La ricchezza del Mediterraneo

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Il Mediterraneo è una zona geografica che è tra le più ricche al mondo. Ricchezza economica, finanziaria, ricchezza di risorse naturali. Petrolio in primis, di cui detiene la maggior parte delle scorte mondiali, in Iran o in Iraq, solo per citare alcune zone. Ventitre paesi affacciati sul Mediterraneo (Gibilterra, Spagna, Francia, Principato di Monaco, Italia, Malta, Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina, Montenegro, Albania, Grecia, Turchia, Cipro, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Israele, Palestina, Libano, Siria), ed almeno altri cinque (Portogallo, Andorra, Macedonia, Serbia, Giordania) che pur non possedendo uno sbocco su di esso, ne condividono da sempre le vicende naturali, culturali e storiche. La regione biogeografica mediterranea è un territorio esteso su circa 2.300.000 Kmq, nel quale vivono, lavorano e producono circa 427 milioni di abitanti.

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Editoriale

La ricchezza del Mediterraneo di Gianmarco Murru

Il tema di questo mese è “La ricchezza del Mediterraneo”, un’idea che trae ispirazione da più motivazioni. Il Mediterraneo è una zona geografica che è tra le più ricche al mondo. Ricchezza economica, finanziaria, ricchezza di risorse naturali. Petrolio in primis, di cui detiene la maggior parte delle scorte mondiali, in Iran o in Iraq, solo per citare alcune zone. Ventitre paesi affacciati sul Mediterraneo (Gibilterra, Spagna, Francia, Principato di Monaco, Italia, Malta, Slovenia, Croazia,

Bosnia-Herzegovina, Montenegro, Albania, Grecia, Turchia, Cipro, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Israele, Palestina, Libano, Siria), ed almeno altri cinque (Portogallo, Andorra, Macedonia, Serbia, Giordania) che pur non possedendo uno sbocco su di esso, ne condividono da sempre le vicende naturali, culturali e storiche.La regione biogeografica mediterranea è un territorio esteso su circa 2.300.000 Kmq, nel quale vivono, lavorano e producono circa 427 milioni di abitanti.

Importantissime ricchezze culturali, se consideriamo che la nostra civiltà occidentale è il frutto di millenni di scambi e stratificazioni di culture che hanno sempre vissuto nel Mediterraneo. Dalla Grecia della scuola filosofica di Platone, Socrate, Aristotele, alla grandezza di Avicenna (il padre della medicina moderna) o Averroè (importante filosofo islamico, che difese la libertà e l’indipendenza della ragione speculativa nei confronti della religione), senza contare l’importanza della lingua latina che unì in un unico stato tutto il Mediterraneo, e molto oltre. L’unità linguistica del sapere portò dei risultati interessanti. La possibilità di studiare il tutte le università europee e scambi culturali molto più semplici. Anche se il numero di studenti che seguivano le orme di Erasmo da Rotterdam, (i predecessori degli Erasmus di oggi), era molto limitato, era incredibile la possibilità di dialogare con la stessa lingua con tutti i professori d’Europa. Si tentò in altre occasioni di ripetere quella dimensione con l’invenzione di una lingua comune per tutti, l’Esperanto. Ma fu impossibile da mettere in pratica artificialmente, perché le lingue del Mediterraneo, e di tutto il mondo, sono organismi autonomi. Non possiamo fermare o limitare il progresso di una lingua o la sua sparizione. La ricchezza linguistica contemporanea è ancora forte, e stranamente più si cerca l’unità politica dell’Europa e del Mediterraneo, più si cerca di difendere a tutti costi la specificità linguistica di ogni regione. Sardegna e Paesi Baschi, solo per fare un esempio conosciuto da tutti. Ma ci sono problemi anche nella parte sud del Mediterraneo. Pensiamo al popolo Saharawi che combatte ogni giorno per la difesa della lingua e della sua cultura, oltre alla sua sopravvivenza e per avere uno Stato libero e indipendente.

L’unità linguistica mondiale è assicurata oggi dalla lingua inglese, che ci permette di parlare e scrivere con ogni popolo del mondo. Tutti studiamo l’inglese come seconda lingua, questo è avvenuto grazie alle

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politiche colonialiste del passato e dalla potenza economiche di oggi, che parlano tutte inglese: Inghilterra, Stati Uniti, India, Australia. In molti articoli di giornali si parla degli Stati Uniti come un secondo Impero Romano, anche in questo semplice fatto: un'unica lingua, un’unica cultura.

Queste piccole esplorazioni sono solo alcune delle ricchezze culturali che ancora costituiscono la sostanza della cultura europea. Ma, fortunatamente c’è molto di più. In questo numero abbiamo indagato la ricchezza artistica, quella gastronomica, quella delle diverse possibilità di viaggi, quelle dell’ambiente, e delle infinite storie che caratterizzando il nostro presente. Abbiamo analizzato la guerra israelo-palestinese dal punto di vista della disparità economica tra i due popoli. Due popoli, perché per ora esiste un solo Stato, Israele, e un popolo che attende un riconoscimento politico vero, Palestina. Guardare le guerre dal punto di vista della ricchezza vuol dire analizzare un punto di vista più realistico. Le guerre di religione sono parole che nascondono un interesse economico. È sempre stato così, dai tempi delle crociate fino alla convinzione delle guerre giuste di Bush.

La ricchezza è sempre opposta alla povertà, non c’è da fare un’analisi filologica delle parole. È una verità inconfutabile. Ma in questa occasione ci occupiamo di sottolineare quale enorme ricchezza abbiamo intorno a noi, tutti i Paesi che circondano il Mare Nostrum hanno contribuito alla costituzione della cultura occidentale, così come la vediamo ora. Anche se la tendenza a globalizzare il pensiero unico potrebbe essere un pericolo, siamo ancora sicuri che la grandissima parte della nostra cultura si fonda sullo scambio e contaminazioni di culture diverse che è stato, e continua ad essere il Mediterraneo, questa, è infine la più grande ricchezza.

