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«Mi uccideva il pensiero che se fossi morto nessuno avrebbe saputo del modo in cui io e i miei amici eravamo cresciuti» Antonio D’Orrico, “La sventura del mondo è colpa del fukú americanus” Corriere magazine, n. 15, 7-14 aprile 2008 3 Maria Zuppello, “Un Pulitzer in bilico tra Santo Domingo e gli States” Panorama.it, 16 aprile 2008 5 Marco De Martino, “Sono il nipotino di Marquez, scrivo in spanglish” Panorama, n. 16, 14-20 aprile 2008 7 Antonio D’Orrico, “Certo che questo Pulitzer scrive meglio di tanti Nobel” Corriere magazine, n. 16, 14-20 aprile 2008 9 Livia Manera, “Undici anni di silenzio e ora il Pulitzer” Corriere della Sera, 22 aprile 2008 11 Antonio Monda, “I dittatori di Junot Díaz” la Repubblica, 18 aprile 2008 13 Francesca Borrelli, “Il mio ideale era un romanzo divertente e brutale” il manifesto, 23 aprile 2008 15 Alessandro Piperno, “Caro maestro, perdonalo se puoi” Vanity Fair, 23 aprile 2008 19 Alessandro Bertante, “Nuova onda ispanica” D della Repubblica, 26 aprile 2008 21 Danilo Maestosi, “La magia può battere anche le dittature” Il Messaggero, 28 aprile 2008 23 Brunella Schisa, “Dopo undici anni di lavoro ecco Oscar, una vita da Pulitzer” Il Venerdì di Repubblica, primo maggio 2008 25 La rassegna stampa di Oblique Junot Díaz Junot Diaz.qxp 07/05/2008 15.37 Pagina 1

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«Mi uccideva il pensiero che se fossi morto nessuno avrebbe saputo del modo in cui io e i miei amici eravamo cresciuti»

– Antonio D’Orrico, “La sventura del mondo è colpa del fukú americanus”Corriere magazine, n. 15, 7-14 aprile 2008 3

– Maria Zuppello, “Un Pulitzer in bilico tra Santo Domingo e gli States”Panorama.it, 16 aprile 2008 5

– Marco De Martino, “Sono il nipotino di Marquez, scrivo in spanglish”Panorama, n. 16, 14-20 aprile 2008 7

– Antonio D’Orrico, “Certo che questo Pulitzer scrive meglio di tanti Nobel”Corriere magazine, n. 16, 14-20 aprile 2008 9

– Livia Manera, “Undici anni di silenzio e ora il Pulitzer”Corriere della Sera, 22 aprile 2008 11

– Antonio Monda, “I dittatori di Junot Díaz”la Repubblica, 18 aprile 2008 13

– Francesca Borrelli, “Il mio ideale era un romanzo divertente e brutale”il manifesto, 23 aprile 2008 15

– Alessandro Piperno, “Caro maestro, perdonalo se puoi”Vanity Fair, 23 aprile 2008 19

– Alessandro Bertante, “Nuova onda ispanica”D della Repubblica, 26 aprile 2008 21

– Danilo Maestosi, “La magia può battere anche le dittature”Il Messaggero, 28 aprile 2008 23

– Brunella Schisa, “Dopo undici anni di lavoro ecco Oscar, una vita da Pulitzer”Il Venerdì di Repubblica, primo maggio 2008 25

La rassegna stampa di ObliqueJunot Díaz

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La sventura del mondoè colpa del fukú americanus

Antonio D’Orrico, Corriere magazine n. 15, 7-14 aprile 2008

Da Santo Domingo arriva uno dei più promettenti nuovi scrittori americani, con storie di antichemaledizioni, vecchi casanova e giovani imbranati a caccia di imprendibili muchachas

Non capirete mai nulla del mondo contem-poraneo se non tenete presente il potereportentoso del fukú (fukú americanus). Le

sue origini sono avvolte nel mistero e risalgono pro-babilmente al momento dell’arrivo degli europei aHispaniola. Il fukú è una maledizione infallibile dicui fece molto uso l’infame e sanguinario dittatoredi Santo Domingo Rafael Leónidas Trujillo Molina.Pensate, per esempio, che John Fitzgerald Kennedysia stato ucciso dalla mafia o da Lyndon Johnson odagli alieni o dal KGB o da Lee Oswald o dal fanta-sma di Marilyn Monroe? Tutte ipotesi sbagliate efuorvianti. Il presidente Kennedy fu ucciso dalfukú, dall’antica maledizione lanciata da Trujilloperché Kennedy nel 1961 aveva dato via libera agliagenti della CIA incaricati di assassinare il dittatoredominicano. E la maledizione non si fermò lì. Ilfukú è lungo, continua negli anni, generazione dopogenerazione. Per questo la famiglia Kennedy prose-gue nel suo percorso di sventura, discendente dopodiscendente, disgrazia dopo disgrazia. «Ecco unepisodio per i fissati del complotto: la notte cheJohn Kennedy Jr precipitò a bordo del suo PiperSaratoga insieme a Carolyn Bessette e a sua sorellaLauren (fukú), a Martha’s Vineyard la domesticapreferita del padre di John-John, ProvidenciaParedes, dominicana, gli stava cominciando il suopiatto preferito: chicharrón de pollo. Ma il fukúmangia sempre per primo, e da solo».

Benvenuti in un romanzo folle ed esilarantesulle peripezie di una famiglia dominicana emigra-

ta nei sobborghi di New York. L’autore è JunotDíaz ed è dominicano emigrato anche lui ma nonha dimenticato il suo mondo di origine. Il mondodel terribile fukú, del terribile Trujillo e dell’affa-scinante playboy Porfirio Rubirosa, protagonistadel jet set anni ’40 e ’50, citato nel romanzo comeil volto allegro del trujillato: «Alto, affascinante,con un viso dai tratti delicati è un “enorme falloche creò scompiglio in Europa e Nordamerica”».

Il primo personaggio che incontriamo è Oscar,introverso e grasso scrittore fantasy in erba, cheha il problema di non piacere alle donne, che inve-ce a lui piacciono molto. Vanamente, suo zioRudolfo, un cultore della materia (il suo score è«quattro figli con tre donne diverse»), cerca didare qualche dritta al nipote: «Stammi a sentire,palomo: devi prendere una muchacha, y metesélo!». Mala muchacha non si fa prendere anche perchéOscar, alla grassezza e alla condizione di scrittorefantasy in erba, aggiunge capelli semicrespi in unaimprobabile acconciatura afro-portoricana,«enormi occhiali da psicopatico» e repellentepeluria sopra il labbro superiore a formare, comedicono i suoi amici, un infallibile «dispositivo anti-gnocca», cioè l’esatto contrario dell’effetto provo-cato dall’eroe nazionale dominicano PorfirioRubirosa.

Non c’è solo Oscar. C’è anche sua sorella Lolae c’è la loro mamma Beli. E le loro vite sonosegnate dal fukú e dal sesso. Ve le racconterò nellaprossima rubrica (fukú permettendo).

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Ha dovuto aspettare più di dieci anni pervedere definitivamente consacrato il suotalento. Junot Diaz non ha solo vinto il

Pulitzer per la narrativa 2008 per il suo La brevefavolosa vita di Oscar Wao (uscito in Italia perMondadori) ma ha dato il seguito che meritava alsuccesso già raccolto nel 1996 negli Usa conDrown.

