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Raffaele Macina Edizioni Nuovi Orientamenti La Puglia dall’Unità d’Italia al fascismo

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Raffaele Macina

Edizioni Nuovi Orientamenti

La Pugliadall’Unità d’Italia al fascismo

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A Emilia e Sofia

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Proprietà letteraria riservata© NUOVI ORIENTAMENTIAssociazione culturaleVico Savoia, 12 - ModugnoPubblicazione a diffusione periodica, maggio 2010Registrazione Tribunale di Bari N. 610 del 7-3-1980ISBN 978 88 95393 10 0

Direttore responsabileRaffaele Macina

RedazioneSerafino Corriero, Raffaele Macina

In copertinaCopertina di un opuscolo dell’Acquedotto Pugliese degli anni Venti

Stampa Litopress Industria Grafica s.r.l. - Modugno

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Raffaele Macina

Edizioni Nuovi Orientamenti 2010

La Pugliadall’Unità d’Italia al fascismo

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PREMESSA

Ripercorrere la storia della Puglia dall’Unità d’Italia al fascismo è un’espe-rienza di grande coinvolgimento intellettuale ed emotivo: non solo di voltain volta si colgono le ragioni complesse che spiegano il passaggio dalle “Pu-glie”, così come veniva denominata ancora la regione agli inizi del Novecen-to, alla “Puglia”, ma si partecipa anche con passione ad un tratto importantedel difficile cammino di emancipazione del popolo pugliese.

Il periodo storico è fondamentale per la formazione di una identità dellaPuglia, i cui caratteri si delineano concretamente nei diversi momenti analiz-zati: dai processi economici e sociali che si registrano subito dopo l’Unitàd’Italia alla crisi di fine secolo, che causa particolari tumulti ed agitazioni;dalla realizzazione della gigantesca opera dell’acquedotto pugliese all’afferma-zione di nuove gerarchie territoriali, anche per la nascita delle province di Ta-ranto e di Brindisi; dalle grandi lotte bracciantili alla dura reazione dei proprie-tari terrieri e all’affermazione del fascismo; dall’emigrazione di inizio Nove-cento alla tragedia di emigrati condannati a dure prove per motivi politici.

All’interno di questi momenti storici, infatti, è possibile rintracciare unaspecificità pugliese, come nel caso, ad esempio, del dinamismo mostratonell’inserirsi nel nuovo quadro economico seguito all’Unità d’Italia; o nelmodo in cui viene affrontato e risolto l’antico problema dell’acqua; o ancoranell’affermazione della “Puglia rossa” da un lato e della “diversità del fasci-smo pugliese” dall’altro.

Un periodo storico, dunque, assai interessante e allo stesso tempo assairicco di documenti di vario genere e di stimolanti interpretazioni.

Ed è proprio per rappresentare questa ricchezza delle fonti documentarieche si è voluto intrecciare il racconto storico con la riproposizione appuntodi documenti, tabelle, fotografie, testimonianze e pagine di approfondimen-to di alcuni temi.

Si spera, così, anche per la possibilità di seguire un avvenimento con unavisione sinottica dei diversi materiali storici, di offrire un utile strumentodivulgativo perché il lettore possa ripercorrere un tratto importante dellastoria della Puglia.

(R. M.)

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CAP. I

NASCE LA PUGLIA CONTEMPORANEA

La seconda metà dell’Ottocento è, per la storia della Puglia, un perio-do fondamentale. Molti sono gli eventi e i problemi storici destinati amodificare profondamente la società, l’economia e le gerarchie territo-riali della regione: dal sofferto inserimento nella nuova compagine nazio-nale alla scoperta della via adriatica allo sviluppo; dalla crisi agricoladegli anni Ottanta alla progettazione di una economia più diversifi-cata; dal tradizionale ruolo di potere esercitato dai galantuomini alleprime forme di organizzazione e di protesta popolare; dall’affranca-mento dalle tragiche “scene della sete” allo sviluppo e al ruolo centra-le delle città.

Si tratta di processi e dinamiche che, rendendo più omogenei e uni-tari il tessuto socio-economico e il territorio della regione, determina-no il passaggio da “le Puglie” a “la Puglia”.

All’interno di questo nuovo quadro si afferma non solo il ruologuida di Bari, ma anche la profonda trasformazione di Foggia, Lecce,Brindisi, Taranto e della realtà complessiva delle tre antiche provincedella regione.

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1. LA PUGLIA NELL’ETÀ DELLA DESTRA STORICA

I pugliesi di fronte al processo di unificazioneFra le regioni del Regno delle Due Sicilie, la Puglia fu certamente

quella che accolse con più prudenza e con minore entusiasmo la notiziadello sbarco dei Mille a Marsala. Qui non si registrarono le mobilita-zioni popolari che si ebbero dapprima in Sicilia e poi in Calabria e inBasilicata, grazie alle quali fu resa più agevole l’avanzata garibaldina;qui, all’interno dell’intera popolazione, e particolarmente nelle classidirigenti, prevaleva un generale atteggiamento di prudenza, oltre chedi meraviglia per un evento imprevisto e inatteso. Non che mancasseronella regione esponenti liberali o democratici impegnati nel movimen-to nazionale, ma essi erano per lo più isolati e incapaci di raccordarsialle istanze popolari.

Le ragioni di un tale atteggiamento sono da ricercarsi nella poli-tica del governo napoletano, che negli anni Cinquanta non avevafatto mancare importanti sostegni per favorire lo sviluppo comples-sivo della regione. Essa in effetti registrò un generale processo dicrescita economica, e particolarmente significativo fu lo sviluppodella città di Bari che, grazie anche alla costruzione di alcune infra-strutture amministrative, consolidò in via definitiva il suo primatonella provincia. Fu naturale, quindi, per la monarchia borbonica,recuperare credibilità e consensi dopo la repressione del 1848, tan-to che molti pugliesi liberali ritenevano che anche con la monar-chia borbonica sarebbe stato possibile promuovere un nuovo corsocostituzionale. Del resto, la fedeltà alla dinastia borbonica delle po-polazioni aveva dato luogo a imponenti manifestazioni di giubilo du-rante il viaggio che nel 1959 Ferdinando II fece in Puglia: dapper-tutto, nei grandi e nei piccoli centri, due ali di folla festante attende-vano già fuori dell’abitato la carrozza regia, e non di rado i “postiglio-ni dovettero far rallentare il passo ai cavalli, tanta era la folla che pre-meva da ogni parte”.

A far abbandonare l’atteggiamento di attesa delle classi dirigentipugliesi fu il precipitare degli eventi, soprattutto dopo il decreto del 1°

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luglio 1860, col quale Francesco II ripristinò la Costituzione napole-tana del 1848. Quel poco che restava ancora dell’autorità dello statovenne meno e un generale clima di anarchia si instaurò sia nella capi-tale sia, ancora di più, nelle province: molti settori dell’esercito, senon ebbero difficoltà a confermare la loro lealtà al re, si rifiutarono digiurare fedeltà alla Costituzione; le forze reazionarie ebbero un ulti-mo sussulto e tentarono di bloccare ogni innovazione; in molte dioce-si i vescovi, “che si scoprono, generalmente parlando, avversi al nuovoordine di cose”, erano sospettati di tramare contro la Costituzione e sichiedeva il loro allontanamento; in diverse parti del Regno si ebbero

L’anarchia in Puglia fra luglio e agosto del 1860

In questo brano Raffaele De Cesare (Spinazzola 1845 - Roma 1918)mostra come fra maggio e settembre del 1860, mentre si svolgeva la spe-dizione garibaldina, le autorità borboniche non fossero più in grado diassicurare l’ordine pubblico e di controllare le manifestazioni popolari.

Nelle provincie regnava forse maggior disordine, che nella capita-le. I devoti all’antico regime, anche i più pacifici, erano sospettati,spesso fantasticamente, di favorire la reazione e vilipesi. Il 15 agosto,a Bari, si disse insultata la guardia nazionale. Ci furono molti arresti,e con la solita fantasia della razza, si affermò che i disturbatori avesse-ro danaro dall’arcivescovo, dai gesuiti e da alcuni cittadini in fama diborbonici, a sei carlini per uno. Fu barbaramente trucidato l’arcipreteTanzella di Capurso, mentre era tradotto nel castello. Era stato retto-re del seminario di Bari, e aveva suscitato molti odi. A Taranto ungruppo di popolaccio, prendendo pretesto da un caricamento di gra-no, cominciò a tumultuare, e per due giorni non solo impedì il cari-camento, ma ruppe in violenze contro i legni e contro i marinai diquesti. Vi furono inoltre minacce di saccheggio alle case dei princi-

L’interpretazione dello storico

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moti di contadini che rivendicavano diritti e terre comuni e chiede-vano giustizia delle usurpazioni perpetuate dalla borghesia agraria;azioni di brigantaggio e violazioni dell’ordine pubblico si registrava-no dappertutto.

In Puglia furono numerosi i vescovi accusati di promuovere “cospi-razioni reazionarie” e di comportarsi “come perturbatori della pubbli-ca quiete”: fra luglio ed agosto le autorità comunali, e talvolta anchequelle militari, chiesero al governo napoletano l’allontanamento deivescovi di Castellaneta, di Bitonto, di Bari, mentre quello di Foggia,“assai malviso”, abbandonò di sua iniziativa la sua diocesi. Si registraro-

pali cittadini. L’autorità politica, rappresentata dal sottointendenteGiovanni De Monaco, non spiegò l’energia necessaria. Il De Mona-co, rimasto in ufficio, si mostrava apertamente contrario alla conces-sa Costituzione; né più della sua fu energica l’azione dei gendarmi,comandati dal tenente Attanasio, e che si affermò provocassero queimoti [...].

Le guardie nazionali, sorte in fretta e in furia, mancavano general-mente di disciplina e di armi, ed erano impotenti a mantenere l’ordi-ne [...].

L’intendente di Foggia implorava a mani giunte che si aumentasse laguardia cittadina nei Comuni, dov’era maggiore il bisogno, soprattut-to dopo i primi tentativi di reazione a Bovino, a Sansevero e a Monte-falcone; e facendo un quadro desolante della provincia in balìa dei par-titi estremi, il rivoluzionario e il reazionario, dichiarava apertamente,che, ove la forza pubblica si allontanasse, egli se ne lavava le mani. Nonaltrimenti scrivevano quasi tutti gli altri intendenti. Il sindaco e il co-mandante della guardia nazionale di Lucera telegrafavano al ministrodell’interno, che in quel carcere erano seicento detenuti, fra i quali cen-tosessanta reazionari di Bovino; e che, partita la gendarmeria, e man-cando la guardia nazionale di armi e di attitudini, il carcere rimanevasenza custodia.

(Raffaele De Cesare, La fine di un regno, Longanesi, Milano 1969, pp. 839-41)

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no anche moti contadini dapprima a Santeramo, Presicce e Foggia, epoi un po’ dappertutto nella regione.

In questo quadro, le classi dirigenti pugliesi, temendo che si potesseriproporre la saldatura del 1799 fra classi popolari e clero reazionario,ruppero ogni indugio, potenziarono i “comitati d’ordine” per controlla-re la situazione in ogni centro urbano e abbracciarono la causa nazionalee sabauda che contemplava già uno stato più forte di quello napoletanoe, perciò, capace di salvaguardare l’ordine sociale. Fra maggio e giugno,e persino a fine agosto e all’inizio di settembre, in concomitanza con

“La signora che ha portato Garibaldi”

Notevole fu il contributo assicurato al processo risorgimentale e alla stessaspedizione garibaldina da diversi patrioti pugliesi, fra i quali si segnala Anto-nietta De Pace, una donna che, sfidando le opinioni del tempo, fu impe-gnata in politica e, da crocerossina ante litteram, si distinse nell’assistenza aigaribaldini feriti sui campi di battaglia.

Alla spedizione dei Mille parteciparono diversi pugliesi: Nicola Mi-gnogna di Taranto, che ricoprì il ruolo di tesoriere del corpo dei garibal-dini per tutto il periodo dell’impresa e fu portavoce di Garibaldi in alcu-ne occasioni; Giuseppe Fanelli di Martina, che fu l’eroe della battaglia diCalatafimi; Cesare Braico di Brindisi, il cui coraggio, secondo Nino Bixio,“era mirabile per la calma cui era accompagnato”; Raffaele Curzio di Turie Filippo Minutillo di Grumo, in provincia di Bari: il primo fu feritodurante l’assedio di Palermo, il secondo fu capo di artiglieria e del geniodel corpo garibaldino; Guglielmo Gallo di Molfetta, che fece parte delgruppo che sbarcò a Talamone per occultare la vera meta dei Mille; e poiancora Liborio Romano, anche lui di Molfetta, Vincenzo Carbonelli diTaranto, Mois Maldacea di Foggia.

Oltre a questi patrioti pugliesi, in maggioranza formatisi al pensieromazziniano e poi confluiti nella Società Nazionale, un contributo importan-

Protagonisti

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l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860, i galan-tuomini pugliesi, borbonici sino al maggio precedente, si inserirononel movimento nazionale, guadagnando ben presto al suo interno posi-zioni di primo piano. Una scelta, questa, che da un lato nel presentesalvaguardava e consolidava le posizioni sociali ed economiche acquisi-te, dall’altro implicava un progetto di più lunga durata, per il qualel’inserimento del Regno delle due Sicilie nella nuova compagine nazio-nale non doveva prevedere concessioni alle richieste delle masse popo-lari, ma limitarsi ad una semplice operazione militare e istituzionale.

te alla causa garibaldina fu assicuratoda Antonietta De Pace, originaria diGallipoli, che, sospettata già nel 1844di essere implicata in qualche modonella sfortunata spedizione dei fratelliBandiera, poi arrestata nel 1854 e pro-cessata perché membro di un circolofilomazziniano, fu posta sotto la tute-la di suo cugino, il barone di Caprani-ca, Gennaro Rossi, del quale era notala fedeltà alla monarchia borbonica.

La De Pace, attiva durante la spe-dizione e assai ammirata perché “cu-rava i feriti sul campo con incredibilesangue freddo”, svolse, peraltro, unimportante ruolo di cerniera fra ilmovimento garibaldino ed alcuni

esponenti governativi napoletani, ormai convinti della ineluttabilità del-la caduta dei Borboni. Garibaldi, del resto, quando con una modestacarrozza fece il suo ingresso trionfale in Napoli, volle avere accanto a séproprio Antonietta De Pace che, da quel momento, fu chiamata dal po-polo napoletano semplicemente “la signora che ha portato Garibaldi”.

Antonietta De Pace

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Le prime rivolte contadineBen presto fu evidente ai contadini meridionali che il processo di

unificazione nazionale non avrebbe assicurato alcuna forma di giustiziasociale e non avrebbe alleviato la loro pesante condizione di sottomis-sione al ceto padronale. Ed in effetti, non appena in una città cadevanole autorità borboniche, sistematicamente ad assumere il potere erano iproprietari terrieri e i galantuomini che, incapaci di rappresentare istan-ze generali, ispiravano la loro azione politica esclusivamente alla salva-guardia dei loro interessi particolari. Davanti al contadino meridionalenon restava che una condotta obbligata: continuare la propria lottacontro i proprietari e opporsi al nuovo stato che, lungi dal presentarsi

L’adesione al movimento unitario dei giovani

Nelle principali città pugliesi ci fu, soprattutto fra i giovani, e gli stu-denti in particolare, grande entusiasmo per il processo di unificazione nazio-nale. Illuminante, al proposito, questo manifesto che i giovani leccesi, nonancora elettori perché di età inferiore ai 21 anni, distribuirono nella tardaserata del 20 ottobre. Dalla lettura si evince immediatamente la profondadifferenza fra le concrete richieste dei contadini e le frasi altisonanti delmanifesto.

