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Politecnico di Milano

Facoltà di Architettura Civile

Laurea Magistrale in Architettura

a.a. 2011/2012

La riqualificazione dell’ex Molino dei Frati

per il rilancio di un’economia locale

Politecnico di Milano

Facoltà di Architettura Civile – Milano Bovisa

Laurea Magistrale in Architettura

a.a. 2011/2012

La riqualificazione dell’ex Molino dei Frati

per il rilancio di un’economia locale

Prof.ssa

Prof

Stefano Colombo 766417

Milano Bovisa

La riqualificazione dell’ex Molino dei Frati

Relatore:

ssa Anna Mangiarotti

Correlatore:

Prof.ssa Elvira Pensa

Laureando:

Stefano Colombo 766417

Indice

0. Abstract…………………………………………………………………………………………………………………pag. 05

1. I principi fondativi del progetto………………………………………………………………………………pag. 07

1.1. L’ecologia come cardine per un pensiero olistico

1.2. L’entropia e i limiti del Pianeta

1.3. Il debito ecologico

1.4. La società della crescita

1.5. L’alternativa della decrescita

2. L’inquadramento territoriale……………………………………………………………………………………pag. 19

2.1. Il paesaggio lombardo

2.1.1. Una lettura diacronica

2.1.2. Le diversità e l’identità

2.2. Le unità tipologiche di paesaggio da Lecco a Trezzo

2.2.1. La fascia prealpina

2.2.2. La fascia collinare

2.2.3. La fascia dell’alta pianura

2.3. L’Adda

2.3.1. Il percorso dalla sorgente alla foce

2.3.2. L’ambiente naturale nel medio corso

2.3.3. L’assetto idrogeologico

2.3.4. Il fiume come confine

2.3.5. Il fiume come risorsa

2.3.5.1. La pesca

2.3.5.2. I mulini

2.3.5.3. L’industria serica

2.3.5.4. Il villaggio operaio

2.3.5.5. Le centrali idroelettriche

2.3.6. Attraversare il fiume

2.3.7. Il Parco Adda Nord

2.4. Pontida

2.4.1. La Valle San Martino

2.4.2. Il Monastero di S. Giacomo

3. Il progetto………………………………………………………………………………………………………………pag. 43

3.1. Il sito

3.2. Gli edifici

3.3. Il programma

3.3.1. La strategia

3.3.2. Edificio del mulino

3.3.3. Edificio del fienile

3.3.4. Agricoltura

4. Bibliografia………………………………………………………………………………………………………………pag. 47

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0. ABSTRACT L’input di questo lavoro di tesi è il ragionamento sul significato di ecologia e sulla sua profonda relazione con l’economia; i due termini sono infatti collegati già nella loro etimologia: contengono entrambi il termine greco oikos, casa, ma, se economia unisce la casa ad un insieme di regole, ecologia è riflessione sulla direzione che queste regole devono avere. L’ecologia quindi dovrebbe costituire il pensiero di base dell’economia affinchè le risorse della Terra, casa nel significato più ampio del termine, siano preservate. L’economia si traduce quindi in una forma di gestione del territorio e per questo motivo il tema dell’architettura risulta centrale, in quanto elemento significante della gestione del territorio e di un paesaggio che sia il risultato dell’intreccio delle attività dell’uomo nel rispetto e valorizzazione dell’ambiente. Un risultato, appunto, e non un fine. Il risultato di un diverso rapporto tra l’uomo e la natura. Oggi, a causa della convinzione dell’uomo di essere diventato indipendente dalla natura, questo rapporto si è perso, e con esso una buona economia che, guidata dal pensiero ecologico, sia in grado di produrre buone norme per l’amministrazione del territorio. Il progetto sull’ex Molino dei Frati si propone, attraverso la riqualificazione architettonica e funzionale, di reinserire la struttura all’interno di un’economia locale mirata a rilanciare i rapporti tra città e campagna e a restituire all’agricoltura l’importanza che le spetta in quanto fondamento per la sopravvivenza di una determinata cultura e delle sue peculiari caratteristiche. Per ottenere questo obiettivo si vuole inserire una serie di funzioni che facciano da volano alla diffusione di un diverso modo di vivere l’agricoltura, l’economia e di conseguenza il territorio ma che siano anche compatibili con la natura dell’edificio: azienda agricola biologica, residenza per il gestore dell’azienda, mulino, sede associazioni (g.a.s.), laboratorio di recupero, museo dell’energia con impianto mini-idroelettrico, scuola di pratiche sostenibili e alloggi temporanei per lavoratori stagionali e studenti.

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1. I PRINCIPI FONDATIVI DEL PROGETTO

1.1. L’ecologia come cardine per un pensiero olistico

“Economia ed ecologia hanno un’etimologia simile. Economia è formata da oikos e nomos; ecologia da oikos e logos: oikos in greco vuol dire casa; nomos, criterio di condotta; logos, pensiero razionale. […] Criteri di condotta più casa: l’economia dovrebbe essere l’insieme dei criteri utili a governare la nostra casa e dovrebbe essere guidata da un pensiero razionale che si chiama ecologia. L’economia significa il modo in cui governiamo la nostra casa e, se la pensiamo globale, altro non è che la Terra: se i criteri economici non sono guidati da un pensiero ecologico, non c’è una buona amministrazione della casa.”

Carlo Petrini

Tramite questo ragionamento si comprende che l’economia è una forma di gestione del territorio e delle sue risorse. È per questo che risulta centrale il tema dell’architettura nella sua visione più ampia. Architettura come elemento significante della gestione del territorio, di un paesaggio che sia il risultato dell’intreccio delle attività dell’uomo nel rispetto e valorizzazione dell’ambiente. Un risultato, appunto, e non un fine. Un risultato di un diverso rapporto tra l’uomo e la natura.

“I popoli primitivi hanno considerato la persona come parte dipendente dalla natura, una canna fragile in un duro mondo governato da leggi naturali cui si deve ubbidire per sopravvivere: una necessità che ha portato i popoli primitivi ad acquisire una conoscenza notevole del proprio ambiente. Un boscimano, per esempio, può ritornare sui suoi passi dopo molti mesi e un viaggio di diverse miglia per recuperare un tubero individuato nelle sue precedenti migrazioni qualora, nel corso della stagione secca, non trovi altra fonte di alimentazione idrica. Noi che ci definiamo “popoli progrediti” crediamo di essere sfuggiti a questa sorta di dipendenza ambientale. Il boscimano deve spremere l’acqua dal tubero strappato alla terra, a noi basta girare il rubinetto. Invece di cercare il calore del sole quando lo desideriamo o di ripararcene quando è troppo intenso, ci riscaldiamo e manteniamo una temperatura gradevole con macchine fabbricate con le nostre mani. E così siamo portati a credere di esserci creati il nostro ambiente e di non essere più dipendenti dalla natura. Nella ricerca affannosa dei benefici della scienza e della tecnologia moderna siamo rimasti presi in un’illusione molto pericolosa: che grazie alle macchine siamo potuti sfuggire alla dipendenza dell’ambiente naturale. […] L’ambiente costituisce una macchina vivente, immensa ed enormemente complessa, che forma un sottile strato dinamico sulla superficie terrestre. Ogni attività umana dipende dall’integrità e dal funzionamento adeguato di questa macchina. Senza l’attività fotosintetica delle piante verdi non disporremmo di ossigeno per far funzionare i motori, le fonderie e le fornaci, tanto meno potremmo mandare avanti la vita umana e animale. Senza i processi biologici, che per millenni hanno avuto corso nel terreno, oggi non avremmo né raccolti, né petrolio, né carbone. Questa macchina è il nostro capitale biologico, l’apparato di base da cui dipende tutta la nostra produttività. Se la distruggiamo, anche la nostra

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tecnologia più avanzata risulterà inutile, e vedremo cadere tutti i sistemi economici e politici che dipendono da queste strutture. La crisi ambientale non è che un segno premonitore della catastrofe imminente.”

Barry Commoner Nella convinzione dell’uomo contemporaneo di esserse diventato indipendente dalla natura, di aver conquistato, grazie alla tecnologia, un dominio assoluto sull’ambiente si cela la chiave del fallimento della gestione del territorio, e non solo.

“La convinzione che una revisione del mondo in cui viviamo e pensiamo la Terra sia cruciale venne rafforzata da una giovane donna d’una tribù wampanoag : “Il mio popolo non vi capisce o quantomeno non capisce perché fate le cose che fate. Non capiamo perché cercate ancora di ricavare di più dalla vostra terra. Perché dovete possedere le cose. Perché dovete sempre avere di più”. I suoi occhi si chiusero un po’, mentre cercava il modo giusto di spiegarsi, poi indicò una vicina aiuola fiorita. “Un seme, un fiore, un albero si sviluppa secondo le istruzioni che gli sono state date. Noi abbiamo sempre cercato di vivere secondo le nostre istruzioni. E non comprendiamo le vostre. Come vi sia stato insegnato a vivere. Quali siano le vostre istruzioni.” Può darsi che ce lo siamo dimenticato anche noi: quali sono le nostre istruzioni, come popolo, come cultura? L’osservazione della nostra amica wampanoag ci ricordava curiosamente le parole della poetessa Annie Dillard, quando dice: “Voglio imparare, o ricordare, come vivere”.”

Nancy Jack Todd, John Todd Una concezione del mondo in cui l’uomo, attraverso i miti, la religione, la cultura, sia connesso con la natura nella sua accezione più grande è ormai molto lontana da noi. Un mondo in cui spirito e materia, umanità e natura erano una cosa sola è andato via via scomparendo con l’avvento di una nuova cosmologia. Questa nuova cosmologia divenne dominante nel mondo occidentale durante l’illuminismo. Diventò legittimo oggetto di studio solo quel tipo di conoscenza che poteva essere misurata, resa oggettiva. Cartesio separò e rese indipendenti gli ambiti della mente e della materia. Gli scienziati cominciarono a trattare i loro oggetti di studio come elementi separati dall’ecosfera giungendo alla folle idea dell’obiettività scientifica. Fu Isaac Newton a completare la concezione meccanicista del mondo, utilizzandola come fondamento della fisica classica. “Il compito che mi sono assunto è quello di mostrare come la macchina celeste debba essere assimilata non ad un organismo divino, ma ad un orologio.”

Giovanni Keplero La scienza fu il fondamento di quella tecnologia che andò a cambiare il nostro modo di vivere soprattutto nei confronti della natura. La degradazione ambientale è, infatti, in gran parte il risultato dell’introduzione di nuove tecnologie di produzione industriale e agricola. Queste tecnologie sono ecologicamente dannose perché sono state studiate per risolvere problemi singoli, separati, non calcolando gli effetti collaterali sull’ambiente che nella realtà non è mai isolato dal tessuto ecologico globale. La tecnologia ha questa visione frammentata del mondo a causa del suo fondamento scientifico riduzionista. Il riduzionismo può essere inteso come un’applicazione del cosiddetto “rasoio di Occam” che suggerisce l'inutilità di formulare più teorie di quelle che siano strettamente necessarie per spiegare un dato fenomeno. Se una teoria funziona è inutile aggiungere una nuova ipotesi. Questo modo di pensare non ha influenzato solo il campo delle nuove tecnologie ma ha di fatto cancellato ogni qualsivoglia visione generale

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che tenesse unite le singole scienze. È importante capire che l’ecosfera non può essere separata e ridotta a sistemi lineari causa-effetto poiché in essa esiste un’elaborata rete di interonnessioni individuabili fra i diversi organismi viventi e il relativo ambiente fisico chimico. Il fatto che un ecosistema consti di parti multiple interconnesse, che agiscono l’una sull’altra, ha conseguenze sorprendenti. Per rappresentare il comportamento di un tale sistema prendiamo in prestito un concetto della cibernetica (scienza che studia i fenomeni di autoregolazione dei sistemi sia naturali che artificiali). La parola “cibernetica” venne coniata nel 1948 dal matematico statunitense Norbert Wiener e deriva dalla parola greca Kybernetès che in greco significa “timoniere”. Il timoniere fa parte di un sistema che comprende anche la bussola, il timone e la nave. Se la nave devia dalla rotta stabilita le variazioni vengono rilevate dal movimento dell’ago della bussola. Il timoniere osserva e interpreta questo evento e gira il timone, riportando la nave sulla rotta iniziale. Infine l’ago della bussola torna alla sua posizione iniziale e il ciclo è completo. Se il timoniere dovesse girare troppo il timone in risposta a un piccolo movimento dell’ago, l’eccessivo spostamento della nave si riflette nella bussola, che segnala al timoniere la necessità di correggere la manovra con un movimento opposto. Il funzionamento di questo ciclo ha così stabilizzato la rotta. In un sistema cibernetico la rotta non è mantenuta con un controllo rigido, ma flessibile. La nave segue il suo cammino con un moto ondulatorio che presenta eguali oscillazioni ai due lati della rotta effettiva. Il comportamento dinamico di un sistema dipende dai ritmi delle fasi che lo compongono. L’ago della bussola oscilla in frazioni di secondo; la reazione del timoniere richiede alcuni secondi; la nave aggiusta la propria rotta in un arco di minuti. Questi diversi tempi di reazione si compongono a produrre la frequanza di oscillazione caratteristica della nave lungo la rotta ideale che dovrebbe invece essere dritta. In modo analogo si vengono a creare, in un ciclo ecologico, le reazioni cibernetiche stabilizzanti. I più famosi esempi di variazioni ecologiche sono le oscillazioni periodiche riscontrabili nell’entità delle popolazioni degli animali. Prendiamo come esempio le variazioni di popolazione dei conigli e delle linci descritte da Barry Commoner nel libro “Il cerchio da chiudere”. Quando sono presenti molti conigli, prospera la lince; l’incremento delle linci porta a una crescente cacciagione di conigli, che vengono decimati; la sopravvenuta scarsità di cibo riduce la popolazione delle linci; diminuendo le linci torna a crescere il numero di conigli. E così via. Queste oscillazioni sono incorporate nel funzionamento del ciclo semplice, nel quale la popolazione della lince è correlata positivamente col numero dei conigli, e la popolazione dei conigli è correlata negativamente con il numero delle linci. In un simile sistema oscillatorio semplice c’è sempre il pericolo di un crollo: basta che un’oscillazione crei un livello di squilibri tale che il sistema non lo possa compensare. Supponiamo, ad esempio, che nel corso di una particolare oscillazione del ciclo coniglio-lince, le linci riescano a sterminare tutti i conigli. A questo punto i conigli non sono più in grado di riprodursi. Dal canto loro le linci cominciano a morire di fame e, non essendoci più un corrispondente aumento della popolazione dei conigli, la lince si estingue e collassa tutto il sistema coniglio-lince. Lo stress cui può essere sottoposto un ecosistema prima di giungere al collasso è il risultato dei vari legami interni e della rispettiva velocità di reazione. Più complesso è l’ecosistema, maggiori sono le possibilità di resistenza allo stress. Nel sistema coniglio-lince se la lince disponesse di una fonte alternativa di cibo potrebbe anche sopravvivere a un’improvvisa carenza di conigli. La possibilità quindi di una soluzione alternativa nel procurarsi il cibo aumenta la resistenza di un ecosistema al possibile stress. La maggior parte degli ecosistemi sono così complessi che i cicli non sono semplici percorsi circolari, ma un incrociarsi di ramificazioni che formano una maglia, un tessuto di collegamenti. Come una rete, in cui ogni nodo è collegato agli altri da numerosi fili, questo tessuto può resistere meglio al collasso rispetto a un semplice susseguirsi unico di fili che, se tagliati in un punto, crollano tutti insieme.

“Mantenuto in un opportuno equilibrio. Il ciclo ecologico terrestre è autorinnovabile, almeno nella scala temporale in cui è contenuta la storia dell’uomo. In questa scala può operare e

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sostenere un certo numero di esseri umani, come una delle proprie componenti, più o meno indefinitamente. La civiltà comporta una serie di processi ciclicamente interdipendenti, la maggior parte dei quali hanno una tendenza intrinseca a svilupparsi, tranne uno: le risorse naturali insostituibili, assolutamente essenziali, come i minerali e l’ecosfera. Un urto tra la tendenza a crescere dei settori dipendenti dall’uomo e i limiti ineluttabili del settore naturale del ciclo è perciò inevitabile. È chiaro che se l’attività umana sulla terra - la civiltà - deve restare in armonia con il sistema globale in toto, e sopravvivere, essa deve adattarsi alle esigenze del settore naturale, l’ecosfera. Il deterioramento ambientale è un sintomo del fatto che finora non siamo riusciti a realizzare quest’adattamento fondamentale. Tutto ciò risulta con evidenza dalle conoscenze dell’inquinamento dell’ambiente. L’inquinamento idrico indica che il ciclo di autodepurazione naturale si è spezzato sotto stress. Similmente l’inquinamento atmosferico indica che le attività umane hanno sovraccaricato la capacità di autodepurazione del sistema atmosferico, così che i fenomeni naturali come i venti, la pioggia e la neve non sono più capaci di depurare l’aria. Il deterioramento del suolo indica che il sistema del terreno è stato sovraccaricato e che la sostanza organica, sotto forma di cibo, viene estratta dal ciclo a un ritmo che supera quello di ricostituzione dell’humus.”

