LA SAPIENZA della CROCE - Passiochristi | Congregatio ... · 2 J. Ratzinger-Benedetto XVI,...
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LASAPIENZA
CROCEdella
Direttore responsabileAdolfo Lippi c. p.
Direttore amministrativoVincenzo Fabri c. p.
Cattedra Gloria CrucisComitato scientificoFernando Taccone c. p. - Piero Coda Antonio Livi - Denis Biju-DuvalAdolfo Lippi c. p. - Gianni Sgreva c. p.A. Maria Lupo c. p.
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CollaboratoriTito Amodei - Max Anselmi - Carlo BaldiniVincenzo Battaglia - Luigi BorrielloMaurizio Buioni - Giuseppe ComparelliMassimo Pasqualato - G. Marco SalvatiSalvatore Spera - Flavio TonioloGianni Trumello - Tito Zecca
Redazione:La Sapienza della CrocePiazza SS. Giovanni e Paolo, 1300184 RomaTel. (06)77.27.14.74Fax 700.80.12e-mail: sapienzadellacroce@ tiscali.ithttp./www.passionisti.it
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Progetto grafico: Filomena Di Camillo
Impaginazione: Florideo D’Ignazio
ISSN 1120-7825
Rivista trimestrale di cultura e spiritualità della Passione a curadei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucis dellaPontificia Università Lateranense
ANNO XXV - N. 1GENNAIO-MARZO 2010
EDITORIALE
Esiste e come si sostieneun’etica sociale laica?
di ADOLFO LIPPI C.P.
Ricordo di MonsignorPier Giorgio Silvano Nesti
SACRA SCRITTURA e TEOLOGIA
Un incontro provvidenziale:Newman e i Passionisti
di ADOLFO LIPPI C.P.
Il Sacerdozio di Cristo e del cristianodi ANGELA MARIA LUPO C.P.
La Croce come un’esperienza dello Shabbatcon riferimento a San Paolo
di MARTINO BRUNO
PASTORALE e SPIRITUALITÀ
I Fratelli laici nellaCongregazione della Passione
di FABIANO GIORGINI C.P.
Lutero e la Scala Santadi MARIO CEMPANARI
SALVEZZA E CULTURE
Tre Papi e gli artistidi TITO AMODEI C.P.
L’Italia del Missionario Verdonedi ELISABETTA VALGIUSTI
RECENSIONI
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 512/85, del 13 novembre 1985 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in AbbonamentoPostale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 e 3, Teramo Aut. N. 123/2009
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Jürgen Habermas è una delle voci filosofiche più note del
nostro tempo, col quale anche
papa Ratzinger ama dialogare.
Epigono della prestigiosa
Scuola di Francoforte, riesami-
na in un ambiente umano diver-
so e con originalità i grandi
temi dell’etica politica. Partendo dal con-
trasto evidente fra la crescita di un natura-
lismo scientista tendente a delegittimare o
al massimo a relegare nel privato ogni
anelito religioso e l’inattesa rivitalizzazio-
ne del ruolo positivo delle religioni nella
società, egli ripropone la seguente doman-
da di Ernst Wolfang Böckenförde: lo stato liberale e democratico si
nutre forse di presupposti normativi che esso non è di per sé in grado
di garantire?1.
Quei presupposti normativi permarrebbero ancora per una specie
di inerzia culturale: ma che cosa avverrà se la deriva laicista e rela-
tivista presente specialmente in Europa dovesse prendere ancora
forza ed espellere ogni residuo di religiosità?
L’ipotesi che la laicità non sia in grado di fondare un’etica socia-
le non è più così assurda, vista anche la fuga verso le religioni degli
uomini e delle donne del nostro tempo. Norme di natura strettamen-
te religiosa (tipo sharia) sono state accolte nella legislazione civile
non soltanto in Iran, ma anche in Israele.
ESISTE E COMESI SOSTIENEUN’ETICASOCIALE LAICA?
1 J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Bari, 2005, 5 (Il titolo origina-le di questo libro esprimeva assai meglio la tematica trattata: ZwischenNaturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze Naturalismus non è lo stes-so che scienza e Religion non è lo stesso che fede).
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L’ipotesi che nella cultura dominante possa prevalere l’atteggia-
mento cinico, per il quale unico movente dell’azione individuale o
di gruppo sia l’interesse di quell’individuo o di quel gruppo, non
appare inverosimile. Si può obiettare: nei paesi più economicamen-
te evoluti (che sono anche i più secolarizzati) ci sono delle
Costituzioni democratiche all’interno delle quali è sempre possibile
contrastare le prevaricazioni antisociali. Ma già da alcuni decenni le
analisi delle strutture sociali condotte sulla linea di quelli che sono
stati chiamati i maestri del sospetto hanno evidenziato la possibilità
(e la realtà) di manipolazioni delle coscienze, attuate anche in modo
scientifico, con mezzi e strumenti con i quali è difficile competere
sulla sola base della rettitudine della coscienza sociale. Questo
anche in regimi dove c’è libertà di informazione. Si studia l’influen-
za sulle coscienze come si studia il mercato, operando poi secondo
le indicazioni di tali ricerche. L’ipotesi di una caduta in un cinismo
di cui sopra, che delegittima ogni etica, si percepisce già nell’insi-
stenza con cui qualche gruppo dominante rimanda continuamente al
voto popolare, sottintendendo: poiché ci è stata data la maggioranza
possiamo fare ciò che vogliamo.
Papa Ratzinger fa osservare che in epoche passate ci si poteva
facilmente appellare alle fondamentali esigenze morali dischiuse dal
cristianesimo che apparivano incontrovertibili agli occhi di tutti,
anche dei non ufficialmente credenti. Oggi non è più così. “Nella
misura in cui il patrimonio comune cristiano di verità si dissolse e al
suo posto non rimase che la nuda e spoglia ‘ragione’ - che non accet-
ta contributi né insegnamenti da alcuna entità storica ma vuol pre-
stare ascolto solo a se stessa - venne meno, come sbriciolandosi,
anche l’evidenza di quanto è autenticamente morale… Là dove non
viene riconosciuto come certezza comune altro se non ciò che è spe-
rimentalmente verificabile, per le verità che eccedono la sfera pura-
mente materiale non rimane altro parametro di riferimento che la
loro mera strumentalità, cioè l’essere funzione del gioco di maggio-
ranze e minoranze. Come abbiamo visto, nella sua astrattezza e nella
sua irreferenzialità, questo non può che condurre necessariamente
all’opzione cinica e alla dissoluzione dell’uomo. Il problema più
grave ed acuto davanti a cui ci troviamo oggi è esattamente la ceci-
tà della ragione per l’intera dimensione non-materiale della realtà”2.
2 J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La verità interroga ilcuore, Cantagalli, Siena, 2009, 67-68.
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Insieme all’opera di Habermas, ho riletto un’opera classica della
Scuola di Francoforte, Dialettica dell’Illuminismo, peraltro assai
criticata dallo stesso Habermas. Ho avuto la sensazione che i due
autori Horckheimer e Adorno, ebrei, manifestassero anzitutto la loro
amarezza e il loro risentimento verso tutto ciò che è civilizzazione
occidentale inclusa la sua componente cristiana. Amarezza e risenti-
mento ben comprensibili se si ricorda che l’opera fu pensata e scrit-
ta nei primi anni ’40 del secolo scorso, mentre si consumava
l’Olocausto e l’Occidente si inebriava in un’ennesima inutile strage.
Alcune tesi, però, danno ancora da riflettere. Anzitutto quella
centrale secondo cui nel progresso illuminista è insito un meccani-
smo di rovesciamento in una nuova barbarie, i cui effetti si sono visti
nel secolo ventesimo. Poi l’altra secondo cui l’apparente libertà del
pensiero illuminato produce un reale asservimento delle coscienze3.
“L’illuminismo è totalitario più di qualunque altro sistema”4, dicono
Adorno e Horckeimer. Non c’è, per questi autori, dogmatica che si
imponga così rigidamente come quella illuminista. Esso provoca,
secondo loro, un indurimento del pensiero che fa pensare alla bibli-
ca durezza di cuore5. Si arriva all’esaltazione di atteggiamenti cini-
ci, ben rappresentati dalla Juliette di De Sade e dal Superuomo di
Nietzsche. Si può verificare, di fatto, che la mentalità illuminista
impone dogmi indiscutibili con un rigore ben superiore a quello con
cui la Chiesa Cattolica propone i suoi dogmi ai credenti6.
Giustamente Papa Ratzinger parla di dittatura del relativismo ed
auspica il sorgere di una cultura autenticamente critica.
Attraverso un conformismo che costringe a far proprie in modo
acritico persuasioni e comportamenti collettivi, si diventa schiavi
senza avvedercene. Il cristiano in particolare ripete il comportamen-
to dell’ebreo biblico che metteva la sua fiducia nelle idolatrie e nelle
alleanze con i potenti della terra, svendeva la sua vocazione ad esse-
re santo cioè separato (così il cristiano svende il proprio battesimo)
2 J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, cit., 67-68.3 M. Horkheimer, Th. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino,
1997, 48-49.4 Ibid., 32.5 Cf ibid., 49.6 Si veda, ad esempio, come papa Ratzinger commenta la famosa frase
scritta da Newman al duca di Norfolk: brindo per il papa, ma prima per lacoscienza (J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, cit., 16 ss).
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e con la vocazione svendeva la propria libertà e identità. Il richiamo
dei profeti non è essenzialmente dissimile dal richiamo dei papi e
dei santi di oggi.
La convergenza degli interessi di una maggioranza della popola-
zione può essere fondamento di un’etica laica o rappresenta invece
la rinuncia ad ogni etica sociale a favore del diritto del più forte?
Non c’era, in fondo, tale convergenza anche nel fascismo, nel nazi-
smo o nel comunismo stalinista con i quali si arrivò agli orrori delle
guerre mondiali, dei genocidi, delle immani distruzioni? La conver-
genza democratica può essere il prodotto di una miopia che vede
solo i benefici immediati, ma impedisce di prevedere la deriva che
certe scelte politiche avranno a lungo termine. La democrazia si
degrada assai facilmente in demagogia, secondo le chiare caratte-
rizzazioni aristoteliche.
Sulla base di queste considerazioni necessariamente brevi, pos-
siamo tornare al problema sollevato da Habermas: non accade forse
che l’etica sociale stia ancora beneficiando inconsciamente di con-
vinzioni condivise sulla base di fedi o tradizioni culturali, mantenu-
te per inerzia, pur illudendo le masse di essere guidate unicamente
da un’etica laica e puramente razionale? Che cosa accadrà quando,
per il processo di secolarizzazione e di sradicamento in atto, queste
tradizioni verranno a perdere il loro influsso sociale? Habermas non
nasconde di essere personalmente persuaso del valore positivo delle
religioni per sostenere l’etica sociale, nella linea di Hegel7. Le fonti
della normatività e della solidarietà non dovrebbero essere abbando-
nate a cuor leggero: “E’ nell’interesse dello Stato costituzionale trat-
tare con riguardo tutte le fonti culturali da cui si alimentano la con-
sapevolezza normativa e la solidarietà dei cittadini”8. Su questa
linea egli propone che nella società post-secolare venga modificata
riflessivamente sia la coscienza religiosa che quella laica nei loro
rapporti e in rapporto al bene comune.
Quando si pensa al potere assunto, nel campo civile oltre che in
quello religioso, da papi e vescovi nel Medio Evo, ed anche dopo
nello Stato Pontificio e in tanti statarelli governati da ecclesiastici,
si è portati ad attribuire l’origine di questo potere all’ambizione
e all’abilità degli ecclesiastici del tempo. Di fatto accadeva che
7 Op. cit., XI.8 Id. ibid., 15-16.
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coloro che avrebbero dovuto amministrare la cosa pubblica, non lo
facevano o lo facevano male ed allora il popolo si rivolgeva agli
ecclesiastici. La chiara presa di posizione degli ultimi Pontefici fa
capire che oggi gli ecclesiastici impegnati seriamente nella loro mis-
sione non hanno alcun interesse ad un’attività di supplenza nell’am-
bito civile. Ma nello stato di nuova barbarie rilevato da insigni ana-
listi della società attuale, non capita per caso che i laici non siano
all’altezza delle esigenze del tempo presente e meno ancora aperti a
quelle che si intravedono per il prossimo futuro?
Nella sua ultima enciclica – un’enciclica sociale – il papa offre
molti suggerimenti ed anche ammonimenti al laicato perché rispon-
da a tali esigenze. Tutta l’enciclica tende a questo. Alcuni punti sono
chiaramente indirizzati al laicato responsabile della politica e del
vivere sociale. Come altri insigni pensatori della nostra epoca, il
papa dichiara che si esige un nuovo slancio del pensiero, il neuesDenken tante volte invocato (cf la citazione di Paolo VI al n. 53, ma
anche i nn. 29-33). Dopo i secoli dell’Illuminismo nei quali i creden-
ti erano accusati di mancare di spirito critico, oggi è il papa che sti-
mola i laici alla critica, cominciando, ovviamente, dall’autocritica. Il
nuovo slancio del pensiero esige un andar oltre l’ingenua contrappo-
sizione fra il regno del male e il regno del bene, supponendo che il
bene sia tutto e sia senz’altro presente nelle democrazie occidentali,
nella (apparente) libertà di stampa e nel libero mercato. La Scuola di
Francoforte, pur con i suoi limiti, aveva già da tempo messo un
punto interrogativo su tali ingenuità collettive. Il nuovo slancio del
pensiero esige un andar oltre acquisizioni che possono essere impor-
tanti, ma si stanno sclerotizzando, come può essere per Israele il
richiamo continuo alla Shoah o l’assumere un atteggiamento di tale
diversità da diventare isolamento e precludere così ogni autentico
dialogo, sola via alla crescita comune.
Benedetto XVI, con una lucidità che non è solo difesa della
Chiesa, ma della stessa società civile, afferma che “lo Stato non è di
per sé fonte di verità né di morale”. Non può produrre alcuna verità
né con le ideologie né per il principio maggioritario. Né può pro-
muovere una libertà priva di contenuti, altrimenti, come dice S.
Agostino, decade “al livello di una efficiente associazione a delin-
quere”. Conseguentemente lo Stato deve disporsi ad accogliere da
‘fuori’ di sé il patrimonio di conoscenza e di verità da cui non può
prescindere. Le religioni convergono su un consenso di fondo
riguardo a ciò che è bene e “la fede cristiana ha dato prova di sé
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come creatrice di cultura religiosa universale e razionale in sommo
grado”. Queste verità non autorizzano la Chiesa a invadere il campo
politico o voler agire su di esso come gruppo di potere. “La Chiesa
deve restare al suo posto e non travalicare i limiti che le sono pro-
pri, altrettanto quanto deve fare lo Stato”. Ratzinger si richiama qui
alla riflessione di Soloviev su Chiesa e Stato, escludendo però la sua
idea di teocrazia9.
La cattedra Gloria Crucis dell’Università Lateranense ha in pro-
gramma un seminario su L’agire sociale alla luce della teologiadella Croce. Sarà questa l’occasione per dilucidare e portare avanti
questo discorso. Sarà possibile vedere allora come soltanto una con-
cezione kenotica e agapica dei rapporti umani può fondare una con-
vivenza non solo di sopravvivenza, ma di autentico sviluppo.
9 Cf L’elogio della coscienza, cit. 71-74. Cita di Soloviev La grande contro-verse et la politique chrétienne, Aubier, Parigi, 1953, 129-168.
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Ricordo di Monsignor Pier Giorgio SilvanoNesti9-10
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L’arcivescovo passionista Piergiorgio Silvano Nesti
è mancato ai vivi il giorno 13 dicembre 2009. Era
stato arcivescovo di Camerino e segretario della
Congregazione dei Religiosi. Ad altri il compito di
stendere un suo profilo e ricordare le sue beneme-
renze in tali importanti incarichi. Noi sentiamo di
doverlo ricordare anzitutto come ideatore e inizia-
tore di questa rivista e poi per quanto ha
fatto come segretario della Comunità inter-
provinciale dei Passionisti italiani (Cipi)
per vari anni.
P. Piergiorgio Nesti fu per alcuni anni
superiore della Casa generalizia dei SS.
Giovanni e Paolo e in quella carica poté
allargare il suo raggio di azione al di là
della Provincia di origine, quella del Nord
Italia e mettere in luce i suoi carismi.
Aveva infatti una grande capacità di orga-
nizzare e coordinare il lavoro di tante per-
sone per il bene comune, spronando e faci-
litando la reciproca integrazione e collaborazione. Erano, queste,
grandi doti di cui si sente sempre il bisogno e forse, oggi, la caren-
za. Come segretario della Cipi organizzò e portò avanti la cattedra
di teologia della Croce presso l’Università Antonianum dei
Francescani, attiva per tanti anni con corsi, pubblicazioni ed impor-
tanti manifestazioni. Lo fece con un impegno diuturno, sollecitando
collaborazioni, inventando sempre nuovi modi per aggirare le diffi-
coltà che parevano insormontabili. Dette un notevole contributo
all’organizzazione del Congresso su Mistica e misticismo oggi,tenuto a Lucca per il centenario della nascita di Santa Gemma
Galgani, nel 1978, in collaborazione con la diocesi.
Nel 1981 furono tenuti i convegni Sofferenza e salvezza e
Missioni al popolo per gli anni ’80, organizzati dalla Cipi. Nel 1984
volle dar seguito al grande Congresso su La Sapienza della Croceoggi, che era stato tenuto all’Antonianum nell’anno santo 1975, con
RICORDODI MONSIGNORPIER GIORGIOSILVANO NESTI
REDAZIONESapCr XXV
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un secondo Congresso, dal titolo Salvezza cristiana e cultureodierne. Di tutti questi congressi sono stati pubblicati gli Atti.
Diventato ormai esperto di congressi culturali, P. Nesti fu
chiamato dal presidente dei rettori delle Università Pontificie
Saraiva Martins ad essere il segretario del Congresso teologicointernazionale di Pneumatologia, che si tenne nell’aula Paolo VI in
Vaticano nel 1982. Questo congresso fu voluto da Giovanni Paolo II
nell’occasione di due importanti anniversari: 1600 anni dal Primo
Concilio di Costantinopoli e 1550 dal Concilio di Efeso. Certamente
il Papa tenne conto anche della grande attenzione che all’azione
dello Spirito Santo era stata suscitata dai nuovi Movimenti
carismatici nella Chiesa Cattolica, i quali infatti ne furono molto ral-
legrati. Fu un evento di grande importanza. Il Papa stesso presenziò
ad una sessione e salutò ciascuno dei 500 partecipanti, tra i quali
voglio qui segnalare Congar, Zizioulas, Sanna, Valenziano, Spidlik,
Scheffczik, Thurian, Cazelles, Le Guillou, Vanhoye, De La Potterie,
Schnackenburg, Martini, Tillard, Moltmann, Delhaye, Rossano.
P. Nesti promosse anche una collana di pubblicazioni della
Cattedra di Teologia della Croce.
La rivista La Sapienza della Croce fu forse il frutto più duraturo
del lavoro culturale del Nesti. La fondò, dopo accurata preparazio-
ne, nel 1986 e la diresse nei primi otto anni. L’impulso e la forma da
lui dati alla rivista sono continuati sostanzialmente identici in questi
ormai venticinque anni di vita della rivista.
Nell’ambito della Comunità passionista italiana, P. Nesti non si
occupò solo di cultura, ma promosse validamente tutte le prospetti-
ve di collaborazione che si presentavano. Voglio ricordare, in
particolare, la rivista di collegamento Notizie dei passionistid’Italia, lo studentato nazionale STIP ai SS. Giovanni e Paolo,
ancora funzionante, la promozione del noviziato nazionale al Monte
Argentario che si realizzò in seguito, e un gran numero di incontri
di collaborazione portati avanti con tenacia e, a volte, non senza
notevoli sofferenze.
Monsignor Nesti era nato a Marostica (VI) nel 1931, era stato
ordinato sacerdote nel 1959 e consacrato vescovo nel 1993. Aveva
conseguito la laurea in teologia spirituale al Teresianum di Roma
con una tesi sulla spiritualità del beato Lorenzo Maria Salvi. La sua
opera resta in benedizione.
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teologia
Un incontroprovvidenziale:Newman e i passionisti11-22
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di ADOLFO LIPPI C.P.
In preparazione all’evento della beatificazione del cardinalNewman, prevista in quest’anno, l’autore richiama il profondolegame dell’insigne teologo e santo con la Congregazionedella Passione ed accenna ai programmi di studi e allepubblicazioni che si intendono realizzare. Questi verterannosoprattutto sul rapporto fra Domenico Barberi e John HenryNewman, sia per quanto riguardala loro storia come il loro pensiero.
“Non tema, signore, Newman
sarà un giorno dottore della
Chiesa”. Questa frase, pronun-
ciata da Pio XII in un incontro
confidenziale con Jean
Guitton1, dice tutto sulla stima
che questo papa aveva del cardinal Newman. Una stima
simile ne aveva Paolo VI2. Giovanni Paolo II si è richiamato varie
volte a Newman anche in documenti ufficiali. Basterebbe ricordare,
per tutti, la Fides et ratio dove viene citato al primo posto fra i pen-
satori moderni che illuminano il rapporto fra Parola di Dio e ragione
umana (n. 74). L’attuale Pontefice Benedetto XVI è stato da sempre
un estimatore e uno studioso di Newman3. Ma quello che più colpi-
sce è che lo stesso San Pio X, proprio dopo la pubblicazione dell’en-
ciclica Pascendi, in un tempo in cui molti modernisti si appellavano
a Newman come a loro precursore, difendesse l’ortodossia e la san-
UN INCONTROPROVVIDENZIALE:NEWMANE I PASSIONISTI
1 Cf J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, Milano, 1986, 146.2 Cf C. Siccardi, Paolo VI, il papa della luce, Paoline, Milano, 2008, 214.3 Cf ad es. quanto ne dice in un’opera recentemente pubblicata: J.
Ratzinger – Benedetto XVI, L’elogio della cosienza. La verità interroga il cuore,Cantagalli, Siena, 2009, 15-22.
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sacrascrittura
eteologia
teologia
tità del Newman4. Anche se non è ancora stabilito il giorno, si preve-
de che quest’anno avverrà la beatificazione del cardinal John Henry
Newman. E’ questa una grande gioia per tutti coloro che leggono le
sue opere e la sua biografia e sono da sempre convinti della santità
oltre che della profondità intellettuale di questo uomo.
Nella Congrega-
zione della Pas-
sione desideria-
mo mettere in evidenza
l’apporto che essa ha
dato al passaggio del Newman alla Chiesa cattolica. Normalmente,
quando si dice questo, si pensa al beato Domenico Barberi e alla
celebre notte dell’8-9 ottobre 1845 nella quale Domenico accolse
Newman nella Chiesa. Gli storici antichi, che peraltro erano più
prossimi ai fatti, amavano presentare in modo drammatico gli even-
ti di quella notte, cosa che invece non fece mai il beato Domenico,
sempre semplice e schivo di parlare di sé. Alfonso Capecelatro, ad
esempio, che era oratoriano e futuro cardinale, nel bel libro su
Newman e l’Inghilterra del suo tempo scritto dieci anni dopo la
morte di Domenico, così descrive l’avvenimento:
“Dalgairns invitò certo P. Domenico della Madre di Dio, provin-
ciale dei passionisti, a recarsi da Aston-Hall in Littlemore, dicendo-
gli solo che era chiamato a compiere un’opera in servigio di Dio:
questi inconsapevole accorse. Parvegli presentire che ogni indugio
potesse tornare di gran danno all’ufficio cui era chiamato: e però per
uno orribile tempaccio senza più si pose in viaggio in una vettura
scoperta. Sostenne cinque ore di dirottissima pioggia e, come piac-
que a Dio, tutto immollato giunse alfine notte tempo a Littlemore.
Non così tosto fu entrato nella romita dimora di quegli uomini fer-
venti di cui era fama in tutta l’Inghilterra, ecco che il Newman umi-
lissimamente gli si getta ai piedi, dicendogli che ei di là non si leve-
rebbe, se prima non lo avesse benedetto e ricevuto nella Chiesa di
Gesù Cristo”5.
Newmane San Paolo della Croce
4 Cf Lettera del 10 – 03 – 1908 Tuum illud opusculum, (Acta Pontificia, VI,(1908), 176).
5 Newman, la religione cattolica in Inghilterra ovvero l’Oratorio inglese,Desclée, Tournai, 1886, 146-147. La Notice biographique du D. Newman par
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teologia
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Ma non c’è soltanto questo. Credo che prima di Domenico sia
stato lo stesso santo Fondatore Paolo della Croce a colpire il
Newman. Nei suoi scritti si avverte come uno stupore di fronte ad
alcuni fatti nei quali egli percepisce la presenza del Mistero, l’azio-
ne stessa di Dio. Newman non era certamente facile a supporre tale
azione ed a parlarne alla leggera, come si sente fare tanto spesso
anche negli ambienti cristiani. Però esprime la sua meraviglia per il
fatto che Paolo della Croce si sia sentito spinto a pregare per tutta la
sua vita per una nazione lontana come l’Inghilterra, con la quale non
aveva alcun rapporto umano. Il romanzo Loss and Gain è da consi-
derarsi a questo proposito molto significativo. Esso fu pubblicato
appena tre anni dopo il passaggio di Newman alla Chiesa cattolica,
nell’entusiasmo della conversione. In esso, parlando di Paolo della
Croce, Newman scrive:
“Per anni e anni il cuore di padre Paolo si espandeva ad abbrac-ciare una nazione del nord, con la quale, umanamente parlando, nonaveva niente a che vedere. Di fronte alla chiesa dei santi Giovanni e
Paolo, che è la casa madre dei Passionisti sul Celio, sorge l’antica
chiesa e monastero di San Gregorio, che è il grembo, per così dire,
del cristianesimo inglese. Lì era vissuto quel grande santo, noto come
l’apostolo dell’Inghilterra, che fu poi chiamato alla cattedra di San
Pietro; e di qui partirono, durante e dopo il suo pontificato, Agostino,
Paolino, Giusto, e gli altri santi che hanno convertito i nostri barbari
antenati. I loro nomi, che ora appaiono scritti sulle colonne del
portico, sembrava quasi che si staccassero dalle colonne e scendesse-
ro ad incontrare il venerabile Paolo; perché, strano a dirsi, quando
pregava pensava all’Inghilterra; e negli ultimi anni della sua vita,
dopo una visione che ebbe durante la messa, parlava dei suoi «figli»
in Inghilterra, come se fosse stato Agostino o Mellito”6.
A parte qualche imprecisione storica notata dai biografi – del
resto si tratta sempre di un romanzo – traspare da questa descrizio-
ne qualcosa che aveva profondamente impressionato l’animo di
Newman.
Jules Gordon, precisa che arrivò alle 11 di notte a Littlemore e che si era avvi-cinato al fuoco per asciugare i suoi vestiti quando il Newman entrò e gli chie-se di essere accolto nella Chiesa cattolica. Precisa anche che Newman passòla notte a fare la sua confessione generale.
6 Perdita e guadagno. Storia di una conversione, Jaca book, Milano 1996,413.
ADOLFO LIPPISapCr XXV
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C’è un altro pas-
sionista, poi,
che indubbia-
mente colpì lo spirito
del Newman: si tratta di
Giorgio Spencer, pastore anglicano di nobile famiglia (la stessa di
Lady Diana) che era entrato nella Chiesa cattolica già dal 1830.
Questi conobbe a Roma il Barberi e, certamente influenzato anche
da lui, si dette a propagandare per tutta l’Europa una crociata di pre-
ghiera per il ritorno dell’Inghilterra alla Chiesa cattolica. Leone XIII
ricordava molti anni dopo, insieme a San Paolo della Croce, gli
incontri che ebbe con Giorgio Spencer, divenuto P. Ignazio del
Cuore di Gesù, alla nunziatura di Bruxelles7. Giorgio Spencer diven-
ne passionista nel 1846, due anni prima che Newman pubblicasse il
suo romanzo.
E’ da notare che Spencer, dopo il suo passaggio alla Chiesa cat-
tolica nel 1830, mantenne i contatti con gli Anglicani, specialmente
poi con i membri più attivi nel Movimento di Oxford, invitandoli a
pregare insieme per l’unità, cosa certamente non comune in quei
tempi. Newman pensa indubbiamente a Spencer quando fa incontra-
re il protagonista del romanzo, Charles, con il suo amico Willis, pas-
sato prima di lui al cattolicesimo e diventato passionista col nome di
P. Aloysius. C’è una frase, ispirata a Sant’Agostino, che un po’
esprime ed un po’ nasconde l’ammirazione di Newman per Spencer.
Proprio nell’ultima pagina del romanzo, il protagonista Charles dice
all’amico Willis diventato passionista, il quale ammira la freschezza
dei sentimenti del neoconvertito:
“No, Willis, tu hai scelto la parte migliore per tempo, mentre io
ho indugiato. Troppo tardi ti ho conosciuta, verità antica, troppo
tardi ti ho trovata, prima e unica bellezza”8.
Newman e P. Ignazio(Giorgio) Spencer
7 Cf Amantissimae Voluntatis ad Anglos Regnum Christi in fidei unitate quae-rentes, in Enchiridion delle Encicliche, 3 (Leone XIII), EDB Bologna, 1997,1702-1703: “Quo enim tempore belgica in legatione versaremur, oblata nobisconsuetudine cum Ignatio Spencer, ejusdem Pauli sancti a Cruce alumno pien-tissimo, tunc nempe accepimus initum ab eo ipso, homine anglo, consilium depropaganda certa piorum societate, rite ad Anglorum salutem comprecantium”.
8 Perdita e guadagno, cit., 420.
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Eveniamo, final-
mente, a Dome-
nico Barberi.
Anche qui ciò che pos-
siamo e dobbiamo evi-
denziare è lo stupore di Newman di fronte all’umile passionista. Ci
sono tre brani di Newman che si possono prendere in considerazio-
ne a questo proposito. Il più ampio si trova sempre nel romanzo cita-
to, dove Newman, dopo aver parlato di Paolo della Croce, passa a
parlare dei suoi figli giunti in Inghilterra, come egli aveva previsto.
Scrive:
“Era abbastanza strano che nel cuore di Roma ci fosse anche un
solo italiano che accarezzava a quel tempo il sogno ambizioso di
avere dei novizi o dei convertiti in questo paese; ma dopo la morte
del venerabile fondatore, l’interesse speciale che egli aveva avuto
per la nostra isola lontana si manifestò in un altro membro del suo
ordine. Sugli Appennini, presso Viterbo, viveva agli inizi di questo
secolo un pastorello, che fin dall’infanzia pensava al cielo; un gior-
no, mentre pregava davanti ad una immagine della Madonna, ebbe
il vivissimo presentimento di essere destinato a predicare il Vangelo
in un paese del nord. Non c’era modo che un contadino del Lazio
potesse mai diventare un missionario; e la cosa non sembrava pos-
sibile neppure quando il ragazzo si trovò ad essere nella congrega-
zione dei Passionisti, prima come fratello laico e poi come padre. Di
mezzi esterni neanche l’ombra; eppure l’impressione interiore non
si affievoliva; anzi, si faceva via via più precisa e chiara, finché, col
passare del tempo, al posto del nord vago e sfumato, gli si incise nel
cuore l’Inghilterra. E, strano a dirsi, col passare degli anni, senza che
egli lo cercasse, poiché era legato al voto dell’obbedienza, il nostro
contadino si trovò finalmente sulla stessa spiaggia del tempestoso
mare del nord, dalla quale aveva guardato Cesare, cercando unnuovo mondo da conquistare; ma che dovesse attraversare lo strettoera ancora assai improbabile, come prima. Comunque, c’era arriva-to vicino, e allora forse poteva anche attraversarlo; e posava losguardo su quelle onde inquiete e senza dio, domandandosi se sareb-be mai sorto il giorno in cui le avrebbe oltrepassate. E quel giornovenne, non per una decisione sua, ma per opera della Provvidenzache gli aveva dato una premonizione trent’anni prima.
Al tempo della nostra storia, padre Domenico de Matre Dei cono-sceva bene l’Inghilterra; aveva avuto molte preoccupazioni, in
Il Beato Domenico Barberie Newman
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primo luogo per la mancanza di fondi e poi ancora di più per la man-canza di uomini. Passavano gli anni ma, vuoi per la paura del rigo-re della regola - una paura peraltro infondata, perché era stata alleg-gerita per l’Inghilterra - o per le pretese di altre formazioni religio-se, la sua comunità non cresceva, e lui fu tentato di cedere allo sco-ramento. Ma ogni opera ha la sua stagione; e da un po’ di tempoquella difficoltà stava piano piano diminuendo; erano entrati nellacongregazione uomini pieni di zelo, alcuni di natali nobili, altri convasti possedimenti; e il nostro amico Willis, che a questo puntoaveva già ricevuto il presbiterato, non era l’ultima di queste acquisi-zioni, anche se era domiciliato a una certa distanza da Londra. Edora il lettore conosce dei Passionisti molto di più di quanto nonsapesse Reding allorché si incamminò verso il loro monastero”9.
Questa descrizione è assolutamente commovente e crediamo cheesprima meglio di ogni altra testimonianza il debito di fede e di pietàche Newman sentiva verso Paolo della Croce, Domenico Barberi ei passionisti in genere. Newman esprime molte volte il suo stuporeper degli accadimenti che potevano avere soltanto un’originesoprannaturale. Può un pastorello della campagna viterbese pensaredi diventare missionario in Inghilterra? Ed anche quando si ritrovacome fratello laico in un convento lo può pensare? Ed anche sediventa sacerdote, ma è soggetto all’obbedienza, dalla quale nonintende uscire? E persino quando è potuto arrivare nell’Europa con-tinentale del Nord, ma non ha prospettive per l’Inghilterra? Eppureil miracolo si realizza. Impressiona il paragone che un uomo perfet-tamente inglese come Newman istitutisce fra l’umile fraticello, notoper come, in Inghilterra portava goffamente le vesti civili obbligato-rie, e il grande conquistatore Giulio Cesare, immaginandoli ambe-due sulla riva del Mare del Nord, con lo sguardo rivolto all’Isolasospirata.
Il secondo brano si trova in una lettera scritta da Newman al
Phillips con la sua solita chiarezza ed onestà intellettuale:
“Se i religiosi cattolici vogliono convertire l’Inghilterra, vadanoa piedi scalzi nelle nostre città manufatturiere, predichino al popolocome San Francesco Saverio, siano presi a sassate e calpestati e con-fesserò che essi possono fare quello che non possiamo fare noi…Quale giorno sarà se Dio farà sorgere nella loro Comunione uomini
9 Perdita e guadagno, cit., 412-414.
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santi, come Bernardo e i Borromei… Gli inglesi non saranno maiinclinati favorevolmente a un partito cospiratore e intrigante; solo lafede e la santità sono irresistibili”10.
Benedetto XVI così commenta la conversione di Newman: “E’significativo il verso che Newman compose in Sicilia nel 1833:‘Amavo scegliere e capire la mia strada. Ora invece prego: Signore,guidami tu’. La conversione al cattolicesimo non fu per Newmanuna scelta determinata da gusto personale, da bisogni spirituali sog-gettivi. Così egli si espresse nel 1844, quando era ancora, per cosìdire, sulla soglia della conversione: ‘nessuno può avere un’opinionepiù sfavorevole della mia sul presente stato dei romano-cattolici’.Ciò che per Newman era invece importante era il dovere di obbedi-re più alla verità riconosciuta che al proprio gusto, addirittura anchein contrasto con i propri sentimenti e con i legami dell’amicizia e diuna comune formazione”11.
Cosa accadde fra il 1844 e l’8 ottobre del 1845? Il miracolo delreligioso cattolico che arriva a piedi scalzi nelle città manufatturie-re dell’Inghilterra e predica come Francesco Saverio era accaduto eNewman non poteva tirarsi indietro. Lo stesso Domenico, uomo digrande forza di volontà, rotto a tutte le mortificazioni, descrivevacosì la sua esperienza inglese: “Croci e difficoltà sono senza nume-ro e tali che qualche volta mi sono veduto all’ultima estremità equasi sul punto di tornarmene indietro. Sono sicuro che molte per-sone vorrebbero venir qua, ma se poi sapessero quello che vi è dasoffrire, passerebbe la voglia quasi a tutti. Ah, mio Dio! mio Dio!Quanto bisogna soffrire! Sebbene fossero 28 anni che io mi ci pre-parava, pure vedo che tale preparazione non è sufficiente. La solavolontà divina è il mio sostegno: sono qui perché Dio mi ci ha volu-to da tutta l’eternità. Sia benedetto il suo santo Nome. Ecco l’unicamia risorsa”12. Di fatto, in quella sua missione, Domenico perse benpresto la salute e la vita, morendo all’età di 57 anni.