La breve favolosa vita di Oscar Wao è un tour deforce geografico ed emozionale in cui Diaz, clas-se 1967, nato a Santo Domingo ma naturalizzatostatunitense, ripercorre i temi che più gli stanno acuore perché vissuti sulla propria pelle: la duraesperienza dell’emigrazione, le dinamiche fami-liari, non sempre facili e idilliache, e il rapportocon il sesso di un giovane che è il prodotto di dueculture differenti. Proprio come l’autore e comeil suo personaggio, Oscar, un dominicano obesoe goffo che vive nel New Jersey, ossessionatodalle ragazze (che però lo ignorano), dai giochi diruolo e dai romanzi di fantascienza e fantasy. Ilsuo sogno è di diventare il Tolkien dominicano e

ovviamente di trovare l’amore. Ma per centrare ilsuo obiettivo deve sfidare il micidiale fukù, l’anti-ca maledizione dell’isola che perseguita i membridella sua famiglia da generazioni. Già, il fukù, contutto il bagaglio che si porta dietro di dolore esventura. La maledizione della Storia che portaDiaz a definire la sua terra d’origine comeGround zero dei Caraibi, in cui il Vecchio Mondoè morto per lasciare spazio al Nuovo. Dietro lametafora di un’isola segnata dall’uomo bianco edalle dittature sostenute dall’Occidente. Comequella di Trujillo, dittatore a vita e la sua fu parti-colarmente lunga se imperversò dal 1930 al 1961,considerato uno dei responsabili del dramma sto-rico della Repubblica Dominicana. Diaz si muovedunque tra passato e presente, in cerca di unfuturo per il quale è solo possibile sperare. Perogni fuku però, ed è lui stesso a raccontarlo nelromanzo, secondo le leggende tradizionali c’èsempre una zafa, un controincantesimo. È allaletteratura, dunque, alla sua, che affida questodifficile compito.

Un Pulitzer in bilicotra Santo Domingo e gli States

Maria Zuppello, Panorama.it, 16 aprile 2008

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Il settimanale New Yorker arriva a definirlo «unodei 20 narratori più grandi del Ventunesimosecolo». Ma non è facile capire che posto

occuperà Junot Diaz (tra l’altro vincitore delPremio Pulitzer 2008) nella storia della letteratura.Dopotutto nessuno prima di lui era riuscito a met-tere assieme i Fantastici Quattro e il realismo magi-co di Gabriel García Márquez, lo «spanglish» degliimmigrati ispanici negli Stati Uniti e il linguaggiodei manga giapponesi, il Signore degli anelli e il dit-tatore domenicano Rafael Trujillo. «Se invitassitutti i personaggi del mio libro nella stessa salasarebbe una festa molto strana» scherza Junot Diazin questa intervista esclusiva a Panorama.

«Vuoi più fantascienza di quella che c’è a SantoDomingo? Più fantasy delle Antille?» dice il prota-gonista di La breve favolosa vita di Oscar Wao(Mondadori, in libreria il 15 aprile), romanzo cheha portato i critici americani a evocare giganticome Philip Roth, i cui ebrei del New Jersey abita-no a poca distanza dal ragazzino del ghetto afflit-to da problemi di peso e dalla paura di rimanerevergine nella storia di Diaz.

Arrivato in America a 6 anni, dopo che la fami-glia era emigrata per sfuggire alle squadre dellamorte che hanno terrorizzato la RepubblicaDominicana per 12 anni, lui è cresciuto parlandolo stesso misto di inglese e spagnolo che oramette in bocca ai suoi personaggi: «Ogni librorichiede un certo sforzo di comprensione del lin-guaggio, il mio forse un po’ di più. In un certosenso il lettore è messo nella condizione degliemigrati, che un po’ capiscono e un po’ no, masanno che va bene comunque».

Anche nella sua storia personale l’emigrazione è cosìimportante?Sì, perché io sono il figlio degli emigrati clandesti-ni arrivati negli Stati Uniti in un momento in cuilegalizzarsi era molto più facile di adesso. Sonocresciuto in un quartiere assurdo di Paterson, inNew Jersey, a fianco della più grande discaricanella costa est degli Stati Uniti. I miei vicini di casanon erano solo dominicani ma neri, cubani, porto-ricani: un campionario della parte più povera dellasocietà. C’erano anche molti vietnamiti, reducidella guerra, ed erano i più razzisti di tutti.

In America oggi si parla molto di rimpatriare i clandesti-ni: lei cosa ne pensa?Penso che non esista dibattito più idiota di questo.La verità è che l’economia americana senza clande-stini crollerebbe, eppure si parla solo di punire isenza visto. Anche se si sterminassero tutti i clan-destini ci sarebbero comunque 20 milioni di per-sone in coda alla frontiera, disposte a rischiare lapelle pur di entrare negli Stati Uniti. Si cerca di ter-rorizzare la gente, invece di parlare del problemareale.

Quale problema?Non si dice mai che gli Stati Uniti hanno paura diparlare della questione razziale. E infatti quandoqualcuno cerca di farlo viene pubblicamente lapi-dato, come è successo a Barack Obama (candida-to democratico nero alle presidenziali americane,ndr). Il quale è un centrista ma in questo contestodi pavidità assoluta passa per un estremista. Comese fosse Che Guevara. «Por favor, amigo»...

Sono il nipotino di Márquez,scrivo in spanglish

Marco De Martino, Panorama n. 16, 14-20 aprile 2008

Il New Yorker arriva a definirlo uno dei venti autori del secolo. Del dominicano Junot Diaz escein Italia il nuovo romanzo. Fra ironia e denuncia sociale.

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Proprio perché c’è una paura così grande di chia-mare le cose col loro nome penso sia dovere degliscrittori scrivere di questi argomenti.

Per farlo lei ha scelto come protagonista un «nerd», cioè unragazzino un po’ perdente appassionato di fantascienza.Perché?Perché anche fra gli emigrati uno come lui alla fineè un emarginato. Oscar non è un nerd di successocome i miliardari di internet. Anche se le sue pas-sioni sono entrate a far parte della cultura dimassa, restano quelle di un perdente. Chi si curadavvero dei fumetti o dei giochi di ruolo? Il suo èun mondo a parte rispetto a quello dei genitori, eanche se le loro culture si influenzano nella reci-proca incomunicabilità, alla fine il presente diOscar e dei suoi amici è segnato dal passato deigenitori negli anni della dittatura di Trujillo.

Perché lei pensa che l’America Latina continuerà a produr-re dittatori come quello o personaggi discussi e autoritaricome Hugo Chávez?Perché una delle caratteristiche dell’America, siadel Nord sia del Sud, è il culto del maschio. Ilmachismo latinoamericano e il patriottismo statu-nitense sono la stessa cosa, il Nuovo mondo è più

unito di quel che sembra. E la fonte di tutti i malista nei Caraibi, dove il Nuovo mondo è nato, e cheio vivo come se fossero la scena di un crimine. Gliamericani vogliono dimenticare quelle isole, cheinvece sono molto più importanti nella loro storiadi quel che si pensi.

Lei mantiene contatti con gli scrittori sudamericani?Vado a Santo Domingo tre volte l’anno, ma nonmi sento parte della scena letteraria latinoamerica-na. Gli autori di quei paesi rappresentano solo unadelle tante influenze che vivo. Non mi sento nep-pure parte della generazione di nuovi scrittori a cuisono spesso accomunato, da Dave Eggers aMichael Chabon. Mi sembra che siamo tutti moltodiversi tra noi.

Tra la sua prima raccolta di racconti e questo libro sonopassati undici anni: come mai?I romanzi hanno bisogno di tempo, e io scrivo len-tamente. Ma forse è anche perché da giovane hosgobbato come un cane facendo lavori infimi, enon appena ho avuto la possibilità di prendermelacomoda ne ho approfittato. Succede anche adesso:tutti mi chiedono se ho un nuovo progetto, ma laverità è che non sto facendo assolutamente niente.

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Junot Díaz, 40 anni, vincitore dell’ambito pre-mio americano, è uno dei migliori talenti in cir-colazione. Ecco i segreti del suo stile che riesce

a essere insieme tenero e sfacciato. Nell’intervallotra la prima e questa seconda puntata della recensio-ne a La breve favolosa vita di Oscar Wao, il suo autore,il quarantenne Junot Díaz, ha vinto il premioPulitzer per la narrativa. Non c’era bisogno di con-ferme alla sua bravura ma complimenti vivissimi. Vichiederete magari come scrive un premio Pulitzer?Così: «Quell’estate, per la cronaca, la nostra Beli svi-luppò un cuerpazo così pazzesco che solo un porno-grafo o un fumettista avrebbero potuto idearlocoscientemente… Dios mío! Persino il vostro umileOsservatore, riguardando le sue vecchie foto, rima-ne colpito da quanto fosse fica».

