organizzato di tempo e spazio, aiuta la persona autistica: permette, per esempio, di stabilire

delle buone relazioni. La comunicazione è una ricerca ed è facilitata se vi è chiarezza di

riferimento agli oggetti, allo spazio, al tempo. È agevolata anche se il nostro stesso modo di porci

nei confronti di una persona autistica è capace di superare l’impaccio e la paura, sviluppando una

certa chiarezza di espressione. Se anche non è recepita immediatamente, si apre alla possibilità a

che sia recepita in seguito. Non sempre la ricezione della comunicazione è manifesta, proprio per

questa difficoltà di reciprocità. E’ quindi necessario vivere una situazione con perseveranza. Nella

perseveranza, la considerazione dell’altro e della sua dignità umana, dovrebbe portare ad escludere

comportamenti violenti o persecutori, per scegliere invece atteggiamenti chiari e dolci, fermi e

tranquilli, ripetuti e aperti al nuovo.

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PER UN CORRETTO RAPPORTO CON LA DISABILITA'

Il rapporto fra individuo disabile e disabilità

La perdita di autonomia

La curiosità della gente

No alla compassione

La capacità di aiutare

La menomazione invisibile

Le regole della vita civile

Le buone prassi

In queste pagine si affronta il problema in un duplice aspetto, parlando sia delle relazioni fra

persone disabili e persone non disabili, sia del rapporto dello stesso soggetto disabile con la

propria disabilità. Anche la persona disabile ha infatti un rapporto con la disabilità. Il termine

disabilità,  a volte viene sostituito da diversa abilità, diversamente abile. E’ giusto, ed indica già

uno sviluppo di questo tema: quale rapporto? Il rapporto è alla ricerca del superamento

dell’immagine che blocca, per invece scoprire e valorizzare qualcosa. Ma il tutto si complica se la

scoperta è difficile e se anche realizzandola si tende a non prendere in considerazione la disabilità

banalizzandola e perdendone il senso, nella costruzione della relazione.

  Il rapporto fra individuo disabile e disabilita'

Chi ha una menomazione, deve considerare la propria vita in termini diversi da chi non ce l'ha. Ma

la diversità non sta nel negare uguali aspirazioni, uguali bisogni; sta nel capire che occorre un

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percorso originale. E’ come se l’immagine dell’altro o dell’altra venisse percepita dalla persona

disabile con la necessità di subire una trasformazione. Se, ad esempio, il percorso della mano abile

per raggiungere un oggetto è immediato, per il disabile l’immagine non può essere imitata senza

un adattamento particolare o, se vogliamo usare un termine noto, speciale. Deve in qualche modo

adattare quel percorso, o quel movimento, che vede fare in maniera istintivamente diretta, alla

propria situazione, e quindi deve compiere delle riorganizzazioni delle informazioni che gli

giungono semplicemente vivendo accanto ad altri. E così può essere per quanto riguarda le

conquiste quotidiane degli oggetti di cui un disabile può avere bisogno. Può organizzare la propria

memoria in modo tale da non basarsi unicamente sulle proprie facoltà, ma avere un aiuto

organizzativo in oggetti materiali, così come chiunque, disabile o meno, può utilizzare un’agenda

per ricordarsi le scadenze e gli impegni.

Forse l’agenda va personalizzata, va organizzata in una maggiore possibilità di autonomia. Questa

attività di ri-organizzazione delle informazioni che giungono a una persona disabile, è un percorso

di apprendimento vero e proprio, ma non di tipo scolastico. Può avvenire anche all’interno dei

percorsi scolastici, ma non necessariamente. Ed è più marcato quando la menomazione, la

disabilità, nasce da un evento traumatico che interrompe il percorso di normalità: un incidente sul

lavoro, un incidente domestico, un incidente stradale. Da qui nascono delle situazioni che hanno

caratteristiche diverse rispetto a quelle proprie di disabili dalla nascita.

