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- 1 - Fondazione Guglielmo Gulotta di Psicologia Forense e della Comunicazione - Onlus LA RICOSTRUZIONE DEL FATTO NEL PROCESSO PENALE ORTIS PELLIZZER Laureato in giurisprudenza Docente: Prof. Guglielmo Gulotta Tutor: Dott.ssa Selenia Di Bari

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Fondazione Guglielmo Gulotta di Psicologia Forense e della Comunicazione - Onlus

LA RICOSTRUZIONE DEL FATTO NEL PROCESSO PENALE

ORTIS PELLIZZER Laureato in giurisprudenza

Docente: Prof. Guglielmo Gulotta

Tutor: Dott.ssa Selenia Di Bari

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Sintesi del tema trattato

La ricostruzione del fatto è il cuore del processo penale. Esamineremo attraverso quale metodo

(contraddittorio) e quali strumenti concreti (prova dichiarativa, scientifica e documentale) il nostro

processo penale ricostruisce il fatto, verificando la fondatezza dell'ipotesi accusatoria e la sua

tenuta logica ed epistemologica. Daremo conto degli apporti che neuroscienze e psicologia offrono

alla ricostruzione del fatto.

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INDICE

- Premessa.

Il fatto: la metamorfosi del passato che si fa presente …............................................................................................ pag. 3

- Parte Prima.

1. La nozione di «fatto» e gli «stati» del fatto............................................................................................................. pag. 5

2. La ri-costruzione bustrofedica del fatto................................................................................................................... pag. 6

3. Le norme positive di orientamento (cenni generali e rinvio)................................................................................... pag. 7

- Parte seconda.

1. I raggi solari del libero convincimento.................................................................................................................... pag. 9

2. La vanga del dubbio................................................................................................................................................pag. 11

3. L'aratro del contraddittorio.................................................................................................................................... pag. 13

4. Gli altri strumenti nella cassetta da lavoro del giurista.......................................................................................... pag. 14

- Parte terza.

1. Il bianco, il nero (o il grigio?) del testimone: la prova dichiarativa: .................................................................... pag. 15

2. Profondo rosso: la prova scientifica ...................................................................................................................... pag. 17

3. «Et negro sèmen seminaba»: la prova documentale ............................................................................................. pag. 19

4. La serendipità e l'interpretazione logica della prova …........................................................................................ pag. 22

5. «Così è (se vi pare)»: l'interpretazione psicologica della prova............................................................................ pag. 24

- Parte quarta.

1. Gli «alleli» delle neuroscienze giuridiche ............................................................................................................ pag. 27

2. La «boule de neige» della psicologia, come scienza dei fatti umani..................................................................... pag. 29

- Conclusioni.

Un nuovo paradigma all'orizzonte: passato che si fa futuro ..................................................................................... pag. 30

Post scriptum............................................................................................................................................................. pag. 31

- Bibliografia......................................................................................................................................................... pag. 31

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- PREMESSA -

“E l'assemblea credette loro, perché erano anziani del popolo e giudici

e la condannarono a morte”

(BIBBIA, Antico Testamento, Daniele, 13-41)

Il fatto: la metamorfosi del passato che si fa presente.

La storia di Susanna, riportata nel libro profetico di Daniele nell'Antico Testamento, è emblematica

di quanto sia fondamentale nel processo (specialmente in quello penale) la ricostruzione del fatto, e

con essa il metodo e gli strumenti di ricostruzione del fatto.

Susanna, donna molto bella, fine d'aspetto ed onesta, sposata con il ricchissimo Ioachim, era stata

condannata a morte a seguito di un'accusa di adulterio con un giovane rimasto inspiegabilmente

sconosciuto; ella, protestatasi a viva voce e con forza innocente, venne portata davanti al popolo

radunato in Assemblea e la prova ai fini della condanna consistette nella testimonianza di due

anziani del popolo, che per la loro stessa anzianità rivestivano pure la funzione di giudici.

Alla base, dunque, di una condanna a morte la regina delle prove dichiarative: la testimonianza,

oltretutto rafforzata dalla qualità autorevole della fonte da cui proveniva (giudici anziani).

Solo grazie all'intervento provvidenziale -qui in senso letterale e religioso del termine- di Daniele

verrà scongiurata una morte ingiusta ed una nefanda frode processuale ante literam.

Daniele, mentre Susanna sta per essere condotta al patibolo, solleva una incisiva eccezione di

metodo, contestando all'Assemblea di aver giudicato senza metodo:

“Avete condannato una figlia d'Israele senza aver fatto inchiesta ed investigato bene la verità” (1).

Daniele, pur non avendone esplicitamente assunto il ruolo, appare all'evidenza l'avvocato di

Susanna e da buon avvocato indica il metodo (contraddittorio) e lo strumento per metterlo in pratica

(contro-esame nell'assunzione della prova dichiarativa): chiama a sé i due anziani giudici testimoni,

unici accusatori di Susanna, contro la quale si sono inventati l'accusa di adulterio poiché ella,

integerrima, non ha voluto concedersi alla loro insana passione.

Daniele, avuti i due testimoni al suo cospetto, li divide e li interroga separatamente; una sola

domanda li farà cadere in contraddizione: sotto quale albero si è consumato l'adulterio? Il primo

anziano risponde “lentisco”, il secondo “leccio”: Susanna è salva, i due fedifraghi mandati a morte.

Ma cosa sarebbe successo se il fatto non fosse stato ricostruito correttamente attraverso una buona

logica ed un metodo valido?

1 BIBBIA, Antico Testamento, Daniele, 13-48.

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Il problema cruciale nella ricostruzione del fatto è che si deve necessariamente mettere in relazione

il presente (il processo) con il passato (il fatto): nel processo penale si assiste inevitabilmente ad una

metamorfosi del fatto (capo d'imputazione), che da evento per definizione passato e del passato

trasmuta in una categoria del presente (oggetto della prova).

Il percorso di questa metamorfosi non può essere libero, ma deve essere condotto lungo le linee di

un metodo e deve servirsi di strumenti scientificamente validi: metodo e strumenti entrambi

normativamente individuati ed acconsentiti.

Solo così si potrà celebrare il miracolo della “resurrezione del fatto” nel dibattimento del processo

penale, che -giova ricordarlo per mai dimenticarlo- non si fa su quello che è successo, ma su quello

che si dice che sia successo (2).

--- --- ---

Veniamo, ora, al tema del presente lavoro, che in sintesi può così riassumersi.

TEMA :

“Come si può ricostruire il fatto nel processo penale, utilizzando il metodo e gli strumenti messi a

disposizione dall'ordinamento positivo e dalle scienze intese in senso lato; e come debba il buon

giurista adoperare concretamente nel processo penale metodo e strumenti”.

Il presente lavoro si compone di quattro parti.

La prima parte sarà dedicata al significato da attribuire al concetto di “fatto” e di «stati» del fatto da

ricostruire nel processo penale ed all'operazione di ricostruzione sia dal punto di vista

epistemologico sia dal punto di vista dell'ordinamento positivo.

La seconda parte tratterà analiticamente del metodo del contraddittorio nel cd. giusto processo, alla

luce delle regole del libero convincimento del giudice e dell'oltre ogni ragionevole dubbio.

La terza parte prenderà in esame tutti gli strumenti attualmente a disposizione delle parti processuali

per contribuire alla ricostruzione del fatto; in sostanza si tratta delle prove: dichiarativa, scientifica e

documentale, e della loro interpretazione logica e psicologica.

La quarta parte punterà l'attenzione sull'apporto che le neuroscienze da una parte e la psicologia

dall'altra possono dare e stanno concretamente offrendo alla ricostruzione del fatto.

Seguiranno, infine, delle brevissime conclusioni di sintesi ed un dovuto e genuino ringraziamento.

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Avviso ai naviganti: darò per scontata la differenza fra i concetti di verità storica e verità

processuale (ovvero fatto storico e fatto processuale); e darò come presupposta l'affermazione

secondo cui: la verità storica è irraggiungibile e tendervi è irrinunciabile. Parlando di fatto (e di

verità) il riferimento sarà al fatto (ed alla verità) processuale. 2 GUGLIELMO GULOTTA ed altri, Processi penali processi psicologici, Giuffré, 2009, pag. 24: “il processo non si svolge sui fatti accaduti ma su ciò che viene detto dei fatti accaduti”.

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PARTE PRIMA

“Historicus non est effictor rerum, sed explanator”

(FRANCESCO ROBERTELLO, De historica facultate disputatio, Firenze, 1548, pag. 7)8

Sommario: 1. La nozione di «fatto» e gli «stati» del fatto - 2. La ri-costruzione bustrofedica del fatto. - 3. Le norme positive di

orientamento (cenni generali e rinvio)

1. La nozione di «fatto» e gli «stati» del fatto.

Il fatto è tutto nel processo penale: potrà sembrare un'esagerazione ma, a ben guardare, quale che

sia la prospettiva dalla quale si esamina il processo, alla fine l'attenzione parte, cade e torna al fatto,

scolpito come “ipotesi di un fatto” nel capo d'imputazione (3); è un'esagerazione che, peraltro, si è

radicata nel tempo, originando da un pensiero autorevolissimo.

Si narra, infatti, di un dialogo tra Francesco Carnelutti (maestro in utroque: diritto civile e diritto

penale) e Guido Zanobini (notissimo professore di diritto amministrativo), ove Carnelutti, col suo

dire talora irridente più che ironico, scherniva scherzosamente l'amico Zanobini e lo ammoniva:

“Caro Guido, il civile è il diritto, il penale è il fatto, e l'amministrativo … beh, l'amministrativo è il

nulla” (4).

Il fatto, dunque, è tutto nel processo penale perché su di esso ruota l'accusa, la difesa ed il giudizio

finale.

Per quanto interessa al presente lavoro e da un punto di vista strettamente processuale, in via di

prima approssimazione e con riserva di approfondimento, possiamo definire il fatto (5) come un

evento naturalistico accaduto nel passato, che diventa oggetto di indagine (procedimento penale) e

di giudizio (processo penale).

Il giurista (6) ha -come lo storico- il compito di ricostruire il fatto; in quest'attività dobbiamo subito

segnalare un limite invalicabile: sarà comunque impossibile verificare il fatto in sé e mai si avrà la

certezza che il fatto ricostruito ed il fatto in sé siano perfettamente identici (7).

3 Rende bene l'idea che il fatto è il fulcro del processo penale un vecchio insegnamento, che si tramanda fra avvocati che praticano nelle aule di giustizia: il difensore, quando affronta un processo penale, deve prestare un doppia attenzione, un po' come quando si frigge il pesce: un occhio alla triglia in padella (il fatto del capo d'imputazione) ed un occhio al gatto in cucina (prescrizione), che si potrebbe in ogni momento mangiare la triglia. 4 Tralascio la risposta piccata e salace di Guido Zanobini. 5 Il termine “fatto” trae la sua origine etimologica dal verbo latino irregolare “fieri” (=divenire), del quale “ factum” (=divenuto) è il participio passato. Abbiamo, quindi, a che fare con qualcosa che c'è stato e non c'è più e non è più ripetibile; c'è una stupenda espressione latina che sottolinea in materia incisiva e chiara la pregnanza sostanziale del “ fatto”, ed è questa: “quod factum infectum fieri nequit” (=ciò che è stato fatto non può più divenire non fatto). 6 Il termine “giurista” viene usato, qui e in tutto il presente lavoro, per designare tutti gli operatori del diritto che, a vario titolo e con diverse finalità, contribuiscono nel processo penale alla ricostruzione del fatto, vale a dire la pubblica accusa, la difesa ed il giudice.