In viaggioPentedattilo. La “mano” di pietra rivive nel mitodi Angela Chirico

“La visione è così magica che compensa di ogni fatica sopportata: selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell’ aria, nettamente delineate in forma di una gigantesca mano contro il cielo….mentre l’ oscurità e il terrore gravano su tutto l’abisso circostante”.Lo stupore immaginifico di Edward Lear restituisce bene il senso di sperdimento e di vertiginosa suggestione che avvolge quanti, abitanti e visitatori, possano pregiarsi di ammirare, percorrendone stradine e vicoli tortuosi, il borgo antico di Pentedattilo. Lo scrittore e pittore britannico vi giunse nell’ Agosto 1847, nel corso di un viaggio intrapreso per scoprire i luoghi dell’ amata

Italia, rimanendone ammaliato. La dimensione di incanto da cui parevano essere circondati la rupe e i suoi pinnacoli di arenaria lo indussero a scolpire, con lo stesso tratto preciso ma delicato dei suoi disegni, una cornice carica di meraviglia; parole capaci di evocare l’ intima sensazione di turbamento ispirata da uno scenario immobile, senza tempo, quasi spettrale. Un fascino, quello di Pentedattilo, rimasto intatto nei secoli. Un borgo in cui, ancora oggi, il concetto di durata, depurato dai ritmi alienanti della modernità, sembra destinato a un’inedita ridefinizione dei suoi connotati, consegnato a

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un procedere sonnolento, imperturbabile. Già dal litorale, da cui si inerpica la strada che conduce al paese vecchio, si stagliano con chiarezza i grappoli di case aggrappate alla maestosa roccia sovrastante, che ha la forma di una mano ciclopica. Da qui, infatti l’ etimologia del nome Pentedattilo, dalle parole greche pente (cinque) e daktilos (dita). Un’ origine antichissima dunque quella della frazione, ricadente nel comune di Melito Porto Salvo. Tuttora, la storia della sua fondazione è avvolta dal mistero, e tra gli studiosi si registrano pareri discordi: alcuni, infatti, ne legano le radici alla dominazione Bizantina e alle migrazioni monastiche Basiliane; altri, invece, ritengono maggiormente accreditata la dominazione romana o quella greca. Celebre e di grande interesse, invece, un episodio storico noto come “la strage degli Alberti”, avvenuto nella notte di Pasqua del 1686, di cui il borgo fu cupo testimone. Una vicenda i cui echi continuano ad alimentare la fantasia popolare e la leggenda, che narrano la presenza nel borgo dei fantasmi delle persone uccise, dei loro lamenti ancora udibili quando il fruscìo del vento ridesta i vicoli silenziosi dalla loro quiete secolare. Racconti che, uniti ad un evento naturale nefasto, come il terremoto del 1783 e successive scosse, e al pericolo sempre agitato, ma mai di fatto verificatosi, di possibili frane, hanno determinato il progressivo abbandono (completato negli anni ’60 del ‘900) di Pentedattilo da parte dei suoi abitanti. I quali, in seguito al decreto di sgombero, si spostarono un chilometro più a valle, fondando Pentedattilo Nuovo. Oggi il borgo antico, dopo tanta incuria, è meta prediletta non solo di architetti e storici, ma anche delle associazioni di volontariato, che intendono valorizzarlo con iniziative culturali ed eco-pacifiste.

La guerra silenziosa sul Golandi Cristina Giudice

Israele ha sfruttato tutte le risorse disponibili in Palestina, ma su queste alture sono piantate solo mine e campi militari

Per chi ha studiato il conflitto arabo-israeliano e ha seguito per anni la sua evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista), attraversare le alture del Golan dà la sensazione di trovarsi in un luogo simbolico, tappa di un particolare pellegrinaggio pagano, quasi al centro del mondo. Chilometri e chilometri di terra contesa, causa di tante guerre di cui

ancora si trovano le tracce.Prima di arrivare quasi al confine con la Siria, attraversiamo alcuni villaggi, prevalentemente drusi. Viene quasi spontaneo chiedersi come sia la vita quassù, in un territorio che non si sa bene di chi sia e con temperature notevolmente al di sotto della media del resto del paese. Dalla strada riusciamo a vedere Quneitra, ormai una città fantasma. Le sue rovine restano lì, a ricordo di tutti i villaggi che hanno dovuto subire la stessa sorte e di cui non è rimasta traccia. Sembra quasi di vedere le case bruciare, i palazzi rasi al suolo dai bombardamenti e la gente che scappa come può, per rifugiarsi chissà dove.Dopo aver visto il minuzioso sfruttamento di terra e risorse idriche portato avanti da Israele nel resto del paese, si resta interdetti dallo spreco di questa regione. Nel lago di Tiberiade, per esempio, è l’acqua il

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bene conteso. Le terre intorno al lago, su cui sorgono i luoghi sacri cristiani, appartengono a benedettini e francescani, ma solo fino alla battigia. L’acqua del bacino è proprietà del governo israeliano e in lontananza si vedono le pompe che la tirano su per farla arrivare nei kibbutz intorno. Un frate ci dice che i litigi con il governo israeliano per il passaggio, a piedi, dei turisti su quei tratti di spiaggia sono all’ordine del giorno. Anche l’enorme negozio di souvenir sulle rive del Giordano, dove molti pellegrini cristiani ripetono il rito del battesimo, è gestito dagli abitanti di un kibbutz vicino. Insomma, di qualsiasi risorsa si tratti, Israele è pronto a sfruttarla nel modo migliore possibile e a trarne il massimo. Tranne sul Golan. Qui le case dei coloni e le grandi coltivazioni dei kibbutz si possono contare sulle dita, per il resto lo spazio è occupato dai campi militari. Il modo migliore, evidentemente, per lo stato ebraico di utilizzare queste terre. Ne troviamo tanti lungo la strada, contrassegnati dalla bandiera del corpo di appartenenza. Sulla cima più alta c’è il punto di osservazione da cui Israele tiene sotto tiro Damasco. Bisogna evitare qualsiasi foto o ripresa se non vogliamo rischiare che ci sparino addosso.

I confini in questa zona sono molto labili, visto il controllo esercitato da Israele, Siria e Onu, che ha il protettorato su una parte dell’area. La cosa certa è che Israele, dal 1967, non vuole mollare la presa: le risorse idriche del Golan e la terra sono beni troppo preziosi per essere restituiti a Damasco, senza contare le ragioni strategiche e militari. Meglio allora lasciare che l’unica cosa seminata in queste terre siano le mine, di fabbricazione italiana, che nessuno si è ancora premurato di togliere. È proprio qui che ci si rende conto della scarsa volontà di portare avanti serie trattative di pace. Pur di non abbandonare il Golan, Israele è disposto a tenersi quelle terre così come sono, piene di mine e abitate solo da militari. Forse perché ci si aspetta che, da un momento all’altro, questa silenziosa guerra di posizione lasci il posto a nuovi bombardamenti e nuovi morti.

Un viaggio in Palestina difficilmente aiuta ad essere più ottimisti sul futuro di questo paese, ma aumenta la consapevolezza di dover fare qualcosa per questo popolo, fosse anche solo raccontarlo nella sua quotidianità. Nonostante le ricchezze che vanno tutte da una sola parte, le prepotenze da sopportare e, soprattutto, il muro che cresce in modo inversamente proporzionale alle speranze dei palestinesi, la gente non ha perso la voglia di vivere e sorridere. Gli arabi, sia palestinesi che israeliani, ci accolgono ovunque con entusiasmo. Gli israeliani non arabi, invece, hanno sempre una certa aria di distacco, quasi di sufficienza. Gli ebrei ortodossi poi, intabarrati nei loro cappotti neri, non sollevano neppure lo sguardo da sotto i loro larghi cappelli, altrettanto neri, e vanno veloci come se fossero sempre in ritardo e non avessero altro tempo se non quello da dedicare alla preghiera.