Vi sono problemi di accettazione della situazione. Per un disabile, divenuto tale a seguito di un

evento traumatico, vi può essere una difficile accettazione della stabilità della propria disabilità,

ritenendola una fase transitoria, quindi non impegnandosi a organizzare la sua vita sulle

conseguenze permanenti. Oppure vi possono essere delle umanissime ragioni di disperazione per

la condizione in cui ci si trova improvvisamente e una eccessiva richiesta ad altri, perché risolvano

i propri problemi. Questo punto è comune a chi, disabile, vive o ha vissuto in una dimensione che

abbiamo l’abitudine di chiamare assistenziale, una dimensione che è, cioè, costruita attorno alla

disabilità come elemento permanente e quindi con la necessità, altrettanto permanente, che gli altri

si preoccupino di organizzarsi per dare: per dare aiuto, sussidi, risposte, per risolvere i bisogni.

Questo porta molte volte a considerare la propria disabilità come un buon motivo per rimanere un

po’ infantili. Ed è il soggetto disabile che può vivere questa situazione di richiesta continua perché

gli altri risolvano i suoi problemi. Questa situazione è negata, molte volte, ritenendo che sia una

ingiusta accusa nei confronti di chi è disabile. Di fatto è una situazione problematica che non può

essere estesa fuori misura né può far diventare la disabilità una negazione. Sicuramente chi ha

delle sofferenze e chi risolve o pensa di aver risolto le proprie in una situazione che chiamiamo

assistenziale, può rischiare quello che viene chiamato il vittimismo, cioè la possibilità che nasca

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una considerazione positiva del proprio ruolo di vittima. Il soggetto, essendo vittima, organizza

continui e (nella propria aspettativa) permanenti risarcimenti alla sua condizione, evitando di

uscirne, trascurando quindi di ridurre gli handicap, proprio perché tale riduzione potrebbe

comportare la perdita dei vantaggi secondari. Questa è una condizione indotta nei disabili. E’ una

società, la nostra, che ha strutture violente anche quando la violenza non si esprime con delle

azioni in forma diretta: è una violenza sottile che induce il disabile a chiudersi nella propria

condizione di disabile. E quindi questo primo punto va rivolto direttamente a coloro che sono

disabili perché acquisiscano una coscienza dei rischi che possono essere insiti nel rapporto con la

propria disabilità. L’handicappato, il disabile, non ha vita facile: deve imparare molte cose e deve

imparare a diffidare della propria condizione di disabile, non farla diventare una scusante o un

alibi, né tanto meno un “buono” per l’assistenzialismo.

La perdita di autonomia

L’autonomia può essere intesa come una capacità di fare. Riteniamo che si debba invece parlare, e

agire di conseguenza, con riferimento a una capacità di organizzare. Per questo riteniamo che il

passaggio alla condizione adulta di una persona disabile significhi consegnare le chiavi della

propria organizzazione alla stessa persona disabile, in modo tale che possa coordinare i propri

bisogni e le risposte. Anche non sapendo fare una determinata azione, ha la possibilità di

organizzare coloro che fanno. E la necessità è quella che ciò avvenga in maniera tale da non essere

un ingombro, da non risultare un peso. Noi abbiamo molti esempi di disabili che hanno una

particolare dote nel chiedere agli altri in modo tale che la stessa richiesta si trasformi da qualcosa

da ricevere in qualcosa che viene dato agli altri: permettono agli altri di avere un guadagno nel

rispondere alle loro esigenze. Vi sono situazioni in cui l’autonomia ha bisogno di una certa

organizzazione che può indurre a dipendenza, perché può abituarsi ad avere come sussidio sempre

lo stesso personale e gli stessi aiuti umani. Quello che dobbiamo cercare è, invece, la possibilità di

allargare gli aiuti a una rete sociale. Dobbiamo pensare alla costruzione di una rete sociale che

permetta all’autonomia di svilupparsi con maggiori sostegni ottenuti dall’ambiente di vita.

  L a curiosita' della gente

Il rapporto tra disabili e non disabili è spesso caratterizzato da una curiosità invadente e da una

mancanza di attenzione per gli aspetti di privatezza che sono necessari per la vita di tutti. Se, ad

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esempio, un disabile, uomo o donna, deve servirsi di un ausilio per la comunicazione, un rischio

che può correre è quello di dovere esibire la comunicazione sempre a tutti coloro che sono

presenti, senza potere riservare la stessa unicamente a quelli che ritiene di dovere prendere come

interlocutori confidenziali. L’esibizione alla curiosità è uno dei punti su cui vorremmo richiamare

l’attenzione.