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Come è stato acutamente osservato (8), nel processo come nella storia la linea, che congiunge il

fatto storico del giudizio ed il fatto da ricostruire, è una “linea inconoscibile”, in quanto è ormai

scomparso il referente storico: il fatto del passato che fu, ma oggi non è più (9).

Il fatto all'inizio del processo ha le forme dell'ipotesi, che è contenuta nel capo d'imputazione; il

processo penale mira a verificare la fondatezza dell'ipotesi e lo fa attraverso la ricostruzione

dell'ipotesi accusatoria e sulla base dei dati che emergeranno nel corso del dibattimento.

Volendo, a questo punto, dare un contenuto più definito al fatto, possiamo affermare che esso si

compone di almeno tre elementi (che chiameremo “stati” del fatto, in ragione della loro staticità), i

quali -quand'anche non esattamente individuati nel capo d'imputazione- sono essenziali e vanno

considerati come tali ai fini di una corretta ricostruzione del fatto (10).

Gli «stati» del fatto sono:

1. lo stato della sussistenza: si è verificato il fatto e chi ne è l'autore?

2. lo stato della definizione: come si qualifica il fatto penalmente? E' reato o non è reato?

3. lo stato della valutazione: è punibile l'autore del fatto? Ci sono cause di giustificazione,

circostanze aggravanti od attenuanti da prendere in considerazione?

Il fatto ed i suoi stati sono per definizione controversi; potremo azzardare (e più avanti se ne

spiegherà la ragione) che il fatto non esiste all'inizio del processo e l'embrione del fatto dovrà

passare attraverso la gestazione dibattimentale per venire alla luce ed essere ricostruito.

2. La ri-costruzione bustrofedica del fatto.

Il processo penale (ed in esso i suoi protagonisti) ha, dunque, il compito della ricostruzione del

fatto: il fatto -sotto forma di ipotesi- è quello descritto nel capo d'imputazione.

Si parla concordemente di “ricostruzione” e non di costruzione perché il fatto, appartenuto al

passato, non c'è più e, dunque, si può soltanto “ricostruire”.

7 Si tratta della sempre vivace disputa fra la “verità storica” e la “verità processuale”, su cui rimando alla lettura di JORDI FERRER BELTRAN, Prova e verità nel diritto, ed. Il Mulino, 2004, limitandomi a citarlo nell'auspicio finale a pag. 119: “non è certo necessario esiliare la nozione di verità per ottenere frutti nell'analisi della nozione di prova, ma è, piuttosto, imprescindibile comprendere adeguatamente le relazioni esistenti tra i due concetti per cogliere molti degli aspetti problematici che circondano il secondo di essi nell'ambito del diritto. Una cosa è che la prova di una proposizione su un fatto non esiga la verità della proposizione stessa. Ma che la prova e la verità non siano sorelle non vuol certo dire che non abbiano una stretta parentela!”. 8 PAOLO FERRUA, Epistemologia scientifica ed epistemologia giudiziaria: differenze, analogie, interrelazioni, in La prova scientifica nel processo penale, a cura di LUISELLA DE CATALDO NEUBURGER, ed. Cedam, 2007, pag. 9. 9 Per una prospettiva diversa, sul piano filosofico, si legga l'interessantissimo saggio di FRANCESCO CAVALLA, La verità dimenticata, ed. Giuffrè, 1996, in cui il padre dei filosofi del diritto moderni mantiene la speranza di attingere alla verità, oggi dimenticata: “Tornare all'evidenza, però, significa anche comprendere che il fallimento delle spiegazioni si inscrive pur esso nell'orizzonte di una verità dimenticata, eppure tanto operosa da mostrare le conseguenze della propria dimenticanza, riproponendo così come indefettibile il proprio contenuto originario: che è il sorgere delle cose mentre il fondamento s'inabissa”. 10 Riprendo qui le intuizioni di quell'antica ma validissima “teoria degli status”, ideata -sia pure a fini diversi- dal retore greco Ermagora di Temno.

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Volendo fare sforzo di sintesi, la ricostruzione del fatto ha un'unica qualifica (11): deve essere

razionale, il che significa:

a) deve essere basata sui principi della logica, della scienza e dell'esperienza;

b) deve essere ancorata ai risultati delle prove legittimamente assunte;

c) deve essere quanto più possibile oggettiva, epurata di ogni soggettività.

Il fatto che esce dalla gestazione dibattimentale è un'entità diversa, in grande od in modesta misura,

dal fatto in sé, che non c'è più; il processo penale, nel momento in cui celebra la morte del fatto

storico (poiché nasce per definizione dalla sue macerie), ne partorisce un altro: il fatto processuale.

Si potrà dire paradossalmente -riprendendo l'immagine iniziale- che il fatto nel processo penale è il

nulla, ovvero non è più nulla, perché viene rigenerato e, diremo più tecnicamente: ricostruito,

assumendo una diversa entità.

L'attenzione delle parti nel processo è sempre orientata verso il giudice, che sarà il collettore degli

apporti che si danno alla ricostruzione del fatto ad opera dell'accusa e della difesa; il giudice, che

alla fine raccoglie i frutti della ricostruzione, è -si diceva- come lo storico (12): “non effictor”, in

quanto non si limita a dipingere quale sia il fatto generato nel corso del giudizio, bensì

“explanator”, in quanto ha il dovere di spiegare il percorso logico (13) seguito per arrivare fino alla

ricostruzione del fatto, assunto come ipotesi all'inizio del processo.

Il giudice ha il compito più gravoso e più gratificante: e lo dovrà svolgere al paralume della ragione,

solcando e risolcando gli ambiti delle prove ed i risultati emersi, e dandone conto nella motivazione;

questo significa “ricostruzione bustrofedica del fatto” (14): non basta solcare, occorrerà tornare

indietro per lo stesso solco e risolcare, garantendo maggior profondità argomentativa e maggior

solidità logica al ragionamento di ricostruzione del fatto.

3. Le norme positive di orientamento (cenni generali e rinvio).

Le norme che orientano il giurista nella ricostruzione del fatto sono più d'una:

- art. 429, lettera c) e lettera d), c.p.p.: il decreto che dispone il giudizio deve contenere

l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del “fatto”;

11 PAOLO TONINI, Manuale di procedura penale (X), ed. Giuffrè, 2009, pag. 207. 12 Sui rapporti fra il giudice e lo storico credo sia superfluo richiamare: PIERO CALAMANDREI, Il giudice e lo storico, Napoli, 1965. Molto più vicino a noi, in termini temporali, si legga: GIULIO UBERTIS, La ricostruzione giudiziaria del fatto tra diritto e storia, in Cass. Pen, 2006, pag. 1208 ss. Da ultimo, recentissimo, il contributo di GUGLIELMO GULOTTA, Mente, società e diritto, ed. Giuffrè, 2010, pag. 6. 13 Questo sarà il lavoro della motivazione della sentenza; così, sul punto, si esprime F.M.IACOVIELLO, Motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir., Agg. IV, ed. Giuffrè, 2000, pag. 750. 14 L'aggettivo “bustrofedico” deriva dall'incontro di due parole greche (βούς=bue e στρέφειν=girare, invertire) e descrive il movimento del bue, che traccia i solchi trascinando l'aratro durante l'aratura, da destra a sinistra e poi da sinistra a destra.

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- art. 493, I° comma, c.p.p.: le parti processuali indicano i fatti che intendono provare e chiedono

l'ammissione delle prove;

- art. 516, I° comma, c.p.p.: se nel corso dell'istruzione dibattimentale il “fatto” risulta diverso da

come è descritto nel capo d'imputazione, s'impone la modifica dell'imputazione;

- art. 518, I° comma, c.p.p.: se risulta un “fatto” nuovo nel corso del dibattimento, si procede con

una nuova imputazione per le vie ordinarie;

- art. 521, I° comma, c.p.p.: nella sentenza il giudice può dare al “fatto” una definizione giuridica

diversa da quella enunciata nell'imputazione;

- art. 530, I° comma, c.p.p.: il giudice assolve se il “ fatto” non sussiste, se l'imputato non lo ha

commesso, se il “fatto” non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato;

e di esse non ci è possibile spendere parola, pur dovendone tenere a mente i contenuti.

Vero è che le fondamenta normative su cui poggia la ricostruzione del fatto sono congiunte -a forma

di quadrilatero- da quattro pilastri del nostro ordinamento processuale penale:

1- art. 192 c.p.p.: è il raggio solare del libero convincimento, e se ne parlerà diffusamente a breve

infra sub Parte Seconda, par. 1), al quale si rimanda;

2- art. 526, I° comma, c.p.p.: la norma cristallizza il principio di legalità della prova: possono essere

utilizzate ai fini della deliberazione soltanto le prove legittimamente acquisite (15).

3- art. 533, I° comma, c.p.p.: alla regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio viene dedicato in Parte

Seconda il par. 2), al quale si rimanda;

4- art. 546, I° comma, lett. e), c.p.p.: la sentenza deve contenere, oltre alla concisa esposizione dei

motivi di fatto e di diritto su cui la decisione si fonda e l'indicazione delle prove, anche

l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie;

quest'ultima parte della lettera e) viene molto spesso sottovalutata, ma rappresenta in un certo senso

la traduzione giuridica del criterio popperiano di falsificabilità (16) e contribuisce a calibrare

scientificamente una decisione liberamente assunta; la norma (figlia naturale dell'art. 192 c.p.p.) va

letta in simbiosi con l'art. 606, I° comma, lett. e): la motivazione che non dà conto

dell'inattendibilità delle prove contrarie è carente e la sentenza che la contiene va annullata.

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Il giurista, cui spetta alla fine ricostruire il fatto, si trova nella stessa situazione del bue in mezzo ad

un campo tutto da arare: fortunatamente riceve forza dai raggi del sole, ha con sé, ad aiutarlo dei

15 Da questo punto di vista il lavoro del giudice differisce da quello dello storico (e pure da quello dello scienziato) in quanto lo storico (e così lo scienziato) ha massima libertà di utilizzo di tutto il materiale, che egli ritiene utile alla ricostruzione del fatto, mentre il giudice è chiuso dentro il recinto dei risultati delle prove legittimamente acquisite. 16 Vedilo in KARL POPPER, Logica della scoperta scientifica, ed. Einaudi, 1995.

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validi contadini con delle buone vanghe, un aratro (costituzionalmente) inossidabile, e la sua forza

interiore. A breve, nella Parte Seconda, esamineremo partitamente questi elementi.

PARTE SECONDA

“Non esiste il buono o cattivo tempo , ma solo un buono o cattivo equipaggiamento”

(Sir Robert Baden Powell)

Sommario: 1. I raggi solari del libero convincimento. - 2. La vanga del dubbio. - 3. L'aratro del contraddittorio. - 4. Gli altri

strumenti nella cassetta da lavoro del giurista.

1. I raggi solari del libero convincimento.

La ricostruzione del fatto nel processo penale viene offerta dalle parti al giudice, affinché questi

emetta un giudizio sull'ipotesi d'accusa.

Il nostro sistema processuale penale si fonda sul principio del cd. libero convincimento del giudice;

è come se fossimo in un campo tutto liberamente accessibile perché tutto potenzialmente

illuminabile dai raggi del sole; nessuna zona d'ombra in cui la regola sia quella della prova legale

(lo speculare opposto del libero convincimento).