Il terzo brano al quale intendo fare riferimento è molto più tardi-vo. Esso fa parte della deposizione che Newman fece sul Beato
10 Lettera di Newman al Phillips, riportata da P. Federico, Il B. Domenicodella Madre di Dio, Passionisti, Roma, 1963, 292.
11 J. Ratzinger- Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La verità interrogail cuore, Cantagalli, Siena, 2009, 18.
12 Lettera a P. Felice, del 10 aprile 1842, riportata in Federico, op. cit.,319, n. 5.
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Domenico nel 1889, un anno prima della sua morte, deposizioneinviata al cardinal Parocchi, vicario di Roma, che per convinzionepersonale aveva preso l’iniziativa di promuovere le cause di beati-ficazione di Domenico e di altri servi di Dio Passionisti. Scrive ilNewman, ormai anche lui cardinale:
“Mio caro Sig. Cardinale, La ringrazio per l’interesse che Elladimostra in un caso che mi è molto caro, come è ben riconosciutodai Padri Passionisti. Certamente Padre Domenico della Madre diDio fu un commoventissimo missionario e predicatore commoven-tissimo ed ebbe una gran parte nella mia conversione e in quella dialtri. Lo stesso suo sguardo aveva un’impronta santa; quando la suafigura si approssimava alla mia vista, mi commoveva in modo sin-golarissimo e la sua notevole bonomia in mezzo alla sua santità erain se stessa una reale predica santa. Nessuna meraviglia, pertanto,che io diventassi il suo convertito e il suo penitente. Egli era ungrande amatore dell’Inghilterra. Mi dolse della sua morte subitaneae pensai e sperai che egli riceverebbe da Roma l’aureola di santo,come ora avverrà”13.
L’azione di Domenico con Newman e i neoconvertiti di Littlemorenon si limitò alla loro accoglienza nella Chiesa cattolica. Colpisceancora la stima che Domenico aveva del gruppo di Littlemore giàprima della conversione del Newman e di altri. Scriveva argutamen-te e amorosamente al Dalgairns nel settembre del 1845:
“Dear Littlemore, I love Thee! A little more still and we shall seehappy results from Littlemore. When the learned and holy Superiorof Littlemore will come, then I hope we shall see again the happydays of Augustine, of Lanfranc and Thomas. England vill be oncemore the Isle of Saints and the nurse of new Christian nations, des-tined to carry the light of the Gospels coram gentibus et regibus etfiliis Israel”14.
13 Lettera riportata da P. Federico, op. cit., 397-398; cita Proc. Ord. Rom.,230.
14 Lettera riportata in Urban (Young), Life and letters of the ven. Fr. Dominic(Barberi), London, 1926, 256 (Mia cara Littlemore, io ti amo! Ancora un poco(a little more) e vedremo felici risultati da Littlemore. Quando il dotto e santosuperiore di Littlemore verrà, allora spero che vedremo il principio di una nuovaera. Sì, noi vedremo nuovamente i felici giorni di Agostino, di Lanfranco e diTommaso. Sì, l’Inghilterra sarà ancora l’isola dei Santi e la nutrice di nuovenazioni cristiane, destinata a portare la luce del Vangelo davanti alle genti, aire e ai figlioli di Israele).
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Domenico accompagnò i neoconvertiti specialmente nei primitempi. Ci furono varie reciproche visite. Domenico li consigliò atenersi uniti. Per quanto avesse un ingente bisogno di uomini santiche lo affiancassero nel suo pesantissimo lavoro in Inghilterra, noncercò di accaparrarli per sé. In una lettera che Newman scrisse a A.J. Hammer nel 1850, quando purtroppo il P. Domenico era già mortovittima delle sue grandi fatiche, c’è una chiara testimonianza dellostesso Newman a proposito dell’atteggiamento disinteressato del P.Domenico: “Dovevo dirvi una cosa. Se vi sono di quelli che non cer-cheranno di farvi loro sono i passionisti. Il caro P. Domenico maifece inviti (advances) - egli era delicatissimo - quantunque il biso-gno di novizi fosse il suo più acuto e continuo travaglio. Senza dub-bio trovereste simile a lui il P. Ignazio (Spencer)”15.
C’era in Domenico quel rispetto che fa dire all’aristocraticoinglese Newman che era un uomo delicatissimo e c’era anche undiscernimento oggettivo e spassionato, fedele alla volontà di Dio,che è sempre una volontà di crescita della vita. Domenico osserva-va - scriveva il più attento studioso della sua vita FedericoMenegazzo, - che “tutta la loro vita precedente si era specializzatanegli studi universitari e questo non li metteva sulla via della predi-cazione popolare alternata a un ampio orario corale e a pratichepenitenziali”16. Lui stesso li consigliò, più tardi, di entrarenell’Oratorio di San Filippo Neri.
Newman considera Domenico un “uomo semplice e caratteristi-co”, ma anche “intelligente e acuto nel suo stato”17. “Egli - scriveva- è un uomo intelligente ed acuto, ma spontaneo e semplice come unfanciullo; e singolarissimamente gentile nei suoi pensieri verso ifedeli della nostra comunione. Vorrei che tutte le persone avesserotanta carità quanto so che ne è in lui”18. Nel momento del suo pas-saggio alla Chiesa cattolica, Newman ebbe un notevole problemacon la pubblicazione di una delle sue opere più importanti, appenaconclusa ma non ancora stampata, l’Essay on Development of
15 Letters and Diaries of J. H. Newman, by Dessain, London, 1961, XIII,389.
16 Op. cit., 389.17 Brani di una lettera a Wilberforce, riportata da F. Giorgini, in
Introduzione a Domenico della Madre di Dio (Barberi), Lettera ai professori diOxford. Relazioni con Newman e i suoi amici, Cipi, Roma, 1990, 29.
18 Lettera a Bowden, Ivi, 30.
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Christian Doctrine. Come sarà giudicata dai cattolici un’opera scrit-ta quando Newman era ancora anglicano? Tra i cattolici che giudi-carono subito positivamente l’opera ci fu Domenico. Newman loscrisse a James Hope: “una persona già incline al favore, ma che èanche un perspicace, buono e profondo teologo, il P. Domenico, sicompiace moltissimo di essa”19. Questa consonanza su un argomen-to delicato - lo sviluppo dei dogmi - manifesta una consonanzamolto più profonda di due spiriti pur così diversi nella loro forma-zione.
Basterebbero le
frasi del
Newman citate
qui sopra, scelte fra
altre che si potrebbero
richiamare, per evidenziare l’importanza dell’amore nel rapporto fra
cristiani separati. La Cattedra Gloria Crucis e questa rivista si pro-
pongono di passare un anno – il 1910, anno della prevista beatifica-
zione del grande cardinale teologo – con Newman, Domenico
Barberi, Ignatius Spencer e i loro amici di quella che lo stesso
Newman denominò the second Spring, la seconda primavera della
cristianità inglese. Si ristamperanno alcune opere di Domenico,
anzitutto quel capolavoro di ecumenismo dell’amore che è la
Lettera ai professori di Oxford. Cor ad cor loquitur, era il motto
scelto da Newman per il suo emblema cardinalizio. E Domenico
scriveva: “ Nihil est tam arduum quod verus amor non audet…
Multis abhinc annis (plusquam quinque excesserunt lustra) Deus
dignatus est pro sua bonitate amorem in corde meo accendere erga
fratres meos praesertim anglos: pro quorum salute ab illo tempore
nunquam orare destiti… Utinam Deus mihi concedat vitam meam
pro vestra salute profundere!”20.
Dobbiamo riconoscere e confessare che i rapporti fra i fratelli
separati delle diverse chiese, fin quasi al tempo del concilio
Vaticano II, erano caratterizzati da una notevole ostilità. Newman
L’ecumenismo dell’amore
19 “A prepossessed person, but a shrewd and a good and a deep divine,Father Dominic, is very much pleased with it” (Letters…, cit., XI, 76).
20 Domenico della Madre di Dio (Barberi), Lettera… cit.,. 63, 87.
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stesso, quando era anglicano, parlava molto negativamente dei
papisti. Domenico ama, li ama, ama proprio loro, li ama di un amore
sviscerato. Sembra che lui per primo abbia usato l’espressione fra-telli separati21.
Al di là dei rapporti storici qui riassunti fra Newman e Domenico,
si dovrebbe procedere poi a studiare il perché di una consonanza di
coscienze nel Barberi e nel Newman. L’approccio di Domenico alla
filosofia e alla teologia potrebbe essere a questo proposito molto
importante. E’ un tema del tutto inesplorato. Sono state fatte soltan-
to poche, inadeguate pubblicazioni delle opere del Barberi che pos-
sano offrire tema di studio per questo scopo. Potrebbe essere questa
l’occasione per uno studio più approfondito.
A PROVIDENTIAL ENCOUNTER:
NEWMAN AND THE PASSIONISTS
By Adolfo Lippi, C.P.
As we prepare for the beatification of Cardinal John HenryNewman, an event expected to take place this year (2010), theauthor calls attention to the bonds which united the distinguishedtheologian with the Congregation of the Passion, and he mentionsthe study programmes and publications which are being planned.These will deal especially with the relationship between FatherDominic Barberi, C.P. and Newman, both their history and theirthought.
UNE RENCONTRE PROVIDENTIELLE
NEWMAN ET LES PASSIONISTES
De Adolfo Lippi c.p.
En préparation à l’événement de la béatification du cardinalNewman, prévue cette année, l’auteur rappelle le lien profond exis-tant entre l’insigne théologien et saint avec la Congrégation de laPassion et met l’accent sur les programmes d’études et les publica-tions en cours actuellement, et qui s’orientent par dessus tout sur la
21 Cf F. Giorgini, Introduzione a Lettera... cit., 18 ss.
FRA
ENG
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relation entre Dominique Barberi et John Henry Newman, en ce quiregarde tout à la fois leur histoire et leur pensée.
UN ENCUENTRO PROVIDENCIAL:
NEWMAN Y LOS PASIONISTAS
Di Adolfo Lippi c.p.
En preparación para el acontecimiento de la beatificación delCardenal Newman, prevista para este año, el autor llama la aten-ción sobre la profunda relación del insigne teólogo y santo con laCongregación de la Pasión, y señala los programas de estudio y laspublicaciones que están en vías de realización. Tales publicacionesversarán sobre todo sobre la relación entre Domingo Barberi y JohnHenry Newman, tanto por lo que se refiere a su historia como a supensamiento.
EINE BEGEGNUNG DER GÖTTLICHEN
VORSEHUNG: NEWMAN UND DIE PASSIONISTEN
von Adolfo Lippi CP
In Vorbereitung auf die Seligsprechung von Kardinal Newman, dienoch in diesem Jahr stattfinden soll, ruft der Autor die engeVerbindung des herausragenden und heiligen Theologen mit derKongregation der Passionisten in Erinnerung. Der Artikel infor-miert über geplante Studienprogramme und Publikationen, die sichvor allem auf Pater Domenico Barberi und John Henry Newmankonzentrieren und sowohl deren Geschichte als auch derenGedanken offenlegen.
OPATRZNOŚCIOWE SPOTKANIE:
NEWMAN I PASJONIŚCI
Adolfo Lippi c. p.
Przygotowując się do beatyfikacji kardynała Newmana, która jestprzewidziana na ten rok, autor przypomina głębokie związkisłynnego teologa ze świętym ze Zgromadzenia Męki Pańskiej.Nawiązuje też do programów badawczych i publikacji, jakie sąplanowane. Będą one dotyczyć przede wszystkim związków międzyo. Domenico Barberi e Johnem Henry Newmanem, zarówno w tym,co dotyczy kolei ich życia, jak też ich myśli.
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ESP
POL
GER
teologia
Il Sacerdoziodi Cristoe del cristiano23-49
sacrascritturaeteologiadi ANGELA MARIA LUPO C.P.
Alla luce della Parola di Dio, l’autrice di questo articolo - che èuna studiosa di Sacra Scrittura - fa comprendere fin dall’inizioil senso che hanno le sue riflessioni: “L’anno sacerdotal indettodal papa Benedetto XVI invita tutti, preti, laici, comunitàcristiana a riscoprire il dono grande del sacerdozio di Cristo edel cristiano”. Il sacerdozio del cristiano non consiste, come siè portati a pensare, in un’attivitàfinalizzata a soddisfare il bisognodi religiosità proprio dell’uomo conatti formali di culto, ma la vocazio-ne di ogni credente ad essere,davanti al Padre e per il mondo,quello che è Cristo, “la cui princi-pale preoccupazione era quella dipresentarsi all’umanità come unmistero che nessuna formula pote-va esprimere in pienezza”.
L’anno sacerdota-
le indetto dal
papa Benedetto
XVI invita tutti, preti,
laici, comunità cristia-
ne, a riscoprire il dono grande del sacerdozio di Cristo e del cristiano.
Il prototipo del sacerdozio comune dei fedeli e del sacerdozio mini-
steriale è Cristo; il sacerdozio ha preso corpo in lui prima di prende-
re corpo nella Chiesa e quindi bisogna partire dal Cristo per compren-
dere il sacerdozio comune e ministeriale dei fedeli, poiché la novità
del sacerdozio cristiano proviene dall’originalità propria di Cristo; è
nel Cristo, come appare nei Vangeli, che prima di tutto occorre sco-
prirla, anche se nei testi evangelici manca una dottrina esplicita del
sacerdozio1. È necessario lasciarci ammaestrare da Cristo:
IL SACERDOZIODI CRISTOE DEL CRISTIANO
Premessa
1 Cf. J. GALOT, Teologia del sacerdozio, Firenze 1981, 18.
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ANGELA MARIA LUPOSapCr XXV
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sacrascrittura
eteologia
teologia
“Se io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel
mio Figlio, e non ho altro da manifestarti, come ti posso
rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su
Lui solo, nel quale io ti ho detto e rivelato tutto, e vi trove-
rai anche più di quanto chiedi e desideri … Tu dunque non
desidererai né chiederai nessuna rivelazione o visione da
parte mia: guarda bene il Cristo e in Lui troverai già fatto e
detto di più di quanto tu vorresti. Se tu desideri che io ti
sveli alcune cose o avvenimenti occulti, fissa in Lui i tuoi
occhi e vi troverai dei misteri molto profondi, la sapienza e
le meraviglie di Dio le quali, secondo quanto afferma il mio
apostolo, sono in lui contenute…”2.
1.1 Assenza del titolo
di sacerdote
Esaminando i testi
evangelici emerge che
Gesù non si è mai chia-
mato sacerdote e non
ha mai parlato né di sacerdozio né di preti per indicare il ruolo e la
qualità dei suoi apostoli. Tuttavia l’assenza del termine non indica
l’assenza di tale realtà ed anzi ciò è conforme all’abitudine di Gesù
che non ama definirsi con dei titoli che saranno invece usati succes-
sivamente dalla comunità cristiana: Messia o Cristo, Signore, Figlio
di Dio, Redentore…
Questo atteggiamento di Gesù si spiega con il desiderio di non
ridurre a delle formule la rivelazione della sua identità personale,
volendo invece provocare uno sforzo di riflessione nei discepoli. La
preoccupazione principale di Gesù era di presentarsi all’umanità
come un mistero che nessuna formula poteva esprimere in pienezza.
Per quanto riguarda il titolo di sacerdote la sua astensione indica che
non si attribuiva un sacerdozio simile a quello giudaico della sua
epoca.
Che cosa lo separava da questo sacerdozio? In primo luogo vi era
il carattere ereditario del sacerdozio levitico. Gesù non aveva
un’ascendenza sacerdotale, a differenza di Giovanni Battista che
1. La posizione di Gesùdi fronte al sacerdozio
giudaico
2 GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo, II, 22,5-6, 174-175.
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Il Sacerdoziodi Cristoe del cristiano23-49
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aveva per padre un sacerdote, Zaccaria, e per madre Elisabetta,
della discendenza di Aronne (Lc 1,5). Giuseppe, “della casa di
Davide” (Lc 1,27), non apparteneva alla tribù di Levi ma a quella di
Giuda, e Maria non aveva nemmeno un’origine degna di essere
menzionata, perché l’evangelista Luca mantiene il silenzio su
questo argomento.
Questo fatto primordiale della nascita di Gesù comporta che a
partire da Lui il sacerdozio non potrà più essere legato ad una qua-
lifica ereditaria, né può costituire una casta provvista di privilegi.
Prima ancora che si manifestasse l’ostilità della casta sacerdota-
le nei confronti di Gesù, Egli aveva preso le sue distanze mostrando
che apportava un nuovo sacerdozio, come pure una nuova religione:
“Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino
spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri
nuovi” (Mc 2,22).
Così, per dimostrare la novità del suo sacerdozio rispetto a
quello giudaico, Gesù evita di applicare il vocabolario sacerdotale
sia a se stesso che ai suoi discepoli.
1.2 Il rimprovero rivolto ai sacerdoti giudaici
I racconti evangelici testimoniano il rispetto che Gesù aveva
verso i sacerdoti; infatti, più volte, dopo aver guarito un ammalato,
Gesù gli prescrive di andare a mostrarsi ai sacerdoti per far consta-
tare la guarigione (Mt 8,4; Mc 1,44; Lc 5,14; 17,14)3. Caratteristica
è l’ingiunzione: “Non dire niente a nessuno, ma va’, presentati al
sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordi-
nato come pubblica testimonianza” (Mc 1,44)4.
Nella parabola del buon samaritano emerge ciò che Gesù
pensava di certi modi d’agire sacerdotali: sia un levita che un sacer-
dote passano “dall’altra parte della strada” senza soccorrere il ferito
3 Cf. V. TAYLOR, The Gospel according to St. Mark, London 1977, 190.4 R. PESCH, Il Vangelo di Marco, Brescia 1980, I, 247: “Sorprende che
il motivo della segretezza si presenti proprio nel caso dei miracoli che latradizione protocristiana attribuisce a Gesù quale profeta dell’ultimo tempo:guarigione di lebbrosi, risurrezione di morti, guarigione di sordomuti e diciechi. Nella sua accentuazione cristologica, la nostra narrazione richiamaval’attenzione su Gesù come profeta del tempo finale. Essa rientra nello stadiotradizionale della prima missione cristiana, nella quale si narrava dei miracolidi Gesù superiori a quelli dei grandi uomini di Dio dell’AT”.
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(Lc 10,31-32). Passare dall’altra parte della strada significa ritener-
si dispensato dall’amore del prossimo, riparandosi dietro la finzione
legale secondo la quale colui che cammina da una parte non vede ciò
che succede dall’altra e non è dunque tenuto ad intervenire5.
Attraverso questa parabola Gesù denuncia un legalismo che serve
a giustificare omissioni nell’amore dovuto al prossimo e allo stesso
tempo lascia intendere come dovrebbe essere il comportamento del
sacerdote, la cui nota distintiva è la carità.
Gesù concepisce ed esercita la sua missione essenzialmente come
una missione di rivelazione dell’amore divino in tutta la sua esisten-
za umana, al contrario della casta sacerdotale che attenta alle varie
norme e prescrizioni si oppone per esempio ai miracoli operati da
Gesù in giorno di sabato e arriva anche a pensare di far morire
Lazzaro dopo la sua resurrezione, per cancellare le tracce del mira-
colo operato da Gesù. È una decisione presa dai sommi sacerdoti,
riferisce Giovanni (12,10), ed indica l’orientamento di un sacerdo-
zio che pretendeva di esercitare la sua autorità in senso contrario
all’amore, distruggendo il bene che l’amore sovrabbondante di
Cristo aveva realizzato.
Nel suo conflitto
con il sacerdo-
zio giudaico,
Gesù fa apparire le
caratteristiche del suo
sacerdozio. Anzitutto il
sacerdote appare come l’uomo del sacro, che etimologicamente cor-
risponde al senso della parola “sacerdozio”. Personalmente, avendo
dei rapporti privilegiati con la divinità, possiede un certo carattere
sacro; tramite lui si manifestano l’azione e la presenza divina.
In secondo luogo, il sacerdote può essere definito come il “mini-
stro”, colui che compie funzioni d’ordine rituale e cultuale, o altre
funzioni di natura religiosa.
2. Il nuovo sacerdozio
5 W. GRUNDMANN, Il Vangelo secondo Luca, Berlino 1971, 223,suppone che il sacerdote abbia pensato che l’uomo fosse morto e quindi abbiavoluto conformarsi alla prescrizione di non contaminarsi col contatto di uncadavere (Lv 21,1).
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2.1 Gesù - Uomo del sacro
Gesù è l’uomo sacro per eccellenza, poiché è stato consacrato
in virtù del suo concepimento (Lc 1,35). Perciò la sua santità è
superiore a quella del popolo giudaico, perché viene direttamente
dall’alto, ha un carattere ontologico, essendo legata alla formazione
della natura umana di Gesù e, più ampiamente, al mistero
dell’Incarnazione. Gesù vi ha fatto allusione quando ha definito
se stesso “colui che il Padre ha consacrato e inviato nel mondo”
(Gv 10,36).
Se il “sacro” designa ciò che appartiene a Dio, Gesù è sacro nel
modo più perfetto, poiché tutto il suo essere umano appartiene alla
persona divina del Figlio. Inoltre è da notare il valore nuovo della
consacrazione del Figlio che non è più una separazione dal mondo,
ma si realizza con l’entrata nel mondo. La santità divina che si mani-
festa in Gesù vuol penetrare nel mondo per trasformarlo.
La santità iniziale di Gesù si sviluppa e si concretizza con atti di
consacrazione richiesti dalla missione. Il primo atto è la presentazio-
ne al Tempio, poiché essendo consacrato a Dio, ogni primogenito
deve essere riscattato e per Gesù il riscatto non si opera soltanto con
un’offerta simbolica, ma con il consenso di Maria al destino del
fanciullo annunciato da Simeone. In ciò vi è una prima offerta del
sacrificio redentore, offerta materna che precede e implica già
l’offerta sacerdotale futura di Gesù.
Nell’episodio del battesimo, la venuta dello Spirito Santo su
Gesù realizza una nuova consacrazione in vista della missione da
compiere. Questa consacrazione si riflette nelle parole: “Tu sei il
figlio mio prediletto” (Mc 1,11). È stata evocata da Gesù stesso
quando, nella sinagoga di Nazaret, si è applicato l’oracolo di Isaia
(61,1): “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha
consacrato con l’unzione” (Lc 4,18). Essa è la sorgente di tutta
l’effusione dell’amore salvatore: amore del lieto annuncio ai poveri,
luce ai ciechi, liberazione degli oppressi e dei prigionieri.
La consacrazione trova il suo compimento nel sacrificio
redentore. Nella preghiera sacerdotale Gesù dichiara: “Per loro io
consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità”
(Gv 17,19)6.
6 Cf. G. SEGALLA, La preghiera di Gesù al Padre (Gv 17), Brescia 1983,225-231.
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Infine, il frutto della consacrazione sacrificale si trova nella risur-
rezione: lo Spirito riempie di santità la carne di Gesù risuscitandola.
La lettera agli Ebrei
è l’unico scritto del NT
nel quale l’autore,
volendo mostrare la
superiorità della reli-
gione cristiana sul giu-
daismo, mette in luce il valore unico del sacerdozio di Gesù.
L’idea fondamentale della lettera è che, a seguito del suo sacrifi-
cio, Gesù è stato proclamato eterno sommo sacerdote secondo l’or-
dine di Melchisedek (Eb 5,6; 6,20; 7,17)7, non secondo l’ordine di
Aronne (7,11). Egli non appartiene al sacerdozio levitico e il suo
sacerdozio non ha nemmeno un’origine giudaica: Melchisedek è
infatti uno straniero che ha benedetto Abramo e che da lui ha rice-
vuto la decima; è dunque considerato come anteriore e superiore alla
razza giudaica.
La lettera agli Ebrei interpreta il silenzio del racconto biblico sul-
l’origine di Melchisedek come significante l’assenza di origine
umana: “Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza
principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rima-
ne sacerdote in eterno” (7,3)8.
Questa presentazione del personaggio di Melchisedek potrebbe
far pensare che Cristo è sacerdote da tutta l’eternità, ma altri testi
della lettera completano questa dottrina specificando che per essere
sacerdote bisogna essere uomo. “Ogni sommo sacerdote” è “preso
fra gli uomini”; deve possedere la natura umana per poter “interve-
nire per il bene degli uomini” (5,1)9. Il sacerdozio implica una soli-
darietà con gli uomini, perché una realtà essenziale nella missione
3. Il sacerdozio di Cristosecondo la lettera agli Ebrei
7 Cf. C. ZESATI ESTRADA, Hebreos 5,7-8. Estudio histórico-exegético,AnBib 113, Roma 1990, 292.
8 Prima della lettera, Filone aveva interpretato il personaggio diMelchisedek con un’esegesi allegorica, vedendo in lui una manifestazione delLogos e riconoscendo nella sua regalità un simbolo della retta ragione cheregna sull’uomo (Cf., De leg. alleg., III, 79-82).
9 D. BERRETO, “La natura del sacerdozio secondo Eb 5,1-4 e le sue realiz-zazioni nel Nuovo Testamento”, Salesianum 26 (1964) 395-440.
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del sacerdote è la compassione per le debolezze umane e ciò richie-
de l’esperienza delle prove: “Non abbiamo un sommo sacerdote che
non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso
provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato”
(4,15). Questa compassione permette un aiuto efficace: “Proprio
perché anch’egli è passato per le prove, può venire in aiuto a coloro
che sono provati” (2,18)10.
Il Figlio, perciò, è diventato sacerdote solo in virtù
dell’Incarnazione; non era sacerdote prima di farsi uomo, e la lette-
ra non parla mai di un’attività sacerdotale che avrebbe esercitato
nella sua preesistenza11.
La lettera considera il Cristo come “mediatore della Nuova
Alleanza” (9,15) e la qualità di mediatore corrisponde all’obiettivo
del sacerdozio12. Gesù è mediatore in modo unico, perché è Figlio di
Dio. Non è un semplice intermediario umano che si rivolge al Padre
in favore dell’umanità, ma essendo Figlio la sua mediazione rag-
giunge la qualità più elevata riuscendo ad unire la terra al cielo e il
cielo alla terra. Infatti, il sacrificio compiuto da Gesù inizia sulla
terra e si conclude in cielo, come il suo stesso sacerdozio.
Cristo, inoltre, compie una volta per tutte il sacrificio d’espiazio-
ne che i sacerdoti giudaici dovevano ripetere infinite volte. Il suo
gesto imita quello del sommo sacerdote che nella festa
dell’Espiazione entrava nel Santo dei Santi per aspergere di sangue
il propiziatorio, ma lo supera grandemente. Infatti con l’effusione
del suo sangue Gesù riconcilia definitivamente il popolo con Dio e
diviene principio di salvezza per l’umanità, poiché penetra non
in un santuario costruito da mani d’uomo, ma nel santuario celeste
(9,11-12).
10 Cf. M. CICCARELLI, “La solidarietà e la misericordia di Cristo SommoSacerdote in Eb 2,10-18”, in G. MANCA (ed.), La redenzione nella morte diGesù, Cinisello Balsamo 2001, 117ss.
11 Ibid., 140: “Nel momento in cui si dice che egli ha condiviso in tutto lanatura umana viene ribadito che gli uomini sono suoi fratelli. Gesù non solo nonsi sottrae a questo rapporto di fratellanza ma anzi, con la sua assimilazionealla natura umana e la sua solidarietà nella sofferenza e nella morte, lo radica-lizza al massimo”.
12 Lo scopo essenziale del sacerdozio è sempre stato lo stabilimento diuna mediazione tra gli uomini e Dio. Ciò è vero nell’AT, ma si verifica ancorpiù nel NT.
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Si deve dunque ammettere che il sacerdozio di Cristo ha avuto ini-
zio con l’Incarnazione e ha raggiunto la sua piena realtà con la sua
entrata in cielo. Il Cristo celeste esercita il suo sacerdozio interceden-
do per gli uomini, grazie all’unico sacrificio offerto sulla terra che
Egli presenta continuamente al Padre. È in questo senso che l’autore
dichiara che se Gesù fosse sulla terra non sarebbe neppure sacerdote
(8,4): il valore del suo sacrificio risulta dalla sua entrata in cielo.
L’intercessione è la continua manifestazione della mediazione:
dopo essersi esercitata per tutta l’umanità nella consumazione del
sacrificio, la mediazione si esercita nell’applicazione dei frutti del
sacrificio. Nella prospettiva della lettera, quindi, il sacerdote è con-
siderato come colui che offre il sacrificio e poi, in ragione del sacri-
ficio, intercede per gli uomini e procura loro la salvezza.
È da notare che la lettera agli Ebrei applica il termine “sacerdo-
te” solo a Cristo e non parla mai di “sacerdoti” per designare coloro
cha esercitano un’autorità nella comunità, ma piuttosto costoro sono
chiamati “guide” o “capi” e vengono considerati come coloro che
partecipano al sacerdozio di Cristo. Infatti, l’insegnamento fonda-
mentale della lettera è che la verità del sacerdozio si trova solo in
Cristo: prima di lui il sacerdozio giudaico era solo un’ombra, una
figura senza valore in se stessa. A partire da Cristo ci può essere una
partecipazione al suo sacerdozio, un prolungamento dello stesso o
una manifestazione di esso nella vita terrena dei cristiani e per il
principio dell’unicità del Suo sacerdozio si esclude ogni altro sacer-
dozio che si potrebbe costituire indipendentemente da lui.
L’espressa affer-
mazione di un
sacerdozio co-
mune a tutto il popolo
cristiano la troviamo in
due scritti del NT, la
prima lettera di Pietro e l’Apocalisse,13 che tendono ad applicare ai
4. Il sacerdozio comune
13 Cf. P. DACQUINO, Il sacerdozio del nuovo popolo di Dio e la primalettera di Pietro, Brescia 1967; G. DE ROSA, “Il sacerdozio comune deifedeli nella tradizione della Chiesa”, Civiltà Cattolica 1972, IV, 350-357;I. PEROLLI, Rivalutazione del laicato dalla Chiesa antica ad oggi e ripristinodei relativi ministeri, Roma 1977.
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cristiani la promessa rivolta da Jahvè al popolo giudaico, secondo Es
19,6: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”.
4.1 Nell’Apocalisse
Nell’Apocalisse tre testi affermano la partecipazione di tutti i cre-
denti al regno messianico terrestre:
Gesù Cristo “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio
e Padre” (1,6).
Coloro che sono stati fatti “per il nostro Dio un regno di sacerdo-
ti, regneranno sopra la terra” (5,10).
Coloro che prendono parte alla risurrezione di Cristo “saranno
sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con Lui per mille anni”
(20,6).
Si tratta di una partecipazione al sacerdozio di Cristo, ma nello
stesso tempo di una consacrazione a Cristo. Ciò che appare soprat-
tutto è la qualità regale di questo sacerdozio, poiché si pone l’accen-
to sul regno. Nessun altro atteggiamento o attività vengono citati, se
non il fatto di regnare col Cristo.
In rapporto alla prospettiva dell’Esodo la novità consiste nel
ruolo centrale del Cristo: il sacerdozio universale non è più conce-
pito soltanto a partire da Dio e dalla sua alleanza, ma si fonda inte-
ramente sul Cristo sacerdote e re.
In che cosa consiste questo sacerdozio? Secondo il contesto dei
tre passaggi, esso risiede in una santità conferita da Cristo, che è
Colui che “ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (1,5);
essa è essenzialmente liberazione dal peccato e dalla morte. In tali
testi allora “sacerdote” significa la condizione di vita offerta dal
redentore all’umanità, la partecipazione alla sua santità e alla sua
vita gloriosa di risuscitato. Non si tratta di ministero, poiché non
viene data nessuna indicazione in merito a funzioni sacerdotali.
4.2 Nella prima lettera di Pietro
Nella prima lettera di Pietro la menzione del sacerdozio regale è
un poco più sviluppata: “Anche voi venite impiegati come pietre
vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio
santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù
Cristo” (2,5). “Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazio-
ne santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere
meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammi-
rabile luce” (2,9).
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In questi testi l’accento non è più messo sulla regalità, ma costi-
tutivo del sacerdozio è l’atto di offrire sacrifici spirituali graditi a
Dio, non più vittime animali immolate nel tempio. Questi sacrifici
non hanno più bisogno di un intervento di un sacerdote per l’immo-
lazione, ma la loro qualità spirituale implica la capacità personale
d’offerta di tutti i credenti14.
I “sacrifici spirituali” possono essere definiti come un’imitazione
volontaria da parte dei cristiani dell’offerta sacrificale del Cristo
sofferente. È inoltre da notare che, pur essendo un fatto personale,
l’offerta di sacrifici spirituali è comunitaria, come il sacerdozio.
Il “sacerdozio santo” è corporativo, e la “dimora spirituale” è
collettiva: essa non indica la semplice abitazione dello Spirito in
ogni credente, ma l’edificio di tutta la Chiesa abitata dallo Spirito.
Così, il sacerdozio dello Spirito risiede nella Comunità.
4.3 Le altre indicazioni del NT
4.3.1 Le lettere di Paolo
Le affermazioni dei testi dell’Ap e della 1Pt trovano un sostegno
in altri testi del NT, in particolare nelle lettere di Paolo. In esse,
anche se non si parla in maniera esplicita di un sacerdozio comune,
è presentata una concezione della vita che si orienta in questa dire-
zione. La prima lettera ai Corinti afferma la consacrazione fonda-
mentale dei cristiani, applicando ad essi l’immagine del tempio,
analoga a quella di “edificio spirituale” presente in 1Pt 2,5: “Non
sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo
è il tempio di Dio che siete voi” (1Cor 3,16-17).
E in un altro passo leggiamo: “Non sapete che il vostro corpo è
tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non
appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo!
Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1Cor 6,19-20)15.
Appare così che tutto l’essere del cristiano, anima e corpo, in
virtù dell’opera redentrice del Cristo, è diventato un luogo santo; il
corpo è stato acquistato per divenire tempio dello Spirito, quindi
14 Cf. J. GALOT, Teologia del sacerdozio, 106.15 Cf. G. BARBAGLIO, Il pensare dell’apostolo Paolo, Bologna 2004, 277-
298.
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anche se non viene usato il termine, l’idea centrale è quella del
sacerdozio, di un’appartenenza esclusiva a Dio. Inoltre, la consacra-
zione descritta supera quella che caratterizzava il sacerdozio leviti-
co: è ottenuta da Cristo ed è costituita dalla presenza dello Spirito
santo, non è legata all’appartenenza alla tribù di Levi.
Così anche quando in 2Cor 1,21-22 leggiamo che “Dio ci ha con-
ferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello
Spirito nei nostri cuori”, il sigillo significa che il cristiano è diven-
tato proprietà di Dio. Dal battesimo, dunque, deriva uno stato d’ap-
partenenza a Dio, di consacrazione; il cristiano è un santuario in cui
abita lo Spirito Santo e questa consacrazione primordiale è principio
di un comportamento che rende gloria a Dio.
Anche nella lettera ai Romani è ripetuto il motivo dell’offerta del
sacrificio a Dio: “Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di
Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito
a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1)16. Tale offerta è
la conseguenza del battesimo che in precedenza Paolo aveva consi-
derato, come immersione nel mistero della morte e risurrezione di
Cristo: “Ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù,
siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo
siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come
Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così
anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,3-4).
In questa prospettiva il battesimo non è semplicemente una presa
di possesso dell’essere umano da parte di Cristo, ma immerge nel
sacrificio di Cristo e richiede un’offerta personale. In tal senso uni-
sce la persona all’atto sacerdotale di Cristo e fa penetrare questo atto
in tutta la vita umana che diventa un culto sacerdotale.
