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LA SALUTE MENTALE DELLA COMUNITA’ BOLOGNESE
Per comprendere come agire e per capire se ciò che si fa funziona è necessario osservare
attentamente e studiare i profili di salute e malattia della popolazione di cui ci si prende cura.
Negli ultimi vent’anni il Servizio di Epidemiologia e Promozione della Salute ed il Dipartimento di
Salute Mentale della Azienda USL hanno affiancato alla propria attività istituzionale, clinica ed
assistenziale, una costante opera di documentazione e di studio che consente oggi di comprendere lo
stato di salute della nostra comunità ed anche la sua evoluzione storica.
Quello che segue è un primo tentativo di sintesi dei principali aspetti che derivano dalle analisi
epidemiologiche, dai dati di attività dei servizi, da ricerche ad hoc e da esperienze di innovazione
valutate nel corso del tempo.
In particolare abbiamo ritenuto importante mettere in evidenza con singoli paragrafi:
1. Il profilo di salute mentale e psicosociale della comunità bolognese attraverso:
a. L’analisi storica dei suicidi nell’area bolognese dal 1993 al 2014 (che mostra un
dimezzamento dei tassi nel periodo, sia per i maschi che per le femmine, senza una
rilevante interferenza della crisi economica degli ultimi otto anni);
b. Una analisi delle caratteristiche sociali degli utenti afferenti ai servizi di salute mentale
per adulti (circa 18.000 persone all’anno) che, pur mostrando ancora nel 2014 indici di
svantaggio rispetto alla popolazione generale (condizione lavorativa, reddito, stato
familiare, condizione abitativa), ha colmato una buona parte della distanza dalla media
della popolazione rispetto a venti anni fa. Questo spiega anche parzialmente il dato che i
tassi di mortalità dei pazienti in carico ai servizi di salute mentale si stanno avvicinando
alla media della popolazione generale, mentre nella maggior parte degli studi
internazionali la distanza sta aumentando.
c. Una analisi della prevalenza di sintomi di depressione nella popolazione generale (studio
PASSI), che sono presenti nell’8,4% del campione generale ed in misura maggiore negli
stranieri, negli anziani e nelle persone con difficoltà socio‐economiche. Il territorio
bolognese è anche tra i primi in Italia per il consumo di antidepressivi.
2. Alcuni studi dell’Osservatorio Epidemiologico Metropolitano sulle Dipendenze:
a. Una analisi della casistica di 505 tentati suicidi nei Pronto Soccorso della Azienda USL di
Bologna, che ha documentato una elevata probabilità di ripetizione del gesto, portato a
termine nel 3,6% dei casi.
b. Tre studi dell’osservatorio epidemiologico metropolitano sulle dipendenze sull’utilizzo di
sostanze e sui comportamenti di abuso degli adolescenti e delle casalinghe, che
documentano la perdita della percezione della distinzione tra legale ed illegale, la
disponibilità di denaro e l’assenza di controlli parentali come fattore critico per lo
sviluppo di dipendenze, l’avanzare di dipendenze comportamentali (Gioco d’azzardo e
shopping compulsivo).
2
3. Una serie di studi sulle psicosi delle persone migranti, che nel complesso presentano un rischio
2,5 volte maggiore dei nativi, molto alto nelle seconde generazioni (che hanno un rischio più alto
anche per le dipendenze e per il suicidio). Il rischio è alto soprattutto nei migranti che non hanno
una rete della propria etnia attorno a loro, mentre per coloro che sono inseriti dentro la
comunità di origine il rischio è quasi uguale a quello dei migranti interni (dalle regioni del Sud
Italia). Pur avendo un rischio maggiore di sviluppare una psicosi, i migranti sembrano reagire
meglio alla malattia e recuperare “terreno sociale” più in fretta e più completamente rispetto ai
nativi. I servizi hanno anche nel tempo affinato una sensibilità culturale che li porta a distinguere
tra migranti attivi e passivi (ad esempio donne che hanno effettuato un ricongiungimento
familiare per seguire il marito) e tra migranti provenienti da culture “individualiste” e “collettive”.
Questa distinzione è importante per impostare correttamente i percorsi di cura e per recuperare
un inserimento sociale valido.
4. Sempre sul tema dei migranti, all’interno del percorso di studio e formazione degli ultimi dieci
anni, sono state analizzate le differenze di accesso e trattamento dei migranti rispetto ai nativi, a
parità di età, sesso e diagnosi. Ciò perché in varie parti del mondo sono state riscontrate vere e
proprie discriminazioni. In realtà a Bologna l’unica differenza sensibile apre essere di intensità nel
trattamento psichiatrico dopo un ricovero, senza significative differenze di accesso e tipo di
trattamento.
5. Il tema che presenta profili maggiormente allarmanti è quello della condizione giovanile, sotto
diversi profili: numero di minori certificati (passati in cinque anni da 2600 a 3400), numero di
minori allontanati dai nuclei familiari ed inseriti in programmi comunitari (circa 700 in ambito
provinciale), numero di minori migranti non accompagnati, problematiche madre‐bambino nella
prima infanzia, tassi elevati di grave disagio o problematiche psichiatriche nelle adozioni
internazionali. A questi temi sono dedicati tre paragrafi (8°, 8b e 8c) che analizzano anche
esperienze di innovazione e la collaborazione non sempre facile con le agenzie scolastiche e
sociali degli enti locali.
6. Infine il tema del lavoro con la popolazione di strada che ha portato i servizi aziendali a
cimentarsi con il tema dei migranti in transito dall’ex‐CIE, con la popolazione che vive in strada,
con la popolazione Rom, con i comunitari senza assistenza. In questo campo si segnala una
positiva esperienza di collaborazione con i servizi comunali, le associazioni Sokos e Biavati, cui si è
aggiunta più recentemente Emergency e che nei prossimi giorni sarà ratificata con la firma di un
accordo stabile di collaborazione.
Per questa sinossi ringrazio i colleghi che hanno collaborato preparando i materiali che di seguito
allego:
Il dr. Paolo Pandolfi, Direttore della UOC Epidemiologia e Promozione della Salute (paragrafi
1a, 1b e 1c);
Il dr. Raimondo Pavarin, Direttore della UOS Osservatorio Epidemiologico Metropolitano
sulle Dipendenze (paragrafi 2a e 2b)
3
Il Prof. Domenico Berardi, Ordinario di Psichiatria e Direttore della UOC CSM Bologna Ovest e
la Dott.ssa Ilaria Tarricone, Ricercatrice presso la Università di Bologna e responsabile del
Centro di Psichiatra e Psicosomatica Transculturale, (paragrafo 3);
La Dott.ssa Antonella Piazza, Incaricata di Epidemiologia e Salute Mentale presso l’AUSL di
Bologna e la Prof.ssa Paola Rucci, Ricercatrice di Statistica medica presso l’Università di Bologna
(paragrafo 4);
Il Dr. Stefano Costa, responsabile della UOS psicopatologia della Età Evolutiva (paragrafo 5a);
la dott.ssa Alessandra Magnani, esperta di psichiatria transculturale degli adolescenti, UOC
Neuropsichiatria Infantile del DSM‐DP della AUSL Bologna (paragrafo 5b);
la dott.ssa Sandra Impagliazzo, centro Clinico Prima Infanzia, UOC Neuropsichiatria Infantile
del DSM‐DP della AUSL Bologna (paragrafo 5c);
La dott.ssa Raffaella Campalastri, incaricata di Tutela della Salute delle Popolazioni Marginali,
UOSD Sert Bologna Ovest (paragrafo 6).
Ringrazio inoltre la Dott.ssa Ivonne Donegani (Direttore DSM‐DP, la dott.ssa Marilisa Martelli (Area
NPIA) ed il dr. Gambini (Area SerT) per il lavoro fatto insieme in questi anni e per il contributo a
questa sinossi.
Bologna, 12 luglio 2016 Angelo Fioritti
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1. Profilo di salute mentale e psicosociale – Azienda USL di Bologna
(a cura di. Paolo Pandolfi)
PREMESSA
L’Azienda USL di Bologna produce annualmente Profili di salute della popolazione residente
disaggregati a livello distrettuale. Nell’ambito dei temi propri della salute mentale e psicosociale si è
ritenuto analizzare alcune condizioni che possono caratterizzare meglio lo stato di disagio psichico e
psicosociale della nostra comunità. In particolare abbiamo ritenuto interessante analizzare
l’andamento delle morti per suicidio nel periodo 1993‐2015, descrivere il consumo di farmaci
antidepressivi (secondo classificazione ATC Anatomica Terapeutica Chimica curata dal Nordic Council
on Medicine di Uppsala in Svezia), analizzare tutti i soggetti in carico al Dipartimento di Salute
Mentale sotto l’aspetto della fragilità sociosanitaria e delle condizioni sociali, commentare i dati
ottenuti dai sistemi di sorveglianza sanitaria “Passi per l’Italia” e “Passi d’Argento” sulla condizione di
depressione dichiarata da un campione rappresentativo, rispettivamente, della popolazione di età
compresa tra i 18 e i 69 anni e di età oltre i 65 anni
1.1. Il fenomeno suicidio nel corso degli anni 1993‐2015
Il suicidio rappresenta un indicatore molto importante come evento segnale di condizione estrema di
disagio psichico nella popolazione.
Come noto anche nella nostra popolazione esiste un significativo incremento di casi di suicidio al
crescere dell’età (vedi Fig. n.1). Tale crescita è significativamente più evidente tra i maschi rispetto
alle femmine: nei maschi di età 0‐14 anni il rischio di suicidio è del 40% in più rispetto alle femmine;
tale rischio aumenta in modo sistematico fino ad oltre sei volte quando confrontiamo la classe di età
over 85 anni.