Sarà che gli occidentali, soprattutto in Cisgiordania, costituiscono una fonte di ricchezza per i palestinesi vista la mole di cianfrusaglie che comprano, ma è un discorso che può funzionare a Betlemme o a Gerico, o in altre piccole città arabe, non a Nazareth. In realtà il senso dell’accoglienza e dell’ospitalità va oltre gli (scarsi) interessi economici. La gente si ferma a parlare nei negozi anche se non compriamo niente, chiede da dove arriviamo, dove andiamo e cosa abbiamo visto. Se ci piace il loro paese.Come la piccola Jessica, che con i suoi occhi azzurri e i capelli rossi sembrerebbe un’autentica israeliana, ma è invece palestinese. E lo dimostra con la sua loquacità. Ha solo otto anni, ma a scuola studia l’inglese e non perde occasione di metterlo in pratica appena le capita a tiro un turista.

Ma cosa c’è dietro questa voglia di comunicare? La risposta forse si nasconde dietro il silenzio e il mezzo sorriso di una ragazza quando le dico che sì, mi piace la Palestina, ma non Israele. La battuta, volutamente provocatoria, ha avuto il suo effetto. Gli arabi sono prigionieri nelle parole, nei pensieri: non si può parlare male di Israele con un occidentale, non ci si può fidare. Ma sono prigionieri anche

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fisicamente. Quel muro che continua a crescere, se riduce le loro speranze di movimento all’interno di una stessa città, polverizza quelle di poter andare all’estero. Il personale della compagnia aerea israeliana con cui abbiamo viaggiato ci ha sottoposto ad interrogatori e perquisizioni sia all’andata che al ritorno. Cosa succederebbe se fosse un palestinese a partire? E allora aspettano i turisti per farsi raccontare quel mondo che forse non vedranno mai, per chiedere come sia la vita oltre il muro, in un paese dove la guerra non c’è. I palestinesi sono prigionieri di una terra che è la loro, ma in cui non possono vivere da padroni.

Non stupisce a questo punto che a Ghaza non ci si possa nemmeno avvicinare. Se la situazione è così triste nelle città arabe sotto controllo israeliano, come devono sentirsi gli arabi rinchiusi a Ghaza? Certo, hanno avuto quello che volevano, Israele se n’è andato, ma a che prezzo? I valichi spesso vengono chiusi all’improvviso, e gli agricoltori, che hanno lavorato tutto l’anno, devono buttare via verdura, frutta e fiori destinati al mercato estero. La soglia di esasperazione è tale che per un occidentale potrebbe essere pericoloso avventurarsi nella striscia di Ghaza. Qui, forse, gli israeliani sono riusciti a spegnere anche il sorriso della gente.

SaporiL’ Italia a tavola: che ricchezza!Di Silvia Bertolla

Poeti, scrittori, pittori, scultori, architetti, musicisti, stilisti, registi… Nel magico stivale c’è proprio tutto: il 70% delle opere d’arti mondiali, secoli di storia su cui si può tranquillamente passeggiare, la torre che pende, la città sull’acqua, il Colosseo, Napoli, Dante… La nostra ricchezza attrae, incuriosisce e affascina viaggiatori provenienti da

paesi lontani, da paradisi terrestri, emozionanti e sublimi. Siamo visti nel bene e nel male, possiamo piacere o non piacere, ma una cosa è certa: siamo i re incontrastati dell’arte culinaria. Credo che sia una consapevolezza che qualunque italiano acquisisca non appena metta il muso fuori dallo stivale. Personalmente ho iniziato a rendermi conto di quanto fossimo speciali tra i fornelli quando avevo tredici anni, nella classica vacanza studio in Inghilterra; prima esperienza in un paese straniero in cui tutto risulta un successo, tranne il cibo! Da quel momento in poi ho iniziato a prestare più attenzione alle prodezze culinarie di nonne e mamme e nel corso dei venti anni successivi a dichiarare sempre più apertamente che anche in cucina, noi italiani, siamo dei veri artisti. Per noi mangiare è un rito: noi apparecchiamo tavola, prepariamo il cibo dedicandoci ad esso con devozione, dal momento in cui si fa la spesa alla realizzazione vera e propria, richiamiamo all’ordine i tutti i commensali quando i piatti sono serviti, come in un campo di addestramento, con campanelli o tamburelli occasionali (nelle rappresentazioni più classiche sono padelle percosse da enormi cucchiai di legno) e finalmente ci sediamo e incominciamo! In Nuova Zelanda ho vissuto su un furgone per nove mesi, ma non c’è stato giorno in cui anche solo per un insalata, io e la mia compagna, avessimo pensato di mangiare in fretta e furia, o “di strangusciun”, come dicono dalle mie parti. Rigorosamente sedute, con tanto di tavolino, inventato sul momento, su cui mai potevano mancare olio (italiano, comprato al ristorante “Bella Napoli” in latte da

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10 litri perché se l’olio non è buono è inutile cucinare), sale, pepe, pane, posate e tovaglioli. Che fossimo italiane è stato chiaro per tutti fin dal primo momento, perché, anche nell’arrangiarsi in una vita di vacanziere all’avventura, sul cibo, le sane e radicate abitudini, erano degli automatismi consolidati e per noi indiscutibili. La ricchezza degli italiani a tavola salta all’occhio proprio dall’altra parte del mondo o comunque fuori dall’Italia, dove l’ospitalità ti viene data a braccia aperte in cambio di performance culinarie, dove il nostro bagaglio di esperienze, in mezzo ai degli “hamburger dipendenti”, sfavilla con cene improvvisate in mini cucine inadatte e poco attrezzate, ma che un italiano sa trasformare in meno di due ore per fare tagliatelle a mano e coniglio alla ligure (giuro l’ho fatto, per 15 persone), o su una barca oceanografica di 50 spagnoli che, gasati dall’avere un’italiana a bordo, richiedono a gran voce il Signor Tiramisù (impossibile dire di no e onorata di cotanta tradizione alle spalle, in mezzo ad un equipaggio di affamati, ho fatto il Tiramisù per 50 persone). Non dimenticherò mai gli occhi esterrefatti di altri giovani (non italiani ovviamente) con cui mi è capitato di imbattermi nelle cucine comuni degli ostelli. Vi posso assicurare che all’opera non vedevano certo Vissani, ma il fatto di essere un’italiana ai fornelli riusciva a creare curiosità e scalpore per qualsiasi soffritto o sughetto bollisse in pentola (come fossi una strega alle prese con pozioni magiche) o per riuscire a creare da un uovo, sale, olio e una punta di aceto la maionese… qualcuno ha persino osato chiedere “ma.. la maionese si fa?”…Vi risparmio gli intrugli che invece hanno lasciato esterrefatta i miei di occhi in quegli ostelli o le peripezie che ho visto fare ad un caro amico californiano tutto entusiasta nel cucinarci un pesce al forno fresco con una spropositata quantità di ingredienti “sinistri” (come patate fritte a fare da letto al povero pesce già impanato con biscottini di sesamo sbriciolati ad uso pan grattato e ricoperto di spinaci previamente fatti saltare con succo di arancia e limone in padella). Tornando alla ricchezza della tavola italiana che spesso appare esagerata e opulente (mi riferisco agli interminabili pranzi per le occasioni speciali in cui gli occhi si fanno più grandi della bocca e le quantità di cibo che vediamo scorrere sulla tavola le rivediamo anche i giorni seguenti la “grande abbuffata” perché c’è da finire sempre qualcosa), il nostro vero segreto, la nostra più grande ricchezza, appunto, è quella di saper giocare con pochi ingredienti, ma buoni, per allettare palati con gusti semplici, che mantengano l’autenticità dei sapori. Un branzino fresco ha bisogno di un buon olio, aglio, sale e pepe e ci lascia in un’estasi culinaria per ore..