Infine Paolo parla in termini sacrificali nella lettera ai Filippesi:
con la sua fede la comunità offre un sacrificio, compie una liturgia
e il suo sangue sarà versato in libagione su questa offerta sacrifica-
le (2,17). Questa è una delle parole più profonde di Paolo sulla fede:
essa non è intesa come una semplice adesione alla verità, ma è un
16 A. GIENIUSZ, “La vita come sacrificio (Rm 12,1-8): alle radici del non-conformismo cristiano”, in PSV 2 (2006), 214: “La vita morale del credentenon è nient’altro che l’effetto del previo agire di Dio e la risposta ad esso; essaè un offrirsi pieno di riconoscenza a Colui che si è offerto per primo. In ultimaanalisi, una risposta alla misericordia di Dio, e non la paura, oppure il sensodi dovere, costituisce il motivo più profondo dell’agire morale del cristiano”.
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attaccamento a Cristo che implica il sacrificio; la fede è l’omaggio
fondamentale della persona umana a Cristo e tale omaggio compor-
ta un dono radicale di sé, superiore ai sacrifici dell’AT.
Ogni cristiano possiede dunque un sacerdozio che gli permette di
offrire a Cristo il sacrificio di tutta la profondità della sua persona,
con un’adesione di fede integralmente vissuta.
4.3.2 La dottrina di Gesù
Abbiamo già considerato che, secondo la testimonianza evange-
lica, Gesù non si è mai servito dei termini “sacerdozio” o “sacerdo-
te” per designare quelli che aderivano a Lui e seguivano il suo
messaggio, ma anche se non è presente la terminologia in un testo
del IV Vangelo troviamo presente la realtà del sacerdozio comune.
Si tratta della parte finale del dialogo tra Gesù e la Samaritana: “È
giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno
il Padre in spirito e verità” (Gv 4,23)17.
Il culto sacerdotale giudaico, legato al tempio, perde il suo valo-
re; il culto dell’avvenire, che si inaugura già ora, ha la caratteristica
di essere un’adorazione del Padre “in spirito e verità”; non si tratta
più di un culto esteriore, ma che richiede l’impegno di tutta la per-
sona. L’espressione “in spirito e verità” sembra riferirsi alle disposi-
zioni personali di coloro che adorano il Padre; ma queste stesse
disposizioni sono dovute all’influsso dello Spirito Santo e alla veri-
tà rivelata da Cristo, garantita dalla sua presenza.
Il nuovo culto spirituale che si esige è fondato sul fatto che “Dio
è spirito” (Gv 4,24) e quindi deve essere ad immagine di Dio stes-
so. L’adorazione umana appare come una partecipazione all’essere
o all’agire di Dio. Il culto si effettua nella verità del Cristo, che
conosce e rivela il Padre e nel dono misterioso dello Spirito che
eleva lo spirito umano al livello dello spirito divino. Il nuovo culto
implica un’entrata nel mistero trinitario: l’accesso al Padre per
mezzo del Figlio nello Spirito. Tale culto, inoltre, non può operarsi,
come i culti esteriori, per mezzo di un rappresentante del popolo, ma
richiede l’impegno di ciascuno, perché in esso ciascuno è responsa-
bile della sua offerta.
Dal dialogo di Gesù con la donna Samaritana si evince che un
primo tratto distintivo del sacerdozio comune è la partecipazione del
17 Cf. R. FABRIS, Giovanni, Roma 1992, 282-314.
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credente alla consacrazione di Cristo ed essa è compiuta in virtù del
mistero dell’Incarnazione. Per adorare il Padre in spirito e verità,
bisogna essere santificati interiormente dallo Spirito Santo, essere
penetrati dalla rivelazione del Cristo.
La vita umana deve essere posta sotto il dominio della vita divi-
na della Trinità: questo dominio costituisce una consacrazione
sacerdotale, prolungamento di quella che era stata realizzata perfet-
tamente da Gesù.
Inoltre, tutti sono chiamati ad adorare il Padre in spirito e verità,
non solo i membri di una determinata tribù, e in tale universalismo
appare un altro superamento, quello concernente la barriera dei
sessi. Questa barriera era emersa dalla reazione della donna alle
prime parole di Gesù ma, intrecciando intenzionalmente la conver-
sazione con lei, Gesù apre alla donna una nuova prospettiva religio-
sa. Non è un caso che egli sceglie una donna per una dichiarazione
sul nuovo culto. Il sacerdozio universale è accessibile alla donna
non meno che all’uomo, non è ammessa nessuna discriminazione tra
i sessi.
Infine, per adorare il Padre in spirito e verità bisogna vivere una
vita spirituale proveniente dallo Spirito Santo e che implica una
nuova nascita: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua
e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla
carne è carne, e quel che è nato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,5-6).
Il nuovo culto trae dunque origine dal Battesimo e si sviluppa con
l’Eucaristia: tramite la nuova nascita si forma uno stato di consacra-
zione in cui l’essere umano vive sotto il dominio dello Spirito Santo.
Poiché questo stato si manifesta in un culto spirituale, merita il
nome di sacerdozio.
“Il sacerdozio del
Cristo è partecipa-
to in modo diverso
sia dai ministri, sia dal
popolo fedele”18. Trat-
tando del sacerdozio
di Cristo, abbiamo osservato che Gesù aveva manifestato la sua
5. Il sacerdozio ministeriale
18 LG 62.
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volontà di stabilire un nuovo sacerdozio, con l’edificazione di un
nuovo tempio. Anche se si è presentato come pastore unico e idea-
le, ha chiesto ai suoi discepoli di pregare per l’invio di operai nella
sua messe, prevedendo un gran numero di collaboratori alla sua mis-
sione pastorale19.
Ora bisogna vedere più esplicitamente come Gesù ha previsto e
instaurato una struttura pastorale o sacerdotale per l’avvenire della
sua Chiesa. Evidentemente non ci si deve attendere, da parte sua, la
determinazione giuridica della gerarchia così come si è sviluppata
nel corso dei secoli, ma ci preme vedere le intenzioni manifestate da
Cristo e le decisioni da lui prese in vista del ministero sacerdotale
che sarebbe stato esercitato dopo la sua partenza dalla terra.
5.1 L’istituzione dei dodici
Gesù ha costituito attorno a sé un gruppo chiamato “i dodici” e
tale scelta è riportata dai Vangeli in una maniera che mostra l’impor-
tanza che rivestiva per Gesù. Marco dice che per questa istituzione
Gesù è salito sulla montagna (3,13); Luca aggiunge che si era ritira-
to in disparte per pregare e che aveva fatto la sua scelta dopo una
notte di preghiera (6,12). Per nessun’altra decisione ci è stata ripor-
tata dagli evangelisti una preghiera così lunga. Si trattava dunque di
una decisione importante.
La sovranità della scelta operata da Gesù viene espressamente
posta in luce da Marco: “Gesù chiamò a sé quelli che egli volle”.
Questa libertà assoluta nella chiamata è confermata da Giovanni:
“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi …” (15,16). In con-
creto, la scelta si opera tra un numero più grande di discepoli (Lc
6,13), in modo da distinguere la chiamata a seguire Gesù in qualità
di discepolo e una chiamata più speciale a far parte del gruppo dei
dodici20.
Anche la menzione del nome dei dodici indica il valore unico
della designazione agli occhi degli evangelisti e della comunità
cristiana. Significativo è il numero dodici, perché corrisponde alle
19 Cf. G. GIAVINI, « Ministro e ministri alla luce del NT », Scuola Cattolica104 (1976) 558-563. A. LEMAIRE, « Les ministères dans la recherche néo-testamentaire », Maison-Dieu 115 (1973) 30-60 ; B. RINALDI, « La missionedel sacerdote nel NT », Presbyteri 2 (1970) 29-40.
20 Cf. S. FAUSTI, Una comunità legge il vangelo di Luca, Bologna 2003,160ss.
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12 tribù d’Israele e rivela l’intenzione di porre le fondamenta di un
nuovo Israele, che è la Chiesa. Marco sottolinea l’aspetto creatore
dell’iniziativa di Gesù: “Fece i dodici” (3,14.16) e qui il verbo
“fare” richiama quello impiegato nel racconto della Genesi per la
prima creazione e quindi si riconosce a Gesù un potere creatore
simile a quello di Dio. È sui dodici che Gesù vuol fondare il suo
edificio, pur riservando a Pietro un posto unico nelle fondamenta.
Nella costituzione dei dodici un elemento essenziale è lo stato
d’unione che essi devono avere con il Cristo: “Ne fece dodici per-
ché stessero con lui e per mandarli …”. Prima d’essere inviati e per
poter essere inviati, i dodici devono anzitutto vivere uniti a Gesù. Il
loro essere deve diventare un “essere con”, unito a Cristo e solo
dopo si potrà realizzare la missione espressa da Marco in questi ter-
mini: “… per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demo-
ni”. Ciò che è importante osservare è che la missione dei dodici si
deve modellare su quella di Gesù. Egli si diceva inviato dal Padre e
inoltre l’oggetto della missione è simile, perché la predicazione e
l’espulsione dei demoni sono posti in rilievo nel Vangelo di Marco,
all’inizio della vita pubblica, come attività importanti di Gesù.
Questi dona dunque ai dodici la missione di esercitare un’attività
simile alla sua: li ha chiamati perché compiano la sua opera.
All’origine della missione bisogna ricordare il privilegio accor-
dato ai dodici di conoscere i segreti del regno, la comprensione dei
disegni di salvezza, in particolare il senso delle parabole (Mc 4,11;
Mt 13,11; Lc 8,10). Questo mistero non è soltanto dato da conosce-
re, è donato, ossia affidato ai dodici, mentre, “a quelli di fuori tutto
viene esposto in parabole”.
Dai testi evangelici emerge che Gesù ha quindi voluto comunica-
re ai dodici la pienezza del suo potere pastorale, dando ad essi il
potere di celebrare l’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me” (Lc
22,19), il potere di battezzare, di predicare e di rimettere i peccati
(Lc 24,47; Gv 20,22-23). In altri termini significa che Gesù ha
trasmesso ai dodici il suo sacerdozio e che in questo sacerdozio
erano compresi i compiti di governo, d’annuncio della parola, e
d’attività cultuale o sacramentale21.
21 La dipendenza totale nei riguardi di Cristo fa capire perché il sacerdoteviene anche chiamato “alter Christus”: Cristo, infatti, lo rende partecipe del suopotere di Salvatore dell’umanità e fa trasparire in lui il suo volto di pastore.
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5.2 La struttura gerarchica
Gesù non si è limitato a “fare i dodici” per investirli del suo
sacerdozio. Ha posto anche una struttura essenziale in questo sacer-
dozio, una “gerarchia”, poiché consiste in una gradazione di “poteri
sacri”.
Vi sono tre gradi nella missione e nel potere di pastore, secondo
le intenzioni manifestate da Gesù, che non corrispondono esatta-
mente alla trilogia tradizionale: episcopato, presbiterato, diaconato.
5.2.1 Il potere pastorale supremo di Pietro
Per espressa volontà di Gesù il potere pastorale supremo è stato
conferito a Simone, uno dei dodici. La solennità della promessa del
primato è messa in rilievo da Matteo (16,18-19): “E io ti dico: Tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli
inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno
dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto
quello che scioglierai sulla terra sarò sciolto nei cieli”.
Nella promessa si distinguono due annunci essenziali e correlati-
vi: Simone riceve un nuovo nome, quello di Cefa o di Pietro, perché
Gesù edificherà “su questa pietra” la sua Chiesa; egli disporrà delle
“chiavi del regno dei cieli”, che implicano il potere di legare e di
sciogliere, cioè il potere supremo.
Il testo di Lc 22,31-32 mette in luce un altro aspetto più partico-
lare del ruolo di Pietro nella Chiesa: “Simone, Simone, ecco satana
che vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per
te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, con-
ferma i tuoi fratelli”.
Queste parole portano il segno dell’audacia di Gesù che per la
conferma dei suoi fratelli non esita a scegliere colui che nella prova
apparirà il più fragile. La dichiarazione manifesta chiaramente l’in-
tenzione di Gesù di riservare a Simone una posizione privilegiata: i
dodici sono messi alla prova, ed è unicamente a Simone che Gesù
parla della preghiera che ha fatto in suo favore. Anche gli altri bene-
ficheranno di questa preghiera, ma in quanto confermati da Pietro.
La predizione del triplice rinnegamento, che nel testo di Luca
segue immediatamente questo enunciato, completa la dimostrazione
che Simone non potrà adempiere al suo ruolo con le sole forze
personali, ma in virtù di una forza superiore; la sua debolezza di un
momento non gli impedirà di mantenere la sua fede al punto di
confermare quella degli altri.
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Nel testo di Gv 21,15-15 c’è un completamento al testo di
Matteo. Gesù accorda a Simone il potere di pastore universale:
“Pasci i miei agnelli”, “Pasci le mie pecore”. Questa comunicazione
di potere appare come frutto dell’opera redentrice, poiché essa è
effettuata dal Cristo risorto. Gesù chiama il discepolo col suo nome,
con una certa solennità: “Simone, figlio di Giovanni” e gli chiede
espressamente: “Mi ami tu più di costoro?”. La domanda fa eco alla
pretesa manifestata da Simone di avere un attaccamento a Gesù
superiore a quello di tutti gli altri, con una fedeltà che avrebbe per-
severato anche nel caso della diserzione di tutti (Mt 26,33; Mc
14,29). Simone ha dovuto riconoscere che con le sue forze non era
riuscito a testimoniare a Gesù l’amore superiore che gli aveva pro-
messo. Malgrado questo fallimento, la domanda si riferisce a questo
amore superiore che Simone è invitato ad esprimere, fondandosi
sulla conoscenza che Gesù possiede di lui: “Signore, tu sai tutto, tu
sai che ti amo” 22. In questo scambio d’amore Gesù dà a Simone la
carica di pastore e ciò significa che Gesù eserciterà la sua missione
di pastore sui suoi agnelli mediante l’incarico affidato a Simone, il
quale rinuncia alle sue pretese e fonda tutto sulla sua fede in Gesù23.
Le parole di Gesù a Simone hanno una forza notevole e sono la
manifestazione della sua originalità che non ha esitato a scegliere
una persona debole come pietra di fondazione della Chiesa e ad
assegnargli la missione particolare di confermare i suoi fratelli
nella fede.
22 R. E. BROWN, Giovanni, Assisi 1999, 1408: “Il valore diretto della tri-plice domanda e della triplice risposta non sta tanto nel fatto che Gesù dubitadi Pietro, quanto nel fatto che l’amore di Pietro per Gesù è zelante”.
23 Y. SIMOENS, Secondo Giovanni, Bologna 1997, 838: “Pietro è segna-to in maniera indelebile dal suo rinnegamento, e ciò deve bastare. Adesso sitratta di lasciare a Pietro la possibilità di incarnare la veracità delle sue affer-mazioni spingendosi fino all’estremo dell’amore. La passione, la morte e larisurrezione di Gesù illuminano già la notte del suo rinnegamento. Come con-seguenza di ciò, Pietro ama già tanto di più il suo Signore, che quest’ultimo nonritorna su quel crollo. Proprio in tal modo Gesù offre a Pietro l’occasione diesprimersi dal profondo del suo cuore. Questa è la logica del desiderio evan-gelizzato”.
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5.2.2 La volontà di dare dei collaboratori ai dodici
I testi evangelici ci riferiscono la presenza di numerosi discepoli
attorno a Gesù; la costituzione del gruppo più ristretto dei dodici non
toglie nulla alla chiamata che era stata rivolta agli altri discepoli.
Sarebbe un errore ritenere che i dodici fossero i soli ad accompagna-
re Gesù sulle strade della sua predicazione.
Quelli che i testi evangelici nominano “discepoli” non sono dei
semplici credenti, ma degli uomini che si sono messi a seguire Gesù
e manifestano l’intenzione di condividere la sua vita e di dedicare le
loro forze all’opera che ha intrapreso.
Luca ci riferisce una missione dei discepoli distinta dalla missio-
ne dei dodici. Dopo aver raccontato come Gesù aveva convocato i
dodici e li aveva inviati a proclamare il regno di Dio (9,1-2), scrive:
“Il Signore designò altri 72 discepoli e li inviò a due a due davanti
a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi” (10,1). Come ai 12,
egli rivolge un discorso di missione e sono muniti dell’autorità di
Cristo nel loro insegnamento; infatti, secondo Luca, è ad essi che
viene garantito: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi
disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha manda-
to” (10,16)24.
In tal modo si capisce che Gesù ha voluto condividere sia con i
12 che con i 72 la sua missione di predicazione e il suo potere sulle
potenze del male. I 12 ricevono un’autorità superiore, ma per quan-
to riguarda le caratteristiche essenziali della missione e del potere,
non c’è differenza. Al loro ritorno gioioso, i 72 come i 12 dicono a
Gesù: “Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”.
E Gesù stesso conferma l’efficacia della loro missione: “Io vedevo
satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il pote-
re di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni poten-
za del nemico…”25.
Non bisogna misconoscere ciò che è proprio ai 12: essi sono stati
i testimoni privilegiati della vita terrena, della morte e della risurre-
zione di Gesù; essi conservano per sempre il privilegio di aver
assistito all’ultima Cena, d’aver partecipato alla prima eucaristia
24 Cf. U. TERRINONI, Progetto di pedagogia evangelica, Roma 2004,27-31.
25 Cf. J.-N- ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa delvangelo di Luca, Brescia 1991, 95-112.
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Il Sacerdoziodi Cristoe del cristiano23-49
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e d’aver sentito con le loro orecchie il comando: “Fate questo in
memoria di me”. Tuttavia, questo potere l’hanno ricevuto per
trasmetterlo ad altri fino al termine dello sviluppo della Chiesa
nel mondo.
Gesù si è limitato a porre i principi dello sviluppo della sua
Chiesa, principi destinati a tradursi con il tempo in regole più
precise. Inoltre è importante sottolineare che Gesù ha voluto una
successione in continuità storica con se stesso e il gruppo dei 12,
poiché ha rimesso la totalità del potere sacerdotale a questo gruppo.
Nello sviluppo della Chiesa non si può immaginare un intervento
dello Spirito Santo che conferisca un incarico sacerdotale, in
maniera carismatica, al di fuori del collegamento per successione
storica ai primi apostoli.
5.3 Il sacerdozio dell’apostolo Paolo
Dopo la conversione Paolo ha una viva coscienza di esercitare,
nella sua missione, un sacerdozio, non concepito come funzione cul-
tuale e rituale. Luca racconta che Saulo è investito del ministero
sacerdotale mediante l’imposizione delle mani che riceve ad
Antiochia (At 13,1-3) e tale consacrazione dà a lui una nuova perso-
nalità, con un nome nuovo che esprime l’orientamento della sua
missione di apostolo verso il mondo greco.
Saulo aveva ricevuto da parte di Gesù che perseguitava, un appel-
lo immediato alla conversione ed alla missione: in questo senso egli
è apostolo, in virtù della volontà esplicita di Cristo. Ma questa qua-
lità doveva essere accompagnata da un’investitura della Chiesa. Con
l’imposizione delle mani egli riceve il dono dello Spirito ed è con-
sacrato in vista della missione di apostolo tra i pagani, missione che
deve comportare specialmente l’istituzione di presbiteri nelle nuove
comunità (At 14,23).
Paolo comprende la sua nuova missione nella prospettiva della
profezia del servo, essendo inviato verso le nazioni pagane a
portare loro la luce (Is 42,7); inoltre per Paolo lo scopo della sua
missione è che le nazioni ottengano, mediante la fede in Cristo,
la remissione dei peccati e una parte di eredità con i santificati
(At 26,16-18).
In tal modo Paolo si preoccupa di diffondere ovunque il lieto
annuncio e non si considera come particolarmente destinato ad
esercitare l’attività rituale consistente nel battezzare: “Cristo non mi
ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo” (1Cor 1,17).
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Avrà anche occasione di battezzare, ma comprende che quella non è
la sua missione prioritaria, bensì di annunciare Cristo; Paolo consi-
dera la sua predicazione come una “liturgia”, come una funzione
sacra di genere sacerdotale.
Paolo concepisce la sua missione di ministro della nuova allean-
za come finalizzata a far contemplare a viso scoperto il Signore, in
modo tale che coloro che lo contemplano siano trasformati nella sua
immagine (2Cor 3,14-18). Far vedere Dio è l’obiettivo del suo mini-
stero. È il culmine della missione d’insegnamento, perché non vi
potrebbe essere una più alta illuminazione di quella.
Il ministero sacerdotale ha quindi un’azione liberatrice perché fa
uscire l’uomo dalla sua impotenza a vedere Dio, da ciò che acceca
la sua intelligenza, da ciò che imprigiona i suoi pensieri. Il nuovo
sacerdozio, inoltre, non si caratterizza per la severità del giudizio
sull’umanità peccatrice, ma per l’offerta della salvezza. Infatti, un
altro aspetto fondamentale del ministero che Paolo sottolinea è di
essere “ministro della riconciliazione” (2Cor 5,18), ministero che si
attua soprattutto nell’Eucaristia (cf. 1Cor 11,26) che comunica la
salvezza nella remissione dei peccati.
L’annuncio della parola è accompagnato da una funzione di dire-
zione, perché Paolo esercita l’autorità sulle comunità cristiane con
le quali ha dei legami particolari; è cosciente di essere l’intendente
dei misteri di Dio, si ritiene responsabile del bene spirituale della
comunità, e fa uso del suo potere per promulgare delle prescrizioni
o raddrizzare delle situazioni compromesse.
La coscienza apostolica di Paolo è veramente una coscienza
sacerdotale, coscienza di una missione che si situa nel prolungamen-
to della missione sacerdotale di Cristo. Paolo riconosce la nobiltà
del suo ministero ritenendosi un collaboratore di Dio; non è un sem-
plice strumento, ma una persona che mette il suo marchio proprio su
un lavoro compiuto in unione con Dio. Il ministero sacerdotale
impegna tutte le risorse, tutte le forze della persona umana, perché
questa vive associata al sacrificio di Cristo: “Noi portiamo sempre e
dovunque nel nostro corpo le sofferenze di morte di Gesù, affinché
anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale… Così
la morte fa la sua opera in noi, e la vita in voi” (2Cor 4,10-12).
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teologia
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Èl’offerta che sal-
va il mondo, è
l’immolazione
che risolve il mistero
della storia, consenten-
do a Dio di redimere, di
perdonare, di salvare. La vocazione del cristiano, di colui che è insi-
gnito del sacerdozio comune o ministeriale, non può prescindere
dalla chiamata alla sofferenza ingiusta, volontariamente accettata,
per la redenzione degli altri, del mondo, a imitazione del Cristo. È
la vocazione vittimale, e vittimale volontaria. Il modello è Cristo:
questa è la regola, la norma: “Egli è vittima di espiazione per i nostri
peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il
mondo” (1Gv 2,2). Ma si badi bene: Gesù è protagonista d’amore, è
vittima di espiazione senza mai cadere nel vittimismo. Leggiamo
nella prima lettera di Pietro: “Cristo soffrì per voi, lasciandovi un
esempio, così da seguirne le orme: egli non commise peccato, né fu
trovato inganno nella sua bocca; insultato, non restituiva l’insulto;
soffrendo, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giu-
dica con giustizia” (1Pt 2,21-23). La morte di Gesù insegna agli
uomini che l’amore vero è quello che accetta di portare il peso della
colpa altrui.
I discepoli del Signore, in ogni tempo, sanno di essere associati
alla Pasqua di Gesù e, per mezzo del Battesimo, incorporati alla sua
missione sofferente e al destino glorioso di lui. Particolare conside-
razione vittimale hanno, nella tradizione vivente della Chiesa, i
martiri, i vergini e gli innocenti. La sete della salvezza delle animescaturisce da quella di Gesù sopra la croce: Ho sete!... Al di là del
senso letterale di quelle parole, i santi e i fedeli di ogni tempo vi
hanno visto l’assillo del Cuore di Cristo per la salvezza eterna delle
anime. Ed in sintonia con Lui hanno condiviso quella medesima
passione, collaborando con ogni sorta di opere, sacrifici e preghiere
e mediante il cosiddetto “voto di vittima”. È il “Corpo mistico” di
Cristo che continua nel tempo la missione salvifica del suo “Capo”
divino, Gesù.
6.1 La Messa mistica
Sono molti i battezzati che invidiano la dignità sacerdotale senza
considerare abbastanza che anche loro, in quanto battezzati, hanno
un’anima sacerdotale e che quindi tutti, in virtù del sacerdozio
6. Sacerdote e vittima
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comune sono chiamati a vivere una vocazione vittimale e a celebra-
re una Messa, non reale, ma spirituale, mistica, che ha delle analo-
gie con quella che si celebra sull’altare. È una messa che incomin-
cia con la vita, continua con la vita e non terminerà che con la vita.
Tale messa è, in qualche modo, la riproduzione di quella del sacer-
dote. Nella Messa mistica si devono ritrovare i tre atti essenziali:
l’offertorio, la consacrazione e la comunione26.
6.1.1 L’offertorio
Esorta Paolo: “Ve ne scongiuro: fate del vostro corpo un’ostia
vivente, santa e gradita a Dio” (Rm 12,1); e scrive sant’Agostino:
“Non cercare fuori di te l’ostia di cui hai bisogno: questa ostia la tro-
verai in te stesso”27. Si richiede che noi siamo ostie azzime, senza
lievito e il lievito simboleggia tutto ciò che non è puro ed è cattivo,
quello che non è secondo Dio. Dobbiamo dunque cercare nel nostro
spirito, nella nostra volontà, nel nostro cuore, ciò che è troppo
naturale, troppo umano e che non è degno di un vero cristiano e poi
occorre strapparlo, distruggerlo, per divenire più soprannaturali.
Come il sacerdote prende l’Ostia nelle mani e l’offre a Dio, così
il battezzato deve offrirsi a Dio senza riserve; deve offrire a Lui tutti
i suoi sensi le facoltà dell’anima, i pensieri, la volontà, gli affetti.
Deve prendere la vita di ogni giorno con le sue fatiche, le sofferen-
ze, le lotte, gli sforzi e offrirla a Dio.
Voi pure offritevi a Dio e ditegli: “Signore, io mi offro a te, per
essere l’ostia vivente della mia famiglia: voglio sacrificarmi affin-
ché i miei parenti e tutti quelli che amo siano benedetti, santificati e
salvati. Signore, mi offro a te, come ostia vivente della tua santa
volontà: voglio essere sacrificato per santificarmi, per giungere alla
vetta della mia vocazione, per compiere la mia missione e per
realizzare tutti i disegni che tu hai su di me. Signore, mi offro a te,
come ostia vivente del tuo amore: voglio sacrificarmi, affinché il tuo
Nome sia santificato, il tuo regno arrivi, la tua volontà sia fatta;
affinché tu sia più conosciuto, più amato, più glorificato. Signore,
mi offro a te, come piccola ostia vivente dei peccatori: voglio
sacrificarmi per essere associato alla tua Passione, per espiare, per
riparare e meritare di vivere unito a te”.
26 Cf. F. ASTRUC, La Messa mistica. La vita cristiana è una Messa, Città delVaticano 1980.
27 Enanarr. in Psal 50,21.
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Questa offerta resta sempre incompiuta e deve essere rinnovata
tutti gli istanti del giorno e della notte per far in modo che la vita sia
un’offerta continua. Facendo ciò si compirà il primo atto della
messa mistica.
6.1.2 La consacrazione
Così come il sacerdote pronuncia la preghiera di consacrazione
sul pane e sul vino, allo stesso modo il fedele è chiamato a consa-
crare a Dio la propria vita facendo sì che scompaia l’uomo carnale
e rimanga sempre più lo spirituale. Inoltre, le parole di consacrazio-
ne hanno l’effetto di transustanziare l’ostia in Gesù Cristo; allo stes-
so modo il fedele deve cambiarsi in Gesù, deve diventare un altro
Gesù: deve consacrare il suo corpo affinché sia puro e santo come
quello di Gesù; l’anima, affinché sia divinizzata; il cuore, affinché
ami un po’ come ama il cuore di Gesù; lo spirito, affinché pensi un
po’ come pensa lo spirito di Gesù; la volontà, affinché voglia un po’
come vuole la volontà di Gesù; la vita quotidiana, affinché diventan-
do il prolungamento, l’estensione della vita di Gesù, sia un po’ come
la sua: una vita di santità, di carità, di apostolato, di redenzione.
Quando si potrà dire come san Paolo: “Vivo, ma non io, Cristo
vive in me” (Gal 2,20), allora si sarà raggiunto l’effetto della consa-
crazione mistica. A misura che si realizzerà questa consacrazione,
Gesù si servirà della persona per vivere ed agire nel mondo. Si ser-
virà di ciascuno per pensare, parlare, pregare, amare e soffrire; per
consolare, convertire e santificare; per riparare, espiare e salvare; in
una parola si servirà di noi per continuare a “passare nel mondo
facendo del bene” (At 10,38).
6.1.3 La comunione
Il terzo atto della messa mistica è la comunione. Oltre la comu-
nione eucaristica, vi sono altri modi per comunicarsi di Gesù Cristo.
Infatti, ogni atto che unisce a Gesù è una comunione:
• Gesù è nel Vangelo e quindi, quando si medita la Parola
di Dio, si opera un vero mistero eucaristico: il Verbo en-
tra in noi, alimenta la nostra intelligenza, riscalda il no-
stro cuore, rinnova la nostra vita e ci trasforma in Lui. Al-
lora ci comunichiamo di Gesù nascosto nel santo Vange-
lo.
• Gesù è nelle anime che sono in stato di grazia e quindi,
quando con il pensiero, con l’affetto e con la carità si è
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uniti alle anime che possiedono la vita della grazia ci si
comunica di Gesù vivente in esse.
• Gesù è nei fanciulli, negli umili, nei poveri e nei soffe-
renti. È lui stesso che ha detto: “In verità vi dico, tutto ciò
che fate ad uno di questi più piccoli tra i miei fratelli, lo
fate a me stesso” (Mt 25,40). In particolare, quando si sof-
fre, per una malattia, per un’incomprensione, bisogna ri-
cordarsi che in quel momento ci si comunica della pas-
sione del Salvatore. Quando invece si visitano i malati, o
si compiono delle opere a favore della santificazione del-
le anime, ci si comunica dell’apostolato di Gesù.
Così, unendoci a Gesù sacramentalmente o spiritualmente (nel
pensare e nell’agire), si partecipa alla sua vita interiore ed esteriore.
Ma bisogna fare come il sacerdote che divide l’ostia con i fratelli.
Allo stesso modo bisogna essere un’eucaristia vivente per gli altri,
per i membri della propria famiglia e offrire Gesù a chiunque ci
avvicini. Questa maniera di comunicarsi è facile ed è possibile in
ogni momento; facciamo in modo perciò che la nostra vita sia una
comunione continua di Gesù.
La messa del cristiano, dunque, a differenza di quella che celebra
il sacerdote, dura tutta la vita; sarà sempre incominciata e mai fini-
ta finché si rimarrà su questa terra.
Il sacerdozio non è
una realtà d’ordine
s e m p l i c e m e n t e
naturale, ma appartiene
all’ordine delle realtà
rivelate: Gesù rivelan-
doci il Padre allo stesso tempo ci rivela che l’uomo è divenuto in Lui
figlio, è reso partecipe del suo rapporto con il Padre e dell’amore
che lo lega al Padre, perché la sua vita non sia più frantumata ma
armoniosa, libera, creativa. E sia una vita in comunione nella reci-
procità dell’amore, come nella Trinità: “L’amore con cui mi hai
amato sia in essi e io in loro” (Gv 13,34; 15,12; 17,26).
In Cristo morto e risorto, l’unità è ristabilita. L’uomo pertanto è,
se è anche lui relazione d’amore. “Il cuor solo e l’anima sola”, di
cui si ha nostalgia, non è una esortazione spirituale, ma lamodalità di essere dei credenti che vivono in un già reale e storico,
Conclusione
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teologia
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sacrascritturaeteologia
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incamminati verso il non ancora. L’essere non è un essere solitario,
ma è amore, quindi relazione di amore che si dona e si apre
sull’altro costruendo nella reciprocità il “novum”, dai mille volti
ed uno: il laico, il sacerdote, la famiglia, la comunità, la Chiesa,
l’umanità28.
Ogni battezzato quindi, investito dal sacerdozio comune o mini-
steriale, non può agire in conformità con quello che è se non si lascia
penetrare più profondamente dalla mentalità evangelica, in modo da
diffondere i tratti autentici del Salvatore; si tratta, sia per il sacerdo-
te che per il cristiano ordinario, di prendere Cristo come modello di
ogni comportamento, per renderlo presente agli altri, “farlo vedere”
a tutti, all’umanità intera.
THE PRIESTHOOD OF CHRIST AND THAT
OF EVERY CHRISTIAN
By Angela Maria Lupo, C.P.
In the light of God’s Word the author of this article – a SacredScripture scholar – helps us to understand right from the beginningthe gist of her reflections. “The ‘Year of the Priest’ declared byBenedict XVI, invites us all, priests and laity as well as Christiancommunities, to rediscover the great gift of the priesthood, both thatof Christ and that of each individual Christian.” The priesthood ofa Christian does not consist, as many appear to think, merely as an
28 Si veda C. LAUDAZI, o.c.: “La centralità dell’amore nella struttura dellapersona umana”, 316-323. “L’amore, nell’ambito della pluridimensionalitàcostitutiva dell’essere umano, prima ancora che come virtù figura come unastruttura dell’uomo, anzi, figura come elemento costitutivo per eccellenza”. L’A.,a comprova, cita S. Basilio il Grande: “L’amore di Dio non deriva da nessunadisciplina esterna, ma si trova nella stessa costituzione naturale dell’uomo,come un germe e una forza della natura stessa. Lo spirito dell’uomo ha in sé lacapacità ed anche il bisogno di amare... Nella stessa nostra costituzone natu-rale possediamo tale forza di amare anche se non possiamo dimostrarla conargomenti esterni, ma ciascuno di noi può sperimentarla da se stesso e in sestesso” (regole più ampie).
ENG
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activity destined to satisfy a person’s religious needs through formalacts of worship; rather it is the calling of every believer to be, forthe whole world and in the presence of the Father, what Christ him-self is, “whose principal mission was to present himself beforehumanity as a mystery which no formulation can ever express in itsentirety”.
LE SACERDOCE DU CHRIST ET DU CHRÉTIEN
De Angela Maria Lupo c.p.
A la lumière de la Parole de Dieu, l’auteur de cet article – étudianteen Ecriture Sainte - fait comprendre dès le début le sens de sesréflexions: « L’année sacerdotale ouverte par le pape Benoît XVIinvite tous, prêtres, laïcs, communautés chrétiennes, à redécouvrirle don immense du sacerdoce du Christ et du chrétien ». Le sacer-doce du chrétien ne consiste pas, comme on serait porté à le penser,en une activité dont le but serait de satisfaire le besoin de religiositépropre à l’homme, par des actes formels de culte, mais c’est la voca-tion de chaque croyant d’être, devant le Père et pour le monde, cequ’est le Christ, « dont la principale préoccupation était de se pré-senter à l’humanité comme un mystère qu’aucune formule ne pou-vait exprimer en plénitude ».
EL SACERDOCIO DE CRISTO Y EL DEL CRISTIANO
De Angela María Lupo c.p.
A la luz de la Palabra de Dios, la autora de este artículo –que esuna especialista en Sagrada Escritura- da a comprender desde elcomienzo el sentido que tienen sus reflexiones: “El año sacerdotaldeclarado por el Papa Benedicto XVI invita a todos, sacerdotes, lai-cos, comunidad cristiana, a redescubrir el don grande del sacerdo-cio de Cristo y del cristiano”. El sacerdocio del cristiano no consis-te, como se nos ha hecho pensar, en una actividad que finaliza en elsatisfacer la necesidad de religiosidad propia del hombre con actosformales de culto, sino que es la vocación de todo creyente a ser,delante del Padre y para el mundo, aquello que es Cristo, “cuya
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ESP
FRA
principal preocupación era la de presentarse a la humanidad comoun misterio que ninguna fórmula podía expresar en plenitud”.