Barry Commoner

Risulta necessario, alla luce di quanto appena letto, trovare questo provvidenziale equilibrio tra le attività dell’uomo e il rinnovamento del ciclo ecologico. Per raggiungere questo equilibrio è necessario conoscere l’ambiente in cui si agisce, le sue risorse, le sue caratteristiche climatiche, morfologiche, storiche, biologiche; e si deve riuscire, per dirla alla Commoner, a “chiudere il cerchio” delle attività umane in modo che si integrino con quelle naturali sostenendosi a vicenda.

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1.2. L’entropia e i limiti del Pianeta

Nel 1972 venne pubblicato il libro “The Limits to Growth” (Rapporto sui limiti dello sviluppo), uno studio commissionato dal Club di Roma a un gruppo di scienziati del MIT. Essi programmarono e applicarono il primo modello globale per i calcolatori suggerendo che l’umanità dovesse adattarsi ai limiti fisici del pianeta Terra per evitare il collasso. Il loro studio scosse il mondo attirando un’enorme attenzione anche a causa della contemporanea crisi energetica. Nel 1973, infatti, le nazioni appartenenti all’Opec interruppero il flusso di approvigionamento di petrolio verso le nazioni importatrici. Si diffuse una maggior consapevolezza dell'instabilità del sistema produttivo e cominciarono ad entrare nel vocabolario comune parole come “ecologia” e “risparmio energetico” ma l’essenza del messaggio, cioè la possibilità di una rarefazione di risorse dopo l’anno 2000, rimase tuttavia indigesta alla cultura economica internazionale e prevalse l’idea che lo sviluppo tecnologico avrebbe sopperito a ogni carenza di risorse. È curioso, a questo proposito, leggere le due frasi tratte dai discorsi di insediamento dei presidenti degli Stati Uniti rispettivamente nel 1977 e nel 1984. “Abbiamo imparato che “più” non è necessariamente “meglio” e che anche la nostra nazione deve riconoscere che ci sono dei limiti.”

Jimmy Carter

“Credevamo allora e crediamo oggi che non ci siano limiti alla crescita e al progresso umano quando gli uomini e le donne sono liberi di seguire i propri sogni.”

Ronald Reagan L’intuizione dei limiti fisici della crescita economica trova il suo fondamento scientifico nel secondo principio della termodinamica. Esso può essere enunciato in vari modi, completamente equivalenti, tra cui i più conosciuti sono: - enunciato di Kelvin-Planck: è impossibile realizzare un processo che abbia come unico risultato la trasformazione in lavoro del calore fornito da una sorgente a temperatura uniforme; - enunciato di Clausius: è impossibile realizzare un processo che abbia come unico risultato il trasferimento di una quantità di calore da un corpo ad un altro a temperatura maggiore. Il secondo principio della termodinamica fissa importanti risultati riguardanti le trasformazioni reversibili ed irreversibili. Una trasformazione reversibile non comporta alterazioni permanenti, nel senso che è sempre possibile riportare nello stato iniziale il sistema e l’ambiente che con esso interagisce. Quando avviene una trasformazione irreversibile non è più possibile riportare il sistema allo stato iniziale senza modificare il resto dell’universo. L’entropia del sistema è quella grandezza che rappresenta la variazione di una funzione di stato. Può essere interpretata come una misura del disordine presente in un sistema qualsiasi. L’entropia di un sistema termicamente isolato non può diminuire: essa aumenta se il processo è irreversibile, resta costante se il processo è reversibile. Se consideriamo l'intero universo come un sistema isolato possiamo dire che l'energia totale dell'universo è costante e l'entropia totale è in continuo aumento, fino al raggiungimento di un equilibrio. Ciò significa che non solo non si può né creare né distruggere l'energia, ma non la si può nemmeno trasformare completamente da una forma in un'altra senza che una parte venga dissipata sotto forma di calore. Se prendiamo come esempio la combustione di un pezzo di carbone esso rilascia l’energia contenuta nella materia nell’atmosfera sotto forma di calore. Sebbene nel processo non si sia persa energia, non possiamo invertire il processo di combustione e ricreare il pezzo di carbone originale. Il secondo principio della termodinamica può quindi essere riscritto così: ogni volta che una certa quantità di energia viene convertita da una forma ad un'altra si ha una penalizzazione che consiste nella

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degradazione di una parte dell'energia stessa in forma di calore. Viene chiamata degradazione dell’energia perché questa parte non sarà più utilizzabile per produrre lavoro. Considerato l'intero universo questo significa che la progressiva conversione di lavoro in calore, a fronte di una massa dell'universo finita, porterà ad una condizione di temperatura uniforme; la cosiddetta morte termica dell'Universo. Il primo a individuare le implicazioni bioeconomiche della legge dell’entropia è stato l’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen che nel 1971 pubblicò “The entropy law and the economic process”. Osservò infatti che l’economia, adottando come modello la meccanica classica newtoniana, esclude l’irreversibilità del tempo. Ignorando così l’entropia viene per esempio oscurato il fatto che i rifiuti e l’inquinamento, pur essendo prodotti dall’attività economica, non rientrano nel processo di produzione così come si è andato determinando. Una volta eliminata la terra da questo processo di produzione si è rotto l’ultimo legame con la natura. Sparito dunque ogni riferimento a un qualsiasi substrato biofisico, la produzione economica non appare soggetta ad alcun limite ecologico. Conseguenza: lo spreco irresponsabile di risorse rare. In pratica, il processo economico reale non è un processo puramente meccanico e reversibile; essendo di natura entropica, si svolge in un’ecosfera che funziona all’interno di un tempo unidirezionale. Da ciò discende, per Georgescu Roegen, l’impossibilità di una crescita infinita in un mondo finito e la necessità di sostituire l’economia classica con un’economia che rispetti i principi ecologici.

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1.3. Il debito ecologico

“Dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta.”

Serge Latouche Il 22 agosto 2012 si è festeggiato (per così dire) l’earth overshoot day, abbiamo cioè esaurito tutte le risorse naturali che il nostro pianeta è in grado di riprodurre in un anno. Stiamo consumando più di quello che ci è consentito. L’overshoot day viene calcolato ogni anno dagli scienziati del Global Footprint Network ed è in sostanza il rapporto tra la biocapacità globale (ossia l’ammontare di risorse naturali che la Terra è in grado di generare ogni anno) e l’impronta ecologica (la quantità di risorse e di servizi che richiede l’umanità); il tutto moltiplicato per il numero di giorni dell’anno (365). Il primo Overshoot Day dell’umanità è stato il 19 dicembre 1987, anche se è stato calcolato che il “debito ecologico” è andato accumulandosi dagli anni ’70 dello scorso secolo. L’anno scorso il deficit ecologico è stato raggiunto il 27 settembre ma quest’anno si è riusciti a peggiorare ulteriormente. Questo giorno è inteso come un’indicazione piuttosto che la data esatta ma “mantenere questo andamento implicherebbe una diminuzione del nostro spazio di manovra e metterebbe sempre più a rischio il benessere di molti abitanti del pianeta”, avvertono gli studiosi del Global Footprint Network. Mathis Wackernagel, presidente del Gfn dice: “È come spendere il proprio salario annuale in otto mesi, consumando i risparmi anno dopo anno. Abbastanza in fretta finireste il vostro capitale.” Un'altra conferma che la situazione non sia delle migliori arriva dall'edizione 2012 del Living planet Report del WWF che documenta i cambiamenti avvenuti nella biodiversità e negli ecosistemi dovuti a pressione antropica, consumo di risorse e impronta ecologica. Viene infatti confermato che la domanda umana nei confronti delle risorse del Pianeta eccede la loro reale disponiblità. L’impronta ecologica misura la domanda antropica nei confronti della biosfera, paragonando i consumi umani con la capacità rigenerativa della Terra - la biocapacità: la superficie di territorio realmente disponibile per produrre le risorse rinnovabili e assorbire le emissioni di CO2 prodotte. Sia l’impronta ecologica sia la biocapacità sono espresse in una unità chiamata ettaro globale (gha) - 1 gha rappresenta la biocapacità di 1 ettaro di superficie con la produttività media mondiale. L’Impronta ecologica mostra un trend consistente di sovraconsumo. Nel 2008, la biocapacità totale della Terra ammontava a 12,0 miliardi di gha o 1,8 gha pro capite, mentre l’Impronta ecologica dell’umanità a 18,2 miliardi di gha o 2,7 gha pro capite. La superficie di territorio forestale necessaria all’assorbimento delle emissioni di carbonio (impronta del carbonio) è la componente principale dell’Impronta ecologica (55%). Tale discrepanza indica che ci troviamo in una situazione di “sorpasso dei limiti ecologici”: la Terra impiega un anno e mezzo per rigenerare completamente le risorse rinnovabili che l’umanità utilizza in un solo anno. Invece che vivere degli interessi, stiamo dilapidando il nostro capitale naturale. Se tutti vivessero come gli italiani, avremmo bisogno di 2,5 Pianeti per sostenerci. L’impronta ecologica media pro capite in Italia è di 4,5 gha. Se tutta l’umanità vivesse come l’indonesiamo medio, per rigenerare la domanda antropica annua di risorse verrebbero utilizzati solo due terzi della biocapacità del Pianeta; se vivesse come l’argentino medio, non basterebbe mezzo Pianeta in più; se vivesse come lo statunitense medio, sarebbero necessari 4 Pianeti. Allo scopo di riportare l’impronta ecologica nei limiti di un pianeta è necessario porre alla base di economie, modelli commerciali e stili di vita una realtà fondamentale: il capitale naturale della Terra - la biodiversità, gli ecosistemi e i servizi ecosistemici - è limitato.

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1.4. La società della crescita

“Chi crede che sia possibile una crescita infinita in un mondo finito o è un pazzo o è un economista.”

Kenneth Boulding Dopo aver visto i dati riguardanti la dilapidazione del capitale naturale della Terra viene spontanea una domanda: qual è la causa di un uso tanto irresponsabile delle risorse? La risposta si trova nell’organizzazione della nostra società che ha legato il suo destino all’accumulazione illimitata. Si tratta di un sistema condannato alla crescita. Una crescita che crea crisi ogni qualvolta si fermi o rallenti. Questo perché l’occupazione, le pensioni, tutti i servizi pubblici (dall’istruzione alla sicurezza, dalla sanità ai trasporti) presuppongono l’aumento costante del prodotto interno lordo. Crescere per uscire da una crisi indotta dal sistema stesso della crescita. Lavorare di più, per produrre di più, per consumare di più. Come nella cosiddetta “sindrome del rasoio” descritta da Georgescu-Roegen che consiste nel radersi più in fretta per avere più tempo per lavorare a una macchina che rada più in fretta per poi avere più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più in fretta, e così via, ad infinitum. Dobbiamo aprire gli occhi e capire che un elemento fondamentale per una buona vita è una quantità considerevole di tempo libero trascorso in modo intelligente. “La crescita; ma siamo sicuri che il progresso dev’essere solo crescita? O non sarebbe molto meglio arrivare ad una situazione in cui abbiamo poco ma il giusto e tutti un po’ di più invece che pochi tantissimo e tantissimi poco? Voglio dire, se ci rimettiamo a pensare ciò di cui veramente abbiamo bisogno, non è quello che l’economia di oggi ci da. Oggi l’economia è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose, per lo più inutili, che costringono altri a lavorare a ritmi spaventosi per poterle comprare. Perché questo è ciò che da soldi alle società, alle multinazionali, alle grandi aziende ma non da felicità alla gente. Io trovo che ci sia una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola felice ed è: “contento”. Accontentarsi, un uomo che si accontenta è un uomo felice. Perché questo sistema fondato sulla crescita dei desideri, rende tutti infelici.”

Tiziano Terzani

Quali sono dunque i motori che permettono alla società dei consumi di mantenere attivo questo circolo vizioso? La pubblicità, il profitto a tutti i costi e l’obsolescenza accelerata dei prodotti. 1- La pubblicità fa desiderare quello che non abbiamo e disprezzare quello che abbiamo. Essa crea nelle persone uno stato di insoddisfazione perenne che induce al consumo. Un sondaggio americano dice che l’85% dei presidenti delle grandi imprese dichiara che la pubblicità convince spesso le persone a comprare cose di cui non hanno bisogno e il 51% addirittura dice che convince a comprare cose non veramente desiderate. La pubblicità costituisce il secondo bilancio mondiale dopo gli armamenti ed è incredibilmente vorace: si impadronisce degli spazi pubblici, invade città, strade, mezzi di trasporto, spezzetta le trasmissioni televisive bersagliando soprattutto i bambini che sono i bersagli più deboli. Oltre al danno c’è poi la beffa dato che alla fine sono i consumatori stessi a pagare; 500 euro all’anno ciascuno. 2- Il profitto a tutti i costi diventa l’unico criterio che guida le decisioni circa gli investimenti. Il fattore economico che lega il profitto con la tecnologia è la produttività, che viene definita come prodotto emesso per ogni unità di lavoro immessa. Il perché nel corso della storia dell’ultimo secolo le tecnologie fortemente inquinanti abbiano spesso sostituito quelle a basso impatto ambientale è facilmente dimostrabile. Prendiamo come esempio la sostituzione del sapone (basso impatto ambientale) con i detersivi sintetici (dannosi per l’ambiente). Nel 1947, quando

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l’industria sostanzialmente non produceva detersivi, il profitto fu il 31% delle vendite. Nel 1967, qunando l’industria produsse circa il 30% di sapone e il 70% di detersivi, il profitto fu del 47%. Ciò spiega perché il sapone sia stato sopraffatto sul mercato dai detersivi nonostante non ci sia una predominanza tecnica di questi ultimi. Tutto questo ha portato benefici a chi ha investito i capitali, non alla società. Un altro esempio lo si trova nel settore automobilistico. L’introduzione di una vettura a ridotto impatto ambientale, che per forza di cose dovrebbe avere un motore a bassa potenza e un minor peso complessivo, comporterebbe l’abbassamento dei prezzi. Darebbe quindi un minor profitto rispetto ad un veicolo più grande, più potente e più inquinante. Come disse Henry Ford II: “le minivetture danno miniprofitti”. E ancora nelle costruzioni: acciaio e legname sono stati sempre più sostituiti dall’alluminio, dal cemento e dalla plastica. Nel 1969 i profitti della produzione dell’acciaio e del legname furono rispettivamente del 12,5% e del 15,4% mentre i prodotti che ne presero il posto diedero profitti maggiori: cemento 37,4%, alluminio 25,7%, plastiche e resine 21,4%. Nel trasporto delle merci l’autocarro (impatto ambientale intensivo) venne preferito alla ferrovia (impatto ambientale relativo). Anche in questo caso, la sostituzione di tecnologie dall’impatto ambientale relativamente scarso con altre caratterizzate da un impatto ambientale più intenso, è associata a un aumento di remuneratività e non a una predominanza tecnica. Il problema di questo tipo di economia (caratterizzata dall’incremento della produttività ad ogni costo per massimizzare il profitto) è che i costi della degradazione ambientale sono principalmente sopportati dalla società. 3 - L’obsolescenza accelerata dei prodotti è il tassello finale che chiude il circolo vizioso della società del iperconsumismo. Gli oggetti nuovi si rompono sempre più repentinamente e una volta rotti è impossibile trovare dei pezzi di ricambio, la riparazione in ogni caso costerebbe più che comprarne di nuovi. Così enormi quantità di cellulari, televisori, frigoriferi, lavastoviglie, computer intasano le discariche con vari pericoli di inquinamento. Una società di questo tipo non può sopravvivere a lungo se distrugge il bene sociale da cui dipende: l’ecosfera. Quindi un sistema economico basato esclusivamente sulla ricerca del profitto anziché sul benessere sociale non è adeguato ad amministrare questo bene sociale vitale. Diventa quindi necessario cambiare il sistema. La lezione della crisi ambientale è chiara. Se vogliamo sopravvivere, le considerazioni ecologiche devono guidare quelle economiche e politiche.

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1.5. L’alternativa della decrescita

“Per vivere meglio, si tratta ormai di produrre e di consumare diversamente, di fare meglio e di più con meno, eliminando anzitutto le fonti di spreco (esempio: gli imballaggi a perdere, il cattivo isolamento termico, la preminenza del trasporto su gomma ecc.) e aumantando la durata dei prodotti.”