ArteL’arte che arricchiscedi Claudia Zedda

Piccola e coraggiosa, affronta audace le insistenze delle onde che da secoli attentano alla sua pace. Eppure sorride ancora, e lascia che il sole la baci senza arrossire. Venne definita dagli antichi commentatori, ricca, fertile e poco abitata, e in dono ricevette un nome che resiste intatto come le sue pietre: Hyknusa. Parliamo della Sardegna e della sua abbondanza che riempie gli occhi di chi sa osservare. Ricchezza della terra, ricchezza di luoghi, ricchezza di sapori e di leggende. Ma oggi racconteremo di una ricchezza diversa, che si scopre un pò per caso, un pò per sbaglio, che ci raggiunge come un soffio di aria fresca primaverile e che ci sorprende, perché crescendo ci siamo abituati a ricercarla solamente altrove, oltre il mare, oltre l’orizzonte. L’orizzonte non è poi così distante, e non dovremmo scoccare troppo in là l’occhio per ammirare l’arte di quei sardi che colorando le tele con le tinte della

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propria terra, lavorando la pietra e il legno, ripercorrendo le ataviche manualità, fermando in una foto il sentimento di un attimo, si dimostrarono eccezionali. Primo di questa eccellente classe d’artisti Giuseppe Biasi. A lui il merito d’aver parlato di Sardegna, non con la parola ma con il disegno, quando l’isola era povertà e banditismo giustificato da un’antropologia razziale che oggi dovrebbe far sorridere. Innovatore e autodidatta, semplice nelle sue linee, imprevedibile nei suoi colori, amato da molti, stimato dalla Deledda, morirà sotto i colpi dell’odio di un popolo arrabbiato. Hanno un sapore insolito le sue tele, ma non per questo ci si stancherebbe d’assaggiarle.Francesco Ciusa è il maestro dell’arte plastica, ha profumo di mito. Riconosciuto tradizionalmente come il primo scultore sardo, riesce ad unire la cultura dei taglia pietra, la tradizione e lo spirito della sua terra, i valori indimenticabili, e l’educazione tecnica dei grandi scultori accademici. Perde l’ingenuità e diventa artista leggendario, e fa delle sue opere un amalgama di realtà agro pastorale e realtà urbana. Viste le sue opere, sarà impossibile dimenticarle. La Madre dell’Ucciso, accovacciata in veglia funebre (sa ria) tocca il cuore, e inganna l’occhio, riproponendo quei particolari e quella fissità che era del rito, attraverso la quale il dolore sarebbe stato superato. Indimenticabile Antonio Ballero, maestro dei colori, si dimostrò insuperabile nell’utilizzo della scala di grigi che emozionano più d’un tramonto, perché pietrificano il sentimento di uno sguardo, fermano momenti, rendono immortali i protagonisti di quegli attimi. Osservatore pignolo si, ma temerario si dimostra autodidatta nell’arte praticata, così come lo furono Deledda, Ciusa e Biasi, ma spettatore tutt’altro che occasionale in merito all’arte fruita. E in questa confluenza forse il suo merito, di un’innocenza che parla, e ancora oggi ci emoziona. Un accenno breve a quella ricchezza dell’arte che trovò in Sardegna, sul principiare del novecento un terreno ancora ricco, fertile e poco popolato, come era secoli addietro. Ed ancora oggi l’isola, resta la terra promessa dei cercatori d’oro, perché a scavare.. ci si arricchisce sempre.

Il Movimento Artistico Mediterraneo di Serena Maffei

Il Mar Mediterraneo è sempre stato un crocevia di popoli e di conseguenza di culture, influenzate da innumerevoli invasioni e migrazioni.Potremo probabilmente perderci se ci soffermassimo su quanto ricco può essere il suo patrimonio artistico, in quanto esso è culla delle più antiche civiltà. Ciascun paese ha subito delle influenze che cambiano notevolmente da zona a zona.Se pensiamo che paesi africani come la Libia e l'Egitto sono così artisticamente diversi dal nostro, pur essendo, oltre il mare, molto vicini a noi, ci accorgiamo di quanto sia impossibile classificare l'arte che si sviluppa nei paesi e nelle isole bagnati dalle sue acque.É importante osservare, quindi, come il Mar Mediterraneo offra tuttora agli artisti continui spunti d'ispirazione per le loro opere.

Sulle proprie origini ha fatto forza un gruppo che ha nome “Movimento Artistico Mediterraneo”, che ha sottolineato il legame fortissimo tra l'arte ed il proprio luogo di appartenenza geografica, ed ovviamente ciò che a questo è connesso. I principali esponenti del movimento, Giorgio Laveri e Patrick Moya, hanno spiegato con un Manifesto ufficiale le linee guida del movimento, che ovviamente non sono degli standard univoci, ma rispecchiano a livello teorico cosa sia l'Arte Mediterranea e cosa rappresenta.Evidenzia i presupposti della “mediterraneità”, ossia la principale fonte di ispirazione dell'artista