  N o alla compassione

Essere oggetto di compassione da parte degli altri in maniera permanente è una perdita di dignità

reciproca. L’atteggiamento pietistico nei confronti di una persona disabile significa pensare

sostanzialmente in termini di "poverino" o "poverina", ed è una modalità di rendere l’altro

stabilmente inferiore, subordinato. Fa scattare delle ribellioni o degli adattamenti nocivi ai

rapporti. La ricerca di comprensione può essere a volte anche caratterizzata dalla necessità di

vincere la resistenza al dover far ripetere le cosa a un disabile che parla con delle difficoltà a

essere capito o capita. A volte succede che chi ascolta ritiene di non dover chiedere di ripetere,

accetta quello che arriva senza capirlo, sorride e non ha capito; e questo è un grave limite che va

nell’ordine della compassione, poco utile se non addirittura dannosa. Il compianto per l’altro fa sì

che l’altro diventi non solo disabile ma soprattutto marginale e, anche non volendolo, soggetto

che chiede l’elemosina, povero alla porta dei ricchi abili.

  L a capacita' di aiutare

Aiutare è importante, aiutarsi è più importante. Mantenere aperta una possibilità di reciprocità

dell’aiuto significa evitare di trasformare i rapporti in rigide organizzazioni di aiuto che possono

suscitare vittimismo. Se un handicappato, uomo o donna, ha bisogno di essere aiutato negli

spostamenti, l’aiuto va fatto in maniera discreta, senza spettacolarizzare quello che si fa ma

cercando di mantenerlo nella dimensione della riservatezza, evitando gesti clamorosi che possono

infastidire, confidenze eccessive che sarebbero legate a una conoscenza e a un’amicizia che non

c’è. Prendere una persona quasi in braccio non è certamente e sicuramente far provare a quella

persona un piacere: può essere imbarazzante. Eppure succede che vi siano tante volte situazioni in

cui il civismo venga sostituito nella mente di chi non è invalido, non è disabile, dalla voglia di

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eroismo: non osservare le regole del civismo ed essere pronti a portare in braccio l’altro, disabile,

per permettergli di raggiungere un certo luogo. No, non è questo quello che una persona disabile

desidera, e non è neanche quello che può far bene alla costruzione di un rapporto utile a tutti.

 L a menomazione invisibile

A volte abbiamo a che fare con soggetti che hanno delle difficoltà e non sono immediatamente

percepiti come disabili; e quindi possono esservi risposte inadeguate, brusche, impazienti, perché

non ci siamo accorti che l’altro, uomo o donna, è - ad esempio - sordo, o sorda, oppure non vede

bene, ha delle difficoltà a mettere a fuoco il foglio su cui sono segnate le spiegazioni per un certo

servizio. Noi potremmo dare l’impressione di essere bruschi, impazienti, duri, e poi, se

improvvisamente ci accorgiamo che l’altro ha qualche disabilità, siamo presi da un senso di colpa

che può rendere ancora più difficile un rapporto. Cosa fare? Parlare, dire con franchezza quello

che è accaduto e chiedere scusa; questo a volte serve proprio ad alleggerire una tensione che,

molto probabilmente, è reciproca. E’ difficile per chi ha una disabilità invisibile, uomo o donna

che sia, immediatamente dire: “Attento tu che mi guardi, tu che mi ascolti!. Attento, perché sono

un o una disabile”. E’ difficile: non è proponibile, non è esigibile. Se nella relazione scatta questa

difficoltà si può, molto più facilmente di tante difficili azioni di recupero senza parole, parlare e,

chiedendo scusa, riparare.

Le regole della vita civile

Non abbiamo molte regole da osservare, ma alcune sono fondamentali: ricordiamoci! Andando in

automobile:se c’è un posteggio con il contrassegno per persone disabili, rispettiamolo. Non

pensiamo: “Visto che non c’è nessun disabile nelle vicinanze mi è più comodo appoggiare la mia

automobile qui che non cinquanta metri più in là”. Atteniamoci invece a questo segnale.