André Gorz Se presupponiamo che la crescita produca automaticamente benessere, ormai dovremmo vivere in una situazione di enorme ricchezza. Invece ci troviamo immersi in una situazione di crisi senza precedenti. Prendiamo allora la lezione della lumaca, spiegata da Ivan Illich: “La lumaca costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più grande. Invece di contribuire al benessere dell’animale, lo graverebbe di un peso eccessivo. A quel punto, qualsiasi aumento della sua produttività servirebbe unicamente a rimediare alle difficoltà create da una dimensione del guscio superiore ai limiti fissati dalla sua finalità. Superato il punto limite dell’ingrandimento delle spire, i problemi della crescita eccessiva si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca può seguire soltanto, nel migliore dei casi, una progressione aritmetica.” Questo aneddoto sul divorzio della lumaca dalla ragione geometrica della sua crescita viene utilizzato da Serge Latouche per mostrare la via per ripensare una società della decrescita, possibilmente serena e conviviale. Potrebbe sembrare una piccolezza o un caso ma non è così. Importantissimo è il riferimento alla natura come maestra. L’ecologia è qui interpretata come una scienza alle cui leggi l’uomo deve sottostare. Notevole è il cambio d’impostazione rispetto a una società basata sui consumi che, come abbiamo visto, continua a ignorare i limiti del nostro Pianeta e dove l’ecosfera viene vista come una fonte di risorse da sfruttare a favore del predominio dell’uomo sulla natura stessa. “Concetto di merce e concetto di bene sono diversi, anche se noi tendiamo ad unificarli perché da alcune generazioni siamo abituati a comprare tutto ciò che ci serve. In realtà le merci sono oggetti o servizi che si comprano, che si scambiano con denaro. I beni sono oggetti o servizi che rispondono a un bisogno. Esistono dei beni che non sono merci e delle merci che non sono beni. Questo è il punto fondamentale da capire.”

M. Pallante La “società della decrescita” presuppone l’attivazione di circoli virtuosi che tendono a ridurre il saccheggio dell’ecosfera da parte dell’uomo, cosa che non può che condurci ad un miglior modo di vivere. Questo processo secondo Latouche può essere sintetizzato in otto obiettivi interdipendenti, le 8 R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. - Rivalutare. Attuare una revisione critica dei valori in cui crediamo e in base ai quali conduciamo la nostra vita. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. È necessario soprattutto passare dalla fede nel dominio sulla natura alla ricerca di un’armonizzazione della società nel mondo naturale. - Riconcettualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza. L’economia attuale altera i concetti di abbondanza e scarsità naturale, creando

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artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione. - Ristrutturare. Adeguare, in funzione del cambiamento dei valori, le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. - Rilocalizzare. Produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione. Inoltre, se le idee devono ignorare le frontiere, i movimenti di merci e capitali devono invece essere ridotti al minimo, evitando i costi legati ai trasporti. - Ridistribuire. Garantire, a tutti gli abitanti del Pianeta, l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. - Ridurre. Sia l’impatto sull’ecosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. - Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”. - Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.

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2. L’INQUADRAMENTO TERRITORIALE

2.1. Il paesaggio lombardo

2.1.1. Una lettura diacronica

In estrema sintesi si possono indicare alcune principali stratificazioni storicocuturali che hanno segnato il paesaggio lombardo nell’insieme della regione: II sec. a.C. - VII sec. d.C. L’epoca romana a cui va ricondotta la trama di base della territorializzazione (strade lungo le direttrici principali e sugli assi della centuriazione, centri urbani divenuti i centri focali dei successivi sviluppi). VII - X sec. L’età altomedievale legata alla valorizzazione territoriale operata dalle organizzazioni monastiche ed imperiali (centri monastici e monumenti legati alla prima cristianizzazione, borghi di nuova colonizzazione, fortilizi, prima apparizione delle colture iemali accanto ai fontanili, ecc.). X - XI sec. L’età altomedievale dominata dalle comunità rurali con gli insediamenti imperniati intorno alle pievi romaniche o addossati ai castelli; taluni di tali insediamenti divengono spesso, in funzione mercantile, i centri maggiori, distribuiti nel territorio in modi equidistanti ed equilibrati. XI - XIII sec. Il dominio comunale con il tessuto dei centri che portano alla completa occupazione del territorio lombardo, ai primi importanti rapporti tra montagna e pianura, alla crescita dei maggiori centri urbani, tra cui un ruolo dominante assume Milano, che si dota tra l’altro di un canale (Naviglio Grande) derivato dal Ticino. XIV - XV sec. La prima affermazione del dominio signorile, rapportata alla crescita gerarchica di Milano, cui seguirà l’ampliamento dei domini dei Visconti (con la costruzione di opere di difesa); estensione del sistema irrigatorio e organizzazione agricola in funzione del regime feudale-signorile della proprietà (mezzadria, affittanza). XV - XVI sec. La riduzione del dominio milanese degli Sforza sotto la pressione della Serenissima, che introduce il suo stile nei territori occupati con la mediazione del ceto nobile e il controllo delle comunità locali a cui però sono concesse larghe autonomie perchè ritenute preziose dal punto di vista economico (sfruttando giacimenti minerari, foreste, ecc.); in pianura si estende ulteriormente il sistema irrigatorio.

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XVI - XVII sec. Il dominio spagnolo, con l’organizzazione della vita regionale in mano al potere nobiliare che non produce molti avanzamenti, benchè la montagna continui a sviluppare le sue particolari forme di produzione e l’agricoltura commerciale ad estendere l’organizzazione basata sulla grande azienda nella bassa pianura, mentre nell’alta pianura inizia un processo di frammentazione delle proprietà in mano ai locali. L’azione dei Borromeo in chiave antiriformista riempirà la Lombardia di chiese barocche. XVIII sec. Il dominio asburgico attiva l’economia lombarda in senso commerciale incentivando gli scambi tra montagna e pianura e la stessa vita urbana lievita; si moltiplicano le iniziative paleo-industriali nelle vallate e nelle campagne continuano i processi di modernizzazione dell’agricoltura in senso commerciale con la costruzione di cascine funzionali e di nuovi canali, con miglioramenti della rete stradale, con servizi di trasporti (primi piroscafi sui laghi, prime linee ferroviarie, ecc.). prima metà del XIX sec. La breve parentesi napoleonica con interventi di notevole incisione sul territorio, riorganizzazione della vita comunale nelle campagne e in montagna, apertura di nuove strade, mutamenti nel regime della proprietà e connesse trasformazioni nella produzione. metà del XIX sec. Ancora il dominio asburgico attivatore di nuove forme di modernizzazione, poi guerre risorgimentali e unificazione nazionale con affermazione di Milano come unica vera città europea d’Italia; ulteriori ammodernamenti della vita nelle campagne ma crisi soprattutto in quelle dell’alta pianura, dove crescono i borghi ma non le risorse. Comincia a imporsi sempre più l’industria come fattore della vita economica, in funzione della crescita urbana (di Milano e altre città italiane). La rete ferroviaria nazionale assume come suo centro nodale Milano; lo stile industriale introduce nel paesaggio i suoi caratteristici manufatti in ferro. ultimi decenni del XIX sec. Milano inventa funzioni nuove, assume il ruolo di capitale economica d’Italia e di principale polo del Triangolo industriale; essa diffonde in tutta la Lombardia i suoi impulsi e si ingrandisce a causa anche delle forti immigrazioni dalle campagne non solo lombarde; crescono anche le città medie di Como, capitale dell’industria tessile, Bergamo e Brescia con i loro distretti industriali; sui laghi la ricca borghesia industriale crea le proprie residenze, status symbol e asili di vacanza. prima metà del XX sec. I primi decenni di questo secolo in cui lo stato nazionale protegge la grande industria che ha nel Triangolo industriale le sue basi principali; la Lombardia si industrializza, Milano assume dimensioni di metropoli; l’organizzazione capitalista dell’agricoltura nella bassa pianura (centrata sulla grande azienda) contrasta con l’impoverimento agricolo dell’alta pianura dove la popolazione passa a lavorare nelle fabbriche; in montagna si moltiplicano le centrali idroelettriche e nascono le prime residenze di soggiorno estivo e i primi centri sciistici; l’automobile si diffonde, vengono costruite le prime autostrade. seconda metà del XX sec. Con l’ultimo dopoguerra, dopo gli eventi bellici che recano danni a Milano e alle altre città, il capoluogo lombardo risorge a nuova vita, diventa il primo centro di spinta del cosiddetto miracolo economico, si ingrandisce e accoglie schiere di immigrati dal Sud e dal Veneto, nelle

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campagne l’organizzazione agricola crolla, le cascine si spopolano, la motorizzazione prende il sopravvento; in montagna la cultura montanara viene aggredita da nuovi modelli di vita e di produzione; molti centri accolgono il proliferare di seconde case come forme di investimento della piccola e media borghesia in crescita nelle città e nei piccoli centri, i quali attraggono sempre nuove iniziative industriali. Tutto ciò grazie al petrolio che rappresenta una forma di energia di basso costo che consente una mobilità impensata, in funzione della quale si moltiplicano strade e autostrade, e il diffondersi di iniziative industriali nelle campagne. ultimi decenni del XX sec. Le recenti dinamiche di sviluppo economico insediativo con l’eccessiva crescita metropolitana a macchia d’olio, che fa di Milano una città prigioniera delle sue stesse fortune, suscitando la sua ulteriore espansione come fuga dall’intasamento centripeto; si ha una ulteriore deflagrazione della città diffusa che investe le colline brianzole e gli spazi agrari intorno alla città ed oltre; la bassa pianura fa da corona alla metropoli con appendici vagamente assimilabili a delle New-Town nostrane; l’amministrazione pubblica non riesce a controllare lo sviluppo ma l’istituzione regionale dei parchi fluviali e degli altri parchi in ambito alpino e prealpino segna l’inizio di una riconsiderazione dei problemi territoriali e di un’attenzione al paesaggio, mai prima d’ora entrato nelle politiche di pianificazione e di gestione del territorio. (Regione Lombardia, Piano Territoriale Regionale della Lombardia - Piano Paesaggistico, 2010)

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2.1.2. Le diversità e l’identità

La struttura fisica della Lombardia è basata su elementi forti, di grande evidenza in grado di generare profonde differenziazioni di ambiti. È propiro questa diversificazione a creare il carattere unitario del disegno naturale della regione organizzato su spazi montuosi e pianeggianti tra loro interconnessi, complementari e inseriti nel più ampio sistema padano-alpino. Lo stretto rapportarsi della pianura con la montagna attraverso un legame dinamico, storico e geologico si esprime distintamente nel rapporto idrografico tra le due. Nell’articolazione dello spazio regionale i bacini idrografici fungono da unità elementari omnicomprensive. Queste caratteristiche della struttura fisica hanno dettato le linee della geografia antropica che ha infatti i suoi fondamenti proprio nei rapporti tra montagna e pianura, rapporti dotati di una forza generatrice di vita economica, sociale, culturale, che notoriamente si nutre della diversità delle risorse, degli uomini e delle iniziative. In un’analisi territoriale le forme fisiche del paesaggio hanno un doppio valore, sia come elementi visivi, percettivi, sia come fattori naturali che hanno storicamente guidato le modalità insediative di un territorio. In questo senso la Lombardia ha sempre avuto un’organizzazione territoriale aderente al disegno naturale. I fiumi rivelano per primi l’adesione dell’intervento umano alla natura, sono delle vere e proprie linee di forza che attraversano il territorio unificandolo grazie alla propria peculiarità di linee di vita, direttrici di traffico, fonti idriche, capitali energetici, ecc. “La storia della nostra regione è essenzialmente una storia di acque, di canali navigabili, irrigui, scolmatori, di rogge” scriveva Carlo Cattaneo nel 1844, e ancora: “Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani […] abbiamo preso le acque dagli alvei dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle aride lande.” Questa testimonianza esemplifica come l’intera ricchezza della regione poggiava su un rapporto proficuo tra uomo e natura, si fondava infatti sia sulle forme d’uso più dirette di uno spazio naturale ricco di potenzialità (ambiti naturali molto vari, condizioni favorevoli di clima, piovosità, abbondanza di acque correnti, suoli fertili…), sia sulle capacità e l’impegno degli uomini nel mantenere il territorio, sempre Cattaneo definiva difatti il paesaggio lombardo come “un deposito di fatiche”. Il carattere naturale in Lombardia ha sempre avuto una forza di dettato che solo nella storia recente è stata sovrastata dalle nuove forme insediative, creando spesso forti discrasie tra uomo e natura. Gli accrescimenti urbani verificatisi nella seconda metà del XX secolo e ancora negli ultimi anni hanno spesso distrutto il paesaggio che il contesto esprimeva e nel quale le popolazioni del passato trovavano i motivi della propria appartenenza e della propria identità locale. Una spaventosa omogenizzazione culturale sta investendo il territorio lombardo mettendo a rischio proprio quella sua ricchezza di diversità. È tuttavia ancora possibile trovare luoghi e contesti che con le loro vecchie strutture (case rurali, borghi d’origine medievale, antiche sistemazioni agrarie, ecc.), sia pure carenti o dismesse custodiscono molti elementi in grado di riflettere le specificità del paesaggio lombardo. Un paesaggio dotato di un carattere unitario che nasce dal modo di utilizzare le risorse in modi semplici, razionali, pragmatici e tramite un’antropizzazione dello stesso mai incontrollata, traumatica. Un paesaggio in cui l’uomo è sempre stato abituato a lavorare in spazi ordinati, puliti, geometrizzati, spazi che racchiudono il segno distintivo dell’opera umana nella natura. Un segno che è rappresentato, per esempio, dagli elementi rettilinei delle campagne: le piantate, i viali, i canali irrigatori, ecc.

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È questa esperienza creatrice di paesaggio come rispecchiamento si sé e del proprio agire che viene oggi a mancare con la conseguente distruzione di memorie e luoghi della memoria portando fino alla produzione di paesaggi indifferenti che portano al loro interno la discrasia tra cultura e natura.

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2.2. Le unità tipologiche di paesaggio da Lecco a Trezzo

2.2.1. Fascia prealpina

Oltre la fascia emergente dell’edificio alpino inizia la sezione prealpina: un territorio ampio, pari a circa un quarto della superficie regionale, che si salda a nord con i massicci cristallini delle Alpi. La sezione prealpina lombarda è sostanzialmente formata da strutture sedimentarie, se si escludono le “finestre” di affioramento dello zoccolo paleozoico, cristallino, corrispondente alle Alpi Orobiche, all’alto Bresciano ad ovest della linea delle Giudicarie e a sud dell’Adamello. Questo massiccio è formato da un’unica massa intrusiva (tonalite) di graniti che costituisce una specie di bastione dell’intera fascia lombarda. Le valli che penetrano le diverse masse montuose sono tutte fortemente incise, considerata la forte energia del rilievo delle zone più interne. Hanno sviluppo meridiano e presentano il tipico modellamento glaciale, sostenuto a suo tempo dalla grande capacità di alimentazione dei bacini vallivi interni interessati da transfluenze e confluenze varie. Un insigne geologo lombardo, Torquato Taramelli, lasciò una sintetica ma efficace descrizione di questo paesaggio: “Vorrei possedere la penna del Manzoni per esprimere la poesia di questo paesaggio così selvaggio e domestico a un tempo, dove si alternano con delicatezza le movenze più svariate dei pendii e si succedono le vette e si sovrappongono i piani di vista e si alternano le ombre e si addensano i boschi e si estendono i pascoli in quella giusta misura che appaga l‟occhio e ricrea lo spirito senza opprimerlo. Per poco che noi vogliamo esaminare la geologia delle Prealpi, potremo facilmente renderci conto di questa varietà di paesaggio e del carattere che questo acquista in ciascuna valle o parte di essa; basta fissare nella mente qualche corrispondenza fra la natura del paesaggio e la qualifica della roccia che lo determina. Così se si tratta di calcari magnesiaci o dolomitici, i monti che ne sono formati hanno le vette a guglia con versanti nudi, con burroni, con stratificazioni grandiose, di colorito cinereo o giallo chiaro, con frane abbondanti ma coperte dalla vegetazione. Se invece sono montagne di calcari puri o leggermente marnosi, abbiamo quell’altro aspetto a contorni meno aspri, però abbastanza mossi, a larghi festoni, a lunghi crinali, a valli profonde ma in ogni senso accessibili e boscose. Se invece si tratta di terreni scistosi o marnosi o arenacei, ecco i rilievi farsi morbidi e le valli frastagliarsi e la vegetazione addensarsi ed estendersi i pascoli e spesseggiare gli abitati e divenire insomma il paesaggio più familiare e più ameno.” È tuttavia la formazione dei laghi, dovuta ai materiali di costipazione e di sbarramento depositati dai ghiacciai pleistocenici, a rappresentare l’episodio più marcato della Lombardia prealpina. Essi introducono l’eccezionalità nel paesaggio, un’eccezionalità che si misura nei condizionamenti che questi bacini impongono alla penetrazione verso gli alti bacini vallivi, nell’amenità del paesaggio lacustre, nelle condizioni climatiche che le masse d’acqua inducono nell’ambiente locale, reso manifesto soprattutto nella vegetazione. Un abito vegetale le cui specificità furono suggellate dai botanici denominando Insubria la regione dei laghi lombardi. Qui si trovano specie mediterranee (come il leccio che si arrampica sui versanti rupestri del Garda), per non parlare delle piante coltivate, come l’olivo, e delle piante esotiche che ornano parchi e giardini delle ville dei borghesi qui attratti nelle fasi delle loro affermazioni finanziarie (nel periodo della dominazione veneta il ceto possidente patrizio, in epoca ottocentesca la borghesia industriale, oggi il ceto professionale e la media borghesia). Fra i solchi che penetrano verso l’interno delle Alpi, i laghi inducono una discriminazione netta anche dal punto di vista antropico. Benchè sui versanti dei monti che vi prospettano si ritrovi un’organizzazione di tipo alpino non tanto diversa da quella che si ha nelle valli (organizzazione in senso altitudinale basata sullo sfruttamento del bosco e del pascolo d’alta quota), sulle rive lacustri si riscontra altresì un paesaggio del tutto