DAS PRIESTERTUM CHRISTI UND DAS
PRIESTERTUM DES CHRISTEN
von Angela Maria Lupo CP
Von Beginn an macht die Autorin dieses Artikels, dieBibelwissenschaften studiert hat, im Lichte des Wortes Gottes dasZiel ihrer Abhandlung deutlich: “Das von Papst Benedikt XVI aus-gerufene Priesterjahr lädt alle ein – Priester, Laien und christlicheGemeinschaften, das große Geschenk des Priestertums Christi unddes Christen neu zu entdecken”. Entgegen manchen Auffassungenbesteht das allgemeine Priestertum des Christen nicht in Aktivitäten,die darauf abzielen, die dem Menschen eigenen religiösen Be-dürfnisse durch öffentliche Kultakte zu befriedigen. Vielmehr ist dasPriestertum die Berufung eines jeden Christen, für die Welt vorGott, dem Vater, das zu sein, was Christus selbst ist. “Seine ersteSorge bestand darin, sich der Menschheit als Geheimnis zu offenba-ren, das sich in keinem Begriff in der ganzen Tiefe fassen lässt”.
KAPŁAŃSTWO CHRYSTUSA I CHRZEŚCIJANINA
Angela Maria Lupo cp
W świetle słowa Bożego autorka tego artykułu, uczona zajmującasię Pismem Świętym, pozwala zrozumieć od początku sens, jaki mająjej przemyślenia: “Rok kapłański ogłoszony przez papieżaBenedykta XVI zaprasza wszystkich: księży, świeckich, wspólnotęchrześcijańską, do odkrycia na nowo wielkiego daru kapłaństwaChrystusa i chrześcijanina”. Kapłaństwo chrześcijanina nie polega,jak czasem skłonni jesteśmy myśleć, na działalności, której celemjest zaspokojenie własnej pobożności człowieka poprzez celebracjęformalnych aktów kultu. Jest to powołanie każdego wierzącego, bybyć wobec Ojca i wobec świata tym, kim jest Chrystus, “któregonajważniejszą troską jest przedstawienie siebie ludzkości jakomisterium, którego żadne ujęcie nie mogło wyrazić w pełni”.
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POL
GER
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La Croce comeun’esperienza dello Shabbat con riferimentoa San Paolo51-60
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di MARTINO BRUNO
Martino Bruno è un sacerdote di origine ebraica, della dioce-si di Viterbo, professore nell’Istituto teologico San Pietro, diViterbo. Questo testo è una meditazione quaresimale che cipermette di respirare al tempo stesso nella tradizione ebraicae in quella cristiana e di percepire meglio, così, i tesori dell’in-segnamento paolino, non facil-mente accessibili a chi, come noi,è stato formato con le strutturementali della cultura greco-roma-na.
Preambolo
™gë d° ¿dista dapan»swkaˆ ™kdapanhq»somai
Øp°r tÒn yucÒn ØmÒn. e„perissotûrwj Øm©j ¢gapÒ[n], Âsson ¶gapÒuai;“In quanto a me molto volentieri spenderò, anzi saròspeso per le anime vostre, anche se amandovi piùintensamente sono amato di meno” (2Cor 12,15). Con
questa referenza possiamo comprendere meglio che nella esperien-
za personale di Paolo c’è un dato incontrovertibile: mentre all’inizio
era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro il segno
della croce, dal momento della sua esperienza sulla via di Damasco,
era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua
ragione di vita, anche nei confronti di una vita niente affatto tran-
quilla e al riparo da insidie e difficoltà, come lui stesso specifica:
“Quanti vogliono far bella figura seguendo la carne cercano dicostringervi a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati acausa della croce di Cristo” (Gal 6,12). In “Cristo Gesù” egli si è
acquistato quella pace fondamentale (shalom), con la quale inizia
LA CROCE COMEUN’ESPERIENZADELLO SHABBAT,CON RIFERIMENTOA SAN PAOLO
MARTINO BRUNOSapCr XXV
GENNAIO-MARZO 2010
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teologia
lo Shabbat: la “shalom alechem”. La pace dello Shabbat vissuta
come un’esperienza della Croce la quale, come specifica
Giovanni, si identifica con “l’Albero della vita”, il quale appartie-
ne a quelli in grado d’ascoltare (shemà) lo Spirito (Ap 2,7) a causa
della loro resistenza nei confronti del male.
Una vecchia
t r a d i z i o n e
sostiene: “Ilmondo futuro ha lecaratteristiche della
santità che lo shabbat possiede in questo mondo...una santitàsimile a quella del mondo futuro” (Mekiltà su Es 31, 17). Non è
allora per caso che Rabbi Akiba affermi: “A ogni giorno della set-timana era donato un cantico speciale che i leviti cantavano neltempio. Il primo giorno cantavano: “La terra è del Signore”; ilsecondo: “Grande è il Signore”, e così via. Ma il giorno delloshabbat essi intonavano: “Un Salmo: un Canto per il Giornodello Shabbat”; cioè un salmo, un canto per il tempo futuro, per ilgiorno che sarà tutto shabbat e come conseguenza pace nella vitaeterna” (Mishnà Tamid, fine: Rosh Hashana, 31a). Un tempo que-
sto, in cui ogni azione sarà annullata: “Non si mangia, non si beve,e non si fanno transazioni terrene, a causa che i giusti siedonosopra un trono, il capo cinto di una corona, e godono lo splendo-re della shechinà” (Avoth de-Rabbi Nathan). Il Libro
dell’Apocalisse descrive questa esperienza in questo modo: “Perquesto si trovano davanti al trono di Dio e lo servono notte e gior-no nel suo tempio. Colui che siede sul trono distenderà la suatenda sopra di loro: Essi non avranno più fame né sete non li col-pirà più né il sole né arsura alcuna, poiché l’ Agnello che sta inmezzo al trono, li pascerà e condurrà alle sorgenti d’acqua viva;e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 7, 15-17). Più che
una descrizione di quello che c’è, quanto viene comunicato da
questa visione ci indirizza ad una comprensione della “parola”
come qualcosa che possiede la potenza di evocare l’esperienza, e
non solo di descriverla. Tale scopo si manifesta nei Salmi: un
discorso provocativo, che richiama un cambiamento in grado di
superare i limiti imposti dalle nostre parole e azioni, così che
siamo in grado di cantare un cantico nuovo, “salmodiate con arte
Il Significatodello Shabbat
52
teologia
La Croce comeun’esperienza dello Shabbat con riferimentoa San Paolo51-60
sacrascritturaeteologia
53
in giubilo festoso” (Sal 33,3). La radice di questa metamorfosi col-
loca la persona nella sua essenzialità; il “cuore”. Non è allora per
caso che Ezechiele specifichi: Io HaShem vi darò “un cuore nuovoe metterò dentro di voi uno spirito nuovo. Toglierò il cuore di pietradal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne” (Ez 36,26). È que-
sto “cuore di carne” che ci permette di rendere grazie al Santo, per-
ché non più schiavi del male, cioè incapaci di concepire la santità.
In questo modo possiamo allora comprendere che la completezza
dello shabbat, in quanto riporta la persona all’esperienza originaria
dell’azione creativa, e quindi alla “Shalom”, ci indirizza alla
circoncisione del cuore, più che a quella esterna, perché la sua fonte
risiede nello spirito, più che nella carne (Rom 2, 29).
Secondo il
Talmud, lo shab-
bat è “me’en‘olam ha-ba”: vale a
dire, qualcosa che assomiglia al mondo futuro, in quanto permette
alla persona di fare l’esperienza dell’eternità; uno scandalo per i
pagani, una rivelazione per gli ebrei. Non è allora sorprendente che
lo shabbat si identifichi con il “ma’yam”: in altre parole, la “sorgen-te” dell’eternità, il pozzo da cui traggono origine sia il cielo, sia il
mondo futuro. Questa affermazione mi sembra radicale, particolar-
mente quando si trova inserita nel mondo romano dove la civiltà
tecnica rappresentava la meta più alta, e il tempo esisteva in funzio-
ne dello spazio; una visione non così lontana dalla nostra, che forse
spiega in parte perché lo Shabbat continua a “scandalizzare” la
nostra sensibilità con la sua insistenza che tutto (anche le ascensio-
ni) si deve sottomettere assolutamente alla sua presenza, senza com-
promessi.
Più che un giorno, lo Shabbat si identifica con la regina che
viene, circondata da canti e profumi come una sposa, e introdotta
dalla danza e dalle luci benedette, così che il suo regno trova la sua
espressione nella comunione dei fratelli, che intorno alla tavola con-
dividono la coppa benedetta e il pane azzimo. In questo contesto si
capisce allora l’insistenza da parte di Paolo che Cristo sia veramen-
te “sapienza”, “giustizia” e “santificazione”, che nell’insieme comu-
nicano il significato della redenzione vissuta come una chiamata
a vivere la santità, cosicché il cuore si identifica con l’immagine
Il Mondo Futuro
del volto divino, Cristo Gesù (1Cor 1, 30). Vivere questa esperienza
significa identificarsi con il mondo, il quale si trova racchiuso nello
spazio e nel tempo, incapace ad assaporare il senso dell’eternità, per
il fatto che non conosce “l’amore-grazia” (hesed) espresso dalla
completezza (shalom) ritrovata nella Croce.
Secondo la tradizione biblica, se non avremo appreso a gustare
il sapore dello shabbat mentre ci troviamo ancora in questo mondo,
dove siamo iniziati all’apprezzamento della vita eterna, non potre-
mo godere il sapore dell’eternità nel mondo futuro. Rabbi Solomondi Karlin descrive questa esperienza come la triste sorte di chi arri-
va in cielo inesperto, e una volta condotto lassù non ha la capacità
di percepire la bellezza dello shabbat. Con questo, egli sta indican-
do una verità non indifferente: vale a dire che è nell’ambito del
tempo che la persona sperimenta il sapore dell’eternità, poiché la
vita eterna non si realizza lontano da noi, ma è piantata in noi stessi
e si sviluppa oltre noi. La Croce ci invita a fare questa esperienza
dell’eternità, perché il suo messaggio riguarda la vita, più che la
morte. Un’esperienza in grado di rivalutare la sapienza delle paro-
le, perché “non venga resa vana la croce di Cristo” (1Cor 1, 17), la
quale costituisce una potenza straordinaria, un tesoro che risiede in
noi, “vasi di creta” (2Cor 4, 7). È qui, in questo mondo, che assapo-
riamo quello comunicato dalla Croce: “Siamo tribolati da ogniparte, ma non schiacciati; incerti, ma non disperati” (2Cor 4, 8),
perché anche Cristo fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per
la potenza di HaShem. E noi che siamo deboli in lui, siamo vivi con
lui per la potenza mostrata nella Croce (2Cor 13, 4). Assaporare
l’eternità è quindi un richiamo a metterci vicino a Cristo: “Esaminatevoi stessi per vedere se siete nella fede; provate voi stessi. Non rico-noscete voi stessi che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siateriprovati”.(2Cor 13, 5).
La chiave per
comprendere lo
Shabbat non si
trova nella ricerca del
bene, il quale risiede
nella capacità razionale della persona, e come tale costituisce il
penultimo nella scala che ci indirizza verso l’eternità. Il bene è la
base, ma il sacro costituisce la sommità di questa ricerca, perché
MARTINO BRUNOSapCr XXV
GENNAIO-MARZO 2010
sacrascrittura
eteologia
teologia
Il Bene è la Base,il Sacro è la Sommità
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teologia
La Croce comeun’esperienza dello Shabbat con riferimentoa San Paolo51-60
sacrascritturaeteologia
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senza quest’ultimo, il bene rinchiuderebbe la persona nel tempo e
nello spazio: Il bene è la base, il sacro è la sommità. La tradizione
biblica spiega questo con riferimento alla creazione: Le cose create
in sei giorni, HaShem le considerò “buone”, ma il settimo giorno
Egli lo rese “santo”. In questo ambiente possiamo forse affermare
che la vera dicotomia non riguarda l’anima e il corpo, ma riguarda
piuttosto il sacro e il profano, per il fatto che non tutti sono in grado
di concepire non solo la natura delle cose, ma il Creatore delle cose.
Quando i rabbini cercano di spiegare lo Shabbat, lo descrivono così:
“È lo spirito (ruah) sotto forma di tempo”. Il volto di Cristo richia-
ma il credente a riconoscere nel tempo l’epifania dell’eternità: la
“Parola” che non solo “era presso Dio, ma era Dio” (Gv 1, 1). Non
è allora per caso che Paolo richiama agli Efesini l’“elmo della sal-vezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio” (Ef 6, 17),
cosicché possiamo conoscere Cristo con la potenza della sua risur-
rezione, la quale ci permette di partecipare alle sue sofferenze, tra-
sformandoci in un’immagine della sua morte, la Croce (Fil 3, 10).
Incontrare lo Spirito nel tempo significa renderci conto che siamo
figli: “Poiché siete figli, Dio inviò lo Spirito del Figlio suo nei nostricuori, il quale grida; «Abbà, Padre!»” (Gal 4, 6).
La ricerca del sacro come culmine del bene ci indirizza a quello
che intende Paolo, quando dice che la “parola della croce è stoltez-za per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano,per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1, 18). Più che un segno esteriore,
la Croce rappresenta lo shabbat in quanto ci permette di percepire la
follia di chi limita la sua esistenza nel tempo e nello spazio, senza
rendersi conto della potenza divina che oltrepassa questi limiti. Non
è forse questo il significato del “buon combattimento della fede” da
attuare affinché si affermi la vita eterna alla quale siamo chiamati e
che testimoniamo con la nostra esistenza vissuta alla presenza di
Dio, con l’integrità di una vita che pone HaShem come suo fine,
consci che, agendo così, stiamo preparando i fratelli e le sorelle a
riconoscere il Cristo (1Tim 6, 12-14)?
Lo shabbat, come la parola creativa, evoca qualcosa che non si
accontenta del presente, ma richiama la memoria (zakar) del passa-
to per indirizzare la persona al futuro (hayyim = vita). In questa
maniera lo Shabbat indirizza l’attività umana: un bene che si svol-
ge nel tempo e nello spazio, per incontrarsi con il Santo. Il suo vero
obiettivo è la santità (qadosh). Quando si parla della “santità”, io
preferisco definirla come un’esperienza di completezza (shalom),
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eteologia
teologia
che ci permette di confrontarci non solo con quello che facciamo nei
confronti degli altri, ma, ciò che è più importante, di confrontare
quello che diventiamo, mediante l’azione, nei confronti di noi stes-
si. A questo punto forse vale la pena ricordare che il verbo “diven-
tare” è particolarmente importante quando si parla della ricerca cri-
stiana, quando questa è indirizzata dal Battesimo come condizione
per incontrarsi con il volto divino, Cristo Gesù. La ricerca del bene
riguarda questa azione, ma essa non basta in quanto il suo scopo si
realizza solo nell’incontro con la sacralità (qadash = mettere a parte,
“consacrare”) del Santo. Non basta contentarsi del bene, perché
esso, da solo, rimane incapace di inserire la persona nella comple-
tezza espressa dalla pace dello Shabbat (Shabbat Shalom). Non è
allora sorprendente l’affermazione di Paolo, quando dice che non
intende vantarsi di nulla all’infuori della Croce del Signore Gesù,
per la quale il mondo è crocifisso per me e io per il mondo (Gal 6:14,
“Ma quanto a me, non avvenga mai che io mi vanti all’ infuori dellacroce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è croci-fisso a me e io al mondo”).
Entrare nel sacro
(qadash) della
santità (qadosh)
indica la capacità di
mettersi a parte:
un’esperienza non più indirizzata dall’attività umana, ma dalla pre-
senza divina; la “shechinà”. Così facendo, la persona scopre un’al-
tra realtà, la quale non è più sottoposta all’interesse del guadagno,
ma all’essere: “ma il settimo giorno è sabato, sacro all’ Eterno, iltuo DIO: non farai in esso alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tuafiglia né il tuo servo né la tua serva né il tuo bue né il tuo asino néalcuna delle tue bestie né il forestiero che sta dentro le tue porte,affinché il tuo servo e la tua serva si riposino come te” (Deut 5, 14).
Una realtà che richiama uno svuotamento, perché indirizza la perso-
na ad un’esperienza periferica, in quanto messa a parte (qadash) da
quello che la maggioranza considera “normale”. L’identificarsi con
Cristo richiama questa esperienza, perché Egli: “svuotò se stesso,prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e,trovato nell’ esteriore simile ad un uomo, abbassò se stesso, dive-nendo obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 7-8).
Lo svuotamento comeesperienza dello Shabbat
56
teologia
La Croce comeun’esperienza dello Shabbat con riferimentoa San Paolo51-60
sacrascritturaeteologia
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Identificarsi con la santità della Croce richiede una simile esperien-
za dove la persona è in grado di entrare nella tomba la sera dello
Shabbat (Gv 19, 31) per poi risvegliarsi nella luce del giorno, quan-
do, come Maria di Magdala, il credente riconosce il volto del
“Rabbuni” (Gv 20, 16). E’ un’esperienza evocativa, che rifiuta d’es-
sere sottomessa alla sapienza dei saggi o degli intelligenti, perché la
predicazione della Croce è pazzia per chi non ha conosciuto la
potenza divina (1Cor 1, 18-19).
In una parte della
liturgia ebraica
dedicata allo
Shabbat si legge que-
sto: “ESSO è un alberodella vita per quelli che LO abbracciano e i SUOI sostenitori sonoda ammirare. Le SUE vie sono vie piacevoli e i SUOI sentieri sonopace. Facci ritornare a TE, HaShem, e noi ritorniamo. Rinnova inostri giorni come i giorni precedenti”.
L’Albero della Vita (Etz Chaim) si trova all’inizio della Bibbia,
nel mezzo, ma anche alla fine. Nel giardino, l’Albero della Vita è
causa di tentazione, ma anche occasione di redenzione. In questo
paesaggio lo shabbat si celebra nell’immediatezza di HaShem, senza
la necessità del nascondimento (Gen 3, 8). Mangiando invece del-
l’albero “della conoscenza del bene e del male”, l’umanità scopre la
sua nudità, che fino ad allora era stata vissuta come segno della
benedizione divina, ma che ora imbarazza, perché dislocata da que-
sta benedizione, manifesta la fragilità umana (Gen 3, 7). Il nascon-
dimento è quindi un richiamo della fragilità nei confronti del Santo:
la rottura di quel dialogo segnato da una comunione fondata nell’im-
mediatezza del rapporto “io”-“tu”. La reazione di Dio a questo
nascondersi di Adamo è altrettanto interessante: HaShem rivolge la
parola espressa da quel grido che ancora rimbomba nel cuore di chi
lo cerca: “Dove sei?”. Una parola che continua a segnare la storia
del rapporto dell’uomo con HaShem, fino a quando, come afferma
Giovanni, la Parola (lÒgoj) si è fatta carne ed ha abitato in mezzo
a noi, cosicché abbiamo visto la Sua gloria, gloria piena di grazia e
di verità (Gv 1, 14).
Questa stessa Parola abbraccia l’albero della morte, così che il
“Consacrato” (Messhiah) si è sottoposto alla maledizione della Torà
Lo Shabbat comeAlbero della Vita
MARTINO BRUNOSapCr XXV
GENNAIO-MARZO 2010
sacrascrittura
eteologia
teologia
per rivendicarla: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione dellalegge, essendo divenuto maledizione per noi, poiché sta scritto:«Maledetto chiunque è appeso al legno»” (Gal 3, 13). Questo albe-
ro si trasforma, mediante questo abbraccio, in un’occasione di vita
per noi: “ma uno dei soldati con un colpo di lancia gli trafisse ilfianco e ne uscì subito sangue ed acqua” (Gv 19, 34).
C’è ancora un altro albero che appare alla fine delle Scritture:
“Beati coloro che adempiono i suoi comandamenti per avere dirittoall’ albero della vita, e per entrare per le porte nella città” (Ap 22,
14). Questa volta possiamo nuovamente godere lo Shabbat (shalom)
perfetto, perché l’albero della vita vi è stato ristabilito a causa della
Croce. Nella completezza della Croce (Shalom – Shabbat), l’umani-
tà (adam) riscopre quel dialogo iniziale, senza il nascondimento vis-
suto nell’acquisto della conoscenza del bene e del male, cosicché
l’uomo può rispondere alla domanda “Dove sei?”: “Chi ha orecchi,ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: a chi vince io darò damangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al paradiso di Dio”
(Ap 2, 7). È a causa di questo ricupero dell’Albero della Vita, che
Paolo può indirizzare la comunità cristiana verso la “grazia” e la
“pace”, segni dell’immediatezza di HaShem, che mediante la Croce
della Parola “lÒgoj” ci permette di chiamarlo “Padre” con la forza
dello Spirito (1Cor 1, 3).
Abbiamo insie-
me meditato
questo tema:
“La Croce come espe-rienza dello Shabbat, con riferimento a San Paolo” nell’ambito
della Quaresima: un tempo forte della liturgia, che intende darci una
mano per comprendere l’acclamazione pasquale: “Cristo è vera-mente risorto!”. L’affermazione di questa acclamazione indirizza il
credente alla pace vissuta come completezza della sua identificazio-
ne con Cristo e gli permette, perciò, di entrare in quella “NotteOscura” che secondo Giovanni della Croce, ci rende possibile il
vivere pienamente l’intuizione avuta da Paolo nei confronti della
Croce: la completezza della storia salvifica vissuta nell’incontro col
Cristo Risorto.
Conclusione
58
teologia
La Croce comeun’esperienza dello Shabbat con riferimentoa San Paolo51-60
sacrascritturaeteologia
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THE CROSS AS A SHABBAT EXPERIENCE, WITH
REFERENCE TO ST. PAUL
By Martino Bruno
Martino Bruno is a priest of Jewish origin of the Viterbo, Italy dio-cese, a professor at the Istituto Teologico San Pietro (St. Peter’sTheological Institute) in Viterbo. This article is a Lenten meditationwhich helps us to have our feet in both the Jewish traditions andthose of Christianity, and thus to be able to better grasp the Paulineteaching, not always easy for those of us who have been formed ina Greco-Roman mental structure.
LA CROIX COMME EXPÉRIENCE DU SHABBAT, EN
RÉFÉRENCE À SAINT PAUL
de Martin Bruno
Martin Bruno est un prêtre d’origine juive, du diocèse de Viterbe,professeur à l’Institut Saint Pierre, de Viterbe. Ce texte est uneméditation de carême qui nous permet de respirer en même tempsdans la tradition hébraïque et dans la tradition chrétienne, et demieux percevoir ainsi, les trésors de l’enseignement paulinien, pastoujours accessible à ceux qui, comme nous, ont été formés dans lesstructures mentales de la culture gréco-romaine.
LA CRUZ COMO UNA EXPERIENCIA DEL SÁBADO,
CON REFERENCIA A SAN PABLO
De Martín Bruno
Martín Bruno es un sacerdote de origen judío, de la diócesis deViterbo, y es profesor del Instituto teológico San Pedro, de Viterbo.Este texto es una meditación cuaresmal que nos permite respirar almismo tiempo dentro de la tradición hebrea y de la cristiana y deeste modo percibir mejor los tesoros de la enseñanza paulina,no fácilmente accesibles a los que, como nosotros, hemos sidoformados en las estructuras mentales de la cultura greco-romana.
FRA
ESP
ENG
MARTINO BRUNOSapCr XXV
GENNAIO-MARZO 2010
sacrascrittura
eteologia
teologia
PAULUS UND DAS KREUZ ALS ERFAHRUNG
DES SHABBAT
von Martino Bruno
Martino Bruno ist hebräischer Abstammung, Priester der DiözeseViterbo und Professor am dortigen theologischen Institut SanPietro. Seine Meditation zur Fastenzeit, macht es möglich diehebräische und die christliche Tradition gleichzeitig einzuatmen.Auf diese Weise werden die Schätze der paulinischen Lehre für unsleichter verständlich, die normalerweise unseren griechisch-roma-nischen Denkkategorien nicht so leicht zugänglich sind.
KRZYŻ JAKO DOŚWIADCZENIE SZABATU
Z ODNIESIENIEM DO ŚW. PAWŁA
Martino Bruno
Martino Bruno jest kapłanem pochodzenia żydowskiego z diecezjiViterbo, profesorem Instytutu Teologicznego św. Piotra w Viterbo.Tekst ten jest medytacją wielkopostną, która pozwala nam zarazemoddychać tradycją hebrajską i chrześcijańską oraz zrozumieć lepiejskarby nauczania św. Pawła Apostoła, które nie są łatwo dostępnedla tych, którzy jak my zostali ukształtowani przez mentalnośćgrecko-rzymską.
POL
GER
60
spiritualità
I Fratelli laicinella Congregazionedella Passione61-80
pastoraleespiritualità
di FABIANO GIORGINI C.P.
Il compianto storiografo dei passionisti aveva preparato unostudio sui religiosi non sacerdoti, con particolare riferimentoad una figura che è stata tanto importante nella cristianità deitempi passati, quella del fratello laico, particolarmente delquestuante. Una vocazione rimasta in ombra, ma che ha atti-rato ed attira uomini di grandevalore, è ancora scelta liberamen-te da alcuni e apprezzata da altri.
Il presente contributo fa parte
delle ricerche che si sono avviate
sulla vita di Fratel Lorenzo dello
Spirito Santo (Marcelli), dopo
l’apertura della sua causa di bea-
tificazione. Questo fratello era nato a Caprarola (VT) il 31
agosto 1874 e morì a Nettuno il 14 ottobre 1953. Chiamato
in una recente biografia “Il Questuante di Dio”1, egli ci riporta,
come tanti altri fratelli laici, alle origini dell’Istituto e richiama una
figura – quella del Fratello laico e particolarmente, del questuante,
molto importante per la vita delle comunità cristiane dei secoli pas-
sati. La storia delle nazioni cristiane - scriveva Giuseppe Comparelli
- dal medioevo fino al Concilio Vaticano II considera la figura del
questuante itinerante come un elemento dell’assetto socio-religioso
e civile, come un fattore di comprensione. Ne è un esempio il ritrat-
to sociale della Lombardia dei “Promessi Sposi” con la figura di Fra
Galdino, il questuante che spiega la circolazione benefica della cari-
tà della questua.
I FRATELLI LAICINELLACONGREGAZIONEDELLA PASSIONE
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1 Barlocci M., Il questuante di Dio. Fratel Lorenzo dello Spirito Santo,Rogate, Roma, 2004.
FABIANO GIORGINISapCr XXV
GENNAIO-MARZO 2010
pastoralee
spiritualità
spiritualità62
Negli Istituti
monastici si
trovano dei
cooperatori chiamati
“conversi, oblati, dona-
ti”: essi non venivano
chiamati monaci perché non lo erano. Anticamente il termine con-
verso da converti, convertere, indicava il mutamento di rotta nella
propria vita, che poteva avvenire passando dal paganesimo al cri-
stianesimo (cf 1Pt 2, 25), oppure dandosi ad un tenore di vita più
intensa. Il “converso” per eccellenza è il monaco.
Dal sec. IX il termine “converso” che significava, fino allora e lo
continua a significare fino al sec. XI circa, “monaco entrato in reli-
gione in età matura”, comincia a significare monaco “illetterato”.
Ciò era la conseguenza dell’evoluzione monastica verso il sacerdo-
zio richiesta dalla situazione della Chiesa nei “secoli di ferro”, che
necessitava dell’aiuto dei monaci sacerdoti. Dentro il chiostro si
opera la distinzione tra monaci letterati - cioè chierici - e monaci
illetterati, non chierici. Questi ultimi si occupavano dei lavori
manuali non come un operaio qualunque, ma come servo di Dio.
Dal sec. XI aumenta anche la familia dell’abbazia benedettina
che conta molti laici pii che per devozione o per proteggere i loro
interessi contro i feudatari offrivano all’abbazia se stessi, il proprio
lavoro e i loro beni in tutto o in parte, facendo promessa d’obbedien-
za all’abate, ma conservando la propria libertà giuridica. L’abbazia
pensava ai loro bisogni. Erano chiamati “conversi”, quantunque
vivessero fuori del monastero.
1. Cenni storicisull’origine della vocazione
del Fratello coadiutore2
2 Nella Congregazione passionista, fino ad oggi, non esiste uno studio veroe proprio sui Fratelli laici, meno ancora sui Fratelli laici questuanti. Bibliografiagenerale: BONDUELLE J.P., “Convers”, in DASM IV, 562-588 è lo studio fonda-mentale sui conversi e laici; RIPABOTTONI Alessandro OFMCap., I Fratelli laici nelprimo Ordine Francescano, Roma 1956; alcuni articoli importanti sul problemadei “Religieux Laics” si possono trovare in Supplément de la vie Spirituelle1949, 15 nov.; per la voce “Conversi” cf l’indice analitico di Acta et doc.congr. gen. perf.. Fonti: Regulae et Const. c.p, Romae 1958 per l’edizione deitesti storici; Regula et Const. 1959 per l’ed. corrente; Consuetudines c.p.,Romae 1958; Lettere di S. Paolo della Croce; Decreti dei capitoli gen. e pro-vinciali; Regolamenti comuni, Decreti delle visite canoniche; Biografie eNecrologie.
spiritualità
I Fratelli laicinella Congregazionedella Passione61-80
pastoraleespiritualità
63
L’abate Guglielmo di Hirsau (+ 1091) organizza questi “conver-
si” chiamandoli Fratres exteriores, cioè viventi fuori del monastero,
nel quale non possono entrare. I Cisterciensi poi, sorti verso la fine
del secolo XI, affidano ai conversi le “grangie”, trattandoli come
monaci in vita ed in morte excepto monachatu, ed invece della
Regola di San Benedetto fanno loro osservare gli Usus converso-rum. Nei sec. XV-XVI avviene la abolizione delle “grangie” ed i
conversi vengono ammessi dentro i monasteri, apportando un pro-
fondo cambiamento nelle due categorie: ordo monachorum et ordoconversorum.
Con gli ordini mendicanti sparisce la dualità: tutti sono Frati allo
stesso titolo, tutti sono claustrali e tutti religiosi, nel senso pieno
della parola, formanti un unico Ordine. La differenza è fondata non
sullo stato di vita, essendo una ed identica la professione e la vita
comune, ma sulle occupazioni: i fratelli sono ad servitia corporaliavocati mentre i chierici si occupano del ministero apostolico, ma
tutti e due partecipano della stessa finalità e vita.
I frati ad servitia corporalia vocati sono chiamati “laici” o anche
“conversi”, nome questo che è rimasto nella legislazione ecclesiasti-
ca, ma che oggi nelle varie costituzioni delle Congregazioni e nel
linguaggio comune non si usa perché non corrispondente alla realtà
storica e psicologica. Si chiamano piuttosto “coadiutori” o “ausilia-
ri”. Questo perché l’accento non è posto sulla conversio ad divinauguale a quella del frate chierico, ma sull’aiuto per cui egli coope-
ra, in secondo piano, all’opera comune della Congregazione, a cui
appartiene, per la salvezza delle anime.
Un ulteriore sviluppo si è avuto nell’ultimo secolo, riguardo alla
istituzione dei Fratelli nelle Congregazioni dedicate all’insegnamen-
to e alla formazione dei giovani, per esempio salesiani o maristi, in
cui i “coadiutori” svolgono mansioni di grande importanza nelle
Scuole professionali, agricole, fanno da ragionieri, architetti, ecc.,
oltre i servizi di casa, ed in quanto all’attività apostolica si inserisco-
no nell’Azione Cattolica, negli Oratori festivi, nei circoli di Scouts,
e simili. Questi “coadiutori” non riproducono più la figura dell’anti-
co “converso” ed in gran parte neppure quella dei “Fratelli laici”
degli Ordini mendicanti.
I fratelli laici passionisti derivano da quelli degli Ordini
mendicanti, si distinguono sia dai “conversi” dei monaci che dai
“coadiutori” delle ultime congregazioni, ai quali però credo che si
dovrebbero avvicinare sempre di più.
FABIANO GIORGINISapCr XXV
GENNAIO-MARZO 2010
pastoralee
spiritualità
spiritualità64
Essi sono laici e
tali rimarranno o
perché non
hanno sentito la chia-
mata del Signore per il
Sacerdozio o perché, a
causa dell’età, delle attitudini, o dell’impossibilità di compiere i
necessari studi, non accederanno al sacerdozio. Sono però anche
religiosi, poiché per seguire più da vicino Cristo, hanno deciso di
percorrere la via dei consigli evangelici ed hanno emesso i voti in un
Ordine o Congregazione approvato dalla Chiesa e con questa pro-
fessione religiosa sono diventati uguali ai Padri, cioè ai religiosi
sacerdoti della propria famiglia religiosa. C’è una interdipendenza
tra laici e chierici religiosi: gli uni hanno bisogno degli altri sul
piano spirituale, apostolico ed umano.
Ma nonostante questa uguaglianza essenziale, vi è anche una
distinzione che si può chiamare, come dice il P. Bonduelle, “subal-
ternante”. Anche se non si vuole accentuare la divisione tra i due
elementi componenti la famiglia religiosa, rimane vero che lo scopo
immediato del Fratello ne indica da una parte l’inferiorità e dall’al-
tra l’importanza.
Inferiorità: poiché le attività materiali di una società religiosa,
quantunque necessarie, hanno però un rapporto secondario con il
fine principale. E nella scala dei valori umani tale attività sa di ser-
vile.
Importanza: l’unanimità con cui tutti gli Ordini e congregazio-
ni lungo i secoli hanno adottato i Fratelli indica quanto sia difficile,
senza perdere di efficacia, fare a meno dell’opera dei Fratelli coa-
diutori. Giustamente, perciò, si tende ad accentuare il senso della
compenetrazione, una specie di simbiosi tra i laici e i chierici, che
formano un solo corpo mistico nell’ambiente di una determinata
Congregazione religiosa. Altrimenti sarà compromesso il mutuo
arricchimento spirituale e persa la forza dell’Istituto che risulta da
questa integrazione di laici e di chierici.
2. Posizione deiFratelli “coadiutori”
in seno alle Congregazioni
spiritualità
I Fratelli laicinella Congregazionedella Passione61-80
pastoraleespiritualità
65
Che cosa pensas-
se Paolo della
Croce dei Fra-
telli nel redigere le
Regole nel suo ritiro
del “Castellazzo” è ben difficile dirlo, perché non appare chiaro se i
“Poveri di Gesù” dovevano essere sacerdoti. Negli anni che lui ed il
suo fratello vissero da eremiti sbrigavano personalmente i servizi
domestici; è solo nel 1728 che appare nella piccola comunità del
romitorio di Sant’Antonio il primo Fratello passionista, un certo Fra
Giovanni Maria, un piemontese che abbandonò l’abito nel 17353.
Il 19 ottobre 1728 Paolo ne scriveva a Tuccinardi: “La provvi-
denza di Dio ci ha provvisto di un buon laico, che veste come noi ed
attende agli altri esercizi della vocazione. Noi non lo volevamo, ma
Iddio l’ha voluto lui, e però è restato e ne siamo molto contenti,
perché siccome fa tutte le cose necessarie per il luogo, ci dà maggior
campo d’impiegarci con maggior raccoglimento ed attenzione
e nell’orazione ed altro”4.
Queste parole ci rivelano il pensiero di Paolo: difficoltà nell’am-
mettere i laici (perché? forse perché vedeva la situazione di deca-
denza negli altri Ordini?), mutazione di atteggiamento dopo l’espe-
rienza fatta nel potersi dedicare maggiormente allo scopo proprio
del sacerdote. Esse mostrano anche la piena uguaglianza che volle
fin dal primo istante tra chierici e laici fin dove il diritto corrente ed
il carattere sacerdotale la permettevano.
Quale il posto del Fratello passionista nella comunità? Quello di
una madre nella famiglia. Paolo ripeteva “molte e molte volte”:
“Io amo tanto li poveri Fratelli, perché questi sono le nostre
Madri, e se qualcuno in Congregazione non li ama, credetemi, che
non ha lo spirito di Gesù Cristo. Chi è da cui, dopo Dio, dobbiamo
riconoscere tutto il nostro vivere, se non dai poveri Fratelli? Chi è
che va a cercare da mangiare per arie cattive in tempi impropri con
sommo strapazzo? Chi è che fa da mangiare, e lavora l’orto? Chi ci
mantiene puliti? Chi ci assiste alli nostri bisogni tanto di notte che
3. Fratelli laici nellaCongregazione Passionista
3 SILVESTRELLI B., Memorie dei primi compagni di S. Paolo della croce, fonda-tore della congregazione de’ passionisti, 1884.