Un Pulitzer scrive anche così: «E comunque,perché Dittatori e Scrittori finiscono sempre aiferri corti? Rushdie sostiene che tiranni e scribac-chini sono antagonisti naturali, ma secondo me èun’idea semplicistica, che assolve gli scrittori controppa facilità. I dittatori, a mio parere, sannoidentificare gli avversari a prima vista. E lo stessovale per gli scrittori. Fra simili ci si riconosce,dopotutto».

Un Pulitzer può permettersi di sfoggiare ritratticosì (il soggetto è il Gangster, l’uomo di cui si è per-dutamente innamorata Beli, quella del cuerpazo):«Lui stesso era sopravvissuto a innumerevoli atten-tati, e dopo ogni scontro a fuoco, dopo ogni spara-toria da un’auto in corsa, reagiva come un dandy,pettinandosi e raddrizzandosi la cravatta. Era unvero gangster, cresciuto sulla strada, con uno stile divita di cui i rapper di oggi sanno solo cantare».

Un Pulitzer sa scrivere battute di dialogo così(la battuta è rivolta a Oscar, il figlio grassone diBeli che ama, mai riamato, le ragazze e sogna didiventare lo Stephen King dominicano ma, stancodi delusioni, ha tentato di uccidersi): «Amico, nonti conviene morire. Dammi retta. Essere senza ficanon è bello. Ma morire è come essere dieci voltesenza fica».

Un Pulitzer sa sintetizzare una dittatura ferocecosì: «Trujillo era sì un Dittatore Dominicano, valea dire che era il Bellaco (arrapato) Numero Uno delPaese. Era letteralmente convinto che tutti i toto(fiche) della RD (Repubblica Dominicana) fosserodi sua proprietà. È un fatto dimostrato che nellaRD di Trujillo, se appartenevi a una certa classesociale e permettevi alla tua bella ragazza di avvi-cinarsi al Jefe, dopo una settimana la ragazza glisucchiava già il ripio (non c’è bisogno di traduzio-ne, credo) come una vecchia professionista, e tunon potevi farci niente!».

Un Pulitzer sa calarsi nei sentimenti di due vec-chi amanti così: «Ti rendi conto di quanto tempoè passato? Le chiese, stupito, durante il loro ulti-mo convegno sabato sera. Eccome se ne merendo conto, rispose tristemente Lydia, tirandosila pelle del ventre. Siamo orologi, Abelard.Nient’altro».

Così è scritta questa storia (tenera e sfacciata)che racconta più generazioni di una famiglia domi-nicana emigrata negli Stati Uniti e perseguitata dauna maledizione (il terribile fukú e dal non menoterribile Trujillo, che forse sono la stessa cosa).Sento che Junot Díaz diventerà ospite fisso di que-sta rubrica.

Certo che questo Pulitzerscrive meglio di tanti Nobel

Antonio D’Orrico, Corriere magazine, n. 16, 14-20 aprile 2008

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Pare che nessun maschio dominicano siamai morto vergine. È così, vero? Chiede ildiciannovenne Oscar al suo compagno di

stanza in un college americano. E quello si faserio. « O. – gli risponde – per un dominicano ècontro le leggi della natura morire senza aver sco-pato almeno una volta». «Questo», sospira Oscar,«è quello che mi preoccupa». Oscar de Leon è ilsemprevergine eroe del primo, straordinario,emozionante, colto e sboccatissimo romanzo diJunot Díaz La breve favolosa vita di Oscar Wao (inuscita da Mondadori Strade Blu nella traduzionedi Sandra Pareschi, pp. 348, euro 17) che, se nonfosse il libro più triste e più comico dell’anno e senon avesse vinto proprio lunedì il premioPulitzer, andrebbe ricordato come il più inventi-vo dal punto di vista della lingua e come il piùlungamente atteso.

Era il 1996, infatti, quando il ventisettenneJunot Díaz (pronuncia Giùno Días) pubblicò alcu-ni memorabili racconti con il titolo Drown(Bompiani) e diventò la nuova grande speranzadella letteratura americana. Salvo poi sparire dallascena per undici anni. Fukù, avrebbero sentenzia-to i protagonisti di questo romanzo scritto nell’an-glo-spagnolo ribollente di vita dei ghetti ispano-americani. Fukù: che per chi non lo sapesse, è ilmalocchio e la regina delle superstizioni delNuovo Mondo. Perché come sta dicendo il trenta-novenne Junot Díaz, americano venuto da SantoDomingo, «La società caraibica non esisterebbesenza la superstizione. Anche chi non crede cicrede». Crede cioè nel potere del fukù di spiegaretutte le disgrazie, a cominciare da quella che si è

abbattuta sul giovane Oscar e sul resto della suafamiglia: ovvero sulla sua sexy sorella Lola; sullaloro mamma-mastino Beli; e, andando indietro,anche sui ricchi e sventurati nonni materni, colpe-voli di avere avuto una casa e delle figlie così belleda scatenare l’avidità del dittatore Rafael Trujillo efarsi portare via tutto, i beni, le figlie, la vita, tuttosalvo la piccolissima Beli, e nei modi più crudeliche il lettore possa, o meglio no, non se li può dav-vero immaginare.

Ora, ci sono due modi di leggere La breve favo-losa vita di Oscar Wao, come i compagni di liceo inNew Jersey chiamano Oscar, storpiando il sopran-nome di «Oscar Wilde» che gli hanno appiccicatoper la sua pinguedine e la sua stramberia. Uno èquello di seguirlo nella sua disperata impresa diriuscire a baciare una ragazza, mentre intorno a lui,nella deriva americana del New Jersey, succede ditutto. L’altro è quello di scoprire nell’esuberantesubtesto del romanzo, la storia scritta nel sangue diuna repubblica delle banane dove potere, violenzae sesso sono una cosa sola, e dove quando Beliall’inizio degli anni ’60 diventa un’adolescente dallegambe lunghe e «due tette così implausibilmentetitaniche da spingere qualunque maschio nellevicinanze a riconsiderare la propria triste vita», sisalva solo perché «Trujillo era alle ultime erezioni»,e in ogni caso deve scappare più lontano che può.Cioè, appunto, nel New Jersey.

«È lì che sono arrivato a sette anni anche io –racconta Junot Díaz nel loft newyorkese della suaagente Nicole Aragi, a vivere a Perth Amboy, in unquartiere costruito accanto a una discarica. E conquesto non intendo vicino, intendo attaccato.

Undici anni di silenzio e ora il Pulitzer

Livia Manera, Corriere della Sera, 22 aprile 2008

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Centinaia di camion della spazzatura che passava-no tutti i giorni. Migliaia di gabbiani affamati. Ilgiorno che chiusero la discarica capimmo che ciòche odiavamo di più era ciò che ci aveva permes-so di vivere lì. I prezzi andarono alle stelle e la miafamiglia se ne dovette andare». La sua famiglia:cioè un padre operaio che li lascia quando Junot hatredici anni e una madre che va a lavorare in fab-brica per tirare su cinque figli. Junot il ribelle passail tempo con gli amici e a leggere. E ha un’intuizio-ne che lo salva: scrivere un reportage quotidianodei fatti del quartiere. «C’è quel momento in Bladerunner quando il replicante dice “Ho visto cose chevoi umani non potreste mai immaginarvi”. Io hovisto genitori infedeli, gente senza lavoro, bambiniabbandonati, professori di quarant’anni andare aletto con allievi quattordicenni, poliziotti dormirein macchina mentre interi edifici andavano infiamme a un isolato di distanza. Forse non è unmondo eccezionale, ma è qualcosa che in televisio-ne non si vede, e che non trovavo neanche nei libriche leggevo. E mi uccideva il pensiero che se fossimorto, nessuno avrebbe saputo del modo in cui ioe i miei amici eravamo cresciuti».