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particolare. Esso ha i suoi fulcri territoriali nei vecchi borghi posti sui conoidi di sponda o sui terrazzi; in passato la popolazione viveva sia utilizzando le risorse del lago (facendosi pescatori) sia le risorse della montagna sovrastante (bosco, pascoli, ecc.), ma oggi basano la loro economia sulla monocoltura turistica. In conseguenza di ciò sono avvenute trasformazioni profonde: residences, alberghi, seconde case sono sorti lungo lago, intorno ai vecchi borghi e alle ville della borghesia industriale del secolo scorso, ed anche a una quota superiore, sui versanti, non sono mancate le manomissioni. L’industrializzazione, riconvertendo l’economia delle valli lombarde a partire dal secolo scorso, si è insediata anche sulle sponde dei laghi. Gli esempi non mancano, com’è il caso delle cartiere di Toscolano e del cotonificio di Campione del Garda, della cantieristica di Sarnico sul lago d’Iseo, dell’industria della moto a Mandello Lario, ecc. Le industrie prealpine però si trovano addensate anche e soprattutto in altre aree, in particolare nelle valli bergamasche Brembana e Seriana e poi nelle valli bresciane del Chiese e del Mella oltre che in Valcamonica. Qui l’impulso industriale è stato fortissimo e derivò da iniziative endogene, con radici di antica origine, che risalgono addirittura alla stessa manualità preistorica in grado di produrre in Val Camonica lo straordinario tesoro delle incisioni rupestri. Industrie tessili e industrie metallurgiche, con spiccate aree di specializzazione e sottospecializzazione (setificio, cotonificio, lanificio nel primo caso, armi da fuoco, coltelleria, tondino di ferro per l’edilizia nel secondo caso) sono alla base di un paesaggio vallivo a suo modo unico per la densità della dimensione urbanizzata e per i modi disordinati con cui essa si è esplicitata. Paesaggio dell’abbondanza, del dinamismo valligiano che però contrasta con quello montanaro che si ritrova alle quote superiori, sugli alti versanti e sulle dorsali intervallive, dove sopravvivono residualmente i generi di vita tradizionali, sia pure integrati dal pendolarismo di manodopera verso le industrie di fondovalle. Un’altra attività che incide sul paesaggio prealpino è quella estrattiva, che nelle Prealpi bergamasche e bresciane ha uno dei suoi più importanti distretti. Superiormente si trovano le montagne-scenario della fascia prealpina, i massicci calcareodolomitici che troneggiano alti, formano gli sfondi imprescindibili, sacralizzati, del paesaggio lombardo (così li rappresentò anche Leonardo da Vinci, sfondi rupestri, sfondi di sogno, alti sopra il turbinìo vitale della pianura). Sono i massicci che ogni lombardo conosce, alcuni visibili nei giorni di “fohn” persino da Milano: come le Grigne, il Resegone, ecc.; e poi internamente la Presolana, la Concarena, ecc. Montagne che rappresentano la naturalità della Lombardia, anche se frequentate da un escursionismo estivo e domenicale che va considerato un po’ come una fuga delle popolazioni dal caos della megalopoli padana. L’aggressione edilizia ha intaccato alla loro base queste montagne in modi stridenti: seconde case si sono inserite in ogni angolo, alla ricerca di panoramicità e isolamento, anche se prevalentemente appoggiandosi ai vecchi centri dotati di servizi (vedi in questo caso alcuni centri della Valsassina). Alle quote superiori le vecchie sedi d‟alpeggio sono diventate lo spazio dell’escursionismo estivo e degli sport della neve. Nelle testate delle valli Brembana e Seriana sono sorti frequentati centri sciistici ed in funzione di ciò ecco la nascita delle nuove “città di montagna”, simili a trapianti urbani, emanazioni comunque della forza irradiante di Milano e degli altri centri dell’alta pianura e delle sue appendici vallive (Foppolo, Presolana, Monte Campione, Monte Pora, Valbondione, ecc.). Una complementarità di usi territoriali che ha trovato i suoi assestamenti spontanei, con tutte le storture e gli adattamenti connessi, non governata secondo un disegno organico. L’istituzione recente dei parchi di Campo dei Fiori, delle Orobie e dell’Alto Garda, a cui si aggiungerà in futuro quello delle Grigne, riconosce l’importanza di queste aree di natura in un ambito regionale per il resto così profondamente antropizzato. In altro modo si realizza così quel rapporto tra pianura e montagna che condiziona da sempre gli usi territoriali della Lombardia.

2.2.2. Fascia collinare

Le colline che si elevano subito sopra l’alta pianura e le ondulazioni moreniche costituiscono un importante benché ristretto ambito del paesaggio lombardo. Esse hanno anzitutto un elevato

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grado di visibilità, in quanto sono i primi scenari che appaiono a chi percorra le importanti direttrici, stradali o ferroviarie, pedemontane. Formate da rocce carbonatiche, rappresentano morfologicamente il primo gradino della sezione montagnosa della Lombardia. I loro ammanti boschivi sono esigui (ma oggi c’è dappertutto una ripresa del bosco); sono invece occupate, soprattutto nelle pendici esposte a sud, da campi terrazzati, dove si coltiva il vigneto. Sono dominate dalla piccola proprietà e dalla proprietà cittadina organizzata in poderi un tempo condotti a mezzadria. A ciò si collegano le case sparse e i borghi situati ai loro piedi. Specie in vicinanza delle città di Bergamo e Brescia il paesaggio collinare appare tutto segnato dal gusto urbano, con orti, giardini, ville della borghesia che si è annessa i territori collinari a partire dalla fine del secolo scorso. Un altro assalto hanno subito negli ultimi decenni, sebbene esso sia stato relativamente ben contenuto, almeno nella collina di Bergamo e Brescia. L’industria si è inserita anche qui, occupando ogni spazio possibile, intorno ai centri abitati, trascinando con sè tutti gli elementi che caratterizzano il paesaggio metropolitano. Gravi danni ha inferto al paesaggio l’attività estrattiva, che sfrutta le formazioni calcaree di questi primi rialzi prealpini sia per l’industria del cemento sia per quella del marmo: grandi cave si aprono sia nelle colline bergamasche sia soprattutto in quelle bresciane, dove ci sono i materiali migliori: esse sono visibili a grande distanza e appaiono come ferite non facili da rimarginare in tempi brevi.

2.2.3. Fascia dell’alta pianura

Il paesaggio dell’alta pianura è stato quello più intensamente coinvolto nei processi evolutivi del territorio lombardo. È un paesaggio costruito, edificato per larghissima misura, che si caratterizza per la ripetitività anonima degli artefatti, peraltro molto vari e complessi. Questi si strutturano intorno alle nuove polarità del tessuto territoriale: i grandi supermercati, le oasi sportive e di evasione, gli stabilimenti industriali, le nuove sedi terziarie, i nuovi centri residenziali formati da blocchi di condomini o di casette a schiera e, in alcune zone più vicine alla città, vere e proprie unità insediative tipo “new town” (come Milano 2). La visualizzazione paesistica ha, come motivo ricorrente, come iconema di base il capannone industriale accanto al blocco edilizio residenziale, e poi lo spazio deposito, lo spazio pattumiera richiesti dalla gigantesca attività metropolitana. Però nel vissuto locale i sub-poli, le vere centralità dopo Milano (imperniata su Piazza del Duomo e vie adiacenti del nucleo storico di fondazione romana), sono rimasti i vecchi centri comunali, permanenze più meno riconoscibili, affogati dentro i blocchi residenziali nuovi, del tessuto rurale ottocentesco. Sono i riferimenti storici con la chiesa parrocchiale, le corti, le piazze paesane, le osterie trasformate in bar, della cintura o areola milanese. L’alta pianura, benchè ormai appaia come unico grande mare edilizio, impressionante quando lo si sorvola lungo i corridoi aerei, è ancora nettamente organizzata intorno alle vecchie strutture, i centri che si snodano sulle direttrici che portano alle città pedemontane. Esse, in passato, soprattutto Bergamo, Brescia e Como, hanno sempre avuto una loro autonoma capacità gestionale, una loro forza urbana capace di promuovere attività e territorializzazioni loro proprie, come rivela la stessa ricchezza monumentale dei loro nuclei storici, nei quali appaiono consistenti i richiami al periodo della dominazione veneziana. La geografia fisica dell’alta pianura è imperniata sui corsi fluviali che scendono dalla fascia alpina. Essi attraversano l’area delle colline moreniche poste allo sbocco delle valli maggiori e scorrono incassati tra i terrazzi pleistocenici. I loro solchi di approfondimento rappresentano perciò un impedimento alle comunicazioni in senso longitudinale. L’industrializzazione della Lombardia ha dovuto fare i conti con questo accidente fisico, e proprio nella realizzazione dei ponti, all’epoca delle costruzioni ferroviarie essa ha trovato modo di esprimere il suo “stile” nel paesaggio. I solchi fluviali, anche minori, hanno funzionato da assi di industrializzazione ed è lungo di essi che ancora si trovano i maggiori e più vecchi addensamenti industriali (valle dell’Olona, valle del Lambro, valle dell’Adda, valle del Serio, mentre è stato meno intenso il fenomeno lungo il Ticino e l’Oglio). In alcuni casi permangono ancora i vecchi opifici che rimandano alla prima fase

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dell’industrializzazione e che oggi si propongono come testimonianze di “archeologia industriale”. La maggiore irradiazione industriale si ha lungo l’Olona dove, corrispondentemente, si trova anche la maggior appendice metropolitana insieme con quella dell’area Sesto-Monza attratta dal Lambro. Il grado di urbanizzazione si attenua procedendo verso nord, con l’ampliarsi del ventaglio di strade in partenza da Milano. Si riconosce sempre più la tessitura territoriale di un tempo, assestata su strade prevalentemente meridiane o sub-meridiane che corrono al centro delle aree interfluviali, le lievissime indorsature tra fiume e fiume che formano l’alta pianura, la quale nella sezione centro-orientale è movimentata dalle formazioni collinari della Brianza. La rete delle strade ha una maglia regolare a cui si conforma la struttura dei centri, di modo che l’impressione generale, percepibile anche viaggiandovi dentro, è quella di una maglia di elementi quadrati o rettangolari che “cerca” Milano e il sud attraverso le sue principali direttrici stradali. Ma il paesaggio di recente formazione, percepibile attraverso la forma e il colore degli edifici (il cotto sostituito al cemento, i coppi dei tetti sostituiti da coperture di fabbricazione industriale), affoga in un’unica crosta indistinta le vecchie polarità formate dai centri rurali (che il Biasutti all’inizio del secolo aveva definito come aggregati di corti contadine) nei quali si inseriscono spesso le vecchie ville padronali. Indicate invariabilmente dai boschetti dei parchi, esse rappresentano l’emanazione urbana, signorile o borghese, dei secoli passati, quindi oggetti di particolare significato storico e culturale. Il paesaggio agrario ha conservato solo residualmente i connotati di un tempo. Persiste la piccola proprietà contadina, risultato delle frammentazioni del passato, sia la media proprietà borghese. La ristrutturazione in senso moderno dell’agricoltura, non vi è stata anche a causa del ruolo secondario dell’attività rispetto all’industria, che è dominante e impone ovunque, anche tra i colli e le vallecole della Brianza, il suo elemento caratteristico, il capannone, togliendo molti dei caratteri di amenità a questo paesaggio già dolcissimo e celebrato dall’arte e dalla letteratura. La conduzione dei campi è fatta spesso part-time da lavoratori dell’industria che hanno rinunciato alla proprietà avita. Del resto l’agricoltura in questa parte della regione (la Lombardia asciutta) ha scarsa redditività e ciò ha costituito un fattore non estraneo alle sollecitazioni industriali di cui è stata scenario. L’organizzazione agricola è diversa là dove si estende il sistema irrigatorio (come nelle zone attraversate dal canale Villoresi), basandosi su aziende di maggiori dimensioni che operano in funzione commerciale. Un tempo il paesaggio era ben disegnato dai filari di alberi (tra cui avevano importanza i gelsi), dalla presenza di qualche vigneto; ma l’albero non è mai stato qui una presenza importante e comunque è stato sacrificato a causa della fame di terreno coltivabile (fondamentale era la coltivazione del grano). Oggi le macchie boschive si estendono ai bordi dei campi, lungo i corsi d’acqua, nei valloncelli che attraversano le colline moreniche, nei solchi fluviali e nei pianalti pedemontani, intorno ai laghi dell’ambiente morenico. Si è imposta come pianta dominante la robinia, specie importata e di facile attecchimento, che banalizza gli scenari vegetali a danno delle specie originarie padane, come le querce, la cui presenza eleva la qualità del paesaggio anche nel giudizio della popolazione. La sezione superiore dell’alta pianura movimentata dai rilievi collinari morenici rappresenta il paesaggio più caratteristico dell’alta pianura lombarda. Esso dà luogo ad aree paesistiche con una loro spiccata individualità anche a causa della loro distinta collocazione, intimamente legata agli sbocchi in pianura degli invasi che accolgono i laghi prealpini. Ma oggi sia la Brianza, come le zone collinari abduane, il Varesotto, La Franciacorta e l’ampio semicerchio a sud del lago di Garda sono state profondamente modellate dall’azione antropica, favorita dalla mobilità dei terreni, che ha modificato l’idrografia, eliminato depressioni palustri, manomesso, spianato o terrazzato i dossi collinari a fini agricoli. Corti sparse e borghi posti su altura (a difesa delle erosioni) rappresentano le forme di insediamento tradizionali, a cui si aggiungono le ville signorili d’epoca veneta. Più di recente si sono imposti i blocchi residenziali intorno ai vecchi centri abitati, le ville del successo borghese, le residenze dei pendolari che lavorano a Milano o in altri centri, i capannoni industriali, i supermercati, le nuove strade, ecc. secondo i modi caratteristici della città diffusa. Tuttavia nell’anfiteatro morenico del Garda ampie zone sono rimaste all’agricoltura, che trova nella

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viticoltura una delle sue principali risorse, ciò che vale anche per la Franciacorta. Le aree di natura nell’alta pianura sono ormai esigue: sono rappresentate dalle aree verdi residue nelle fasce riparie dei fiumi (dove già si sono avute diverse valorizzazioni, come il parco regale di Monza, il parco del Lambro d’ambito metropolitano, il parco del Ticino). Altre aree di naturalità sopravvissute in parte sono le “groane”, negli ambienti dei conoidi, che alla maniera friulana potrebbero definirsi come “magredi”, cioè terreni poveri, ciottolosi, poco adatti all’agricoltura e perciò conservati si come tali.