Italiani,Oggi che una Grande Infelice, chiamata alla riscossa dalla legge provvi-

denziale, alza la voce d’innanzi all’Europa intera, e reclama quella nazio-nalità che 19 secoli di abbrutimento, di tirannide e di oppressione le hanrapito; oggi infine che un popolo schiacciato dal dispotismo si rialza ecorre alla manifestazione della Sua sovranità; ignavia, anzi viltà sarebbe loindietreggiare a sì entusiasmante spettacolo.

Oh! quante fiate sepolti nel fango della ignominia, che un barbaricoGoverno ci aveva imposto, tenemmo dietro al desiderio, le aspirazioni diquesto supremo momento! Or eccovi un popolo, che raccolto nei comi-

Documenti

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col volto della imparzialità, non mostrava alcuna sensibilità per le suedisumane condizioni di vita.

In Puglia, già fra luglio ed agosto, si ebbero numerose rivolte popo-lari di matrice contadina che, pur ispirandosi a valori reazionari ed ar-caici, rivendicavano alcune istanze moderne di giustizia sociale. Si trat-tò di rivolte che anche in seguito, nella fase più acuta del brigantaggio,furono segnate dal tradizionale spirito anarchico dei moti contadini enon potettero riferirsi ad un programma politico generale per trovareconsensi nelle altre classi sociali.

A Taranto si registrarono azioni di tipo luddistico ad opera di unafolla imponente, che dapprima tentò di saccheggiare alcuni palazzi si-

zi sovraneggia i suoi destini, un popolo che interpone il suo voto. E noiperché esclusi dal plebiscito, a cagion della poca età, la quale appena toccail quarto lustro, non formiam parte di questo popolo eroico, saremoforse muti ed impassibili spettatori? Noi forse non siam chiamati al com-pimento di questa sovrana missione? Anco in noi arde un cuore Italiano,ancor noi sotto gli artigli del dispotismo siamo stati segno alle atrocità, aitradimenti; noi pur fummo vittime di una forsennata tirannìa; epperò,reclamando un posto nel popolo, non primi né ultimi volemmo mani-festare la nostra volontà, e comporre un serto per l’apoteosi della nostrasovranità.

Un modo di espressione era a rinvenirsi che all’età rispondesse, modoche oltre all’oggetto della nostra manifestazione valesse ad eccitare la pub-blica esultanza. E perciò pensammo nella giornata di sabato 20 ottobrealle ore 22 correr per le strade di Lecce cantando un Inno, accompagnatodalla Banda musicale, col quale venga tratteggiata la sublimità della no-stra situazione.

Incoraggiati dalla benevolenza di questo pubblico pienamente italia-no, mettiamo in prospettiva le nostre aspirazioni sante perché santa lacausa cui si riferiscono!

I giovanetti leccesi(E. De Carlo, Albori e fiamme di libertà nel leccese, Roma, 1935, pp. 272-73)

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gnorili e poi distrusse in alcuni opifici le macchine tessili ritenute re-sponsabili della crisi della lavorazione a domicilio dei tessuti con telai amano. Rivendicazioni di matrice politica e sociale si ebbero a Ginosa ea Palagiano: nel primo centro, l’11 agosto fu affisso un manifesto cheinvitava il popolo a rivendicare i propri diritti “perduti per opera ditradimento”, a cacciare “l’infame Marchese dal paese”, a distruggere ilsuo castello e ad impadronirsi del suo feudo, “perché quello è tuo.Iddio lo vuole!”; nel secondo centro, invece, vi fu un prolungato motopopolare, durante il quale dapprima furono destituiti sindaci e asses-sori liberali appena insediatisi, al cui posto furono eletti contadini edoperai, poi si procedette alla occupazione delle terre delle grandi pro-prietà. Anche a Bovino le classi popolari furono protagoniste di ri-vendicazioni politiche e sociali, tanto che un osservatore, commen-tando gli eventi, giudicava con molta preoccupazione che lì fosse co-minciata “la guerra del proletariato contro il galantuomo credutooppressore”. Tumulti popolari si ebbero anche in diversi centri dellaTerra di Bari.

Il delinearsi del brigantaggioA partire dal mese di settembre del 1860, quando Francesco II ab-

bandonò Napoli, e poi subito dopo la caduta del Regno delle Due Sici-lie, si verificò la saldatura fra i contadini ed un insieme di forze e sogget-ti diversi che all’improvviso e d’un sol colpo avevano perduto i poteri, iruoli e gli stessi impieghi esercitati all’interno della struttura statale bor-bonica. Dalle rivolte contadine di tipo anarchico più o meno sponta-nee dei mesi precedenti si giunse al brigantaggio, questa sorta di guerracivile che tormenterà i primi passi dello stato nazionale.

In Puglia il movimento antiunitario, che ora poteva disporre del so-stegno di ex ufficiali e soldati del disciolto esercito borbonico, di exfunzionari e di buona parte del clero, in una prima fase tentò di orga-nizzarsi nelle città e di conquistarne le amministrazioni, boicottando indiversi centri (Bitritto, Bitetto, Binetto, Noci, Cassano Murge, Canosa,Presicce, Poggio Imperiale, Lesina, S. Marco in Lamis, ed altri ancora)il plebiscito del 21 ottobre 1860, e poi, fra novembre e dicembre, pro-

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Il plebiscito in Puglia

Anche in Italia meridionale il plebiscito del 21 ottobre 1860 registròuna larghissima maggioranza dei “SI” alla domanda “Volete l’Italia una eindivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimidiscendenti?”. In sintonia con i plebisciti ottocenteschi, il voto per l’an-nessione al Regno di Sardegna non fu segreto, ma guidato dall’alto e, inqualche modo, forzato, poiché l’elettore doveva deporre davanti a tuttila sua scheda nell’urna dei “NO” o in quella dei “SI”. L’ambiente, poi,addobbato con bandiere italiane e con scritte inneggianti a Vittorio Ema-nuele e Garibaldi, rendeva il plebiscito una sorta di celebrazione solenne,come si vede nell’immagine sopra proposta.

Naturalmente, ci fu anche in Puglia una grande maggioranza di “SI”,ma non mancarono le defezioni: nel Salento non parteciparono al voto16.452 elettori su un totale di 101.951, mentre i “SI” furono 84.570; inTerra di Bari si ebbero solo 63 “NO” e 127.912 “SI”; in Capitanata,dove i “SI” furono 54.256, si registrò il più alto numero di “NO”, so-prattutto in quei centri del Gargano che, peraltro, furono poi interessatiintensamente dal brigantaggio.

Napoli, 21 ottobre 1860: il plebiscito in un quadro anonimo

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movendo sollevazioni popolari durante le quali venivano destituite lenuove autorità liberali e veniva proclamata l’adesione al Governo Prov-visorio Borbonico. Sollevazioni di questo genere si ebbero in Capitana-ta (Foggia, S. Marco in Lamis, S. Giovanni Rotondo e in tutti i centridel Gargano), in Terra d’Otranto (Grottaglie, Sava, Carosino, MuroLeccese, Poggiardo, Ruffano, Tricase, Pulsano), in Terra di Bari (Bitrit-to, Bitetto, Grumo, Acquaviva, Gioia del Colle, Triggiano, Molfetta,Bisceglie, Barletta, Spinazzola).

Il progetto di riconquistare le città alla causa borbonica, però, fallìsia per l’adesione ormai consolidata al movimento nazionale dei pos-sidenti pugliesi, sia soprattutto per la capillare repressione che fu eser-

La capillare presenza del brigantaggio

Lo storico Antonio Lucarelli (1874-1952) esaminò non solo l’imponentedocumentazione esistente sul brigantaggio in Puglia sia nell’Archivio di Stato,sia in molti archivi comunali, come quello di Gioia del Colle, dove operò lafamosa banda di Pasquale Romano, ex sottufficiale borbonico, ma anche gli attidei processi penali nei confronti dei briganti catturati. In questo brano, che haquasi il valore di una cronaca, vengono messi in evidenza la capillare diffusionedel brigantaggio e il clima di violenza e di ferocia in cui esso si svolse.

Tutto il nostro territorio, dal confine molisano all’estrema Sallenzia,fu cosparso di sangue, di stragi , di rapine.

Nel bosco di Montemilone [...], dopo un aspro combattimento, di-ciannove briganti pugliesi periscono di orrenda morte, bruciati vivi tra lefiamme di un pagliaio; e della medesima sorte sono colpiti venti soldatidi fanteria, inseguiti da una comitiva ed asserragliatisi entro un casolarenei pressi di Ascoli Satriano. Nel gennaio 1862, venticinque lancieri sonobarbaramente trucidati nelle vicinanze di Stornarella; di lì a non molto, il24 aprile, a ridosso di una casa colonica di San Severo, diciotto tosatoridi pecore, mentre sull’ora di desinare si ristoravan dalla fatica mattiniera,scambiati per briganti, sono massacrati, a colpi di mitraglia, da un drap-

L’interpretazione dello storico

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citata energicamente dai garibaldini, dalla Guardia Nazionale e poidall’esercito piemontese.

A questo punto, a tutti coloro che erano stati coinvolti nelle sollevazio-ni filoborboniche si profilò una sola alternativa: consapevoli che, nonappena fossero stati catturati, dopo un processo sommario da parte del-l’esercito piemontese sarebbero finiti davanti al plotone di esecuzione,per difendere la propria vita essi si diedero alla macchia, impugnarono learmi, formarono numerosi gruppi armati che davano al brigantaggio unacapillare diffusione nel territorio regionale. Ad alimentare il brigantag-gio, che ottenne un sostegno convinto da parte della popolazione, contri-buivano un insieme di fattori: alla atavica aspirazione dei contadini al

pello di fanteria, che per avventura transitava di lontano in perlustrazione[...]. Il 31 dicembre 1862, in provincia di Foggia, il colonnello Frazero,con alcuni reparti dell’8°, 36° e 49° reggimento fanteria, è costretto abattere la ritirata con gravi perdite dinanzi ad un’orda immensa di ri-belli; il 5 gennaio 1863, nel bosco di Vallata, a poche miglia da Acqua-viva, il capitano di cavalleria Bolasco infligge una decisiva disfatta alformidabile Romano, che resta sul terreno con oltre venti dei suoi gre-gari; il 16 giugno dello stesso anno, alla Murgia Belmonte, non lungida Martina Franca, il capitano dei carabinieri Allisio sorprende le asso-ciate compagnie di Maniglia, Trinchera e Pizzichicchio (capi di gruppidi briganti, ndr), uccide nel conflitto diciassette masnadieri, ne mandaalla fucilazione altri undici presi con le armi alla mano, e s’impadroni-sce di un copioso bottino.

Chi potrebbe enumerare tutti gli scontri di quell’infausto periodo,che corse dalla primavera del 1861 all’estate del 1863? Alla masseria deiMonaci, nei dintorni di Noci, presso la quale fu dispersa, con numerosimorti, feriti e prigionieri, una grossa masnada di duecento borbonici,[...], nelle adiacenze di Conversano, fra Grumo ed Acquaviva, nel terri-torio di Altamura [...], a Castel del Monte, sulle Murge di Minervino,Spinazzola, Gravina, Andria, Corato, nei dintorni di Giovinazzo, Bisce-glie, Barletta, Cerignola e Foggia.

(Antonio Lucarelli, La Puglia nel secolo XIX, Adda, Bari, 1968, pp. 190-92)

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possesso della terra e alla disponibilità di ex soldati ed ex ufficiali borboni-ci, si deve aggiungere sia il pesante fiscalismo del nuovo stato, peraltronecessario per finanziare tutte quelle infrastrutture (ferrovie, strade, por-ti) indispensabili per unificare il territorio del nuovo stato nazionale, sia lacoscrizione obbligatoria, che sottraeva alle povere famiglie di contadini percinque lunghi anni un giovane nel pieno delle sue capacità lavorative.

I governi della Destra storica si limitarono alla sola risposta militare enon furono neppure scalfiti dal dubbio che il brigantaggio potesse es-sere alimentato dalle penose condizioni di vita del contadino, al quale,talvolta, il brigantaggio si presentava come unica e concreta possibilitàdi sfuggire all’arbitrio dei grandi proprietari terrieri ed anche di rita-gliarsi una migliore condizione di vita.

Il brigantaggio fu la prova drammatica del tipo di rapporto che ilnuovo stato unitario avrebbe continuato ad avere con le moltitudinidel Mezzogiorno: lungi dal ricercare consensi e un suo radicamento nellacoscienza popolare, esso si presentava come semplice ed efficace strumento

È la miseria che predispone al brigantaggio

Giuseppe Massari (1821-1884), già esule politico pugliese e poi depu-tato, su incarico del parlamento italiano fu protagonista nel 1863 di unainchiesta sul brigantaggio e autore di una relazione su di esso. Il Massari,che era stato dapprima vicino al Gioberti e poi aveva avuto ottimi rappor-ti con Cavour, individua nelle misere condizioni di vita del contadinomeridionale, e soprattutto nella figura del bracciante nullatenente, le“cause predisponenti” del brigantaggio.

Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predispo-nenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico delcampagnolo, che in quelle provincie appunto, dove il brigantaggio haraggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice. Quella piaga della mo-derna società, che è il proletariato, ivi appare più ampia che altrove. Il

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per l’instaurazione e il controllo dell’ordine pubblico. Negli anni succes-sivi, gli interlocutori dei governi della Destra storica sul piano locale nonsaranno i rappresentanti di una classe media, del resto impotente ed omo-logata a quella del ceto padronale, ma unicamente i proprietari terrieriche, tranne rare eccezioni, anche qui in Puglia avevano mostrato unastraordinaria capacità di resistenza e di neutralizzazione nel tempo di ogniistanza innovativa sia sul piano politico sia su quello della conduzionedella terra e dei rapporti di lavoro da instaurare con i contadini.

Insomma, il processo risorgimentale e la costruzione della nuova com-pagine nazionale si caratterizzavano come semplice “rivoluzione politi-ca” né preceduta né accompagnata da una “rivoluzione sociale”. Non èun caso che nel 1911, a distanza di cinquant’anni dall’Unità, LeopoldoFranchetti, autore con Sidney Sonnino della famosa inchiesta sulla Sici-lia, denunziava il fatto che dal 1861 in poi tutti i governi di ogni partitohanno visto nel Mezzogiorno non un paese da governare, ma “un grup-po di deputati da conciliarsi”.

contadino non ha alcun vincolo che lo stringa alla terra. La sua condizio-ne è quella del vero nullatenente, e quand’anche la mercede del suo lavo-ro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe mi-glioramento [...]. Tolgasi ad esempio la Capitanata. Ivi la proprietà èraccolta in pochissime mani [...] ed ivi il numero de’ proletari è grandis-simo. A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto dipopolazione, addimandato col nome di terrazzani, che non possiede as-solutamente nulla e che vive di rapina [...]. “I terrazzani ed i cafoni, cidiceva il direttore del demanio e tasse della provincia di Foggia, hannopane di tal qualità che non ne mangerebbero i cani”. Tanta miseria e tantosquallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del briganteabbonda di attrattive per il povero contadino, il quale, ponendola a con-fronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare, noninferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all’ordine sociale. Ilcontrasto è terribile, e non è a meravigliare se nel maggior numero di casiil fascino della tentazione a male oprare sia irresistibile.