Ecco da dove viene La breve favolosa vita di OscarWao, un romanzo che non assomiglia a nessunaltro e che usa più voci narranti e una quantità diriferimenti ai generi più svariati – punk, rock, rea-lismo magico, melodramma, saga famigliare,ammiccamenti postmoderni – per catturare la fol-lia dell’universo che descrive. Viene dalla frizione

tra la realtà quotidiana di un’America miserabile, ildesiderio di evasione di un ragazzino cresciutosaccheggiando la biblioteca del quartiere, e le sto-rie delle immigrate dominicane come la madre diJunot, «che a diciassette, diciotto anni venivanoalla conquista degli Stati Uniti lasciandosi alle spal-le delle storie dell’orrore».

Nel romanzo la mamma di Oscar, Beli, scap-pa da Santo Domingo il giorno che gli scagnozzidi Trujillo la massacrano di botte per essersi inna-morata di un gangster che guardandola nuda ledice «Tu sei la prova che dio è dominicano», igna-ra del fatto che quel gangster è il cognato del dit-tatore. «Trujillo si è comportato con i dominica-ni nel modo in cui l’America si comporta con ilresto del mondo: da padrone – dice Díaz. Sonogli Stati Uniti ad aver addestrato un mostro comeTrujillo, per cui la mia domanda è: chi è più per-verso, il criminale o la persona che lo assume?Trujillo era un demonio, ma almeno era sincero.Mentre i senatori americani che lo finanziavano epoi la sera tornavano nelle loro belle case dallemogli, no».

«Sono in paradiso, qui» lascerà scritto nel suodiario Oscar, dopo aver voltato le spalle alla disca-rica umana del New Jersey ed essere tornato acasa, nell’isola delle donne più baciabili delmondo. «Paradiso?» commenterà un cugino quan-do la famiglia, dopo la tragedia annunciata fin daltitolo, ritroverà il diario del ragazzo. «Esto aquì es unmaldito infierno».

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La pubblicazione americana della La brevefavolosa vita di Oscar Wao, in uscita pressoMondadori (pagg. 346, euro 17) è stata

accolta da recensioni osannanti, ed è diventata inbrevissimi tempi un caso editoriale, culminato conla recente attribuzione del premio Pulitzer. La vul-canica personalità dell’autore originario dellaRepubblica Dominicana ha contribuito ad alimen-tare un alone mitologico rispetto al libro, che si èconfermato un successo letterario in tutti i paesinei quali è stato tradotto. Lo scintillante talento diJunot Diaz, evidente sin dalle primissime righe delromanzo, si è sommato ad un’ammirevole capaci-tà di mescolare la cultura popolare ad intuizioniraffinate ed erudite, l’orgoglio della propria tradi-zione ed il misto di speranza e disillusione checaratterizza ogni emigrazione.

Uno degli elementi di forza del libro è l’inven-tivo «spanglish» con cui si esprime il protagonista,e va dato atto alla traduttrice Silvia Pareschi diessere riuscita a reinventare uno slang evocativo emusicale per seguire la saga di un giovane «sfiga-to» e obeso che parla in libertà di dittatori, gustiletterari e superstizioni, e spera di diventare unTolkien dei Carabi. In alcuni passaggi, la mesco-lanza di stile e di temi ricorda l’approccio lettera-rio di David Foster Wallace, ma la proposta narra-tiva è assolutamente originale, e perfino la perfidaMichiko Kakutani, lo ha definito sul New YorkTimes una fusione tra «Mario Vargas Llosa e StarTrek», che genera un risultato «favoloso, straordi-nario e vibrante». Lo scrittore, che parteciperà alle“Conversazioni di Capri” il prossimo 28 giugno, èdivertito dal paragone ma resiste a raccontare

l’origine del romanzo, scritto dopo la pubblicazio-ne di una serie di racconti intitolata Drown (in ori-ginale Negocios) grazie alla quale il New Yorker scris-se che era nato uno dei migliori scrittori delventunesimo secolo.

«Quando è uscito il libro non c’è stato intervi-statore che non mi abbia chiesto come mai ci aves-si messo undici anni dopo Drown» racconta di pas-saggio a New York per discutere l’adattamentocinematografico del romanzo. «Mi chiedono anchecosa ci sia di Junot Diaz in Oscar Wao».

E lei cosa risponde?«Che sono pigro, e che c’è poco di me in quel

ragazzo, se non il tentativo di capire cosa significhisentirsi emarginato. Poi accetto la sfida e dico chec’è anche la volontà di raccontare cosa significhitentare di sopravvivere dove nascono le nostrefrustrazioni».

All’inizio del libro ha posto una poesia di Derek Walcotted una citazione dei “Fantastici Quattro”.«Ho voluto citare i “Fantastici Quattro” per riassu-mere il senso generale del libro ed una prospettivasecondo cui i fumetti e le opere dei primi Nobelsono allo stesso livello».

La poesia di Walcott invoca pietà per tutte le cose chedormono.

«Molti sono colpiti dal celebre finale, nel qualeWalcott scrive “sono nessuno, o sono una nazio-ne”. Ma in realtà il verso in cui invoca la pietàdice qualcosa di molto importante, e che condivi-do sul mio paese. La mia cultura vive spesso in

I dittatori di Junot Díaz

Antonio Monda, la Repubblica, 22 aprile 2008

“Trujillo mi ha affascinato”

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una situazione di sonnambulismo di fronte allastoria e di allarmante dimenticanza rispetto allapropria tradizione».

È vero che ha una grande passione per i film apocalittici?«Assolutamente. Sono cresciuto in America neglianni Settanta e in quell’epoca ne ho visti in abbon-danza. Ricordo che vivevo in una condizione dicontinua angoscia, che trovò il suo apice quando ilprofessore di scienze ci spiegò a scuola che in casodi attacco nucleare a New York sarebbe statodistrutto anche il New Jersey, e dopo averci fattovedere delle piantine che evidenziavano le areecondannate alla devastazione ci disse “Ora poteteandare a casa”. Aggiungo infine che non c’è nulladi più apocalittico di un’emigrazione: un mondoche finisce ed un altro che nasce».

Un ruolo centrale è ricoperto da Trujillo, personaggio nar-rato in passato da Mario Vargas Llosa, EdwigeDanticat e Montalbán. «I dittatori sono sempre dei grandi personaggi. MaTrujillo mi ha affascinato per l’uso spietato e un po’ridicolo del suo potere assoluto e per il suo rappor-to con l’America. Veniva da un mondo di miseria eper alcuni aspetti divenne molto americano. Il suomodo di interpretare il potere era in egual misurateatrale, ridicolo e intimamente crudele. Trujillodeve agli Stati Uniti sia la sua ascesa al potere che lasua fine, e mi piace pensare che l’amministrazioneUsa fosse consapevole che venendo dall’Europa lamia isola è il primo paese del nuovo mondo. Mariguardo all’idea dei dittatori voglio aggiungere chetroppo spesso abbiamo troppa intolleranza nei con-fronti di politici idioti e pericolosi».

Il suo protagonista Oscar non nomina Cristoforo Colombo,ritenendo che porti sfortuna.«È un atteggiamento frequente nella vecchia gene-razione degli abitanti dei Carabi. Ho voluto utiliz-zarlo come metafora di un mondo che non accet-ta ancora la storia».

È lo stesso mondo del quale scrive: “Il fuku non era uncimelio del passato, un racconto di fantasmi che non fapiù paura a nessuno. Ai tempi dei miei genitori, il fukuera reale come la sfiga, e nessuno ne metteva in dubbiol’esistenza”. Il senso di maledizione, che lei chiama fuku,sembra imprescindibile per i suoi personaggi e per il suopopolo.«Le rispondo dicendo che credo sia una realtà vali-da per l’intero pianeta. Viviamo tutti una storia dacui non riusciamo a fuggire. Ma la nostra grandez-za può essere definita dalla libertà di scegliererispetto a questa condizione tragica. Uno dei capi-toli del romanzo inizia con queste parole: “Nonsono mai i cambiamenti desiderati, quelli che cam-biano tutto”. È quello che credo, e ribadisce quan-to stavo dicendo. Ogni uomo deve saper fare lescelte giuste rispetto ai cambiamenti, che sonoquasi sempre dolorosi».