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2.3. L’Adda

2.3.1. Il percorso dalla sorgente alla foce

Il fiume Adda prende il nome dal termine di origine celtica “Abdua” che significa acqua corrente. Il suo corso principale ricade interamente in Lombardia, mentre parte del bacino imbrifero è situato in territorio elvetico. I vari rami sorgentizi dell’Adda nascono sulle Alpi Retiche dal giogo dello Stelvio e dal Gruppo dell’Ortles, più precisamente a 2.237 m s.l.m. sul versante meridionale del Monte del Ferro, nella Val Alpisella (Parco Nazionale dello Stelvio), una piccola valle alpina comunicante con la valle di Fraele dove si trovano i laghi artificiali di Cancano e San Giacomo. Dalla valle di Livigno l’Adda inizia ad assumere l’aspetto di un torrente ed entra nella conca di Bormio dove riceve il tributo del Braulio, del Bormina e del Frodolfo. Di qui il fiume percorre tutta la Valtellina che con i suoi 125 km di sviluppo longitudinale est-ovest, dovuto alla formazione della “linea insubrica”, o “linea del Tonale”, divide le Alpi Retiche dalle Alpi Orobiche e dalle Prealpi. Arricchito dagli apporti del Roasco, del Poschiavino, del Mallero e del Masino, si immette nel lago di Como presso Colico, più precisamente a Gera Lario in località Fuentes. In questo primo tratto denominato “prelacuale” il paesaggio è tipicamente alpino, con presenza di ambienti di alta montagna, cime oltre i 2000 m, morfologie glaciali, periglaciali e fluvioglaciali. Sono presenti numerose zone umide d’alta quota e formazioni di torbiera; la flora e la vegetazione sono tipicamente alpine con numerose specie endemiche, relitti glaciali e interglaciali. Alle medie quote prevale il bosco misto a latifoglie. Oltre i 600-800 m predominano le conifere, I’abete bianco, l’abete rosso, il larice. Nei fondovalle prevale il prato, sostituito via via che si sale dal castagneto e dal querceto. Lungo i corsi d’acqua sono presenti formazioni a ontani e luppolo. Anche la fauna è di tipo alpino, con numerose specie ben rappresentate numericamente in tutti i gruppi animali. “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.”

Alessandro Manzoni Le parole del Manzoni descrivono l’uscita dell’Adda dal Lario in fondo al ramo di Lecco presso l’omonima città, il fiume riprende il suo corso solamente per poche centinaia di metri dove è attraversato dai 3 ponti cittadini e si allarga per riprendere le caratteristiche di lago formando i due bacini contigui di Garlate e di Olginate. Nell’area compresa tra Lecco e Rivolta d’Adda il fiume scorre nell’ambito del Parco regionale Adda Nord. Il territorio è composito; nel primo tratto vede lo scorrere del fiume attraverso valli molto incise, in cui affiora la formazione del “ceppo”. Segue un tratto di fiume tipicamente planiziale. La flora ripariale è ben conservata nel primo tratto, con prati umidi ed esemplari di farnia, pioppo nero, ontano; le rive sono colonizzate dal fragmiteto, mentre nel tratto planiziale è presente il bosco ripariale con ontano, pioppo bianco, pioppo nero, sambuco, nocciolo, sanguinello; più rara la farnia. In questo tratto il fiume scorre al margine della Brianza, uno dei maggiori poli produttivi del paese, il cui sviluppo ha portato a preoccupanti dissesti ecologici e a trascurare il più delle volte il valore storico dei luoghi. Il volto di questo territorio assume oggi i connotati tipici della periferia metropolitana, assorbendo funzioni industriali e residenziali allontanate da Milano e qui

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insediate per i vantaggi di una facile accessibilità. Il tratto meridionale della valle, da Rivolta D’Adda fino alla foce del fiume Po, è compreso nel Parco regionale Adda Sud. Nel Parco si rinvengono tutti gli aspetti vegetazionali tipici delle aree planiziali e golenali, sebbene spesso limitati nell’estensione e alterati nella composizione floristica per cause antropiche. Negli specchi d’acqua liberi delle Ianche la vegetazione è data da idrofite sommerse, Iamineto, fragmiteto, magnocariceto, cui segue la vegetazione arborea a salice bianco, ontano, pioppo bianco o nero e infine il querceto misto golenale, stadio climax della vegetazione della valle deII’Adda. La notevole diversità ambientale consente la sopravvivenza di una fauna piuttosto rara. Il corso inferiore dell’Adda scorre nella bassa pianura cremonese, nella quale testimonianze di storia si hanno a partire dall’epoca romana. La rete dei canali, l’orientamento dei campi recano infatti in più luoghi la caratterizzazione del reticolo ortogonale (centuriazione) delineato dai gromatici romani. Il sistema insediativo tradizionale, distribuito in modo funzionale all’organizzazione agraria, è rimasto quasi immutato; a una certa distanza da Cremona si situano gli altri poli economicamente “forti”, collegati con il capoluogo da una trama diffusa di minuscoli centri e di cascine rurali, spesso di pregio architettonico. A questa rete urbana sono state risparmiate le macroscopiche trasformazioni edilizie che caratterizzano altre zone della pianura padana e vi è pressoché assente il fenomeno delle conurbazioni. Non sono mancate tuttavia nel sistema insediativo più debole, quello delle cascine, dinamiche di segno negativo; la progressiva meccanizzazione del lavoro dei campi, la crisi della zootecnia e la ricerca di una diversa qualità della vita hanno portato al parziale abbandono delle strutture edilizie sparse sul territorio e, inevitabilmente, al degrado del patrimonio dell’architettura rurale. Lo stesso paesaggio agrario è andato gradualmente immiserendosi per la sistematica distruzione delle alberature e delle siepi che un tempo intervallavano una maglia di campi ben più parcellizzata dell’attuale. L’Adda è navigabile da Olginate fino a Robbiate e da Formigara alla foce; dall’asta fluviale prendono origine diversi canali di varie dimensioni tra cui spiccano per importanza: - il Naviglio della Martesana: voluto da Filippo Maria Visconti nel 1443 e completato nel 1457, nasce in località Concesa a Trezzo Sull’Adda e porta le acque dell’Adda sino a Milano (al fine di congiungersi col Ticino, rendeva possibile la navigazione ponendo in comunicazione il lago di Como con il lago Maggiore; durante il suo tragitto verso il capoluogo lombardo alimentava 16 ruote di mulini ed irrigava buona parte del territorio); - il canale della Muzza: le sue acque, tratte dal fiume a Cassano d’Adda, irrigano parte della pianura milanese e tutto il Lodigiano per poi tomare nello stesso fiume sopra Castiglione d’Adda; la sua costruzione risale al 1220; - il canale Vacchelli (1892) che ha inizio allo sbarramento di Bocchi a Comazzo (LO) serve per irrigare la pianura cremasca e parte di quella cremonese.

2.3.2. L’ambiente naturale nel medio corso dell’Adda

Percorrere le sponde del medio corso dell’Adda, da Lecco a Trezzo, offre la possibilità di osservare una straordinaria varietà di paesaggi e ambienti naturali. Per comprendere meglio ciò che ci si offre allo sguardo, è necessario ricordare l’origine geologica di questo territorio. L’area collinare e il sistema di terrazzi dell’alta pianura padana, che formano la fascia pedemontana lecchese, ha avuto origine in era glaciale: le colline sono le morene terminali dei ghiacciai alpini, che nel quaternario scendevano dalle Alpi verso la pianura; il sistema di terrazzamenti è invece di origine fluvio-glaciale, il risultato cioè dell’erosione operata dai fiumi originatisi dallo scioglimento dei ghiacci. Da Lecco l’Adda ha profondamente modificato l’area percorsa col suo millenario fluire: tra Garlate e Olginate si adagia a formare altri due piccoli laghi, più oltre, da Airuno a Brivio, forma anse paludose, mentre ancora più a valle (soprattutto da Paderno a

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Trezzo), scorre tra sponde ripide e profondamente incise, dove affiorano i depositi di conglomerato, denominato “ceppo”. Parallelamente anche l’attività umana ha prodotto sostanziali modifiche dell’ambiente, sempre più evidenti negli ultimi secoli. Lo sfruttamento del territorio ha relegato i rimordiali ambienti naturali a sporadiche presenze: gli ecosistemi collinari e fluviali, con la copertura vegetale spontanea, non esistono ormai più da secoli e la stessa orografia ha subito sostanziali trasformazioni a causa degli insediamenti urbani, dello sfruttamento intensivo agricolo e della creazione di manifatture e industrie. Se l’intervento umano è stato ed è per lo più distruttivo degli ambienti naturali, fortunatamente si dà il caso di qualche intervento ricostruttivo, come è avvenuto proprio sull’Adda, per la “Palude di Brivio” (compresa tra i comuni di Brivio, Cisano Bergamasco, Motemarenzo e Calolziocorte), tutelata con la formazione, nel 2000, della riserva naturale e identificata come area SIC (siti di interesse comunitario). Nell’intento di salvare un’area di grande interesse paesaggistico e naturalistico, per la varietà di tipologie ambientali presenti, si è agito su vari fattori di degrado (soprattutto l’interramento dei canali) ripristinando gradualmente l’ambiente umido e permettendo così la conservazione delle formazioni vegetali che lo caratterizzano. Nella piana di 265 ettari della riserva, gli ambienti più tipicamente palustri si alternano a quelli fluviali. Nelle zone umide e di torbiera, dove l’acqua è sempre presente, s’instaurano le formazioni a canneto e fragmiteto, con bellissime fioriture primaverili ed estive di ninfee e nannufari negli specchi d’acqua, mentre nelle aree dove l’acqua è presente solo stagionalmente, troviamo le associazioni a cariceto (giunchi, falaschi e iris gialli). All’esterno del cariceto, l’associazione vegetale dominante è quella degli alneti (tipici igrofili di ontani neri), che transitano spesso verso i prati stabili, a volte ancora falciati. Le sponde fluviali sono l’ambiente eletto dei saliceti. Una linea ideale che dal fiume porta all’interno, conduce ad aree colonizzate soprattutto da specie arboree che si organizzano in boschi, dove le associazioni dominanti sono quelle del Querco-Carpineto e del Querco-Ulmeto a Farnia, Carpino bianco e Ciliegio, Olmo campestre, Ontano nero e Ciliegio a grappoli (Prunus padanus). Dove non si è mantenuta la situazione ideale, si possono trovare solo alcune rappresentanze floristiche delle associazioni descritte, come nel tratto lungo fiume da Brivio a Paderno, che presenta coperture vegetali eterogenee non sviluppate nella successione naturale. A ricordare l’importante trasformazione operata dall’uomo in questi ambienti, non mancano purtroppo anche specie esotiche come la Quercia rossa, i pioppi ibridi e il Pino strombo. Gli ecosistemi del medio corso dell’Adda sono l’habitat di una fauna molto interessante, acquatica e non. Tra gli anfibi degli ambienti acquatici sono presenti: la Rana verde, la Raganella, il Rospo comune e il più raro Rospo smeraldino; nel sottobosco dei boschi umidi ripariali è facile osservare il lento movimento della Salamandra pezzata, mentre tra i rettili il più diffuso è certamente la Natrice dal collare; tra i piccoli mammiferi sono comuni: il topolino delle risaie, il topolino delle case e il Ratto nero, ma non mancano i predatori, come la Volpe e la Faina. Sono tuttavia gli uccelli gli animali più visibili durante un’escursione lungo le rive dell’Adda. Alcuni di questi sono stanziali, altri di passo. Il corso dell’Adda infatti, per la sua strategica posizione geografica, può essere paragonato ad un’autostrada naturale, che diventa un’importante luogo di sosta per tutti i migratori che in primavera e in autunno attraversano il nostro territorio; per questo è una delle mete più prestigiose per gli appassionati di avifauna acquatica. Nonostante le sponde fluviali abbiano subito una forte alterazione ad opera dell’uomo (addirittura in qualche tratto sono cementate) vari uccelli acquatici come folaghe, cigni, svassi, tuffetti, anatre e germani reali, sono riusciti ad adattarsi e a riprodursi. Fanno compagnia alle specie più comuni altri uccelli nidificanti di particolare interesse, come il Moriglione, il Fistone turco, il Lodolaio, il Merlo acquatico, la Rondine montana e la Moretta tabaccata, presenta anche nel Lago di Olginate. In un ansa formata dal fiume nel territorio di Brivio, è possibile osservare un bosco di salici e pioppi usati dagli Aironi cenerini, divenuti stanziali, per la nidificazione e da almeno 200 cormorani come dormitorio e luogo si svernamento. Altri uccelli svernanti di un certo interesse

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sono: l’Averla maggiore, il Falco di palude e l’Albanella reale. Nibbio bruno, Sparviero, Gufo reale, Falco pellegrino e Falco di palude sono, invece, tra i predatori più comuni. In particolare, il Gufo reale nidifica sulle pareti collinari vicine all’Adda e alla sera è possibile vederlo partire dal nido per andare lungo il fiume a caccia. I pipistrelli, infine, sono una simpatica presenza durante le calde serate estive. L’Adda è stata sempre per l’uomo una fonte di sostentamento e guadagno grazie alla pesca. L’economia ittica, molto importante fino a poche decine di anni fa per le popolazioni rivierasche, che vendevano il pescato ai ristoranti locali, ha però profondamente modificato la composizione ittica a favore di specie, a volte anche esotiche, più produttive; un esempio è l’immissione della bondella a scapito del lavarello nostrano. L’Adda, nel tratto all’uscita del lago, ha una comunità ittica molto varia e particolarmente pregiata, comprendendo quasi tutte le specie presenti nel lago e spesso fungendo anche da zona riproduttiva di alcune di queste (Cavedano, Alborella, Luccio, Coregone). Procedendo verso Milano, invece, il fiume alterna tratti a diversa velocità di corrente, profondità e condizioni chimico fisiche, che influenzano il popolamento ittico, consentendo l’instaurarsi anche di altre specie, più o meno pregiate: dai rinomati salmonidi, ai ciprinidi (carpe, tinche e pesci gatto) meno esigenti per quanto riguarda la qualità delle acque. Il territorio del medio corso dell’Adda conserva nel complesso grandi qualità naturalistiche, oggi tutelate dal Parco dell’Adda Nord.

2.3.3. L’assetto idrogeologico

Le portate dell’Adda risultano regolate artificialmente lungo tutto il suo corso e la presenza di grandi invasi, a partire da poco dopo le sorgenti (dighe di Cancano e S. Giacomo), ne modificano sostanzialmente il regime idrologico. Regime che è di tipo nivo-glaciale, caratterizzato cioè da un periodo di magra invernale tra dicembre e marzo e da un incremento di portate in primavera in coincidenza con lo scioglimento delle nevi e l’aumento delle precipitazioni (la cosiddetta “acqua di neve"). Le portate massime vengono raggiunte generalmente durante l’estate (giugno-luglio), quando le temperature più elevate provocano il parziale scioglimento dei ghiacciai e quando le probabilità di forti temporali che ingrossano il fiume sono maggiori. I detriti più pesanti come ciottoli e ghiaia caratterizzano l’alta pianura che si sviluppa a ridosso delle colline mentre lo strato impermeabile costituito da quei detriti più fini e leggeri trasportati a maggior distanza dal fiume, come argilla e sabbia, è tipico di alcuni strati della bassa pianura. Nell’alta pianura l’acqua piovana, invece di rimanere in superficie, penetra nel sottosuolo attraverso gli spazi esistenti fra i detriti e scende in profondità fino a quando trova uno strato impermeabile che blocca (in parte) il suo percorso, dando origine a grandi depositi d’acqua: le falde acquifere. L’acqua presente nelle falde scorre verso il mare come un fiume sotterraneo, ma molto lentamente. Nel punto di incontro tra alta e bassa pianura si crea la fascia delle risorgive, cioè quella zona di territorio in cui una parte dell’acqua sotterranea riemerge e continua il suo ciclo in superficie. Le acque di risorgiva hanno caratteristiche particolari: una temperatura di 9-12°C per tutti i mesi dell’anno ed una portata costante durante le stagioni di circa 65 m3 al secondo; sono acque limpide e potabili e spesso ricche di sostanze minerali. Ogni intervento sulle rete idrografica e sui versanti è regolamentato dall’Autorità di Bacino del Fiume Po che stabilisce le norme di attuazione attraverso il Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI). Il Piano individua le aree a rischio idrogeologico e le suddivide in tre fasce: Fascia di deflusso della piena (Fascia A) - costituita dalla porzione di alveo che è sede prevalente del deflusso della corrente per la piena di riferimento (il cui tempo di ritorno, TR, è fissato in 200 anni), ovvero che è costituita dall’insieme delle forme fluviali riattivabili durante gli stati di piena. Fascia di esondazione (Fascia B) - esterna alla precedente, costituita dalla porzione di territorio interessata da inondazione al verificarsi della piena di riferimento (TR 200 anni). Il limite di tale fascia si estende fino al punto in cui le quote naturali del terreno sono superiori ai livelli idrici

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corrispondenti alla piena di riferimento, ovvero sino alle opere idrauliche esistenti o programmate di controllo delle inondazioni (argini o altre opere di contenimento). Area di inondazione per piena catastrofica (Fascia C) - costituita dalla porzione di territorio esterna alla precedente (Fascia B), che puo essere interessata da inondazione al verificarsi di eventi di piena più gravosi di quella di riferimento (TR 500 anni). È interessante notare come nell’articolo 37 del Piano vengano regolamentati gli interventi riguardanti l’agricoltura e la gestione forestale: “Le zone ad utilizzo agricolo e forestale all’interno delle Fasce A e B sono qualificate come zone sensibili dal punto di vista ambientale ai sensi delle vigenti disposizioni dell’U.E. e possono essere soggette alle priorità di finanziamento previste a favore delle aziende agricole insediate in aree protette da programmi regionali attuativi di normative ed iniziative comunitarie, nazionali e regionali, finalizzati a ridurre l’impatto ambientale delle tecniche agricole e a migliorare le caratteristiche delle aree coltivate. Le aree comprese nelle Fasce A e B possono essere considerate prioritarie per le misure di intervento volte a ridurre le quantita di fertilizzanti, fitofarmaci e altri presidi chimici; a favorire l’utilizzazione forestale, con indirizzo a bosco, dei seminativi ritirati dalla coltivazione ed a migliorare le caratteristiche naturali delle aree coltivate. Nell’ambito delle finalità di cui ai commi precedenti, l’Autorità di bacino, anche in riferimento ai programmi triennali, e su eventuale proposta delle Amministrazioni competenti, emana criteri ed indirizzi per programmare la conservazione degli elementi del paesaggio agrario, la cura dei terreni agricoli e forestali abbandonati.”