Prendiamolo come un elemento stabile nella nostra condotta di persone civili che hanno capito

come la realtà sia anche fatta di disabili. Facendo invece un’operazione che ritiene che tanto il

disabile sia un’eccezione, noi potremmo mettere in difficoltà proprio chi, disabile, sta arrivando

alla stazione di servizio con la necessità di potere rapidamente accedere – per esempio – alla

toilette, e non riesce a trovare il posto macchina adatto, con gli spazi attorno utili per scendere

dall’automobile; se è solo o sola e gli viene negata questa organizzazione nelle sue possibilità, non

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può far scendere la carrozzella e montarci sopra, e di conseguenza non può accedere alla toilette,

andare al bar… Ricordiamoci che:i marciapiedi e i portici, sono fatti per il transito del passante

agile che può anche districarsi tra biciclette, motorini e ostacoli vari, ma non solo. Servono anche

alla persona cieca che procede con un bastone, esplora, ma ha bisogno di uno spazio sempre

transitabile (non di un percorso di guerra!) o alla persona in carrozzella che ha bisogno dello

spazio per passare, o a chi deve appoggiarsi alle stampelle. L’ingombro sui marciapiedi, causato

da una macchina posteggiata dove non dovrebbe o da una bicicletta messa di traverso, non è il

segno di un buon aiuto civile. E’ segno di una grave disattenzione.

I passaggi delle carrozzelle per accedere agli uffici: a volte non si pensa, ed è colpevole questa

spensieratezza, che per accedere a un edificio da una strada, bisogna lasciare dei varchi a chi in

carrozzella deve avere spazio sufficiente per transitare. E invece i varchi sono chiusi da uno

schieramento di motociclette, di biciclette, di motorini. Anche questo è un grave fatto di

disattenzione colpevole. Queste piccole regole nell’organizzazione della vita civile sono

assolutamente trascurate nel nostro paese. Abbiamo un triste primato: l’inosservanza di queste

poche, semplici attenzioni, costanti, non straordinarie.

  L e buone prassi

Ormai entrata nell’uso comune delle lingue europee, l’espressione “buone prassi” indica le azioni

necessari a trasformare le organizzazioni culturali, sociali, istituzionali, perché tengano conto di

una realtà completa e non amputata.  Amputata di che cosa? Di tutto ciò che non rientra nel

concetto di normalità, e che proprio per questo sparisce dall’attenzione di chi costruisce quelle

organizzazioni. Sembra un discorso scontato, ma non è così. Chi progetta la rete dei trasporti, i

servizi bancari e postali, le stazioni ferroviarie, le biblioteche e le aule universitarie ha in mente

degli "standard": un’astratta “gente normale”. E non già una realtà che contiene concretissime

differenze, tra queste, le disabilità. Adottare buone prassi significa quindi sforzarsi di conoscere

meglio la realtà, per progettare strutture più utili e funzionali e che si perfezionano di giorno in

giorno. Le stazioni ferroviarie ne sono un esempio:più volte abbiamo rilevato, con il contributo

di persone disabili, che il personale delle ferrovie ha una disposizione d’animo assai positiva, ed è

quindi capace di risolvere molte situazioni difficili. Spesso ciò avviene grazie ad un modello

organizzativo che non è presente in tutte le stazioni ma, dove è presente, è costruito secondo l’idea

di percorsi diversi per esigenze diverse.

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Chi ha una disabilità dovrebbe segnalarsi per tempo, possibilmente con un certo anticipo, per

potere usufruire di servizi personalizzati: accesso al binario attraverso vie diverse da quelle degli

altri viaggiatori, possibilità di accesso a un bagno attrezzato e riservato ecc. Condizioni che, a

guardar bene, possono essere utili non solo ai disabili conclamati, ma pure agli anziani, a chi ha

una gamba ingessata, alle donne incinte o con bambini piccoli da controllare, a chi non riesce a

portare il proprio bagaglio, o ancora a chi parla un’altra lingua e appartiene a un’altra cultura.