Rimane difficile una precisa definizione (17), che non sia -come abbiamo appena detto- in negativo:

quando, come nel nostro sistema, non ci sono regole di prova legale, il giudice si forma il proprio

convincimento liberamente, valutando l'esito delle prove e dandone una coerente giustificazione.

E non è un caso che il fondamento normativo del libero convincimento sia stato inserito non già

nella parte del codice di rito relativa alla decisione, bensì in quella relativa alle prove (fra le

disposizioni generali): art. 192 c.p.p.

Leggiamo, innanzitutto, il primo comma dell'art. 192 c.p.p.:

“ Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri

adottati”.

17 Ciò è tanto vero che da una parte uno dei più autorevoli processual-penalisti, MASSIMO NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, ed. Giuffré, 1974, dall'altra uno dei più autorevoli processual-civilisti, MICHELE TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, ed. Giuffré, 1992, rinunciano all'offerta di una definizione.

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La valutazione della prova è l'analisi critica del risultato dell'esame probatorio condotta attraverso il

libero convincimento (18).

Il primo limite al principio del libero convincimento sta nell'obbligo di motivazione imposto al

giudice nel momento in cui emette la propria decisione: il giudice è ancorato alla necessità della

indicazione specifica dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, onde evitare che il libero

convincimento si trasformi in (libero) arbitrio; in altre parole il giudice dovrà indicare sia i risultati

emersi dall'assunzione delle prove sia -ed è la cosa più importante- i criteri adottati nella sua

valutazione critica.

I criteri adottati possono essere individuati in tre grandi classi:

- le massime di esperienza: giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto,

guadagnate mediante l'esperienza ed autonome rispetto al singolo caso;

- i fatti notori: fatti conosciuti pubblicamente e pacificamente, che non necessitano di formare

oggetto di prova;

- le leggi scientifiche di copertura: leggi universali, sulla base delle quali è consentito affermare,

allo stato attuale della conoscenza umana, che ad un certo atto corrisponde con certezza scientifica

un certo evento (vi si ricomprendono anche le leggi statistiche (19), munite di una minore certezza

scientifica, in ragione delle quali si può affermare che, in una certa percentuale di casi, la

realizzazione di un atto è seguita dal verificarsi di un evento).

La motivazione, strutturata nell'indicazione dei risultati delle prove e nei criteri adottati per

argomentarli, garantisce ai protagonisti del processo la possibilità di un controllo sul percorso

seguito dal giudice nel decidere.

--- --- ---

Passiamo al secondo comma dell'art. 192 c.p.p.:

“L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e

concordanti”.

Vi si scolpisce lo statuto della c.d. prova indiziaria, che rappresenta un secondo limite al libero

convincimento: gli indizi possono portare alla dimostrazione del fatto di reato, a condizione che

siano, oltre che certi nella solo sussistenza, gravi, precisi e concordanti.

Lascio alle chiare parole della Suprema Corte la spiegazione delle connotazioni degli indizi:

“ In tema di valutazione degli indizi, questi, giusta il disposto dell'art. 192, comma 2, c.p.p., devono

essere gravi, precisi e concordanti: gravi, sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e,

quindi, attendibili e convincenti; precisi, sono quelli non generici e non suscettibili di diversa

18 Così anche la giurisprudenza: Cass. Pen., sez. I, 15 ottobre 1990, Batani. 19 Il dato statistico varrà nel processo penale come indizio, in quanto, fondandosi sulla probabilità, non esclude per definizione che il fatto sia andato diversamente da quello che la statistica suggerisce.

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interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò, non equivoci; concordanti, sono quelli che

non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi. Al riguardo, dovendosi

ulteriormente evidenziare che la precisione dell'indizio ne presuppone la certezza: tale requisito,

infatti, benché non espressamente indicato nell'art. 192, comma 2, c.p.p., è da ritenersi insito nella

previsione di tale precetto, non potendosi fondare la prova critica su un fatto solo verosimilmente

accaduto, supposto o intuito, e non accertato come realmente verificatosi” (20).

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E veniamo, da ultimo, al terzo comma dell'art. 192 c.p.p.:

“Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un

procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. sono valutate unitamente agli altri elementi di

prova che ne confermano l'attendibilità”.

Vi si cristallizza la regola di valutazione della cd. chiamata di correo (21), che costituisce il terzo

limite al libero convincimento; il chiamante in correità viene considerato presuntivamente non

attendibile, in quanto le sue dichiarazioni assumono valenza di credibilità soltanto unitamente a tutti

gli altri elementi probatori (di qualsiasi natura: ivi comprese le dichiarazioni convergenti di altri

imputati).

Spiega così la regola la Suprema Corte (consolidatasi dal 1992 ad oggi):

“A norma di quanto disposto dall'art. 192, commi 3 e 4 c.p.p., quando è tenuto a giudicare della

valenza probatoria di una chiamata in correità o in reità, il giudice deve innanzitutto affrontare il

problema della "credibilità del dichiarante" (confitente e accusatore), in relazione, tra l'altro, alla

sua personalità, alle sue condizioni economiche, al suo passato e ai suoi rapporti con l'accusato,

alla genesi e alle ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa a carico dei coautori e

complici. In secondo luogo, deve valutare l'"attendibilità delle dichiarazioni" rese, verificandone

l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della

spontaneità, precisione, completezza della narrazione dei fatti, coerenza e costanza. Infine, egli

deve esaminare l'esistenza di "riscontri esterni", ai fini della necessaria conferma di attendibilità.

L'esame da parte del giudice deve essere compiuto seguendo l'indicato ordine logico, perché non si

può procedere a una valutazione unitaria della chiamata e degli "altri elementi di prova che ne

confermano l'attendibilità" se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla

chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni a essa” (22).

Con queste precauzioni limitative il giudice è libero nel porre a base della sua decisione quelle che

ritiene le risultanze probatorie maggiormente convincenti; il giudice è libero da tutto, persino da se

20 Cass. Pen., sez. I, 4 dicembre 2007, n. 238. 21 Fondamentale in argomento Cass. Pen., Sez. Un., 21 ottobre 1992, Marino. 22 Cass. Pen, sez. II, 27 ottobre 2009, n. 42601.

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stesso (e dai propri pregiudizi), ma non è libero dalle regole della logica: egli è libero di auto-

convincersi nei limiti in cui è in grado di convincere gli altri con argomenti razionali.

2. La vanga del dubbio.

Si diceva che il giudice è libero di auto-convincersi, ma non è libero dalle regole della logica, ed

uno dei primissimi fondamenti della logica è quella di porre in dubbio (23) i dati a disposizione.

In questo contesto si inserisce la regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza di

condanna (24), che ha un carattere generale e riguarda tutta la ricostruzione del fatto (25); ogni

singola molecola del fatto dev'essere provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Per riprendere una bella immagine di Wittgenstein (26), la vanga del dubbio, quando arriva a scalfire

la pietra (i duri fatti dei pensatori positivisti) e non la spacca, deve essere posata: il dubbio non è

ragionevole e, conseguentemente, il fatto risulta provato oltre ogni ragionevole dubbio.

Possiamo, quindi, a ragione concludere che il ragionevole dubbio funziona come ulteriore limite del

libero convincimento: se il giudice non si convince oltre ogni ragionevole dubbio, la sua decisione

potrà essere solo di assoluzione, giammai di condanna.

Il dubbio è -per definizione- una situazione di incertezza; in prima battuta si potrebbe pensare (non

irragionevolmente) che l'atto del ricostruire un fatto provandolo sia incompatibile con l'atto di

nutrire dubbi: non si può ricostruire ciò di cui si dubita, sarebbe come edificare sulla sabbia.

Per converso, dovendo ricostruire un fatto del passato, il dubbio, se fosse privo di connotazioni,

vale a dire: puro e semplice dubbio, sarebbe sempre presente e paradossalmente dovrebbe portare

alla conseguenza di non pronunciare alcuna condanna, sussistendo un dubbio (anche pulviscolare).

Questi i motivi che hanno portato all'introduzione dell'aggettivazione “ragionevole” ed “ogni” e

che hanno originato lo statuto dell'oltre ogni ragionevole dubbio.

Cosa significhi “ogni” è presto detto: qualsiasi, nessuno escluso.

Cosa significa “ragionevole”? Da un punto di vista generale ragionevole è il dubbio fondato sulla

ragione; ragionevole è quel dubbio per il quale tu puoi indicare delle ragioni; un dubbio per il quale

non possono essere date le ragioni è irrilevante ed inammissibile, processualmente inerte (27); più

23 Il «cogito ergo sum» cartesiano non è altro che la sintesi del procedimento di conoscenza applicativo del dubbio metodico. 24 La regola del ragionevole dubbio, salutata da taluno come una sorta di rivoluzione copernicana, è stata introdotta con la legge 20 febbraio 2006, n. 46 all'art. 533, I° comma, c.p.p.: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. 25 Si vedano in argomento: DOMENICO CARPONI SCHITTAR, Al di là del ragionevole dubbio e oltre, ed. Giuffré, 2008; CARLO ZAZA, Il ragionevole dubbio nella logica della prova penale, ed. Giuffré, 2008. 26 Scriveva Wittgenstein: “Se ho esaurito le mie giustificazioni, la mia vanga ha raggiunto la pietra e ne è stata sviata”. 27 Cfr., FRANCESCO MAURO IACOVIELLO, Lo standard probatorio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, in Cass. Pen., 2006, pag. 3873.

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concretamente, assumendo che la ragione si fondi sul principio aristotelico di non contraddizione, si

potrà dire, in relazione a quanto di nostro interesse, che per superare la ragionevolezza del dubbio:

- la ricostruzione del fatto non deve essere intrinsecamente contraddittoria;

- la ricostruzione del fatto non deve essere in sé insufficiente e deve spiegare tutto;

- la ricostruzione del fatto non deve essere contraddetta da ipotesi alternative.

Volendo dare una misura alla dimensione dell'oltre ogni ragionevole dubbio appare corretto

richiamare le acquisizioni della dottrina e della giurisprudenza americana (da sui s'è importato

l'istituto): il “beyond reasonable doubt” è lo stadio in cui la prova è convincente al 95% della

certezza, e questo giustifica una sentenza di condanna.

Considerando l'argomento dal punto di vista partigiano del difensore, lo strumento del dubbio è di

straordinaria efficacia; la “vanga del dubbio” dovrà scavare nel fatto per:

- dissotterrarne le contraddizioni intrinseche;

- aprire varchi in zone rimaste non esplorate;

- accumulare convincenti ipotesi alternative.

La sentenza della Suprema Corte, che ha messo fine al caso Cogne, spiega in questi termini l'istituto

del ragionevole dubbio:

“ Il giudice deve ritenere intervenuto l'accertamento di responsabilità dell'imputato «al di là di ogni

ragionevole dubbio», che ne legittima ai sensi dell'art. 533, comma 1, c.p.p. la condanna, quando il

dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e

prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie

concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di

fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana” (28).

3. L'aratro del contraddittorio.

L'aratro del giurista è il metodo; per l'operatore del processo penale il metodo è quello dialettico,

espressamente riconosciuto sul piano costituzionale con l'affermazione della regola del

contraddittorio.

Partiamo dal dato positivo, contenuto nell'art. 111, IV comma, Cost.:

“ Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La

colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per

libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del

suo difensore”.