(Giuseppe Massari, Relazione, Napoli, 1863, p. 4)

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L’espansione dell’agricolturaAll’indomani dell’unità d’Italia, l’articolazione sociale della Puglia,

piuttosto semplice, è riferibile ad una economia agricola in cui non sisono ancora affermati i nuovi processi di produzione e, tranne la Terradi Bari, stentano a decollare tecniche più razionali di trasformazionedei prodotti agricoli.

Nel 1861 (v. tabella) l’agricoltura pugliese assorbiva il 35,87% del-l’intera popolazione (58,31% della sola popolazione attiva), l’industriamanifatturiera il 15,34% (24,93% della popolazione attiva). Il datosugli addetti alla lavorazione manifatturiera, però, non deve trarre ininganno: la percentuale, infatti, rifletteva la capillare diffusione dellalavorazione a domicilio del cotone e della lana, poiché quasi in ognicasa era presente un telaio a mano, al quale si avvicendavano a turnobambine e donne che producevano tessuti e panni per l’autoconsumofamigliare o per un modesto mercato locale. In realtà, gli occupati ne-gli opifici in Puglia nel 1876 erano soltanto 2.226 (1,48 per mille), suuna popolazione regionale di 1.506.289 unità.

All’interno di questo quadro socio-economico, la politica liberisticadella Destra storica ebbe esiti contrastanti: in agricoltura favorì l’espan-sione della coltivazione di cereali e di alcune colture arboree (uliveti,mandorleti, vigneti), già in atto prima dell’unità d’Italia; nell’industria,invece, produsse una disarticolazione del modesto apparato produttivoesistente.

La cerealicoltura, anche per la non disponibilità sul mercato euro-peo del grano americano a causa della guerra di secessione degli U.S.A.,conobbe un notevole aumento sino alla prima metà degli anni Settan-ta. Ma la congiuntura più favorevole per l’espansione dell’agricolturapugliese e delle attività industriali ad essa collegate si ebbe fra gli anniSettanta e gli anni Ottanta, quando i vigneti francesi furono distruttidalla fillossera.

Una vera e propria “febbre della vite”, la cui coltivazione assicuravagrandi profitti, si impadronì del grande e del piccolo proprietario, chedappertutto, e particolarmente in Terra di Bari, a ritmo impressionanteimpiantava vigneti in terre incolte e addirittura in uliveti e mandorleti,

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che venivano così abbattuti. Una ulteriore spinta alla diffusione dei vi-tigni si ebbe a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quandodagli U.S.A., avviati ad un grande sviluppo dopo il superamento dellaguerra civile, cominciarono ad arrivare sul mercato europeo quantitàsempre più crescenti di grano americano ad un prezzo altamente com-petitivo, col quale il grano pugliese non ebbe possibilità di competere.

La “febbre della vite”, però, fu a senso unico e, salvo rare eccezionidi alcuni grandi ed illuminati proprietari, mirò alla sola produzionedi vino da taglio, assai richiesto dal mercato dell’Italia settentrionalee, soprattutto, da quello francese. Del resto, l’impianto e la coltivazio-ne dei vitigni funzionali alla produzione di vino da taglio avevanocosti modesti, e quindi compatibili con le piccole e medie aziende checostituivano il nerbo della viticoltura pugliese, alle quali peraltro man-

Industria agricola e minerariaIndustria manifattriceCommercio e trasportiProfessioni e arti liberaliCultoAmministrazione pubblicaSicurezza interna ed esternaPossidenti, capitalisti e pensionatiImpiegati privati e personale di servizioPoveri, detenuti, prostitute, ecc.Senza professione

Terra di Bari Capitanata Terra d’Otranto Puglia1861 1871 1861 1871 1861 1871 1861 1871

32,29 28,56 31,91 31,57 41,84 35,66 35,87 31,7119,92 28,56 9,51 9,86 13,75 16,21 15,34 13,07 3,20 2,00 2,57 1,70 2,57 1,14 2,84 1,63 1,79 0,54 1,59 0,69 2,02 0,59 1,82 0,60 1,09 0,73 0,81 0,62 0,87 0,75 0,94 0,71 0,30 0,36 0,38 0,49 0,36 0,24 0,34 0,35 0,26 0,33 0,77 0,28 0,23 0,29 0,37 0,31 3,19 3,14 3,56 3,66 3,39 4,14 3,35 3,60 1,31 1,75 1,24 1,51 2,17 1,86 1,59 1,73 0,59 0,59 1,01 4.92 0,63 0,63 0,71 1,5935,06 49,77 46,65 44,70 32,17 38,49 36,83 44.70

COMPOSIZIONE PROFESSIONALE DELLA POPOLAZIONEPUGLIESE DISTINTA PER PROVINCE DAL 1861 AL 1871

Si tenga presente che nei due censimenti del 1861 e del 1871 le percen-tuali delle diverse professioni si riferiscono a tutta la popolazione, quindianche ai bambini da 0 anni in su.

La tabella risulta dalla utilizzazione e riorganizzazione di dati presenti in Franca Assante,Città e campagne nella Puglia del secolo XIX, Genève, 1974, pp. 134-35.

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cava la possibilità di compiere il salto di qualità richiesto per produrrevini leggeri da pasto.

Il panorama agricolo della Puglia, comunque, ne risultò completa-mente trasformato, e a nulla valsero gli inviti alla prudenza e gli ammo-nimenti sui pericolosi rischi di un’agricoltura monoculturale: i proprie-tari pugliesi, che così legavano i loro destini e quelli dell’intera econo-mia regionale ad una situazione contingente, furono tutti convinti dainotevoli guadagni assicurati dalla facile collocazione del vino pugliesesul mercato francese.

Gli interventi della Destra storicaA stimolare il processo di espansione e di trasformazione dell’agri-

coltura pugliese contribuirono due importanti provvedimenti dellaDestra storica: la quotizzazione e la vendita delle terre ecclesiastiche edemaniali da un lato, l’abolizione del regime feudale della “Doganadella mena delle pecore” dall’altro.

La quotizzazione delle terre del Tavoliere

Alfonso d’Aragona a metà del Quattrocento riunì tutte le terre dema-niali della pianura del Tavoliere delle Puglie, di cui si erano indebitamen-te appropriati baroni, enti ecclesiastici e comunità locali, e le destinò apascolo, dando vita alla “Dogana della mena delle pecore”. Un regime,questo, che, con le sue norme rigide e le severe pene previste, da un latorendeva impossibile ogni trasformazione e innovazione, dall’altro obbli-gava i pastori a condurre le loro greggi a pascolare in quelle terre da set-tembre a maggio. Solo un quinto della superficie del Tavoliere potevaessere coltivata a cereali: modeste quote di terra venivano assegnate, die-tro pagamento di un canone annuale, a braccianti e contadini poveri chesi impegnavano a lasciare a pascolo il campo dopo la raccolta e a nonrealizzare alcun tipo di recinzione.

Nella sterminata pianura del Tavoliere, seconda in Italia solo alla pia-

Approfondimenti

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In tutta l’Italia meridionale, fra il 1861 e il 1877 ci fu da parte digrandi e piccoli proprietari, e persino di un numero esiguo di contadi-ni poveri, una corsa all’acquisto delle terre; in Puglia, poi, il movimentofu ancora più intenso, tanto che qui furono investiti più di 70 milionidi lire, una somma che risultò pari a quella impegnata in Toscana eVeneto messe insieme. Più lento, invece, risultò il processo di affranca-mento delle terre del Tavoliere, che si intensificò a partire dal 1870.

Il quadro della proprietà della regione risultò di molto modificato,poiché fra il 1860 e il 1880 non solo il numero dei proprietari si rad-doppiò, passando da 178.772 a 347.498 unità, ma venne formandosianche una classe di agricoltori interessati a migliorare la tradizionalecoltivazione dei cereali e a diversificare la produzione, avviando, so-prattutto in prossimità dei centri urbani, nuove coltivazioni arboree(viti, uliveti, frutteti, agrumeti, orti e giardini). Si tenga presente chenella sola Capitanata nel quinquennio 1870-1874 furono dissodati emessi a coltivazione ben 36.700 nuovi ettari di terra.

nura padana, portavano a svernare le loro greggi non solo i pastori pu-gliesi, ma anche quelli dell’Abruzzo, della Basilicata e della Campania,assicurando alle casse dello stato consistenti entrate.

Nel Regno di Napoli non erano mancati gli appelli alla monarchiaborbonica perché fosse eliminato il regime della “Dogana della menadelle pecore”, che mortificava le potenzialità di sviluppo dell’agricolturadi Capitanata e dell’intera regione. Il Galanti, nella sua famosa Relazionesulla Puglia, aveva affermato a fine Settecento che il Tavoliere era ormai“divenuto un deserto come la Tartaria” e che bisognava quanto prima“ristabilirvi la popolazione e conservare l’industria libera, così di pascolocome di coltivazione”.

Il regime del Tavoliere fu abolito con la legge del 26 febbraio 1865,che affrancava le terre e le assegnava ai censuari contro il pagamento,rateizzabile in 15 anni, di una somma pari a 22 volte il canone annua-le. Le richieste dei censuari furono, però, assai limitate nei primi annie divennero più numerose solo a partire dal 1870.

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In concomitanza con queste misure, ed anzi nella convinzione disollecitare ulteriormente lo sviluppo dell’agricoltura, i governi post-unitari si impegnarono per assicurare una efficiente rete di vie di co-municazione che unificasse l’intero territorio nazionale. Gli sforzi si con-centrarono nella costruzione di una organica rete ferroviaria, per laquale la Puglia fu certamente favorita. Se si fa eccezione per il Gargano

P. Crampel, Il Tavoliere delle Puglie (1897)

Così appariva il Tavoliere delle Puglie ancora alla fine dell’Ottocento. Infatti,la sua trasformazione da immenso pascolo ad area coltivata richiese tempi mol-to lunghi se, ancora nel 1897, P. Crampel ne dava questa rappresentazione edEmile Bertaux, francese e storico dell’arte, nel corso di un viaggio in Puglia,attraversando la grande pianura, la definiva una immensa pampa e concludevache “essa è come annegata nel bagliore di un sole pallido e in un silenzioappena ritmato da un sordo brusìo. Le città sembrano sì lontane, gli animalisono sì liberi, gli uomini sì selvaggi, che una sorta di vertigine ci prende, per-duti nel mare tranquillo di esseri viventi e senza pensieri” (E. Bertaux, L’Italiasconosciuta, viaggi nell’ex Regno di Napoli, in G. Dotoli e F. Fiorino, Viaggiatorifrancesi in Puglia nell’Ottocento, vol. III, Schena, Fasano 1987, dove è presentea p. 239 l’immagine qui riproposta di Crampel).

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e per il circondario di Gallipoli, già dal 1865 la ferrovia attraversava icentri pugliesi più rilevanti, assicurando due importanti condizioni disviluppo: da un lato veniva sollecitata la formazione di un mercato chesi estendesse dal Gargano al Salento; dall’altro, con la linea adriatica, laregione, allentando i suoi rapporti con Napoli, veniva congiunta conl’Italia del Nord e con i grandi mercati dell’Europa centrale. Si apriro-no così nuovi sbocchi commerciali alla produzione granaria e si ebberonuove sollecitazioni allo sviluppo dell’agricoltura e, in alcune zone, allaspecializzazione delle colture.

I limiti dello sviluppo puglieseSi trattò, però, di processi che a lungo termine non innescarono il

circolo virtuoso dello sviluppo complessivo della Puglia: innanzitutto, lamaggiore capacità di attrazione dell’agricoltura finì col limitare e con-dizionare pesantemente gli investimenti nell’industria e negli altri set-tori economici; e, d’altra parte, la stessa corsa all’acquisto delle terredemaniali non lasciò molti spazi ad investimenti che promuovessero sularga scala tecniche e modi di conduzione moderni.

Da questo punto di vista, i mutamenti che si registrarono in agricol-tura furono essenzialmente di ordine quantitativo, per cui l’immissionedi nuovi soggetti e di nuovi gruppi famigliari nel ceto dei possidentinon scalfì gli atavici metodi e i rapporti di produzione nelle campagne.Al proposito, si tenga presente che l’aumento delle terre coltivate fudeterminato non da investimenti di capitali, ma dal lavoro di milioni dibraccianti e coloni, che costituirono il vero motore delle trasformazionidell’agricoltura pugliese.

Dappertutto, infatti, le terre boschive o incolte divennero vigneti,uliveti e mandorleti grazie al perpetuarsi del vecchio “contratto di con-cessione a godimento”, più noto nel periodo post unitario come “con-tratto a migliorìa”, per il quale da un lato il proprietario concedeva infitto per un lungo periodo (dai 10 ai 15, ma anche sino ai 30 anni inalcune zone) della terra nuda, dall’altro il colono si impegnava a im-piantare su di essa delle colture arboree e a restituirla alla fine dellalocazione senza nulla pretendere per le colture impiantate.

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In un quadro economico siffatto, in cui, peraltro, era assai limitata lapresenza di istituti di credito e imperversava l’usura con tassi del 12, 18e persino del 30%, che scandalosamente a Lecce giungevano anche al120%, era naturale che la crisi agraria degli anni Ottanta dovesse met-tere in evidenza i limiti e le contraddizioni dello sviluppo registratosinei primi venti anni di vita unitaria.

2. LA CRISI AGRARIA E LA POLITICA DELLA SINISTRA PARLAMENTARE

Il decennio feliceFu nel decennio che va dal 1878 al 1887, con l’avvento della sini-

stra parlamentare al potere (1876), che lo sviluppo economico dellaPuglia ebbe il suo ciclo più fecondo, grazie anche alle misure assuntedai governi Depretis in materia di lavori pubblici e di politica finanzia-

Il denaro è il loro Dio

In questo brano Raffaele Mariano, che fra il 1874 e il 1875 fu compa-gno di Gregorovius nel suo viaggio in Puglia, mette in evidenza la partico-lare avarizia e la mentalità assai limitata dei proprietari terrieri pugliesi.Le osservazioni qui proposte sono un vero e proprio documento di réportage,se si tiene conto che esse – come ci informa lo stesso Mariano – “sono noterelleprese quasi cammin facendo, tocchi rapidi, qua e là segnati, come vaghezzami pigliava, nel mio taccuino. Di qui le riproduco, senza avere la pretesa didarle per più di quel che sono”.