Lei utilizza delle lunghissime note a piè di pagina, secondolo stile di David Foster Wallace.«Il riferimento autentico è il martinicano PatrickChamoiseau, e in particolare il suo straordinarioromanzo Texaco. Le sue note non servono a rinfor-zare le idee che propone nei suoi libri, ma diventa-no commenti ironici, e persino pettegolezzi».

Uno dei temi forti del romanzo è il rapporto tra identità eassimilazione.«È il tema della mia vita, e credo che sia un temache viva ogni persona, anche quando non si spo-sta dal luogo in cui è nata».

Lei è nato a Santo Domingo, ma si è trasferito con la suafamiglia nel New Jersey quando aveva sei anni. Si sente unoscrittore americano o dominicano?«Direi senza dubbio dominicano, ma so che ciònon può rispondere interamente alla realtà. Michiedo ad esempio: sono mai diventato america-no? Se è così qual è il momento esatto? Quandoho smesso di sognare in spagnolo? Quando hosmesso di sentirmi a disagio?».

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Almeno nel campo della narrativa, la consa-pevolezza del fatto che il punto di vista piùrealistico sulla condizione umana non

parte più tanto dagli osservatori privilegiati dellaborghesia intellettuale, quanto dai sottosuoli del-l’emarginazione sembra non soltanto essersi radi-cata, negli ultimi anni, ma avere forse superatoquel passaggio di intollerabile voyeurismo che haportato gli editori, per un certo lasso di tempo, aidentificare le voci degli eletti con i nuovi dannatidella terra, riversando sul mercato librario compia-cimenti più o meno scatologici in forma di roman-zo, perversioni sessuali, atti di crudeltà gratuita,esibizioni di ascendenze parentali poco raccoman-dabili, esperienze al limite della dicibilità.Ricordate la meteora J. T. Leroy? A parte l’inglo-rioso epilogo per cui pare che non sia mai esistito,la contiguità tra sé e i suoi personaggi aveva iscrit-to al registro delle meraviglie una madre prostitu-ta nonché tossicomane, una identità sessuale mul-tipla, frequentazioni malavitose, e a mo’ diamuleto contro la malasorte un osso di pene diprocione penzolante dal collo. Per non dire diDBC Pierre, il cui ultimo romanzo è tutto unconato di orrori visionari, a confronto dei quali, luidice, la realtà va giù molto più dura. Sarà certa-mente così, ma in attesa che lo stupore si conver-ta in noia e le speculazioni sulla scrittura che nasceda una vita violenta finiscano di pagare, l’editoriapiù avvertita pare stia anche muovendosi in unadirezione contraria a quella della politica, ossiastringendo la propria presa sulla realtà, e sintoniz-zandosi con quelle voci che impastando nei loroaccenti il mondo di provenienza e quello di arrivo,

portano notizie, per esempio, dai popolosi quartie-ri degli immigrati, dove i sogni sul futuro sono giàsogni alle spalle.

Da uno di questi quartieri, un’area limitrofa auna discarica in una cittadina del New Jersey, vieneanche Junot Díaz, che aveva sei anni quando si tra-sferì da Santo Domingo con la famiglia, ventottoquando i suoi racconti titolati Drown lo imposeroall’attenzione dell’editoria, e quaranta quando havinto il Pulitzer, ovvero due settimane fa.Contribuisce alla sua simpatia il sospetto che nonsi sia ancora riavuto dallo stupore, quando compa-re compassato nel suo vestito scuro per questaintervista che sarà una delle innumerevoli d’ora inavanti annotate nel suo carnet. Aspetta che lo siinterroghi sul suo romanzo che già dal titolo, Labreve favolosa vita di Oscar Wao (Mondadori, euro 17,pp. 346) sintetizza ironicamente due amori lettera-ri, quello per Hemingway e quello per Wilde, men-tre mette in scena una buffa e sbrindellata sagafamiliare sullo sfondo della Storia dominicana, pertrent’anni dominata da «un mulatto sadico, corpu-lento, dagli occhi porcini», che si chiamava Trujilloe trattava il paese «come una piantagione di cui siconsiderava il padrone assoluto».

Protagonista del romanzo, al tempo stessocommovente e sboccato (nella lingua veloce cheSilvia Pareschi traduce con grande disinvoltura) èun secchione un po’ sfigato di nome Oscar deLeon, nato agli albori dell’epoca nerd, da lui magi-stralmente interpretata: detto altrimenti, i suoidesideri sessuali sono direttamente proporzionalialla impossibilità di soddisfarli, i suoi amici lo sfot-tono, è imbranato quanto basta e, naturalmente,

Il mio ideale era un romanzodivertente e brutale

Francesca Borrelli, il manifesto, 23 aprile 2008

Incontro con l’ultimo vincitore del Pulitzer Prize, autore di una raccolta di racconti crudeli e diuna saga familiare buffa e malinconica costruita attorno alla figura di un nerd, La breve favolosavita di Oscar Wao, appena uscito da Mondadori.

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legge e scrive compulsivamente romanzi che il suoconvivente riceve a rate come un dazio da pagareall’amicizia. Non solo Oscar, ma tutta la sua fami-glia è sotto il segno del malocchio, il padre non c’èe la madre purtroppo sì, tanto che la sorella Lolanon sogna altro se non scappare di casa; ma quan-do ci riesce, alla resa dei conti questo è quanto nericava: i bianchi, riflette, «perdono un gatto e dira-mano un allarme generale, mentre noi dominicaniperdiamo una figlia e magari non cancelliamoneanche l’appuntamento dal parrucchiere».Quanto a Oscar, cresce smentendo tutte le aspet-tative indotte dalla sua infanzia promettente: all’etàdi sette anni, quando la ciccia non si era ancoraarrotolata tre volte sul suo giro di fianchi, si erafidanzato con due bambine contemporaneamente.Era stato uno splendido triangolo della durata diuna settimana, ma l’esperienza non si era ripetuta,e Oscar aveva cominciato a compensare la frustra-zione usando paroloni difficili, rifugiandosi inbiblioteca, parlando come un computer di StarTrek e pretendendo di intrattenere le ragazze coni giochi di ruolo. Morale della favola, alle superio-ri era arrivato a pesare centodieci chili (centodi-ciassette quando era depresso) e la sua carriera diseduttore si era infranta al di qua dalla soglia dellaverginità. L’empatia di Junot Díaz per il suo perso-naggio è lampante, lasciamogli la parola.

Il protagonista del suo romanzo, Oscar, ci arriva semprefiltrato dallo sguardo e dalla voce narrante Yunior, tantoche è difficile stabilire a chi spetti davvero il ruolo principa-le. Forse il personaggio al quale lei consegna una maggioreautonomia narrativa in fondo è Lola, la sorella di Oscar,sebbene compaia meno degli altri. Qual è la gerarchia dellevoci che aveva in mente quando ha deciso di alternarle nellanarrazione?Più ancora della struttura del romanzo mi interes-savano i temi da affrontare, e tra questi soprattut-to il rapporto con l’autorità e le aspirazioni che lesono legate. Perciò dò molto spazio alla figura deldittatore Trujillo, che governò la RepubblicaDominicana per oltre trent’anni e impose la suavoce alla Storia in modo ancora più determinantedi quanto non impose il suo effettivo potere. Mipremeva fare capire al lettore che tiranni di questostampo sono possibili solo in quanto c’è al mondoun numero sufficientemente alto di persone cheaspirano a una narrazione dei fatti semplicistica eautoritaria. Ho cercato in ogni modo di occultare,nel romanzo, questo mio interesse tematico, ma di

certo ha un nesso con il modo in cui ho organiz-zato la comparsa dei personaggi. Sarebbe tropposemplicistico dire che Yunior gioca nel libro ilruolo di Trujillo, tuttavia , come ha notato lei stes-sa, se c’è un dittatore nella narrazione ebbene que-sto è lui, il solo personaggio che parli davvero convoce propria. Quanto a Lola, non so se effettiva-mente abbia più visibilità degli altri, ma sono d’ac-cordo sul fatto che è il personaggio il cui ritrattoviene fuori meglio, perché è quella che acquista piùtrasparenza.