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mediterraneo, ispirazione che nasce a contatto del sole caldo e del mare, ma anche della cultura e della storia. "Mediterraneità contiene la luce e le ombre così definite delle isole della Grecia, il sole e la calura delle aree del Maghreb, fino alle radici della storia dell’uomo che si collocano nell’area mediorientale, con tutta la carica passionale e religiosa tipica queste zone".Non a caso il movimento si sviluppa essenzialmente lungo l'asse geografico Vallauris-Albisola, una zona che ha visto nascere alcuni movimenti artistici nel primo Novecento, e nella quale sia Picasso che Fontana avevano operato.Nel Manifesto del Movimento è ben chiaro quali siano i suoi principali obiettivi: comunicare dinamismo attraverso l'arte, nel senso di approfittare delle molteplici influenze che la posizione geografica dell'asse operativo offre senza mai perdere la caratteristiche che lo specificano.È un movimento che usufruisce delle più disparate tecniche artistiche, a partire dal cinema, tanto caro a Laveri, alle performance, alla più tradizionale arte figurativa e in particolare ceramica, importante prodotto mediterraneo da tempi lontani. Giorgio Laveri ha alle spalle numerose esperienze nel mondo del teatro e del cinema, che ha poi pensato di integrare con ricerche pittoriche su tela e ceramica, per giungere allo studio delle relazioni tra le discipline artistiche, fino alla realizzazione della mostra itinerante Cineceramica. Laveri perfezionò la tecnica di unione di Cinematografia e Ceramica negli anni successivi con numerose mostre sia in Italia che all'estero, nelle quali cercava di riprodurre le icone cinematografiche, come i rullini fotografici e le pellicole. Ricerca la mediterraneità attraverso un consapevole modo di gestire i materiali, le luci ed i colori. Patrick Moya esprime invece la sua mediterraneità attraverso l'uso del colore forte, talvolta con una grafica quasi fumettistica, e dell'incisività comunicativa, infatti il suo cognome appare sovente nelle sue opere, sottolineando la filosofia del Movimento Mediterraneo che vede l'artista come principale opera d'arte. Nella pittura e scultura di Moya troviamo forti richiami alla religione ed alla Bibbia, un'altra forte componente della cultura mediterranea, che però viene vista dall'artista in modo molto personale ed immaginativo.Le opere di entrambi gli artisti ben rappresentano quanti e quali siano i modi di interpretare oggi la mediterraneità, senza cadere nello scontato e prestando attenzione ai valori ed alle origini che talvolta tendiamo a dimenticare o a sottovalutare.

MusicaMusica ricca di contaminazionidi Veronica Paniccia

Un musicista era trattato dai Sumeri al pari di un re. La sua arte? Interpretare la Parola degli dèi. Il mito e - l'Arte delle Muse - nacquero con questa finalità: fornire senso al mondo, raccontarne la genesi esprimendo l'intrinseco desiderio d'immortalità attraverso le forme e i linguaggi dell'Arte. Esiodo nella sua Teogonia scrisse che all'inizio fu il Suono e non il Verbo."Tutti i popoli della terra hanno una musica e un canto" scriveva Rousseau. Musica è un modo dell'uomo di

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autorappresentarsi, di esserci. E' cultura e controcultura; è una maniera di fare Storia trascendendo tempo e spazio; è elemento di aggregazione; è identità; è la forma di comunicazione ecumenica per eccellenza.Il segreto della sua universalità sta nella capacità di essere emotivamente ed immediatamente comprensibile. Tale segreto vive nelle modalità scelte dal compositore e nelle forme predisposte dal suo specifico sistema musicale. Ma c'è un di più, una sorta di valore aggiunto che rende quel segreto permeabile al di là del suo specioso culturale. La rivisitazione della Taranta pugliese di Eugenio Bennato in fondo, mi ha insegnato questo.Le Launeddas sarde (particolare strumento policalamo) ad esempio, antiche quanto l'Argul egiziano, hanno 25 secoli di storia come simboli di una specificità regionale ricche di forte spinta aggregativa per la comunità. Strutture melodico-ritmiche misurate su passi di danza, per occasioni d’incontro, rievocano il contesto esecutivo del Flamenco spagnolo. Repertori e temi a metà strada fra tradizione ed improvvisazione innovativa. Le Launeddas parlano alla comunità e la comunità, prima che il singolo musicista, è il determinante del loro valore artistico. Dionigi Burranca, Luigi Lai, Aurelio Porcu suonatori e divulgatori a fianco di costruttori specializzati come Giulio Pala, Luciano Montisci e Luigi Pili per mantenere vitali in Sardegna antiche forme d'espressione.Un importante contributo al panorama musicale internazionale.Ci spostiamo in Puglia ed abbiamo esempi di band multietniche che mescolano suoni e dissonanze italiche a quelle d'oltremare. Parlo dell’esperienza del percussionista Pierangelo Colucci e degli operai marocchini residenti ad Ostuni. In questa terra di frontiera la Musica diviene il collante tra Occidente ed Oriente, fra mondi ed esperienze umane, tra forme di resistenza ed equilibrio sociale. Suggestivo Il gioco alchemico degli Opa Cupa leccesi: musicisti dell' Est Europa, Algerini e italiani combinano sonorità balcaniche e salentine.Collaborazioni di questo tipo in Italia sono presenti da lunga data. Dagli anni Ottanta ad oggi molti i connubi felici di cui maggiormente il Sud può fregiarsi.I siciliani Kunsertu raccolgono l'eredità africana dell'isola utilizzando particolari vocalità mediorientali e gli Agricantus hanno registrato dal vivo assieme a Touareg del Mali. Una Sicilia transculturale per Storia e vocazione quindi. Un salto a Torino et incontriamo I Mau Mau che lavorano assieme a percussionisti senegalesi e cubani. Fenomeni sotterranei, esperienze ludiche o estese ad artisti del calibro di Pino Daniele avvalsosi di musicisti arabi per comporre il suo Medina. Il meticciato delle intenzioni artistiche che libera le culture da vincoli geografici esprimendo la loro porosità, è la base di queste collaborazioni. Come non menzionare la popolare et ormai famosa Orchestra di piazza Vittorio, nata nel 2002 in uno dei quartieri più ‘ibridi’ di Roma, l'Esquilino. Ben diciotto solisti di dieci nazionalità diverse, ognuno col suo bagaglio di suoni e melodie, riuniti in un'unica volontà compositiva.Contaminazione come benedizione e come pista e traccia d'incontri umani fruttuosi ed augurabili. La World Music ha aperto nuove frontiere nel panorama musicale occidentalmente (ri)conosciuto: che si tratti di nuova interpretazione della tradizione attraverso un ensemble di sonorità, o di repertori nati ex novo. Viviamola e consideriamola come un' attuale risposta dell'uomo moderno alla modernità. Quando la Musica smette di essere puro virtuosismo di nicchia scende da un fittizio piedistallo e si fa ‘mondana’: voci plurime del mondo che si raccontano e che ce lo raccontano. Chiedo venia per i nomi omessi, tra gli esempi citati, di molte altre esemplari esperienze in Italia e nel mondo.