4 Bollettino IX, 1928, 40.
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di giorno nelle nostre malattie, se non i Fratelli, i quali sono Madri
nostre?”5.
Una madre non è come la serva che pensa a tenere in ordine la
casa senza apportarvi il calore del suo amore e la bontà del suo
animo; una madre è il cuore della casa, ha cura di tutto e di tutti per
amore e con amore; essa si preoccupa di tutto affinché i figli e gli
altri membri della famiglia siano felici, possano attendere con tutte
le loro energie al proprio lavoro al quale lei partecipa con la sua
attenzione, amore, preoccupazione. Questo dovevano essere i
Fratelli passionisti su un piano umano spiritualizzato: tale era il
desiderio del Fondatore.
I Fratelli come “mamme” custodiscono la casa, gli oggetti del
ritiro “datali a custodire da Dio”6. “La sanità dei poveri religiosi sta
in mano loro e se questi perdono lo stomaco non saranno valevoli ad
operare per la gloria di Dio e per la salute dell’anime”7. L’efficienza
dell’attività apostolica è in parte condizionata dall’opera dei Fratelli
ed essi vi partecipano con le loro preghiere ed il loro lavoro, che è
una preghiera continuata. Avranno la loro parte di merito nell’effi-
cacia del lavoro dei sacerdoti.
Una madre si
rispetta, si ama,
anche se i figli
sono diventati più dotti
di lei ed hanno raggiun-
to posizioni sociali più
alte. Forse lei non potrà partecipare a tutte le attività e riunioni che
la particolare situazione dei figli comporta, ella però è contenta lo
stesso anche in questa specie di esclusione, la quale non diminuisce
l’amore profondo che i figli hanno per lei. Questo Paolo ha voluto
per i Fratelli: la carità deve essere la base delle relazioni tra Chierici
e Fratelli; una relazione che deve mantenersi su un piano di perfetta
uguaglianza dovunque non entra il carattere sacerdotale.
4. La spiritualità passionistanelle relazioni
tra chierici e fratelli
5 Summario I, 463, 459, deposizione di Fra Bartolomeo.6 Regole e Costituzioni, testo it. 1746, p. 164, N° 128.7 Regolamenti 1755, par. II/VI/12.
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È per questa profonda carità che Paolo, andando contro l’uso
comune, a cui si è attenuto nel testo della Regola del 1736, vuole la
ricreazione comune ai Chierici e Fratelli “per così meglio conservar-
si in santa unione e fraterna carità”. Vuole anche che i suffragi siano
uguali per tutti “senz’alcuna differenza, acciò risplenda l’uguale
carità”8. In molti decreti, lettere e discorsi risplende quest’ansia di
uguaglianza fondata sulla carità: “Sarà obbligo del p. Rettore del
ritiro di farli provvedere (gl’infermi) di buoni brodi, come dei medi-
camenti secondo i bisogni, avvertendo di conservare una carità
come uguale, tanto per i Sacerdoti che per i Laici”9. Anche nel
refettorio “si usi nel cibo e nel bere perfetta ugualità con tutti, senza
differenza d’alcuno, nemine excepto10. Ed al cuoco nei primi
regolamenti raccomandava “Nel formare le pietanze non vi sia
alcuna parzialità, ma fatte le vivande uguali si portino in tavola
senza distinzione”11.
Diceva ai Fratelli: “Voglio che siate umili sì, non voglio vi sia
diversità fra il Sacerdote ed il Fratello. Voglio soltanto che debbasi
rispettare il carattere; ma quello esige la carità voglio siano eguali
tanto quando sono infermi che sani; però ho ordinato che quando
sono ammalati siano trattati come i Superiori Maggiori perché in
questo dobbiamo essere uguali”12.
Ed ai rettori nei Regolamenti del 1755 diceva: “Procuri di far
buona faccia ai Laici, i quali prendono lena nell’osservanza e nel
servizio di Dio dal buon volto del Superiore”13.
Tale uguaglianza non sembra che si sia spinta fino a concedere ai
Fratelli la voce attiva o passiva nei capitoli, sia per le elezioni dei
superiori, sia per le decisioni da prendere nei capitoli locali. Dico
sembra, perché dai testi della Regola del 1736 e del 1741 non si può
arguire con certezza l’esclusione dei Fratelli anziani dall’elezione
del Superiore della comunità, fatta in modo democratico14, né dalla
partecipazione al capitolo locale per l’ammissione dei novizi15.
8 Regole e Costituzioni, p. 171, n° 238.9 Visita a Ceccano 1767, n° 7.10 Idem, n. 11.11 Regolamenti 1755, par. II/VI/24.12 Summario I, 463, 460, depone Fra Bartolomeo.13 Regolamenti, par. II, I/24; cf anche Consuetudines, 84/28-53.14 Regole e Costituzioni, 110, I, II, 28ss.15 Regole e Costituzioni, 34, I, II, 36-42.
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Solo il testo del 1746 esclude chiaramente i Fratelli dal diritto di
voto: exclusis semper Laicis item professis, qui suffragandi jurecarent16; nel testo italiano: “I Laici, ancorché professi non dovranno
mai votare ed avere voce in Capitolo”17.
Fino al 1775 rimase ai Fratelli la possibilità di esprimere le loro
osservazioni nel capitolo del venerdì, ma dovevano essere i “più
anziani”, cosa che valeva anche per i sacerdoti. Potevano parlare
solo se interrogati “nominatamente e richiesti dal Superiore”18. Nel
1775, però, viene tolta la partecipazione. Forse a causa del livello
culturale assai basso dei Fratelli, o per l’influenza della mentalità
corrente, ma questo ha impedito una maggiore partecipazione dei
Fratelli alla vita di comunità, come la considerazione dei Fratelli
quali madri di famiglia avrebbe potuto far attendere.
Prescindendo dal-
l’aspetto spiri-
tuale, umana-
mente parlando i
Fratelli religiosi si tro-
vavano in una posizione di privilegio ed invidiabile se paragonati,
per esempio, ad un operaio. Il Fratello, infatti, aveva vitto, alloggio
e vestito assicurato; godeva del privilegio del foro che lo poneva al
riparo da vessazioni, era rispettato dal popolo, anche se a volte gli si
indirizzava qualche frase sprezzante, usufruiva della compagnia e
conversazione di sacerdoti, cioè di gente di cultura. Tutte cose di cui
un lavoratore manuale del Settecento non usufruiva facilmente.
Questo elemento umano si deve tenere presente quando si studia
il numero delle vocazioni allo stato di Fratello, sia nella
Congregazione passionista che in altri Ordini.
5. Situazione dei Fratellirispetto alla società
16 Regole e Costituzioni, 34, III, 42-44.17 Regole e Costituzioni, p. 161, n° 56.18 Regole e Costituzioni, 126, III, 61-63; p. 169, n° 216.
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Le domande sono
state sempre
superiori alle
esigenze della Congre-
gazione, onde spesso
san Paolo della Croce si è trovato nella necessità di non accoglierle.
Le qualità richieste nei postulanti laici sono le stesse che per i
chierici. L’unica differenza è che per i Fratelli è richiesta maggiore
sanità e forze fisiche, nei Chierici maggiore formazione intellettua-
le. Le prescrizioni date da Paolo il 10 agosto 175219, e quelle delle
visite canoniche fatte da lui o dai suoi immediati successori manife-
stano bene il suo pensiero su questo argomento. P. Giammaria Cioni,
infatti, ricordando il n. 10 dell’istruzione del Fondatore, richiedeva
che “da quelli che si accettano per laici con modo particolare si esige
che siano di robusta composizione e che diano speranza di potersi
abilitare a far tutto anche nei lavori di campagna e dell’orto, oltre le
faccende domestiche, né siano troppo zotici, grossolani ed inetti”20.
Il periodo della for-
mazione dei fratelli
c o m p r e n d e v a
all’inizio solo il novi-
ziato in senso stretto ed
un periodo di vigilanza e di una certa assistenza di cinque anni dopo
il noviziato. Circa l’introduzione del postulandato, o probandato per
i Fratelli, fu il Provinciale dell’Inghilterra a chiedere alla Curia
generalizia nel 1874 di essere autorizzato ad imporre:
1. che tutti i novizi dopo il noviziato facessero la professione
temporanea per 3 anni prima dei voti perpetui;
2. che i laici facessero due anni di noviziato.
La Curia non aderì alla richiesta, consigliando che “lasciate da
parte le innovazioni sempre pericolose”, si fosse più vigilanti nel-
l’anno di noviziato21. Pochi anni dopo, però, il Capitolo generale
XXIII, celebrato nel 1878, aderendo alle richieste fatte sia dalla
6. Reclutamento
19 Lettere IV, 233-237.20 Decreti per il noviziato di Paliano 1788.21 Consulta del 9 novembre 1874.
7. La formazionedel Fratello laico
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Provincia inglese che da altre parti della Congregazione, “ad accer-
tare meglio le vocazioni dei Postulanti alla nostra Congregazione”,
concesse alle Province, “dove lo richiede il bisogno”, “di prescrive-
re il tempo anche di un anno per la prova voluta dalla santa Regola
prima della vestizione”22. Fu poi il Capitolo generale XXVIII, del
1905, a decretare che, considerando “che i nostri Fratelli laici non
hanno il tempo d’informarsi e consolidarsi nello spirito della nostra
Congregazione come l’hanno i chierici”, “prima di ricevere il santo
abito, stiano per sei mesi come probandi nella casa di noviziato sotto
l’immediata giurisdizione del P. Maestro”.
Il Capitolo generale XXX, del 1914, determinava anche la pro-
fessione temporanea per tre anni prima dei voti perpetui. Alla forma-
zione di questi decreti influirono, oltre la constatazione delle defe-
zioni che avvenivano, anche le nuove disposizioni della Santa Sede,
in particolare il decreto Sacrosanta Dei Ecclesia del 1 gennaio 1911,
diretto agli Ordini di voti solenni. Il Codice di diritto canonico ha
reso obbligatorie per tutti tali norme.
La formazione dei conversi, come quella di tutti i novizi, era
regolata dalla costituzione Cum ad regularem di Clemente VIII, dal
capitolo della nostra Regola che ha questo titolo e dai decreti del
Fondatore e dei suoi immeditati successori. Essa tendeva a formare
l’uomo, il religioso ed il professionista o tecnico, in modo da poter
essere di esempio e di utilità, sia per il decoro e l’ornamento della
religione, sia per l’edificazione dei fedeli cristiani23.
a. Formazione umana e civile
La necessità di dirozzare i postulanti Fratelli era maggiore, in
genere, che per i chierici venendo in età adulta o da ambienti meno
colti ed educati. Le molte raccomandazioni che Paolo faceva a voce,
come le prescrizioni di buon galateo dei primi regolamenti, erano
dirette a questa formazione: “essa è indispensabile per la vita comu-
nitaria, per il tratto con la società ed anche per il miglioramento del-
l’individuo che si rende più capace di percepire le delicatezze della
Grazia”.
22 Facoltà che fu adottata solo saltuariamente.23 Cf Clemente VIII, Cum ad regularem (tum religioni decorem et ornamen-
tum, tum alias christifidelibus aedificationem, exemplum atque utilititatemafferre, VIII.
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71
b. Formazione religiosa
Questa comprendeva anzitutto l’istruzione catechistica quale
base di tutta la vita religiosa. Il generale P. Giammaria di S. Ignazio
nel 1784 ordinava che, secondo l’antico uso due volte la settimana
si istruissero i novizi, laici specialmente, “sopra gli obblighi del
cristiano, sopra le debite disposizioni per degnamente ricevere i
SS. Sacramenti della confessione e comunione”24. Il codice di dirit-
to canonico comanda una diligente istruzione catechistica almeno
una volta la settimana25.
Il posto più eminente, dopo l’istruzione della dottrina cristiana, è
occupato dalla formazione ascetica che avvia ad una vita di pietà, di
obbedienza e di lavoro con cui i Fratelli erano aiutati a santificarsi e
a contribuire all’apostolato della Congregazione. Il capitolo della
Regola sul maestro dei novizi e sui Fratelli, specialmente nel testo
del 1746, come anche i decreti delle visite canoniche, indicano chia-
ramente i punti basilari su cui deve poggiare tale formazione: crede-
re nella divina inabitazione nella propria anima e vivere alla presen-
za di Dio con carità ardente, raccoglimento continuo, obbedienza
umile ed ilare, intenso lavoro eseguito come preghiera26.
Un decreto di P. Giammaria riepiloga bene tali direttive: “Il
Maestro o Vice-maestro istruisca i novizi, specialmente laici, ‘sopra
il modo di fare l’orazione tanto vocale che mentale, e con modo spe-
ciale spiegherà loro le sante Regole, massime quelle che riguardano
i loro uffici ed impieghi, e l’obbligo che contrae nella sua professio-
ne il religioso di attendere all’acquisto della santa perfezione; così
pure spiegherà ad essi gl’obblighi dei santi voti, principalmente
quelli della santa povertà, procurando d’istillare nel cuore dei
Fratelli Laici un grande amore a questa santa virtù, come che deb-
bano maneggiare tutta la roba del ritiro, custodirla, e dispensarla alla
comunità religiosa”27.
24 Decreto n° 9 per il noviziato di Terracina; cf anche Decreto 17 per il novi-ziato di Paliano 1788).
25 CDC, can. 565 § 2.26 Cf anche i capitoli del Regolamento 1755 sui diversi officiali in cui si
danno preziosi insegnamenti per lavorare alla presenza di Dio. 27 Decreto n° 9 per il noviziato di Terracina.
FABIANO GIORGINISapCr XXV
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La perfezione a cui Paolo della Croce voleva che i Fratelli
tendessero per rispondere alla chiamata di Dio farà meglio
comprendere quale formazione si doveva e si deve loro dare: Exacteac diligenter imposita sibi munera exequantur, ferantque libenterCongregationis onera. Suo illa anteponant desiderio et arbitrio,etiam in rebus in quibus potiori pietate ac religione sibi ducividentur. In superiorum jussu Dei voluntatem agnoscant, proptereaviribus totis contendant, ut illis obsequantur mente integra, animohilari, atque libenti Deum semper cogitantes in opere. Diliganturinvicem ex corde, aemulationes, rixas, et contentiones fugiant: alteralterius onera sublevent, verosque fratres non ore tantum, sed rebusse ostendant. Sacerdotes ut Dei ministros revereantur, sint humiles,obedientes et religiosae paupetatis amantes; res Congregationiscurent sedulo, Deique habeant; meminerint illarum sibi custodiamesse impositam, quae si suo pereant vitio, vel in deterius labantur,exactam Deo rationem esse reddituros. Saepe finem susceptiInstituti cogitent, atquae ad illum studia et actios dirigant”28.
Ai Fratelli addetti alla cucina, raccomandava: “Faccino la cucina
non per l’uomini, ma per Gesù, la di cui presenza è rappresentata nei
poveri religiosi. Alzino spesso la mente a Dio, si ricordino spesso
l’un l’altro la presenza del Signore e nel fuoco che arde rimirino ora
l’inferno meritato con tante colpe, ora il Cuore dolcissimo di Gesù
che è una fornace accesissima di una infinita carità”29.
All’infermiere poi raccomandava di essere “tutto pieno di carità
come prescrivono le sante Regole, e si ricordi che per servire con
28 Regole e Costituzioni, 74-76, III, 62ss. “Eseguano con esattezza e dili-genza i compiti loro affidati e portino volentieri i pesi della Congregazione. Liantepongano al proprio desiderio e libertà, anche in quelle cose nelle qualesembra a loro di essere ispirati da maggiore pietà e religiosità. Riconoscanonei comandi dei superiori la volontà di Dio, e perciò con tutte le forze cerchinodi attuarli con convinzione, gioia e volentieri, pensando sempre a Dio nelleazioni. Si amino a vicenda di vero cuore, fuggendo le gelosie, le risse e lediscussioni; portino i pesi gli uni degli altri, mostrando di essere veri fratelli nonsolo a parole, ma con i fatti. Riveriscano i sacerdoti come ministri di Dio, sianoumili, obbedienti, amanti della povertà religiosa; abbiano cura delle cose dellaCongregazione, come di Dio, ricordando che ad essi è stata affidata la custo-dia di esse, ché se, per loro trascuratezza andranno distrutte o rovinate,dovranno renderne stretto conto a Dio. Meditino spesso sul fine dell’Istituto chehanno abbracciato e ad esso dirigano i loro desideri e le loro azioni”
29 Regolamenti, 1755, II/VI, 22-23.
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esattezza un infermo si ricerca o una madre o un santo. Avvivi la
fede e rimiri nell’infermo la persona di Gesù Cristo che dice: infir-mus eram… Procuri di quando in quando consolarlo, animarlo, com-
patirlo, suggerirli dei buoni e santi documenti e sentimenti e se il
male lo comporterà potrà farli qualche poco di lezione spirituale
ogni giorno, ecc”30.
E negli avvisi comuni ammoniva: “I Laici siano rispettosi ai
Chierici, Sacerdoti e particolarmente ai Superiori, non si abusino
della cordialità dei medesimi. Si ricordino che il stato loro conduce
con più facilità alla santa perfezione avendo sempre avanti agli
occhi l’esempio di uomini illustri e nobili, di sangue ancor reale, e
cospicui nella santità i quali han voluto eleggere nelle religioni lo
stato di laico”31. E a tutti i religiosi indistintamente ricordava:
“Stiano bene attenti tutti i religiosi di fare ogni operazione con prin-
cipio di virtù e per piacere unicamente a Dio, altrimenti dopo aver
faticato tanto e per tanti anni si troveranno colle mosche in mano.
Abbiano a cuore la conversione dei peccatori, la santificazione dei
prossimi, la liberazione dell’anime del Purgatorio, e perciò offeri-
scano spesso a Dio la Passione e Morte e Sangue preziosissimo di
Gesù e ciò facciano con impegno essendo proprio del nostro
Istituto”32.
Queste raccomandazioni e prescrizioni e le alte massime di per-
fezione inculcate a voce e per lettera ai singoli fratelli33 suppongono
una formazione cristiana e religiosa ben profonda che il Maestro
con pazienza e carità deve impartire coadiuvato dai confessori,
padri spirituali e superiori.
30 Regolamenti, 1755, II, X, 1, 3, 6.31 Regolamenti 1755, II/XI, n. 5.32 Ibidem, n. 6, 20.33 Cf per esempio Lettere IV, 279-80; III, 131, 657, 658-659, ecc.
FABIANO GIORGINISapCr XXV
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c. Formazione professionale
La formazione professionale è necessaria affinché il Fratello
possa dare il suo apporto al miglioramento materiale della casa reli-
giosa ed a tutto l’andamento dell’Istituto. La formazione può essere
comune se riguarda i servizi domestici comuni, speciale o tecnica
quando riguarda particolari impieghi come sarto, cuoco, infermiere,
ecc.
Durante il noviziato i Fratelli dovevano imparare come svolgere
le loro attività, sotto pena di non essere ammessi alla professione o
addirittura di nullità della professione in caso che qualcuno vi fosse
stato ammesso senza essere “ben impratichito nell’arte di fare il
pane e la cucina”34. P. Giammaria nel 1788 ordinava per il novizia-
to di Paliano (n. 19): “Procurino tanto il P. Maestro che il P. Rettore
che i novizi laici imparino bene a far la cucina, a fare il pane, a lavo-
rare all’orto ed ogni altro officio proprio della loro professione. Si
dichiara che i prefati fratelli laici non possono essere ammessi alla
santa Professione se non avranno bene appreso i predetti uffici, onde
ad effetto che in essi maggiormente si abilitino, si ordina che uno o
due, secondo il numero che saranno, a vicenda per ogni settimana
stiano in cucina all’obbedienza del fratello professo, quale gl’istrui-
rà in tutto caritatevolmente con santa pazienza. Dopo alcuni mesi
poi di noviziato gli si faccia fare la cucina ed il pane coll’assistenza
del fratello professo destinato, acciò meglio apparisca se imparino e
nel fine del noviziato si possa conoscere se siano sufficientemente
istruiti in detti uffici”.
Era desiderio di Paolo che i migliori fratelli che spiccassero per
virtù e per conoscenze professionali fossero posti nel noviziato quali
maestri dei novizi. Gli altri mestieri utili alla Congregazione come
falegname, muratore, ecc. generalmente venivano appresi dopo la
professione.
Fratelli formati così integralmente potevano dare le migliori
garanzie di ottima riuscita come il Fondatore poté gioiosamente
constatare durante la sua vita. Ma affinché le speranze diventassero
realtà, Paolo accompagnava la formazione con un’assistenza conti-
nua, preoccupato sempre che essi crescessero nella conoscenza e
nell’amore di Dio, si sentissero sereni, lieti nella loro occupazioni,
34 Cf Decreto al noviziato di S. Giuseppe: 1765, n. 6; 1771 Decreti per lacasa n° 1,3.
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sicuri di trovare in lui e nei superiori un appoggio morale, una madre
che li sapeva comprendere, compatire, sostenere.
Paolo si mostra interessato cordialmente del loro stato di salute,
della loro fatica, si mostra grato per i servizi che rendono alla sua
persona e alla Congregazione. Li compatisce quando li vede affati-
cati, provvede che prendano dei ristori affinché possano resistere
alla fatica e non si avviliscano; sa adattarsi al naturale di ognuno:
anche nel riprenderli faceva vedere che li amava profondamente e
desiderava unicamente il loro bene. Cercava poi tutte le occasioni
per stimolarli ad agire con retta intenzione. In tal modo i Fratelli
avevano piena fiducia in lui ed egli poteva continuare a plasmarli
secondo il volere di Dio35.
Tale condotta la voleva nei rettori: “Procuri, diceva nei
Regolamenti, di “far buona faccia ai Laici, i quali prendono lena nel-
l’osservanza e nel servizio di Dio dal buon volto del Superiore”;
“Sia pronto in ascoltar tutti ogni volta che vanno a ritrovarlo in stan-
za, li riceva con affabilità, li senta senza fretta come se altro non
avesse a fare in tutto quel giorno né mostri mai noia, o turbamento
per tali visite benché fossero frequenti”36. “Osservi bene il naturale
dei religiosi per prendere ognuno dal suo verso. L’iracondi e sangui-
gni li tratti con dolcezza per non perderli e riscuotere tutta l’obbe-
dienza; li umili di cuore e i mansueti li tratti alle volte con asprezza
e moderato rigore per custodire il tesoro; i malinconici e pusillanimi
li tratti con soavità, avendo bisogno che sia fatto animo e coraggio,
acciò non si arrestino nella vie del Signore”37.
Questo modo di agire stabiliva un sereno e fiducioso abbandono
dei Fratelli nelle mani del Rettore che “almeno una volta la settima-
na e se facesse bisogno più spesso ancora” doveva istruire o far
istruire i Fratelli “nelle cose della santa fede, orazione ed osservan-
za delle Regole”38. Questa istruzione generalmente veniva fatta la
domenica e nelle feste; nel 1758 Paolo nel ritiro di Sant’Eutizio
aggiunse “una meditazione al venerdì per i poveri Laici, quando son
tutti in ritiro, che gli serva d’istruzione per saper far la orazione
mentale”.
35 Cf Lettere citate sopra; anche i Processi, specialmente i ricordi dei Fratellied i primi Regolamenti.
36 Regolamenti 1755 n° 24.37 Regolamenti 1755 n° 8.38 Regole e Costituzioni, 124, I, II, 61ss.
FABIANO GIORGINISapCr XXV
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L’unica vera e
stabile base eco-
nomica del
nuovo Istituto, nato
sotto l’insegna del
distacco totale dai beni temporali - pur non escludendo le offerte e
le elemosine delle Messe - rimase la questua ed essa, solitamente,
limitata ai generi alimentari di prima necessità39, organizzata in
determinati periodi dell’anno e curata principalmente dai sindaci,
dai fratelli laici e dagli oblati. L’ideale evangelico della povertà atti-
rava ancora l’ammirazione del popolo verso i poveri missionari pas-
sionisti.
All’inizio Paolo della Croce pensava che le offerte spontanee
bastassero per sostenere i religiosi, ma quando con l’aumento dei
religiosi comincia a mancare il necessario nel ritiro è lo stesso fon-
datore a dichiarare: “Mi pare necessario far la questua per le aie,
oltre quello si provvede dai benefattori più comodi costì, e sarà bene
scrivere ai luoghi circonvicini”40. Paolo della Croce, però, era stac-
cato anche delle stesse questue e diceva: “la povertà è un tesoro;
quando uno è povero di spirito, oh, che ricchezza!”. Addirittura isti-
tuì, e mantenne fino al 1769, i sindaci per il maneggio di denaro,
dispensando sudditi e superiori da tale obbligo41.
Secondo Paolo, la questua si fa quando si è veramente nel biso-
gno: “Basta quello che abbiamo, siamo poveri”42. Raccomandava
che essi fossero staccati dalle cose temporali, ma dediti totalmente
all’orazione e all’osservanza regolare. Diceva: “Siamo fedeli a Lui
e non dubitiamo”.
Scelti con zelo dai superiori, i fratelli laici questuanti dovevano
essere discreti ed esemplari43. Prima di partire per la questua, i
fratelli si recavano a lui ed egli con premura inculcava loro che
pigliassero solo il necessario44.
8. I Fratelli questuantie lo spirito del Fondatore
39 Questua del grano, del vino, dell’olio. 40 Lettere II, 89, al p. Fulgenzio, del 23 giungo 1746.41 I passionisti, professando soltanto i voti semplici, ottennero in materia
apposito privilegio con la Bolla “Supremi Apostolatus” del 1769.42 PO 543-v, deposizione di P. G. Giacinto.43 Diceva: “I poveri secolari si annoiano con queste importunità e i religio-
si con tanto andar girando perdono lo spirito” (POR 2252-3, deposizione diFra Bartolomeo).
44 Deposizione di R. Calabresi, POR 2015v.
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I Fratelli questuanti poi, mattina e sera, dovevano fare un’ora di
orazione camminando. Così Paolo suggeriva il modo di farla a Fra
Giacomo: “La mattina per un’ora nel principio del viaggio state in
silenzio col compagno e fate, andando, la vostra orazione mentale
come se foste in Chiesa, meditando la ss. Passione di Gesù Cristo, i
suoi viaggi, fatiche e patimenti sofferti per amore nostro ed unite le
vostre fatiche e patimenti con i suoi. Ravvivate spesso la fede della
Presenza di Dio ed esercitatevi in frequenti orazioni giaculatorie”45.
Affinché riprendessero il fervore forse diminuito nel contatto con i
secolari durante la questua, nel 1766 Paolo ordinava “con tutto il
rigore che, venuti i fratelli dalla questua, se gli faccia fare sei o otto
giorni di esercizi, senza impiegarli in altro che nelle cose più neces-
sarie del Ritiro”46.
I Fratelli che uscivano dal ritiro non dovevano spargere al vento
“le cose del ritiro” e tornando non dovevano “riferire le novelle, o
altre cose secolari, che hanno udito o veduto, il che reca pregiudizio
spirituale e temporale”47.
Questa assistenza costituisce una fiduciosa collaborazione tra
Superiore e Fratelli, particolarmente sul piano spirituale, poiché pro-
prio in questa azione santificante, dovuta all’influsso sacerdotale ed
alla grazia di Dio operante nella Congregazione, consiste l’aiuto che
i Fratelli ricevono in cambio dell’aiuto materiale e di amore che essi
offrono ai Chierici.
Inoltre, anche i Fratelli sono prima di tutto chiamati alla santità e
su di essa quindi si deve porre l’accento e la preoccupazione.
Il contributo dei
Fratelli questuanti
nelle comunità pas-
sioniste è insostituibile.
Essi sono un dono di
Dio per la Chiesa e per l’Istituto48. Essi hanno testimoniato, attraver-
so gli umili servizi della casa, dell’orto e della questua, la santità nel
Conclusione
45 Lettere IV, 28-29.46 Lettere IV, 281.47 Decreti 1764, n° 7, in S. Angelo.48 Cipi, Il religioso fratello passionista verso il futuro, Roma 1984.
FABIANO GIORGINISapCr XXV
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quotidiano. Giorno dopo giorno, in una vita, come diceva san Paolo
della Croce, fatta “a momenti”.
La figura del fratello “coadiutore” e il suo stile di vita, la pazien-
za e la serenità di questi religiosi, la disponibilità ai Superiori e il
rendersi utili alla comunità e agli altri, richiamano la nostra attenzio-
ne oggi, perché la vita comune è essenziale per attuare il carisma
della Congregazione.
La mentalità prevalente oggi impedisce di cogliere l’originalità di
questa vocazione all’interno dell’Istituto dei Passionisti. Oggi, non
si concepisce più l’attività della questua. I Fratelli questuanti hanno
svolto un vero servizio di apostolato perché, mentre provvedevano
alla comunità, essi hanno ascoltato con pazienza i problemi delle
persone, dando loro saggi consigli, incoraggiamento e sostegno.
La ricerca che è stata avviata dalla Commissione storica per la
causa di Fra Lorenzo dello Spirito Santo, ha messo in rilievo l’im-
portanza dei fratelli all’interno delle comunità. Spesso analfabeti o
quasi, essi non vengono di solito menzionati nemmeno nelle crona-
che delle comunità, a eccezione dei Fratelli muratori o falegnami, e
tuttavia essi hanno contribuito in modo non indifferente allo svilup-
po della Congregazione.
I religiosi con rammarico avvertono la scarsità di questa vocazio-
ne nella Congregazione almeno in Europa. Che la scoperta della
grandezza spirituale di Fratel Lorenzo dello Spirito Santo e di altri
santi Fratelli, tra i quali vogliamo ricordare anche un Fratello
canonizzato, Isidoro de Loor, risvegli in ogni religioso il senso di
appartenenza e i grandi valori della vita passionista: la preghiera e il
lavoro (la dedizione e la cura del convento), la semplicità, l’umiltà,
il silenzio ed il distacco.
spiritualità
I Fratelli laicinella Congregazionedella Passione61-80
pastoraleespiritualità
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THE LAY BROTHER
IN THE PASSIONIST CONGREGATION
By Fr. Fabiano Giorgini, C.P.
The late Passionist historian had prepared a study on consecratedreligious who are not ordained priests, with a particular focus on afigure who in the past has been so vital to Christianity, namely thatof the Lay Brother, particularly the one who in Italy was known asthe “questuante” who visited the homes of benefactors and beggedfor provisions. This was a vocation which has remained in the shad-ows yet which has attracted and still attracts men of great worth andwhich id even today freely chosen by some and is appreciated byothers.
LES FRÈRES LAÏCS DANS LA CONGRÉGATION
DE LA PASSION
de Fabiano Giorgini, C.P.
Le regretté historien des passionistes avait préparé une étude sur lesreligieux non-prêtres, en faisant une particulière référence à unefigure si importante dans la chrétienté d’autrefois, celle du frèrelaïc, particulièrement celle du quêteur. Cette vocation, restée dansl‘ombre, mais qui a attiré et attire des hommes de grande valeur, estencore choisie librement par quelques-uns et appréciée de tous.
LOS HERMANOS LEGOS EN LA CONGREGACIÓN
DE LA PASIÓN
De P. Fabiano Giorgini, C.P.
El desaparecido historiador de los Pasionistas había preparado unestudio sobre los religiosos no sacerdotes, con particular referenciaa una figura que fue tan importante en la cristiandad en los tiempospasados, la del hermano lego, especialmente la del que se dedicabaa pedir. Una vocación que quedó relegada a la sombra, pero que haatraído y atrae a hombres de gran valor, y todavía escogida libre-mente por algunos y apreciada por otros.
FRA
ESP
ENG
FABIANO GIORGINISapCr XXV
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DIE LAIENBRÜDER IN DER KONGREGATION
DER PASSIONISTEN
von Fabiano Giorgini, C.P.
Der verstorbene Historiker der Passionisten hatte eine Studie überjene Ordensleute erstellt, die nicht Priester sind. Er bezieht sichdarin auf die Figur des Laienbruders, insbesondere auf jene desBettelmönchs, die in der Vergangenheit für die Christenheit von gro-ßer Bedeutung war. Es handelt sich dabei um eine Berufung, die oftim Schatten stand, und doch wertvolle Menschen angezogen hat undimmer noch anzieht. Sie wird nach wie vor von Einigen frei gewähltund von Anderen hoch geschätzt.
BRACIA ŚWIECCY W ZGROMADZENIU
MĘKI PAŃSKIEJ
o. Fabiano Giorgini, C.P.
Nieodżałowany historyk pasjonistów przygotował artykuł o zakon-nikach nie-kapłanach, szczególnie zajmując się postacią, która byłatak ważna w chrześcijaństwie czasów minionych: brata zakonnego,zwłaszcza kwestarza. Powołanie pozostające w cieniu przyciągało iprzyciąga ludzi wielkiej wartości, przez wielu innych jest zaś podzi-wiane.
POL
GER
di MARIO CEMPANARI
Richiamando alla memoria il viaggio di Lutero a Roma del1510, l’autore ci riconduce ad un’epoca precedente laRiforma, ma già piena dei suoi fermenti. Tra l’altro vediamo quicome Lutero era immerso in problemi di riforma degli Ordinireligiosi ecclesiastici prima di pensare alla riforma dell’interaChiesa. L’incontro con il centrodella Chiesa rinascimentale, chestava per mostrare la sua glorianella ripresa e nel superamentodella cultura pagana, poté far sor-gere nella sua coscienza i primianeliti alla theologia crucis. Il tre-mendo scossone che darà allaChiesa porterà forse frutti mag-giori nel cattolicesimo che nellaRiforma, contribuendo a far cre-scere nella gerarchia il senso dellasua enorme responsabilità per ilRegno.
La celebre espres-
sione è attribuita
a Lutero, che,
dopo essere stato a
Roma per circa un
mese nell’autunno del 1510, se ne partì per tornare nella sua
Sassonia, rimasto sorpreso di trovare strane reliquie, come il laccio
di Giuda (!), e scandalizzato della vita degli ecclesiastici dell’Urbe.
Il motto, storicamente attendibile e forse anche realmente pronun-
ciato dal Riformatore evangelico, al tempo ancora fervente monaco
agostiniano, è tuttavia emblematico del suo seguente comportamen-
to nei confronti della Chiesa Romana, che fu di certo una fuga, un
“via da Roma!”. “Los vom Rom” non è dunque una battuta o uno
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Luteroe la Scala Santa81-100
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LUTEROE LA SCALA SANTALa crisi sulle indulgenzedel Riformatoreincominciò dal Laterano?Note e ricerche nel 5°centenario della venutadi Lutero a Roma (1510)
1. “Los vom Roma!”
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slogan azzeccato per la situazione generale espressa nei GravaminaNationis Germanicae o Lagnanze della Chiesa tedesca, ma un
emblematico programma attuato con lucida determinazione negli
anni che seguirono il 1510. Opposta situazione interiore di quando
Lutero, giunto in vista della città da Monte Mario, s’inginocchia ed
esclama come gli altri pellegrini: “Salve, santa Roma”.Tuttavia bisogna tenere ben presente quale fu la situazione, spe-
cialmente a partire dall’affissione delle note 95 tesi sulle indulgen-
ze alle porte della chiesa del castello di Wittemberg del 31 ottobre
1517, quando si incominciò un’aspra, e talvolta poco cristiana, con-
tesa tra le due parti contrapposte dei seguaci di Lutero e dei fedeli
della Chiesa di Roma. Dobbiamo, quindi, andare cauti nel dare faci-
le credito ad una parte o all’ altra, perché se Lutero e i suoi seguaci
con parole ingiuriose e volgari dileggiarono il papato e la Chiesa
cattolica, non meno intemperanti furono molti polemisti ed apologe-
ti cattolici nei confronti del Riformatore e della Riforma, usando
parole ed espressioni pesanti. Soltanto con il moderno movimento
ecumenico, particolarmente dopo il Concilio Vaticano II, si è creato
un clima più disteso tra i due schieramenti e la discussione o il con-
fronto sono diventati più pacati, creando il clima di comprensione
delle rispettive posizioni su importanti nodi della fede e della dottri-
na cristiana. Il periodo della Riforma e della Controriforma, nella
foga delle rispettive apologetiche, hanno creato dei miti e delle leg-
gende sulla personalità e sull’opera del Riformatore che vanno lette
con molto distacco o senz’altro trascurate se non vengono supporta-
te dagli scritti e dai fatti del Riformatore o almeno testimoniate da
attendibili contemporanei di Lutero stesso. Nonostante i limiti della
personalità, del carattere e del temperamento del Riformatore e
senza accettare supinamente ed acriticamente quanto afferma una
certa elogiativa agiografia luterana, bisogna onestamente riconosce-
re che, non solo per la profonda dottrina teologica e biblica del-
l’agostiniano di Erfurt, ma anche per il grande amore verso Cristo
Signore, verso il Suo Vangelo, e nelle sue crisi interiori, vive con
sofferta fede quella che lui definisce la “Theologia crucis”, di cui ci
occuperemo più avanti.