Al ruolo di Trujillo e alla sua figura storica lei dedica laprima di una serie di note a piè di pagina, lunghe digressio-ni che nel contesto di un romanzo sono tanto rare quantosignificative. Tra i suoi quasi coetanei il primo a affollarela pagina di note è stato probabilmente David FosterWallace, ma lui le usa per puntualizzare, approfondire,rendere conto delle possibili variazioni sul tema, mentre leiproprio non sembra perseguire questo scopo. A cosa dovreb-bero servire nelle sue intenzioni? Mentre per scrittori come David Foster Wallaceo Nabokov le note a piè di pagina hanno la fun-zione di aumentare il tasso di erudizione, e dun-que intendono rafforzare l’autorevolezza di chiparla, io le uso un po’ come fa PatrickChamoiseau, da una parte nel loro ruolo tradi-zionale dall’altra per creare un secondo testocapace di entrare in competizione con quelloprincipale. Tanto è vero che alcune mie paginesono così sovraffollate di note che sembravogliano occupare tutto lo spazio fino a espelle-re il testo del romanzo. Inoltre, intendevo mina-re alle fondamenta ogni pretesa di esibire il nar-ratore come fonte di informazione, e perciò lemie note si smentiscono, si autocorregono le unecon le altre, preferiscono dilungarsi in pettego-lezzi che snocciolare informazioni storiche accu-rate. Del resto, siamo nel contesto di un roman-zo e chi pretendesse di trovarvi informazioniesatte, per esempio sulla storia della RepubblicaDominicana, sarebbe un pazzo. Per me, il rap-porto che corre tra le note e il testo principalesomiglia a quello tra Re Lear, che parla con lavoce dell’autorevolezza, e il suo fool, che in sot-tofondo dice: tutto questo è una cavolata.

Come spiegherebbe il fatto che la violenza, la solitudine, labrutalità espresse in tanti romanzi scritti da autori dellasua generazione abbiano finito per diventare elementi diattrattiva?

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La risposta ha a che vedere, per me, con l’esteticae con la funzione storica del romanzo. Il miomodo di scrivere respinge totalmente il culto dellarispettabilità e quello della bellezza, ossia le princi-pali forze che muovono il romanzo borghese; delresto, non si può scrivere delle Americhe, di que-sto prodotto della Storia così incredibilmente intri-so di violenza, senza fare i conti con la brutalità.Molti dicono che la violenza nei romanzi aiuta avendere, ma non è vero, è vero invece che il letto-re medio non ha nessuna voglia di imbattersi inmateriali così suscettibili di turbarlo. Certo, se unolegge un romanzo di Zadie Smith, che peraltro èuna mia cara amica, non deve preoccuparsi di tro-varci violenze o torture; ma il mio mondo narrati-vo va contro le isole di confort che determinati let-tori vorrebbero ritagliarsi. La sfida più alta, per me,era scrivere un romanzo al tempo stesso diverten-te e terribile, senza che una delle due componenticancellasse l’altra.

E tuttavia, non è solo questione di ciò a cui si sceglie didare rappresentazione, è cambiata la qualità della violen-za e ciò che essa investe: non più i grandi temi propri dellacondizione umana ma la quotidianità e il suo linguaggio.Nei romanzi di Toni Morrison, per fare l’esempio di unascrittrice a lei cara, la brutalità di quanto viene raccontatonon stravolge l’impianto classico della narrazione, né lasua lingua. È vero che amo molto i libri di Toni Morrison,ossessionano le mie fantasie, e la violenza che visi trova descritta è della qualità più radicale e orro-rifica che si possa immaginare. Ma è successoqualcosa, sì, il capitalismo ha raggiunto uno stadiodiverso da quello di trent’anni fa, e l’individuomedio vive oggi in un bozzolo fatto di parole chenon provengono più dai libri ma dalla Tv, dai film,dai telegiornali. Tanto per dirne una, i miei stu-denti passano il tempo a guardare video di inci-denti stradali. E la conseguenza è che anche il lin-guaggio romanzesco reagisce e si fa più duro.Però, contrariamente a quel che si pensa nell’am-bito della letteratura americana, ossia che la scrit-tura di ogni nuova generazione sia più violenta epiù concentrata sul sesso di quella precedente, iotrovo che gli scrittori più giovani sono molto con-servatori: magari non lo sembrano, ma diventachiaro che lo sono non appena si va al cuore dellequestioni che affrontano.

Certo, è difficile immaginare che uno scrittore possa trarreda una materia narrativa così malinconica e violenta com’èquella dei suoi libri una qualche «gioia della scrittura», seb-bene proprio in questi termini lei abbia parlato del suolavoro... In effetti, dai racconti che ho pubblicato in Drownmi è stato difficile trarre un qualche piacere, masebbene il processo di scrittura che ha implicatoLa breve favolosa vita di Oscar Wao sia stato tutt’al-tro che godibile, quando poi il libro era lì finitoho riso molto; ma magari questo vuole dire chesono pazzo.

O magari questo investe il rapporto della sua scrittura conil realismo, è possibile? In effetti, in Drown ho cercato di essere persinoiperrealistico, salvo accorgermi poi del fatto chemolto era rimasto sacrificato. Perciò, quando misono messo a scrivere il romanzo ho cercato didispiegare il maggior numero di strategie narrativepossibili, e al registro realistico ho sommato quellomitologico, quello fantastico, quello fantascientifi-co, l’horror, di tutto insomma. Non solo il realismoma anche la sua estremizzazione sono strategieromanzesche eccellenti, a condizione, però, di nonfarne il re dei registri narrativi e di farle lavoraredentro una comunità di altre forme possibili.

A proposito, viene dalla realtà, dalla sua fantasia o da unincubo la storia del bambino la cui faccia è stata mangiatada un maiale? Lei non solo ne fa il cuore del suo raccontopiù famoso, Ysrael, ma la riprende anche in un altro testodella stessa raccolta, Senza faccia.La storia del bambino che girava con una masche-ra sul volto per nascondere gli squarci lasciati daimorsi del maiale è vera, me l’ha raccontata la miaex ragazza, e riguardava una persona da lei cono-sciuta. Detto questo, da quali ossessioni venganofuori i miei libri non mi è mai molto chiaro: certoè che quando cresci in un paese straniero, all’inter-no di una comunità di immigrati, impari a masche-rarti. Io sono passato da un paese nel quale eroconsiderato “normale” a uno in cui ero visto comefuori dalla norma: prima nessuno mi guardava epoi tutti mi fissavano. Quando sei un ragazzino laprima cosa che pensi è: si vede che nella mia fac-cia c’è qualcosa che non va. Ecco da dove viene,probabilmente, la mia ossessione per la maschera,per la dissimulazione.

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Aprite i cuori alla nuova diaspora! È comese l’ultima generazione di scrittori ameri-cani (più o meno quelli della mia età)

avesse voglia di fuggire. Di lasciare gli Stati Uniti.Di tornare al luogo d’origine.

Fateci caso: tutti – davvero tutti! – i buoni (eperfino i cattivi) libri arrivati dal Nord Americanegli ultimi tempi condividono la volontà dei lorogiovani creatori di saldare il conto – almeno nel-l’immaginazione – con le patrie perdute: i Paesi re-moti da cui gli antenati scapparono alla ricerca disicurezza e prosperità. Quale scrittore contempo-raneo griderebbe oggi «Sono americano», con ladelinquenziale spavalderia che ci metteva SaulBellow agli inizi della sua carriera? Nessuno. Oggitutti si vergognano di essere americani. Hannoscoperto il vezzo inebriante di parlare del loroPaese con la pietosa condiscendenza che si conce-de a un malato di mente. Per questo forse quandopoi scrivono un romanzo volano via, il più lonta-no possibile, dove tutto ebbe inizio.