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LibriRichness of literary world in Sloveniadi Sonja Merljak Zdovc

The poetess Neža Maurer received the prestigious Slovene Woman of the Year AwardNeža Maurer, the 78-year-old poetess of love poems, stood in the limelight and she was saying: “While men shovel the gravel left and right and left and right, women fry eggs one, two.” She was commenting on the role of the women in contemporary society and she found her cue in the scene behind her back, in which the comedians Boris Kobal and Jaša Jamnik were shoveling gravel in vain. It was the afternoon of January 22nd and Neža Maurer has just learnt that she became the Slovene Woman of the Year 2008. The title was awarded to her by the readers of the magazine Jana, one of the oldest ladies journals in Slovenia, and the sentence was part of her thank you speech she was making up while standing on the stage.The speech was an additional proof of her poetic greatness. She was speaking in rhymes. The general feeling in the audience was appreciation – appreciation for the modest and fragile woman who despite obvious greatness embedded in her beautiful poems looks in the mirror at the end of the day and tries to convince herself: “You are not doing too bad.” Then,

she puts the mirror down. Her words resonated in the ears of many other successful women who are haunted by lack of self-confidence. Neža Maurer wrote many books of poetry for adults and for children. She considers herself a writer although most of her life she earned money doing other jobs; she worked as a teacher, journalist, editor, translator, and advisor for cultural affairs. Writing is her passion and her torment. Even at the old age, she cannot imagine life without love, so her latest book of poems is about love. Poetry is not a mainstream conversational topic in Slovenia. Although lately poems began to appear in the daily press and although poets receive several awards for their work, it seems that the average Slovene is more familiar with novelties in prose than in poetry. Thus, the awards such as the one given to Neža Maurer which is given for unselfishness, imagination, creativity, courage and success, help to cast some light on contemporary Slovene poetry. Poets are sometimes called doctors of the soul; in the past the award was often given to the doctors of the body. The work of the latter can be easily seen, evaluated and thus appreciated; yet it is the work of the former which makes one feel better when one is lonely and blue. The long applause that Neža Maurer received at Slovene National Theatre proves that although the effect of poetry may not be directly measurable, poetry is needed and appreciated, and Neža Maurer’s love poems are respected and admired.In the 21 year old tradition of presenting this prestigious award, Neža Maurer is the second poetess to receive it; the first was Mila Kačič, an actress who, too, was famous for her sensitive love poems.

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La “ricchezza geografico peregrinante” del Libro di Ruggerodi Tommaso Palmieri

Di assoluto interesse, in un’epoca dominata dal ritorno di conflitti reali caratterizzata da un “sentire retro culturale” e basata da una pochezza intellettiva che sembra consigliare e accompagnare i più a serrare i propri orizzonti, tornare a soffermarsi su di un’opera ricca di fascino e amore positivo per la natura. “Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo” (Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), meglio noto come Kitāb Rugiār o Kitāb Rugiārī (Il libro di Ruggero o “Ruggeriano”, nella traduzione dall’arabo) completo ed approfondito compendio geografico toponomastico che Al Idrisi di Ceuta – ossia Abu Abdallah Muhammad ibn Muhammad ibn Idris - realizzò nel 1138 su commissione del re normanno di Sicilia Ruggero II d’Altavilla, si presenta come un’opera intenta a valorizzare un grande studio incentrato sulla magnificenza del regno e del regnante, dimostrando l’ottimo connubio multietnico e confessionale presente nell’allora

definita “gemma del secolo per pregi e bellezze” e riguardante sia la tradizione greca, latina e araba utilizzate nell’isola come patrimonio unitario e non settario separatistico ma anche ispirato ad una verace volontà di conoscenza globale avente come “perno ruotante” l’intero bacino mediterraneo.Nel volume, riproposto dall’Editore Flaccovio nel suo quarto e quinto clima appartenente alla rappresentazione italico peninsulare nella traduzione di Umberto Rizzitano, riemergono da scrigni polverosi di una memoria storica mai del tutto cantata nella sua magnificenza descrittiva le rappresentazioni e gli studi del tempo riguardo a nomi, luoghi, città, paesi, mari siriani e veneziani, fiumi e passi montani nostrani, abitanti e curiosità, oltre ad alcuni omissis concernenti la difficoltà di interpretazione dei complicati segni dell’alfabeto arabo in riferimento ai quali si possono tradurre immaginarie direttrici.Dal passato al presente, un invito alla curiosità della scoperta del nuovo nella rivisitazione di una parte di questo manuale può certamente ricondurre ad un’immagine più equilibrata dell’insieme storico, geografico e nozionistico dell’area, contraddistinta da quella ricchezza vitale che, veduta nell’atto dello sfogliare aperta alla descrizione, immaginava il desiderio di chi voleva affidare ad una scienza basata su di una “giusta lentezza del descrivere” e nutrita di impattante visibilità le sorti di un possibile dialogo nel Mediterraneo del XII secolo.Il Libro di Ruggero, pp 121- Flaccovio Editore, 2008 www.flaccovio.com

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Storie MeridianeIsraele, quando la potenza economica fa tacere la politica e parlare le armidi Cristina giudice

È stato commovente vedere entrare in vigore il cessate il fuoco su Ghaza da parte di Israele durante la notte. Dopo 22 giorni di guerra, le immagini che trasmetteva la TV satellitare al-Jazeera sembravano quasi surreali: la città, non più illuminata dalle esplosioni, era finalmente silenziosa e sembrava di poter immaginare gli abitanti che forse, per la prima volta dopo tre settimane, riuscivano a dormire. Perfino il corrispondente, senza più il sottofondo di bombe, ambulanze e urla, parlava sottovoce raccontando gli sviluppi della situazione, quasi a non voler rompere

quel silenzio così fragile. Sembra che Ghaza stia ricominciando a vivere, con la gente che esce nuovamente per strada a contare i danni, vagando incredula fra cumuli di macerie dove sono sepolti i ricordi di una vita. Quelle stesse macerie da cui continuano a venire fuori corpi di vittime che fanno aumentare il prezzo di vite umane pagato per questa guerra.

Secondo le Nazioni Unite sono morti almeno 1300 palestinesi, fra cui oltre 400 bambini e più di 100 donne, mentre i feriti sono circa 5500, di cui circa 1900 bambini e 800 donne. Il direttore del UNRWA, l'agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo e l'assistenza a Ghaza, ha dichiarato che le armi usate da Israele hanno causato lesioni "orribili" nei bambini. Almeno 100 mila persone sono state cacciate dalle loro case e l'80% della popolazione di Ghaza si trova ora sotto la soglia di povertà.Anche le perdite materiali sono enormi e si stima che occorreranno miliardi di dollari per ricostruire le infrastrutture. L'acqua corrente è tornata in circa 100 mila abitazioni, ma 400 mila ne sono ancora sprovviste e l'elettricità è disponibile per meno di 12 ore al giorno. Secondo fonti palestinesi sono state distrutte circa 4000 costruzioni e seriamente danneggiate almeno 20 mila, fra cui 21 strutture mediche e 50 delle Nazioni Unite, oltre a circa 1500 fra industrie e negozi, 20 moschee, 31 impianti di sicurezza e 10 condutture di acqua e fognature.

Da parte israeliana si contano 13 morti, fra cui tre civili.La sproporzione nel numero delle vittime è il risultato della sproporzione di potere economico e, dunque, militare, fra i contendenti. I razzi caduti su Israele per la maggior parte sono esplosi lontano dalle case, mentre Ghaza è stata attaccata con bombardamenti aerei, marittimi e di terra che hanno utilizzato, fra l'altro, bombe al fosforo bianco.

Una sproporzione che non si giustifica nemmeno con il diritto di Israele ad esistere (come dicono in molti) se questo significa l'annientamento della Palestina e dei suoi abitanti. Uno squilibrio esistente da sempre e che già in passato, in particolare durante la prima intifada del 1987, aveva preso il nome di "rivolta delle pietre", l'unica arma di cui i palestinesi disponevano contro Tsahal, una delle forze militari più potenti al mondo, che vanta uno sterminato arsenale aereo, marittimo e di terra (comprese, pare, diverse testate nucleari di cui Israele non ha mai ammesso l'esistenza).