Chi visita le città marittime, non sa, non vede nulla della Puglia. Lecondizioni di Bari, Barletta, Molfetta sono al tutto eccezionali e locali.Bisogna penetrare ne’ paesi e nelle campagne dell’interno. Anche qui,senza dubbio, la coltura de’ campi ha fatto progressi. Grazie alla locazio-

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ria. Sono questi gli anni che registrano le punte massime di aumentodella coltivazione della vite per la produzione di vino da taglio, e, nellearee a ridosso dei grandi centri urbani, della diversificazione e del mi-glioramento delle colture.

I prezzi dei terreni agricoli, che furono oggetto di una intensa e feb-brile contrattazione in tutta la Puglia, aumentarono di anno in anno sinoal 1888, e anche un campo nudo, che ora aveva il vantaggio di renderemeno costoso l’impianto del vigneto, giunse a prezzi consistenti.

A beneficiare della favorevole congiuntura non fu solo il mondoagricolo, ché anche quello urbano ebbe una notevole fase di espansio-ne. Dal 1878 al 1887 molte città della Puglia, ed in particolare Bari,Molfetta, Trani, Barletta, Cerignola e Brindisi, “furono predominatedalla passione edilizia, richiesero a caro prezzo muratori, scalpellini edogni sorta di operai”.

Del resto, “la passione edilizia” delle città pugliesi in questo decen-nio si inseriva in un processo più generale e di maggiore durata che

ne così detta a migliorìe, molti terreni incolti sono stati messi a colturaed arricchiti anche di piantagioni. Ma è qui pure dove si tocca con manoquanto la ricchezza e l’agiatezza, il benessere di tutti siano cose diverse.Da un lato alquanti signori, borghesi arricchiti, possessori di latifondi,spesso milionarii; dall’altro moltitudini di giornalieri e braccianti pez-zenti, abbandonati, senza conforti e senza speranze.

La vita di codesti signori si condensa nell’avidità dell’avere, del posse-dere. Il denaro è il loro Dio; l’avarizia il loro culto. L’amore pel denaronon è già l’aspirazione tutta naturale e legittima negl’individui come ne’popoli, a disporre di molti mezzi pe’ fini di civiltà. È l’amore del danaropel danaro. Massimo, unico godimento loro è d’aver a sguazzare nel-l’oro. La maggior parte, divenuti milionarii, rimangono gretti, tapininelle loro idee e nelle loro aspirazioni, quali erano secoli addietro gliantenati loro, che forse non avevano il becco di un quattrino. Che enor-me divario tra un Gentleman-Farmer o un Cotton-Lord inglese e unquattrinaio delle Puglie!

(R. Mariano, Puglia e pugliesi, in F. Gregorovius, Nelle Puglie, Firenze, 1882, pp. 30-31)

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interessò la Puglia nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, differen-ziandola dalle altre aree dell’Italia meridonale: da un lato, vi fu unmodesto ma significativo incremento demografico, grazie al qualela popolazione regionale aumentò di 500.000 unità, attestandosinel 1901 a 1.959.668 abitanti; dall’altro, il processo di urbanizza-zione, che registrò i livelli più alti in Terra di Bari, portava nuovapopolazione nelle città.

Lo stesso potere reale d’acquisto dei salari aumentò, favorendomaggiori consumi domestici e un più elevato tenore di vita, il cui mi-glioramento, secondo Sabino Fiorese, “non ebbe uguali raffronti in al-tre parti del Regno”.

Le società operaie di mutuo soccorso

Notevole è stato il ruolo che le società operaie di mutuo soccorsohanno svolto anche in Puglia per l’emancipazione morale e materialedelle classi popolari, soprattutto prima della costituzione e dello svilup-po del partito socialista e della Camera del Lavoro, che peraltro proprioall’interno di esse spesso trovarono all’inizio dirigenti e militanti. Fon-date già all’indomani dell’Unità d’Italia in alcuni centri (le prime in asso-luto si hanno ad Ostuni, a Lecce, a Taranto, a Massafra), le società opera-ie di mutuo soccorso si diffondono su tutto il territorio regionale a par-tire dagli anni Ottanta: nel 1904 in Puglia ve ne sono 109.

Con la diffusione della mutualità operaia in tutta Italia, si impose unaridefinizione legislativa dell’intera materia, che si ebbe con la legge del 15aprile del 1886. Venivano fissati, così, gli scopi e le norme che disciplina-vano la costituzione e la vita di queste associazioni perché potessero otte-nere la personalità giuridica e, dunque, le agevolazioni creditizie previstea livello nazionale. Oltre a garantire prestiti a tassi agevolati e sostegni asoci e famigliari colpiti da avversità, le società di mutuo soccorso, allequali per legge era vietato qualsiasi intento politico e la partecipazione “a

Approfondimenti

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La vitalità di que-gli anni del mondoagricolo e di quellourbano potè consen-tire un più facile ri-corso al credito an-che alle classi piùumili. Venne così li-mitata la pratica del-l’usura, piaga anticadella Puglia. Ci fu,

qualunque lotta di partiti locali”, erano impegnate in un’opera comples-siva di promozione professionale, morale e culturale.

La lettura di uno statuto di una società di mutuo soccorso, sempremolto articolato e puntuale in modo da non dare adito a interpretazioniche svilissero la natura del sodalizio, può risultare una esperienza utile percapire questa pagina della storia nazionale e regionale.

Ad esempio, lo statuto della Società Operaia di Mutuo Soccorso “Um-berto I” di Modugno, già presente nel 1880 e poi ridefinitasi nel 1890alla luce della legge del 1886, dopo aver precisato che essa “ha per solo edesclusivo fine il Mutuo Soccorso, materiale, morale, ed intellettuale deipropri Soci”, all’articolo 33 afferma: “In caso di malattia involontaria,che dal medico sia dichiarata assolutamente impotente al lavoro e non siastata cagionata da cause disonoranti, o da mal costume, come sifilide,dall’abuso del vino e liquori, o da ferite riportate in risse provocate, siavrà dritto all’assistenza personale di uno o due altri soci, alle visite medi-che ed alle medicine che saranno a carico della Società, ed al sussidiogiornaliero di centesimi sessanta”. Altri articoli fissano sussidi per i sociinabili, per vecchiaia o per incidenti sul lavoro; contributi per la famigliadi un socio deceduto; acquisto di suoli pubblici per la costruzione di caseper operai; promozione di “Scuole Operaie tecniche e pratiche”.

LE BANCHE COOPERATIVE DICREDITO IN PUGLIA DAL 1882 AL 1887

1882 1883 1884 1885 1886 1887BARI 17 18 23 32 41 47FOGGIA 6 9 11 14 19 21LECCE - - 2 8 9 11

Totale 23 27 36 54 69 79

La tabella è presente in S. Fiorese, Storia dellacrisi economica in Puglia dal 1887 al 1897, Vec-chi editore, Trani 1900, p. 57.

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infatti, un aumento delle banche, e in particolare delle cooperative dicredito, che anticipavano il capitale che era necessario ad un fittavoloper mettere a coltura un campo incolto o per promuovere in esso delletrasformazioni.

In molti centri sorsero ad iniziativa di contadini ed operai anche lesocietà di mutuo soccorso, i cui statuti prevedevano l’elargizione ai socidi prestiti ad un tasso molto basso. Negli anni Ottanta si contano piùdi 20 società di mutuo soccorso rispettivamente nel Salento e in Terradi Bari, 6 in Capitanata.

A completamento del quadro, si consideri l’ulteriore espansione delleferrovie e della rete stradale che, progettate soprattutto per congiunge-re la linea adriatica con le aree interne, raggiunsero proprio nel 1886le punte più elevate di sviluppo.

L’esplosione della crisi e “le città morte abitate da vivi”Commentando l’esiguo numero di operatori pugliesi presenti nel

1897 all’Esposizione di Torino, Raffaele De Cesare, deputato libe-rale e storico, così scriveva sul Corriere delle Puglie: “È solo da dueanni che la Puglia esce da una delle più tremende crisi che ricordi lastoria economica di un paese [...]. Quanti [...] sono stati travolti dal-le rovine economiche e finanziarie, che la imprevidenza e le illusio-ni nostre, e gli errori e le colpe del Governo resero possibili! Quan-te di quelle industrie son morte e quanti di quei latifondi, trasfor-mati in ubertosi vigneti, son passati in altre mani, o formano, ciòch’è peggio, quella triste manomorta bancaria, con tanta iattura dellapubblica ricchezza!”.

Il quadro incisivo del De Cesare mette bene in evidenza le terribiliconseguenze della crisi agraria che sconvolse per un lungo periodo l’in-tera economia della Puglia in un momento importante della storia na-zionale, quando l’Italia fu impegnata dapprima col Depretis in unasvolta radicale in politica estera e poi nel 1888 con Crispi nella guerradoganale con la Francia, che segue alla denuncia del trattato commer-ciale del 1883.

Già a partire dalla fine degli anni Settanta v’erano state battute d’ar-

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resto per la produzione di grano e di olio, il cui prezzo aveva registratouna sensibile caduta sulle piazze regionali; ora, nel 1888, con la totalechiusura del mercato francese, l’intero vino da taglio pugliese restò in-venduto.

Le conseguenze furono terribili: il crollo dell’intera produzione agri-cola, e con essa del commercio e delle industrie, fu totale; si innescòuna catena impressionante di fallimenti di aziende agricole, commer-ciali e di opifici industriali; le esportazioni, e conseguenzialmente tuttele attività portuali, non ebbero più ragion d’essere; la povertà raggiun-

I PREZZI DEL GRANO, DELL'OLIO E DEL VINOIN PUGLIA DAL 1870 AL 1888

Anno Prezzi del grano Prezzi dell’olio Prezzi del vinosulle piazze pugliesi a Bari a Gallipoli a Bari

1870 30,89 117,05 101,35 26,801875 31,37 135,72 86,91 32,431878 33,39 123,95 90,41 34,491879 34,12 129,14 89,71 32,791880 32,98 131,70 88,42 31,831882 27,08 136,22 77,77 32,001884 23,75 154,27 79,48 33,501885 23,39 148,90 78,73 39,191886 23,79 136,57 73,74 39,941887 24,24 128,30 69,48 33,401888 24,40 126,12 69,77 27,79

Per il grano e l’olio i prezzi, calcolati in lire, si riferiscono ad un quinta-le; per il vino ad un ettolitro. La tabella è il risultato di una riorganizzazio-ne di dati presenti in L. Palumbo, L’economia rurale pugliese nell’età dellasinistra, in AA. VV., Atti del VI convegno di studi sul Risorgimento in Puglia,Levante editori, Bari 1989, pp. 271-76. Il divario sempre più crescentedei prezzi dell’olio praticati a Gallipoli e a Bari è determinato dalla diversaqualità del prodotto.

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se punte non conosciute in precedenza. In particolare, i proprietari, so-prattutto piccoli e medi, peraltro già indebitati per le innovazioni coltu-rali, si videro pignorate e sequestrate le terre che spesso dovettero cederead un prezzo di vera e propria rapina: mediamente i terreni si deprezza-rono almeno di un quarto del valore da essi raggiunto agli inizi degli anniOttanta, e un ettaro di vigneto, ad esempio, il cui valore prima della crisisuperava le 4.000 lire in Terra di Bari, veniva barattato a meno di 1.000.

A tutti i centri pugliesi, e soprattutto a quelli portuali, ridotti a“città morte abitate da vivi”, si può estendere quello che Franca As-sante afferma per Gallipoli: “Non appena il porto, che era il polmonedella città e dell’esteso entroterra agricolo, restò inattivo, tutte quellepiccole industrie che attorno ad esse erano andate sviluppandosi, siarrestarono, travolgendo nei fallimenti i piccoli cantieri, i trappeti, leindustrie di botti e di cordami, e i saponifici, che in passato avevano

Le domande fondamentali della crisi

Sabino Fiorese (1851-1935), sin dal 1849 docente di Economia Politi-ca presso la Scuola Commerciale di Bari, poi divenuta Regio Istituto Supe-riore di Scienze Economiche e Commerciali, fu un intellettuale impegnatonell’analisi del mondo agricolo pugliese, per il quale propose una serie diriforme.

In questo brano, egli pone l’accento sulle “cause preparatorie” della crisi,che, a suo avviso, sono anche di natura morale.

La buona economia non dipende soltanto dall’ardimento e dallebuone leggi, ma sopra tutto dalla buona volontà; e, dicasi quello che sivuole in contrario, è certo che noi difettiamo dell’uno e dell’altra, dellebuone leggi, giacché fu insufficiente la loro preparazione dopo il perio-do burrascoso che traversò l’Italia ricostituita ad unità politica, e dellabuona volontà difettammo noi, dacché si può dire buona la volontàquando buoni sono i motivi che la fecondano, e niuno dirà certo che

L’interpretazione dello storico

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avuto una vita prospera. Dai portuali la disoccupazione si estese almondo artigiano, che si reggeva sull’attività commerciale. Il drammasi era compiuto. Gallipoli si apprestava a diventare una città mortaabitata da vivi”.

Il governo nazionale di fronte alla crisiLa crisi, che si complicò ulteriormente in seguito al fallimento del

sistema bancario nazionale negli anni 1893-1896 e si protrasse sinoalla fine del secolo, manifestò drammaticamente i limiti profondi dellapolitica della classe dirigente post-unitaria, che aveva visto nell’agricol-tura il fulcro e il motore dello sviluppo dell’economia nazionale. Non èun caso che il suo superamento maturerà in concomitanza di una nuo-va fase di sviluppo nazionale e internazionale.

Non mancarono in Puglia i casi di grandi proprietari, come i Pavon-

siano buoni motivi dell’azione nostra quelli che ci spingono a bisognifittizii o prematuri.

E chi negherà mai che i bisogni che ci creammo furono poco corri-spondenti alle giuste esigenze della vita? Come negarlo, se dimenti-cammo la previdenza, e se facemmo perfino strade ferrate e porti ri-chiesti più dalle necessità locali ed amministrative che dalle necessitàeconomiche? Si può negare che affrettammo con la vendita dei benidelle corporazioni religiose la ricostituzione del latifondo? Si può ne-gare che il giacobinismo portò, forse senza prevederlo, estesi vantaggiagli uomini di affari, dai quali furono germinati poi istituti divoratoridelle pubbliche e private fortune? Negheremo che sbagliammo persinoi metodi del lavoro, se dopo tanti anni i demani non furono destinatial proletariato, il latifondo non si seppe distruggere e le banche nonpoteronsi disciplinare?

È ben vero che sono roventi coteste interrogazioni; ma senza dubbiola risposta ad ognuna di esse include la designazione delle cause prepara-torie della crisi che rovinò nell’ultimo decennio del secolo le Puglie etante altre parti d’Italia.

(S. Fiorese, op. cit., p.17)

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celli a Cerignola, i Rogadeo nella zona di Castel del Monte e altri anco-ra nel Salento, che reagirono subito alla crisi e si adeguarono alle nuoveesigenze, potenziando la produzione, peraltro già avviata nel passato, divini leggeri da pasto che non ebbero difficoltà a conquistare subito quotedi mercato nell’impero austro-ungarico, in Germania e in Europa set-tentrionale, oltre che in America ed Australia. Si trattò pur sempre,però, di una minoranza che poteva disporre dei due requisiti necessariper passare dalla produzione di vino da taglio a quella dei vini da pasto:grandi estensioni di terre e disponibilità di capitali.