28 Cass. Pen., sez. I, 29 luglio 2008, n. 31456.

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Con la costituzionalizzazione, ad opera della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, introduttiva delle

norme sul c.d. “giusto processo”, viene garantito all’imputato nel processo penale non solo un

ampio diritto di difendersi provando, ma soprattutto il diritto di ogni parte processuale di

partecipare alla formazione della prova, formulando domande e sollevando contestazioni.

Sul piano operativo il contraddittorio si esprime nel formare la prova attraverso l'esame incrociato

(cd. cross-examination): ogni fonte di prova (dichiarativa, scientifica, documentale) viene

assoggettata al fuoco incrociato delle domande di tutte le parti processuali secondo la sequenza

dell'esame, del contro-esame e del riesame (solo eccezionalmente il giudice “potrebbe” -ed il

condizionale è più che mai d'obbligo, per evitare di essere considerati ridicoli- intervenire con

domande o chiarimenti nel corso dell'esame incrociato; potrà farlo, semmai, dopo ai sensi dell'art.

506, II° comma, c.p.p.).

Come è stato correttamente osservato (29):

“Le tre finalità dei tre tipi di esame sono molto diverse: nell'esame diretto lo scopo è quello di far

emergere fatti inquadrati in una versione della storia che possono influenzare favorevolmente chi

deve giudicare; nel contro-esame lo sopo è quello di dimostrare che i fatti asseriti nell'esame diretti

non sono veri o non sono esatti (accuratezza) o non sono completi, di screditare il teste (la sua

credibilità), di forzarlo ad ammettere certi fatti, di dimostrare che il teste ha in altre occasioni

affermato cose diverse; nel riesame lo scopo è quello di interrogare di nuovo direttamente il

proprio testimone già sottoposto dall'avversario a contro-esame per chiarire, rettificare,

completare quanto emerso nel contro-esame o per ristabilire la sua attendibilità”.

4. Gli altri strumenti nella cassetta da lavoro del giurista.

Giustamente e da più parti (30) è stato evidenziato che il giurista, ed in particolare l'avvocato, ha una

cassetta da lavoro piena di utili strumenti: talora sa di averli, ma non li usa (per pigrizia intellettuale,

per indigenza economica, per incapacità tecnica), talaltra -ed è la cosa peggiore- neppure ha la

consapevolezza dei mezzi a disposizione.

L'avvocato è un soldato e non può andare in guerra senz'armi e le armi dell'avvocato -ai fini

specifici della ricostruzione del fatto- sono le prove; la prova è il procedimento di fissazione

formale di un fatto controverso (31); come si diceva all'inizio (cfr. par. sub 1, Parte Prima), corre una

linea inconoscibile fra verità storica e verità processuale, e l'unico collegamento possibile passa

29 GUGLIELMO GULOTTA, La investigazione e la cross-examination, ed. Giuffré, 2003, pag. 54; si vedano, in argomento, ETTORE RANDAZZO, Insidie e strategie dell'esame incrociato, ed. Giuffré, 2008; DOMENICO CARPONI SCHITTAR, Dal colloquio informativo al controesame, ed. Giuffré, 2010. 30 L'espressione viene spesso ripetuta dal prof. GIUSEPPE SARTORI. 31 La definizione, pressoché inossidabile al passar del tempo, è di FRANCESCO CARNELUTTI, La prova civile, ed. Giuffré, 1992, pag. 47-48: “Provare infatti non vorrà dir più dimostrare la verità dei fatti contestati, ma determinare o fissare formalmente i fatti medesimi mediante procedimenti dati”.

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attraverso le prove: l'enunciato, avente ad oggetto il fatto del passato (capo d'imputazione) si

confronta con l'enunciato (prova o dato probatorio), avente ad oggetto il fatto del presente.

L'avvocato -da accorto soldato di fanteria- quando guarda all'orizzonte per intraprendere il cammino

deve conoscere in anticipo quali sono le armi, di cui potrebbe far uso, e quali sono le armi

avversarie da mettere fuori uso; in entrambi i casi dovrà considerare gli effetti, positivi e negativi,

che possono derivare dai risultati delle varie prove: dichiarativa, scientifica, documentale.

Ed è quanto si esaminerà nella terza parte del presente lavoro.

PARTE TERZA

“Il giudice è al centro d'un minuscolo cerchio di luce,

di là dal quale tutto è buio: dietro di lui l'enigma del passato,

davanti l'enigma del futuro.

Quel minuscolo cerchio è la prova.”

(FRANCESCO CARNELUTTI, La prova civile, Giuffrè, 1992, pag. 8)

Sommario: 1.: Il bianco, il nero (o il grigio?) del testimone: la prova dichiarativa. - 2. Profondo rosso: la prova scientifica. -

3. «Et negro sèmen seminaba»: la prova documentale. - 4. La serendipità e l'interpretazione logica della prova. - 5.

«Così è (se vi pare)»: l'interpretazione psicologica della prova.

1. Il bianco, il nero (o il grigio?) del testimone: la prova dichiarativa.

“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” (32):

all'alba della nostra lingua italiana una formula, che contiene una testimonianza in una causa di

usucapione, ci conferma quanto fosse fondamentale fissare in termini chiari e precisi i dichiarati

testimoniali.

La prova dichiarativa -lo suggerisce il nome stesso- è quella che si sostanzia in un dichiarato; la

nostra indagine sarà circoscritta alla testimonianza, che è la più diffusa fra le prove dichiarative.

Poiché il fatto da ricostruire è un fatto del passato, non permanente, non presente e non ripetibile, la

funzione che possono assumere i testimoni è di cruciale importanza.

32 Si tratta della formula testimoniale, ad opera del giudice Arechisi, contenuta nel cd. “Placito Capuano”, uno dei primi documenti, assieme all'Indovinello veronese, in lingua volgare italiana, rinvenuto a Capua nel 960.

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Lo ricordava Galileo Galilei nel Saggiatore (33): “S'essaminano i testimoni nelle cose dubbie,

passate e non permanenti, e non in quelle che sono in fatto e presenti; e così è necessario che il

giudice cerchi per via di testimonii sapere se è vero che ier notte Pietro ferisse Giovanni, e non se

Giovanni sia ferito, potendo vederlo tuttavia e farne il visu reperto”.

Il testimone è il filo invisibile che lega il presente al passato da provare e giudicare; dal testimone

occorre cavar fuori il più possibile, in quanto è la nostra àncora al passato.

La memoria (34) funziona in generale abbastanza male: è un dato scientifico pacifico (35).

Quasi nessuno -ad esempio- ricorda cosa sia raffigurato in una moneta da un euro (che ci passa di

mano più e più volte al giorno); così dobbiamo saper trattare il testimone con la massima cautela e

per farlo serve il massimo della preparazione (36) alla fase cruciale dell'esame incrociato

dibattimentale; gli strumenti più utili sono quelli dell'intervista cognitiva e di quella strutturata (37).

Tentiamo di individuare sinteticamente alcune regole operative: innanzitutto, occorre mettere il

testimone in una situazione di serenità, rassicurandolo su ciò che è il suo compito; egli deve sapere

su cosa verte il processo e quale argomento sarà oggetto della sua deposizione; il testimone deve

dire se si trova a proprio agio, se ha capito oppure no la domanda; egli deve sapere che, quando gli

viene fatta un'obiezione, deve attendere il nulla osta del giudice prima di rispondere; deve guardare

il giudice quando parla e deve rispondere alle domande senza allargare a suo piacimento il tema; le

sue risposte devono essere brevi e puntuali, evitando ogni discussione con l'esaminatore, ed il

linguaggio dev'essere quotidiano e semplice.

Dal punto di vista del difensore, l'assunzione della testimonianza è un passaggio cruciale per

convincere il giudice sulla corretta ricostruzione del fatto; il metodo dialettico permette (ed impone)

di sfruttare il testimone per parlare al giudice: è necessario, pertanto, che l'accorto difensore, a guisa

di buon psicologo, tenga d'occhio contemporaneamente sia il soggetto esaminato (testimone) sia il

giudice (destinatario della testimonianza); in sintesi si combinano tre fattori nell'avvocato:

33 GALILEO GALIELI, Il Saggiatore, ed. Biblioteca Treccani, 2006. 34 La memoria, intesa come processo di conservazione delle informazioni, si struttura in tre fasi: codifica, immagazzinamento e rievocazione, ed in ciascuna di tali fai possono intervenire fattori cognitivi e metacognitivi, che influenzano l'accuratezza del ricordo. Si vedano, in argomento, GUGLIELMO GULOTTA, Breviario di psicologia investigativa, ed. Giuffré, 2008, pag. 127 ss.; GUGLIELMO GULOTTA e ANTONIETTA CURCI, Mente, società e diritto, ed. Giuffré, 2010, pag. 131 ss.; GIULIANA MAZZONI, Si può credere ad un testimone, ed. Il Mulino, 2005. 35 E' CESARE MUSATTI, in Elementi di psicologia della testimonianza, ed. Cedam, 1931, a ricordarci: “Venne accertato sperimentalmente che non esistono testimonianze -se non per circostanze di scarso rilievo, prive di elementi importanti per un dibattito giudiziario- di cui si possa dire che sono integralmente veritiere. Non si può dunque mai pervenire ad una verità obiettiva. E ciò semplicemente perché ogni fatto di cui si viene a conoscenza è visto da ciascuno attraverso la sua specifica persona. Due individui diversi non possono che percepire in modo differente quello che viene detto lo stesso fatto”; sotto diverso profilo, GUGLIELMO GULOTTA, in Trattato della menzogna e dell'inganno, ed. Giuffré, 1996, parla senza mezzi termini di “paradosso della testimonianza” (pag. 11). 36 Gli avvocati americani ricordano spesso che per un buon esame/contro-esame servono quattro presupposti: preparazione, preparazione, preparazione e … preparazione. 37 In argomento si legga: ADELE CAVEDON - MARIA GRAZIA CALZOLARI, Come si esamina un testimone, ed. Giuffré, 2005.

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a) parlo ed interrogo (o contro-interrogo) per essere ascoltato;

b) parlo ed interrogo (o contro-interrogo) per essere capito;

c) parlo ed interrogo (o contro-interrogo) per essere condiviso;

i quali -se realizzati contestualmente ad ogni domanda e ad ogni risposta- permetteranno di

raggiungere il massimo effetto di persuasione nel giudice; teniamo presente che nel processo

“ tendenzialmente” accusatorio l'arringa non è più relegata alla chiusura della fase istruttoria

ma è immanente in ogni parola del difensore: quando fa le domande, quando dà le

spiegazioni, quando solleva eccezioni, quando obietta alle eccezioni avversarie.

Alla fine l'assunzione della testimonianza si svolge come una partita a scacchi: il 99% è tattica e

strategia, e gli errori sono tutti nella scacchiera, in attesa di essere fatti; il buon scacchista non fa

mai una mossa di troppo, il buon difensore non fa mai una domanda di troppo (38); l'1% si

giustifica nella buona (o cattiva) sorte, altrimenti detto: “habent sua sidera lites”.

2. Profondo rosso: la prova scientifica.

Ex ungue leonem: il leone (si riconosce) dalle unghie. Lo scriveva il primo critico e storico dell'arte

(egli stesso artista) Giorgio Vasari, sottolineando che l'opera d'arte si riconosce dalla firma (l'unghia

del leone); lo stesso si può predicare per l'individuazione dell'autore del reato in relazione alla

ricostruzione del fatto come tale ipotizzato. Questo è il fine della prova scientifica: riconoscere la

firma dell'autore del reato (e sarebbe stata anche la fine di capolavori del cinema come “Profondo

Rosso” di Dario Argento: il colpevole sarebbe stato immediatamente inchiodato dal D.N.A.).