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La disparità fra la potenza economica israeliana e le difficoltà della vita palestinese è evidente e diventa quasi fisicamente fastidiosa se provata di persona. Senza mettere in discussione il diritto di un popolo all'autoaffermazione, ad avere un proprio stato, all'esistenza stessa, ci si chiede come debbano sentirsi i palestinesi che, dopo aver visto nascere sulle loro terre lo stato di Israele ed essere stati cacciati dalle loro case, devono sopportare una vita di serie B. Perché di questo si tratta. Il senso di impotenza e frustrazione generato dal continuo sfoggio di ricchezza e potenza che Israele fa è difficile da capire se non lo si è vissuto.

La prima cosa che colpisce è l'umiliazione che i palestinesi subiscono nel passaggio dei checkpoint disseminati un po' dappertutto nel paese. Il muro di separazione che Israele ha creato per difendere i propri confini si snoda infatti nelle terre insinuandosi fra le case come un disegno sulla carta piuttosto che come cemento fra i campi. Le famiglie sono state divise, i figli che abitano a Gerusalemme non possono andare a trovare i genitori che stanno a Betlemme, molti ragazzi escono la mattina presto senza sapere se riusciranno ad arrivare all'università, i malati spesso non possono raggiungere gli ospedali. Il passaggio dei checkpoint per un palestinese è un'impresa: innumerevoli sbarramenti, metal detector, controllo dei documenti da parte dei soldati israeliani che tengono il fucile in mano e intimano il silenzio.

La sproporzione di risorse si fa sentire maggiormente in settore vitali come quello dell'acqua e della terra. Le possibilità economiche di cui lo stato ebraico dispone hanno permesso di creare dei veri e propri giardini nel deserto, dove l'acqua arriva tramite pompe e canali di irrigazione, mentre in molti alberghi e luoghi pubblici viene addirittura usata nelle fontane per puro scopo decorativo. Cosa deve provare allora un palestinese che a stento riesce a trovare acqua da bere? Le terre invece in molti casi sono state espropriate, in altri frutteti o oliveti sono stati abbattuti o sradicati con il pretesto della sicurezza dello stato israeliano (che li considerava rifugi ideali per i cecchini della resistenza armata).Se è dunque certamente apprezzabile lo spirito di intraprendenza di Israele, non si può certo tacere la prepotenza con cui esercita il proprio predominio su chi non ha gli stessi mezzi. Come l'ultimo attacco, arrivato in un momento particolare, alla vigilia delle elezioni nello stato ebraico, forse per aiutare qualcuno a raccogliere consensi, e quando l'alleato statunitense non avrebbe potuto intervenire, incastrato dal passaggio di consegne da Bush a Obama e impelagato in problemi economici interni più pressanti.In molti credono che, come già in passato, anche questa guerra abbia motivazioni economiche. Senza contare le spiagge su cui Israele potrebbe mettere le mani per creare nuovi centri di turismo e solo accennando alla maggiore presenza strategica che guadagnerebbe sul Mediterraneo, si pensa soprattutto

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ai giacimenti di gas scoperti al largo delle coste di Ghaza nel 2000, che forse non saranno immensi, ma verrebbero tolti all'Autorità palestinese e inseriti in un sistema di gasdotti più articolato che potrebbe arrivare fino alla Russia passando per la Turchia. Di sicuro la guerra è stata strategicamente utile agli USA che potranno rafforzare la loro presenza non solo nel Mediterraneo, ma anche nel golfo di Aden, sul Mar Rosso e nell'Africa orientale, grazie ad un accordo per la sicurezza firmato con Israele il giorno prima del cessate il fuoco per impedire il contrabbando di armi ad Hamas o ad altri gruppi armati della resistenza palestinese. Peccato solo che gli stessi USA stessero cercando di fare arrivare in Israele, passando per la Grecia, delle navi cariche di armi.

La potenza economica di Israele, partner appetibile per tutti dal punto di vista economico e strategico, si riflette anche in campo politico. Così l'Europa, ancora prigioniera dei fantasmi del passato e dell'ignoranza presente, che fa confondere religione e politica per cui chi condanna il governo israeliano viene automaticamente tacciato di antisemitismo, si limita a condannare la "barriera di protezione" israeliana, le esecuzioni mirate di esponenti politici palestinesi non graditi, l'uso di armi non convenzionali e le brutali condizioni di vita degli abitanti prigionieri a Ghaza. L'Egitto, dopo aver ospitato diversi summit per la pace, ha evitato in ogni modo frizioni col nemico con cui ha siglato da tempo una pace armata, anche dopo la violazione del proprio spazio aereo da parte dei bombardieri israeliani, aprendo col contagocce il valico di Rafah per il passaggio di aiuti umanitari. Anche la Turchia ha cercato di ritagliarsi un ruolo da mediatore, forse nell'intento di guadagnare qualche punto nel processo di allargamento della Ue ad un paese a maggioranza musulmana. La Lega araba non ha mancato di allestire il proprio inutile teatrino diplomatico, condannando la guerra a Ghaza senza prendere però seri provvedimenti che potessero intaccare il mercato del petrolio.

C'è da chiedersi cosa sarebbe successo se le armi al fosforo (e, qualcuno dice, all'uranio impoverito) usate contro i civili e le bombe cadute su scuole, ospedali e ambulanze e sedi di grandi emittenti internazionali fossero appartenute ad un altro paese invece che a Israele. Negli ultimi anni si sono combattute due guerre terribili "contro il terrorismo internazionale", si è distrutto un paese con il pretesto di una "guerra preventiva", si sono votate risoluzioni di condanna contro il programma nucleare iraniano, si è definita Hamas un'organizzazione terroristica senza dare la possibilità ad un governo democraticamente eletto di governare (dimenticando quello che successe in passato con l'Olp di Arafat). Ma non si può nemmeno criticare il comportamento di chi, mascherandosi dietro il fatto di essere uno stato riconosciuto, ha commesso altrettanti crimini, permettendo che diventassero primi ministri personaggi che, in qualità di agenti speciali o di generali dell'esercito, hanno perpetrato assassinii mirati, stermini di massa di civili e crimini di guerra.

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Economia internazionaleOro rosso, ricchezza del Medio Campidanodi Sara Palmas

Tra le innumerevoli ricchezze del Mediterraneo la varietà e la genuinità della cucina è senza dubbio un elemento di distinzione riconosciuto in tutto il mondo. Il clima, il mare e le qualità del territorio determinano una miscela di odori e sapori che caratterizzano l’inconfondibile dieta mediterranea. Una cucina semplice contraddistinta dall’utilizzo di alcuni ingredienti fondamentali ed impreziosita dall’aggiunta di spezie tipiche della tradizione mediterranea, tra queste lo zafferano.