Sarà il caso the faccia qualche esempio. Partireida Ogni cosa è illuminata, il romanzo che è servito aSafran Foer a riscoprire la crudelissima Ucrainaabbandonata dai suoi antenati per ragioni razziali.Itinerario non molto dissimile da quello intrapresoda Nicole Krauss nella Storia dell’amore. O daDaniel Mendelsohn negli Scomparsi. Per non dire diJeffrey Eugenides, di Michael Chabon, di GaryShteyngart, e così via… Qualche tempo fa proprioMendelsohn mi spiegava: «È normale che unanazione composta per lo più da emigranti, supera-ta l’euforia del nuovo mondo, senta l’esigenza diguardarsi indietro». È la condanna della terza

Generazione. La prima fatica per integrarsi. Laseconda si gode i fasti dell’assimilazione. La terzas’interroga.

Sarà questa la ragione per cui, nonostante tutto,percepiamo una lieve flessione qualitativa nellanuova narrativa americana? Perché non amandopiù il loro Paese, non vedono l’ora di giudicarlo?

Certo è che i ragazzi hanno perso la freschezza.Sono implosi, un po’ come noialtri, cugini al di quadell’Oceano. Come si sarebbe detto a scuola, sifanno troppe seghe mentali!

E allora non è sorprendente che La breve favolo-sa vita di Oscar Wao del trentanovenne Junot Díazabbia appena vinto il Pulitzer, perché si tratta di unlibro che celebra il gusto per l’incontro tra un pre-sente crudele e un passato mitico, tutto immersoin un’agrodolce salsa caraibica e riscattato da unostile avvolgente.

È la vicenda di un ragazzo, di nome Oscar, unnerd di origine dominicana, indicibilmente grasso,che vive in un’orrenda periferia del New Jersey. Lesue disavventure sembrano essere l’ultimo atto diquella storia di dolore e sopraffazione che ha per-seguitato la sua famiglia nella RepubblicaDominicana ai tempi del dittatore Trujillo.Insomma, è come se la vita derelitta di Oscar rap-presentasse la sofferenza di un intero popolo,sotto una delle dittature più crudeli della storia.Una tirannia – come non si stanca di ricordarciDíaz in ogni intervista – sovvenzionata per l’ap-punto dagli Stati Uniti.

Intendiamoci: Díaz è bravo, ci sa fare. Grandicapacità tecniche. Squisito talento inventivo nelmescolare linguaggi. E dotato anche di sensualità:

Caro maestro, perdonalo se puoi

Alessandro Piperno, Vanity Fair, 23 aprile 2008

Junot Díaz ha vinto il Pulitzer con un romanzo, appena uscito in Italia, che ha sullo sfondo unadittatura feroce e che ha molto in comune con un libro del grande Vargas Llosa. Un libro che ilgiovane autore dice però di detestare. Peccando forse un po’ di presunzione

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la storia drammatica della famiglia di Oscar – dellasua bella madre e della sua nonna intransigente –è resa con grande vividezza.

Il problema forse – che lo assimila di diritto amolti dei suoi colleghi – è che alla tensione mora-le da lui dichiarata non corrisponde una tensioneletteraria. C’è qualcosa di un po’ fichetto nellaprosa. Quel qualcosa che un tempo chiamavamopomposamente «postmoderno». Non è un casoche le notizie storiche più tragiche – quelle suTrujillo e sui torturatori al suo servizio – Díaz leabbia messe tutte in nota.

Come a dire: «Sto mettendo la Storia tra paren-tesi. Non preoccupatevi, la prendo sul serio mafaccio finta di no». Una tecnica che sembra nuovama in realtà è vecchia. Sulla quale non mi sareitanto accalorato se non avessi letto, in varie inter-viste, che Díaz detesta un romanzo di VargasLlosa che io, a suo tempo, adorai, dedicatoanch’esso a Trujillo e intitolato La festa del caprone.

Ora, sarà un mio problema, ma ho sempre uncerto rispetto per le glorie acquisite. Ho difficoltàa parlare con disprezzo dei pochi scrittori vera-mente ragguardevoli della nostra epoca. E diciamoche Vargas Llosa, parafrasando un giochetto allaNick Hornby, sta certo nella top five planetaria.

Naturalmente comprendo e in un certo sensorispetto la posizione di Díaz. Capisco che un gio-vane narratore, quando decide di scrivere un librosu un determinato argomento, si senta minacciatoe soverchiato da chi è venuto prima di lui e da chiha lasciato una traccia così importante.

Forse ciò che non piace a Díaz del libro diVargas Llosa è l’ambizione ottocentesca (allaTolstoj) di scrivere un grande affresco storico.Forse giudica tale scelta ingenua e anacronistica.Ma si sbaglia. La festa del caprone, il romanzo in cuiVargas Llosa ha sfruttato tutta la sua infinita mae-stria tecnica, ricorrendo a un montaggio degno di

Pulp Fiction, e in cui ha descritto i collaboratori diTrujillo – e Trujillo stesso – con una plasticità ter-rorizzante, è uno dei pochi grandi libri degli ultimianni. E non può essere liquidato con un’alzata dispalle.

Il fatto è che Vargas Llosa appartiene a quelclub esclusivo di ultrasettantenni che, pur tra milleacciacchi, continuano a portare sulle spalle lacroce della letteratura contemporanea. Che non sistancano d’inventare per noi nuove strade possi-bili. Talmente raffinati e talmente snob che se nefregano di rompere con la tradizione. Che usanola tradizione per i loro scopi artistici. (Solo unpaio d’anni fa è uscito un libro, in Italia passatoquasi inosservato, intitolato Avventure della ragazzacattiva, in cui Vargas Llosa ha avuto la capacità dicreare una storia d’amore credibile, moderna ecommovente: non ho ancora capito come ci siariuscito).

D’altra parte non è così stupefacente cheVargas abbia scritto un libro su Trujillo. Sin dalsuo esordio, La città e i cani, si è sempre interroga-to sulla sopraffazione. Lui – letterato latino-americano dalla raffinata cultura europea – è atter-rito e allo stesso tempo affascinato dalla gratuitacrudeltà troppo spesso esibita dalle dittature mili-tari del Sud America. Ed ecco perché Trujillo: per-ché è una specie di archetipo del dittatore sudame-ricano. E chi meglio di Vargas Llosa potevaricreare l’ossessione di Trujillo per l’ordine, per lapulizia, per l’abbigliamento, per il lusso sfrenato,per le vergini quattordicenni, per il sospetto e perla tortura? Davvero nessuno. Ed ecco perché lafollia totalitaria e auto-celebrativa di tutti i trujillidel mondo viene resa nella Festa del caprone con unaforza che le pur squisite note di Junot Díaz nonpotranno mai eguagliare.

Forse bisognerebbe lasciare in pace i maestri elavorare in un cantuccio, con più modestia.

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Junot Díaz, 39 anni, è stato il primo scrittorestatunitense di origine ispanica (è nato a SantoDomingo) a vincere il Pulitzer. Ma il premio al

suo La breve favolosa vita di Oscar Wao (incentratosulla figura di Oscar, un giovane complessato diorigine dominicana convinto di essere condannatoda una fukù, ovvero una antica maledizione carai-bica) è anche un riconoscimento per tutta unanuova generazione di autori americani che, scri-vendo in inglese, contaminano il proprio linguag-gio con la cultura, lo slang, le leggende e i costumid’origine. Questa contaminazione culturale ha deiprecursori: basti pensare a Sandra Cisneros, nata aChicago nel ’54 da padre messicano, che inCaramelo e La casa di Mango Street ha narrato ilvariopinto mondo dell’emigrazione messicana; oall’immaginifico Francisco Goldman e al suo reali-smo magico postmoderno. Ma ora ci troviamo di

fronte a una vera scuola che, ferme restando le dif-ferenze stilistiche, è unita anche da una affinitàbiografica. Di un anno più giovane di Díaz è ilnewyorkese di origine messicana Richard Perez,autore di Storia d’amore all’East Village, roman-zo di formazione lontano dall’immaginario oniri-co sudamericano ma che recupera nel propriolinguaggio termini e gergalità ispaniche comefossero un marchio identitario. Appena trentenneè invece Daniel Alarcón, nato a Lima in Perù matrasferitosi quando aveva tre anni in Alabama,conosciuto in Italia per i racconti Guerra a lumedi candela (mentre il suo romanzo d’esordio LostCity Radio uscirà in autunno da Rizzoli), dovedividendo le storie tra il Perù della guerrigliamaoista e la New York dell’emarginazione urba-na, dà vita a un noir politico di grande realismosociale.