Fig. 1 – Tasso specifico di mortalità per suicidio per 100000 distinto per classi di età – Azienda USL di Bologna Anni 1993‐
2014 (Fonte Registro mortalità Azienda USL di Bologna)
Nel tempo (anni 1993‐2014 vedi Fig. n.2) il tasso standardizzato di mortalità per suicidio ha avuto un
andamento in tendenziale diminuzione con tassi elevati nel periodo 1993‐2000 (circa 13 casi ogni
100000 residenti) e quindi una stabilizzazione a livelli più bassi (attorno a 10 casi di suicidio per
0,24,9
8,012,1
16,4
24,2
35,7
0,05,0
10,015,020,025,030,035,040,0
Tass
o x 1
00.00
0
Classi di età
Tasso specifico di mortalità per suicidio per 100.000 distinto per classi di età
Azienda Usl di Bologna anni 1993-2014
5
100000 residenti) nel periodo 2001‐2014. Si noti la suggestiva crescita del tasso di suicidio nel
periodo 2008‐2010 a ridosso dell’inizio della crisi economica, crescita poi non più osservata negli
ultimi anni (nel 2013‐2015 il tasso di suicidio si è attestato attorno a 7,5 casi per 100000 residenti).
Fig. 2 – Tasso standardizzati di morte per suicidio per 100000 residenti – Azienda USL di Bologna anni 1993‐2015 (Fonte
Registro di mortalità Azienda USL di Bologna)
1.2. Analisi sulle condizioni dei soggetti in carico al dipartimento di salute mentale (DSM)
In questo caso sono stati valutati i soggetti residenti che risultavano in carico al DSM negli anni 2014
e 2015. Tra i cittadini in carico ai servizi del DSM di età maggiore ai 18 anni si nota, rispetto ai
coetanei non affetti da tali problematiche, una differente distribuzione dell’indice di fragilità socio‐
sanitaria, indicatore che ha l’obiettivo di predire a un anno l’evento morte o ricovero in urgenza(1,2).
Nello specifico, si osserva che oltre il 6% dei soggetti in carico al DSM hanno una probabilità
superiore al 50% di avere, nel corso dell’anno, un evento grave come la morte o il ricovero in
urgenza, rispetto al 2% dei coetanei non in carico ai servizi del DSM. Particolare è la distribuzione
nella classe di fragilità 6‐30 dove si collocano oltre il 47% dei soggetti in carico al DSM rispetto al 19%
di quelli non in carico (vedi Tab. n.1).
Tab. n.1 – Confronto distribuzione per classe di fragilità dei soggetti residenti over 18 anni in carico e non al DSM (Fonte
archivio fragilità ‐ Azienda USL di Bologna)
Classe di fragilità* Soggetti in carico al DSM % Soggetti non in carico al DSM %
0‐6 8.176 38.4 555.583 74.6
6‐30 10.090 47.4 147.091 19.8
30‐50 1.657 7.8 24.443 3.3
50‐80 1.112 5.2 15.059 2.0
80‐100 254 1.2 2.329 0.3
Totali 21.289 100 744.505 100
*Probabilità in percento di avere nel corso dell’anno un evento come la morte o il ricovero in urgenza
Ciò suggerisce l’importanza di agire in questo sottogruppo di popolazione con interventi di
promozione della salute che potrebbero allontanare nel tempo la manifestazione degli eventi gravi
previsti.
13,5
7,510,0
7,79,5
7,4 8,47,3
19,7
22,4
15,117,6
9,813,5
10,8
14,6
11,1 12,010,1
7,96,4
8,0
5,37,1
4,6 5,3 3,0 5,0 4,82,04,06,08,0
10,012,014,016,018,020,022,024,0
tass
o st
anda
rdiz
zato
x 1
00.0
00
Totale Maschi
6
Si sottolinea come si distribuiscono in modo diverso fra la popolazione in carico al DSM rispetto a
quella non in carico alcuni indicatori di tipo sociale. Tra questi l’indice di deprivazione sociale(3) che è
a livelli significativamente più alti fra i soggetti in carico al DSM (45% vs 38%). Il differenziale tra i due
gruppi diventa ancora più ampio e significativo se confrontiamo lo stesso tipo di dato tra i cittadini
over 65 anni (51% vs 41%).
Stessa considerazione va fatta per il titolo di studio che è significativamente più basso fra gli afferenti
al DSM rispetto alla restante popolazione (il 24% di laureati e diplomati nel primo gruppo rispetto al
31% nel secondo ovvero in termini di scuola dell’obbligo rispettivamente il 76% versus il 69%).
Si nota inoltre che tra gli over65enni in carico al DSM i soggetti in condizione di celibato o divorziato
sono 1 su 4 (25%) rispetto al rapporto di 1 su 7 (13%) che si osserva nei soggetti non conosciuti dal
DSM. Anche le condizioni economiche risultano più svantaggiate nei soggetti in carico al DSM (quasi
1 su 2 ha un reddito inferiore ai 15.000 € rispetto al 35% che si registra tra i soggetti coetanei non in
carico al DSM).
1.3. Dati sui sintomi di depressione raccolti dal sistema di sorveglianza PASSI per l’Italia e
PASSI d’argento
Le informazioni sulla prevalenza della depressione sono state raccolte attraverso due sistemi di
sorveglianza attivi in Azienda USL di Bologna e realizzati su campioni rappresentativi della
popolazione:
“PASSI per l’Italia” sistema di sorveglianza riferito a soggetti residenti con età compresa tra i 18 e
i 69 anni reclutati tra il 2011 ed il 2014, rappresentativo per l’Azienda USL;
“PASSI d’Argento” sistema di sorveglianza riferito a soggetti residenti di età superiore a 65 anni
reclutati nel corso dell’ultima indagine realizzata nel 2013, rappresentativo per la Regione.
Emerge che, tra i cittadini residenti di età compresa tra i 18 ed i 69 anni, la prevalenza di sintomi che
sono correlati a stati di depressione è in media dell’8,4% con un andamento in tendenziale crescita
dal 2012 al 2014 (si passa dal 6,3 al 10,9%).
In particolare (vedi Tab. n.2) si osserva che la condizione di depressione è significativamente più alta
nelle femmine (10,3% vs 6,4% ‐ p=0,010), senza particolari differenze tra le classi di età analizzate,
con una suggestiva prevalenza doppia negli stranieri rispetto agli italiani (12,3% vs 7,9% ‐ p=0,10),
con significative differenze per condizioni economiche (prevalenza del 22,0% in chi dichiara molte
difficoltà economiche rispetto al 4,9% tra chi non dichiara difficoltà economiche – p=0,00001), con
significative differenze per livello socio‐economico (prevalenza del 12,2% per chi ha un livello basso
rispetto al 4,3% di chi ha un livello alto) ed in correlazione con la presenza di patologie croniche
(prevalenza del 7,2% in chi non dichiara patologie croniche concomitanti rispetto al 13,2 in chi
dichiara di averle).
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Tab. n.2. Caratteristiche demografiche e sociali di soggetti di età tra i 18 e i 69 anni che hanno dichiarato di soffrire di
depressione, periodo 2011‐2014 (Fonte Sistema di sorveglianza “PASSI per l’Italia”)
depressione
No si p‐value
n % n %
Genere M 614 93.61 42 6.388 0.0100
F 605 89.68 70 10.32
Cittadinanza italiana 1119 92.08 97 7.92 0.1055
straniera/doppia 100 87.69 14 12.31
difficoltà economiche molte 120 78.04 34 21.96 0.0000
qualche 396 90.71 41 9.29
nessuna 702 95.12 36 4.88
livello socioeconomico* basso 207 87.75 29 12.25 0.0000
medio 484 89.38 58 10.62
alto 527 95.66 24 4.34
patologia cronica nessuna 997 92.77 78 7.23 0.0019
almeno una 222 86.78 34 13.22
totale 1219 91.63 112 8.37
*basso: persone con bassa istruzione e con difficoltà economiche
medio: persone con alta istruzione e difficoltà economiche oppure persone con bassa istruzione e senza difficoltà economiche
alto: persone con alta istruzione e senza difficoltà economiche
Informazioni simili sulla prevalenza di depressione sono rilevabile dall’analisi del consumo dei farmaci
antidepressivi nel 2015. Nello specifico è emerso che il 9,4% della popolazione di età superiore ai 18
anni consuma farmaci antidepressivi con differenze significative tra le femmine e i maschi
(rispettivamente con prevalenze del 12,2% e del 6,2%).
Il sistema di sorveglianza “PASSI d’Argento” rivolto ai cittadini di età superiore ai 65 anni anziani ha
messo in evidenza come la condizione di depressione in questo gruppo di popolazione sia
notevolmente più frequente (vedi Fig. n. 3). L’ultimo rapporto regionale(4) indica che la prevalenza
nella classe di età tra i 65 ed i 74 anni è del 14% e che cresce fino al 19% nella classe di età over 75
anni. Differenze significative si osservano anche in questo gruppo per genere (nelle femmine il 21%
ha sintomi che riconducono alla depressione vs il 10% degli uomini) , per istruzione (19% di depressi
tra chi ha bassa istruzione rispetto al 12% di chi ha un livello elevato di istruzione), per condizione
economica (33% di depressi tra chi ha molte difficoltà rispetto al 10% di chi non dichiara difficoltà) e
per condizione di disabilità (i disabili hanno una prevalenza del 47% rispetto al 4% nei soggetti in
buona salute).