L’utilizzo di questa spezia ha origini antichissime: esistono delle rappresentazioni databili al 3500 a.C. a Creta e in Grecia, ma probabilmente la sua coltivazione era già praticata in epoca antecedente nelle aree mediterranea e mediorientale.Oltre al tradizionale impiego in cucina, lo zafferano conobbe nella storia altri utilizzi

come ad esempio quello di colorante, profumo per ambienti o per il bagno e pianta officinale. In Italia la gran parte della coltura di zafferano è localizzata in Sardegna, dove si coltivano 35 ettari dei complessivi 45 nazionali. I restanti 10 ettari sono suddivisi tra Abruzzo, Umbria, Toscana e Sicilia. Come si deduce da questa manciata di dati la produzione della spezia gialla è senza dubbio di nicchia. Inoltre lo zafferano vanta quotazioni altissime e per questo motivo è chiamato con l’appellativo di “oro rosso”. Il motivo risiede nel processo produttivo: per ottenere un grammo di zafferano servono infatti 450 stimmi che si ricavano manualmente da 150 fiori. Un grammo di spezia costa alla produzione dai 4 ai 6 euro per un valore di mercato che varia tra gli 8 e i 12 euro, con punte che possono raggiungere i 35 euro.

Nell’ottica della valorizzazione del prodotto, in Sardegna è nato nel 2006 un consorzio istituito da ventiquattro produttori di San Gavino Monreale, Turri e Villanovafranca. Nel novembre 2008 il Consorzio ha ottenuto il riconoscimento da parte dell’Unione Europea della certificazione Dop (denominazione di origine protetta) . Un risultato che sancisce il valore del prodotto sardo dal punto di vista qualitativo. Il Consorzio partecipa inoltre al progetto europeo Saffron, finalizzato a promuovere la produzione e il consumo dello zafferano in Europa. Saffron nasce dalla presa di coscienza dei numeri del comparto: il maggiore produttore è l’Iran con il 90% dell’intera produzione mondiale, segue l’India con il 5% e il restante 5% è prodotto da alcuni paesi dell’area mediterranea: Grecia, Spagna, Marocco e Italia.Un quadro che ha indotto l’Unione Europea a creare questo programma per incentivare la produzione e valorizzare la qualità.

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Il progetto ha portato alla pubblicazione del “Libro Bianco sullo zafferano” che si propone come punto di riferimento per le aziende del settore. Il documento raccoglie i risultati acquisiti con il programma europeo, fornisce le linee guida per la crescita e la stabilità del comparto e delinea le prospettive future del settore in Europa.

AmbienteLa ricca biodiversità del Mar Mediterraneodi Ivano Steri

A qualcuno potrà apparire strano, forse qualcuno non ci ha mai pensato - troppo preso magari dai lucenti filmati dei mari tropicali - ma il Mediterraneo offre una biodiversità straordinaria in un mare relativamente piccolo (detto per inciso, rappresenta infatti solo l’un per cento di tutti i mari del globo) e oligotrofico (povero di sostanze nutritive). Secondo i dati riportati dal sito di Lega Ambiente Arcipelago Toscano (www.legambientearcipelagotoscano.it) nel bacino del Mediterraneo sono presenti circa il 6% delle specie marine mondiali, di cui circa il 28% è endemica. Innanzitutto definiamo brevemente il concetto di biodiversità: con questo termine, ormai utilizzato non solo in ambienti strettamente scientifici, si intendono tutte le forme animali e vegetali geneticamente dissimili nei vari ecosistemi

terrestri[1]. Si tratta di una traduzione letterale della parola inglese biodiversità: in realtà, avendo la parola diversity il significato di “varietà, molteplicità”, biodiversity si dovrebbe tradurre più precisamente con “biovarietà”. A questo riguardo, il Mare Nostrum non ha nulla da invidiare agli altri mari del mondo, non a caso è stato indicato dalla World Conservation Union (Iucn) come “Global biodiversity hotspot”[2]. A questo concorrono vari fattori: lo scambio con l’Atlantico e l’Oceano Indiano (tramite il Mar Rosso);l’afflusso dei grandi fiumi che vi sfociano (si pensi al Rodano, al Po,all’Ebro, al Nilo), i quali coi loro delta formano vari ecosistemi nelle diverse coste; e infine il relativamente recente fenomeno della tropicalizzazione, sebbene non si possa certo dire che quest’ultimo abbia contribuito all’arricchimento della biodiversità (con tutta probabilità, al contrario, sta contribuendo al suo impoverimento, almeno per quanto riguarda le specie autoctone). Nel Mediterraneo si concentrano e convivono specie tipiche dei mari del Sud con specie provenienti dal Nord, stanno affluendo specie aliene che trovano nel suo caldo bacino un ottimo habitat per proliferare: molte di queste, infatti, possono essere ora considerate in qualche modo “stabili”, cioè specie ormai da considerare quasi autoctone (squali martello, pastinache,murene e via di questo passo). [3] Prendiamo come esempio i cetacei (sul www.lifegate.it è riportata una scheda interessante): nel Mediterraneo si possono incontrare 21 specie di cetacei, alcune delle quali vi risiedono “in pianta stabile” - cioè si possono osservare regolarmente - e altre che compaiono invece occasionalmente. Nel primo gruppo troviamo la Balenottera Comune, il Capodoglio, il Delfino Comune e il Tursiope; fra gli occasionali l’Orca, la Megattera e la Pseudorca; esistono poi delle specie che accidentalmente visitano il nostro mare (e che sono definite specie “accidentali”), come la Balenottera Boreale o la Focena. Non

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male, per il piccolo mar Mediterraneo…Sul sito dall’Aiam (www.aiam.info) c’è una sezione dedicata ai siti dove è possibile reperire tutti i dati concernenti la florida, sterminata varietà della fauna e della flora acquatica mediterranea. Una prosperità che il WWF da ormai diverso tempo si batte per conservare, con l’obiettivo di non limitare la conservazione non solo delle specie a rischio (come la tartaruga marina e la famosa foca monaca), ma di tutto l’intero ecosistema al fine di preservarne l’integrità e la salute[4]. Talvolta certi toni allarmistici possono sembrare inutilmente isterici, ma è altrettanto vero che la pesca “non sostenibile”, la cattura accidentale di specie protette e il turismo privo di una qualsivoglia logica “ambientalista” possono provocare gravi rischi che si ripercuoterebbero anche sull’economia dei paesi affacciati sul Mediterraneo.

[1] Definizione tratta da Wikipedia.[2] Dati riportati dal sito di Lega Ambiente di cui sopra.

[3] Si visiti il sito del Ciesm (Mediterranean Science Commission), www.Ciesm.org

[4] A tal proposito c’è da sottolineare la preoccupante regressione della Poseidonia Oceanica, pianta di vitale importanza per il Mar Mediterraneo: se n’è parlato nell’articolo dedicato alla tropicalizzazione del Mediterraneo.