Appartengono all'archeologia del processo i tempi in cui fra giudice e scienziato veniva innalzato

un muro invalicabile (39): oggi non c'è processo che non esalti -nel bene e nel male- gli strumenti

forniti dalla conoscenza scientifica (DNA, spettrometria, spettrografia, Luminol, Bloodstain Pattern

Analysis, dattiloscopia preventiva, neuroscienze).

Anche nel processo sui generis relativo alla storia di Susanna e dei due vecchioni (cfr. in premessa),

Daniele (che è insieme avvocato e giudice) utilizza a modo suo gli strumenti della scienza; infatti, la

primissima indicazione che egli offre all'Assemblea, dopo averla redarguita per un giudizio di

condanna dato senza indagini, è: 38 La domanda di troppo per antonomasia è quella di cui non si conosce la risposta. 39 Già nel 1992 MICHELE TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, ed. Giuffré, 1992 (pag. 307) aveva modo di sottolineare che: “il fenomeno sempre più rilevante e frequente dell'impiego di prove scientifiche sta a dimostrare che non solo non vi è alcuna impermeabilità fra l'accertamento giudiziale dei fatti e l'impiego di metodologie scientifiche, ma che anzi accade sempre più spesso che fatti vengano accertati scientificamente nel processo”. Nel 2003 MIRJAN DAMASKA, Il diritto delle prove alla deriva, ed. Il Mulino, 2003 (pag. 205) scriveva: “Guardare al futuro del processo penale oggi significa sopratutto parlare della progressiva adozione di modelli scientifici nell'indagine sui fatti. (…) E' ora possibile dimostrare un numero sempre maggiore di fatti rilevanti nel processo soltanto con strumenti tecnici sofisticati. Mentre si allarga l'abisso tra realtà percepita dal nostro apparato sensoriale naturale e quella rilevata da strumenti progettati per scoprire ciò che va oltre la portata di questo apparato, si riduce l'importanza dei sensi umani nella ricerca dei fatti”.

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“Tornate al luogo del giudizio!” (40).

Cosa stanno a significare queste parole, se le traducessimo nel linguaggio attuale delle scienze

forensi? Niente altro che: ricostruzione analitica della scena del crimine, e tanto basta a Daniele per

individuare il dato oggettivo (l'albero sotto il quale sarebbe stato consumato l'adulterio di Susanna),

su cui far cadere in contraddizione i falsi testimoni; se Daniele non fosse stato anche un acuto

scienziato forense, non sarebbe giunto a smascherare il tranello, che aveva intrappolato Susanna in

una condanna a morte ingiusta e processualmente fraudolenta.

La prova scientifica è, dunque, quella prova che, partendo da un fatto dimostrato, utilizza come

criterio inferenziale una legge scientifica per accertare l'esistenza di un fatto da provare (41), che è

quello contenuto -per quanto interessa al processo penale- nel capo d'imputazione.

Il primo e più importante problema (42) del giurista sta nell'individuare la legge scientifica valida e

discriminarla dalla cd. “junke science” (scienza spazzatura); i criteri di affidabilità di una teoria

scientifica sono quelli della nota sentenza americana Daubert (43), declinati in cifra italiana dalla

sentenza Franzese (44).

Se i criteri “Daubert” stanno diventando patrimonio condiviso della comunità dei giuristi (45),

misconosciuta -ma non meno importante- è la circostanza per cui la stessa “scientificità” può essere

posta a base di un accertamento giudiziale finalizzato alla ricostruzione di un fatto; anche qui

l'individuazione dei criteri è stato oggetto di una sentenza della Corte distrettuale dell'Arkansas nel

caso McLean Arkansas v. Board of Education risalente al 1981 (46), ove s'è argomentato che una

teoria può considerarsi scientifica quando è:

1. consistente e non contraddittoria internamente ed esternamente;

2. parsimoniosa, vale a dire rispondente al c.d. Rasoio di Occam (“entia non sunt moltiplicanda

praeter necessitatem”): devono essere proposte le spiegazioni strettamente necessarie allo scopo;

40 BIBBIA, Antico Testamento, Daniele, 13-49. 41 Per una disanima “scientifica” sulla prova scientifica si rimanda alle esaustive trattazioni di ORESTE DOMINIONI, La prova scientifica, ed. Giuffrè, 2005, e a cura di LUISELLA DE CATALDO NEUBURGER, La prova scientifica nel processo penale, ed. Cedam, 2007. 42 FRANCESCO CAPRIOLI, La scienza “cattiva maestra”: insidie della prova scientifica nel processo penale, in Cass. Pen., 2008, pag. 3520. 43 Si tratta della sentenza resa dalla Corte Suprema Americana (1993) nel caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals (U.S. 579, 113 S Ct. 2786), ove sono stati individuati i seguenti criteri di affidabilità della prova scientifica: 1) verificabilità dell'ipotesi; 2) falsificabilità dell'ipotesi; 3) sottoposizione al controllo della comunità scientifica attraverso la cd. “peer rewiew”; 4) conoscenza del tasso di errore attraverso la cd. scienzometria e l'Impact Factor; 5) generale accettazione e consenso della comunità scientifica. 44 Cass. Pen., Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese. 45 Così si esprimeva FEDERICO STELLA, Etica e razionalità nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, Giuffré, 2002 (pag. 786): “la massima affidabilità si ottiene applicando due concezioni antagoniste del metodo scientifico: il giudice deve cioè verificare se le ipotesi (…) godono di un alto grado di conferma empirica, secondo la concezione induttivistica di Hempel, e inoltre verificare che quelle ipotesi siano dotate di un alto grado di corroborazione, ottenuto- secondo la concezione popperiana- attraverso il superamento dei tentativi di falsificazione”. 46 Cfr. McLean Arkansas v. Board of Education, 529,

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3. verificabile e falsificabile empiricamente;

4. basata su esperimenti ripetibili e controllabili;

5. correggibile e dinamica: deve essere possibile cambiarla alla luce dei nuovi dati;

6. progressiva: migliore delle teorie precedenti;

7. provvisoria: non proclama certezze ma ammette la sua fallibilità.

Entrambi gli insegnamenti, che in parte si sovrappongono (McLean e Daubert, così richiamati in

ordine sia cronologico sia logico-giuridico) dovrebbero essere tenuti presenti dal giurista nel

momento in cui ha necessità di confrontarsi nel processo con la prova scientifica: prima sarà

scrutinata la natura scientifica in astratto (criteri McLean) della prova da adottare, poi se ne

verificherà in concreto (criteri Daubert) l'affidabilità.

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Superato lo scoglio dell'ammissibilità e le preclusioni di cui agli artt. 188-189 c.p.p., la prova

scientifica entra nel processo penale attraverso le maglie del contraddittorio (47), non diversamente

da qualsiasi altra prova, con l'avvertenza che il buon avvocato dovrà diventare un tutt'uno con il

proprio consulente nell'affrontare le tematiche che ruotano intorno alla prova scientifica; al

difensore dev'essere riservato il compito dell'esame, del contro-esame e del riesame del perito o del

consulente: il buon difensore non deve in alcun modo permettere che tali attività siano delegate,

anche implicitamente, al proprio consulente.

Il contraddittorio è il nostro “aratro” e soltanto se lo inforchiamo noi riusciamo a realizzare, anche

e soprattutto nell'assunzione della prova scientifica, la doppia funzione che gli è propria:

- traduttrice: dal linguaggio scientifico a quello comune comprensibile all'uomo di strada;

- interpretativa: dal linguaggio comune a quello giuridico per giungere alla decisione finale.

A questo fine il modus operandi più proficuo è quello, cui si accennava poco sopra, di “sinergia

consultiva” in una squadra -per così dire ciclistica- composta da un capitano (l'avvocato) e dai

gregari (i vari esperti nelle diverse materie di interesse per il caso specifico); il modello, che

potremo chiamare “consulenza interforense” (a sottolineare l'interdisciplinarietà fra le diverse

scienze umane e forensi), viene -per certi aspetti- mutuato dalla consulenza psico-forense (48), che

però si limita a prendere in considerazione, come per la cd. “trial consultation” dell'esperienza

statunitense, la sola collaborazione fra avvocato e psicologo, nel mentre il principio della sinergia

consultiva dovrebbe riguardare, più in generale, l'avvocato e lo scienziato forense.

47 Sarebbe sbagliato, metodologicamente e processualmente, affermare che la prova scientifica entra nel processo con la perizia perché l'unico strumento con il quale si forma la prova nel processo è il contraddittorio dibattimentale. 48 Il concetto di consulenza psico-forense viene analizzato ex professo in GUGLIELMO GULOTTA – ANTONIETTA CURCI, Mente, società e diritto, ed. Giuffré, 2010, pag. 43 ss.

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3. «Et negro sèmen seminaba»: la prova documentale.

L'Indovinello veronese (49) è un altro (assieme al Placito Capuano, cui s'è accennato supra sub par.

2, nota 32) fra i più importanti documenti, che offrono la prova, in tutti i sensi documentale, della

nascita della lingua volgare italiana.

Il documento -del quale il codice di rito non fornisce un'espressa definizione (50)- non è meno prova

rispetto alla testimonianza (prova dichiarativa) o all'analisi del DNA (prova scientifica); si potrebbe

dire -con un doppio ossimoro- che la prova documentale è insieme una prova dichiarativa

“ muta” ed una prova scientifica “statica” .

La prima apparente contraddizione è di immediata evidenza: il documento non parla.

La seconda si giustifica pensando che, rispetto alla prova scientifica, il documento non richiede

alcuna attività dinamica di assunzione, che non sia quella della sua osservazione a bocce ferme.

Alla luce di tali attestazioni, anche la prova documentale è una prova a geometria variabile.

Nei riti a contraddittorio debole (abbreviato o patteggiamento), essa si riduce ad una linea

(segmento), che collega una parte processuale (P.M. o difesa) al giudice; si espande, poi, in una

figura geometrica (triangolo) nel dibattimento: la triangolazione (P.M., difesa, giudice) attraverso

una discussione incrociata sul documento permette di attribuire anche alla prova documentale il

proprio peso specifico probatorio; si tratterà, appunto, non di un esame incrociato fatto di domande

e risposte bensì di una discussione incrociata fatta di prospettazioni e dubbi interpretativi, che si

svolgerà nel momento della acquisizione, utilizzazione e valutazione del documento.