2.3.4. Il fiume come confine

L’Adda ha sempre avuto un’importante funzione strategica rappresentando una vera e propria frontiera, un ostacolo per gli eserciti che si rincorrevano nella pianura padana. Nel 223 a.C. gli scontri durante la battaglia tra Romani e Insubri si sono svolti quasi sempre nelle vicinanze dei guadi di Cassano, Trezzo, Vaprio, Canonica e Cornate. Questi territori suscitarono interesse anche durante le invasioni barbariche, da Trezzo a Fara Gera d’Adda vi si insediarono i Longobardi della regina Teodolinda, il re Autari costruì un palazzo ed una basilica di culto ariano e chiamò Fara Autarena. Immediatamente dopo il periodo medievale, con l’Italia delle Signorie, l’Adda diventò un confine di stato tra i più rigidi e stabili: quello tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia che durò ben 400 anni. Sulle sponde del fiume si avvicendarono i domini dei Visconti, degli Sforza, dei francesi, degli spagnoli e degli austriaci. Questi ultimi portarono pace, sviluppo tecnologico ed economico. Durante il Rinascimento, il Ducato di Milano fu uno degli stati tecnologicamente più avanzati. Ciò era dovuto principalmente al complesso sistema di canali artificiali che fin dall’epoca romana irrigava la pianura milanese rendendola uno dei territori più fertili d’Europa. Su questo fitto reticolo di navigli, canali e rogge si svilupparono l’industria ed i commerci.

2.3.5. Il fiume come risorsa

La pesca La pesca era, prima dell’industrializzazione, una risorsa importante per buona parte della popolazione rivierasca: un mezzo di sostentamento famigliare, ma anche un’attività professionale. I pescatori professionisti rifornivano, tramite i mercanti, la piazza milanese e la rete di locande poste lungo la via del fiume. Le acque erano considerate dalle autorità milanesi un bene demaniale e così pure i prodotti della pesca, il cui diritto di esercizio veniva

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periodicamente appaltato ai singoli e più spesso alle comunità, che poi distribuivano le “patenti” ai proprio pescatori. Facevano eccezione quei soggetti che detenevano alcuni diritti particolari, come i pescatori delle famiglie di Pescarenico (a Lecco), il capitolo del Duomo di Milano, quello di Sant’Ambrogio e altri enti ecclesiastici. L’attività avveniva con mezzi diversi, di pesante impatto sull’equilibrio ecologico del fiume: trappole dette “gueglie”, “gabbioni”, “murere”, “sassere”, ma anche reti e mangimi velenosi. Queste pratiche generarono per secoli una miriade di contrasti: tra lo Stato di Milano e la Repubblica di Venezia, tra le comunità e i singoli, ma anche tra i pescatori e chi utilizzava il fiume come via di navigazione e trasporto commerciale, per cui le trappole costituivano un ostacolo. Nell’esercizio della navigazione erano infatti impiegate alcune centinaia di individui e le barche, come gli attracchi e i pali posti a segnalare le numerose “secche”, dovevano costituire un elemento significativo del paesaggio fluviale. Pesca e commercio erano integrati dalle attività agricole e artigianali nei territori rivieraschi, queste ultime in misura maggiore lungo la riva lecchese. Poche, ma tuttora visibili lungo le sponde del fiume, le tracce del paesaggio agricolo, che si componeva di una successione molto varia di coltivi e di boschi. I mulini Le tracce del fitto sistema di derivazioni sotto forma di canali o rogge attivate da chiuse, al fine di utilizzare l’acqua per irrigare i campi e per azionare le ruote dei mulini (da grano o per lavorazioni artigianali) sono numerose. È comunque utile, se non addirittura necessario, esaminare la cartografia dell’epoca per meglio comprendere l’importanza e la diffusione capillare che questa tipologia di edifici aveva lungo l’Adda. A questo proposito vale la pena di considerare una bellissima carta, redatta proprio in funzione dell’uso delle acque da Giovanni Antonio Urbani il 2 ottobre 1763, riferita alla zona a sud di Brivio, oggetto di diverse contese per la presenza di numerosi isolotti, le “Iselle”. Di fronte ai mulini milanesi “del Martignoni” e “della Scuola e Giacinto Carozzi” a Brivio e del “Mulino, e ortaglie di Gasparo Vimercati” ad Arlate, con tutte le loro palificazioni di protezione ben rappresentate, si vedono i due mulini bergamaschi “del Sig. Conte Sozzi”, più piccolo con soltanto due pale, e dei padri di Pontida, con quattro pale. “Anche ne’ fiumi si fanno delle ruote somigliantemente alle già descritte, e nella fronte di loro circonferenza vi si ficcano delle palette, le quali urtate dalla corrente che trapassa, vien la ruota obbligata a girarsi, […] Nella medesima maniera si girano ancora le macchine idrauliche, nelle quali vi hanno tutte le medesime cose; fuorche in una testa dell’asse vi hanno attaccata una ruota dentata; codesta vi è messa per coltello, e girasi insieme colla ruota. A codesta dentata accanto avvene un’altra maggiore, parimente dentata, postavi però orizzontalmente, ed il cui asse ha sulla cima una coda di rondine di ferro inserita nella macina. Così avviene che i denti di quella ruota ch’è attorno all’asse urtando ne’ denti della ruota orizzontale facciano girare la macina, sopra la quale stando appesa la tramoggia somministra il grano alla macina, e nel medesimo girare che ella fa frangendosi il grano n’esce la farina.”

M. Vitruvio Pollione Questa descrizione del funzionamento di un mulino nel famoso trattato di Vitruvio evidenzia la diffusione di questo tipo di macchinari già nel 15 a.C. ma si ritiene che la sua invenzione sia databile tra il II e III secolo a.C. intorno ad Alessandria d’Egitto. A partire dal IV secolo d.C., a causa della crisi economica, demografica e politica che investì l’impero romano fino al suo collasso, ci fu sempre meno disponibilità di forza motrice umana e animale, procurarsi gli schiavi divenne sempre più difficile e l’uso dell’energia idraulica cominciò ad aumentare progressivamente in tutta Europa. Ma è nel pieno medioevo che il mulino ad acqua ebbe la sua grande diffusione; a partire dall’XI secolo, subito dopo il mille, e più ancora tra

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XII e XIII secolo, ogni villaggio, borgo, comunità ne ebbe almeno uno e al suo interno il mugnaio era divenuto un professionista di grande rilevanza. L’importanza del mulino ad acqua non fu legata solo alla macinazione dei cereali, che divenne molto più veloce, meno faticosa e in grado di produrre grandi quantità di farina, ma anche ai tanti e diversi utilizzi per i quali esso fu impiegato. È necessario ricordare, infatti, che con le macine di un mulino si potevano triturare, pestare o spremere anche frutti e semi oleosi, ceci, fagioli e piselli essiccati, ghiande e corteccia di quercia da cui si estraeva il tannino; lo stesso tipo di lavorazione si usava per tabacco, gesso, pigmenti per tingere i tessuti, minerali. E se al posto delle macine il mulino aveva installati all’interno altri strumenti, quali pestelli, magli, lame, poteva servire anche a liberare dalla buccia i chicchi di riso e orzo, a lavorare il ferro, ad affilare gli utensili metallici, a pestare gli steli di lino e canapa per ricavare la fibra, a tagliare il legname e la pietra, a lavorare il cuoio e i pellami, a produrre la carta partendo dalla pestatura degli stracci. Una vera e propria macchina tuttofare, caratteristica che ne ha determinato l’enorme successo. Il mulino maggiormente diffuso nel nostro territorio è quello inserito in un edificio posto vicino a un corso d’acqua e azionato da una ruota esterna a pale verticale. La ruota, anticamente in legno poi in ferro, era montata su un asse orizzontale che penetrava all’interno del mulino attraverso un foro nella parete muraria; l’asse, detto anche albero o fuso, era costituito da un grosso tronco di rovere. Nell’albero della ruota erano inseriti a incastro degli assi rettangolari in legno che formavano i raggi (in genere quattro o sei), mentre nella parte circolare, incastrati in appositi intaglisi trovavano i manici in legno d’olmo, ovvero i sostegni ai quali venivano inchiodate le pale, realizzate quasi sempre in legno di larice. Sia all’interno che all’esterno del mulino, l’asse della ruota era sostenuto alle estremità da cavalletti di legno o da muretti; per permettere la rotazione del fuso in corrispondenza dei punti d’appoggio, sui sostegni venivano collocati degli anelli in pietra detti boccole, sostituiti in tempi più recenti da bronzine in ferro. Le ruote verticali avevano solitamente un diametro da 3 a 5 metri e di distinguevano in: - ruote mosse “per di sotto”, quando l’acqua scorrendo in piano, colpiva le pale nella parte bassa; questa soluzione era adatta in caso di grandi volumi d’acqua a livello costante; - ruote mosse “di fianco” o “a metà”, quando l’acqua colpiva le pale a metà circa dell’altezza della ruota che rimaneva un po’ sommersa, questa soluzione era adatta in caso di piccoli salti e di acqua abbondante ma a livello variabile, regolata attraverso una chiusa; - ruote mosse “per di sopra”, quando l’acqua, cadendo da una condotta o da un salto, colpiva nella parte alta le pale fatte a cassetta che, riempiendosi, provocavano con il loro peso il movimento della ruota. In questi casi si creava uno sbarramento lungo il corso, deviando l’acqua in un canale al termine del quale si trovava una condotta che scaricava l’acqua sopra le pale, oppure un salto creato appositamente e regolabile attraverso una chiusa. Questa soluzione non richiedeva grandi quantità d’acqua ma un buon convogliamento e un salto notevole. La chiusa consisteva in un portellone di legno o metallo, sollevato o abbassato con argani e catene, che consentiva di far passare la quantità d’acqua desiderata o, se necessario, ne bloccava completamente il flusso. Quando nello stesso corso d’acqua si riuscivano a sistemare più chiuse, era possibile far muovere contemporaneamente più ruote perché, aprendo le chiuse, si faceva scorrere l’acqua in canaletti separati. L’albero era fissato, all’estremità opposta della ruota a pale, a un’altra ruota di legno, detta lubecchio, fornita di denti. Questi denti andavano a incastrarsi nella lanterna, un ingranaggio simile a una piccola gabbia circolare formata da due dischi di legno collegati da pioli verticali e fissata, a sua volta, su un asse verticale che la attraversava al centro. La lanterna, con il suo asse, era l’elemento chiave perché trasformava il movimento verticale della ruota nel movimento orizzontale della macina. Inoltre, con questo sistema lubecchio-lanterna, era possibile moltiplicare la velocità di rotazione della macina rispetto a quello della ruota idraulica fino a sei volte. La macina era sistemata più in alto rispetto agli ingranaggi, su una sorta di palco o su un piano superiore dell’edificio con un pavimento in assi di legno; era formata da due mole circolari di

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pietra forate al centro per permettere l’inserimento da sotto dell’asse rotante e per consentire l’ingresso da sopra del prodotto da macinare, che doveva finire schiacciato tra la mola inferiore fissa, con la faccia leggermente convessa, e la mola superiore rotante che era, invece, leggermente concava dalla parte interna. Sul lato inferiore della mola girante, intorno al foro centrale, una leggera cavità serviva all’innesto di un elemento in ferro, chiamato nottola, che agganciava la mala all’asse rotante trasmettendole il movimento. Sopra la macina, sostenuto da un’impalcatura di travi, si trovava un contenitore in legno a forma piramidale, la tramoggia, che alimentava continuamente la macina facendo scendere lentamente i chicchi di cereale da triturare. Grazie poi a un sistema a leva, era possibile modificare la distanza tra le mole, variando il tipo di macinato che si otteneva. La pietra da utilizzare e le dimensioni della macina erano strettamente legate al tipo di prodotto da macinare e al risultato che si voleva ottenere; di solito le mole avevano un diametro variabile tra 1 e 1,50 m e uno spessore tra i 10 e i 30 cm. Le mole, sul lato di sfregamento, erano provviste di scanalature che partivano dal centro e arrivavano ai bordi, con il preciso scopo di facilitare la rottura dei chicchi, la fuoriuscita dalla macina dei cereali sfarinati e di impedire il surriscaldamento della mole permettendo l’ingresso dell’aria. Nei primi secoli del medioevo, i mulini, erano costruiti quasi interamente con tronchi sbozzati, tavole di legno, graticci riempiti d’argilla e paglia per coprire i tetti; generalmente, a fianco a essi sorgevano la casa del mugnaio e altri edifici di servizio. In seguito, a partire probabilmente dal XIV secolo, il mulino cominciò lentamente ad apparire come un edificio unico in muratura, con copertura in tegole, strutturato su più piani, all’interno dei quali l’abitazione del mugnaio stava sopra, mentre sotto trovavano spazio la sala macine, la stalla ed eventuali altri locali necessari all’attività. Non di rado, all’interno del mulino, o nelle immediate vicinanze, lavoravano anche altri artigiani, come calzolai, fabbri e maniscalchi, per i quali la clientela non mancava grazie al gran numero di persone che frequentavano il mulino, sopportando lunghe attese prima dell’arrivo del proprio turno, per procurarsi la farina necessaria all’alimentazione quotidiana. L’industria serica Alle derivazioni per i mulini si sarebbero progressivamente sostituite, nel secolo XIX, le prese idrauiliche per azionare le officine meccaniche o le macchine degli opifici industriali, soprattutto tessili. L’industria serica fu per tutto il XIX secolo l’attività più importante del territorio lariano, determinando non solo l’economia, ma anche la società e il paesaggio stesso, modificato dalla presenza diffusa del gelso, dalla canalizzazione delle acque e dalla realizzazione di importanti architetture industriali, inserite in un territorio prevalentemente agricolo. Già in età rinascimentale nel Comasco e nel Lecchese era praticata la gelsibachicoltura destinata ai tessitori milanesi, grazie alla cui esperienza, le sete del Ducato di Milano risultavano tra le migliori d’Europa. Il territorio lecchese, con i mandamenti di Brivio, Missaglia e Oggiono in particolare, divenne il principale polo produttore di seta greggia della regione, raggiungendo l’apice intorno alla metà del XIX secolo. Agli inizi del novecento l’industria della seta iniziò la sua parabola discendente in tutta la regione e si registrò un calo evidente anche nella produzione nazionale con una diminuzione degli addetti che passarono al cotoniero e al meccanico in espansione. La concorrenza delle sete orientali e delle fibre sintetiche determinarono il declino definitivo dell’industria serica lecchese. La dismissione e la conversione verso nuove produzioni, insieme ad un’intensa urbanizzazione della Brianza, portarono inevitabilmente, lungo il corso del XX secolo, alla progressiva scomparsa del gelso e alla demolizione o ristrutturazione della maggior parte delle industrie seriche del territorio, lasciando solo rare testimonianze di archeologia industriale di rilevante importanza per la storia lecchese. Il villaggio operaio