Fig. n.3 –
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RIFERIM
1)
2) f
3)
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4) s
– Prevalenza di
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9
2. Analisi di una casistica di 505 tentativi di suicidio
(a cura di Raimondo Pavarin)
Emergency department admission and mortality rate for suicidal behavior. A follow‐up study on
attempted suicides referred to the ED between January 2004 and December 2010.
Pubblicato su “CRISIS” 2014 Pavarin RM, Fioritti A, Fontana F, Marani S, Paparelli A, Boncompagni G.
Il suicidio è la decima causa di morte in tutto il mondo e rappresenta il 1,5% di tutti i decessi. La
mortalità specifica annua stimata è di 11 morti ogni 100.000 persone a livello mondiale e di 7 morti
ogni 100.000 persone in Europa (OMS, 2013).
Fra i Paesi Ocse, l'Italia registra uno dei più bassi livelli di mortalità per suicidio. Tra il 1993 e il 2009 la
mortalità è diminuita significativamente da 8.3 a 6.7 suicidi ogni centomila abitanti; la propensione al
suicidio è maggiore tra la popolazione maschile, oltre tre volte quella femminile, e cresce
all'aumentare dell'età. Il principale metodo di suicidio per i maschi è l’impiccagione, per le femmine
la “precipitazione” (es. gettarsi da un palazzo).
L’85% dei soggetti che tentano il suicidio transitano al pronto soccorso, che si configura come il posto
migliore per intercettare questa particolare utenza (Moscicki, 2001; OAS, 2006; U.S. Department of
Health and Human Services, 2008; Pompili, 2010), anche se va rilevato che, nonostante l’elevato
rischio, spesso sono dimessi senza aver ricevuto una consulenza psichiatrica (Hickey et al, 2001).
Dentro questa specifica popolazione, il tasso di decessi per suicidio è più elevato rispetto alla
popolazione generale (Owens et al, 2002; Crandall et al, 2006, Bergen et al, 2012).
Circa due terzi dei suicidi sono preceduti da episodi autolesivi nell’anno precedente (Owens et al,
2002). Il 45% dei soggetti che si presentano al pronto soccorso per un tentato suicidio lo hanno già
sperimentato in precedenza almeno una volta nella vita (Zahl et al, 2004). Il rischio di “riprovare” è
più elevato nelle settimane successive e spesso l’intervento dopo un accesso al PS è l’unica
opportunità per intervenire (Russinoff et al, 2004).
In uno studio recente dell’Osservatorio Epidemiologico Dipendenze DSM‐DP ASL Bologna (OEMDP)
condotto nei reparti di PS dell’Azienda dell’Area metropolitana (escluso ospedale San Orsola) sono
stati identificati 505 soggetti con tentato suicidio ed è stato condotto un follow up per verificare
l’esistenza in vita. Tra questi il 3.6% è successivamente deceduto per suicidio, con un rischio più
elevato per chi ha usato sostanze illecita nelle 24 ore precedenti l’accesso e per chi aveva rifiutato il
trattamento proposto.
10
2.1. Tre studi su uso, abuso e dipendenza da sostanze e da comportamenti negli
adolescenti
Risky consumption, reasons for use, migratory status and normalization: the results of an Italian
study on minors aged between 13 and 16
Accettato per la pubblicazione su “International journal of migration, health and social care” – Pavarin RM
Lo studio descrive la fenomenologia dell’uso di sostanze psicoattive in un campione di 2095 minori di
età 13/16 anni intervistati in quattro regioni italiane, distinti in tre diverse tipologie: nativi (nati in
Italia da genitori italiani), non nativi (nati in uno stato estero), seconda generazione (nati in Italia con
almeno un genitore nato all’estero).
I risultati, da una parte documentano il crescente consumo di sostanze psicoattive tra i minori ed il
relativo adattamento culturale in questa particolare fascia di età, testimoniato dall’alta quota di chi è
stato presente in situazioni di consumo od a cui sono state offerte; dall’altra evidenziano una
particolare sottopopolazione di giovani nati in Italia con almeno un genitore non nativo, che si
segnala per particolari stili di vita collegati all’uso di sostanze illegali (uso di marijuana, abuso di alcol,
uso intensivo di tabacco) e per una alta prevalenza di disturbi psichici percepiti.
I minori di seconda generazione presentano sintomi di malessere psichico, ansia depressione e l'uso
di sostanze sembra realizzare una particolare forma di auto‐cura. Si tratta di un aspetto nuovo e poco
conosciuto della società multiculturale italiana in continuo movimento, da approfondire con ulteriori
ricerche mirate, che pone all’attenzione, oltre a modelli di consumo basati su scelte individuali,
anche fattori strutturali collegabili a specifiche posizioni sociali.
Early adolescent and substance use
“Journal of Addiction” 2013 Pavarin RM
1300 studenti (54,3% femmine) con età compresa tra 13 e 16 anni sono stati intervistati nell'area
metropolitana di Bologna nel corso del 2010. I risultati mostrano una relazione reciproca tra uso di
alcol, tabacco e cannabis. Alla maggior parte degli intervistati la cannabis è stata offerta, l’uso inizia a
14 anni, il consumo non è considerato pericoloso. Il consumo è più probabile per chi vive con un
solo genitore, ha a disposizione almeno 50 euro al mese e abusa di alcolici. L'abuso di sostanze
psicoattive (alcol, marijuana) aumenta con l’'intensità del fumo di tabacco. Tra i giovani sembra
ribaltarsi la dicotomia legale/illegale sembra ribaltarsi, dove l'alcol diventa una "droga" e l'uso di
sostanze illegali e tabacco è motivato come una soluzione per ridurre l'ansia, combattere la noia,
rilassarsi e per alleviare la solitudine.
Women between normality and dependence: a study of problematic consumption and dependence in
women aged 30 to 50
“Journal of substance use” 2015 Pavarin RM
Nel campo delle dipendenze vi sono pochi studi aventi come oggetto popolazioni di “donne normali”.
Obiettivi: stimare la prevalenza di consumi problematici di sostanze psicoattive, gioco d'azzardo
patologico e shopping compulsivo in un campione di 433 donne italiane di età compresa tra 30 e 50
anni.
11
Metodi: Il campione è stratificato per quote ed è stato selezionato in alcuni centri commerciali della
Toscana e dell’Emilia Romagna.
Risultati: Il 13.9% delle intervistate ha un consumo alcolico a rischio, il 9.2% ha una dipendenza
medio alta da tabacco, il 7.2% è positiva al test per lo shopping compulsivo, l’1.6% ha una dipendenza
da cannabis e lo 0.5% è una giocatrice problematica. Emerge una relazione tra il consumo a rischio di
alcolici e la dipendenza da cannabis, e tra dipendenza da tabacco e shopping compulsivo.
Discussione: Dalla ricerca emergono tante “piccole dipendenze”, funzionali alle diverse trasgressioni
con le quali questo specifico target affronta l’ordinaria quotidianità.
12
3. Migrazione e salute mentale: una riflessione delle esperienze di studio ad
oggi condotte a Bologna
(a cura di Ilaria Tarricone e Domenico Berardi)
I migranti a Bologna hanno mostrato un’incidenza di 2.5 volte maggiore di esordio psicotico rispetto
ai nativi in Italia. Il dato della conferma di un eccesso di incidenza di psicosi nei migranti (in linea con
quanto già riscontrato negli studi europei, unito al riscontro di un progressivo aumento di presenze
migranti nella nostra città e nei nostri servizi, ha indubbiamente spronato il nostro interesse ad
analizzare i dati della popolazione migrante in accesso al CSM Ovest del DSM‐Ausl Bo, con l’intento di
individuare elementi di interesse per l’affinamento della nostra comprensione dei disturbi mentali
nei migranti e degli interventi offerti ai migranti e le loro famiglie.
Riassumiamo in tabella 1 risultati degli studi condotti a Bologna a nostro avviso più informativi per lo
sviluppo di interventi psicosociali culturalmente competenti per i migranti e le loro famiglie.
Tabella 1. Elementi informativi per lo sviluppo di interventi psicosociali culturalmente competenti per i migranti e le loro
famiglie.
1. Tra i pazienti all’esordio, i migranti sono significativamente più spesso lavoratori e
indipendenti dal punto di vista abitativo dalla famiglia di origine;
2. Pur non mostrando differenze di Durata di Psicosi non trattata, i migranti all’esordio
psicotico accedono ai CSM più frequentemente dopo un ricovero psichiatrico; l’accesso
diretto e informale (auto‐invio, segnalazione da parte della famiglia) è meno frequente
rispetto ai nativi, mentre è più frequente l’invio da parte del MMG;
3. I pazienti migranti perdono più frequentemente il lavoro all’esordio di un disturbo psichico,
ma anche recuperano più frequentemente l’attività lavorativa a 12 mesi;
4. L’intervento psichiatrico offerto ai migranti nei servizi di salute mentale risulta essere più
efficace (meno drop‐out) quando nella presa in carico sono coinvolti fin dai primi colloqui
gli Assistenti Sociali (oltre all’infermiere e allo psichiatra) ;
5. I migranti e le loro famiglie hanno diversa modalità di rapporto con il servizio di salute
mentale a seconda della identità culturale e della storia migratoria.