Nessuna possibilità di intervento, invece, si delineò nell’immediatoper piccoli e medi proprietari o per grandi proprietari meno illumina-ti, che non potettero disporre né di un piano regionale o nazionale diintervento né di misure di sostegno da parte del governo.

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Il governo ignora la miseria della Puglia

Il 10 maggio 1889 l’on. Matteo Renato Imbriani tenne alla Camera deiDeputati un discorso vibrante sulla drammatica crisi che opprimeva la Pu-glia, accusando il governo di aver provocato la chiusura del mercato francese“per servire la Germania”. Durante l’intervento, per più volte ci furono inaula mormorii ed espressioni di disapprovazione nei confronti di Imbriani.

Vengo ora dalle Puglie, e credo di poter parlare con alcuna competen-za delle cose che ho visto. Ho fatto un pellegrinaggio di dolore e diaffetto. Ho visto un intero popolo laborioso, onesto, dignitoso, che nonchiede altro che lavoro, il quale vi dice: dateci del lavoro fino alla morte;meglio morire sotto il peso del lavoro che morire di miseria.

Ho visto ricche industrie le quali non rendono più nulla, io hovisto una miseria spaventevole, o signori. [...]. Lavoratori che lascia-vano la marra venivano sulla strada, e dicevano: con otto, con dieci,con quattordici soldi che è la mercede giornaliera più alta, non si puòvivere, non si può far campare la famiglia. Sei centesimi di dazioconsumo sul pane, undici sul vino, che cosa ci resta? La fame, la di-

Documenti

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Il controllo e la spedizione del vino, dopo l’imbottigliamento,nello stabilimento vinicolo “Pavoncelli” di Cerignola

sperazione. E la fame era su quei volti squallidi, la disperazione in que-gli animi. [...].

Eppure questa gente così danneggiata, così malmenata, è venuta duevolte a Roma ad esporre le sue miserrime condizioni. La prima volta èstata accolta con superba ironia, e loro è stato detto dal Presidente delConsiglio: Voi nuotate nell’oro. Ed essi hanno risposto: insultate anchela nostra miseria? Lo vedrete se nuotiamo nell’oro! La seconda volta loroè stata fatta una lezione di enologia ed è stato detto: dovete fabbricare deivini commerciabili; la colpa è vostra se non sapete fare vini che si possanobere, se non riducete i vostri vini da taglio. Ebbene, anche quest’accusaera ingiusta: ci sono nelle Puglie stabilimenti enologici di prim’ordine.Eppoi, se il suolo dà quel frutto, quel frutto soltanto i produttori posso-no mettere sul mercato. E voi glielo avete chiuso questo mercato perservire la Germania! [...].

Ora, signori, sapete qual è la condizione delle Puglie? Dopo aver pro-fuso milioni in quelle terre si passa l’aratro nelle vigne, le si lasciano in-colte, non c’è produzione, e quello che ancor si produce, non si sa suquale mercato gettarlo! [...]. Io vi prego di andare in mezzo a quei popo-li, e vedrete non cento, non mille, ma migliaia di facce squallide di don-ne pallide, scarmigliate, affamate, di fanciulli, di uomini affranti.

(M. R. Imbriani, Discorso parlamentare del 10 maggio 1889, in S. Fiorese, op. cit., p. 119)

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Crispi, infatti, non solo non si preoccupò di affrontare la drammati-ca situazione, ma ne addossò la responsabilità esclusivamente agli agri-coltori pugliesi, incapaci – a suo dire – di produrre del buon vino eimprudenti nell’aver aumentato l’impianto e la coltivazione della vite.La sua ricetta non ammetteva repliche: “Se non siete buoni a fabbrica-re il vostro vino, spiantate la vigna!”. Non diversamente vennero spie-gati i numerosi fallimenti bancari che, lungi dall’essere collegati allaparalisi del commercio in seguito alla guerra doganale con la Francia, siritennero causati esclusivamente dalla malafede dei Pugliesi, dediti or-mai ad una nuova attività lucrativa: quella, appunto, dei fallimenti.

Le autorità di governo, così facendo, assolvevano completamente sestesse, ispiravano la loro politica ad un atteggiamento di indifferenzaper i tragici problemi della crisi limitandola ad una questione privata,tanto che non perdevano mai l’occasione di sottolineare solennemente:“Non è dato al governo di coadiuvare e neppure di stimolare l’attivitàprivata”.

Opportunamente, una parte della pubblicistica dell’epoca mise inrisalto l’infondatezza di tale condotta, sottolineando che lo stato italia-no realizzava in Puglia entrate ben più consistenti delle spese: ad esem-pio, limitandoci alla sola Terra di Bari, nel biennio 1886-1887 il totaledelle spese dello stato ammontò solo ad un terzo delle entrate (£11.539.431 contro 38.476.834).

In realtà, ancora una volta veniva confermato quell’atteggiamentodella classe dirigente nazionale, seguita in ciò da buona parte di quellaregionale, che da un lato spiegava il malessere della Puglia, e del Sud ingenerale, con l’incuria e i limiti della popolazione, dall’altro faceva ap-pello all’ideale dell’unità nazionale e dell’ordine pubblico, da cui tuttinon potevano ricevere che del bene materiale e morale e per la cuidifesa veniva invocata conseguentemente la repressione.

Verso una nuova dialettica politicaLa crisi agraria, però, non arrestò, come peraltro si è già detto, l’au-

mento della popolazione e lo stesso processo di urbanizzazione che, in-vece, proprio fra il 1891 e il 1901 ebbe la sua fase di maggior incre-

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mento, rendendo ancora più centrale il ruolo delle città all’interno del-la vita economica e sociale.

Sarà proprio il ruolo più incisivo che le città e le amministrazionilocali eserciteranno negli ultimi due decenni del secolo a favorire lanascita di nuove forze sociali e politiche e l’affermazione di una piùmoderna dialettica democratica. Sono questi gli anni in cui l’operaioe il contadino, consci dei propri limiti culturali e politici, si impegna-rono perché il Comune fosse uno strumento di difesa contro la poli-tica dei bassi salari e l’eccessivo fiscalismo nazionale. Non è un casoche nel 1898 proprio in Puglia si ebbero grandi agitazioni che, seb-bene conservassero alcuni aspetti dei tradizionali tumulti popolari,preludevano a nuove forme di organizzazione politica.

I tumulti di Bari nell’aprile del 1898 per l’aumento del prezzodel pane: dopo le violente agitazioni popolari, l’esercito

distribuisce pane e farina alla popolazione

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Del resto, il nuovo quadro sociale e politico era ben evidente alleautorità civili e militari se il prefetto di Bari, scrivendo al Ministerodegli Interni, esprimeva tutta la sua preoccupazione affermando giànel 1882 che “le classi popolari pugliesi vanno sottoposte ad accu-rata sorveglianza, poiché esse numerosissime vivono non già sparsema addensate nelle frequenti e popolose Città; quindi facilissimafra loro la frequentazione delle nuove idee; pronta la comunanzadei propositi, istantanea la commozione in animi per natura eccita-bilissimi [...]. Sicché, se le plebi [...] non fossero con moltissima curatenute d’occhio, potrebbero facilmente divenir materia incendiariaal lampo della questione sociale”.

I tumulti per il caro pane in Puglia

Ad avviare le agitazioni contro l’aumento del prezzo della farina e delpane che sconvolse molte città italiane (Milano, Firenze, Bologna) agliinizi di maggio del 1898, fu proprio la Puglia che già il 27 aprile registra-va i primi tumulti a Bari, il 28 a Foggia (dove venne incendiato il palazzodel Comune), e nei giorni successivi a Corato, Gravina, Minervino,Molfetta, Modugno e in altri centri ancora.

Il governo Di Rudinì, che pure aveva permesso la ripresa dell’attivitàdel partito socialista e delle organizzazioni sindacali, reagì con misurerepressive, affidando ai militari il compito di ripristinare l’ordine (si ri-corderà che a Milano fu inviato il generale Bava Beccaris che a più ripre-se, il 5 e il 6 maggio, fece sparare sui manifestanti, provocando un centi-naio di morti e diverse centinaia di feriti).

Per la particolare e prolungata violenza dei tumulti, a Bari, dove furo-no presi d’assalto e devastati diversi uffici pubblici (quelli del dazio, delbollo e del registro e della polizia urbana, due scuole e lo stesso palazzocomunale), a reggere la prefettura fu inviato il 4 maggio il generale LuigiPelloux, uomo di fiducia del re e futuro presidente del consiglio dopo ledimissioni del Di Rudinì, che concentrò nelle sue mani i poteri civili e

Approfondimenti

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militari. Le misure repressive, che peraltro erano state adottate sin daiprimi giorni delle agitazioni, furono diverse: l’uso di reparti militariper imporre l’ordine pubblico; il divieto di qualsiasi manifestazionepubblica; le improvvise retate di notte, con un alto numero di arrestati(140 a Bari e 50 a Modugno nelle sole giornate del 28 e 29 aprile);l’avvio di una lunga stagione di processi; l’imposizione del domiciliocoatto.

Si approfittò del clima turbolento per infliggere un duro colpo almovimento socialista, che incominciava ad affermarsi a Bari e in pro-vincia, sebbene i suoi esponenti avessero preso subito pubblicamente ledistanze da quei tumulti, giudicandoli impolitici: fu sciolto il Circolosocialista di Bari e i suoi iscritti furono sottoposti alla sorveglianza spe-ciale di polizia; furono imprigionati Canio Musacchio di Gravina ediversi socialisti di Minervino e Molfetta, con l’imputazione di “eccita-mento all’odio di classe”.

Anche la stampa fu posta sotto controllo e a Bari fu soppresso Sparta-co, un giornale che era il punto di riferimento delle forze di opposizioneal ceto degli amministratori comunali che, grazie al generale clima direpressione, pensavano di poter superare il difficile momento. La lorosconfessione, però, arriverà addirittura da Roma, quando il governo scio-glierà la giunta, inviando il 2 giugno un regio commissario per gestire ilComune.

3. BARI CAPITALE

Il nuovo ruolo della cittàA partire dalla fine degli anni Novanta, quando la crisi scoppiata

nel 1888 volge al temine, incomincia sempre più a circolare l’espres-sione “Bari capitale”, a cui spesso vengono accostate altre dello stessotenore: “Bari, regina delle Puglie”, “Bari, massimo centro di tutto ilMezzogiorno adriatico”, “Bari, porto del Levante”, ed infine “Bari,capitale intellettuale”.

Si trattava di espressioni particolarmente care agli imprenditori e aicommercianti baresi, consapevoli che l’intero ciclo economico apertosi

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con la costruzione dello stato unitario fosse ormai del tutto esaurito. Lefortune della Terra di Bari, maturate all’interno della politica liberisticae dovute all’apertura di nuovi e più estesi mercati, non potevano piùessere legate alla massiccia esportazione dei soli prodotti agricoli. Oltre-tutto, l’intera economia della Puglia in generale, e quella della Terra diBari in particolare, si erano modellate di volta in volta sulla base dellerichieste del mercato esterno, esponendosi, così, ai repentini mutamen-ti delle congiunture internazionali e ai tanti fattori di rischio che nellaseconda metà dell’Ottocento caratterizzavano i rapporti politici ed eco-nomici fra gli stati europei.

Già agli inizi degli anni Novanta era chiaro per settori consistenti del-l’imprenditoria barese che non si potesse più riproporre quel boom delleesportazioni degli anni Settanta e degli anni Ottanta, grazie al quale labilancia commerciale provinciale era stata costantemente in attivo. Nel

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Le misure protezionistiche bloccano i nuovi processi produttivi

Enrica Di Ciommo, che nel suo saggio Bari 1806-1940 si sofferma conparticolare attenzione sui processi di trasformazione della città fra Ottocen-to e Novecento, dimostra chiaramente in questo brano come la crisi del-l’agricoltura di Terra di Bari da un lato non potesse ricevere alcun beneficiodalla politica protezionistica avviata dai governi della sinistra parlamenta-re, dall’altro sollecitò nel capoluogo nuovi processi economici.

Con il mutare delle condizioni congiunturali emersero chiaramentetutti i limiti di una crescita basata sulle esportazioni, e già agli inizi deglianni ’90 la Camera di Commercio denunciava le prime consistenti diffi-coltà dell’agricoltura barese [...].

In tale situazione, anche l’intervento governativo (con le nuove misu-re protezionistiche della cerealicoltura nazionale nei confronti della con-correnza americana e con quelle a favore delle industrie olearie e vinicole)non poteva conseguire nel Barese i risultati ottenuti in altre aree dellanazione, ed anzi contribuì all’aggravamento generale degli squilibri. Lo

L’interpretazione dello storico

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1890, la Camera di Commercio di Bari, dopo aver registrato l’impo-verimento complessivo dell’agricoltura pugliese ed aver espresso scettici-smo sulle possibilità che le sue sorti potessero migliorare con le misureprotezionistiche, invocate soprattutto dai cerealicoltori di Capitanata eassunte dal governo nazionale, concludeva in modo sconsolato: “Nonpossiamo più lottare con l’estero, che produce molto e a buon mercato”.

Maturò, così, la consapevolezza di un nuovo ruolo della città che, insintonia con la grande fase espansiva del capitalismo industriale e com-merciale internazionale, diversificasse la sua struttura produttiva e, so-prattutto, si ponesse come motore di un’area economica regionale, allaquale si sarebbero potuti dischiudere nuovi e fecondi rapporti econo-mici con realtà ancora più vaste. E, al proposito, le aspirazioni non ri-guardavano solo l’Adriatico, e in particolare le zone dirimpettaie dellaPuglia, ma anche spazi ben più ampi che una più decisa politica colo-

Stato, infatti, si faceva indirettamente garante e tutore dei redditi agricoligià tradizionalmente costituiti. E quindi sostanzialmente rafforzava ilpotere politico dei grandi proprietari, in definitiva rendeva del tutto im-probabile un cambiamento degli indirizzi produttivi e della propensionealla tesaurizzazione ed all’investimento usuraio, verso il quale per la si-tuazione già descritta andavano le maggiori attese di reddito. Mentre, peraltro verso, gli sporadici nuclei dell’olivicoltura e della viticoltura mo-derna esistenti nella provincia non avevano ancora la consistenza necessa-ria perché quelle misure governative di favore potessero determinare un’ef-fettiva incidenza sul più generale complesso del sistema produttivo. [...].

Quale effetto degli sviluppi dell’agricoltura provinciale e della più in-tensa compenetrazione con il mercato internazionale, venne in questianni progressivamente a maturarsi nel capoluogo una base economicadall’articolazione assai più complessa, nella quale gli investimenti ed iprofitti dell’attività mercantile si intrecciavano con gli interessi imme-diati della rendita usuraia, mentre nel contempo si registrava la nascita dialcuni deboli nuclei industriali.

(E. Di Ciommo, Bari 1806-1840. Evoluzione del territorio e sviluppo urbanistico,Franco Angeli editore, Milano 1984, pp. 107-108)

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niale italiana avrebbe certamente aperto, permettendo a Bari di ritor-nare a ricoprire il ruolo di porta e ponte verso l’Oriente.