Si pensi a quell'episodio stupendo della Fedra (51) di Euripide, in cui il re cretese Teseo deve

stabilire cosa valga come prova nel processo contro il figlio Ippolito, accusato d'aver sedotto Fedra,

sua matrigna e moglie di Teseo: se la tavoletta contenente la ricostruzione (in realtà calunniosa) dei

fatti operata da Fedra, appena uccisasi, che vi ha apposto il suo sigillo (prova documentale), o le

dichiarazioni di Ippolito vivente e dei testimoni del coro, avvallate dagli dèi, che depongono a

favore di Ippolito (prova dichiarativa); alla fine Teseo privilegerà il documento e manderà in esilio

49 Il testo dell'Indovinello veronese, vergato su di una pergamena rinvenuta nei pressi di Verona da Luigi Schiaparelli all'inizio del IX secolo d.C., recita: “Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba, et negro semen seminaba”. 50 Il documento, ricavandolo dall'art. 234 c.p.p., è uno scritto od altra entità che sia idoneo a rappresentare fatti, persone o cose; l'oggetto rappresentato nel documento dev'essere qualcosa di compiuto fuori dal processo nel quale si chiede di poter utilizzare il documento. 51 Da leggere in EURIPIDE, Le tragedie, ed. Einaudi, 2002, pag. 105 ss. Il titolo euripideo all'origine è “Ippolito portatore di corone”, ma la tragedia -per la figura centrale di Fedra- ne ha oramai assunto il nome. Riporto qui in nota alcuni dei passaggi più significativi, anche sul piano giuridico: “Ippolito: Senza un giudizio vuoi cacciarmi via, senza vagliare giuramenti, prove e neppure responsi d'indovini? Teseo: C'è una lettera qui, che Ti denuncia; trarre le sorti non serve: è attendibile. C'è un fatto, che non parla, e ti denuncia come un tristo”.

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(52) il figlio e, quando tardi s'accorgerà d'aver dato troppo peso a quella prova documentale, il suo

rimorso cadrà sul non aver messo a confronto critico e dialettico le risultanze di quel documento.

Questo confronto ci impone il nostro codice di rito anche nell'acquisizione delle prove documentali.

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Un discorso a parte deve essere condotto con riferimento all'utilizzazione come prova delle

sentenze irrevocabili, la cui disciplina è dettata all'art. 238 bis c.p.p.:

“ (...) le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di (un) fatto in

esse accertato e sono valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma III°”.

Un punto fermo di partenza, anche in virtù della collocazione sistematica della norma, dovrebbe

essere l'appartenenza delle sentenze irrevocabili all'insieme delle prove documentali (53), con la

conseguente condivisione dello statuto epistemologico: il giudice resta libero di leggere

attentamente le sentenze ed utilizzarle come modelli di argomentazione, ma non può acquisirle in

chiave probatoria, fondando le proprie conclusioni sui fatti accertati in un diverso processo (54); in

secondo luogo -lo afferma espressamente l'articolo citato- la valutazione sulle sentenze irrevocabili

sconta il limite previsto per la chiamata di correo: sono valutate unitamente agli altri elementi di

prova che ne confermano l'attendibilità.

Di avviso diverso una recente sentenza -aspramente criticata (55)- della Consulta (56), che pare

assimilare la sentenza irrevocabile ad una “quasi testimonianza”, in assoluto dispregio alle regole

del contraddittorio:

“La sentenza irrevocabile non può essere considerata un documento in senso proprio, poiché si

caratterizza per il fatto di contenere un insieme di valutazioni di un materiale probatorio acquisito

in un diverso giudizio; tuttavia, neppure può essere equiparata alla prova orale. Ne consegue che,

in relazione alla specifica natura della sentenza irrevocabile, il principio del contraddittorio trova

il suo naturale momento di esplicazione non nell'atto dell'acquisizione - nel quale, del resto, non

sarebbe ipotizzabile alcun contraddittorio, se non in ordine all'an dell'acquisizione - ma in quello

successivo della valutazione e utilizzazione. Una volta che la sentenza è acquisita, le parti

rimangono libere di indirizzare la critica che si andrà a svolgere, in contraddittorio, in funzione

delle rispettive esigenze. Nel corso del dibattito, ai fini della valutazione e utilizzazione in

52 L'esilio era nell'antichità, dopo la pena di morte, la più dura della pene; per certi aspetti anche peggiore, in quanto la morte durava l'attimo dell'esecuzione capitale, l'esilio durava per tutto il resto della vita del condannato. 53 Cfr. Cass. Pen., sez. III, 13 gennaio 2009, n. 8823: “in base all'art. 238 bis c.p.p. la sentenza acquisita come documento non costituisce una sorta di prova legale con efficacia vincolante per tutti i giudici, ma va liberamente apprezzata unitamente agli altri elementi”. 54 Cfr. FRANCO CORDERO, Procedura penale, ed. Giuffré, 2003, pag. 801: “I precedenti giudiziari servono a vari fini ma non provano niente”. 55 Cfr. PAOLO FERRUA, Il contraddittorio nel processo penale e il doppio volto della Corte Costituzionale, in Rivista di diritto processuale, 2009, pag. 1455. 56 C. cost., 26 gennaio 2009, n. 29.

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questione, non si potrà non tenere conto del tipo di procedimento (ordinario, abbreviato, con

accettazione della pena) in cui la sentenza acquisita è stata pronunciata e, quindi, anche del

contraddittorio in esso svoltosi.

D'altra parte, la scelta del legislatore di consentire al giudice di apprezzare liberamente l'apporto

probatorio scaturente dagli esiti di altro processo conclusosi con sentenza irrevocabile e di

permettere correlativamente alle parti di utilizzare, come elementi di prova, i risultati che da quella

sentenza sono emersi - tutto ciò nel quadro delle prospettive eventualmente contrapposte, da

misurare, come si è detto, nel contraddittorio dibattimentale - si salda logicamente alla scomparsa,

nel nuovo sistema processuale, della pregiudiziale penale: la quale, al contrario, proiettava in

termini di vincolatività il giudicato esterno nel processo "pregiudicato". Il tutto sottolineando, per

altro verso, come la libertà di valutazione del giudice che acquisisce la sentenza irrevocabile, unita

alla necessità di riscontri che ne confermino il contenuto, rappresentino garanzia sufficiente del

rispetto delle prerogative dell'imputato, alla cui salvaguardia il parametro costituzionale invocato

è stato posto”.

Il ragionamento del Giudice delle Leggi è sia intimamente sia entimemicamente (57) contraddittorio.

Intimamente, perché non è logicamente coerente richiamare il principio del libero convincimento

come regola di valutazione della sentenza irrevocabile e poi accostarvi una regola di valutazione

legale (specie dopo aver evidenziato che è stata soppressa la pregiudiziale penale): un fatto

accertato in un diverso procedimento viene dato come provato nel processo ricevente.

Entimemicamente, perché il ragionamento della Consulta muove da una premessa errata: le

sentenze irrevocabili -scrive la Corte Costituzionale- non sono documenti.

Non è così: le sentenze irrevocabili vanno trattati probatoriamente alla stregua di documenti

“sospetti” (58) ed è proprio la norma processuale a dircelo; e così la pensa pure la Suprema Corte

(59), che ha bellamente ignorato la “boutade” della Corte Costituzionale.

57 L'entimema è il sillogismo (premessa maggiore, premessa minore, conclusione), nel quale una delle premesse non è certa, ma solo probabile; qui l'avverbio “entimemicamente” viene usato, intendendo quello usato dalla Consulta un sillogismo meramente apparente (o erisma). 58 “Sospetti” (o non ex se attendibili) in quanto necessitano di altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità. 59 Cass. Pen., 12 novembre 2009, n. 47314: “L'art. 238 bis c.p.p., infatti, si limita a consentire l'acquisizione in dibattimento di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che esse siano valutate a norma dell''art. 187 c.p.p. E 192, III° comma, c.p.p. "ai fini della prova del fatto in esse accertato" Sez. 6^, 4 marzo 1996, Barletta). Ancor più perentoriamente si è statuito che l'acquisizione agli atti del procedimento, alla stregua di quanto previsto dall'art. 238 bis c.p.p., di sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell'utilizzazione a fini decisori dei fatti nè, tanto meno, dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l'autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate (cfr. ancora: sez. 6^, 14096/2007, Iaculano; Sez. 1^, 16 novembre 1998, Hass). Pertanto, le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p., devono essere valutate alla stregua della regola probatoria di cui all'art. 192, III° comma, c.p.p., ovvero come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri elementi di prova che lo confermino”.

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Seguendo il ragionamento della Consulta diventa possibile introdurre surrettiziamente in un

processo le prove acquisite in un diverso processo, alla cui formazione la difesa dell'imputato

neppure ha partecipato, con palese violazione della norma cardine del contraddittorio: l'art. 111, IV

comma, Cost: “La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni

rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte

dell'imputato o del suo difensore”.

Sarebbe stata opportuna (60) una limpida dichiarazione di incostituzionalità di tutto l'art. 238 bis

c.p.p., che avrebbe permesso di trattare le sentenze irrevocabili alla stregua di ogni altro documento

formato fuori dal dibattimento.

4. La serendipità e l'interpretazione logica della prova.

Giunti a questo punto del nostro lavoro, buona parte del campo è stato arato, ma una buona aratura

non basta per una buona semina e, alla fine, per un buon raccolto (la ricostruzione del fatto):

occorre un'altrettanto buona fresatura.

Le prove ci sono, “ma chi pon mano ad esse?” (61).

Serve -fuor di metafora- dare innanzitutto un'interpretazione logica alle prove: usare la ragione

(in questo consiste la fresatura).

Il ragionamento è di tre tipi:

1- deduttivo: quello aristotelico (premessa maggiore, premessa minore, conclusione certa);

2- induttivo: quello baconiano (verificazione caso per caso: conclusione probabile);

3- abduttivo: quello peirceiano (congettura sul caso: conclusione probabile).

Così ce li descrive Peirce (62):

“La deduzione (63) dice qualcosa che deve essere, l'induzione (64) prova che qualcosa è

effettivamente operante, l'abduzione (65) suggerisce che qualcosa può essere”.

Diversamente da quello che comunemente si pensa, nella motivazione della sentenza, che

ricostruisce un fatto, non c'è mai soltanto il ragionamento deduttivo, ma c'è tanta induzione e tanta

60 Questo il pensiero di PAOLO FERRUA, Il contraddittorio nel processo penale e il doppio volto della Corte Costituzionale, in Rivista di diritto processuale, 2009, pag. 1458. 61 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio, canto XVI, v. 97. 62 Vedilo in CLAUDIO PIZZI, Diritto, abduzione e prova, ed. Giuffré, 2009, pag. 61. 63 La deduzione è il ragionamento inferenziale che va dal generale al particolare, mentre l'induzione percorre la strada in senso inverso: dal particolare al generale. 64 Famosa l'ironica critica all'induzione di Bertrand Russel del cd. “tacchino induttivista”: il tacchino americano ogni giorno che passa si conforta induttivamente sul fatto che ogni giorno mangia, finché non arriva il 4 novembre e l'ipotesi della sua induzione viene falsificata. Altrettanto famoso il cd. “parodosso hempeliano dei corvi neri”: tutti i corvi sono neri è logicamente equivalente all'assunto secondo il quale tutte le cose che non sono nere non sono corvi. 65 L'abduzione è più facile da esemplificare che da definire: siamo nel campo delle congetture, come quelle dell'ispettore Dupin, di Sherlock Holmes, di Guglielmo di Baskerville o del Tenente Colombo.

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abduzione; ed è soprattutto quest'ultima (altrimenti definita “retroduzione”), che dà impulso

creativo alla ricostruzione del fatto.

Al giurista (ed in ultima analisi al giudice) viene chiesto di rispondere ad una domanda relativa ad

un fatto particolare; il punto di partenza è l'”explanandum”(ipotesi accusatoria) ed il punto di arrivo,

che sta dietro, nel passato, deve essere raggiunto a ritroso: l'”explanans”. Se abbiamo a che fare con

il cadavere di Toro Seduto (explanandum) e la sua morte è stata provocata da un colpo d'ascia alla

testa, dobbiamo riuscire a rispondere alla domanda: “chi ha impugnato l'ascia e sferrato il colpo”

(explanans).