Nuova onda ispanica

Alessandro Bertante, D della Repubblica, 26 aprile 2008

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Fukù e zafa. Sfortuna e fortuna. O meglio,a restar più vicini al dialetto degli ispanici,sfiga e culo. Sono i due demoni che gesti-

scono in modo inesorabile il destino dei perso-naggi de La breve favolosa vita di Oscar Wao, ilromanzo con cui Junot Diaz, 40 anni, domenica-no trapiantato nel New Jersey, ha vinto quest’an-no il premio Pulitzer per la narrativa, una sorta diNobel made in Usa, che prima di lui era toccatoa Cormac Mc Carthy, un gigante della letteraturamondiale. E che ora la Mondadori presenta inItalia nella collana strade Blu (346 pagine, 17euro), sperando abbia più successo del suo librod’esordio, Drown, un’antologia di racconti, moltoapplaudita in patria ma scivolata via inosservatada noi.

Un tuffo nella grottesca epopea della superstizione? Perchéha puntato su questa chiave?«Perché la maledizione, il malocchio sono ricettedi cui è intrisa in maniera molto profonda sia lacultura dei domenicani che vivono in America chedi quelli che non si sono mai mossi da SantoDomingo. Ma soprattutto perché è un espedienteche dà il senso dell’ineluttabilità, capace di gover-nare tragedia e commedia. Basta pensare alla male-dizione che colpisce gli Atridi,che trascina allasciagura Edipo. Alle maledizioni della Bibbia.Tragedia e commedia sono i due registri che domi-nano questo mio romanzo così sofferto, che hotenuto in gestazione per oltre un decennio, finchénon ho trovato un varco per vincere dubbi e resi-stenze, inchiodarmi al computer e venire alla luce.Ho raccontato la vita di una famiglia di immigrati,

ma attraverso le loro storie ho ripercorso trenta epiù anni del recente tragico passato del mio paesesotto la dittatura di Trujillo. Un regime corrotto espietato, tra i più funesti del Novecento, che halasciato un’impronta indelebile su noi domenicani,creando quei guasti irreparabili che si specchianonelle vicende dei miei personaggi».

Già, i suoi personaggi. Un cast coloritissimo che ruotaattorno ad un protagonista fuori del comune: Oscar, un cic-cione bulimico e sfigato animato da due chiodi fissi, la fan-tascienza e le donne di cui si innamora perdutamente, manon riesce neppure a sfiorare.«Più che un eroe, Oscar è una sorta di motoreimmobile. Il controcanto, l’opposto speculare del-l’unico io narrante della storia, Juniot, il fidanzatodella sorella di Oscar, uno sciupafemmine schiavodella libidine e del machismo, che incarna tutti idifetti dei miei compaesani, dalla superficialità alcinismo, da una vitalità sregolata al fatalismo».

Gira e rigira, si ritorna sempre a San Domingo. Perché c’ècosì poca America nel suo romanzo?«Perché la comunità ispanica, quella dove sonovissuto, è un mondo a parte, anche se diviso soloda pochi chilometri da Manhattan. Una coloniaautosufficiente dove tutti, messicani, cubani, por-toricani, domenicani, parlano solo o soprattuttospagnolo, infischiandosene dell’inglese e del mododi vita americano. Negozi, scuole, giornali, televi-sioni, chiese, persino autobus solo nostri. Una teladi ragno in cui si rimane invischiati. Nel bene e nelmale. Per questo la storia che ci portiamo appres-so con tutte le ferite, le cicatrici che ha provocato,

La magia può battere anche le dittature

Danilo Maestosi, Il Messaggero, 28 aprile 2008

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Page 24: La rassegna stampa di Oblique Junot Díaz · il suo personaggio, Oscar, un dominicano obeso e goffo che vive nel New Jersey, ossessionato dalle ragazze (che però lo ignorano), dai

Oblique Studio

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è qualcosa da cui è impossibile sfuggire. Un fan-tasma sempre in agguato.

Un clima cupo e una scrittura intrisa d’amarezza. Maallora perché quel lieto fine posticcio e consolatorio che chiu-de il romanzo? Oscar che muore ucciso da un poliziotto

rivale, di cui insidiava la donna. E poi quella lettera in cuirivela di aver finalmente perso la sua verginità?«Perché un apologo sulla drammatica eredità diuna dittatura non poteva che finire con un arbitrio,un guizzo tirannico dell’autore, uno scivolamentonella magia. Noi domenicani siamo fatti così».

Junot Díaz

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Chi ama i generi avrà qualche problema adefinire La breve favolosa vita di OscarWao, Premio Pulitzer 2008. Si potrebbero

scomodare il realismo magico, il fantasy, la sagafamiliare, il pop. Di certo, il romanzo d’esordio diJunot Díaz, domenicano, trapiantato a sei anni nelNew Jersey, è un fuoco d’artificio. Con una prosaadrenalinica si narra la storia di Oscar De León(anche lui domenicano), negro, brutto, obeso,pigro, sfigato, innamorato di tutte le donne e sfug-gito da tutte. Oscar sogna di non morire vergine edi diventare il Tolkien nero. Ma è anche una storiaprivata di una famiglia domenicana caduta indisgrazia per sfuggire al feroce dittatore RafaelTrujillo. Oltre che il ritratto di una seconda gene-razione di emigrati ed emarginati. Oltre che unafantagoria linguistica. Si ride e si soffre per questogrande e vibrante romanzo.

Undici anni per scriverlo, su cosa ha faticato di più, sullastruttura o sul meltingopot linguistico?«Sulla struttura, perché se non funziona rischi didover ricominciare. La lingua si migliora di stesura instesura, ma è sulla struttura che lo scrittore muore».

Un impasto di inglese, spagnolo e fantasy, un lavoraccio.«Noioso, direi. Aggiungi spagnolo per vedere finoa quando l’inglese può reggerlo prima che l’ener-

gia si dissolva e ti trovi nella linea rossa, dove il lin-guaggio precipita nell’incomprensibilità. Mi piacelavorare in quella zona. Come nel Carnevale lati-noamericano, la maschera conta poco, l’importan-te è ballare, se ti fermi tutta la magia finisce. Lafrase non deve smettere mai di danzare altrimentimuore».

Il romanzo è un po’ autobiografico?«Sì, per esempio la storia della mangusta che salvala madre di Oscar dal campo di canna da zucche-ro: la racconta mia madre, ma nessuno le crede. Ein Junior c’è una piccola parte di me».

I suoi miti letterari, Tolkien a parte?«Tre scrittrici: Toni Morrison, Maxine HongKingston, Lesile Marmon Silko».

A parte la Morrison le altre due sono praticamente scono-sciute in Italia…«Lo so, perché dall’America esportiamo soltantogli scrittori peggiori».

Il Pulitzer cambierà?«Se fossi condizionato dai premi starei già perpubblicare un secondo romanzo, invece ogni librodeve prendere il suo tmepo. Ora che il mio roman-zo è uscito, gli undici anni sono spariti».

Dopo undici anni di lavoro ecco Oscar,una vita da Pulitzer

Brunella Schisa, Il Venerdì di Repubblica, primo maggio 2008

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