Non è un caso, quindi, che, a partire dalla fine degli anni Ottanta esino alla vigilia della prima guerra mondiale, ci fu a Bari un nuovoprocesso di espansione economica e di grandi investimenti di capitalilocali, soprattutto in attività industriali e nell’edilizia, grazie al quale lacittà conquistò effettivamente una immagine ed un ruolo che la diffe-renziavano nettamente dagli altri capoluoghi della regione.

Bari, centro delle vie di comunicazioniL’affermazione, però, della centralità di Bari all’interno della Puglia,

se riceve un forte impulso fra Ottocento e Novecento, è il risultato diun processo complesso e di lunga durata che, a partire dal decenniofrancese, si sviluppa per tutto il secolo.

Una condizione importante per il delinearsi del primato di Bari fucertamente da un lato lo sviluppo continuo del suo porto, dall’altroquello delle vie di comunicazione in tutta la provincia, che già all’indo-mani dell’Unità erano più diffusamente e razionalmente distribuite nelterritorio rispetto all’intero panorama regionale. Alla fine degli anniOttanta, sui 7.000 km della rete stradale della Puglia, quasi la metà(2.961) era dislocata in Terra di Bari. Anche per quanto riguarda larete ferroviaria la situazione non cambiava, ed anzi il primato che laprovincia aveva già nel 1865 fu destinato ad aumentare non solo con losviluppo delle ferrovie ordinarie (la linea adriatica e la Bari-Taranto),ma soprattutto con le cosiddette ferrovie economiche (Spinazzola-Gio-ia del Colle, Altamura-Matera, Bari-Locorotondo, Bari-Barletta), con-cepite secondo un’ottica moderna già sperimentata in Europa ed inItalia settentrionale che, congiungendosi ai rami delle ferrovie ordina-rie, metteva in comunicazione un grande centro urbano con un ampioentroterra e coll’intero territorio nazionale.

Grazie alla capillare rete stradale e alla complessa rete ferroviaria,forte era la capacità di attrazione di Bari, dove potevano giungere fa-cilmente e velocemente i prodotti agricoli non solo del suo immediatoentroterra, ma anche delle altre province della Puglia e persino della Ba-

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silicata e della Calabria. Quando, ad esempio, nel 1875 sarà completatala linea ferroviaria Bari-Taranto-Reggio Calabria, verso il porto di Baricominceranno ad affluire quantità sempre crescenti di olio dell’area ioni-ca, tradizionalmente indirizzato verso i porti di Gioia Tauro e di Taranto.

A completamento del quadro delle infrastrutture, bisogna sottoli-neare la conquista del primato del porto di Bari, che si afferma primasu quelli della provincia, numerosi e per lo più di pari traffico sinoalla prima metà dell’Ottocento, e poi su quelli della regione. Un prima-to, questo, che si era già delineato prima dell’Unità, quando, sia per leinnovazioni nella conduzione degli uliveti, sia soprattutto per l’intro-duzione del “torchio alla Ravanas” in molti centri della conca barese si

Bari

Censimento del 1873 della rete viaria e ferroviaria: verso Bariconvergono già tutte le linee non solo provinciali ma anche nazionali(da G. Carlone, Un architetto per il borgo, Schena editore, Fasano 1984, p. 19)

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ottenevano oli fini di altissima qualità, che, assai richiesti sui mercatidell’Italia settentrionale e d’Europa, naturalmente affluivano a Bari.Oltretutto, le tecniche di miscelazione, che i grandi mercanti baresipraticavano nei loro magazzini, consentiva di migliorare con gli oli finiquelli di qualità più scadente del Salento e dell’area di Monopoli.

Il porto di Bari, all’interno del quale si praticavano i prezzi più alti dellaregione, ebbe così una crescente capacità di attrazione e diventò ben pre-sto la piazza principale del commercio nazionale ed internazionale del-l’olio, la cui produzione, anche per le numerose attività industriali ad essacollegate, costituiva la voce più importante dell’economia pugliese.

A favorire la conquista del primato del porto di Bari contribuì cer-tamente lo spirito di iniziativa di alcuni giovani imprenditori localiche, fermamente convinti degli effetti benefici nei trasporti della “ri-voluzione del vapore” e forti di una assidua frequentazione dei mer-cati esteri, costituirono nel 1876 la “Società anonima di navigazionea vapore della Puglia”, che già nel 1888 disponeva di una flotta di 11navi e, al pari di società straniere presenti a Bari, animava un import-export con i principali porti dell’Adriatico, dell’Inghilterra, del MarNero e dell’America del Sud.

Gli altri porti della regione, che non furono tempestivi nell’adeguarsialla rivoluzione intervenuta in tutta Europa nei mezzi di trasporto marit-timo, restarono, per lo più, fermi alla navigazione a vela e di piccolo cabo-taggio o, come nel caso di Brindisi, furono destinati ad essere prevalente-mente scalo di transito per grandi compagnie straniere. Quando Mono-poli, Brindisi e Taranto, rispettivamente nel 1898, nel 1900 e nel 1905,cercheranno anch’esse di dotarsi di nuove compagnie di navigazione concapitale locale, non riusciranno ad intaccare il primato che la “SocietàPuglia” aveva nel traffico nazionale ed internazionale.

Una città più dinamica, interessata ai nuovi processi industrialiUn altro elemento fondamentale che permise a Bari di conquistare il

ruolo di città guida della Puglia è dato dalla diversificazione delle sueattività produttive e, dunque, della sua articolazione sociale, che presentaun indubbio carattere di modernità all’interno del panorama regionale.

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TONNELLAGGIO DELLE NAVI ARRIVATE E PARTITE ERISCOSSIONI IN LIRE DI CONTO DOGANA E DIRITTIMARITTIMI NEI PORTI DI BARI, BRINDISI E TARANTO

1852-53 1865-71 1973-79 1881-87Tonnellaggio Tonnellaggio/diritti Tonnellaggio/diritti Tonnellaggio/diritti

Bari 46.096 150.255/1.310.154 368.184/1.876.751 946.254/2.875.551

Brindisi 132.385 335.898/ 291.732 843.437/ 535.653 1.330.919/ 791.892

Taranto 59.354 91.119/ 211.607 155.462/ 334.922 275.166/ 850.565

I dati della tabella mettono in evidenza sia il superiore tasso di crescitadel tonnellaggio movimentato nel porto di Bari, sia soprattutto l'affluenzadi merci molto pregiate che danno luogo alla riscossione di somme assai piùalte di quelle degli altri due porti messi insieme.

(Da B. Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna,in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Puglia, a cura di L. Masella e B. Salvemi-

ni, Einaudi, Torino 1989, p. 199)

PERCENTUALI DI OLIO D'OLIVA ESPORTATODAI PRINCIPALI PORTI DI TERRA DI BARI

Fine Settecento 1835-39 1861-65 1877-78 1887-88

Bari 27% 38% 63% 86% 76%Monopoli 27% 28% 13% 4% 7%Molfetta 27% 20% 14% 8% 8%Bisceglie 9% 5% 2% 1% 4%Altri 10% 9% 8% 1% 5%

(Da A. Massafra, Produzione, commercio e infrastrutture nel decollo di Bari, in F. Tateo (acura di), Storia di Bari. L'Ottocento, Laterza, Bari 1984, p. 120)

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Nella tabella della pagina qui a fianco spiccano due dati, rivelatori delmaggiore dinamismo dell’articolazione sociale di Bari: il 12,3% degli ad-detti all’agricoltura e alla pastorizia e il 64% di quelli dell’industria, com-mercio, trasporti. Si tratta di percentuali uniche nel panorama regionale,molto più vicine alle città italiane più sviluppate di quanto lo fossero quelledi Barletta, che a metà Ottocento aveva tentato di insidiare il primatocommerciale di Bari, ma anche di quelle di Lecce, Taranto e Foggia.

A caratterizzare la maggiore dinamicità di Bari contribuì in mododeterminante l’avvio di nuove attività industriali, che, pur continuan-do ad essere inferiori a quelle commerciali gravitanti intorno al porto,ebbero dopo la crisi agraria una significativa fase di espansione. Anzi,fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si diffuse all’internodella classe imprenditoriale la convinzione che le prospettive dello svi-luppo complessivo della città dovessero essere legate ad una produzio-ne industriale capace non solo di soddisfare i bisogni locali, ma anchedi alimentare una intensa attività di esportazione. Furono quelli gli anni

Il primato industriale di Bari

Il delinearsi del primato industriale di Bari non solo sulle città pugliesi, maanche su quelle di tutta l’Italia meridionale, è qui presentato in modo incisivo dallaDi Ciommo.

Sullo scorcio del nuovo secolo la città andò invece progressivamenteassumendo un’impronta più decisamente industriale, da rimarcare so-prattutto per il contrasto con l’iniziale alto grado di arretratezza. Dalraffronto tra la prima specifica statistica industriale elaborata nel 1903 acura della locale camera di commercio ed il primo censimento degli opi-fici del 1911 emerge - pur con le riserve d’obbligo in tale genere diraffronti - che nel corso di meno di un decennio il numero delle impresesi era quadruplicato e quello degli addetti triplicato. La popolazione in-dustriale passò da 3.870 a 13.923 unità, e cioè dal 4,9% al 13,07%dell’intera popolazione cittadina; percentuale di rilievo, anche se netta-

L’interpretazione dello storico

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PERCENTUALI DELLA POPOLAZIONE ATTIVAIN PUGLIA E IN ALCUNE SUE CITTÀ NEL 1901

Puglia Bari Barletta Bitonto Foggia Taranto Lecce

Agricolturae pastorizia 64,7 12,3 53,8 67,7 38,7 23,4 22,1

Pesca e caccia 0,8 0,6 0,2 0,1 - 6,0 -

Navigazione 0,8 3,0 2,7 1,2 - 1,1 0,1

Industria, com-merci, trasporti 27,1 64,0 34,3 24,5 45,1 46,7 52,6

Professioni, pub-blico impiego 6,3 19,4 8,7 6,5 15,7 22,2 22,8

Servizio a domicilio 0,2 0,7 0.2 0,05 0,4 0,5 2,4(Rielaborazione di dati presenti in B. Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in

età moderna, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Puglia, a cura di L. Masella e B. Salvemini,Einaudi, Torino, p. 199)

mente inferiore a quella dei grandi centri del nord quali Milano, Torinoe Genova, ove gli addetti alle industrie manifatturiere costituivano ri-spettivamente il 25,47%, il 22,51% ed il 14,25% della popolazione.Alla data del primo censimento degli opifici, fra le città capoluogo diprovincia del Mezzogiorno Bari era quindi quella dotata della maggiorpercentuale di addetti all’industria sul complesso della popolazione; se-guita a distanza da Napoli (8,2%) da Trapani (7,98%) da Salerno (6,69%)da Cagliari (5,88%) da Reggio Calabria (5,40%) da Palermo (4,74%)da Catania (4,14%) ed infine da Messina (2,52%). Certo, una parteconsistente delle attività manifatturiere veniva svolta nelle forme tipichedel piccolo artigianato, del lavoro a domicilio, di piccole officine checosì costituivano numericamente la fascia più numerosa di imprese efornivano lavoro ad un totale di 5.156 addetti. Ma andava delineandosiuna tendenza all’aumento delle dimensioni aziendali ed alla concentra-zione produttiva, come attesta la circostanza che il 61,15% della popola-zione industriale trovava ormai impiego nelle centosettantuno impreseche impiegavano più di dieci addetti.

(E. Di Ciommo, op. cit., pp. 281-82)

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in cui sempre più si parlò di un “risorgimento economico” che, avviatoda Bari, si sarebbe poi irradiato in tutta la regione.

In effetti, la percentuale della popolazione attiva impegnata nell’in-dustria, pur mantenendosi lontana da quelle di Torino e di Milano,ebbe un notevole aumento, e si registrò una sensibile affermazione sulmercato nazionale e internazionale di specifici prodotti di alcuni nuoviopifici baresi, avviati o riorganizzati grazie soprattutto agli investimentidi capitali locali e, in misura inferiore, a quelli stranieri che, del resto,avevano nell’apparato industriale cittadino una presenza più antica.

Settori come quelli della lavorazione del legno, della produzione

Cartolina di inizio ’900 di un cementificio barese. Fra Ottocento e Novecento,in concomitanza con l’espansione edilizia, si insediarono nell’area industrialedi Bari, che andava dalla zona del porto all’estramurale Capruzzi, diversi opi-fici per la produzione di materiali per l’edilizia, all’interno dei quali si affermòquello della ditta De Filippis, che, con più di 200 dipendenti, si era impostaanche sul mercato estero con prodotti di lusso (marmette in mosaico alla vene-ziana per pavimenti di lusso, vasi, statue e strutture architettoniche varie).

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dell’olio al solfuro, disapone, di carte dagioco, di sigari e siga-rette erano assai com-petitivi sul mercato,ma buono era ancheil livello di produzio-ne delle officine mec-caniche, fra le qualiprimeggiava lo stabi-limento “Lindeman”,dei cotonifici e degliimpianti per la pro-duzione del materialedi edilizia.

In sintonia con inuovi processi indu-striali e commercialiavviati, non fu un casoche gli esponenti del-la classe dirigente ba-rese, a differenza diquella del leccese edella Capitanata, co-minciassero a distac-carsi dalla difesaaprioristica di un libe-rismo che sempre piùappariva astratto e

poco adatto alla nuova realtà e a ritenere indispensabile l’intervento e ilconcorso dello stato in quelle infrastrutture e servizi che potessero assi-curare lo sviluppo dell’intero territorio regionale.

Pur restando all’interno del liberismo, e sempre attenti a distinguer-si da “coloro che per provvedere alla propria neghittosità attendono

Locandina pubblicitaria di fine Ottocentodello “Stabilimento di cera lavorata” dei

“Fratelli De Leonardis”, impegnato anchenella produzione di carte da gioco

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Il problema dell’acqua visto già con gli occhi della capitaleEmblematico della nuova mentalità della classe dirigente ed impren-

ditoriale barese fu l’atteggiamento da essa assunto durante il faticoso econtrastato iter per la costruzione dell’acquedotto pugliese, per la cuisoluzione Bari seppe muoversi con un’ottica ed un respiro regionale, con-fermando così di pensare e muoversi con la mentalità di una capitale.

Sino agli anni Ottanta il problema dell’acqua, tragica emergenzaper tutta la Puglia, era stato affrontato con un’ottica locale, per cui ogniprovincia aveva ipotizzato interventi circoscritti al proprio territorio.Del resto, il Salento, ricco di pozzie falde acquifere superficiali, si ri-teneva che avesse risorse idricheautosufficienti, mentre in Capi-tanata era forte l’opposizione deigrandi cerealicoltori alla realizza-zione di acquedotti che avrebbe-ro potuto assicurare l’irrigazionedei campi e l’avvio di profondetrasformazioni tecniche e coltu-rali. Un contributo determinanteal superamento di questa imposta-zione si ebbe nel 1887, con la pre-sentazione nel consiglio provincia-le di Bari del progetto Zampari,che, riprendendo una preceden-te proposta di Camillo Rosalba diutilizzare le acque del Sele, preve-deva una rete idrica che servissein un primo tempo i 53 comuni

tutto dallo stato”, una parte rilevante dell’imprenditoria barese finì colconvincersi che “poco o nulla si può fare senza il concorso, senza l’inte-grazione dello stato”, il cui compito, anzi, è proprio quello di colmare “ilimiti delle forze regionali”.