In questa ricerca spesso il valore aggiunto sta nell'intuizione, che talora rappresenta un colpo di

fortuna (66), e che potremo associare al concetto psicologico di “ lateral thinking” o “pensiero

laterale” o visione “per insight”: produrre idee alternative a quelle che più facilmente vengono in

mente (67); la serendipità (68) è un po' tutto questo.

La serendipità permette al giurista di “creare” una ricostruzione del fatto nella versione

processualmente più attendibile; la logica lo deve guidare rigorosamente nella valutazione delle

prove per dare cemento a quella ricostruzione.

Alla fine, ciò che conta non sono solo le perle (prove), ma anche il filo (logica) che le tiene unite.

5. «Così è (se vi pare)»: l'interpretazione psicologica della prova.

Il fatto di reato ha un corpo ed un'anima; ugualmente la prova del fatto di reato ha un corpo ed

un'anima.

Se per l'analisi del corpo gli strumenti della logica sono quelli maggiormente consigliati, quando si

deve dare un'anima al fatto di reato è fondamentale il ricorso alla psicologia, qui intesa

nell'accezione gulottiana di “scienza dei fatti umani” (69).

Lo scotto che paga la psicologia nel processo penale è quello di essere considerata una “scienza”

alla portata di tutti; è un credere diffuso quello secondo cui tutti ci sentiamo un po' psicologi, per cui

finiamo col maneggiare a nostro piacimento uno strumento che, senza la dovuta preparazione,

conosciamo poco e male.

Eppure la scienza psicologica applicata al diritto ed al processo ha molteplici utilità proprio in

relazione ai diversi tipi di prova.

66 LOUIS PASTEUR diceva che : “la fortuna aiuto le menti preparate”. 67 Si legga in argomento MAX WERTHEIMER, Il pensiero produttivo, ed. Giunti, 1997. 68 La serendipità è -definizione tratta dal Devoto-Oli- la capacità di rilevare ed interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi d'indagine. Il termine viene dal titolo di un romanzo di Horace Walpole, “I tre principi di Serendippo”, pubblicato nel 1754, in cui si narrano le vicende di tre principi che facevano scoperte di questo tipo. 69 Si legga GUGLIELMO GULOTTA, La vita quotidiana come laboratorio di psicologia sociale, ed. Giuffré, pag. 5; e soprattutto GUGLIELMO GULOTTA, Mente, società e diritto, ed. Giuffré, pag. 11.

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In relazione alla prova dichiarativa, entra in gioco la psicologia della testimonianza, il cui scopo è

quello di “stabilire quanti più è possibile criteri esatti e certi, per una valutazione delle

testimonianze e per una interpretazione delle testimonianze stesse, così da rendere possibile sulla

loro base la ricostruzione obiettiva del fatto od accadimento reale, al quale esse testimonianze si

riferiscono” (70) .

Sono passati 80 anni da quando Francesco Carnelutti, nella prefazione al testo appena citato di

Cesare Musatti (fondatore delle psicoanalisi italiana), scriveva:

“Ma cosa ne sanno i nostri tecnici del processo? La teoria non è ancora uscita dal laboratorio. Il

vaccino è stato inventato, ma i medici continuano a curare i malati alla vecchia maniera, e così a

lasciarli allegramente morire. (…) Non mi nascondo che, per adesso, se andiamo a discutere una

causa civile o penale aiutandoci, nella critica delle testimonianze, con questo bel libro del Musatti,

corriamo il rischio di farci compatire. (…) Ma quando sarà diventato giudice qualcuno dei miei

scolari, i quali hanno assistito, per esempio, a certi indimenticabili esperimenti, la cosa comincerà

a cambiare d'aspetto. (…) Come la malaria o la tubercolosi, così la cattiva testimonianza miete a

migliaia le sue vittime. Ai nostri avvocati e ai nostri giudici nessuno insegna il modo di

diagnosticarla e di renderla innocua. Bisogna che questa ignoranza sparisca” (71).

Il maestro in utroque aveva ragione: sono stati fatti decisivi passi avanti per l'affrancazione della

psicologia che studia la testimonianza nel processo; lo stesso codice di rito, pur senza ammetterlo

esplicitamente, poggia alcune delle sue norme sui principi cardine della psicologia della

testimonianza (si pensi, ad esempio, al divieto di domande suggestive nel corso dell'esame stabilito

dall'art. 499, III° comma, c.p.p., ed a quello che scriveva nel 1931 Musatti (72) nell'opera citata al

paragrafo titolato «Le interrogazioni suggestive»: “l'azione delle domande sul testimonio può essere

più specifica, nel senso di determinare anche la natura particolare della risposta: si parla in tal

caso di una azione suggestiva di quelle domande”).

Oggi il maestro degli psicologi giuridici italiani osserva:

“La psicologia giuridica, specialmente nella sua prospettazione forense, è una materia che deve

incidere nella realtà processuale, ma non, si badi, solo attraverso le consulenze tecniche e le

perizie, perché così ragionando resta alla stregua della climatologia, della scienza che studia le

valanghe, della meccanica o della fisica dei fluidi. Qui si tratta di accettare l'idea che per

70 CESARE MUSATTI, Elementi di psicologia della testimonianza, ed. Cedam, 1931, pag. 11. 71 CESARE MUSATTI, Elementi di psicologia della testimonianza, ed. Cedam, 1931, pag. 6-7. 72 CESARE MUSATTI, Elementi di psicologia della testimonianza, ed. Cedam, 1931, pag. 158.

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esercitare la funzione giurisdizionale e per operare in essa, per esempio come magistrati e

avvocati, è indispensabile conoscere le scienze del comportamento e della mente“ (73).

Tanto ancora vi sarebbe da dire sull'argomento e tanto fortunatamente è stato scritto (74), per cui mi

limito ad accennare allo stato della giurisprudenza (probabilmente un qualche allievo illuminato di

Carnelutti) in riferimento alla interpretazione degli indizi:

“Gli indizi, che sono le prove indirette del fatto, inseriti in una serie causale costituiscono anelli di

una catena di rapporti naturali costantemente uniformi e di comportamenti umani che, secondo l'id

quod plerumque accidit, conducono ad un risultato secondo le leggi della psicologia per cui, in

linea di massima, data un'azione, si può formulare un giudizio probabilistico su altre che l'hanno

preceduta e che la seguiranno: probabilità che diventa certezza (rilevante per l'affermazione della

responsabilità penale) se i rapporti o i comportamenti sono plurimi e convergenti, inequivoci nella

loro direzione finalistica e conducenti ad univoca interpretazione da parte del giudice. Attraverso

questa si ricostruisce il fatto ignoto (colpevolezza dell'imputato) con un giudizio complessivo dei

dati che tenga conto del loro valore intrinseco e delle connessioni tra essi esistenti e che conduca

alla prova indiziaria, che viene ad avere normativamente analoga efficacia della prova diretta. In

tale contesto, quando nell'iter argomentativo della sentenza la catena viene interrotta con l'innesto

di una serie causale autonoma, per sfuggire al vizio dell'illogicità va data da parte del giudice

rigorosa e convincente spiegazione - e nella specie ciò è mancato da parte del giudice d'appello -

della scelta adottata e del privilegio accordato a soluzioni divergenti dal percorso motivazionale

originario conducente coerentemente in direzione della responsabilità dell'imputato” (75).

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In relazione alla prova scientifica, parrebbe a prima vista che la psicologia nulla abbia da dire. La

domanda è: che ha da spartire la scienza con la psicologia? La natura scientifica, innanzitutto. Se la

psicologia è scienza, essa può dare un contributo anche nel momento in cui devono essere valutati

gli esiti di una prova scientifica.

73 GUGLIELMO GULOTTA – ANTONIETTA CURCI, Mente, società e diritto, ed. Giuffré, 2010, pag. 33. 74 Oltre ai testi già citati nelle note del presente paragrafo, si vedano, primo fra tutti, ENRICO ALTAVILLA, Psicologia giudiziaria, ed. Utet, 1925; DOMENICO CARPONI SCHITTAR (a cura di), La menzogna nel processo, ed. Giuffré, 2004; DOMENICO CARPONI SCHITTAR (a cura di), Il testimone vulnerabile, ed. Giuffré, 2005; LUIGI FADALTI, La testimonianza nel giudizio penale, ed. Giuffré, 2008; GUGLIELMO GULOTTA, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, ed. Giuffré, 2002. 75 Cass. Pen., Sez. I, 16 dicembre 1994, Felice.

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L'esempio più immediato e più frequente riguarda la perizia psichiatrica; fermo -finché non cadrà- il

divieto di perizia psicologica previsto dall'art. 220, II° comma, c.p.p. (76), la psicologia è

fondamentale nella disanima dei risultati della perizia psichiatrica.

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Infine, anche in relazione alla prova documentale, la psicologia ha tanto da dire.

Infatti, v'è una disciplina specifica, la psicolinguistica forense, che, collocandosi al confine fra

psicologia e linguistica, studia un documento scritto in due direzioni:

- analisi del linguaggio, scritto e verbale (77), col fine di attribuire un testo al suo autore,

specialmente quando la scienza grafologica non è sufficiente;

- esame psicologico del contenuto per permettere di disegnare un ragionevole profilo di personalità

dello scrittore.

Più in generale l'analisi di un testo, non diversamente (o forse ancor più) dall'analisi di un teste,

richiede la conoscenza dei fondamentali della psicologia, in quanto si possono argomentare

interpretazioni collegate ai segni, alla grafia, ai disegni, alle parole scritte.

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In sintesi, l'interpretazione psicologica delle prove, che dovrebbe portare a creare un'anima al fatto

di reato, ovvero al fatto di non reato, va vista come approfondimento introspettivo del fatto che

supera l'apparenza del dato oggettivo, in quanto -come acutamente scriveva Pirandello

psicologo:

“ Io sono realmente come mi vede lei, ma ciò non toglie che io non sia anche realmente come mi

vede suo marito, mia sorella, mia nipote ...” (78).

PARTE QUARTA

“Non dobbiamo mai dimenticare che la mente umana

si esprime attraverso una catena di processi molecolari,

ma non è mai soltanto una questione di molecole”

(PIETRO PIETRINI, Verso una biochimica della mente?, Am Psy Ass., 2004)

Sommario: 1. Gli «alleli» delle neuroscienze giuridiche. - 2. La «boule de neige» della psicologia, come scienza dei fatti

umani.

76 Probabilmente dovremo aspettare -come per Carnelutti- che qualche allievo del Prof. Guglielmo Gulotta arrivi in Corte Costituzionale per rimuovere una norma (art. 220, II comma, c.p.p.) che non ha senso in un processo accusatorio. 77 Cfr. GUGLIELMO GULOTTA, Breviario di psicologia investigativa, ed. Giuffré, pag. 73. 78 LUIGI PIRANDELLO, Così è (se vi pare), ed. Mondadori, 2002, pag. 102.

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1. Gli «alleli» delle neuroscienze giuridicche.

Le neuroscienze sono la nuova frontiera della ricerca scientifica (79) e i neuroscienziati vengono

salutati come i filosofi del “materialismo saggio” (80) della nostra epoca; le “neuroscienze

giuridiche” sono le applicazioni delle neuroscienze al processo penale.