Nella casistica di pazienti all’esordio psicotico da noi valutata presso il CSM Ovest di Bologna, i
pazienti migranti, tutti di prima generazione, costituivano il 24% e mostravano alcuni indici di un più
elevato funzionamento personale e sociale all’esordio, quali un maggior prevalenza di attività
lavorativa e di indipendenza abitativa dalla famiglia di origine rispetto ai nativi. A fronte di questo
più elevato funzionamento sociale, va però considerato il dato di una maggior propensione a ricevere
un ricovero psichiatrico prima dell’accesso al CSM e un minor coinvolgimento della famiglia al
momento dell’invio. Durante il decorso, i pazienti migranti all’esordio psicotico mostravano maggior
propensione a perdere l’occupazione lavorativa, ma anche a recuperarla al follow‐up a 12 mesi,
mostrando un decorso clinico che a nostro avviso mette in luce la “buona prognosi” delle psicosi nei
13
migranti di prima generazione a Bologna, ossia come in molti casi la sintomatologia psicotica possa
essere interpretata come una reazione alle avversità socio‐ambientali. Guardando poi la casistica
globale dei pazienti migranti che accedono al CSM Ovest, abbiamo registrato una maggior
propensione al drop‐out nei casi in cui non era attivato un intervento di analisi e supporto sociale sin
dalla presa in carico.
L’analisi di questi dati nel loro insieme ci consentono di ritrarre una popolazione migrante più fragile
dal punto di vista sociale rispetto ai nativi, come attendibile, essendo la nostra casistica composta per
la totalità di migranti di prima generazione e di recente immigrazione. È interessante notare che la
fragilità sociale sia connessa anche alla mancanza della presenza della famiglia alla presa in carico e
ad un percorso di cura più complesso, spesso necessitante ricovero psichiatrico all’esordio psicotico.
Sono dati confermativi, pertanto, di quanto già espresso da più autori sull’importante valenza che la
famiglia e la rete scoiale può esercitare nel percorso di cura psichiatrico. D’altro canto, l’impatto
dell’intervento sociale sull’efficacia degli interventi psichiatrici territoriali, come dice il semplice
indicatore della riduzione dei drop‐out quando l’attenzione in ambito sociale viene attivata fin dalla
presa in carico, sottolinea indirettamente la necessità che la mancanza di “famiglia”, di carers
informali e di rete sociale sia presa in considerazione tempestivamente nella predisposizione dei
dispositivi di cura.
Al dato più strettamente numerico e quantitativo, aggiungiamo una riflessione qualitativa, derivante
dalla esperienza clinica. Le peculiarità comunicative dei pazienti e la loro storia migratoria
improntano le modalità di rapporto tra paziente, famiglia e servizio psichiatrico, modalità di cui è
necessario tenere conto per impostare adeguatamente il setting di cura. Le risorse strutturalmente
presenti nel CSM (psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori) si integrano
virtuosamente a Bologna in una realtà di copresenza universitaria con antropologi, mediatori
linguistici e culturali, medici e psicoterapeuti in formazione e volontari. Queste figure professionali,
animate da un profondo interesse verso le tematiche della salute mentale transculturale, danno vita
nel loro insieme a un dispositivo di cura multiprofessionale a “geometria variabile”. L'attenzione alla
relazione, all’ascolto empatico, alla testimonianza, al contenimento del paziente e, in generale, a
tutti i meccanismi presenti sul versante supportivo della psicoterapia; l’attività di assistenza sociale,
finalizzata a ricercare e attivare le risorse presenti nel territorio (atte a risolvere problemi contingenti
quali permesso di soggiorno, abitazione, difficoltà linguistiche, accesso ai servizi sanitari, etc.); la
presenza di un interprete linguistico, nei casi di difficoltà nella comunicazione verbale: tutti questi
sono elementi che consentono al team multidisciplinare di essere preparato a confrontarsi anche con
persone di diversa cultura e diversa modalità di espressione della sofferenza e di declinare, caso per
caso e a seconda della storia e delle necessità del paziente, il migliore intervento possibile. La
comunicazione rispetto a temi significativi come la salute e la malattia risente fortemente, infatti,
della “identità culturale”, ovvero delle differenti modalità culturalmente apprese di rapportarsi
all’”altro” . Come insegnato da Kleinman, divine pertanto fondamentale anche per i professionisti
della salute acquisire competenza culturale nella relazione “medico‐paziente”. Senza addentrarci
negli approfondimenti che su questo tema propone lo sguardo dell’antropologia e delle scienze
sociali, possiamo comunque affermare che, secondo la nostra esperienza, è complesso e rischioso
generalizzare la tipologia di rapporto tra paziente migrante, famiglia e servizio secondo macro‐
14
categorie di provenienza, ma si può tentare di offrire uno schema orientativo, basato sulla tipologia
della storia migratoria e delle modalità comunicative (Tabella 2).
Tabella 2. Rapporto tra paziente migrante, famiglia e servizio di salute mentale
Cultura Individualista Cultura Collettivista
Migrazione Passiva Rapporto a “Famiglia ipercoinvolta” Rapporto a “Famiglia coinvolta”
Migrazione Attiva Rapporto a “Famiglia assente” Rapporto a “Famiglia mancante”
I pazienti con storia di migrazione passiva, spesso donne a seguito di mariti o altri membri familiari
che hanno tessuto e intrapreso il progetto migratorio che coinvolge tutta la famiglia, tendono a
proporsi in gruppo, con l’intera famiglia, secondo uno stile comunicativo “collettivista”. Questi
pazienti sono infatti membri di un insieme che non si scompone nemmeno di fronte alla malattia, che
chiede di condividere e confrontarsi con tutte le decisioni inerenti la diagnosi e la cura. Nella nostra
esperienza è molto utile in tali casi accogliere la “famiglia coinvolta” in gruppo e accattare la richiesta
culturalmente orientata di comunicare sulla malattia non individualmente, ma con l’intero gruppo
familiare del paziente. La maggior parte dei pazienti è però costituita da donne e uomini che hanno
scelto di migrare per motivi lavorativi (migrazione attiva) e che molto raramente propongono il
coinvolgimento di un familiare, secondo uno stile comunicativo “individualista”; in tali casi di
“famiglia assente”, il coinvolgimento di un familiare può essere ritenuto un obiettivo importante, da
raggiungere tramite il consolidamento di un rapporto di fiducia con il paziente. Ancora una volta, è
importante non forzare i tempi necessari all’impostazione del rapporto con i familiari e rispettare la
richiesta di un rapporto individuale con il servizio. Anche se meno frequentemente, è importante
ricordare anche che alcuni paziente che hanno seguito un percorso di migrazione passivo possono
prediligere stili comunicativi individualisti e pertanto soffrire nella fase post migratoria la presenza di
una famiglia “ipercoinvolta”. Vi e’, infine, il caso dei pazienti con storia migratoria attiva, che hanno
scelto di migrare, ma che provengono da società collettiviste e che accusano, tra le altre difficoltà di
adattamento al nuovo mondo, l’assenza della famiglia; sono questi i pazienti che propongono un
rapporto con il servizio che definiamo a “famiglia mancante”, che accettano più volentieri la presenza
del mediatore culturale nel setting di cura e che più favorevolmente accolgono l’introduzione di
diversi carers professionali e operatori sociosanitari nel progetto di cura.
15
CONCLUSIONI
Lavorare con i migranti è stata ed è tuttora una sorprendente occasione di metter in discussione
approcci teorici e modelli di cura per lo più basati sui risultati di trials e ricerche condotte sui “nativi
occidentali” e che non sempre si mostrano efficaci in ambito trans‐culturale. In questi anni si sono
accumulate molte evidenze scientifiche sull’aumentato rischio di disturbi mentali gravi, quali le
psicosi, nei migranti. Questo ha determinato una “revisione generale” dei modelli interpretativi della
genesi dei disturbi psichici, poiché ha fornito l’occasione diretta per verificare l’importanza di fattori
di stress ambientale, non solo individuali, ma anche di area, sullo sviluppo di tali disturbi. Oggi la
comunità scientifica è unanime nel ritenere che le caratteristiche culturali e la storia migratoria
influenzino fortemente il rischio di ammalarsi e la risposta alle cure, ma ancora numerosi sono gli
elementi da chiarire per individuare efficaci dispositivi di prevenzione e di cura. E’ evidente che le
Università e le Istituzioni deputate alla formazione e alla ricerca siano pertanto oggi fortemente
chiamate a impegnarsi in questo ambito. Come atteso, anche per i pazienti migranti il coinvolgimento
della famiglia nel percorso di cura è un passaggio cruciale e spesso in grado di ridurre disabilità
scoiale e necessità di ricovero. Non in tutti i casi, però, la famiglia deve essere coinvolta. Il rispetto
della richiesta di un rapporto di cura “individualista” o “collettivista” va a esercitare l’importante
ruolo terapeutico di gratificare, almeno nel setting di cura, aspettative di adattamento al nuovo
mondo profondamente radicate su tratti di personalità e stili cognitivi culturalmente acquisiti, pilastri
identitari per il paziente e la sua famiglia.
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16. Tarricone I, Braca M, Allegri F, Barrasso G, Bellomo A, Berlincioni V, Carpiniello B, Ceregato A,
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17
4. Diseguaglianza tra italiani e immigrati nel Dipartimento di Salute Mentale e
Dipendenze Patologiche di Bologna
(a cura di Paola Rucci ed Antonella Piazza)
In molti Paesi si osservano forti diseguaglianze nell’accessibilità e qualità delle cure a sfavore di
immigrati e minoranze etniche. Anche in sistemi sanitari a copertura universalistica come il nostro,
l’accesso ai servizi è ostacolato da barriere sociali, culturali e linguistiche. Nell’ambito della salute
mentale tali barriere possono essere particolarmente difficili da superare, a causa dello stigma, del
vissuto di fallimento e dei rischi di deriva sociale spesso connessi alla malattia. Il fenomeno
migratorio è inoltre molto diversificato e il rischio di esclusione appare più alto per alcuni gruppi più
vulnerabili, come i migranti irregolari, i rifugiati e richiedenti asilo, gli anziani, le donne, i bambini.