Pesino fare il biglietto non è sempre così facile per tutti. Certo, una stazione ferroviaria non si

modifica con un colpo di bacchetta magica. E’ però possibile avere in testa un modello ideale e

sfruttare ogni occasione di ammodernamento o di manutenzione per costruire delle buone prassi.

Riconoscere una realtà nella sua ricchezza e nella sua complessità è dunque il fondamento delle

buone prassi. Ma questa non è un’operazione semplicissima. Perché? Il difetto di molti problemi

non è quello di essere insolubili ma quello di essere urgenti. Le stesse persone disabili potrebbero

richiedere qui ed ora percorsi speciali, con disponibilità, sostegni e ausili particolari, piste

facilitate….. La soddisfazione immediata del bisogno, il superamento quale che sia dell’ostacolo –

costi quel che costi e non importa come – non valgono infatti per la progettazione e la creazione di

un sistema organizzativo che elimini o riduca al minimo gli ostacoli. Per questo le persone disabili

devono essere pienamente coinvolte nel momento della progettazione di tale sistema e nella

comprensione logica che governa le buone prassi. Ma una buona prassi esige anche capacità di

conversione delle attitudini e delle abitudini da parte di molte professioni, si potrebbe dire di tutte.

E’ evidente, o dovrebbe ormai esserlo, che le buone prassi riguardano l’organizzazione sociale nel

suo complesso e quindi tutti coloro che ne fanno parte, compresi quelli che mai avrebbero creduto

di doversi occupare di persone disabili. Le buone prassi nascono da un atteggiamento culturale

che vorremmo si diffondesse: quello di chi si sente responsabile, e cerca nelle proprie vicende

umane la competenza da riconvertire in funzione di una rete sociale a cui tutti apparteniamo.

Perché tutti apparteniamo a un gruppo umano che ha bisogni simili, e in questo “noi” vi è tanto la

persona disabile quanto quella atleticamente prestante, tanto la persona giovane quanto quella che

ha una età avanzata, che ha difficoltà di realizzare i suoi compiti, in autonomia, che ha bisogno

degli altri. La persona molto capace di far da sé e la persona molto bisognosa dell’aiuto degli altri

hanno bisogni comuni. E questa è la larga base della piramide. Ciascuno, poi, porterà il suo

vertice verso bisogni più individualizzati, ma sempre appoggiando i piedi su questa base comune.

 

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INDICE

LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA pag. 2

Individuo e società pag. 2

Il concetto di società pag. 3

Cultura e comunicazione pag. 4

Inculturazione pag. 5

INCULTURAZIONE E PROCESSI EDUCATIVI pag. 7

Imitazione e apprendimento pag. 7

La trasmissione culturale e la sua continuità e discontinuità pag. 7

Nuove vie di inculturazione pag. 9

Educazione interculturale pag. 9

DIFFICOLTA’ DELLA COMUNICAZIONE

NELLA DIVERSITA’ LINGUISTICA pag. 11

INTERETNICITA’ E MULTICULTURALISMO pag. 13

Movimenti migratori e politiche di accoglienza pag. 13

Multiculturalismo pag. 13

Problemi di convivenza interetnica pag. 14

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IDENTITA’ ETNOCENTRISMO RAPPORTI INTERCULTURALI pag. 16

ETNOCENTRISMI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI CULTURALI pag. 18