L’ing. Francesco Zampari

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della Terra di Bari e17 comuni dellaCapitanata, e poi ilSalento.

Nel 1888 si ten-ne a Bari un incon-tro fra gli ammini-stratori delle tre pro-vince della Pugliaper un’analisi delprogetto, e soprat-tutto per la costitu-zione di un consor-zio regionale cheavrebbe dovuto as-sicurare i fondi perla realizzazione del-

l’acquedotto. L’incontro, però, si risolse in un nulla di fatto, poiché, adispetto degli unanimi giudizi positivi sul progetto Zampari, fallì il ten-tativo degli amministratori baresi di impostare il problema su basi re-gionali: il consorzio, premessa necessaria per l’avvio dei primi passi con-creti, non si costituì per l’indisponibilità delle Deputazioni di Lecce edi Foggia che, anzi, dissociandosi da quella di Bari, avviarono proprietrattative con l’ingegner Zampari.

Maturò, così, all’interno della classe dirigente barese una svolta:quello dell’acqua in Puglia è un problema nazionale che, dunque,deve essere risolto col protagonismo e il fondamentale concorso dellostato. Il 4 giugno 1889 gli onorevoli Imbriani e Bovio, protagonistidella svolta, presentarono una proposta di legge che chiedeva l’as-sunzione di responsabilità dello stato perché finalmente l’acquedottoin Puglia divenisse realtà.

Certo, la risposta del governo Crispi, contrario ad investimenti sta-tali in opere che erano ritenute di sola competenza privata, raggelòogni speranza, ma da quel momento in poi la carenza dell’acqua in

Matteo Imbriani (a sinistra) e Giovanni Bovio

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Puglia sarà sempre considerata una questione nazionale. Quando conZannardelli prima e soprattutto con Giolitti poi cambieranno gli orien-tamenti programmatici della politica economica governativa e lo statovarerà importanti provvedimenti a favore del Mezzogiorno, impegnan-dosi direttamente in grandi opere pubbliche, spetterà proprio al bare-

Matteo Renato Imbriani, paladino dell’acquedotto pugliese

A impostare il problema dell’acqua per le popolazioni pugliesi comeproblema nazionale fu soprattutto Matteo Renato Imbriani (Napoli1843-Roma 1901), che nel 1899 fu eletto alla Camera dei deputati nelsecondo collegio di Bari. Già giovane luogotenente di Garibaldi ai tempidella spedizione dei Mille, mazziniano di sinistra, Imbriani venne can-didato su proposta di Giovanni Bovio sia per il suo ruolo di primopiano nell’irredentismo italiano, che in quegli anni era particolarmentevivo a Bari per via degli intensi rapporti commerciali alimentati dallaSocietà di Navigazione “Puglia” con Trieste e l’Istria, sia per essere l’espo-nente più noto a livello nazionale del fronte di opposizione a Crispi,che non godeva presso la classe politica locale di molti consensi, so-prattutto dopo che questi aveva destituito il prefetto Pavolini, resosicolpevole ai suoi occhi per non aver represso la manifestazione antigo-vernativa svoltasi a Bari nel febbraio del 1889.

Erano, quelli, anni molto delicati della vita politica ed economicadella Puglia e della Terra di Bari, dove gli effetti della crisi e il malcon-tento popolare spesso davano luogo a spontanee manifestazioni di pro-testa antigovernativa, che appunto da Imbriani furono per la primavolta inquadrate in una prospettiva politico-istituzionale. Del resto,già il suo primo intervento alla Camera il 10 maggio 1889 sugli effettidella crisi agraria in Puglia (di cui abbiamo riproposto alcuni stralci allepagine 36 e 37) pose la questione del superamento della neutralità delloStato di fronte alla miseria delle popolazioni pugliesi.

Il nome di Imbriani, però, è legato alla battaglia che egli ben prestointraprese per la costruzione di una moderna rete idrica in Puglia. Il 4

Protagonisti

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giugno 1889, intervenendo per presentare alla Camera una proposta dilegge per la costruzione dell’Acquedotto Pugliese, di cui egli era secon-do firmatario dopo l’onorevole Bovio, Imbriani esordì affermando:“Vengo dalla Puglia assetata d’acqua e di giustizia”, parole che per oltreun ventennio costituirono l’emblema del movimento popolare puglie-se; proseguì, poi, richiedendo per un quinto del costo totale dell’operal’intervento dello stato, come, peraltro, era già avvenuto a Napoli conla realizzazione dell’acquedotto del Serino.

Davanti alla irremovibilità di Crispi, fermo a difficoltà di naturaburocratica e tecnica, e soprattutto al tabù liberista della impossibilitàdi investimenti diretti dello stato in materia, Imbriani denunciò i verimotivi che, a suo parere, sino a quel momento avevano diviso le pro-vince pugliesi e paralizzato ogni soluzione: i “concessionari che hannobrigato e brigano presso il governo”, le opposte sollecitazioni “perché laconcessione non fosse data”, i “guadagni del 6 e dell’8 per cento e diindividui pronti a mettersi in mezzo per prendersi la mezzadria”.

In quella seduta della Camera la proposta di legge non fu neppurepresa in considerazione, ma Imbriani e Bovio continuarono negli annisuccessivi a porre il problema dell’acqua come grande questione naziona-le e a ricercare il consenso di deputati non pugliesi. Infatti, il 2 luglio del1890 fu finalmente discusso alla Camera un nuovo disegno di legge sul-l’acquedotto pugliese, che vedeva come primi firmatari due deputati ca-labresi, uno dei quali era stato anche ministro, e un deputato di Vercelli,e solo come ultimi Imbriani e Bovio. Era, questa, la prova migliore che“la sete della Puglia” riguardava l’intera nazione. Giovanni Giolitti, alloraministro del Tesoro, in rappresentanza di Crispi così concluse il dibatti-to: “Il solo impegno che il governo può prendere è quello di studiare laquestione”. Non era molto, ma finalmente lo stato italiano poneva lepremesse per un ripensamento della sua politica economica.

se Nicola Balenzano, ministro dei Lavori Pubblici dal 1902 al 1903, diproporre la legge per l’acquedotto pugliese.

A nulla valsero le accuse di statalismo e la violenta campagna di stampaantibarese lanciate durante la prima fase dei lavori per la costruzionedell’acquedotto dalla classe dirigente leccese, che in questo modo ten-

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tava di reagire alla posizione di marginalità a cui sembrava essere con-dannato il capoluogo, anche per lo sviluppo di Brindisi e Taranto all’in-terno della Terra d’Otranto. Bari, ormai, si presentava oggettivamentecome paladina dell’intero sviluppo regionale e delle istanze più profon-de dei Pugliesi, ai quali l’arrivo dell’acqua avrebbe consentito una qua-lità di vita decisamente più umana.

L’acqua sta per arrivare!

Michele Viterbo (1890-1973), testimone oculare dell’arrivo dei primigetti di acqua nel 1915 a Bari e in provincia, mette qui in evidenza ilvalore epocale che avrebbe avuto per le popolazioni pugliesi l’acquedotto.

Le generazioni future non potranno neppure lontanamente farsi un’i-dea di ciò che volevan dire in quegli anni, nelle nostre città, nei nostripaesi, queste frasi semplicissime: “l’acqua sta per arrivare”, “l’acqua arri-va!”. Ma già chi non ha visto “le scene della sete”, chi non ricorda ciò cheaccadeva intorno ai pozzi e alle cisterne in periodi di siccità, chi non haconosciuto il martirio di intere popolazioni quando il cielo negava lapioggia, non può attribuire alle comunissime fontanine di oggi il valore,il significato che invece hanno. Quando nelle città e nei paesi si giungevaalla vigilia dell’inaugurazione dell’acquedotto, la vita si arrestava. E pervedere il magico zampillo della prima fontanina, la gente veniva dai rionilontani e dalle campagne, si assiepava fin sui tetti, brulicava nelle strade;e quando l’acqua finalmente sgorgava, era una esplosione di giubilo chenessuno può riuscire a descrivere. Era la fine di un sinistro incubo, eral’inizio di una vita nuova. Forse mai Iddio è parso vicino, presente alcuore del nostro popolo come quando l’acqua del Sele è zampillata dallaprima fontanina, paese per paese. L’acqua che non veniva dal cielo, don-de per secoli e secoli era stata attesa, invocata, implorata, sgorgava dallaterra, giungeva attraverso numerosi canali […]. In fondo, la ciclopicaopera dell’Acquedotto Pugliese merita, è vero, di essere descritta con ta-vole illustrative e calcoli statistici da tecnici sapienti; ma soprattutto me-rita di essere cantata da un poeta.

(M. Viterbo, La Puglia e il suo acquedotto, Laterza, Bari 1991, pp. 259-60)

L’interpretazione dello storico

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La Domenica del Corriere dell’8 agosto 1904 dedica la copertina al problemadell’acqua in Puglia, raffigurando la scena della vendita dell’acqua a Bari in Piazza

Mercantile; sopra a destra: l’acquaiolo disseta alcuni contadini (foto inizio ’900);sotto: donne pugliesi attingono l’acqua ad una cisterna pubblica (foto inizio ’900).

Bari, 25 aprile 1915: dalla fontana di piazza Umberto zampillaper la prima volta l’acqua del Sele. Finalmente l’Acquedotto Pugliese è una realtà

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Si costruisce una nuova cittàLa centralità conquistata da Bari prima all’interno del territorio

provinciale e poi di quello regionale non poteva non essere accompa-gnata da un forte incremento demografico e da una nuova espansio-ne urbanistica.

Fra il 1901 e il 1911 il capoluogo barese passò da 78.341 a 103.168abitanti, con un incremento demografico del 32,7% che, fatta eccezioneper Foggia, da cui peraltro non era mai venuta una minaccia al suo pri-mato, fu superiore a quello di tutte le città pugliesi e di tante altre sia delMezzogiorno (22% a Napoli) sia dell’Italia settentrionale (26% a Torino,22% a Milano). Anche il nuovo aumento di popolazione, a fronte delminore tasso di crescita e persino del decremento di molte città di Terradi Bari e della Puglia, ridotti ormai al ruolo di centri minori o di provin-cia, contribuì a consolidare sempre più il ruolo guida di Bari.

A determinare nel decennio l’alto tasso di incremento demografi-co, infatti, contribuì in modo determinante il continuo flusso immi-gratorio proveniente dalla provincia e dalla regione. Furono soprat-tutto i professionisti, i commercianti e numerosi artigiani, ma ancheintellettuali ed esponenti delle élites aristocratiche a stabilirsi a Bari,attratti i primi dalla forte ripresa del commercio e dalle nuove attivitàindustriali, i secondi dalla più vivace e ricca vita socio-culturale. Nonmancò neppure una consistente immigrazione di operai e braccianti

La pianta di Bari e dell’area portuale nel 1860 (a sinistra) e nel 1874

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che, sfuggendo al dramma dell’emigrazione transoceanica che colpi-va pesantemente i paesi interni, riuscivano a trovare lavoro nel capo-luogo barese.

Fra Ottocento e Novecento il panorama della città risultò mutato inmodo significativo: la “febbre di costruire” non solo determinò una ulte-riore espansione del tessuto urbano, ma si andò delineando una più mar-cata differenziazione fra le aree dell’estramurale, occupate dagli opificiindustriali, i periferici quartieri popolari, la tradizionale zona murattiana,a cui ora si contrapponeva il nuovo centro di piazza Cavour.

In particolare, la nuova borghesia industriale e commerciale, giu-dicando Bari una città “monotona e sprovvista di edifizi di veduta” alcontrario di tante altre città che, invece, “si spingono ad opere di ab-bellimento”, da un lato promosse una tipologia edilizia più varia edignitosa anche sotto il profilo dell’estetica, come è testimoniato, adesempio, dal palazzo Fizzarotti, divenuto attrazione turistica già pri-ma che fosse completato; dall’altro mirò all’affermazione di un nuovocentro economico e socio-culturale gravitante intorno alla Cameradi Commercio e al Teatro Petruzzelli che, essendo per dimensione ilquarto d’Italia (dopo il “S. Carlo” di Napoli, il “Massimo” di Palermoe la “Scala” di Milano), faceva di Bari una delle capitali della musica edel teatro.

Insomma, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Bari

La pianta di Bari e dell’area portuale nel 1880 (a sinistra) e nel 1939

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L’inaugurazione del Teatro Petruzzelli

Sulla inaugurazione del Teatro Petruzzelli, la sera del 14 febbraio 1903,abbiamo una cronaca dettagliata nel numero unico di L’arte e la scena, chesi sofferma sulla importanza e sulla imponenza della nuova struttura, met-tendo in risalto come essa fosse stata possibile grazie all’iniziativa del capita-le privato di due Baresi (Onofrio e Antonio Petruzzelli).

Alla luce dei tempi biblici (ben 18 anni!) che sono stati necessari perriaprire il Teatro Petruzzelli dopo il tragico incendio del 27 ottobre 1991,non può non destare stupore la constatazione che furono sufficienti solo 4anni e 5 mesi per costruire l’imponente struttura del politeama barese.

Il colossale edificio, la sirena incantatrice, sorge a Piazza Cavour.Esso prende il nome dai due ardimentosi fratelli, che in un momento

di genio vollero arricchire la regina delle Puglie di un monumento desti-nato a primeggiare fra tutti i teatri d’Italia.

Da più tempo Bari vagheggiava l’erezione di un Politeama, ma maifuvvi alcuno che, interpretando i desideri della cittadinanza, si fosse mes-so all’opera. Restava quindi un pio desiderio nell’animo dei nostri con-cittadini, i quali fortemente volevano che il loro sogno si realizzasse, iloro desideri venissero appagati.

Trattavasi di erigere un’opera colossale, la quale importava spese in-genti e quindi ognuno indietreggiava nella grande impresa.

La prima pietra destinata a dar principio all’edificio che doveva immor-talare i fratelli Petruzzelli ed il cognato loro, cav. Messeni ing. Angelo (pro-gettista e direttore dei lavori del teatro, ndr), fu posta il 20 giugno 1898 eprincipio alla costruzione è stato dato il 20 luglio dello stesso anno.

La felice disposizione dei palchi e di tutti gli altri posti comuni nonpotrà mai cagionare lagnanze da parte degli spettatori ed in modo specia-le per quanto riguarda la visuale del palcoscenico […].

Documenti

si era notevolmente differenziata da tutte le altre città pugliesi e, so-prattutto, si era dotata di strutture e servizi che la impegnavano apensare e a muoversi in termini generali, come si conveniva, appun-to, alla capitale di un territorio regionale.