A questo punto, però, mi si potrà chiedere quanto ci sia di vero
nel fatto che Lutero avrebbe salito la Scala Santa lateranense e quan-
to altresì risponda a verità l’affermazione che la crisi interiore sulle
indulgenze del Riformatore iniziò dalle considerazioni che egli fece
salendo i gradini della “scala santa” lateranense.
spiritualità
Luteroe la Scala Santa81-100
pastoraleespiritualità
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Studiare questo singolare aspetto dell’inizio della crisi sulle
indulgenze, che dette il via alla separazione di Lutero dalla Chiesa
cattolica, costituisce l’intento di questo articolo, che, tra l’altro,
vuole essere una piccola rievocazione del lungo viaggio di Lutero a
Roma nel 500° anniversario dell’avvenimento, accaduto nel 1510.
Bisogna aggiungere, tuttavia, che molto più gravi e profonde
furono le ragioni che, con il procedere degli anni, presero Lutero in
una evoluzione di distacco da Roma, né furono soltanto motivi di
carattere morale del comportamento della Curia romana, che - al
dire di Lutero - “era una cloaca piena degli uomini peggiori e la
cloaca di tutta la terra”, ma più ancora fu la persuasione che nella
Chiesa di Roma non si insegnasse la verità del Vangelo, secondo cui
la salvezza viene soltanto attraverso la fede, non mediante le opere,
giacché “la giustizia di Dio si rivela nel Vangelo dalla fede alla fede,
come sta scritto: il giusto vivrà di fede”. Verità, questa, che Lutero
comprese nell’illuminazione avuta nella Turmerlebnis (esperienza
della torre).
Ri c o r d i a m o ,
intanto, qual era
la situazione a
Roma negli anni che
precedettero la visita di
Lutero. Nel 1510 regnava papa Giulio II Della Rovere (1503-1513),
il mecenate di Michelangelo e di Raffaello, da pochi anni succedu-
to a papa Alessandro VI Borgia (1492-1503), che, con la sua corte
corrotta, aveva portato il papato al punto moralmente più basso di
tutta la storia della Chiesa (basti ricordare a questo riguardo il com-
portamento delittuoso del figlio Cesare Borgia e le feroci invettive
del domenicano Savonarola). Gli Ordini religiosi, poi, erano in sub-
buglio per le riforme che volevano apportare nelle loro Regole e nel-
l’ordinamento interno. Anche se il secolo XVI è il secolo d’oro del
Rinascimento per Roma ed il Papato, i fermenti di rinnovamento
della Chiesa erano forti sia in città che nel resto d’Italia ed anche
nell’Europa.
In questo clima, Lutero scende a Roma, intraprendendo un lungo
e faticoso viaggio attraverso tutta la Germania, la Baviera, il Tirolo,
Innsbruck, la Lombardia, L’Emilia, la Toscana, Viterbo. Finalmente
giunge a Roma nel novembre 1510 insieme ad un confratello ed
2. I gravi motivi del viaggiodi Lutero a Roma
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ambedue per quattro settimane soggiornarono nel convento degli
agostiniani, sede della Curia generalizia, presso la chiesa di S. Maria
del Popolo, dove ancora oggi si addita al visitatore l’altare in cui
Lutero celebrava la Messa.
Ma per quali motivi il monaco di Erfurt intraprende un così lungo
viaggio?
Quello di Lutero non fu un viaggio di pellegrinaggio da romeo e
tanto meno un viaggio di piacere: egli fu inviato a Roma come rap-
presentante del convento agostiniano di Erfurt. Nella “provincia”
agostiniana di “Germania” la situazione era questa: nel clima di rin-
novamento e di riorganizzazione della fine del XV secolo che scuo-
te tutti i grandi Ordini religiosi, di cui sopra dicevamo, e che si svol-
geva in complicate azioni di riorganizzazione dei vari tipi di rag-
gruppamenti dei conventi di ordini monastici o di ordini attivi e pre-
dicanti – com’era ad esempio in Toscana con i domenicani con
l’azione del Savonarola – così anche nella provincia di Germania
accadeva per gli agostiniani con l’azione dell’agostiniano Johannes
Staupitz, vicario generale dell’Ordine in Sassonia, che voleva com-
porre il dissidio tra Eremitani Agostiniani Osservanti (a cui apparte-
neva anche Lutero) e Agostiniani Conventuali, unendo i conventi
riformati a quelli che non accettavano la riforma. Lo Staupitz, favo-
revole alla riforma, in maniera rigorosa e intransigente, voleva riu-
nire i conventi riformati agli altri, per costringere i renitenti a segui-
re (attraverso i “Capitoli Generali” e le altre forme di organizzazio-
ne interna dell’Ordine) l’esempio dei primi e attuare così la riforma
in tutta la provincia da lui dipendente. I conventi riformati temeva-
no che questa manovra potesse sortire l’effetto opposto: cioè che
potesse compromettere le loro riforme e le nuove norme, non anco-
ra consolidate. Il convento di Erfurt era tra questi; e siccome il gene-
rale degli agostiniani era favorevole al progetto dello Staupitz, que-
sti ritenne opportuno inviare Lutero a Roma, per spiegare la situa-
zione. A Roma Lutero non riuscì a persuadere l’opposto partito degli
Agostiniani Conventuali. Tornato in Germania si sottomise alle
decisioni dello Staupitz, accettando pienamente le posizioni di que-
sti, che richiamò il giovane Lutero da Erfurt a Wittenberg.
Da questo breve soggiorno di Lutero a Roma sarebbe sorta una
tradizione, qualche studioso la definirebbe “leggenda” perché
costruita su affermazioni molto tarde (1582) riguardante la sua sali-
ta alla Scala Santa lateranense e i suoi primi dubbi sulle reliquie e
sulle indulgenze sorti in seguito a quella salita. Queste affermazioni
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vengono attribuite al penultimo dei sei figli di Lutero, Paolo, e tra-
mandate in uno dei famosi Tischreden (Discorsi a tavola), appunti
che commensali e pensionanti di Martin Lutero presero dei discorsi
che il Riformatore aveva fatto nelle più diverse circostanze conver-
sando a tavola, dal 1531 fino alla sua morte avvenuta nel 18 febbra-
io 1546.
Per chi non fosse a conoscenza dell’ operetta Tischreden pubbli-
cata circa 40 anni dopo la morte del Riformatore, che perciò
potremmo definire postuma, ritengo opportuno dare un succinto rag-
guaglio prima di entrare nel vivo del nostro argomento.
Ho l’impressione
che il titolo del-
l’operetta e le
conversazioni com-
mensali del Maestro
Riformatore si vogliano ispirare ai discorsi che Gesù tenne nel
Cenacolo ai suoi discepoli aprendo loro il suo animo nell’intimità
dell’ultimo banchetto.
Comunque sia di questo aspetto, è storicamente certo che Lutero
amava conversare con i suoi discepoli o seguaci e con gli studenti
pensionati o anche con dotti e ospiti forestieri, che erano ricevuti da
Katharina von Bora, la quale gestiva un pensionato per studenti uni-
versitari e forestieri. Il linguaggio che il Riformatore teneva in que-
sti colloqui era molto espressivo e vivace, talvolta un po’ sconcer-
tante e troppo crudo ai nostri orecchi abituati ad un linguaggio più
controllato e allusivo, specialmente durante i pasti. Lutero, invece,
quando parlava, usava parole di una potenza e di un rude umorismo
che lo avvicinano a uomini come Socrate, Chaucer, Shakespeare e
Samuel Johnson. I suoi contemporanei non si scandalizzavano, anzi
trovavano che le sue espressioni erano notevoli e degne di essere
ricordate. Come appunto accade con i Tischreden in parola.
I Tischreden hanno una loro storia che va raccontata per capirne
l’importanza biografica che rappresentano. Già sul finire degli anni
venti si raccoglievano intorno alla tavola di Lutero, verso le cinque
della sera, per cena, alcune persone. Si trattava, come ho accenna-
to, di anonimi studenti poveri che ricevevano nella casa del
Riformatore vitto e alloggio a basso prezzo. Più tardi a queste
figure anonime si sostituirono personaggi più noti: alcuni sono
3. I Tischreden o Discorsia Tavola di Martin Lutero
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segretari del Dottore (famuli), altri pedagoghi dei figli di altre
famiglie, altri ancora pensionati che la moglie Katharina, per
guadagnare qualche soldo, aveva preso in casa com’era nell’uso dei
professori universitari d’un tempo.
C’era spesso molta gente intorno alla tavola di Lutero: nel 1534
si contano più di venticinque persone. Nell’estate del 1531 uno dei
pensionanti, Corrado Cordato, ebbe l’idea di appuntare i discorsi
fatti da Lutero. Seguirono poi altri fino a Johannes Aurifaber.
Armati dei loro taccuini, i commensali del Riformatore trascriveva-
no tutto quanto usciva dalla bocca del Dottore, che talvolta si
prendeva beffa di questi grafomani.
Ben presto gli ascoltatori non si accontentarono di trascrivere i
discorsi, ma cominciarono ad annotarli, a scambiarseli tra loro, anzi
uno di essi, Antonio Lauterbach, quando ancora Lutero era in vita,
cominciò ad ordinarli cronologicamente. Gli appunti, tuttavia, non
erano destinati alla pubblicazione e solo Johannes Aurifaber, l’ulti-
mo segretario di Lutero, pensò che non fosse un furto guadagnarsi
un po’ di soldi con la sue collezioni. Egli, quindi, assemblò le varie
redazioni dei Tischreden e le pubblicò negli anni successivi al 1582.
Giovandosi di affermazioni molto tarde, del 1582, del quinto
figlio di Lutero, il medico Paolo Lutero, i Tischreden furono pubbli-
cati anche nell’edizione critica dell’Opera Omnia, in 91 volumi e
104 tomi: D. M. Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, ed. H.
Bohlaus, Weimar. La famosa opera Tischreden consta di 7075 tra-
scrizioni distribuite in sei volumi, che, a partire dall’estate-autunno
del 1531 arriva al 1546 e raccoglie le trascrizioni di Veit Dietrich,
Nicola Medler, Johannes Schlaginhaufen, Corrado Cordato, Antonio
Lauterbach e Girolamo Weller, Giovanni Mathesius, Gaspare
Heydenreich, Gerolamo Besold, Johannes Aurifaber1. A seguito
della pubblicazione delle varie redazioni dei Tischreden venne poi lo
studio critico dei vari discorsi tenuti da Lutero e si videro varie
incongruenze, discordanze, fraintendimenti e contraddizioni delle
differenti trascrizioni e verbalizzazioni che talvolta lasciano
dubitare dell’autenticità dei Discorsi a tavola e del loro valore come
fonte storica. Soprattutto l’episodio della torre, che nei Tischreden,
1 Per questo articolo mi sono giovato della traduzione italiana di, cf Discorsia tavola, intr. trad. e note a cura di Leonardo Perini, con un saggio su MartinLutero di Delio Cantimori, Torino, Einaudi, 1969.
spiritualità
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realistico quanto si vuole, ma irriverente, colpì i primi studiosi di
questo testo. Tuttavia, nonostante le amplificazioni, le reticenze ed
anche le incomprensioni di taluni trascrittori messe in rilievo dai
critici, i Discorsi a tavola mostrano una sostanziale autenticità, e
tanto il cattolico gesuita P. H. Grisar, quanto il protestante H.
Boehmer2 riconoscono a questa fonte un indubbio valore storico.
Dai recenti lavori su Lutero, poi, ci si rende conto che i Discorsisono diventati per gli storici una raccolta preziosa di materiale bio-
grafico. Una più puntuale analisi dei Discorsi ci porterebbe a cono-
scere le situazioni storiche narrate nell’operetta e gli avvenimenti
coevi realmente avvenuti, ma questo ci porterebbe a parlare di cose
che esulano dall’ambito del nostro articolo. Che è soprattutto quello
di prendere in esame il pensiero ed il comportamento di Lutero
riguardo alle indulgenze e alle reliquie che il Riformatore trova nel
suo soggiorno a Roma e al Laterano.
La questione delle
indulgenze e
l’inserimento di
Martin Lutero nella
disputa intorno alla
validità e la dottrina sulle indulgenze è molto complicata e discussa.
Come si comprende dallo stesso titolo di questo paragrafo, il proble-
ma è duplice: un aspetto riguarda le origini storiche delle indulgen-
ze nella Chiesa cattolica, risalenti al Medioevo; un altro aspetto vuol
precisare i motivi e le modalità dell’affissione delle famose “95 tesi”
sulle porte della chiesa del Castello di Wittenberg da parte di Lutero.
E’ noto che l’affare della penitenza e delle indulgenze, nella teo-
ria e nella prassi, ha subito nella Chiesa d’Occidente, una lunga e
complessa evoluzione a cui non è possibile qui che accennare fuga-
cemente. Il concetto di una penitenza ecclesiastica è assente negli
scritti del Nuovo Testamento. Nella prima generazione cristiana si
entra nella Chiesa mediante un totale “ravvedimento” (metànoia);ma la prassi o disciplina ecclesiastica sulla penitenza si organizza
e si istituzionalizza con la confessione (pubblica) del peccato
4. La storia delle indulgenzee le “95 tesi” di Wittenberg
2 Cf. H. Grisar, Lutero. La sua vita e le sue opere, tr. it. Torino 1946, p. 447;H. Boehmer, Luther im Lichte der neuren Forschung, Leipzig 1906, pp. 71-72.
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commesso, la intercessione della comunità per il colpevole, l’impo-
sizione di atti di penitenza (digiuni e astinenza di varia entità) e infi-
ne la riconciliazione con la Chiesa e la riammissione alla mensa
eucaristica. Questo per i peccati più gravi: omicidio, adulterio, apo-
stasia. Per i peccati minori, valeva la confessione collettiva liturgica
nel culto pubblico e un periodo dedicato particolarmente alla peni-
tenza prima della Pasqua. Tralasciando ora altri particolari dell’evo-
luzione della disciplina ecclesiastica riguardo alla penitenza, arrivia-
mo al secolo VII quando si cominciò a considerare la possibilità di
una commutazione delle pene disciplinari (digiuni, astinenze, ecc.)
con altre prestazioni, soprattutto in denaro. La via delle indulgenze
ecclesiastiche era aperta. La possibilità della commutazione delle
pene canoniche con altre opere meritorie o con segnalati servizi resi
alla Chiesa seguì logicamente. Fin dal secolo IX, coloro che si assu-
mevano il sacrificio di un pellegrinaggio a Roma (i Romei) erano
esonerati da ogni altra pena. Nello stesso secolo, una analoga remis-
sione fu concessa a coloro che prendevano le armi per la difesa della
Chiesa. Leone IV (847-855) nell’853, proclamò che coloro che
cadessero combattendo contro gli infedeli erano sicuri della felicità
eterna. In tal modo, egli trasferiva inavvertitamente un principio
coranico nel Cristianesimo. Papa Giovanni VIII (872-882) diede al
concetto dell’esenzione dalle penitenze ecclesiastiche l’appoggio di
un passo biblico di 1 Mc 1. Leone IX (1049-1054) estese la stessa
esenzione ai combattenti vivi nella guerra contro i Normanni, e
Alessandro II (1061-1073) ai Normanni e ai cavalieri che combatte-
vano contro gli arabi in Spagna. L’epoca delle crociate condusse ad
una ulteriore estensione delle esenzioni. Urbano II (1088-1099),
nella proclamazione della prima crociata, annunciò al Concilio di
Clermont che i partecipanti alla crociata sarebbero stati considerati
liberi da ogni altra obbligazione. Fu il primo caso di indulgenza
plenaria. Lo stesso privilegio fu poi esteso, sebbene con notevoli
temperamenti, a seconda delle esigenze del servizio reso, a coloro
che contribuissero a finanziare le crociate. Dopo l’epoca delle
crociate, si tornò all’idea di connettere ampie indulgenze con i
pellegrinaggi. La stessa indulgenza concessa ai crociati fu bandita ai
pellegrini del giubileo del 1300. I giubilei furono poi rinnovati ogni
mezzo secolo e finalmente ogni 25 anni, offrendo ai fedeli più
frequentemente gli stessi benefici. Infine, i privilegi giubilari furono
concessi ad altre località e per altre occasioni (come ad esempio
l’indulgenza plenaria della Porziuncola di Assisi). Con quest’ultima
spiritualità
Luteroe la Scala Santa81-100
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prassi l’evoluzione delle indulgenze raggiunse il suo pieno
sviluppo.
Ma in pari tempo, l’evoluzione della prassi condusse ad una
modificazione parallela dei termini della dottrina. La penitenza,
secondo la dottrina tradizionale, comprendeva tre elementi: la con-
trizione, la confessione e la soddisfazione della pena ecclesiastica.
La soddisfazione delle pene disciplinari era strettamente connessa
con la contrizione, e doveva dimostrare la serietà del ravvedimento.
Quando le esenzioni delle pene canoniche cominciarono ad acqui-
stare una certa estensione, questi due aspetti del ravvedimento subi-
rono una sorta di dislocazione. La partecipazione alla guerra delle
crociate, dopo tutto, non era una vera penitenza e la Chiesa venne
condotta necessariamente a spostare l’accento sulla contrizione del
cuore e a connettere direttamente con essa la remissione dei pecca-
ti. Così la dottrina ritornava semplicemente verso le posizioni primi-
tive. Ma al tempo stesso, anche la dichiarazione di assoluzione
acquistava un significato diverso: non significava soltanto che il
penitente aveva assolto la sua pena, ma che il sacerdote si era assi-
curato della sincerità del suo ravvedimento, indipendentemente da
questa. In tal modo, l’assoluzione assumeva progressivamente un
significato più chiaro di remissione dei peccati. Poiché la dimostra-
zione esterna del ravvedimento (le opere di penitenza) erano sospe-
se, la confessione del penitente acquistava una maggiore importan-
za, come mezzo che assicurava della serietà della sua contrizione.
Le opere di penitenza si spostano assumendo una diversa giustifica-
zione: esse significano la soddisfazione che il penitente doveva ren-
dere a Dio, anche dopo essere stato perdonato. In tal modo la pena
acquistava una significazione autonoma: anche il penitente perdona-
to doveva continuare a pagare il suo debito a Dio, in questo mondo
e nell’interregno del Purgatorio. A poco a poco venne così a stabilir-
si una sorta di equivalenza tra le pene canoniche imposte ai vivi
come soddisfazione dopo il perdono e le pene temporali che i morti
continuano a subire nel Purgatorio: le une furono considerate come
compenso delle altre: chi accettava di espiare in vita, poteva presu-
mere di essere proporzionalmente alleviato nella sua espiazione
ultraterrena.
L’assimilazione delle pene canoniche con quelle temporali del
Purgatorio condusse all’idea che anche queste potessero essere
l’oggetto di una analoga remissione da parte della Chiesa. Il fonda-
mento teorico di questo diritto venne cercato nell’idea del tesoro
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spirituale della Chiesa: la Chiesa, che nella sua amministrazione
carismatica dispone dei meriti infiniti di Cristo, dei santi, dei marti-
ri e in generale di tutti coloro che, nella loro vita e nelle loro opere
sante, hanno fatto più di quello a cui erano tenuti per la loro salvez-
za personale, può disporre di questo capitale spirituale a totale o par-
ziale scarico dei fedeli, in questa vita o nella vita intermedia del
Purgatorio. Verso il 1260 si arrivò alla formula secondo cui l’indul-
genza comprendeva la liberazione “dalla colpa e dalla pena” (abso-lutio ab omni poena et a culpa): era la formula tecnica che designa-
va la remissione plenaria della pena, mentre la colpa è rimessa in
virtù del sacramento della penitenza.
Lutero si inserisce nella questione delle indulgenze, almeno in un
primo tempo, non tanto per contestare la dottrina cattolica sulle
indulgenze, quanto piuttosto per contrastare la commercializzazione
delle indulgenze stesse che si faceva allora in Germania, special-
mente a riguardo degli appalti delle indulgenze che erano comincia-
ti sin dal tempo di Alessandro VI Borgia (1492-1503), che avevano
rapporti finanziari con i ricchi banchieri Fugger dai quali il Borgia,
e successivamente anche papa Medici, avevano ricevuto dei presti-
ti. Del resto, il commercio delle indulgenze fioriva non tanto lonta-
no dalla Schlosskirche di Wittenberg, dedicata a tutti i santi, alla
quale era annessa l’università dove insegnava Lutero e che possede-
va da gran tempo un ricco tesoro di reliquie, alle quali si connette-
vano numerose indulgenze, tra cui quella della Porziuncola. Il prin-
cipe elettore di Sassonia, Federico il Savio, era un appassionato col-
lezionista di reliquie, e mirava di fare della chiesa d’Ognissanti della
sua città un santuario ed un centro di pellegrinaggio. La più prezio-
sa delle reliquie era una spina della corona di Cristo, donata dal re
Filippo IV di Francia al principe Rodolfo di Sassonia. Il catalogo
delle reliquie della Schlosskirche comprendeva nel 1518, primo
anno della Riforma, 17.443 particelle, tra cui, ad esempio, gocce del
latte della Madonna, paglia del presepe, particelle di lino dei vesti-
tini di Gesù Bambino, ecc. A questo tesoro di reliquie si connetteva-
no 127.799 anni e 116 giorni di indulgenza. Queste indulgenze si
potevano lucrare visitando la chiesa nel giorno della festa
d’Ognissanti e versando una tenue offerta, dopo la confessione
seriamente contrita dei propri peccati. Per una ironia della sorte,
proprio alla chiesa d’ Ognissanti di Wittenberg, almeno secondo una
certa versione, dovevano essere affisse le 95 tesi di Lutero contro le
indulgenze.
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91
Infatti, nell’aprile del 1517 si sparse la notizia, che nella contra-
da del Magdeburgo veniva bandita una nuova indulgenza, concessa
da papa Leone X Medici (1513-1521) in favore della nuova basilica
di S. Pietro. La gente accorreva numerosa per lucrare questa indul-
genza e Lutero, cui era affidata la predicazione e la cura d’anime in
Wittenberg, cominciò presto ad avere notizie poco edificanti su que-
sta indulgenza. Tra le altre cose, aveva saputo che il giovane princi-
pe della casa di Hohenzollern, Alberto di Brandeburgo, era stato
recentemente investito dell’arcivescovato di Magdeburgo e contem-
poraneamente aveva ottenuto l’amministrazione del vescovato di
Halberstadt.
A queste due ricche sedi episcopali, il giovane Hohenzollern, che
aveva appena 23 anni, con un colpo maestro, poté aggiungere anche
la sede vacante del vescovato di Magonza, senza rinunciare alle due
precedenti sedi. Ma l’assicurarsi l’ambita sede di Magonza fu molto
costosa per l’Hohenzollern. I suoi emissari trattarono a Roma attra-
verso la Banca Fugger la compera dell’episcopato di Magonza che
costò la somma di 10.000 ducati, anticipati dai Fugger, ma poi, con
altre spese aggiuntive, il debito dell’Hohenzollern ammontò a
30.000 ducati. Per poterlo pagare, fu convenuto tra l’agente dei
Fugger e il cardinale Pucci, per la cura romana, che il nuovo arcive-
scovo avrebbe promosso per otto anni la predicazione dell’indulgen-
za di Leone X e che il ricavato dell’indulgenza doveva rimanere
all’arcivescovo di Magonza, a sgravio del suo debito verso i Fugger,
e l’altra metà doveva essere versata al papa per la fabbrica di S.
Pietro.
A questo punto della vicenda dell’arcivescovado di Magonza,
Lutero si sentì in dovere di prendere posizione con fermezza contro
la predicazione dell’indulgenza moguntina. Non che il Dottore in
teologia Martin Lutero attribuisse una grande importanza alle voci
che circolavano, né che fosse particolarmente scandalizzato dal
retroscena finanziario delle indulgenze, che non conosceva, ma la
sua opposizione contro le indulgenze attingeva forza e coerenza
crescenti dalla sua meditazione sul concetto stesso della penitenza,
quale era venuto disegnandosi nel suo travaglio spirituale. E la
necessità del suo intervento nasceva semplicemente dalla sua situa-
zione di professore di teologia nella Chiesa. Nel prendere questa
posizione, al momento, Lutero non riteneva di dover arrivare ad
una vera rottura o, peggio, ad una vera rivoluzione religiosa contro
la Chiesa.
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La scintilla che innescò in Lutero ansia di verità e di chiarezza fu
quando il Dottore ebbe in mano un libriccino con lo stemma dell’ar-
civescovo di Magonza dal titolo Summaria instructio sacerdotum adpraedicandas indulgentias, una specie di vademecum per i predica-
tori, contenente le disposizioni già emanate per l’acquisto delle
indulgenze e l’invito ad accogliere le grazie papali in maniera enfa-
tica e patetica.
La lettura di questo libro indusse Lutero a rompere gli indugi: il
31 ottobre 1517, vigilia d’Ognissanti, poco prima delle ore 12, senza
aver preavvisato alcuno dei suoi colleghi, Lutero affisse alla porta
settentrionale della Schlosskirche le sue novantacinque Tesi sulle
indulgenze. Il gesto si suole considerare come l’inizio della
Riforma.
La semplice trascrizione delle 95 Tesi richiederebbe la disponi-
bilità di diverse pagine, che, in questo breve articolo commemorati-
vo del viaggio di Lutero a Roma, non posso permettermi; dopo tutto,
il mio intento non è quello di scrivere la storia delle indulgenze e
delle 95 Tesi di Wittenberg, ma principalmente quello di verificare
l’attendibilità di Lutero che sale la Scala Santa lateranense3.
Quando Lutero
arrivò a Roma
non era il
Riformatore e il formu-
latore delle Tesi del
1517: era ancora il buono e disciplinato monaco agostiniano che
praticava e credeva nelle indulgenze. La sua evoluzione sul proble-
ma, lo abbiamo già visto sopra, iniziò oltre un lustro più tardi. Agli
effetti del presente saggio, è più importante sapere cosa vide, o
meglio cosa non vide Lutero giunto a Roma.
Per la verità sappiamo molto poco del viaggio del giovane Lutero
a Roma, sia perché egli su questa sua venuta nell’Urbe è molto
avaro di notizie, sia perché i contemporanei, parlano altrettanto ava-
ramente di questo evento che precede abbondantemente il periodo
3 Per chi volesse leggere il testo completo delle 95 Tesi può trovarlo inA. MARIO ROSSI, Lutero e Roma, la fatale scintilla, Roma, 1923, pp. 137 ss.;G. MIEGGE, Lutero giovane, Feltrinelli Ed., Milano 1977, pp. 181-281.
5. Romanell’autunno del 1510
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della Riforma, che si può stabilire a partire dal 1518. Possiamo,
tuttavia, ricostruire con buone probabilità, dalle condizioni storiche
ed urbanistiche della Città Eterna dell’epoca, cosa poté vedere o
non vedere l’ospite sassone.
Incominciamo, intanto, dal tragitto seguito da Lutero nella sua
calata a Roma. Probabilmente, almeno partendo da Viterbo, il mona-
co agostiniano percorse lo stesso itinerario che già nel 990 aveva
seguito l’arcivescovo Sigerico di Canterbury, quando venne a Roma
per ricevere il pallium da papa Giovanni XV (985-996), e che cono-
sciamo dalla descrizione dello stesso arcivescovo, il quale percorse
la Via Cassia-Francigena, passando per Aqua Passaris, Foro Cassio,Vico Matrino, Sutri, Baccano e Veio. Però, più o meno verso l’odier-
na Storta, dove la via Cassia si biforca, Lutero non imboccò la Via
Trionfale, che portava a S. Pietro in Vaticano, ma proseguì per la
Cassia, che, passato il Ponte Molle o Ponte Milvio, conduceva
direttamente a Porta e Piazza del Popolo dove si trovava, come
ancora oggi, la chiesa e il convento della Curia generalizia
dell’Ordine degli Agostiniani e dove Lutero sarebbe stato ospite
durante le quattro settimane di novembre del suo soggiorno
romano per trattare la faccenda di cui era stato incaricato dal suo
provinciale di Sassonia, P. Johannes Staupitz. Per questo, forse, ebbe
poco tempo per visitare la città e solo per ragioni dell’incarico
ricevuto riuscì a muoversi fuori del convento per contattare le
persone interessate alla vertenza interna dell’Ordine Agostiniano.
Certamente, Lutero non trovò la città così accogliente e con lo
splendido cielo della bella stagione, ma sicuramente uggiosa e triste
a causa delle piogge, come avviene nel mese di novembre. Ma la
situazione metereologica ed il freddo che cominciava ad essere
pungente, non fece molta impressione a Lutero, abituato al clima
piovoso e ben più freddo della sua Sassonia. Non vide neppure la
bella Piazza del Popolo, come oggi ammiriamo, con l’obelisco al
centro che vi avrebbe innalzato Sisto V nel suo riordinamento
urbano degli anni 1585-90. Invece vide al centro della stessa piazza,
non lastricata e perciò molto fangosa, il boschetto di pioppi
(populus, da cui il nome della piazza).
Nel suo insieme, Lutero vide la Roma medievale, una città-con-
tadina, costituita da un insieme di borghi, di palazzi e torri fortifica-
te, abitati dalle ricche famiglie baronali o dagli alti prelati di Curia,
mentre la gente del popolo minuto era addossata nei fornici degli
antichi archi degli acquedotti, del colosseo o in casupole tirate su
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alla meglio4. Per quanto riguarda i monumenti, il Riformatore non ci
manifesta particolari apprezzamenti, né di lode, né di biasimo:
semplicemente non gli interessano o non ha avuto tempo per
occuparsene. Se pure andò in Vaticano, dove sin dal tempo di
Bonifacio VIII (1294-1303) abitavano stabilmente i papi, Lutero
non vide papa Giulio II (1503- 1513), allora regnante, poté vedere la
basilica di S. Pietro in costruzione, appena iniziata dal Bramante nel
1506, ma non la Cappella Sistina che Michelangelo dipingeva dal
1508 e che terminò nel 1512 , né le “Stanze” e le “Logge” che
Raffaello stava dipingendo dal 1508, terminate nel 1514.
Nella visita che Lutero fece al Laterano non trovò la piazza anti-
stante l’antico Patriarchio, come la sistemò 75 anni dopo nel 1585-
1590 papa Sisto V con il grande obelisco egizio, ma vide ancora l’an-
tico Campus Lateranensis sterrato, con al centro il famoso gruppo
equestre del Caballus Constantini, le statue degli apostoli Pietro ePaolo, gli altri antichi reperti bronzei: la Lupa capitolina, la colossa-
le testa di bronzo di Costantino e gli altri antichi reperti che ornava-
no il Campus. Ma soprattutto vide lo stato fatiscente dell’antico
palazzo papale, dove per mille anni circa avevano dimorato i ponte-
fici. Di questo monumento medievale dobbiamo ora parlare più in
particolare, dato che Lutero, almeno stando ad una certa tradizione,
lo visitò e di cui salì quella che sin da allora si riteneva la Scala Santa
di Gerusalemme, trasferita a Roma dall’imperatrice Sant’Elena.
Siamo così arrivati
al punto nevral-
gico di questo
articolo: tutti gli ele-
menti e dati storici fin
qui raccolti convergono
per chiarire l’evento della visita che il “dottore della Sacra Scrittura”
Martin Lutero fece a Roma e, in particolare, la sua devota salita
della Scala Santa lateranense, durante la quale sarebbe stato preso
4 La Roma medievale come vista da Lutero è ottimamente documentata edillustrata da R. KRAUTHEIMER, Rome. Profile of a City, 312-1308, New Jersey,1980, spec. pp. 203-326. Per la Roma tra Riforma e Controriforma, invio aI. INSOLERA, Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Editori Laterza,Roma-Bari 1985, pp. 67-148.
6. Lutero in visitaal Patriarchio e alla Scala
Santa lateranensi
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pastoraleespiritualità
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da un vero o presunto inizio della sua crisi spirituale sulle
indulgenze.
In primo luogo dobbiamo dire che Lutero non vide il papa,
che, come già dicevamo, all’epoca era Giulio II Della Rovere
(1503-1513); forse incontrò qualche cardinale o alto funzionario
delle Congregazioni Romane, con i quali ebbe certamente dei
colloqui per la questione del riordinamento interno dell’Ordine
Agostiniano di cui era stato autorizzato a trattare e risolvere dal
suo Provinciale di Sassonia, Johannes Staupitz.
Anche se non interessato particolarmente a visitare i monumenti
di Roma, tuttavia è molto probabile che Lutero avesse sentito parla-
re del Patriarchio lateranense e della Scala esistente nel palazzo dei
papi, che per una tradizione medievale era ritenuta Santa e si saliva
in ginocchio dai fedeli.
La situazione che trovò Lutero, giunto nel Campus lateranensis,
fu certamente quella che ci viene offerta da uno schizzo che ancora
si conserva nel gabinetto delle incisioni in rame di Berlino, disegna-
to dall’olandese Marten van Heemskerck del 1535 ca., quindi pochi
anni dopo la visita di Lutero. La stampa ritrae la situazione sia del
Patriarchio, sia dello stato della vecchia Basilica lateranense del SS.
Salvatore, la più antica chiesa di Roma, fondata dall’imperatore
Costantino nel 313. Mentre si vede campeggiare il ritenuto CaballusConstantini (che sappiamo però essere la statua equestre dell’impe-
ratore Marco Aurelio, oggi nel Museo Capitolino, trasportata da
Michelangelo nella piazza del Campidoglio per ordine di Paolo III
Farnese [1534-1549]), il palazzo del Patriarchio è in piena rovina.
Però, all’estrema sinistra dello schizzo si vede un piccolo porticato
posto davanti ad una scalinata, che, da altre descrizioni, sappiamo
essere la cosiddetta Scala Santa. Sin dal tardo medioevo, essa era
oggetto di grande devozione tra i romani e meta di molti pellegrini.
Una prima notizia documentale circa l’attendibilità di questa scala la
troviamo nell’Itinerarium Urbis Romae di Fra’ Mariano da Firenze
(1517) e successivamente in un’opera del devoto fiorentino
Giovanni Rucellai, ma la citata tradizione comincia a prendere con-
sistenza nella relazione dell’anno santo del 1450, fatta dal vescovo
francese di Chalon-sur-Marne, Primo. Questa relazione asserisce
che la (presunta) Scala Santa già da tradizione del secolo XIII-XIV
sarebbe una non ben precisata Scala Pilati che viene poi messa
arbitrariamente in relazione con la leggendaria domus Pylati o col
Palatium Pilati, esistenti in differenti siti di Roma. Come si vede,
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la tradizione è assai confusa e men che meno sono convincenti le
date e i documenti che suffragano tutta la storia.
Ad ogni modo, Lutero, che molto probabilmente visitò il
Laterano, avrà inteso parlare di questa Scala Santa e, anche se non
l’ha vista, ha certamente avuto notizia delle molte reliquie che si
conservavano in una o più cappelle del palazzo pontificio. Del resto,
sappiamo che dal Patriarchio partivano un’infinità di reliquie per
tutta l’Europa, che venivano collezionate, come abbiamo visto che
faceva anche, a Wittenberg, il principe elettore di Sassonia Federico
il Savio e come fece l’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, quando
venne a Roma, portando con sé al suo ritorno in sede molte reliquie
di santi e di martiri. Certamente Lutero avrà inteso parlare di incre-
dibili reliquie conservate nella cappella palatina di S. Lorenzo, già
allora conosciuta come Sancta Sanctorum: vi si custodivano reliquie
della Santa Croce, del “latte della Madonna”, del “prepuzio” di
Nostro Signore, del “laccio” o corda di Giuda, e molte altre incredi-
bili e fantasiose. A questo riguardo, vale la pena ricordare che, anche
in tempi recenti, degli ingenui fedeli chiedevano ai religiosi custodi
del santuario della Scala Santa se, custodita dentro alla cappella del
Sancta Sanctorum, si trovasse anche la “tromba del giudizio univer-
sale”! Non c’è da meravigliarsi se anche al tempo di Lutero circo-
lassero leggende del genere sulle reliquie.