Una strategia importante per assicurare equità di accesso e di trattamento consiste nel formare la
competenza culturale degli operatori. Per competenza culturale si intende un insieme di requisiti e
processi che consentono ai professionisti di fornire prestazioni culturalmente appropriate per gli
immigrati e le minoranze etniche. Alla base della competenza culturale vi è la consapevolezza che la
cultura di appartenenza può influenzare l’espressione della malattia così come la richiesta di aiuto. In
effetti, il rispetto per le credenze e le attitudini culturali del paziente rappresenta un fattore di
primaria importanza nel processo terapeutico. Un nostro lavoro (1) ha descritto le esperienze
formative, cliniche e organizzative che nell’ultimo decennio hanno contribuito ad accrescere la
competenza culturale nel Dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche di Bologna. Tali
esperienze, rivolte soprattutto a situazioni complesse e a gruppi ad alto rischio, si sono gradualmente
strutturate nel contesto dell’ordinaria attività dei centri di salute mentale, dei servizi delle
tossicodipendenze e della neuropsichiatria infantile. Il percorso finora svolto indica che per costruire
buone pratiche per la salute mentale degli immigrati non è prioritario disporre di centri e
professionisti dedicati, bensì intraprendere iniziative formative, comunicative e assistenziali che
consentano di ottenere servizi culturalmente e affettivamente adeguati, facilmente accessibili e
fortemente integrati con gli altri segmenti dei sistemi di cura e di comunità.
Nei centri di salute mentale (CSM) dell’Azienda USL di Bologna i monitoraggi annuali mostrano che
dal 2007 al 2015 la percentuale di utenti di nazionalità straniera è aumentata dal 4,2 al 7,1%,
parallelamente all’incremento ancor più consistente della popolazione immigrata. Il sistema
informativo rileva la cittadinanza anagrafica e non distingue tra immigrati di prima o di seconda
generazione: tuttavia, poiché il flusso migratorio nel nostro Paese è relativamente recente e i
pazienti dei CSM sono maggiorenni, la grande maggioranza dei cittadini stranieri finora seguiti sono
immigrati di prima generazione. In questi nove anni hanno sempre prevalso pazienti provenienti da
aree geografiche limitrofe (Est‐Europa o Nord‐Africa), ma sono in aumento i pazienti asiatici
(soprattutto di Pakistan e Bangladesh). Gli stranieri che non risiedono nel territorio aziendale si
aggirano stabilmente intorno al 12%, a fronte del 5% circa di italiani non residenti. Tra gli stranieri
non residenti, la maggior parte (113 persone nel 2015) non ha residenza in Italia: tra costoro vi sono
molti immigrati irregolari, a maggior rischio di esclusione e presumibilmente portatori di bisogni
complessi. Per quanto riguarda i residenti nel nostro territorio, in rapporto con la popolazione i nuovi
casi, così come il totale di casi annuali dei CSM, sono meno numerosi tra gli immigrati rispetto agli
18
italiani. Nel complesso, i pazienti stranieri mostrano una minor gravità diagnostica in confronto ai
nativi e una tipologia di interventi non molto dissimile, anche per quanto riguarda i trattamenti
ospedalieri. Si segnala tuttavia che, per quanto limitati numericamente, i ricoveri di adolescenti di
nazionalità straniera costituiscono ultimamente una quota rilevante dei ricoveri psichiatrici di
minorenni (ben un terzo nel 2015, ossia 10 ricoveri su 30) e rappresentano un campanello d’allarme
sul possibile emergere di condizioni di acuta sofferenza giovanile da tenere sotto attento controllo.
A partire da questi e altri indicatori generali, è stata svolta un’indagine più approfondita sulle
eventuali disparità nella tipologia e intensità dei trattamenti per italiani e immigrati (2). La
popolazione studiata comprendeva 8602 italiani e 388 immigrati con disturbi mentali gravi, già in
cura presso i CSM a inizio 2011 e osservati nel corso dei successivi 12 mesi. Gli immigrati, provenienti
da 72 paesi (Marocco, Romania, Albania, Moldavia e Ucraina in testa), avevano un’età media di 40
anni, erano coniugati nel 44% dei casi, vivevano in maggioranza nella città di Bologna (57%) ed
avevano una durata del rapporto con i servizi di salute mentale di 2 anni e mezzo. Di contro, gli
italiani avevano in media 54 anni, erano coniugati nel 38% dei casi, vivevano in città nel 44% ed
avevano un rapporto di maggiore durata con i servizi di salute mentale (5 anni). La proporzione di
donne (intorno a 58%) e di persone occupate al lavoro (51%) era analoga tra immigrati ed italiani. La
tipologia dei trattamenti esaminati ha incluso i trattamenti riabilitativi, le degenze ospedaliere e
residenziali intensive per acuzie ed i trattamenti residenziali non intensivi. La probabilità di ricevere
questi trattamenti durante il follow‐up è risultata simile tra italiani ed immigrati, ad eccezione per le
attività in centro diurno e le ammissioni in reparti residenziali intensivi, meno frequenti per gli
immigrati. Inoltre è emerso che gli immigrati ricoverati avevano una degenza ospedaliera media di
durata inferiore rispetto agli italiani (18 vs. 32 giornate). Anche la permanenza in strutture
residenziali non intensive è risultata più breve, sebbene il numero esiguo di immigrati in trattamento
residenziale (N=12) non consenta valutazioni affidabili. Infine, per quanto riguarda i trattamenti
riabilitativi non residenziali, si è osservata per gli immigrati una media più alta di interventi
riabilitativi di gruppo (22 vs. 12 negli italiani) e meno interventi individuali (6 vs. 8 negli italiani). Nel
complesso, il numero di interventi riabilitativi del 2011 è risultato maggiore negli italiani (13 vs. 10),
indipendentemente dalla diagnosi. In conclusione, lo studio suggerisce che italiani ed immigrati
accedono all’intero ventaglio dei trattamenti offerti, ma l’intensità dei trattamenti e la durata delle
degenze sono maggiori per gli italiani a parità di caratteristiche demografiche, diagnostiche e di
durata del rapporto con i CSM. Rimangono da chiarire i motivi di tali disparità assistenziali: anche
ricorrendo a indagini qualitative, occorre capire quali dipendano da minor gravità clinica e decorsi
più favorevoli, oppure siano conseguenza di altri fattori legati all’immigrazione (es., mobilità extra‐
territoriale, maggior supporto da parte della comunità di appartenenza) o esprimano la presenza di
ostacoli materiali e culturali (scarsità di tempo e altre risorse per impegnarsi in un percorso di cura e
riabilitazione, sfiducia nei confronti dei servizi, etc.), o infine siano indicative della persistente
difficoltà dei nostri servizi di accogliere, riconoscere e affrontare adeguatamente le esigenze di
questa nuova e variegata utenza.
Spigonardo V, Piazza A, Tarricone I, Maisto R, Nolet M, Giancane S, Campalastri R, Magnani G,
Tenuzzo C, Orsoni R, Martelli M, Donegani I, Berardi D, Fioritti A. Salute mentale, migrazione e
competenza culturale: l’esperienza di Bologna. Politiche sanitarie, 15: 1‐10 (2014)
19
Rucci P, Piazza A, Perrone E, Tarricone I, Maisto R, Donegani I, Spigonardo V, Berardi D, Fantini
MP, Fioritti A. Disparities in mental health care provision to immigrants with severe mental
illness in Italy. Epidemiology and Psychiatric Sciences, 24: 342‐352 (2015) [segue abstract]
Questo studio si è proposto di individuare eventuali disparità nella tipologia e l’intensità dei
trattamenti erogati agli immigrati rispetto agli italiani con gravi disturbi mentali a Bologna.
La popolazione indagata comprendeva 8602 italiani e 388 immigrati con disturbi mentali gravi che
avevano avuto almeno un contatto con i servizi di salute mentale di Bologna nel 2011. Andando ad
esaminare le caratteristiche degli immigrati, è emerso che provenivano da 72 paesi, con una
predominanza del Marocco, Romania, Albania Moldavia e Ucraina. Gli immigrati avevano un’età
media di 40 anni, erano nel 58% donne, coniugati nel 44%, vivevano in maggioranza nell’area
metropolitana di Bologna (57%) ed avevano una durata del rapporto con i servizi di salute mentale di
2 anni e mezzo. Di contro, gli italiani avevano in media 54 anni, erano coniugati nel 38%, vivevano in
città solo nel 44% dei casi ed avevano un rapporto di maggiore durata con i servizi di salute mentale
(5 anni). La percentuale di donne e di persone che lavoravano era simile tra immigrati ed italiani.
Le tipologie dei trattamenti esaminati ha incluso la riabilitazione psicosociale, il ricovero ospedaliero
ed il trattamento residenziale, che viene attuato in presenza di sintomatologia e compromissione
funzionale particolarmente gravi, in un sottogruppo inferiore al 4% della casistica. La probabilità di
ricevere ciascuno di questi trattamenti è risultata simile tra italiani ed immigrati, fatta eccezione per
le attività in centro diurno e la riabilitazione intensiva, meno frequenti negli immigrati . Inoltre,
esaminando il numero di giornate di ricovero ospedaliero in strutture per acuti, si è rilevato che gli
immigrati avevano una durata di degenza inferiore rispetto agli italiani (18 vs. 32 giornate).