Volendo partire da una definizione, le neuroscienze sono un sistema integrato di discipline, che

hanno per oggetto il cervello umano ed il sistema nervoso e ne studiano struttura, funzioni e

sviluppo; a volo d'uccello, ne indicherò soltanto le varie partizioni (81): neurologia, neurobiologia,

neurochimica, neurofisiologia, neuropsicologia, neuroscienze molecolari, neuroscienze sociali,

neuroscienze cognitive.

E di queste ultime mi limiterò a ricordare la natura quasi rivoluzionaria che può assumere nel

processo penale la cd. “risonanza magnetica funzionale”, nota con la sigla fMRI (e definita come la

“nuova macchina della verità”): si tratta di un'applicazione della Risonanza Magnetica Nucleare,

che permette di generare delle immagini del flusso e dell'ossigenazione ematica localizzati a livello

dell'encefalo, al fine di sondare le reazioni che la persona può avere nel momento in cui afferma

qualcosa che sa di essere vero oppure falso.

Di recente ha suscitato un interesse mondiale (82), come primo passo verso una sorta di “neo-

lombrosianesimo”, la sentenza della Corte d'Appello di Trieste (83), che -sia detto subito- non ha

nulla di rivoluzionario (84), se non -sia detto subito e provocatoriamente- il metodo, l'uso

appropriato dell'aratro del giurista.

In tale arresto giurisprudenziale, viene dato peso ai risultati delle indagini peritali delle neuroscienze

genetico-molecolari, svolte in grado d'appello, che avevano evidenziato nell'imputato la presenza di

una variante di gene (allele) a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L); questa “vulnerabilità

genetica” (85) può rendere l'imputato maggiormente incline a manifestare aggressività, se provocato

o escluso socialmente. Il dato rinvenuto scientificamente si è tradotto sul piano giuridico in un

riconoscimento, nella misura massimo consentita dal codice di rito (art. 89 c.p.p.) della diminuzione

79 Per rendersene conto basterà leggere ANGELO BIANCHI, GUGLIELMO GULOTTA, GIUSEPPE SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, ed. Giuffrè, 2009. 80 JEAN PIERRE CHANGEUX, Geni e cultura, ed. Sellerio, 2007. 81 Gli strumenti di lavoro dei neuroscienziati sono: la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), la PET (Tomografia ad Emissione di Positroni), la SPET (esame strumentale del cervello con radiofarmaco), la TMS (Trascranial Magnetic Stimulation), i Potenziali Evocati Cognitivi (tecnica di registrazione delle risposte del cervello ad un determinato compito cognitivo). 82 La rivista scientifica Nature nel numero di novembre 2009 ha titolato, a commento della sentenza triestina: “Lighter sentence for murder with bad genes”. 83 Corte d'Assise d'Appello di Trieste dell'1 ottobre 2009, n. 5 (Presidente Relatore dott. Pier Valerio Reinotti). Se ne leggano i commenti di: SABRINA PERON, Neuroetica e diritto, in Persona e danno, n. 11/ 2009; CATALDO INTRIERI, Toghe nere, camici bianchi e la teoria delle due culture, in Gli oratori del giorno, ottobre 2009; e soprattutto ANTONIO FORZA, Le neuroscienze entrano nel processo penale, in Rivista penale, n. 1/2010. 84 Lo riconosce per primo, in via d'interpretazione autentica, lo stesso giudice estensore nel suo intervento a Treviso il 24 aprile 2010, in un bel convegno sul tema: “Le neuroscienze entrano nel processo penale”. 85 Così s'è espressa la Corte d'Appello di Trieste cit.

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“ fino ad un terzo” della pena per la parziale capacità d'intendere e di volere (che -sia detto per

inciso- è stata valutata nel corso di una perizia psichiatrica tradizionale, bene strutturata in una

triplice diagnosi: descrittiva, di sede e di natura; con l'ausilio delle neuroscienze, che hanno

attribuito un peso specifico indubbiamente migliorativo al semplice colloquio clinico ed alla

somministrazione testistica).

Da un punto di vista più generale, il contributo che le neuroscienze possono offrire al processo va

visto sotto due diversi profili: da una parte l'imputabilità, dall'altra la ricostruzione del fatto; a noi

qui interessa questo secondo profilo.

Le neuroscienze danno un grande aiuto alla verifica dell'attendibilità della prova dichiarativa (si

pensi alla Risonanza Magnetica Funzionale sopra descritta).

Il primo passaggio processuale consiste nel valutare l'ammissibilità della fRMI, alla luce dell'art.

188 c.p.p.; devono essere rispettati il principio di autodeterminazione e la libertà morale del

dichiarante. Con il consenso del soggetto interessato si potrebbe ritenere salvata l'area di tutela

apprestata dall'art. 188 c.p.p., con la conseguenza che si potrà procedere alla somministrazione della

fRMI soltanto dopo aver ricevuto l'espressa autorizzazione dalla persona. Una lettura della norma

in questo senso è avvalorata dall'art. 111, III comma, Cost., che riconosce all'imputato il diritto alla

prova a tutto tondo (“l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”).

Viene così naturale condividere l'auspicio -ora approdato ad una prima decisione- che si passi

sistematicamente e gradualmente -come a piccoli passi si sta cercando di fare- dal mondo clinico a

quello giudiziario:

“La comprensione del pensiero e del comportamento dell'uomo, fondata su nuove basi, non può

limitarsi a conseguenze sul solo piano clinico ma dovrà contribuire a trasformare anche il modo di

valutare il comportamento degli individui di fronte alla legge” (86).

2. La «boule de neige» della psicologia, come scienza dei fatti umani.

Partiamo da un dato, che sta diventando di comune condivisione : la psicologia è una scienza; così,

al pari di tutte le scienze, può servire nel processo per suffragare le tesi che si contendono il campo

dell'accusa e della difesa.

Già abbiamo esaminato (vedi infra Parte Terza, par. 5) quale sia il contributo della psicologia nella

valutazione delle risultanze delle prove.

Qui esamineremo, sia pure per sommi capi, un altro aspetto: la psicologia ha un ruolo decisivo per

la ricostruzione del fatto nel processo penale.

Nell'episodio di Susanna e dei due vecchioni possiamo apprezzare l'utilità che la psicologia offre a

Daniele per una corretta ricostruzione della vicenda; non basta la scienza ad inchiodare i colpevoli 86 ANTONIO FORZA, in GUGLIELMO GULOTTA e ANTONIETTA CURCI, Mente, società e diritto, ed. Giuffré, 2010, pag. 231.

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del misfatto; Daniele sfrutta in radice i basilari insegnamenti della psicologia; questo è in sintesi il

suo argomentare: Susanna è una donna “timorata di Dio” e suo marito Joachim è “stimato da tutti”;

ancorché possibile, è poco probabile che ella abbia agito da adultera, violando le leggi di Dio. Con

questo dubbio, Daniele prova una ricostruzione alternativa e rivoluzionaria del fatto, che parte da

una intuizione (un “lateral thinking” molto creativo e di matrice intimamente psicologica); cerca il

movente dove sembra assurdo ci possa essere: nell'insana passione dei due vecchioni e, con un buon

interrogatorio, lo fa uscire in superficie. “La bellezza ti ha sedotto e la passione ti ha pervertito”

(87), intimerà Daniele ad uno dei due colpevoli, smascherandolo. Daniele ha fatto esattamente quello

che fa la psicologia.

La psicologia, intesa come scienza dei fatti umani, esamina l'uomo come “agente” e come “attore”;

trasportata nel processo, la psicologia giuridica studia i protagonisti dei fatti individuati nel capo

d'imputazione (imputato, vittima e testimoni); essi devono essere esaminati sia come “agenti”

all'interno di un sistema sociale sia come “attori” del contesto in cui operano: sotto il primo profilo

la psicologia serve per spiegare in che misura il sistema sociale influisce sui comportamenti; sotto

il secondo profilo la psicologia serve a comprendere cosa le azioni significano per chi le pone in

essere e per coloro che le subiscono.

Con una avvertenza, che vale così per la psicologia come per gli altri criteri di sapere che entrano

nel processo penale: tutti contribuiscono a formare un tassello conoscitivo, logico e psicologico

della grande fotografia, che dovrebbe rappresentare il fatto di reato; nel momento in cui esso si è

verificato, è stata scattata una foto, poi stracciata in tanti piccoli pezzi; se si riuscirà a ricomporli

tutti (o quasi tutti), avremo ricostruito il fatto, diversamente dovremo ammettere di non essere stati

in grado di farlo.

Per la sua parte la psicologia è come una palla di neve (“boule de neige”), che rotola giù lungo il

versante di tutta l'istruttoria dibattimentale (88); e più rotola più s'ingrossa, avvolgendo di sé i

risultati delle prove (i pezzi della fotografia) che vengono via via acquisiti; a valle si ferma: il sole

poi farà il resto nel liquefare ciò che non tiene, sul piano logico ed epistemologico, nella

ricostruzione del fatto, scremando il fatto dal “fattoide” (89).

CONCLUSIONI

“Ovunque si vada, si lascia una traccia di noi.”

87 BIBBIA, Antico Testamento, Daniele, 13-56. 88 L'immagine è di GUGLIELMO GULOTTA, Breviario di psicologia investigativa, ed. Giuffré, 2008, pag. XXIII. 89 Anche in tal caso il termine è di GUGLIELMO GULOTTA, Processi penali e processi psicologici, ed. Giuffré, 2008.

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(Edmond Locard, Trattato di criminalistica, 1920)

Un nuovo paradigma all'orizzonte: il passato che si fa futuro.

Giunti al termine di questa cavalcata discorsiva -se è vero come osservava lo psicologo statunitense

Burrhus Frederic Skinner che “la cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato

tutto”- vale la pena chiedersi cosa ci sia rimasto.

La risposta potrebbe essere rinvenuta in un altro studioso statunitense, l'epistemologo Thomas

Samuel Kuhn, che nella sua opera più celebre “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” (1962) ha

spiegato l'avanzare della scienza attraverso i mutamenti di paradigma (90).

Con la psicologia giuridica e le neuroscienze giuridiche applicate al processo penale siamo agli

albori di un mutamento di paradigma; le strutture vecchie (si pensi alla tradizionale perizia

psichiatrica, od alla stessa prova dichiarativa) stanno strette, anche nel processo penale, al giurista

(sia esso Pubblico Ministero, Avvocato o Giudice), che sia consapevole delle più recenti

acquisizioni della scienza in tutte le sue declinazioni.

Il muro che un tempo separava la cultura umanistica da quella scientifica si sta frantumando: siamo

alla crisi del paradigma.

Torna attuale un unico discorso per una esaustiva ricostruzione del fatto nel processo penale, quello

sul metodo, sull'unico metodo e sul rigore del metodo: il contraddittorio di scienza e coscienza, di

logica e psicologia; una nuova rivoluzione scientifica, che discernerà la buona dalla cattiva scienza.

L'atto di ricostruzione del fatto equivale all'atto medico della diagnosi: nel farlo il medico deve

potersi avvalere, attraverso il contraddittorio, delle migliori conoscenze e tecniche messegli a

disposizioni dalla comunità scientifica; analogamente il giurista deve contare ed utilizzare gli

strumenti più moderni, che i diversi campi del sapere, con garanzie di attendibilità, gli offrono.

Post scriptum.

Per la seconda volta e di cuore posso ringraziare il Prof. Guglielmo Gulotta, che mi ha dato l'occasione di approfondire -sia pure nei ristrettissimi

limiti di un lavoro di fine corso- le materie sempre affascinanti delle scienze psico-giuridiche.

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