Dobbiamo, però, precisare una cosa a riguardo della Scala Santa
lateranense, che, anche se salita in ginocchio e con molta devozione
dai fedeli molto prima della visita di Lutero del 1510, la stessa Scala
non era ufficialmente indulgenziata. Tant’è vero che papa Sisto V,
dopo aver trasferito la Scala Santa dal Patriarchio in demolizione al
nuovo Santuario appositamente costruito per sistemarvi i 28 tradi-
zionali gradini ed aver solennemente inaugurato il manufatto con la
bolla Cum singularum rerum del 1590 non parla di indulgenze
annesse alla pia pratica del salire in ginocchio la Scala Santa. La
bolla di Pasquale II (1099-1118), che annetterebbe alla pia pratica
un’indulgenza, è manifestamente falsa e inventata dal canonico late-
ranense Soresini nel 1672. Le indulgenze vengono convalidate con
“rescritto” soltanto nel 1817 da papa Pio VII5.
5 Per la storia dell’autenticità della Scala Santa e delle indulgenze annesse,rinvio a M. CEMPANARI-T. AMODEI, La Scala Santa, Ist. Naz. di Studi Romani,Palombi Ed., Roma, 1989, pp. 45-58.
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Tornando ora direttamente alla visita di Lutero al Laterano, viene
tramandata la notizia, sostenuta da alcune redazioni dei Tischredendel 1582, più di un trentennio dopo la morte del Riformatore, che
questi avrebbe salito ginocchioni, come tutti i fedeli, la Scala Santa
del Patriarchio e la sua intenzione sarebbe stata quella di acquistare
le indulgenze per salvare dal purgatorio l’anima dell’avo paterno.
Ma, narra ancora la stessa notizia, arrivato il monaco agostiniano in
cima alla Scala, avrebbe sentito risuonare in sé una voce che gli
diceva la grande parola dell’apostolo Paolo: “il giusto vive di fede”
(Justus autem ex fide vivit, Rom 1, 17).
Come sappiamo dalla vita e dalle opere di Lutero, l’epistola ai
Romani ed in particolare l’espressione paolina riferita, costituisce il
cavallo di battaglia del Riformatore e questa epistola è stato il
manuale teologico della teologia riformata, lo statuto della Riforma.
In genere, gli studiosi ammettono che, di tutti i commenti classici
dell’Epistola ai Romani, quello di Lutero rimane insuperato. Il com-
mento del Riformatore, scritto tra il 1515 e il 1516, contiene virtual-
mente tutta la spinta teologica rivoluzionaria della Riforma, benché
sia stato scritto due anni prima che scoppiasse la tempesta dello
scandalo delle indulgenze (1517), quasi sette anni prima della rottu-
ra di Worms del 1521, e sette anni dopo il narrato episodio dell’illu-
minazione interiore della Scala Santa. Eppure questo commento
eccezionale non fu pubblicato fino al 1908 e, per un capriccio della
storia, rimase trascurato e ignorato per quattrocento anni.
Non è il caso di dilungarci sul commento di Lutero alla più
importante delle epistole di S. Paolo, ma merita di essere riportato
quanto il Riformatore scrive sul versetto riferito Rom 1, 17, e che
sarebbe quello della misteriosa voce interiore percepita in cima alla
Scala Santa. Scrive infatti in proposito Lutero nel suo celebre
commento: “Nelle dottrine degli uomini viene rivelata e insegnatala giustizia degli uomini. In altre parole, essi insegnano chi è giusto,in che modo è giusto, come può diventare giusto nel giudizio suocome in quello dei suoi simili. Ma la giustizia di Dio è rivelata solonell’Evangelo: in altre parole, chi è giusto, come è giusto e comepuò diventare giusto agli occhi di Dio. Questo avviene solo perfede, per quella fede con la quale si crede alla Parola di Dio...La giustizia di Dio è la causa della salvezza. E qui di nuovo la“giustizia di Dio” non dovrebbe essere intesa nel senso per cui Dioè giusto nella Sua natura, ma come la giustizia per la quale siamogiustificati da Lui. Questo avviene mediante la fede nell’Evangelo...
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Secondo Aristotele, la giustizia segue e nasce dalle opere. Masecondo Dio la giustizia precede le opere e le opere sgorgano dallagiustizia”6.
Concludo rilevando un singolare scherzo della storia nella
vicenda della salita di Lutero alla Scala Santa: proprio mentre il
Riformatore compiva un’opera di fede e di acquisto delle indulgen-
ze, egli inizia a dubitare della validità delle opere buone e delle
indulgenze per venire giustificati, perché, egli asserisce, è solo dalla
fede e per la fede, senza le opere, che noi siamo giustificati agli
occhi di Dio. Ma con ciò mi sembra che, in radice, la posizione del
Riformatore sia contraddittoria. Ovviamente, se l’episodio di Lutero
alla Scala Santa risponde per intero alla verità.
LUTHER AND THE SCALA SANTA
Did the Reformer’s Indulgence Crisis begin at the
Lateran?
Notes and Research on the 5th Centenary of Luther’s arrival in
Rome in 1510.
By Mario Cempanari.
Calling to mind Luther’s trip to Rome in 1510, the author takes usback to a time preceding the Reformation, already astir with fer-ment. Among other things we see how Luther had immersed himselfin the matter of reforming Religious Orders before he started think-ing about a need to reform the whole Church. His encounter with thehub of the Renaissance Church, which was about to exhibit its gloryas it replaced and superseded the old pagan culture, may well havecaused a surge within his conscience of the first inkling of a “theolo-
gia crucis.” The jolt this would eventually cause within the Churchwould probably produce greater fruit in the Catholic Church than inthe Reformation, contributing to a growing awareness among thehierarchy of its enormous responsibility for the Kingdom.
6 D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, Weimer, 1883, 56,171-72.
ENG
spiritualità
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LUTHER ET LA SCALA SANTA
La crise sur les indulgences du Réformateur a t-elle com-
mencé au Latran?
Notes et recherches pour le 5ème centenaire de la venue de Luther
à Rome (1510)
de Mario Cempanari
Remettant en mémoire le voyage de Luther à Rome en 1510, l’auteurnous ramène à l’époque précédent la Réforme, mais déjà pleine deses ferments. Nous voyons entre autre ici comment Luther étaitimmergé dans des problèmes de réforme des Ordres Religieuxecclésiastiques avant de penser à la réforme de l’Eglise entière. Sarencontre avec le centre de l’Eglise de la renaissance, qui désiraitmontrer sa gloire dans la reprise et dans la dépassement de la culturepaïenne, a pu faire surgir dans sa conscience les premières approchesde la theologia crucis. La terrible secousse qu’il provoquera dansl’Eglise portera peut-être des fruits importants aussi bien dans lecatholicisme que dans la Réforme, contribuant à faire croître dans lahiérarchie le sens de son énorme responsabilité à l’égard du Règne.
LUTERO Y LA SCALA SANTA
¿La crisis sobre las indulgencias del reformado comenzó
en el Laterano?
Notas e investigaciones en el 5º Centenario de la venida de
Lutero a Roma (1510).
De Mario Cempanari
Rememorando el viaje de Lutero a Roma en el año 1510, el autornos traslada a una época que precedió a la Reforma, pero cuandoya estaba en sus plenos fermentos. Entre otras cosas vemos aquícómo Lutero estaba inmerso en los problemas de la reforma de lasÓrdenes religiosas eclesiásticas antes de pensar en la reforma de laIglesia entera. El encuentro con el centro de la Iglesia delRenacimiento, que estaba para mostrar su gloria al retomar ysuperar la cultura pagana, pudo hacer surgir en su conciencia losprimeros vagidos de la Theologia Crucis. El tremendo empujón quedará a la Iglesia reportará quizá frutos mayores en el Catolicismoque en la Reforma, contribuyendo a hacer crecer en la jerarquía elsentido de su enorme responsabilidad para el Reino.
FRA
ESP
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LUTHER UND DIE HEILIGE TREPPE
Begann die Krise des Reformators wegen der Ablässe auf
dem Lateran?
Anmerkungen und Untersuchungen zur 500 Jahrfeier der
Romreise Luthers (1510)
von Mario Cempanari
Indem der Autor die Romreise Luthers im Jahr 1510 in Erinnerungruft, führt er uns in eine Epoche ein, die zwar noch vor derReformation liegt, aber schon von deren zahlreichen Fermentengeprägt ist. Unter anderem sehen wir hier, dass sich Luther nochlange bevor er an eine Reformation der ganzen Kirche dachte,intensiv mit dem Problem der Erneuerung der kirchlichen Ordenbeschäftigte. Die Begegnung mit dem Zentrum derRanaissancekirche, die in der Wiederentdeckung und Überwindungder heidnischen Kultur ihre eigene Herrlichkeit zelebrierte, könntein dem Bewusstsein Luthers die ersten Bestrebungen nach der theo-logia crucis hervorgerufen haben. Die ungeheure Erschütterung,welche von der Reformation für die Kirche ausging, wird in weiterFolge unter Umständen für den Katholizismus die größeren Früchtehervorbringen als für die Reformation, da sie der Hierarchie ihreenorme Verantwortung für das Gottesreich bewusst macht.
LUTER i SCALA SANTA
Kryzys dotyczący odpustów zaczął się na Lateranie?
Uwagi i poszukiwania w 500 rocznicę przybycia Lutra do
Rzymu (1510) Mario Cempanari
Przypominając podróż Lutra do Rzymu w 1510 r. autor przenosi nasw czasy Reformacji, która osiąga już stan wielkiego wrzenia.Między innymi widzimy tu, jak Luter, zanim zaczął myśleć o reformiecałego Kościoła, był zaangażowany w reformę zakonów. Spotkaniez centralnym ośrodkiem Kościoła epoki renesansu, który zaczynałokazywać swą chwałę w podjęciu i przewyższeniu kulturypogańskiej, mogło wzbudzić w nim pierwsze tęsknoty za theologia
crucis. Potężny bodziec jaki dał Kościołowi, być może przyniesiewiększe owoce w katolicyzmie niż w Reformacji, powodując uhierarchii wzrost poczucia jego ogromnej odpowiedzialności zaKrólestwo.
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POL
GER
culture
Tre Papie gli artisti101-105
salvezzaeculture
101
di TITO AMODEI C.P.
Sull’invito di Benedetto XVI agli artisti di tutto ilmondo, impegnati nei diversi linguaggi espressivi, lastampa ha ampiamente dato rilievo e positivamen-te. Nella presente relazione si indugia sull’aspettoche attiene particolarmentealla iconografia per il culto.
Itre papi, è ovvio, sono quelli che
abbiamo conosciuto e cioè Paolo
VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Papi che si sono
accorti quanto gli artisti, da tempo, viaggiassero lontano
dalla Chiesa. La ricerca di nuovi linguaggi espressivi non
collimava più con la tradizionale committenza sacra e la
committenza sacra faticava ad accoglierne i risultati. Per
più di due secoli i responsabili del culto hanno sostituito l’opera
d’arte col vacuo prodotto industriale, soporifero, ripetitivo, formal-
mente inesistente e totalmente offensivo dei misteri che pretendeva
illustrare. Quando se ne vuole prendere coscienza siamo afferrati
dalle vertigini del vuoto pauroso che l’assenza di autentico linguag-
gio sacrale ci coglie. Malgrado l’autorevole invito, nel lontano 1954,
di Pio XII, a dare “anche all’arte contemporanea spazio nella
Chiesa”, la forza d’inerzia, l’ostracismo, spesso larvato e salvo qual-
che benemerita eccezione, è stato mantenuto quasi universalmente
nella chiesa cattolica, fino ai tempi a noi vicini. Qui si aprirebbe un
capitolo interessante e doloroso, ma di carattere piuttosto sociologi-
co, su questo lungo iato che assomiglia più ad un sonno che ad un
comportamento programmato di disinteresse per la cultura artistica,
nei responsabili del culto.
Ma le responsabilità vanno anche ripartite. L’arte della ricerca,
spesso solo sperimentale, ha contribuito non poco alla mancanza
TRE PAPIE GLI ARTISTI
TITO AMODEISapCr XXV
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salvezzae
culture
culture102
di intesa con la committenza sacra. Finalmente il vibrante ed illumi-
nato grido dell’indimenticabile Paolo VI (7 maggio del 1964 nella
Cappella Sistina): “Noi abbiamo bisogno di voi! Il nostro ministero
ha bisogno della vostra collaborazione. Facciamo pace!”
L’appello viene ripreso, sempre nella Cappella Sistina, il 21
novembre del 2009, con la stessa autorevolezza, con la medesima
convinzione, anche se con toni meno emotivi di quelli di Paolo VI,
da Benedetto XVI. E questa volta diretto a circa 300 artisti e dei
diversi linguaggi dell’arte e provenienti da ogni parte del mondo.
In Paolo VI affiorava, insieme alla sua cultura ed interesse per-
sonale per l’arte, l’emotiva sensibilità estetica; mentre in Benedetto
XVI, sempre lucido, le ragioni teologiche si accompagnano alla
conoscenza del peso e della fatica che la ricerca artistica comporta
specie nel tentativo di attingere la trascendenza. Ragioni teologiche
del resto non ignote al suo predecessore.
Ci dobbiamo interrogare sulle motivazioni profonde che sono
all’origine di questi inviti agli artisti, dei due grandi pontefici.
Entrambi devono aver avuto un soprassalto di intelligenza e di
coscienza per la responsabilità della Chiesa nella promozione del
culto attraverso la cultura viva del proprio tempo.
La storia ci informa che la fede si diffonde e si conferma più e
prima attraverso le immagini che attraverso la dottrina.
L’immagine arriva prima, e a tutti. La dottrina è di pochi e pochi vi
attendono1. Con i loro interventi Paolo VI e Benedetto XVI hanno
voluto ridare all’immagine il ruolo determinante che essa ha e ha
avuto, per lungo tempo nel Cristianesimo. Tra questi due interven-
ti di Paolo VI e Benedetto XVI, che potremmo definire clamorosi
vista la risonanza che hanno avuto, si pone, con garbo diverso l’in-
tervento di Giovanni Paolo II, il quale nella lettera agli artisti
(Pasqua del 1999) osa definire l’artista ‘immagine del Dio
Creatore’. E non è poco. Ma già nella Lettera Apostolica
Duodecimum saeculum di due anni prima, rievocando il secondo
Concilio di Nicea (quello sulla iconoclastia) riaffermava quello che
nella Chiesa si è sempre creduto, cioè che l’immagine sacra aiuta il
fedele nel relazionarsi col soprannaturale. Del resto quel papa era
1 “Poni in iscritto il nome di Dio in un loco e ponvi la sua figura a riscontro,il vedrai quale fia più riverita” Leonardo da Vinci.
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egli stesso un artista e un estimatore degli artisti, sotto qualunque
linguaggio si esprimessero2.
Benedetto XVI, a differenza di Paolo VI ha allargato l’invito agli
artisti di tutto il mondo ed operanti nelle diverse forme della creati-
vità. La risposta è stata tanto ampia da raggiungere le trecento unità.
Nella Sistina pareva che tutti i convenuti si sentissero di casa.
Michelangelo apparteneva a tutti e il Papa diceva a tutti quello che
tutti si aspettavano. E la cena della sera precedente in un’ala dei
Musei Vaticani, alla presenza degli antichi capolavori, ha propiziato
una cordialità non sempre frequente tra gli artisti. E pareva che gli
autori degli antichi capolavori solidarizzassero con i colleghi con-
temporanei.
Se la risposta personale degli artisti è stata ampia e soddisfacen-
te la loro attenzione al problema del sacro dobbiamo attenderla in
tempi lunghi, e questo è fisiologico per ogni forma culturale. Anche
perché tra l’artista e il fedele l’intesa non sarà agevole. Almeno fin-
tanto che non termini quella schizofrenia nei fedeli che vivono la
propria cultura nel sociale e in chiesa frequentano volentieri il dan-
nato kitsch a tema religioso.
Non ci si può interessare all’arte del proprio tempo, andare alle
mostre, magari farne collezione, e poi subire passivamente quanto di
avvilente si produce e si espone ad illustrare la propria fede. E tra i
fedeli il primo posto (e la riprovazione) spetta al clero committente,
il quale è tenuto a predicare ‘la sana dottrina’ anche con le espres-
sioni artistiche congrue che sono lo specchio del proprio tempo.
Ricordiamo che Paolo VI si fece un punto di onore di aver offer-
to all’arte contemporanea e all’episcopato un codice di promozione
e vincolante nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Conciliume una avviata Raccolta di arte contemporanea nei prestigiosi Musei
Vaticani. Ma tra tutte le Costituzioni conciliari quella che doveva
servire per l’attenzione da dare all’arte, la Sacrosanctum Conciliumappunto, resta la più trascurata e disattesa.
Gli artisti, o molti di loro, possono anche continuare a disinteres-
sarsi degli inviti premurosi e sinceri degli ultimi pontefici; disinte-
ressarsi ai problemi dell’iconografia sacra, al degrado degli spazi
2 Non ci spieghiamo come sia stato mal consigliato per la decorazionemusiva (falso bizantino) della cappella Redemptoris Mater in Vaticano.
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che dovrebbero accoglierla o alla presenza, in quegli spazi, di offen-
sivi prodotti che configgono con le liturgie che vi si celebrano,
devono però onestamente riflettere che sono stati presi in sincera
considerazione dalla suprema gerarchia della chiesa.
Nessuna altra istituzione, né civile, né politica ha riconosciuto in
maniera così clamorosa l’importanza e la necessità della loro pre-
senza e del loro lavoro nella società, come hanno fatto i romani pon-
tefici.
Nell’immediato attendiamo quanto ci dirà il padiglione della
prossima Biennale d’arte di Venezia nella quale il Vaticano si è pre-
notato uno spazio. E’ tutt’altra cosa dell’appello fatto agli artisti di
impegnarsi col sacro. A Venezia vedremo un aspetto dell’arte che
tenta l’approccio col sacro, oggi. Gli appelli degli ultimi pontefici
richiedono, invece, la convinta adesione della creatività umana ai
valori che ci trascendono e dei quali poter dare dei riflessi poetici.
Per concludere mi permetto di immaginare che il Papa chiami ora
i vescovi per “imporre” loro di ripulire gli spazi sacri da ogni forma
di kitsch che li deturpano e ne umiliano le liturgie. E li richiamasse
alla applicazione dei commi della Sacrosanctum Concilium che
attendono alla formazione del clero su questi irrimandabili proble-
mi. Il clero committente deve portare, con gli artisti, il peso del
decoro richiesto nella attestazione della fede.
THREE POPES AND THE ARTISTS
By Fr Tito Amodei, C.P.
The press has covered, in a positive fashion, Pope Benedict XVI’sinvitation to artists of all the world who are engaged in variousexpressive languages. In the present article the author concentrateson the meaning of this for iconography related to worship.
ENG
TROIS PAPES ET LES ARTISTES
de Tito Amodei
La presse a amplement mis en relief, et positivement, l’invitation deBenoît XVI aux artistes du monde entier engagés dans divers modesd’expression. La présente relation s’attarde sur l’aspect quiconcerne particulièrement l’iconographie pour le culte.
TRES PAPAS Y LOS ARTISTAS
De Tito Amodei
Benedicto XVI ha invitado a los artistas de todo el mundo, empeña-dos en los diversos lenguajes expresivos,y los periódicos se hanhecho eco de ello muy positivamente. En la presente relación seincide en el aspecto que se refiere particularmente a la iconografíaal servicio del culto.
DREI PÄPSTE UND DIE KÜNSTLER
von Tito Amodei
Der Einladung Benedikt XVI an die Künstler aus aller Welt hat diePresse große Aufmerksamkeit geschenkt und positiv berichtet. Dervorliegende Bericht verweilt bei einem Aspekt, den der Papst beson-ders hervorgehoben hat: die Stellung der Iconographie für den Kult.
TRZEJ PAPIEŻE I ARTYŚCI
Tito Amodei
Na zaproszenie Benedykta XVI artyści z całego świata używającyrozmaitych środków ekspresji, prasa nadała pozytywnego rozgłosu.W niniejszej relacji kładzie się nacisk na aspekt, który dotyczyikonografii przeznaczonej dla kultu.
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di ELISABETTA VALGIUSTI
“Io, loro e Lara”, del regista Carlo Verdone è uscito nelle saleitaliane il giorno dell’Epifania del 2010 e sta ottenendo ungrandissimo successo di pubblico. Il film ha un cast di ottimiattori che riescono a riproporre, con splendidi risultati, unacomicità ispirata alla commedia all’italiana. E’ una comicitàal servizio della critica ad atteg-giamenti molto diffusi come l’aridi-tà, il materialismo, il razzismo, laconfusione morale. Il film riesce atratteggiare un’immagine piutto-sto cruda e verosimile dell’Italia,provocando allo stesso tempo unaforte e sana risata liberatoria.
Protagonista della divertentissima commedia di Carlo
Verdone dal titolo Io, loro e Lara è don Carlo
Mascolo, un sacerdote missionario in Africa che
rientra in Italia dopo un lungo periodo di assenza.
Don Carlo attraversa una crisi di vocazione, sente
che sta perdendo la fede. “Faccio lo sceriffo, il pre-
side, l’idraulico, lo sciamano...” dice don Carlo a un
superiore, sostenendo che nella missione più che un prete “servireb-
be la protezione civile!”.
A Roma, che è anche la sua città di origine, don Carlo spera di
trovare conforto e sollievo ma trova indifferenza e cattiveria. Va
subito detto che il personaggio di Don Carlo è tratteggiato con
caratteristiche funzionali a una commedia. Il film non pretende di
essere un’indagine psicologica e spirituale di una vocazione in crisi.
Quindi, si possono comprendere alcune incongruenze e ambiguità
delle vicende e del carattere del personaggio. Il fatto che non vedia-
mo mai don Carlo pregare e celebrare può essere motivato dalla
prudenza rispetto alle cose sacre, visto il contesto. Dall’altra parte,
don Carlo è un sacerdote così confuso e ordinario che sembra
L’ITALIA DELMISSIONARIOVERDONE
ELISABETTA VALGIUSTISapCr XXV
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richiamare qualche modello negativo, dice di voler essere “norma-
le”, come a banalizzare la sua vocazione per farsi uno qualunque.
E’ proprio in crisi...
Verdone si era già misurato con personaggi di prete, per esempio
il famoso don Spinetta. Ma in questo film le cose cambiano.
Verdone abbandona le sue maschere, i suoi famosi personaggi e le
gag, e mostrandosi nudo dà spazio al grandissimo attore che si
impone con classe e sobrietà. L’interpretazione del ruolo proposta
da Verdone si basa sulla spontaneità, la mitezza, la disponibilità,
una certa mestizia. Il suo sguardo serioso osserva e attraversa una
realtà italiana in cui non si raccapezza e che gli appare totalmente
scoppiata, una realtà del tutto verosimile nella sua tragica comicità.
Fra l’altro, a nessuno interessa la sua crisi, nessuno lo ascolta quan-
do vorrebbe spiegare i motivi per cui è rientrato o quando tenta di
raccontare la sua esperienza in Africa, la carestia, gli attacchi dei
ribelli, l’alluvione e così via.
“Sono travolto dalla follia collettiva”, dice don Carlo dopo avere
incontrato la sua famiglia. L’anziano padre vedovo ha sposato una
prorompente donna moldava, la sorella Bea è una psichiatra divor-
ziata con figlia depressa, il fratello Luigi fa l’agente finanziario
ed è un cocainomane. La famiglia è in lite furiosa visto che il
matrimonio del papà ha messo in discussione l’asse ereditario e i
suoi nuovi divertimenti sono molto costosi. Don Carlo attraversa
situazioni assurde e spesso disdicevoli, viene continuamente messo
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di mezzo dagli altri, cioè da “loro”: la famiglia, i vicini, la gente che
incontra per strada e sul bus. “Loro” sono tristi, isterici, aggressivi,
violenti, a tratti malvagi.
In questo, il ruolo del prete è di grande utilità per i contrasti che
suscita. Comunque, nessuno chiede il suo aiuto spirituale, al massi-
mo pretende quello pratico. La caratteristica principale del film è
quella di essere un’opera corale con magnifici attori italiani che rie-
scono a riproporre lo spirito e i modi della commedia all’italiana,componendo caratteri e situazioni che ben rappresentano il nostro
paese e la difficile realtà dei nostri tempi. Verdone insieme ad Anna
Buonaiuto (la sorella Bea) e Marco Giallini ( il fratello Luigi) for-
mano un terzetto comico straordinario con perfezione di tempi e
modi di recitazione ed espressione. Tutti gli attori del film interagi-
scono in maniera originale e vivissima. La Bonaiuto, una delle
migliori attrici del panorama italiano, è il motore della vis comicanelle lotte fra i fratelli, il padre, gli altri. Conquista il centro della
scena con semplicità e forza, rappresenta la sorella-psichiatra-iste-
rica-con-gran-senso-pratico, risultando piacevolissima e “familia-
re”. In più, funge da ottima spalla a tutti gli altri interpreti. Il noto e
bravissimo comico Sergio Fiorentini, interpreta l’anziano padre ex-
generale, con parrucchino color mandarino, la cui straordinaria fra-
gilità e lucida follia trasbordano in balli esaltanti con la moglie mol-
dava o in esasperanti ma comprensibilissime difese della sua liber-
tà. Marco Giallini si propone come un credibilissimo borghese
completamente alterato dalla tossico-dipendenza, con pazzeschi
atteggiamenti nevrotici.
La follia non è solo quella familiare. Le relazioni con i vicini di
casa, i condomini, diventano un inferno. La signora della porta
accanto più volte aggredisce don Carlo contestandolo come un cat-
tivo o un falso prete. Inoltre, l’incontro casuale di don Carlo con
alcune sue parrocchiane africane si rivela un disastro. Le ragazze
che ha aiutato a trasferirsi in Italia sono diventate delle prostitute e
i loro sfruttatori mettono in atto una sparatoria contro don Carlo che
è deciso a riportarle in Africa.
Verdone con la sua mitezza e il suo esser serioso assiste e presta
il fianco alle contese fra i vari gruppi, funge da loro vittima, si trat-
tiene in tutti i modi dall’esprimere la sua disapprovazione e il suo
orrore. Le situazioni e gli altri aggravano la sua mestizia, è travolto
dall’egoismo, dal materialismo, dal razzismo, che vede intorno a sé,
ma il colpo di grazia lo riceve al funerale della moglie moldava del
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papà, stroncata d’un colpo dagli eccessi. In chiesa compare la bella
Lara, figlia della defunta moldava, interpretata dall’interessante
Laura Chiatti. E’ una giovane donna che si guadagna da vivere
facendo la guida turistica in succinti abiti da Messalina oppure con
prestazioni semi-porno via web-cam, è dedita ad amori sbagliati,
perseguitata da ex amanti mitomani. Il personaggio ricalca la classi-
ca procura-guai delle commedie americane interpretate da grandi
dive. In effetti, ritrovarsela come nuova padrona di casa, imposta dal
papà in lutto, rappresenta una grande tentazione per don Carlo e crea
nuovi e incresciosi problemi con i fratelli che vogliono perseguirla
in modo da non perdere la casa. I fratelli pretendono che don Carlo
spii Lara per trovare delle prove contro di lei, ma lui è preso dal
desiderio e si comporta come un corteggiatore d’altri tempi fino a
quando non la scopre a riprendersi con la web-cam in abiti sado-
maso e va su tutte le furie. Alla fine risulta che Lara ha un bambi-
no in affidamento ai servizi sociali e per riaverlo con sé deve con-
vincere la psicologa che segue il suo caso. Lara è disposta a cedere
tutti i suoi diritti sulla casa se don Carlo e i fratelli la aiutano nel-
l’impresa. La psicologa, interpretata dalla bravissima Angela
Finocchiaro, scatena nuovi esilaranti duetti perché don Carlo le
ricorda il marito morto da qualche anno. Don Carlo si ribella al ten-
tativo di seduzione della psicologa, in nome del suo “celibato”. E’
una parola quasi magica in tanta ambiguità, confusione, maligna
incomprensione, e appare come una semplificazione molto utile per
far quadrare il personaggio e il film.
Infine, le cose si sistemano in qualche modo e don Carlo torna
felicemente in Africa.
La sceneggiatura del film è firmata da Carlo Verdone, Pasquale
Plastino, Francesca Marciano. Nella prima parte, le scene parallele
fra le vicende di don Carlo e quelle di Lara, prima che i due si cono-
scano, appaiono forzate.
Claudio Di Mauro con il ritmo e la precisione del suo ottimo
montaggio dà grande risalto ai tempi comici degli attori e calibra
con cura colpi di scena e cambiamenti .
Il direttore della fotografia, Danilo Desideri, dà calore e leviga-
tezza agli ambienti interni, girati negli studi di Cinecittà, ricordando
a tratti lo stile dei telefoni bianchi. Negli esterni la fotografia presen-
ta una Roma lucente e tersa, con antichità e vedute dall’alto incan-
tevoli. Sono di buon effetto le immagini in Kenya.
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Lo scenografo Luigi Marchioni fa ottime scelte per la ricostruzio-
ne in studio della casa borghese romana della famiglia Mascolo e
per gli altri ambienti. La costumista Tatiana Romanoff trova solu-
zioni vivaci, ben adeguate ai personaggi. La colonna sonora è molto
gradevole con musiche di Fabio Liberatori e contributi di David
Sylvian, Ryuichi Sakamoto, ed altri.
La regia di Verdone è elegante ed energica, riesce a amministra-
re con scioltezza situazioni molto diverse fra loro, sceglie con mae-
stria il cast artistico e tecnico, guida il divertimento con un occhio
attento alla critica della realtà che rappresenta.
Carlo Verdone ha dedicato il film al padre, Mario, venuto a man-
care recentemente. Mario Verdone, noto docente di “Storia e critica
del film” all’Università di Roma, è stato un protagonista della nostra
cultura. Ha diretto il Centro sperimentale di Cinematografia di
Roma, ed altri importanti istituti, è stato membro della giuria degli
Oscar, ha pubblicato numerosi saggi, testi teatrali, opere di poesia.
ITALY OF THE MISSIONARY CARLO VERDONE
By Elisabetta Valgiusti.
“Io, loro e Lara,” (transl. “I, they and Lara”) directed by CarloVerdone was first screened in Italy on the feast of the Epiphany,2010, and has become a tremendous box office success. With a castof first-rate actors, the film presents anew, with amazing results, acomicality inspired on the traditional Italian style of comedies. Thehumor serves as a critique of very widespread tendencies such asaridity, materialism. racism and moral confusion. The film managesto sketch a somewhat crude yet credible image of Italy, while pro-voking a lot of healthy and liberating mirth.
L’ITALIE DU MISSIONNAIRE VERDONE
Elisabetta Valgiusti
« Moi, eux et Lara », du réalisateur Carlo Verdone est sorti dans les
salles italiennes le jour de l’Epiphanie 2010, et est en train de con-
naître un très grand succès auprès du public. Le film est servi par
une équipe de très bons acteurs qui réussissent à proposer, avec de
splendides résultats, un comique au service de la critique de com-
portements très répandus comme l’aridité, le matérialisme, le racis-
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me, la confusion morale. Le film réussit à présenter une image plu-
tôt crue et vraisemblable de l’Italie, provoquant du même coup un
rire fort et sain, libérateur.
LA ITALIA DEL MISIONERO VERDONE
De Elisabetta Valgiusti
“Yo, ellos y Lara” del cineasta Carlo Verdone se empezó a proyec-tar en los cines italianos el día de la Epifanía del año 2010 y estáobteniendo un grandísimo éxito de público. La película tiene unplantel de óptimos actores que atinan al reproducir, con resultadosespléndidos, una comicidad inspirada en la comedia a la italiana.Es una comicidad al servicio de la crítica y comportamientos muydifundidos como la sequía de ideas, el materialismo, el racismo, laconfusión moral. La película acierta al tratar una imagen más biencruda y verosímil de Italia, provocando al mismo tiempo un risasonada y sana que libera.
DAS ITALIEN DES MISSIONARS VERDONE
von Elisabetta Valgiusti
„Io, loro e Lara“, des Regisseurs Carlo Verdone, wurde amEpiphaniefest 2010 zum ersten Mal in italienischen Kinos gezeigtund ist derzeit sehr erfolgreich. In diesem Film mit großartigerBesetzung, schaffen es die Schauspieler in brillanter Weise, dieKomödie all’Italiana wieder mit inspirierter Komik zu beleben -eine Komik, die sich mit weit verbreiteten Verhaltensweisen wieGefühlskälte, Materialismus, Rassismus und moralischerDesorientierung kritisch auseinandersetzt. Der Film vermag inkrasser Weise ein glaubhaftes Bild von Italien zu skizzieren, dasschallendes und befreiendes Lachen provozieren kann.
ITALIA MISJONARZA VERDONE
Elisabetta Valgiusti
“Io, loro e Lara”(“Ja, oni i Lara”) reżysera Carlo Verdone pojawiłsię w kinach włoskich w dniu Trzech Króli 2010 i odnosi ogromnysukces. Film ma znakomitą obsadę aktorów, którzy ze świetnymskutkiem proponują na nowo komizm właściwy komedii włoskiej.Jest to komizm w służbie krytyki postaw bardzo powszechnych jakoschłość, materializm, rasizm, zamęt moralny. Film kreśli obrazItalii surowy i raczej prawdopodobny, pobudzając zarazem doszczerego i oczyszczającego śmiechu.
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“Nel corso dei
secoli… c’è stato
un interesse conti-
nuo per l’incontro svol-
tosi fra il più grande
santo del Medioevo e
un principe musulmano
noto per la sua erudi-
zione e la sua giustizia.
Ogni epoca vi ha visto
riflesse le proprie pre-
occupazioni. Ed è per
questo che, piuttosto
che pretendere di stabilire la verità storica, ormai perduta, di quello
che accadde fra i due uomini nella tenda del sultano nel settembre
1219, io propongo in questo libro di osservare come la varietà dei
modi in cui le rappresentazioni letterarie e figurative di questo
incontro forniscano un ritratto delle paure e delle speranze che l’in-
contro fra l’Europa cristiana e l’Oriente musulmano suscita”. Si è
catturati subito, naturalmente, da questo emblematico “luogo della
memoria”, così fortemente condizionato, per non dire compromes-
so, da pregiudizi e motivazioni ideologiche, incuriositi dal coraggio-
so tentativo di superare la distanza cronologica e culturale (il sotto-
titolo dell’originale francese precisa: “Huit siècles d’interprétation”)
di coniugare, insomma, storia e memoria, per dire una parola all’og-
gi e a quanti non si rassegnano allo “scontro di civiltà”. Non solo le
attese non sono deluse, ma attraverso un racconto complesso ma
fluido che fa rivivere situazioni e personaggi limpidamente inseriti
nel loro contesto e raccordati tra di loro (con il contributo non secon-
dario delle “rappresentazioni figurative” intrecciate a quelle “lette-
rarie”: il visibile parlare!) alla fine si esce con un bagaglio cultura-
le, storico, letterario e artistico realmente arricchito. Ogni elemento
viene analizzato nelle sue varianti, tra paure e speranze, modelli
iconografici e polemiche, rivendicazioni e giustificazioni che,
lungo gli otto secoli, abbracciano la figura di Francesco e i modelli
iconografici chiamati a rappresentarlo, la fondazione dell’Ordine
e le polemiche e le lotte interne, la vocazione alla missione e al
recensioni
recensioni
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TOLAN JOHN,Il santo del sultano.