Analogamente la permanenza in strutture residenziali è risultata più bassa per gli immigrati, sebbene
il numero esiguo di persone immigrate a cui è stato erogato questo intervento (N=12) non consenta
valutazioni affidabili di questo aspetto specifico.
Infine, per quanto riguarda la riabilitazione psicosociale, si è osservato che gli immigrati ricevevano più
interventi di riabilitazione di gruppo (22 vs. 12 negli italiani) e meno interventi individuali (6 vs. 8 negli
italiani). Non sono invece emerse differenze rispetto agli interventi in centro diurno o di supporto nel
reinserimento lavorativo. Nel complesso, il numero di interventi riabilitativi nel 2011 erogati è risultato
maggiore negli italiani (13 vs. 10 negli immigrati), indipendentemente dalla diagnosi.
In conclusione, questo studio suggerisce che italiani ed immigrati accedono all’intero ventaglio
dei trattamenti offerti, ma l’intensità del trattamento è maggiore negli italiani. Questa
conclusione è suffragata dal fatto che lo studio coinvolge l’intera popolazione con disturbi
mentali gravi che ha avuto almeno un intervento nel 2011 e dall’uso di tecniche statistiche che
permettono di confrontare italiani ed immigrati a parità di caratteristiche demografiche e di
durata del rapporto con i servizi di salute mentale. Tuttavia, poiché le persone che non si sono
rivolte ai servizi di salute mentale non sono tracciabili attraverso questo studio, è necessario
quantificare i bisogni di assistenza inespressi nella popolazione dei migranti attraverso ulteriori
indagini ad hoc che coinvolgano anche i servizi sociali.
20
5. Adolescenti, famiglie e crisi. Percorsi di istituzionalizzazione in comunità per
minori e prevenzione fatta dai servizi
(a cura di Paola Rucci ed Antonella Piazza)
IL CONTESTO
Il collocamento in comunità è ritenuto oggi nel percorso civile una misura estrema che ‐tranne casi di
eccezionale gravità su cui vi è disposizione con decreto urgente del Tribunale per i Minorenni‐ viene
attuato solo dopo che altri interventi, compresi interventi domiciliari, non hanno avuto esito.
Questa attenzione vale sia per il Servizio Sociale, sia ‐tanto di più‐ per la sanità ed in particolare la
Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza (NPIA).
Diverso è il discorso in ambito penale minorile dove invece, rispetto alla restrizione in carcere, il
collocamento in comunità (con le misure cautelare e messa alla prova) appare la soluzione più utile
alla ripresa di un percorso evolutivo.
La NPIA lavora in rete con famiglie, pediatri, scuole, servizi della Giustizia e Servizio Sociale del
Comune.
In particolare con questo ultimo vi sono appuntamenti fissi tra gli operatori per la discussione dei casi
(le cosiddette ETI e UVM); la decisione ad esempio di inserire in comunità un ragazzo che presenta
difficoltà sociali e sanitarie avviene sempre dopo discussione congiunta.
ALCUNI PERCORSI DI ISTITUZIONALIZZAZIONE
Trattando di adolescenti e famiglia, una caratteristica oggi osservata in modo concorde dai diversi
punti di vista è l'indebolimento della rete ed in particolare della capacità degli adulti di essere
autorevoli e contenitivi e di riuscire quindi a gestire situazioni di adolescenti con comportamenti
provocatori o aggressivi sia etero diretti, sia di tipo autolesivo.
Una delle situazioni che possono portare all'inserimento in comunità è proprio quando si rompe la
rete e la famiglia (a volte monoparentale) non riesce a “gestire” i comportamenti dei ragazzi e a volte
dei bambini.
Un altro aspetto, quasi opposto a questo, è quello del ritiro sociale, di ragazzi che interrompono il
percorso scolastico, invertono il ritmo sonno‐veglia (dormono di giorno e stanno svegli di notte,
spesso al computer) e si chiudono in casa spesso abbandonando tutte le relazioni esterne, anche
quelle con i pari.
Sono due casistiche differenti, quasi opposte, che si impongono oggi sempre più all'attenzione dei
servizi e che hanno compresenti sia problematiche sociali, sia sanitarie e per i quali vanno attivati
interventi atti a prevenire l'allontanamento da casa.
21
GLI INTERVENTI DELLA NPIA
Gli interventi della NPIA della AUSL di Bologna sono assicurati da:
unità operative (UO) territoriali che operano “vicino” alle famiglie, alle scuole e alle
articolazioni del servizio sociale di quartiere.
esiste poi una unità operativa (Psichiatria e Psicoterapia Età Evolutiva ‐ PPEE) che si occupa
delle situazioni urgenti e gravi di psicopatologia e di minori coinvolti nel percorso penale ed
inseriti nelle strutture della Giustizia Minorile.
Queste diverse articolazioni lavorano spesso in modo integrato collaborando nelle diverse fasi del
percorso di cura dei pazienti.
Le UO di NPIA territoriali, spesso attivate dal Servizio Sociale, nel caso di ragazzi per cui viene
richiesto un intervento, avviano una valutazione del minore e del nucleo familiare e, a seguito degli
elementi rilevati, possono offrire un percorso di cura con colloqui per il ragazzo e per i genitori ed
eventualmente un intervento educativo, individuale o in piccoli gruppi.
La UO PPEE viene attivata dai colleghi delle UO territoriali o dai Pronto Soccorso degli Ospedali
cittadini. Anche in questo caso viene fatta una valutazione diagnostica (che guarda anche ai punti di
forza, alle capacità, non solo agli aspetti disfunzionali) e avviata una presa in cura che è caratterizzata
per l'elevata intensità e la multidimensionalità: viene offerto uno spazio individuale di colloqui per il
ragazzo (eventuale terapia farmacologica nei casi più gravi) ed uno spazio per i genitori, vengono
attivati gruppi sia per i ragazzi, sia per i genitori e utilizzato un intervento educativo individuale e di
gruppo che consente al ragazzo di trascorrere diverse ore, a volte anche più giorni alla settimana
(nelle fasi di crisi), presso il Day Service dell'Ospedale Maggiore.
Un'altra possibilità di intervento è quella degli interventi educativi diurni che, proprio per far fronte
alle nuove esigenze, si stanno rimodulando sia come intervento tecnico (sempre più elastico,
flessibile, individualizzabile), sia come sede di erogazione.
In pratica le due articolazioni citate (territoriale e per l'urgenza) operano in stretto raccordo con
famiglia, servizio sociale e scuole per sostenere il percorso di vita dei ragazzi ed evitare così un
arresto, un fallimento che potrebbe portare anche alla collocazione esterna alla famiglia; si tratta
quindi di azioni terapeutiche e progettuali di prevenzione primaria o secondaria volte a evitare o
ridurre gli effetti negativi di una disturbo psicopatologico nel percorso di vita individuale e
ambientale di ogni ragazzo.
Le UO territoriali intervengono nelle molte situazioni croniche di disagio e disturbo
comportamentale, la UO per l'urgenza (PPEE) in quelle improvvisamente emergenti o di particolare
intensità.
NUOVE RISPOSTE
Nel tempo, proprio per rispondere alle nuove situazioni emergenti, sono state potenziate le attività
volte ad una rilevazione precoce e tempestiva delle situazioni di disagio:
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nell'ambito delle UO territoriali è stata avviata una équipe specifica per i minori stranieri e una
attività clinica di consultazione transculturale.
è stata qualificata l'attività clinica presso le strutture della Giustizia Minorile: è stata
“standardizzata” la valutazione psicologica di tutti i ragazzi che vengono arrestati (circa 150
l'anno) e avviato un nuovo progetto di gruppi di promozione salute rivolto a tutti i ragazzi ristretti
in Istituto Penale Minorile. Per i ragazzi in carcere in cui è rilevata una condizione di
psicopatologia è assicurata una presa in cura psicologica o psichiatrica (se necessita) e una
collaborazione con i servizi della Giustizia per il progetto di collocamento esterno al carcere – la
presa in cura spesso viene mantenuta anche dopo il periodo di misura penale. Nell’ambito
penale le azioni della NPIA sono quindi di prevenzione secondaria o terziaria volte cioè a ridurre
gli effetti negativi di una condizione sociale e psicopatologica già in atto.
è stata consolidata l'attività di consulenza presso il Pronto Soccorso (PS) ed è stato sperimentato
un modello di intervento notturno per “intercettare” i ragazzi che giungevano al PS e offrire loro
uno spazio di ascolto. Nell'arco di 12 mesi, 137 pazienti hanno accettato il colloquio psicologico.
Risultano frequenti stati ansiosi, traumi auto‐provocati, eventi traumatici importanti. De
segnalare che il 39% dei ragazzi si presenta due volte al Pronto Soccorso e il 25% tre o più volte.
I NUMERI (BOLOGNA, CITTÀ, ANNO 2015)
Incontri di discussione col Servizio Sociale
del Comune di Bologna (UVM) 10 incontri
Numero casi di ragazzi discussi nelle UVM
cittadine
44
(di cui: 9 con disabilità, 10 con psicopatologia, 25
maltrattamento, abuso)
Numero ragazzi inseriti in Comunità
33
(di cui 27 in compartecipazione con AUSL, 10
segnalati dalla NPIA per quadri clinici e storie
evolutive analoghe a quanto sopra descritto)
Nota: di questi ragazzi 13 sono stati collocati in
comunità fuori Provincia e 1 fuori Regione.