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Il villaggio operaio di Crespi d’Adda rappresenta la testimonianza più completa e meglio conservata di una stagione particolare della storia del lavoro in Italia, nella fase di modernizzazione industriale. Tra gli ultimi decenni dell’800 e i primi del ‘900, l’imprenditorialità più illuminata sentì l’esigenza di affrontare il problema delle deplorevoli condizioni di vita in cui versava la classe lavoratrice dell’industria. Garantire a maestranze e operai un ambiente di lavoro vivibile e una casa igienica nelle vicinanze della fabbrica, divenne la parola d’ordine per alcuni industriali sensibili ai problemi sociali; ne avrebbe beneficiato la salute dei lavoratori e, indirettamente, la produttività. Sull’esempio delle precedenti esperienze europee, essi crearono dei complessi abitativi integrati alle fabbriche, dotati a volte anche di servizi, che li rendevano autosufficienti. Dello speciale rapporto che si instaurò in tal modo tra capitale e lavoro, noto come “paternalismo industriale”, il villaggio di Crespi d’Adda è appunto uno straordinario documento storico. Il primo nucleo dell’insediamento nasce nel 1877-78 per volontà dell’industriale Cristoforo Benigno Crespi: è un opificio per la lavorazione del cotone. Contemporaneamente alla fabbrica sorgono: un piccolo albergo, una mensa, una scuderia e, poco dopo, tre condomini a tre piani, destinati a ospitare le maestranze, fatte venire da altre zone della Lombardia per addestrare la mano d’opera locale, tutta di estrazione contadina, quindi priva di competenza nel lavoro tessile. Il progetto Crespi è ambizioso, al limite del visionario: sogna di trasformare un’area depressa e semi-abbandonata, alla confluenza dei fiumi Adda e Brembo, in un florido centro industriale moderno. Nell’opera gli si affianca, dal 1889, il figlio Silvio, che si stabilisce a Crespi d’Adda come procuratore generale del cotonificio, al quale dà un enorme impulso. Al reparto di filatura già esistente, si aggiunge infatti, negli anni ’90 un impianto di pettinatura del cotone e un reparto di tessitura con 300 telai per manufatti fini (entrambe novità in Italia); nel 1900 viene attivato il reparto di tintoria e finissaggio dei tessuti (nuova attività con la quale la ditta otterrà il gran premio per la qualità dei tessuti all’EXPO internazionale di Parigi nel 1906) e, da ultimo, il reparto di tintoria filati. Parallelamente all’ampliamento della fabbrica, si struttura anche il complesso abitativo, arricchendosi gradualmente di nuovi elementi. Vengono costruite le casette mono e bi-famigliari a due piani per gli operai, igieniche e accoglienti, provviste anche di orto e giardino; un po’ separate dal nucleo principale del paese, su un dosso, in posizione dominante, sorgono i villini del medico condotto e del parroco, cui si aggiungeranno più tardi le villette dei dirigenti, anch’esse in posizione decentrata, ma sul piano. L’abitazione dei Crespi, il cosiddetto “Castello”, si eleva invece in un parco nei pressi del canale di derivazione dall’Adda, in diretto collegamento con la fabbrica. Per rispondere alle diverse esigenze della piccola comunità insediatasi nel villaggio, vengono man mano aggiunti tutti i servizi e i centri di aggregazione sociale: la scuola, la chiesa, la cooperativa di consumo, l’ambulatorio medico, il dopolavoro, i lavatoi, i bagni pubblici, un campo sportivo, un teatro, un ritrovo per la banda musicale e in fondo al viale alberato che continua la strada principale, il cimitero. Quando si osserva Crespi d’Adda ciò che si nota con assoluta evidenza è il carattere razionale e fortemente unitario del complesso fabbrica-villaggio, progettato come un insieme articolato in due parti distinte ma perfettamente integrate, corrispondenti l’una al “sistema produttivo” e l’altra a quello “abitativo”. L’impianto urbanistico è razionalmente strutturato sull’incrocio di due assi stradali ortogonali: quello principale è la strada proveniente da Capriate, l’altro è orientato “sui cancelli rossi” dell’ingresso dell’opifico. Impossibile non cogliere la centralità della fabbrica, vero fulcro intorno a cui ruota l’organizzazione dell’intero villaggio. Il lavoro di progettazione e direzione lavori fu affidato all’architetto di fiducia della famiglia Crespi, Ernesto Pirovano e ai suoi collaboratori: l’ing. Piero Brunati e l’arch. Gaetano Moretti, cui si deve il piano regolatore globale. Le centrali idroelettriche

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L’Adda tra Paderno e Trezzo, tra ‘800 e primo ‘900, svolse un ruolo di primaria importanza nel processo di elettrificazione del nostro Paese, offrendo ancora una volta una possibilità di sfruttamento delle sue acque: quella di produrre energia elettrica. Impressionante la concentrazione nell’area di impianti idroelettrici: ben tre della società Edison, la centrale “Bertini”, la “Esterle” e la “Semenza”, e uno, la centrale “Taccani”, della ex Società Anonima Forze Idrauliche di Trezzo sull’Adda (oggi proprietà Enel). La centrale intitolata alla memoria dell’ing. Angelo Bertini, che ne aveva diretto i lavori di costruzione, è il primo impianto idroelettrico costruito sull’Adda. La sua data di inaugurazione, il 28 settembre 1898, ha un indubbio valore storico, in quanto segna la nascita dell’industria elettrica italiana e la conseguente apertura, in campo economico, di orizzonti impensabili fino a quel momento per il nostro Paese. Due i fattori determinanti della svolta: da un lato, la scoperta di una fonte energetica alternativa al carbone, e dall’altro, la disponibilità di una tecnologia capace di trasformare la forza dell’acqua in elettricità e trasportarla in fili aerei ai centri di consumo, distanti anche chilometri dai luoghi di produzione. Per l’Italia (e in particolare per la Lombardia) dotata di una notevole riserva idrica e di un’orografia accidentata, questo significava poter contare finalmente su risorse energetiche proprie, per soddisfare la fame di energia delle città e della nascente industria, emancipandosi dalla costosa dipendenza dai paesi produttori di carbone del nord Europa, che avevano frenato sino ad allora il decollo industriale italiano. La centrale “Esterle” rappresenta il secondo capitolo del processo di elettrificazione del medio corso dell’Adda ad opera della Società Edison. Quando, nel 1914, entrè in funzione affiancando la Bertini, il complesso di impianti generatori Edison era in grado di produrre oltre 30000 kW. La centrale “Semenza”, inaugurata nel 1920, costituisce il completamento dell’imponente opera di ingegneria idraulica ed elettrotecnica realizzata dalla Edison sul medio corso dell’Adda e l’ultimo capitolo della storia del processo di elettrificazione dell’Adda. Infatti la centrale “Taccani”, voluta dall’industriale Cristoforo Benigno Crespi per generare dal fiume energia elettrica da distribuire anche al suo villaggio operaio, nacque nel 1906 e fu subito considerata un modello per la sua qualità sia tecnica che architettonica. La centrale è localizzata lungo l’ampia e tranquilla ansa del fiume, che lambisce il promontorio roccioso di Trezzo, dominato dalle suggestive rovine dell’antico castello visconteo. La sua presenza avrebbe potuto avere un impatto devastante in un contesto così fortemente caratterizzato e di notevole pregio naturale e storico-artistico. Al contrario, ciò che colpisce al primo sguardo è l’armonia compositiva della costruzione e la sua perfetta integrazione nell’ambiente circostante. L’impianto di Trezzo può quindi considerarsi non solo un’opera innovativa, ma anche un capolavoro di ingegneria ambientale, in grado di modificare il paesaggio in modo più armonico e, contemporaneamente, di stabilire un nesso ancora più diretto ed esplicito tra l’Adda e l’energia, tra l’acqua che entra nell’edificio e l’elettricità che ne esce.

2.3.6. Attraversare il fiume

Esistono documentazioni che provano l’esistenza di almeno quattro traghetti lungo l’Adda, essi collegavano: - Olginate e Calolziocorte: citato in scritti del 1575; - Brivio e Cisano Bergamasco: Dal 1917 è stato sostituito da un ponte in cemento; - Imbersago e Villa d'Adda: databile all’inizio del 1500, e l’unico ancora funzionante; - Vaprio d'Adda e Canonica d'Adda, rappresentato da Leonardo di Vinci in un disegno del 1513. Il più famoso è quello di Imbersago che mantiene, ancora oggi, aspetto e meccanismo tipici dell’antico manufatto. La chiatta, a doppio scafo, è mossa inizialmente dalla spinta che il barcaiolo le imprime facendo perno su un’asta, con una certa angolatura rispetto alla corrente; poi è sufficiente la pressione dell’acqua sul fianco dell’imbarcazione a fornirle l’energia necessaria al movimento, mentre il cavo teso sul fiume, passando in un’incastellatura al centro del traghetto, ne evita la deriva. Un’invenzione semplice e geniale, che potebbe essere uscita

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dalla feritle mente di Leonardo da Vinci, al quale infatti è attribuita dalla voce popolare. Non senza fondamento dato che Leonardo dedicò molta attenzione a progetti di ingegneria idraulica, a fiumi, laghi e navigli lombardi, e in particolare proprio all’Adda. In più esiste un piccolo disegno di Leonardo, del 1513, conservato alla Royal Library a Windsor, che rappresenta un traghetto identico a quello di Imbersago. Dagli studi emerge però che non si tratterebbe di un progetto tecnico ma di una veduta artistica, che documenta un luogo preciso (“il traghetto che unisce Vaprio e Canonica”), rappresentato dal vivo. In ogni caso il caratteristico traghetto di Imbersago resta un interessante documento storico di un’antica infrastruttura della comunicazione. Il segno più tangibile e duraturo dei legami tessuti dalla storia col territorio è costituito dalla notevole serie di ponti realizzati nel corso dei secoli per attraversare l’Adda. Il primo è il Ponte Vecchio di Lecco, fatto costruire da Azzone Visconti nel XIV secolo, all’epoca dotato di una rocca fortificata. Profondamente modificato nel corso del tempo, oggi cela la passata funzione militare e daziaria, mantenendo quella dell’accesso stradale da Milano. A poche centinaia di metri gli si contrappone il ponte in ferro realizzato nel 1884-86 per il passaggio della linea ferroviaria Lecco-Como, mentre una decina di chilometri più avanti, all’altezza di Olginate, si colloca un altro ponte in ferro, costruito nel 1837 per la linea ferroviaria Milano Lecco. Nell’ambito di questa politica di potenziamento infrastrutturale maturò la decisione di connettere le linee ferroviarie Bergamo-Lecco e Monza-Como congiungendo le stazioni di Ponte San Pietro e di Seregno con il non facile superamento dell’Adda tra Paderno e Calusco. L’audace progetto viene redatto dall’ing. Julius Röthlisberger e consiste in un viadotto a doppio uso, stradale e ferroviario, con un’unica grande arcata metallica a sostenere la trave reticolare principale; le due vie corrono sovrapposte, il tracciato stradale sopra la travatura principale e quello ferroviario ospitato nello spessore della travatura reticolare. La trave reticolare metallica, lunga complessivamente 266 m, collega le due rive dell’Adda a 81 m di altezza sopra il pelo dell’acqua.

2.3.7. Il Parco Adda Nord

Il 4 febbraio 1973, in un clima di rapide trasformazioni urbane e di preoccupazione per l’inquinamento ambientale e la sopravvivenza delle aree verdi della pianura padana, si tenne a Trezzo sull’Adda un Convegno per il Parco Fluviale dell'Adda che vide partecipare diversi enti: l’Ente provinciale per il Turismo di Milano, il Consorzio Intercomunale dell’Adda, l’organismo che riuniva i Comuni di sponda milanese, e lo stesso Comune di Trezzo, esprimere la volontà di salvaguardare il patrimonio naturale e paesaggistico attraverso lo strumento del Parco. Negli anni 1972/73, la Commissione regionale di studio e ricerca sui parchi stabilì che tutta l’asta fluviale fino al Po dovesse rientrare in zona di Parco. Nel 1974 si individuarono i confini del Parco attraverso una planimetria generale. Successivamente la delimitazione veniva perfezionata ed allegata al piano dei parchi approvato dalla Giunta regionale il 10 maggio 1977. Le leggi istitutive dei singoli parchi prevedono, tuttavia, la divisione dell’asta fluviale in due Parchi: Adda Nord e Adda Sud. L’esigenza di questa suddivisione è nata sia per la vastità del territorio sia per le peculiari caratteristiche di ciascuno dei due tratti di fiume. Il tratto di fiume che fa parte del Parco regionale Adda Nord interessa Comuni delle Provincie di Lecco, Milano, Bergamo. La superficie complessiva del Parco (al momento dell'istituzione) è di 5.650 ettari. Il territorio ha la sua quota massima a 260 metri e la minima a 100 metri s.l.m.. La sede del Parco si trova presso Villa Gina a Trezzo sull’Adda. Il territorio del Parco è regolamentato dal “Piano Territoriale di Coordinamento Parco dell’Adda Nord” (PTC). Il PTC individua le diverse aree di interesse del Parco e gli elementi di preminente interesse storico-culturale e paesistico e per ognuno di essi stabilisce delle norme volte alla tutela e al mantenimento del territorio, degli elementi naturali e alla salvaguardia degli ecosistemi. Queste aree ed elementi sono individuati graficamente sulla cartografia del piano in

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scala 1:10000. Vengono qui riportati alcuni stralci del Piano per comprendere meglio l’entità e la tipologia delle norme che regolamentano gli interventi sulle aree ricadenti all’interno del Parco. Articolo 21 (zona di interesse naturalistico-paesistico) “Le aree ricadenti nella zona di interesse naturalistico-paesistico […] sono destinate alla conservazione attiva dei valori naturalistici esistenti, alla ricostituzione del bosco, al risanamento di elementi di degrado esistenti in aree di elevato valore o elevata vulnerabilità ambientale. In tale zona l'obiettivo è di favorire la massima espressione delle potenzialità naturali sia sotto il profilo vegetazionale sia sotto il profilo faunistico, attraverso la conservazione e la ricostituzione degli ambienti boscati e delle zone umide; tale obiettivo è prevalente rispetto all'esercizio economico dell'agricoltura. Nelle aree disciplinate dal presente articolo sono ammesse le sole attività colturali compatibili con le disposizioni e gli obiettivi del presente piano; una fascia lungo le sponde del fiume per un'ampiezza minima di 10 m dev'essere comunque destinata alla ricostituzione dell'ambiente ripariale.” Articolo 22 (zona agricola) “Negli ambiti territoriali compresi nella zona agricola la presenza dell'attività agricola costituisce elemento essenziale del paesaggio nonché fondamentale elemento di connotazione e di contesto per la struttura naturalistica del territorio più strettamente connesso all'ambito fluviale. Nella zona di cui al presente articolo sono consentiti: a) le colture erbacee, l’ortocoltura e la frutticoltura; l'attività colturale deve giungere, per le aree lungo le scarpate, non più vicino di 3 metri dall’orlo del terrazzo lungo il fiume Adda, conservando una fascia arbustiva e/o arborea al margine del coltivo, per salvaguardare la scarpata dall'erosione dovuta al forte ruscellamento; b) l'arboricoltura secondo le disposizioni di cui all'art. 36; c) l'allevamento zootecnico non intensivo, nel rispetto dei seguenti parametri: - per gli allevamenti suinicoli e avicunicoli carico massimo di peso vivo per ettaro di superficie agricola utilizzata in conduzione: 20 ql - per gli altri allevamenti (bovini, equini, ovi-caprini) carico massimo di peso vivo per ettaro di superficie agricola utilizzata in conduzione: 40 ql; - sono sempre ammessi gli allevamenti di animali nel limite del fabbisogno familiare e a fini agrituristici; d) l’attività di trasformazione dei prodotti agricoli; e) l'attività di florovivaismo, secondo le disposizioni contenute in apposito regolamento d'uso; f) l'agriturismo, nel rispetto della vigente legislazione, statale e regionale, in materia.” Articolo 24 (ambiti con rilevanti significati di archeologia industriale) “L’individuazione puntuale degli edifici, con le relative aree di pertinenza, o dei complessi di elevato significato di archeologia industriale, posti al di fuori dei centri storici è operata al fine di garantire la conservazione e la valorizzazione dei loro valori storici, artistici e culturali nonché la loro rivitalizzazione con l’insediamento di nuove attività compatibili con gli obiettivi di tutela. Sono consentiti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, nonché gli interventi di restauro e di recupero ancorché volti a consentire un uso non più di carattere produttivo ma idoneo a garantire la conservazione dei valori oggetto di tutela. In caso di perdurante presenza di attività produttive sono compatibili gli interventi edilizi e tecnologici - anche se parziali -

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necessari al permanere della suddetta attività, purché sia garantita la conservazione degli elementi architettonici e di ingegneria storica ed idraulica connotativi dei caratteri originari degli edifici. Non sono invece consentiti gli interventi edilizi e gli usi che risultino in contrasto con il significato ed il carattere del bene.”