L’incontro di Francesco d’Assisie l’Islam,
Traduzione di Michele Sampaolo,Laterza (“Storia e Società”),
Bari 2009, pp. XII+420, cm 14x21,25 tavole b/n e XVI a colori f.t.,
con sopracoperta,€ 30,00
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martirio, il diritto-privilegio della Custodia di Terra Santa, le
Crociate, le rappresentazioni dei musulmani e dei Turchi…
Programmatici i titoli dei capitoli che scandiscono la ricerca. Si
parte da “Francesco, modello del rinnovamento spirituale della
Chiesa, Giacomo di Vitry (1220 e 1223-1225)” e “al-Kamil, degno
avversario dei crociati. Cronaca anonima delle crociate”, detta “di
Ernoul”, 1227-29. Com’è noto, la prima e la seconda Vita di
Tommaso da Celano e, a maggior ragione, la Legenda maior di
Bonaventura da Bagnoregio, all’interno della storia drammatica
degli inizi, riflettono lotte anche vivacissime sull’interpretazione
della figura e della volontà del Santo, dei rapporti con l’autorità
ecclesiastica e con gli “infedeli”, dello stile di vita e della missione
apostolica dei frati. Non poteva sfuggire l’importanza dell’episodio,
inevitabilmente strumentalizzato per sottolineare il tipo di acco-
glienza dei musulmani e del “sultano”, l’efficacia della parola di
Francesco, il confronto con i dotti musulmani. Scontata la buonissi-
ma intenzione del Santo (desiderio del martirio e zelo apostolico)
divergono le opinioni sull’utilità di un simile approccio, di fronte
alle “ragioni” dello scontro armato. “Eroe epico ed eminente profes-
sore” è il ritratto fornito da Enrico di Avranches nella LegendaSancti Francisci versificata (1232 circa). La “Tavola Bardi” presen-
ta il “portatore di precetti” e gli affreschi di Assisi la prova del fuoco
a cui è dedicato anche il capitolo: “La prova del fuoco nella pittura
e nella scultura medievali”, supportato naturalmente dalle illustra-
zioni. Troppo “ideologica” la Cronica seu Historia septem tribula-tionum ordinis minorum di Angelo Clareno (1326 circa) e fantasio-
so Ugolino da Montegiorgio che, negli Actus beati Francisci etsociorum eius (1327-1337) fa convertire il sultano. Il “secolo dei
lumi”, in particolare con Voltaire e i “philosophes” mostra tutto il
suo livore accecante ma provoca anche la benefica reazione
cattolica (anticipata da La Sancte Franciade di Jacques Corbin,
1634) con L’Egypiade di Joseph-Romain Joly, 1786 e, soprattutto, la
Vita scritta da Constantin Suyskens degli Acta Sanctorum, 1768. I
sette volumi della Histoire des croisades di Joseph-François
Michaud (1812-22), con le belle illustrazioni di Doré, vogliono
essere una apologia della missione civilizzatrice dell’Occidente
continuata e assicurata dalla presenza dei Francescani nei Luoghi
Santi. E’ significativo che l’ultimo capitolo “Francesco, apostolo
della pace” che conclude il lungo e variopinto itinerario con il
secolo appena trascorso, si apra con Louis Massignon, studioso e
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innamorato di al-Hallaj, il sufi messo a morte per eresia a Bagdad
nel 922, un esempio di badal, un santo che anticipa Francesco: eru-
dizione e confusione. Poi rimane solo la confusione dei “figli dei
fiori”, degli ecologisti e compagnia cantante. E’ toccato a Joseph
Ratzinger riportarci alla vera storia.
Salvatore Spera
“Una smisurata
schiera, armata di
ogni genere di armi
ed esercitata nella guer-
ra, composta da crudeli
nemici Vandali e Alani
commista al popolo dei
Goti e ad altre diverse
genti, dalle regioni d’ol-
tremare della Spagna si
riversò in Africa con le
sue navi e la inondò…
Infuriarono ovunque
con ogni genere di atro-
cità e crudeltà, e deva-
starono tutto ciò che poterono con spoliazioni, stragi e diversi tipi di
tormenti, incendi e altri innumerevoli nefasti mali, senza risparmiare
sesso o età, né gli stessi vescovi e ministri di Dio e neppure gli addob-
bi delle chiese o le suppellettili o gli edifici. E quell’uomo di Dio di
fronte a questa ferocissima barbarie e devastazione non provava per
ciò che era avvenuto e ancora si stava producendo gli stessi sentimen-
ti degli altri uomini né faceva le stesse riflessioni, ma nutriva conside-
razioni più elevate e profonde, preoccupandosi in tali frangenti soprat-
tutto dei pericoli e della morte delle anime”. Possidio, “nutrito con il
pane del Signore” nel cenobio agostiniano, legato al Maestro da una
calda e feconda amicizia quarantennale, dalla sede episcopale di
Calama, ha cercato rifugio, come molti altri, presso Agostino a
Ippona, prima che anche questa città, una delle ultime roccaforti della
debole resistenza della provincia romana, sia travolta dalla furia dei
barbari che travolge la società e la Chiesa.
All’indomani della morte di Agostino, perché non andasse smarri-
ta una preziosa identità e la comunità cristiana continuasse ad attin-
gere forza e coraggio da quello che per tanti anni era stato il pastore
zelante e maestro illuminato, vuole perpetuare la vita esemplare del
monaco, del vescovo, del santo sulla base di una venerazione e di una
familiarità che gli fa dire: “Vox tua nempe mea est”. Nell’esporre
“la vita e i costumi”, Possidio, che aveva seguito da vicino la
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POSSIDIO,Vita di Agostino.
Catalogo di tutti i libri, sermoni elettere del vescovo Sant’Agostino,
Paoline (“Letture cristianedel Primo Millennio” 45),
Milano 2009,a cura di Elena Zocca,
testo latino a frontepp. 391, cm 13x20,
rilegato con sopracoperta,€ 34,00
recensioni
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predicazione, le dispute, l’attività letteraria, ricalca naturalmente il
ritratto episcopale dipinto da Agostino: insegnare, propagare e difen-
dere la retta dottrina, provvedere alla cura del gregge, incarnare la
“apostolica vivendi forma”. La “humilitas christiana” e la legittima-
zione del potere e dell’autorità episcopale, la vita cenobitica e l’impe-
gno del vescovo insieme all’autorevolezza e sapienza della dottrina,
la “episcopalis audientia” e la prodigiosa attività letteraria di chi ha
scritto più di quanto altri riescano a leggere. In particolare le
Confessiones e le Retractationes supportano la ricostruzione essen-
ziale degli eventi insieme al significato ecclesiale eccezionale:
“Chiunque voglia conoscere meglio la cura e l’opera di Agostino di
beatissima memoria a favore della Chiesa di Dio, consulti anche que-
gli Atti, e vi troverà quali e quante cose abbia escogitato, con quali
argomenti abbia sfidato ed esortato quell’uomo dotto, eloquente e
famoso a dichiarare quanto ritenesse opportuno in difesa del suo par-
tito e conoscerà come lo abbia vinto”. Il riferimento è agli Atti di una
“Conferenza” tenutasi a Cartagine fra l’episcopato cattolico e quello
donatista e il successivo epilogo in cui Agostino, trovandosi a
Cesarea di Mauritania, mise a tacere il vescovo donatista della città
Emerito. Uno dei tanti episodi di un conflitto continuo e spesso dram-
matico con i manichei, i donatisti, i pelagiani, Giuliano di Eclano…:
“Per tutto ciò che egli compì in favore della pace della Chiesa,
Dio concesse ad Agostino una palma qui sulla terra e presso di sé
riservò una corona di giustizia; e con l’aiuto di Cristo, di giorno in
giorno sempre più si accrescevano la pace e l’unità della Chiesa di
Dio, mentre si moltiplicava il numero dei fratelli”. Agostino cura
intanto il suo vivaio con l’esempio di una vita sobria e frugale, non
fa acquisti, ma accetta donazioni per la Chiesa (salvi i legittimi
diritti), tratta con le autorità civili senza cedere alla tentazione delle
raccomandazioni (salvo che per invocare indulgenza per i condan-
nati), è riferimento sicuro di una piccola, attiva (concili provinciali)
“conferenza episcopale”: il primate cartaginese Aurelio, Alipio,
Severo, Novato, Severiano, Quodvultdeus, Onorato, al quale manda
una lettera, interamente riportata, sul dovere del vescovo di assiste-
re la sua comunità. Per non sottrarre nulla “a quanti sono avidissimi
della parola di verità”, Possidio aggiunge un accurato Indiculumdegli scritti del Maestro, familiare com’era anche della biblioteca di
Ippona. Poi, anche per lui, l’esilio comminatogli da Genserico.
Salvatore Spera
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“Render solea quel
chiostro a questi
cieli/ fertilemente;
e ora è fatto vano…fui
chiesto e tratto a quel
cappello,/ che pur di
male in peggio si trava-
sa./ Venne Cefàs e
venne il gran vasello/
de lo Spirito Santo,
magri e scalzi,/ pren-
dendo il cibo da qua-
lunque ostello./ Or
voglion quinci e quindi
chi rincalzi/ li moderni
pastori e chi li meni,/ tanto son gravi, e chi di rietro li alzi./ Cuopron
d’i manti loro i palafreni,/ sì che due bestie van sott’una pelle”. Al
“settimo splendore”, quello di Saturno, tra gli spiriti contemplativi
su “uno scaleo eretto in suso”, verso l’Empireo, Pier Damiani, si
presenta nella splendida, vigorosa espressione del Paradiso dante-
sco: solitudine e contemplazione, ascesi, studio, passione per la
Chiesa. “Amour des lettres et désir de Dieu”!: la suggestiva espres-
sione di Jean Leclercq, cui si deve l’efficace, sintetico “hermite et
homme d’Eglise”. Nella sintetica Presentazione che il Curatore fa
degli Atti del XXIX Convegno del Centro Studi, in occasione del
millenario della nascita, vengono ricapitolati: “La riforma monasti-
ca ed ecclesiastica del secolo XI, l’azione politica e spirituale, le
ampie relazioni…forti motivi di polemica nei confronti della deca-
denza del clero e delle strutture ecclesiastiche… vasto movimento di
critica e di aperta contestazione tutta interna al mondo della Chiesa
che prese il nome di ‘riforma ecclesiastica’… questa storia che è
insieme storia di idee, di esigenze spirituali, di biografie esemplari,
ma anche e soprattutto di strutture filosofiche, teologiche ed eccle-
siologiche, di sistemi politici e giuridici… Asceta e uomo d’azione,
colto e pur dispregiatore dell’orgogliosa saggezza umana, Pier
Damiani è scrittore dalla penna decisa e incisiva… incarna il
culmine di quest’orante e biblica teologia monastica”. Su questi
TAGLIAFERRI MAURIZIO (Ed.),Pier Damiani.
L’Eremita, il teologo, il riformatore,(1007-2007),
Centro Studi e RicercheAntica Provincia Ecclesiastica
Ravennate XXIII,EDB,
Bologna 2009,pp. 380, cm 17x24,
18 tavole b/n,€ 28,00
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recensioni
119
temi i contributi di G. Fornasari, U. Longo, U. Facchini, A.
Simonetti, M. Mazzotti, A. Tambini, Ch. Lohmer, N. D’Acunto, A.
M. Orselli, M. Malaguti, L. Canetti, D. Vitali, G. M. Cantarella, G.
Montanari, L. Paolini, O. Condorelli, M. Tagliaferri.
Fra i molti temi ricordati (doveroso aggiungere quello della devo-
zione alla Beata Vergine con l’Officium parvum e la notevole tradi-
zione iconografica) e che, naturalmente, vedono intrecciarsi alla
vivace attività di delegato, diplomatico, mediatore all’interno della
Chiesa e tra Chiesa e impero, una ricca produzione di opere, opusco-
li, sermoni, lettere…riteniamo opportuno, per l’attualità particolar-mente (appunto: non che gli altri abbiano perduto d’importanza)
drammatica, accennare al contributo di K. Skwierczynsk:
“L’apologia della Chiesa, della società o di se stesso? Il LiberGomorrhianus di s. Pier Damiani”. Le solite preoccupazioni, pre-
giudiziali e dietrologiche, psicanalitiche (frutto di traumi infantili,
abusi di monaci sul giovane novizio, esorcizzazione di proprie incli-
nazioni…?) vengono ridimensionate al livello di mere ipotesi senza
fondamento, messe all’angolo, per sottolineare la campagna partico-
larmente insistente e il linguaggio estremo, crudo, esplicito per estir-
pare l’omosessualità, soprattutto di religiosi e chierici, rispetto ai
problemi della lussuria (che scardina il celibato), del concubinato (il
nicolaitismo), come anche della simonia (Liber gratissimus). In una
fase di passaggio dai penitenziali a una più precisa codificazione
canonica, è il primo attacco esplicito e deciso di un uomo di Chiesa
contro la sodomia, tanto violento che papi pur sinceramente riforma-
tori, amici ed estimatori di Pier Damiani, come Leone IX e
Alessandro II, hanno dato una risposta piuttosto tiepida. “Heu pudet
dicere… Sodomiticae igitur immunditiae cancer ita per clericalem
ordinem serpit”. Un delitto orrendo (descritto per generi e specie!)
da punire severamente, soprattutto nei chierici che devono essere
le guide spirituali del popolo di Dio e che si rendono indegni di
toccare il Corpo di Cristo. Quindi: “Audiant desides clericorum
sacerdotumque rectores, audiant, et licet de suo securi sint, alieni
reatus se esse participes pertimescant. Illi nimirum, qui ad
corrigenda subditorum peccata conivent et inconsiderato silentio
subditis peccandi licentiam praebent”. Un prezioso assist per papa
Benedetto XVI.
Salvatore Spera
Forse un po’ timi-
damente, ma con
decisione, si
affaccia alla ribalta
della cultura religiosa
un nuovo gruppo di
credenti, chiamati
ebrei messianici. Nel
cammino di dialogo e
di riconciliazione fra
ebrei e cristiani, questo
gruppo, difficilmente quantificabile, costituisce una voce nuova, che
ha qualcosa da dire agli uni e agli altri.
Qualcosa da dire alle chiese cristiane: pretendendo di fatto che gli
ebrei per diventare cristiani dovessero essere gentilizzati, si è fatto il
contrario di quanto faceva Paolo (che Stern chiama sempre Sha’ul),
il quale lottò perché ai gentili non fosse chiesto, per diventare cre-
denti cristiani, di essere ebraicizzati. Stern può citare a prova di que-
sto, oltre il ben noto comportamento dei cristiani verso gli ebrei che
si volevano convertire, documenti significativi quali una professio-
ne di fede che si esigeva dall’ebreo convertito a Costantinopoli, che
implicava la rinuncia a tutte le usanze, riti, legalismi, azzimi e altri
cibi, purificazioni, digiuni, ecc. propri della fede e tradizione ebrai-
ca (pp. 8-9). Oppure può ricordare l’amaro umorismo del cristiano
che dice al neoconvertito: Adesso che sei cristiano, fatti un panino
al prosciutto.
Stern identifica la primitiva chiesa di Gerusalemme e della Terra
Santa - la ecclesia ex circumcisione, purtroppo scomparsa ben pre-
sto - con gli ebrei messianici di oggi: i primi cristiani erano ebrei che
mantenevano la fedeltà alle loro leggi e tradizioni e credevano in
Yeshua come messia. Lo stesso Sha’ul, già anziano, poteva procla-
mare davanti a un sinedrio ebraico di essere un Parush (fariseo), di
non aver fatto nulla contro la Torah e il tempio, né contro il suo
popolo o le usanze degli antichi.
Gli ebrei devono essere evangelizzati, dice Stern, ma con un
tipo di evangelizzazione diversa da ogni altra. Gli ebrei, infatti,
non sono semplicemente una cultura diversa nella quale contestua-
lizzare il vangelo, ma sono il popolo di Dio. Per essi non c’è da
recensioni
recensioni120
DAVID H. STERN,Ristabilire l’ebraicità del
Vangelo. Un messaggio per icristiani
Ed. BethlehemCremnago (CO) 2004,
pp. IV-97, sip.
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contestualizzare un vangelo già inculturato nella gentilità, ma
restaurare l’ebraicità del vangelo, programma espresso nel titolo di
questo libro e che è lo scopo delle pubblicazioni di Stern (questo
libro è la sintesi di uno studio più ampio intitolato Messianic JewishManifesto).
“La separazione tra la Chiesa e il popolo ebraico come si è svi-
luppata nel corso dei duemila anni passati è completamente fuori
della volontà di Dio: un errore terribile, il peggior scisma nella sto-
ria di questo pianeta”, dice ancora Stern (p. 19). Fa pensare a Barth
che considerava la separazione fra la Sinagoga e la Chiesa la madre
di tutti gli scismi. Sono personalmente convinto che il compito della
riconciliazione tra ebrei e cristiani è da considerarsi oggi ineludibi-
le per la vita dell’umanità e primario rispetto ad ogni altro program-
ma di riconciliazione. Un velo da rimuovere si trova sul volto degli
ebrei (cf 2Cor 3, 15s), ma anche i cristiani hanno un velo da rimuo-
vere a proposito dell’alleanza mai revocata fra Dio e Israele.
Stern non si contenta però di ipotizzare, per l’Ebraismo e il
Cristianesimo, due cammini paralleli alla maniera di Rosenzweig, la
cui interpretazione del passo di Gv 14, 6 piaceva anche a me, vista
l’ipersensibilità che l’ebraismo ufficiale nutre verso ogni tentativo di
proselitismo e di conversione fatto dai cristiani, ipersensibilità che
porta le chiese a garantire sempre più spesso agli ebrei che non si
farà nessun proselitismo (e perciò si rinuncerà all’evangelizzazione
degli ebrei). No, Stern arriva ad affermare, senza mezzi termini, che
rifiutare o trascurare di portare il Vangelo agli Ebrei è antisemita.
Si tratta di affermazioni che indubbiamente accusano l’inerzia
dei cristiani, ma delle quali non conosciamo quale risonanza avran-
no nel mondo ebraico. In un tempo di timidi tentativi di dialogo,
succeduti a secoli di reciproca ignoranza e di ostilità, è bene scruta-
re il piano di salvezza di Dio anche guardando alle reazioni che si
producono alle nuove prospettive. Appare sempre più chiaramente
che quanto Sha’ul ha voluto soprattutto attuare è l’introduzione di
tutta la gentilità nella famiglia e nell’eredità di Abramo, perché
i gentili possano arrivare, attraverso Yeshua, ad essere liberati
dalla schiavitù delle idolatrie ed essere inseriti nell’adorazione e
nell’amore del Dio vivente. Il libro si conclude ricordando che la
meravigliosa esclamazione di Rom 11, 33-36 O profondità dellaricchezza della sapienza e della conoscenza di Dio… riguarda
proprio la misteriosa relazione che intercorre fra credenti in Cristo
e discendenti di Abramo.
Adolfo Lippi c. p.
Chiodi commenta alcuni autori di bioetica (Zaner, Toombs e
Cattorini), che hanno tentato di riflettere sulla malattia
avvalendosi del metodo fenomenologico. La fenomenolo-
gia permette di superare l’approccio naturalistico, che separa i fatti
dai valori. Il limite di queste opere è che sono poco rigorose dal punto
di vista metodologico. Il racconto del vissuto esistenziale, infatti, si
limita ad esporre le emozioni del malato e non coglie la questione del
senso della malattia, che è insita nell’esperienza della sofferenza.
Incontro clinico: una fenomenologia della malattia (R. M. Zaner)
Zaner nella sua ricerca1 analizza il rapporto tra medico e
paziente dal punto di vista etico. La sua riflessione parte
da alcuni questionari-interviste2 di alcuni malati riguardo
alla malattia e ai medici. In questa ricerca i pazienti mostravano due
schede
schedebibliografiche
123
1 Chiodi commenta il libro di R. M. ZANER, Ethics and clinical encounter,Prentice Hall, Englewoods Cliffs, New Jersey 1988.
2 Zaner analizza le interviste contenute in R. C. HARDY, How People feelabout being sick and what they think of those who care for them, Teach ‘em,Inc., Chicago, 1978.
PASTORALE (36)M. CHIODI,L’enigma della sofferenzae la testimonianza della cura.Teologia e filosofiadinanzi alla sfida del dolore,Glossa, Milano 2003,pp. 82-120.
schedebibliografiche
schede124
preoccupazioni principali: conoscere con precisione il loro stato di
salute e capire l’affidabilità dei medici. Queste apprensioni non si
superano solo con maggiori informazioni scientifiche, perchè il sog-
getto è coinvolto pienamente nell’esperienza della malattia. La
malattia sconvolge, infatti, la vita del paziente, perché manifesta la
sua fragilità e lo costringe in una situazione di dipendenza oggettiva
verso chi lo cura. Zaner, per illustrare con maggiore profondità
l’esperienza della malattia, utilizza due categorie differenti: il dolo-
re (pain) e la sofferenza (suffering). Con la prima espressione s’in-
dica il livello fisico della malattia, mentre la seconda riguarda prin-
cipalmente l’aspetto esistenziale. La sofferenza non può essere alle-
viata solo attraverso la diminuzione della percezione fisica di dolo-
re, ma richiede un’attenzione specifica dei medici verso il paziente.
Il malato vive un’alienazione nei confronti del proprio corpo e degli
uomini che gli stanno intorno. La malattia lo costringe a rinunciare
alle sue attività abituali e a vivere in ambienti a lui estranei, come
gli ospedali o le case di cura. La richiesta di maggiori informazioni
nasconde, dunque, il bisogno di alleviare questo stato di solitudine
attraverso il dialogo con chi ha il compito di curare. Le relazioni tra
medico e paziente sono, però, inficiate dalla situazione di dipenden-
za del malato. Il paziente è, infatti, “costretto” a fidarsi di chi si
prende cura di lui, perché non possiede la soluzione alla sua malat-
tia. Il medico può diminuire questa situazione di imbarazzo del
malato se non si limita alla prestazione professionale, ma s’impegna
in prima persona verso il malato. Il suo compito non si esaurisce nel
proporre una terapia al paziente, ma consiste nell’aiutare la persona
ad accettare il limite della malattia. La relazione è, dunque, un pro-
cesso educativo, nel quale il medico insegna al malato a riprendere
confidenza con il proprio corpo segnato dalla malattia. Chiodi
apprezza la scelta di Zaner di partire dall’esperienza concreta del
malato per comprendere il senso della malattia. Il nostro autore rico-
nosce anche la validità della distinzione tra dolore e sofferenza, del-
l’asimmetria tra medico e paziente e della relazione terapeutica
come processo educativo. Chiodi rileva, però, che Zaner manca di
una visione complessiva dell’antropologia entro cui collocare la
propria indagine fenomenologica. Senza tale cornice, la ricerca sul-
l’esperienza della malattia si riduce a registrare le diverse emozioni
del soggetto e non s’interroga sulla domanda di senso insita nella
malattia.
schede
schedebibliografiche
125
S. K. Toombs: introduzione al metodo fenomenologico
La ricercatrice Kay Toombs3 s’interroga su quali sono i
motivi che impediscono una comunicazione tra medico e
paziente. La difficoltà di dialogo con il malato non è lega-
ta solo ai problemi psicologici del singolo soggetto, ma anche alla
cornice intenzionale in cui tutti gli uomini vivono la malattia. La
Toombs decide di indagare l’esperienza della malattia con il meto-
do fenomenologico. La fenomenologia è un metodo filosofico che
ricerca il senso dell’esperienza. In questo caso la parola “senso”
indica ciò che appare alla coscienza nell’esperienza immediata. Per
risalire al senso dell’esperienza è necessario un distanziamento dal
nostro modo abituale di avvicinarci alle cose (l’epochè) per descri-
vere la realtà senza precomprensioni. L’approccio fenomenologico
ci porta a comprendere che noi non possiamo conoscere la realtà
come è in se stessa, ma solo come appare alla nostra coscienza. È
necessario dunque superare il pregiudizio delle scienze positive, che
pretendono di poter separare il soggetto conoscente dall’oggetto di
indagine. La realtà è sempre l’incontro tra l’aprirsi della nostra
coscienza e gli oggetti che si manifestano in questa apertura. Non
esiste dunque conoscenza che non si fondi sulle strutture intenziona-
li della coscienza.
Le strutture fondamentali dell’attività della coscienza sono divi-
se in due categorie: il mondo personale ed il mondo comune. La
prima categoria consiste nel modo in cui la realtà si manifesta al sin-
golo soggetto. Secondo la fenomenologia c’è una correlazione inti-
ma tra chi percepisce e il percepito. Ne consegue che l’oggetto
conosciuto è sempre riferito alla coscienza che lo percepisce e non
esiste separato da questa. Da tale constatazione dipende il concetto
fondamentale dell’intenzionalità. Con questa espressione si intende
affermare che l’oggetto conosciuto (il noematico) è sempre
correlato all’atto intenzionale (il noetico), con cui la coscienza lo
avvicina. Il significato della realtà è connesso all’atto mediante il
quale la conosciamo. Comprendiamo, dunque, che l’oggetto è colto
3 Il nostro autore espone il pensiero di Kay Toombs partendo dal saggio: S.K. TOOMBS, The meaning of illness. A phenomenological account of the diffe-rent perspectives of physician and patient, Kluwer Academic Publishers,Dordrecht-Boston- London 1992.
schedebibliografiche
schede126
attraverso dei paradigmi fondamentali (la direzionalità, la tempora-
lità, la spazialità e la biografia della coscienza) che lo costituiscono
in quanto fenomeno. Al di fuori di tali categorie l’oggetto noemati-
co non sussiste, poiché non rientra più nel campo dell’attività della
coscienza.
Nella ricerca fenomenologica il mondo appare come il “mio”
ossia come tutto quello che si manifesta alla mia coscienza. Ne con-
segue che tutto quello che gli altri soggetti pensano non mi è imme-
diatamente accessibile. Posso, infatti, comunicare qualcosa del-
l’esperienza dell’altro solo se astraggo dalla mia esperienza perso-
nale e produco delle idealizzazioni che sono comprensibili anche
per gli altri soggetti. Viene, dunque, a costituirsi un secondo campo
di conoscenza detto mondo comune o intersoggettivo che è
composto dall’insieme delle idealizzazioni in cui i diversi soggetti si
ritrovano.
Alessandro Cancelli C. P.
schede
schedebibliografiche
127
S. K. TOOMBS: LA MALATTIA NELL’ESPERIENZA DEL MALATO
Toombs, dopo aver spiegato le categorie fondamentali del
metodo fenomenologico, prova ad applicarle all’esperien-
za della malattia. In questa riflessione si avvale in partico-
lare delle categorie sul corpo di Sartre e di Merleau Ponty. L’autrice
distingue tra l’esperienza vissuta della malattia e la sua concettualiz-
zazione scientifica. Il fenomeno della malattia si manifesta alla
coscienza in un processo complesso, che comprende tre fasi: l’espe-
rienza pre-riflessiva (pre-reflective sensory experience), la malattia
sofferta (suffered illness) e la malattia come morbo (disease). Nel
primo momento il soggetto avverte a livello fisico una sensazione
aliena, che esula dalla normale esperienza di sé. In questo momento
non c’è ancora una distinzione tra il corpo ed il dolore, ma la
coscienza identifica la malattia con una situazione di disagio gene-
rale (la cecità è avvertita come un non vedere, che non è localizzato
in una parte precisa del corpo). La situazione di anormalità, causata
dall’insorgere dei sintomi, porta il malato ad interrogarsi sul suo
stato di salute. Si passa, dunque, alla seconda fase dell’esperienza
della malattia, quella riflessiva. Il dolore diventa oggetto di attenzio-
ne, perché altera il normale equilibrio del corpo. Tutto ciò porta la
coscienza a distinguere le sensazioni fisiche anormali dalle diverse
PASTORALE (37)M. CHIODI,L’enigma della sofferenzae la testimonianza della cura.Teologia e filosofiadinanzi alla sfida del dolore,Glossa, Milano 2003,pp. 120-158.
schedebibliografiche
schede128
percezioni corporee. Il dolore è, dunque, localizzato in una parte
precisa del corpo, ma non è ancora concepito come un’entità astrat-
ta (si passa dall’espressione “non riesco a vedere” alla constatazio-
ne “ho un problema all’occhio”). La terza fase dell’apprensione
della malattia è quella in cui il soggetto concepisce la malattia come
un morbo (disease). In questo caso, la coscienza comprende che lo
stato di dolore è provocato da una disfunzione che mina l’equilibrio
del proprio corpo. A questa disfunzione il soggetto attribuisce un
nome ben preciso, che ha appreso dalla collettività. La situazione di
disagio è concepita come una malattia ben identificata (si passa dal-
l’espressione “ho un problema agli occhi” all’affermazione “sono
affetto da miopia”).
Lo scienziato riflette sulla malattia in una prospettiva molto
diversa rispetto a quella del malato. Il medico concepisce la malat-
tia come uno stato morboso (disease state) ossia come un costrutto
teorico, attraverso cui spiega le diverse disfunzioni fisiologiche del-
l’organismo. Il medico, dunque, parte dal presupposto che la malat-
tia è un’entità distinta dalla sua soggettività. Il malato, al contrario,
oggettiva la malattia dopo un lungo processo interiore. Questo dif-
ferente approccio all’esperienza della malattia è la causa delle diffi-
coltà di comunicazione tra pazienti e medici.
Il corpo nell’esperienza del malato
La Toombs espone, innanzi tutto, le strutture intenzionali
con cui il corpo si manifesta alla coscienza secondo
Sartre1. Noi non percepiamo il corpo come uno strumento
distinto dalla nostra coscienza, ma lo avvertiamo come un’unica
realtà con noi. Possiamo, perciò, affermare che noi siamo il nostro
corpo, poiché esso è la nostra apertura fondamentale sul mondo.
Il corpo inizia ad apparirmi come un oggetto di conoscenza solo
attraverso lo sguardo dell’altro. Quando sono osservato comprendo
di essere per gli altri un oggetto del mondo. Sartre definisce questo
processo con il termine alienazione, perché il corpo è avvertito scis-
so dalla propria coscienza. Lo sguardo dell’altro mi spersonalizza,
perché mi riduce ad oggetto che può essere manipolato. La Toombs
1 Kay Toombs si rifà a J. P. SARTRE, Being and nothingness:Phenomenological essay on ontology, H. E. BARNES (trans.), Pocket Books, NewYork 1956.
schede
schedebibliografiche
129
attenua le posizioni negative del filosofo francese affermando che
l’oggettivazione non è negativa, anche se crea un’ambiguità fonda-
mentale. Nota inoltre che il corpo diventa oggetto non solo attraver-
so lo sguardo dell’altro ma anche in alcune situazioni in cui non
siamo pienamente padroni del nostro corpo (il limite fisico, i proces-
si fisiologici automatici ecc.).
La Toombs, dopo aver spiegato la distinzione tra corpo-vissuto e
corpo-oggetto, riflette sull’esperienza del corpo nel malato, sul
modo con cui è concepito dal medico e sulla relazione terapeutica.
La malattia per il paziente è uno sconvolgimento negativo, che turba
la relazione tra la coscienza ed il mondo. Il soggetto si sente estra-
neo rispetto a quella realtà che prima gli era familiare. I paradigmi
fondamentali con cui conosceva la realtà sono, infatti, alterati dagli
effetti della malattia. L’attenzione del paziente, inoltre, è tutta con-
centrata sulla malattia. Ne consegue che il soggetto tende a chiuder-
si su stesso ed a concentrarsi solo sul presente. L’oggettivazione del
corpo diventa poi un’esperienza negativa, perchè il corpo non è più
in armonia con il soggetto, ma la coscienza si sente alienata rispetto
al proprio corpo che non riconosce più. Il medico non riesce a com-
prendere quest’esperienza tragica, perché concepisce il corpo mala-
to solo come l’oggetto di un’indagine scientifica. Si crea dunque una
barriera di incomunicabilità che rende difficile l’azione terapeutica.
Il medico deve superare la visione riduzionista del pensiero scienti-
fico e creare con il paziente una comprensione condivisa della
malattia. La Toombs propone di interpretare la malattia come un
disordine globale che trasforma la nostra relazione con il mondo. Il
malato innanzitutto perde la sua integrità (loss of wholeness). Con
questa espressione l’autrice americana intende indicare la rottura
dell’armonia tra il sé ed il corpo. La coscienza avverte la propria
corporeità come aliena e minacciosa. In secondo luogo la malattia
porta ad una perdita di certezza (loss of certainty), poiché il malato
si rende conto della propria fragilità e non si avverte più indistrutti-
bile. In terzo luogo, si assiste ad una perdita di controllo (loss of
control) che consiste nel sentirsi in balia di una forza più grande di
lui. Il malato avverte la malattia come una punizione per una colpa
da espiare e si crea dipendenza rispetto al medico. Questa situazio-
ne di inettitudine porta il malato ad assumere atteggiamenti irrazio-
nali ed impulsivi. L’ultima caratteristica della malattia è la perdita
del mondo familiare (loss of familiar world). La coscienza si sente
isolata rispetto al mondo esterno, perché non può partecipare alle
attività normali della vita quotidiana.
schedebibliografiche
schede130
Il medico può alleviare l’alienazione a cui è soggetto il malato
attraverso una comprensione empatica della sua situazione. La
malattia, infatti, non è un’esperienza totalmente estranea al medico,
poiché manifesta in maniera drammatica la normale dialettica tra il
corpo-vissuto ed il corpo-oggetto. È, quindi, possibile attraverso la
relazione tra medico e paziente costruire insieme un mondo inter-
soggettivo ossia una visione comune sulla malattia. L’obiettivo della
cura non è solo l’eliminazione del morbo, ma anche il recupero del-
l’integrità perduta dal malato. Il soggetto può ristabilire un’armonia
con il proprio corpo solo se è aiutato a riconoscere ed integrare i
propri limiti.
Chiodi stila un bilancio sul pensiero di Kay Toombs. Il nostro
autore apprezza l’approccio fenomenologico, perché permette di
uscire dal riduzionismo del pensiero scientifico. Nota, però, la ten-
denza ad un’impostazione troppo soggettiva dell’analisi della
coscienza. La scienza non va opposta alla fenomenologia, perché tra
lo spiegare scientifico ed il comprendere soggettivo vi è una circo-
larità. La Toombs, inoltre, fatica a concepire l’esperienza della
malattia in una visione antropologica più ampia, capace di coniuga-
re la passività originaria dell’essere umano con l’esperienza della
libertà. L’autrice americana contrappone, infatti, l’esperienza del
singolo (il mondo proprio) al patrimonio di significati condivisi (il
mondo intersoggettivo). In questo modo la realtà personale non è
mai comunicabile pienamente dal soggetto, perché le idealizzazioni
della collettività sono seconde rispetto all’esperienza personale del
soggetto. Tale visione non tiene conto della reale esperienza della
coscienza. L’altro non è una realtà esterna rispetto al soggetto, ma è
colui che permette la formazione della coscienza. Chiodi critica
anche la descrizione troppo negativa dell’esperienza della malattia
da parte della Toombs. L’autrice americana sottolinea solo l’aspetto
alienante e distruttivo della malattia nel soggetto, senza comprende-
re la domanda di senso che fa nascere nel soggetto. La malattia non
è solo alienazione da sé ma anche occasione per interrogarsi sul
senso profondo della propria esistenza. Chiodi conclude la sua ana-
lisi critica osservando che la Toombs supera le sue dicotomie tra
soggettività ed alterità nella descrizione della relazione terapeutica.
Il medico può entrare in contatto con la situazione di alienazione del
malato ed aiutarlo a integrare la relazione con il proprio corpo.
Alessandro Cancelli C. P.
PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSECATTEDRA GLORIA CRUCIS
PRODUZIONE SCIENTIFICA
DELLA CATTEDRA GLORIA CRUCIS
AA.VV. Memoria Passionis in Stanislas Breton, EdizioniStaurós, S. Gabriele Teramo, 2004.
PIERO CODA Le sette Parole di Cristo in Croce, EdizioniStaurós, S. Gabriele Teramo, ottobre 2004.
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L’attività scientifica della Cattedra Gloria Crucis è fruibile nel sito www.passio-christi.org alla voce Cattedra Gloria Crucis.
La rivista La Sapienza della Croce è anch’essa fruibile nello stesso sito alla voceSapienza della Croce.