IDENTITA’ – ALTERITA’ – ETNOCENTRISMO pag. 21

Identità individuale e di gruppo pag. 21

Etnicità pag. 22

Alterità- eterofobia-etnocentrismo pag. 23

L’esotismo, l’orientalismo e la reciprocità dello sguardo pag. 24

I VANTAGGI DELLA SOCIALITA’ pag. 26

L’AGGRESSIVITA’ IN ETOLOGIA pag. 28

I vantaggi dell’intolleranza pag. 28

Tornei pag. 28

L’aggressività nell’uomo pag. 29

Gerarchia di rango pag. 32

ANCORAMENTO BIOLOGICO ALLE NORME ETICHE pag. 34

Il valore pag. 34

L’inibizione dell’aggressività pag. 35

La lealtà e l’ubbidienza pag. 37

GLI ANTAGONISTI DELL’AGGRESSIVITA’ pag. 39

Riti che fondano un legame e pulsioni sociative pag. 39

I LEGAMI TRA GLI UOMINI pag. 41

Appello all’assistenza e appello infantile nel comportamento umano pag. 41

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Il legame sessuale pag. 42

La comunità di lotta pag. 42

Collegamento tramite la paura pag. 44

Il saluto pag. 44

CONSOCIAZIONE INDIVIDUALIZZATA E COMUNITA’ ANONIMA pag. 47

LA COMUNICAZIONE ED IL SUO SIGNIFICATO pag. 49

Comunicazione pag. 49

Espressione verbale pag. 49

Processi psico-intellettuali generati dal rapporto di comunicazione pag. 52

LA COMUNICAZIONE NON VERBALE pag. 54

La prossemica pag. 59

Il contatto corporeo pag. 61

L’aspetto esteriore pag. 61

La decodifica delle emozioni attraverso la lettura della C.N.V pag. 62

I diversi approcci allo studio della C.N.V. pag. 63

IL RISCHIO, ELEMENTO CARATTERIZZANTE

DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA pag. 65

Aree della produzione di sicurezza prese in rassegna pag. 66

Teleontrollo, telesorveglianza, teleassistenza pag. 66

Vigilanza, sorveglianza di tipo tradizionale, guardiania ecc. pag. 67

Contractors-operatori della sicurezza in zone di guerra ecc. pag. 67

Sicurezza urbana pag. 68

Sicurezza informatica. Protezione dei dati sensibili,

bancomat, carte di credito pag. 69

Biometria, identificazione personale e controllo degli accessi pag. 70

Prevenzione e gestione delle emergenze ambientali pag. 71

Comunicazione del rischio, comunicazione in situazione di emergenza pag. 72

Gestione dei grandi eventi. Grandi assembramenti di persone ecc. pag. 73

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ANTROPOLOGIA DEL LUTTO pag. 74

La morte e i suoi aspetti pag. 74

La dimensione dell’ignoto pag. 83

Estetica della morte pag. 84

Il suicidio pag. 84

Il suicidio assistito pag. 85

Sacralizzazione della morte pag. 85

Il morire per gli altri pag. 86

LE PATOLOGIE DELL’ANZIANO, L’INTERRELAZIONE,

IL RAPPORTO COMUNICATIVO-TERAPIE pag. 87

L’invecchiamento fisico pag. 87

L’invecchiamento psichico pag. 88

Fattori che influenzano i processi di invecchiamento pag. 89

La creatività pag. 90

Il rapporto nonno-nipote pag. 91

Le speranze e i timori pag. 91

QUANDO ESSERE VECCHI SIGNIFICAVA SAGGEZZA pag. 93

PARTNERSHIP E FIDUCIA NELLA RELAZIONE

MEDICO-PAZIENTE. Dal paternalismo alla cooperazione pag. 95

Trasformazioni pag. 95

I modelli pag. 96

La realtà pag. 97

Opzioni del paziente pag. 99

Comunicazione pag. 100

Informazione pag. 101

Decisioni-valori-opinioni-rischi pag. 101

SITUAZIONI DI SVANTAGGIO IN SOGGETTI

CON PATOLOGIE LIMITATIVE pag. 104

Premessa pag. 104

Disabili motori (persone con problemi agli arti) pag. 104

Come comportarsi con i disabili motori pag. 105

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Disabili della vista (ciechi e ipovedenti) pag. 106

Come comportarsi con i disabili della vista pag. 107

Disabili dell’udito (sordi e deboli di udito) pag. 108

Come comportarsi con i disabili dell’udito pag. 109

Disabili mentali /cognitivi pag. 110

Come comportarsi con i disabili mentali pag. 111

Epilettici pag. 111

Informazioni utili nel caso di una crisi epilettica pag. 112

Autistici pag. 113

PER UN CORRETTO RAPPORTO CON LA DISABILITA’ pag. 114

Il rapporto fra individuo disabile e disabilità pag. 114

La perdita di autonomia pag. 116

La curiosità della gente pag. 116

No alla compassione pag. 117

La capacità di aiutare pag. 117

La menomazione invisibile pag. 117

Le regole della vita civile pag. 118

Le buone prassi pag. 119

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