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2.4. Pontida

2.4.1. La Valle San Martino

Il toponimo “Valle San Martino” identifica il territorio compreso tra la sponda orientale dell’Adda e la Valle Imagna. Tuttavia, come ebbe a rimarcare lo storico briviese Ignazio Cantù (1810-1877), a livello morfologico non propriamente di una valle si tratta quanto piuttosto di una costiera esposta a mezzogiorno e affacciata sul Lago di Garlate, e sul fiume Adda suo emissario, avente come spartiacque la dorsale montuosa estesa dal monte Resegone (m 1875) sino all’Albenza. Situato alla estremità occidentale del territorio bergamasco, a cavallo fra le Province di Bergamo e Lecco, il distretto della valle è oggi costituito da nove Comuni per un totale di 60 km2 di estensione e 33.000 abitanti: Calolziocorte, Carenno, Erve, Monte Marenzo, Torre de’ Busi e Vercurago (LC), Caprino Bergamasco, Cisano Bergamasco, Pontida (BG). Il primo accenno scritto del suo nome attuale lo abbiamo nelgi statuti cittadini del 1311, che ricordano una “Vallis Sancti Martini”. È noto poi che la chiesa madre di Calolzio è dedicata a S. Martino e si sa di quanta devozione godesse questo Santo presso il popolo nel medioevo: è probabile quindi che da qui la denominazione si sia estesa a tutta la Valle, tanto più che a Pontida vi erano i benedettini cluniacensi, i quali ebbero sempre una particolare devozione per S. Martino. La valle gravitò sempre su Bergamo, fin dalle più antiche origini e l’Adda ebbe sempre il compito di confine. All’epoca romana risale la via militare che da Bergamo passava per il ponte di Almenno, giungeva a Gromlongo, Pontida, Cisano e poi piegava verso Brivio e di qui raggiungeva Como. Forse da questo fatto nacqua l’interpretazione del nome di Pontida in “Pontis iter”, via che conduce al ponte, appunto, di Brivio.

2.4.2. Il Monastero di S. Giacomo

Una data fondamentale, vera e propria pietra miliare nella storia della Val S. Martino e di Pontida in particolare, è quella dell’8 novembre 1076, giorno in cui Alberto dei Prezzati donava al monastero di Cluny un terreno su cui vi era già una chiesetta in onore di S. Maria, S. Giacomo e S. Bassiano, perché vi si edificasse un monastero e un “hospitium” per pellegrini e viandanti. Il punto preciso scelto è chiamato “Ronco di Aldergarno”, il punto più alto della vallata, vero e proprio spartiacque, e così anche fisicamente puto di riferimento qualificante per tutta la zona. Successivamente Alberto si recò a Cluny dove rivestì l’abito monastico, tornò a Pontida, per incarico del grande abate Sant'Ugo, a svolgervi non solo l’ufficio di priore del monastero, ma anche quello di vicario dell’abate di Cluny per tutta la Lombardia. Il 6 aprile 1095, poco prima di morire, Alberto ebbe la soddisfazione di vedere consacrata da un vescovo fedele al legittimo pontefice Urbano II la grande chiesa romanica da lui voluta e sorta al posto delle primitiva chiesetta. Alberto morì a Pontida il 2 settembre 1095 in fama di santità. Nei primi anni del XII secolo i beni del monastero si estendevano dalla val Brembana al Lodigiano e arrivavano anche al di là dell’Adda. La tradizione vuole che il 7 aprile 1167 i rappresentanti dei comuni lombardi, stanchi delle prepotenze dell’imperatore Federico Barbarossa, scomunicato dal papa, messe da parte le loro antiche discordie, si siano trovati nel Monastero di Pontida giurandovi un patto di reciproco aiuto, divenuto famoso col nome di Giuramento di Pontida. Nel 1373 il monastero rimase vittima delle lotte tra milanesi (Ghibellin) e bergamaschi (Guelfi) e i pochi monaci superstiti si rifugiarono a Bergamo. Il monastero agonizzò per oltre un secolo fino a quando, nel 1491, fu aggregato da Innocenzo VIII alla Congregazione di S. Giustina di Padova sciogliendo così l’antico legame con Cluny e da quel momento incominciò una vita nuova per il piccolo monastero bergamasco che riprese le sue attività religiose e culturali fino al 1798. In quell’anno il monastero venne soppresso per mano di Napoleone insieme ad altri monasteri e conventi

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lombardi con la convinzione che gli ordini religiosi avessero fatto ormai il loro tempo. Dopo un secolo il monastero era ridotto a deplorevoli condizioni e la popolazione locale insieme alle autorità religiose e civili insistette perché i Benedettini cassinesi riprendessero possesso dell’antico loro monastero e lo facessero rifiorire. Alla fine il 14 gennaio 1910 tre monaci della congragazione Benedettina Cassinese vennero a Pontida per riaccendervi la fiamma dell’antico ideale del divino servizio nella preghiera e nel lavoro, si diede così l’inizio ad una lenta rimessa in forze del monastero che era stato lottizzato e ridotto ad abitazioni private per arrivare all’inaugurazione della nuova biblioteca il 6 settembre 1953. Il monastero con tutta la sua storia costituì un importante momento di qualificazione territoriale sia per il ruolo di Pontida come passaggio verso il ponte di Brivio sia per la morfologia del Comune derivata proprio dai possedimenti monastici; vedi per esempio la sua singolare vocazione a fiume tutt’ora conservata da una stretta lingua di territorio tra Cisano e Villa d’Adda che assicurava l’attività di pesca e la presenza di Molini.

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3. IL PROGETTO

3.1. Il sito

L’area di progetto è situata sulla riva orografica sinistra del fiume Adda a circa 15 km a sud di Lecco. Si tratta di una porzione del comune di Pontida che si protende verso ovest per raggiungere il fiume tra i comuni di Cisano Bergamasco a nord e Villa d’Adda a sud. L’area è pianeggiante e la sua forma triangolare è disegnata a nord dal torrente Sonna, a sud-ovest dal fiume Adda e a sud-est dalle pendici del monte Canto. Il torrente Sonna è un corso d’acqua che nasce alle pendici del Monte Tesoro ad un’altezza di 1432 metri, passa l’abitato di Torre de’ Busi, bagna Caprino Bergamasco e confluisce da sinistra nell’Adda all’altezza del ponte di Brivio dopo 10 km di sviluppo. Durante il suo percorso il torrente alimenta il canale di derivazione “Seriola” che serve sette impianti molinatori. Il monte Canto è un monte “orfano” perché staccato dalle Prealpi bergamasche. È il primo rilievo montuoso che si incontra risalendo la sponda orientale del fiume Adda. Il monte raggiunge una quota massima di 710 metri s.l.m. ed è ricoperto in gran parte da boschi e castagneti, soprattutto sul versante settentrionale mentre su quello meridionale sono presenti alcuni vigneti. L’ultimo elemento di confine dell’area di progetto è costituito dal fiume Adda di cui si è già ampiamente parlato per la sua grande importanza a livello territoriale. Particolarità però di questo punto dell'Adda è la presenza di stagni e luoghi umidi dove il fiume si allarga formando isole e canali. Si crea così uno scenario di rara bellezza dove, in una natura ancora incontaminata, vivono e nidificano moltissime specie di grandi e piccoli uccelli acquatici e terraioli, quali l'airone cinerino, il falco di palude, il cigno, il germano reale, lo svasso, la folaga, la garzetta, la cornacchia, il cormorano, il gabbiano, il fagiano, la quaglia, il passero, il pettirosso e via dicendo. Sulla punta di una delle penisole è presente un’osservatorio ornitologico realizzato nel 2000 dalla Pro Loco Villa d’Adda. Si tratta di una capanna in legno provvista di finestrelle per il birdwatching sul fiume, raggiungibile attraverso una passerella in legno lunga 143 metri che permette di scavalcare due canali consecutivi creando un paesaggio ancor più suggestivo. L’area di progetto è dedicata all’uso agricolo; sono presenti coltivazioni di mais e prati per la produzione di tappeti erbosi. L’area è ulteriormente suddivisa in tre località che coincidono con la presenza di tre complessi di edifici: - Molini di sopra, ex “Molino dei Conti”, che si trova in uno stato di completo abbandono; - Molini di sotto, ex “Molino dei Frati”; - Brosetta, ex cascina che è stata rasa al suolo e in seguito ricostruita mantenendo i volumi ma perdendo l’identità architettonica.

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3.2. Gli edifici

Il progetto ha come fulcro la riqualificazione dell’ex “Molino dei Frati”. Si tratta di un complesso formato da due edifici: uno, di tre piani, orientato longitudinalmente sull’asse nord/ovest - sud/est fiancheggia la sponda del fiume Adda metre l’altro, di due piani, orientato sull’asse nord/est - sud/ovest crea, grazie al rapporto con il primo, un cortile di fronte all’ingresso principale di quest’ultimo. L’edificio in cui era presente la funzione del mulino è quello parallelo alla sponda del fiume; l’epoca di costruzione si colloca tra il 1712 e il 1721 ad opera dei frati del Monastero di San Giacomo che ne sono stati in possesso fino al 1798, data in cui il monastero fu soppresso e i suoi beni dispersi. La testimonianza della presenza dei Frati nel mulino si trova nelle carte e nei documenti storici dove viene menzionato come “Molino dei Frati” o “Molino dei Padri di Pontida” ma anche nella presenza dello stemma abbaziale posto sulla facciata insieme ad un affresco che raffigura la Madonna. L’edificio era dotato di quattro ruote a pale che venivano azionate grazie alla presenza di un canale, ora scomparso, ma sicuramente ancora presente agli inizi del ‘900. A ogni ruota corrispondeva un impianto molinatorio e dalle piante rilevate si riconoscono i quattro moduli che ospitavano i macchinari. Ogni modulo è attraversato dal muro di spina centrale che divide, sia al piano terra che al piano primo, lo spazio in due parti: una, adiacente al fiume, era destinata ad ospitare gli ingranaggi di trasmissione della ruota e, al piano superiore, la macina; l’altra, affacciata sul cortile, accoglieva funzioni ausiliarie a entrambe i piani. Il muro di spina è affiancato da una seconda linea portante che si sviluppa parallela alla prima ad una distanza di due metri verso il fiume; al piano terra questa linea è costituita da una serie di archi in muratura (uno per ogni modulo) che permettono l’esistenza di un locale unico e sostengono i solai in legno che dovevano essere attraversati da scale e macchinari. Al contrario la parte di ogni modulo sul lato del cortile, è caratterizzata dalla presenza di volte a crociera in muratura molto massicce. Tra i quattro moduli appena descritti, al centro, si trova un modulo di dimensione uguale agli altri ma con funzione di distribuzione verticale e privo della volta in muratura proprio perché in quello spazio si trovano l’ingresso principale dell’edifico e le due scale che portano al primo piano. Da qui prosegue solo una delle due scale che porta al piano secondo (sottotetto) dove molto probabilmente si trovavano le residenze dei lavoratori del mulino. Questo piano è organizzato con un corridoio centrale, tra il muro di spina e il suo parallelo, che distribuisce una serie di stanze corrispondenti ai moduli sottostanti. È presente infine un sesto modulo a nord; la diversa inclinazione del lato verso il fiume, l’assenza del muro di spina, la più alta precisione di messa in opera delle murature, la diversa natura strutturale della soletta del primo piano e l’anomalia simmetrica nei prospetti e nelle piante fanno dedurre che si tratti di una porzione di edificio aggiunta in un momento successivo. L’edificio ortogonale rispetto al fiume compare, anche se dimensionalmente più piccolo di come è oggi, nel catasto lombardo-veneto del 1843 ed è quindi più recente rispetto al mulino; l’ampliamento, quasi un raddoppio verso nord, è databile tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. Si tratta in questo caso di un edificio collegato all’attività agricola, che più precisamente assolve le funzioni di fienile, stalla e ricovero degli attrezzi da lavoro. L’edificio può essere diviso in due dal muro portante centrale disposto longitudinalmente: la parte a sud, verso il cortile, è quella più vecchia ed è costituita dalle stalle al piano terra e il fienile al piano superiore; la parte a nord, verso i campi, è costituita da un portico che si sviluppa su due piani ma dove in passato era presente una soletta in legno che creava un piano per un ulteriore fienile.

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3.3. Il programma

3.3.1. La strategia

La riqualificazione dell’ex-Molino dei Frati si propone di riportarlo a far parte della società per non essere relegato a immagine vernacolare e romantica di un modo di vivere superato. Si vuole recuperare un’economia locale che rilanci i rapporti tra città e campagna e che renda il giusto valore alla gestione del territorio e delle risorse naturali, un’economia locale che rivaluti l’agricoltura e le restituisca l’importanza che deve avere in quanto fondamento per la sopravvivenza di una determinata cultura e delle sue peculiari caratteristiche. Per ottenere questo obiettivo si vuole inserire una serie di funzioni che facciano da volano alla diffusione di un diverso modo di vivere l’agricoltura, l’economia e di conseguenza il territorio ma che siano anche compatibili con la natura dell’edificio: - azienda agricola biologica - residenza per il gestore dell’azienda - mulino - sede associazioni (g.a.s.) - laboratorio di recupero - museo dell’energia con impianto mini-idroelettrico - scuola di pratiche sostenibili - alloggi temporanei per lavoratori stagionali e studenti

3.3.2. Edificio del mulino

Si è intervenuti sull’edificio cercando di renderlo di nuovo utilizzabile senza sconvolgerne la natura. La necessità dell’inserimento dell’ascensore è stata utilizzata per creare un punto a sviluppo verticale che manifesti la sua destinazione a spazio di distribuzione sia all’interno che all’esterno dell’edificio: all’interno tramite le bucature delle solette, all’esterno tramite la creazione di una serie di aperture marcatamente diverse dalle altre. Ogni apertura è progettata con l’intento di aumentare la percezione dell’architettura e del luogo in cui si radica: quella al piano terra, centrata rispetto all’ingresso, permette una completa permeabilità visiva dell’edificio dall’ingresso principale; al piano primo è stato inserito un balcone che permette di uscire sul lato del fiume stando sospesi sull’acqua e permette di vedere la ruota del mulino e la vite idraulica; l’apertura stretta e alta che parte dal primo piano e arriva fino al secondo evidenzia la tripla altezza creata all’interno e enfatizza la risalita dell’ascensore essendo centrata su di esso e inoltre la sua strombatura è stata progettata per garantire la vista verso l’esterno sia dall’ascensore mentre si sale, sia dal corridoio al primo e al secondo piano. La caratterizzazione di questa porzione di prospetto vuole rendere più leggibile l’originaria simmetria dell’edificio e con questo criterio sono anche stati scelti i moduli in cui andare a creare il mulino e la centrale mini-idroelettrica. Per quanto riguarda invece la porzione di edificio aggiunta in epoca successiva si è deciso di non agire sui prospetti ma creare una doppia altezza andando a togliere la soletta tra il piano terra e il primo piano per rendere più esplicito il diverso carattere di questo modulo. Nel piano sottotetto è stato valorizzato il corridoio distributivo centrale tramite l’apertura di una serie di lucernari che ricalcano tutta la sua lunghezza e, grazie al loro orientamento sud/ovest, permettono l’irraggiamento diretto sul muro di spina.

3.3.3. Edificio del fienile

Dato l’insediamento nell’area di un’azienda agricola biologica, l’edificio agricolo riprenderà la sua funzione originaria di stalla e fienile con una piccola aggiunta. Si tratta della realizzazione di

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un prototipo di architettura bioclimatica con la sperimentazione di tecniche costruttive a basso impatto ambientale. L’intervento è caratterizzato dalla creazione di un volume situato al piano primo che vuole essere completamente autonomo per quanto riguarda il riscaldamento nel periodo invernale e il raffrescamento nel periodo estivo. Il volume è costituito da un involucro con struttura in legno e tamponamento in balle di paglia che garantisce un ottimo isolamento termico ma anche una buona massa di inerzia termica. L’inerzia termica diventa fondamentale dato che questa struttura può essere definita “solare passiva” dal momento in cui il lato orientato a sud è stato progettato completamente vetrato per l’ingresso dell’energia solare. Non si tratta però di una semplice vetrata ma di una doppia vetrata che crea una serra solare raddoppiando l’effetto del riscaldamento passivo: guadagno diretto tramite l’irraggiamento della massa d’inerzia termica attraverso le due vetrate e indiretto tramite la serra che è in grado di scambiare calore con l’ambiente interno per convezione. Nel periodo estivo la serra, ampiamente protetta dai raggi solari, si apre favorendo la ventilazione del locale da nord a sud.

3.3.4. Agricoltura

La riqualificazione dell’agricoltura è stata progettata con gli obiettivi di tutelare l’ambiente rurale, di accrescere la qualità dei prodotti della terra e, conseguentemente, di valorizzare il paesaggio. Le due strategie principali per attuare questa operazione sono: - la piantumazione di siepi e filari alberati al fine di incrementare e tutelare la biodiversità della fauna selvatica; inoltre possono essere utilizzate essenze produttive sia dal punto di vista alimentare sia dal punto di vista della produzione di legname; - la rotazione colturale in cui la coltivazione di mais e cereali (utilizzabili in parte per la macinazione, in parte per l’alimentazione degli animali da cortile e in parte da destinare alla vendita diretta o ai g.a.s.) viene alternata a colture apportatrici di sostanze utili (es. leguminose) e a saltuarie colture a sovescio (es. grano saraceno o facelia) che accrescano la fertilità del terreno.

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