Numero ragazzi arrestati presso le Strutture
della Giustizia Minorile con valutazione
psicodiagnostica
150 di cui oltre 20 con presa in carico
Incontri di discussione con Servizio Sociale
sui minori stranieri non accompagnati (ETI
MSA)
20 incontri
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5.1. Minori migranti (a cura di Alessandra Magnani)
A livello del Servizio di Neuropsichiatria Infantile Territoriale il crescente accesso delle famiglie
migranti ha portato negli anni ad attivare per i minori stranieri una risposta clinica articolata per ogni
periodo di sviluppo, tenendo conto delle differenze presenti nelle diverse età di sviluppo.
Gli ambiti di lavoro sui quali più si sta concentrando il lavoro, apportando le modifiche necessarie ai
percorsi già in atto per adeguarli alle nuove richieste, sono:
le valutazioni del linguaggio e degli apprendimenti;
le valutazioni per problemi emozionali e comportamentali
Un lavoro specifico in ambito neuropsicologico si è reso necessario in quanto nella fascia di età
prescolare e scolare un problema emergente è rappresentato dal crescente numero di bambini
inviati al Servizio di NPIA per una valutazione inerente alle aree dello sviluppo cognitivo e, in misura
ancora maggiore, del linguaggio in presenza di condizioni di bilinguismo, simultaneo o consecutivo
(alto numero di primi accessi legati a ritardi nello sviluppo linguistico, nel periodo della prima e
seconda infanzia, e successivamente a difficoltà negli apprendimenti scolastici con l’accesso alla
scuola primaria).
Per quanto concerne gli aspetti psicopatologici, è emerso come il processo diagnostico con le
famiglie migranti possa essere influenzato da alcuni fattori, quali l’appartenenza culturale, che
influenza il modo di presentarsi della famiglia; la comunicazione in una lingua–altra e la non
completa adeguatezza degli strumenti di valutazione in uso.
E’ stata creata quindi un’équipe di lavoro specifica che permette di sostenere gli operatori in una
formulazione culturale della diagnosi, permettendo di rendere espliciti, e quindi utilizzabili al
momento della restituzione del caso, eventuali fattori culturali e sociali implicati nella configurazione
del quadro clinico del disturbo diagnosticato.
La dimensione e l’importanza del lavoro clinico con i minori stranieri e con le loro famiglie ha portato
ad una riflessione sugli aspetti sopra esposti, portando alla costituzione di un dispositivo specifico di
accoglienza, valutazione e terapia: la consultazione transculturale, costruita a partire dall’esperienza
maturata in Francia in ambito etnopsichiatrico. Tale modello si caratterizza per: la presa in carico, ove
possibile, dell’intero nucleo familiare; il lavoro in équipe, che vede coinvolte differenti figure:
neuropsichiatra infantile, psicologo, antropologo, mediatore; la possibilità di utilizzare la lingua
materna del paziente attraverso l’introduzione nell’equipe di lavoro dei mediatori culturali.
La consultazione transculturale è diretta a giovani migranti o figli di migranti in presenza di una
sintomatologia che sia diretta conseguenza – a corto, medio o lungo termine ‐ della migrazione,
come ad esempio la presenza di un trauma migratorio (migrazione difficile), disturbi
dell’adattamento con difficoltà di integrazione, conflitti intrafamiliari legati alla situazione migratoria
o in presenza di quadri complessi che non rispondono al trattamento abituale ad esempio difficoltà
di adattamento al sistema di cure con insufficiente compliance familiare.
Un’altra area di lavoro specifica riguarda il periodo dell’adolescenza.
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Relativamente a questa fascia d’età è stato attivato a livello territoriale un percorso rivolto ai minori
stranieri “non accompagnati” (MSNA), che nella nostra esperienza rappresentano un numero
crescente di casi. Dalla fine del 2013 si sono costituite in ambito socio‐sanitario (Comune e NPIA) una
Equipe Territoriale Integrata (ETI) e una Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) dedicate in
modo specifico al lavoro transculturale, in particolare agli MSNA. Il progetto prevede una discussione
congiunta delle situazioni a rischio, psicologico o sociale, in modo condiviso fra servizio di NPIA e
Servizio Sociale, in base alla quale viene individuata una linea di lavoro specifica: consulenza agli
educatori o visite in Comunità, percorsi psicoterapeutici individuali o in gruppo volti all’elaborazione
dei traumi vissuti.
5.2. Prima infanzia e famiglie migranti (a cura di Sandra Impagliazzo)
La situazione migratoria della famiglia espone i bambini, sia nati nel paese d’origine che in quello
d’accoglienza, ad una condizione di “vulnerabilità”. In letteratura viene ipotizzato che tale
vulnerabilità dei bambini migranti sia legata alla scissione sulla quale essi si sviluppano e si
strutturano: da un lato essi sono legati ad un mondo interiore, associato all’affettività e all’universo
culturale dei genitori, dall’altro si trovano a confrontarsi e ad appartenere ad un mondo esterno,
quello del sistema culturale del paese di accoglienza. Questo provoca in loro una dissociazione fra
filiazione (definita come trasmissione dei valori e delle rappresentazioni culturali interne alla
famiglia) e affiliazione (appartenenza ad un gruppo, quelli che il bambino incontra e di cui entra a far
parte nelle diverse epoche della sua vita).
In relazione a questa vulnerabilità il periodo della prima infanzia rappresenta un periodo
particolarmente delicato per lo sviluppo psichico dei bambini figli di migranti. Questo periodo, infatti,
è fondamentale per l’avviarsi di un adeguato processo di filiazione, con l’instaurarsi delle prime
relazioni madre‐bambino.
E’ infatti ormai noto che è anche il contesto culturale a strutturare e a dar forma alle interazioni
madre‐bambino, e più in generale alle interazioni genitori‐bambino. Le rappresentazioni culturali
codificano la materialità delle interazioni, le modalità di nutrizione, di addormentamento, così come
portano ad accudire il proprio bambino utilizzando differenti canali di stimolazione sensoriale, il che
porta a delle conseguenze sullo sviluppo dei bambini, sul loro rapporto con gli altri e con il mondo.
Con i primi scambi interattivi il neonato apprende e viene impregnato dei modi di fare che ogni
madre porta con sé dal proprio paese di origine, dove a sua volta li ha appresi.
La migrazione comporta una rottura in questo sistema di interazioni complesse. Le madri migranti,
che partoriscono da sole in un mondo a loro straniero, devono imparare più di altre a conoscere il
proprio bambino e ad essere madri senza l’aiuto della propria madre e di un gruppo di appartenenza,
che funziona normalmente come sostegno e come fonte di trasmissione delle pratiche di
accudimento. La madre, sottoposta ad una molteplicità di mondi culturali, potrà sviluppare stati di
confusione e incertezze che le renderanno più difficile e complesso svolgere la propria funzione
genitoriale. Durante questo periodo dovrà confrontarsi con compiti contraddittori: proteggere il
bambino, investirlo, amarlo, secondo le proprie modalità, e nello stesso tempo prepararlo
all’incontro con il mondo esterno, di cui non necessariamente conosce le regole. Possiamo dunque
trovare nel bambino figlio di migranti una vulnerabilità che comporta un rischio specifico nello
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sviluppo, dovuto in parte alle difficoltà relative al trovare un proprio ruolo dentro la famiglia ed in
parte fuori dalla famiglia, nell’inserirsi in un mondo che è “altro” rispetto a quello dei propri genitori.
All’interno del nostro servizio di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (NPIA) dell’Azienda
USL di Bologna è attivo dal 2000 un centro specialistico dedicato ai bambini in età prescolare e alle
loro famiglie: il Centro Clinico per la Prima Infanzia. Si occupa di diagnosi e trattamento dei disturbi
della prima infanzia e lavora in forma integrata con i servizi territoriali e i diversi professionisti che a
vario titolo si occupano del bambino e dei suoi genitori quali i pediatri di famiglia, i pediatri
ospedalieri, i neuropsichiatri infantili, i pedagogisti dei nidi e delle scuole dell’infanzia, gli psichiatri,
gli assistenti sociali.
Nel corso dell’ultimo decennio è emerso dalle nostre casistiche un graduale ma importante
incremento dell’afferenza a questo centro di famiglie migranti provenienti da tutti i continenti pari
circa al 12% della popolazione complessiva del centro. Abbiamo così valutato di dedicare loro una
particolare attenzione e cura innanzitutto con formazioni apposite in tema transculturale ed un
adeguamento delle nostre modalità di lavoro clinico con l’introduzione di varianti che consentano il
passaggio da un codice culturale all’altro. Nello specifico all’interno di uno studio su un campione di
81 bambini provenienti da famiglie migranti è emerso come i motivi di invio principali, relativi alle
prime richieste di consultazione, riguardano le aree del comportamento e del sonno, seguite dalle
difficoltà nella relazione e dai ritardi di sviluppo.
Dal confronto fra i motivi d’invio del campione di famiglie migranti con i motivi d’invio della
popolazione totale afferente al nostro servizio specialistico per la prima infanzia, emerge un maggior
riscontro nelle famiglie migranti di difficoltà di comportamento del proprio bambino. Rispetto alla
richiesta di prima visita emerge come i genitori migranti segnalino meno frequentemente difficoltà di
tipo relazionale, mentre prevalgono richieste di consultazioni relative a difficoltà peculiari del
bambino, soprattutto nelle aree psicofunzionali (sonno, comportamento, alimentazione…).
Il motivo della migrazione più frequente fra le famiglie migranti afferenti al servizio è legato alle
condizioni di povertà nel paese di origine. L’analisi del livello socio‐culturale ha evidenziato come la
maggioranza di queste famiglie presenti un livello socio‐culturale medio‐alto (pari al 61% della
popolazione totale). Si rileva tuttavia una forte discrepanza fra il livello socio‐culturale avuto nel
paese d’origine e l’attività lavorativa nel paese di accoglienza. Nel lavoro clinico con queste famiglie
emerge con evidenza come la perdita dello stato sociale ed economico posseduto nel paese di
origine e la discrepanza con il livello economico e le condizioni lavorative nel paese di accoglienza
incidano fortemente sul senso d’identità di questi genitori.
Emerge inoltre fortemente la mancanza di una “rete” e di un valido sostegno sociale per la maggior
parte di queste famiglie (81% dei casi) legato alla mancanza di supporto delle famiglie d’origine e
dall’assenza di un valido contatto con la propria comunità di appartenenza nel paese di accoglienza.
Questa condizione ha ricadute depressive soprattutto sulle madri, che vivono con solitudine e senso
di abbandono il periodo della gravidanza e il primo periodo di vita del bambino. Il 28% di queste
madri presenta uno stato dell’umore depresso mentre l’8% presenta un disturbo dell’umore
conclamato.
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I bambini a loro volta presentano nel 30% dei casi un disturbo importante della relazione genitori‐
bambino mentre nel 36% dei casi vi è una tendenza ad un disturbo della relazione. Questa alta
percentuale di disturbo è riconducibile in parte a difficoltà nel processo di filiazione tra i genitori
migranti e i loro figli, all’impossibilità per questi genitori di trasmettere le proprie rappresentazioni
culturali e le proprie pratiche di accudimento nel paese di accoglienza, quindi alle diverse difficoltà
legate al passaggio dallo stile di interazione appreso nel proprio paese di origine a quello con cui
viene a contatto, e tende ad adattarsi, nel paese di immigrazione. Spesso il trauma della migrazione,
vissuta dai genitori, viene trasmesso ai bambini che con le loro difficoltà portano in consultazione i
genitori, che iniziano così ad interrogarsi sulla loro esperienza migratoria.
In merito a tali complesse condizioni di vita poniamo attenzioni mirate ai rischi di sviluppo dei
bambini migranti, legati principalmente alla vulnerabilità specifica secondaria al trauma migratorio
diretto o trasmesso dai genitori, accogliendo le famiglie nelle loro molteplicità e al tempo stesso nelle
loro specifiche individualità, lavorando in rete con i diversi professionisti in un unico progetto di cura.
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6. Popolazioni marginali e attività dei servizi di strada in collaborazione con
Comune e Volontariato
(a cura di Raffaella Campalastri)
La collaborazione fra l’Azienda Sanitaria, il Comune di Bologna e il volontariato nasce dall’esigenza di
tutelare la salute delle popolazioni più fragili: persone senza dimora, tossicodipendenti con vita di
strada, migranti privi di regolare titolo di soggiorno, nomadi rom e sinti e altri soggetti in condizione
temporanea o permanente di marginalità.
L’estrema povertà, economica e di status, la mancanza di una rete affettiva di riferimento e le
fragilità personali rappresentano i principali fattori che conducono ad una vita di strada e
l’integrazione fra risposte sociali e sanitarie si rende indispensabile per affrontare in modo efficace
situazioni così complesse e compromesse.
L’azienda USL ha stipulato, da anni, alcune convenzioni con associazioni di medici volontari che
offrono gratuitamente le loro prestazioni presso poliambulatori e centri appositamente dedicati,
dove accolgono pazienti che si rivolgono loro spontaneamente o con invio da parte dei servizi.
Interventi specifici e dedicati, da quasi vent’anni, sono rivolti alle persone tossicodipendenti che
conducono vita di strada, attraverso il servizio Unità Mobile, costola di uno dei SerT cittadini e
progettato, sin dall’inizio, in stretta sinergia con il sistema di accoglienza comunale. Questo servizio
accoglie persone non residenti, con problemi di dipendenza patologica, che vengono accompagnate
dall’ Unità di Strada del Comune, che interviene direttamente nei contesti del consumo di sostanze
con funzioni di prevenzione, di riduzione del danno e di primo contatto. Tra le persone accolte, i
migranti rappresentano una realtà in costante crescita. Gli interventi primari dell’Unità mobile sono
rappresentati dal trattamento farmacologico e dai controlli dello stato di salute, resi più agevoli ai
pazienti grazie all’utilizzo di un camper attrezzato ad ambulatorio mobile che si sposta
quotidianamente per la città, sostando in zone prossime ai contesti solitamente frequentati da
questa specifica tipologia di popolazione.
Sempre nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche, ad integrazione
degli interventi già in atto, negli ultimi anni è stata creata una mini‐equipe dedicata ai soggetti più
fragili e maggiormente esposti a patologie afferenti alla salute mentale. Questa mini‐equipe è
composta da un medico psichiatra e da un’assistente sociale con l’ obiettivo di agevolare l’accesso ai
Servizi e, attraverso funzioni di interfaccia e coordinamento tra interventi sanitari e sociali, di
costruire percorsi specifici e dedicati a queste situazioni multiproblematiche. Si è venuta quindi a
creare una complessa rete pubblico\privato\terzo settore, distribuita in tutto il territorio del comune
di Bologna, con funzioni di riconoscimento precoce, intercettazione e avvio a percorsi dedicati, verso
coloro che si trovano in difficoltà. Quando uno dei nodi della rete intercetta una persona
particolarmente fragile e sospetti un qualche tipo di disagio mentale, viene attivata la mini‐equipe
per una valutazione più approfondita, sul piano sociale e sanitario; successivamente viene garantito
un invio ai servizi territoriali mirato con modalità agevolate. Concretamente tali interventi si svolgono
presso le strutture di accoglienza notturne e diurne, non di rado direttamente in strada o in qualsiasi
contesto in cui sia possibile un contatto con questi soggetti, solitamente diffidenti nei confronti dei
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servizi. La rete dell’integrazione sul versante sociale è formata da assistenti sociale ed educatori del
sistema di accoglienza di ASP, dei servizi sociali territoriali e a bassa soglia, da diverse realtà del terzo
settore e del volontariato come Opera Marella, Caritas diocesana, Antoniano, Piazza Grande, solo per
citarne alcune; infine, da tutti coloro che, a vario titolo, possono essere interlocutori significativi per
le diverse situazioni che si incontrano di volta in volta. Le modalità di attivazione che rendono
praticabili questi interventi, sia per la complessità delle rete che per la complessità dei casi, sono
flessibili, agili, privi di particolari procedure burocratiche: le richieste vengono fatte via mail, via
telefono, o in incontri appositamente dedicati. Intorno alle persone fragili intercettate, si viene a
creare una piccola equipe funzionale mista, con personale dell’ASL, del Comune, del terzo settore o
del volontariato, in cui gli operatori si attivano e agiscono in sinergia, ciascuno per la propria
professionalità. A volte, la stessa mini‐equipe tiene in carico alcuni pazienti, in attesa di una
stabilizzazione clinica e\o di una chiarificazione di quadri clinici a volte davvero complessi, dove
l’abitudine alla via di strada confonde segni, sintomi e bisogni. Ciò vale soprattutto per gli stranieri,
dove, alle oggettive difficoltà di vita, si aggiungono aspetti culturali e da trauma migratorio. La mini‐
equipe dell’ASL è attivata sempre più frequentemente dai reparti di Diagnosi e Cura Psichiatrici, dove
vengono ricoverate in urgenza, persone con un disagio mentale riacutizzato, per lo più sconosciuti in
precedenza ai servizi socio‐sanitari, ulteriormente aggravati da fragilità e bisogni primari
insoddisfatti, per i quali è necessario costruire percorsi di dimissione articolati e tutelanti, a garanzia
della possibilità di prosecuzione delle cure post‐ricovero.
Esiste, inoltre, un percorso dedicato alle persone senza dimora che, ricoverate in altri reparti di
degenza ospedaliera, necessitano di un periodo di convalescenza per terminare le cure. Tale
progetto, chiamato “ Dimissioni Protette”, prevede una collaborazione fra il Nucleo di Cure Primarie,
il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze patologiche e il Comune di Bologna che riserva
alcuni posti letto dedicati a questo scopo in una struttura di accoglienza notturna.
Dalla fine del 2012 ad oggi, si è intervenuti in circa 150 casi che, dalla strada o da un ricovero
ospedaliero, sono stati avviati a percorsi di cura, di accoglienza in strutture adeguate e di inclusione
sociale.
Il progetto “Housing First” , anche questo in atto ormai da alcuni anni, prevede la collaborazione fra i
servizi di salute mentale e l’équipe di Piazza Grande, allo scopo di accompagnare i senza dimora al
rientro in un’abitazione stabile e confortevole, seguendo questa metodologia ormai seguita da molti
altri Paesi..
Una sintesi, anche formale, di quanto sopra descritto e un suo ampliamento anche ad altri soggetti
cittadini come l’Università, sta prendendo corpo proprio in questo periodo, sotto forma di protocollo
d’Intesa fra tutti i soggetti precedentemente nominati, allo scopo di una partecipazione sempre più
attiva di tutto il sistema dei servizi, pubblici, privati e del terzo settore, per la lotta alla povertà e alle
patologie a d esse connesse, verso un miglioramento dello stato di salute delle popolazioni più fragili
e una migliore inclusione sociale