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Bari: il complesso del Teatro Petruzzelli in una fotocommemorativa dell’inaugurazione del 14 febbraio 1903

La divisione del teatro è fine-mente ideata, poiché mentre al-l’esterno è composta di 3 soli piani,all’interno è diviso in 6 ordini. Laplatea è coperta da una gran cupolametallica rivestita di piombo, laquale, sormontata nel centro da uncupolino formato di cristalli, servea dar luce ed estetica. Nell’internodella cupola vi è una controcupolain legno rivestita di rete metallica astucco su cui il genio del pittore Ar-menise ha dipinto quattro quadri.Il palcoscenico occupa la superficiedi 650 metri quadrati.

Nella parte posteriore dell’edi-ficio vi è una rampa in muraturaper l’accesso delle carrozze e dei ca-valli che possono entrare a far par-te degli spettacoli.

(P. Anaclerio, L’arte e la scena, Bari

1903, Numero unico, pp. 1-2)

Locandina del 17 gennaio 1903 che annuncial’inaugurazione del Teatro Petruzzelli e ilprogramma della prima stagione lirica.

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Lo sviluppo di Brindisi e Taranto e il declino di LecceLe dinamiche sin qui analizzate a proposito sia dell’espansione del-

l’agricoltura e del commercio dopo l’unità d’Italia sia della crisi agrariaincisero profondamente e contribuirono in modo notevole a diversifi-care il quadro complessivo della Puglia. Alla fine dell’Ottocento, infat-ti, la regione presentava al suo interno tre distinte realtà economiche,caratterizzate da interessi e progetti politici divergenti: nella macro areacentrale, costituita dal triangolo Bari-Brindisi-Taranto, si registravanoprocessi rilevanti di industrializzazione; a sud l’agricoltura del Salentodiveniva sempre più marginale e finalizzata al consumo della popola-zione locale; a nord, in Capitanata, era ormai assai diffuso il processo ditrasformazione capitalistica dell’agricoltura.

All’interno di questo nuovo quadro della Puglia divenne sempre piùimproponibile la compresenza di Brindisi e di Taranto nell’unica e tradi-zionale provincia della Terra d’Otranto e, per di più, sotto l’egemonia diLecce, che sempre più appariva come capoluogo antico ed anacronistico.

In particolare, Taranto non solo già dal 1861 superava il capoluogodi oltre 10.000 abitanti, ma essa, in concomitanza con l’avvio nel 1882dei lavori per la costruzione dell’Arsenale militare, ebbe un lungo pro-

Brindisi, inizi ’900: Porta Lecce

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cesso di espansione edilizia e di incremento, tanto che nel 1921 la suapopolazione era più che doppia rispetto a quella di Lecce (104.379rispetto a 39.556).

Già una tale sproporzione demografica rendeva oggettivamenteimpossibile la conservazione delle tradizionali gerarchie territoriali al-l’interno della Terra d’Otranto, ma a mettere in crisi gli antichi equili-bri di potere economico e politico nella provincia contribuì in modonotevole il delinearsi di Taranto come grande polo industriale in Italiameridionale. Infatti, l’Arsenale Militare, voluto dallo stato italiano al-l’interno della sua politica diplomatica e coloniale mirante ad un ruolodi protagonismo all’interno del Mediterraneo e dell’area medio-orien-tale, determinò una intensa e vivace fase di industrializzazione, che fuulteriormente alimentata alla vigilia della prima guerra mondiale dal-l’arrivo di consistenti investimenti privati di un gruppo di imprendito-ri lombardi per la costruzione dei cantieri navali “Franco Tosi”.

Nonostante i numerosi tentativi della classe dirigente napoletana,preoccupata del declino dell’antica capitale del Mezzogiorno, di con-trastare la scelta di Taranto come sede dell’Arsenale Militare, il capo-luogo ionico divenne ben presto il centro dell’intera industria cantieri-

Taranto: il ponte girevole, inaugurato il 27 maggio 1887

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stica e navale di tutta l’Italia meridionale. Naturalmente, il tessuto in-dustriale della città non era determinato soltanto dagli imponenti im-pianti meccanici dell’Arsenale e, in seguito, dei cantieri “Franco Tosi”,ma anche da un indotto capillare di medie e grandi aziende che eranolegate e subordinate alla produzione cantieristica e navale.

La fase di accelerata industrializzazione di Taranto, con il conseguentee vertiginoso inurbamento e la tumultuosa espansione edilizia, richiama-no in qualche modo il caso di Bari, prevalentemente per i tempi e perl’intensità dei processi, mentre notevoli sono le differenze: nella città ioni-ca, infatti, l’industrializzazione fu indotta dall’intervento statale, non ebbealcun rapporto con la produzione dell’entroterra agricolo, e non fu ali-mentata e sostenuta da un omogeneo ceto mercantile, ma da “figure spu-

Lecce e lo sviluppo bloccato

Anna Lucia Denitto mette in luce come agli operatori economici piùattenti di Lecce, che però appaiono segnati da un senso di impotenza, nonsfuggano i tre grandi nodi – “costo del denaro, organizzazione commerciale,trasporti”– della decadenza della loro città, che sino agli inizi dell’Ottocen-to era stata uno dei più importanti centri del Regno di Napoli.

Come dipanare “la gran matassa arruffata” dell’economia cittadina chelangue in tutti i settori? Come progettare lo sviluppo di Lecce, un tempofiorente centro commerciale e ora caratterizzata da un’agricoltura scarsa-mente produttiva, dall’assenza quasi totale di attività industriali e da li-mitate iniziative commerciali?

Da questi interrogativi partono all’inizio degli anni Ottanta dell’Ot-tocento gli operatori economici più attenti della città, sempre più consa-pevoli che il capoluogo si sta allontanando non solo dalle aree forti dellosviluppo capitalistico dell’Europa e dell’Italia settentrionale, ma anchedai centri urbani limitrofi. Essi guardano in particolare a Bari, dove at-torno al commercio marittimo si sono formate e irrobustite forze locali

L’interpretazione dello storico

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rie, di promoters oscillanti tra la vecchia aristocrazia e borghesia fondia-ria e l’industria edilizia dei grands travaux industriali e infrastrutturali”.

Non solo Taranto, ma anche Brindisi si andò differenziando dall’an-tico capoluogo della Terra d’Otranto. Significativi progressi furono re-alizzati per tutto l’Ottocento non solo nell’agricoltura, ma anche nelcommercio: in particolare, le campagne del brindisino, grazie ancheall’investimento di capitali lombardi e all’introduzione di macchineagricole, si erano trasformate progressivamente da “steppe deserte epaludose”, come venivano ancora qualificate nel primo Ottocento, inuliveti, vigneti e seminativi di ottima qualità, alimentando così un fio-rente commercio di esportazione che, ovviamente, ebbe nel porto diBrindisi il suo centro di promozione.

che autonomamente si muovono nell’Adriatico. A Lecce e nella sua pro-vincia, invece, la risorsa “mare” è quella meno sfruttata, come dimostra lamancanza di un ceto locale di commercianti armatori.

Ancora più desolante è il livello delle attività agrarie, che presentano itratti dominanti dell’abbandono e della scarsa produttività. Nemmenoil ricorso alla vignetazione riesce a invertire le tendenze di fondo del siste-ma economico salentino, basato su un’agricoltura sostanzialmente arre-trata, su una presenza subalterna e congiunturale nel mercato internazio-nale, su una rete commerciale controllata da un numero crescente di “sen-sali e mediatori” forestieri, sull’assenza di attività industriali, ad eccezionedi alcune modeste iniziative a carattere artigianale.

Gli ostacoli principali allo sviluppo sono individuati dai contemporaneinell’esistenza in città di notevoli ricchezze concentrate in poche mani, nellascarsa propensione all’investimento da parte dei ceti proprietari, nella man-canza assoluta di denaro a buon mercato, oltre che nella carenza delle infra-strutture viarie. La provincia di Lecce non avrebbe “bisogno di capitali esterio di altre provincie” se una parte soltanto della “ricchezza di rendita inscrit-ta sul gran libro del debito pubblico” o dei “milioni che circolano in cartel-le al portatore” fosse utilizzata a favore dell’agricoltura e dell’industria.

(A. L. Denitto, Proprietari, mercanti, imprenditori tra rendita e profitto, in Storia diLecce, Laterza, Bari 1922, pp. 129-130)

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Ma a vivacizzare la re-altà economica e socialedella città contribuì inmodo determinante unevento internazionale:l’apertura nel 1869 delCanale di Suez, destinatoben presto a modificare levie del commercio inter-nazionale e a incrementa-re i trasporti mare-terrasoprattutto fra l’Europa el’estremo Oriente (India,Cina, ecc.). Brindisi si tro-vò cosi al centro di unaimponente quota del com-mercio e del turismo inter-nazionale e il suo porto di-venne ben presto un inso-stituibile scalo di passaggioe di smistamento delle più importanti compagnie di navigazione, fra lequali si segnalavano la Peninsular and Oriental Steam Navigation Com-pany, che era la più grande dell’Europa, e la Valigia delle Indie, chetrasportava persone, merci e posta da Londra a Bombay.

Quando alla vigilia della prima guerra mondiale, per le mutate condi-zioni internazionali, entrerà in crisi il commercio mare-terra, e il porto diBrindisi, non potendo più svolgere il suo ruolo di cerniera fra l’Europadel Nord e l’Oriente, subirà un inevitabile declino, verranno a mancarealla città alcune importanti sollecitazioni esterne al suo sviluppo.

Davanti allo sviluppo di Taranto e Brindisi, la classe dirigente di Lec-ce reagirà tentando di mantenere ancora nelle proprie mani il control-lo dell’intera provincia e opponendosi all’interno del consiglio provin-ciale ad ogni opera pubblica che in qualche modo potesse attestare iprocessi di espansione delle due città.

Lecce, inizi ’900: Piazza S. Oronzo

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In realtà, l’antica capitale della Terra d’Otranto era stata caratteriz-zata per tutto l’Ottocento da dinamiche demografiche ed economichediverse da quelle di Brindisi e Taranto, oltre che da quelle di Bari.

La città, infatti, non aveva tenuto il passo con le profonde trasforma-zioni produttive e sociali avvenute nell’alto Salento e in Terra di Bari,aveva visto decadere il suo tradizionale ruolo mercantile e, conseguen-temente, aveva ormai assunto una posizione del tutto marginale rispet-to ai tempi e alle direttrici dello sviluppo nazionale e alle nuove correntidel traffico internazionale.

4. L’EDITORIA E IL NUOVO SISTEMA DI INFORMAZIONE

Verso una svolta radicalePerché in Puglia si realizzasse una svolta radicale nel sistema dell’edito-

ria e dell’informazione era necessario che si verificassero soprattutto trecondizioni: il distacco da Napoli, che aveva rappresentato per secoli l’uni-co punto di riferimento in campo culturale per ognuna delle tre provin-

LA POPOLAZIONE DEI CAPOLUOGHI PUGLIESI,DELLA PUGLIA E DELL’ITALIA DAL 1861 AL 1921

1861 1871 1881 1901 1911 1921

Bari 44.572 61.541 72.624 94.236 121.633 136.247

Brindisi 9.137 13.552 16.618 23.106 25.692 35.440

Foggia 31.562 36.837 40.648 53.134 75.648 66.772

Lecce 15.594 23.301 25.441 32.029 34.958 39.556

Taranto 26.163 25.012 31.630 56.190 65.238 104.379

Puglia 1.334.619 1.440.079 1.608.766 1.986.806 2.195.335 2.365.169ITALIA 22.176.586 27.300.086 28.951.545 32.963.316 35.841.613 39.396.757

(Da Dino Borri, Lo spazio polarizzato, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La

Puglia, Einaudi, Torino 1989, pp. 492-93)

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ce pugliesi; il passaggio nella opinione pubblica e nella coscienza colletti-va dal concetto delle tre Puglie (Terra d’Otranto, Terra di Bari e Capita-nata, intese come aree culturalmente ed economicamente diverse e di-vergenti) a quello unitario di Puglia; l’accettazione di un nuovo centroche, per la sua capacità di essere motore di processi economici e culturalidi respiro generale, potesse provocare sviluppo in tutto il territorio regio-nale, ridimensionando, così, gli esasperati localismi e gli interessi partico-lari, di cui spesso nel passato erano stati portatrici le tre storiche province.

Sia il passaggio “dalle Puglie alla Puglia”, sia l’affermazione di Bari ca-pitale richiedevano un nuovo progetto culturale che, in sintonia col di-battito nazionale, avrebbe dovuto individuare da un lato le specificità e levocazioni dell’intero territorio regionale, dall’altro il potenziale contribu-to che questo avrebbe potuto assicurare ai nuovi processi di sviluppo,sempre più caratterizzati da dinamiche internazionali.

Documenti

Nulla vien fatto per il riscatto della plebe

Spartaco, settimanale pubblicato a Bari a partire dal 29 luglio del 1882,col suo motto cum Spartaco pugnabimus, riprendeva il mito del gladiatoretracio che nel 73 a.C. organizzò la rivolta degli schiavi contro Roma e cheproprio in Puglia trovò molti seguaci. In questo brano, che fa parte dell’articolodi fondo del primo numero, viene presentata la profonda scissione dellasocietà, che vede da un lato “i gaudenti e i tranquilli mangiatori delloStato”, dall’altro “una plebe livida ed affamata”.

Posate le armi, e spento, almeno in apparenza, ogni moto rivoluzio-nario, l’Italia, dopo lunghi e infiniti travagli, si assise finalmente fra lenazioni d’Europa, e chiese ai suoi figli un assetto stabile e sicuro. Eppurea chi giovò il nuovo stato di cose? Chi invase gli ordinamenti civili? chipredominò su tutti e su tutto? La borghesia, la quale, costituitasi sullerovine della caduta aristocrazia, e circondatasi d’istituzioni che sono uninsulto alla nazione e alla coscienza umana, s’impose con l’astuzia e con la

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In questo senso, non è un caso che il nuovo sistema di editoria e diinformazione cominciò a delinearsi sempre più fra gli anni Ottanta eNovanta, in concomitanza con la fine di quel ciclo economico postuni-tario di espansione della cerealicoltura e viticoltura, e finì col trovare ilsuo humus favorevole proprio in Bari che, del resto, poté rafforzare ilsuo ruolo di capitale.

Molti e profondi mutamenti si ebbero nel mondo della produzioneculturale e dell’informazione, che si provincializzò e si arricchì sia dalpunto di vista quantitativo che qualitativo. Non solo i libri, che tradizio-nalmente venivano stampati a Napoli, Roma e Venezia, incominciaronosempre più ad essere realizzati in Puglia prima da Valdemaro Vecchi e poida Laterza, ma fu avviata una fase di ripensamento dei giornali, a cui nonfu estranea la stessa fase di progettazione del Corriere delle Puglie.

Subito dopo l’Unità si era registrata nella regione una discreta diffu-

forza al popolo sofferente, che da secoli combatte con la parola e con laspada contro tutti i tiranni.

Chi l’avrebbe mai detto che il giorno dopo la proclamazione dell’in-dipendenza della patria nostra, essa doveva divenire monopolio di tali,che forse mai avevano durato gli strazi delle prigioni dai despoti aperteagli amici della libertà, che mai avevano guardato in faccia al nemico suicampi di battaglia! Nè il sangue versato da tanti martiri bastò; nè i tantisacrifici di vita, d’ingegno, di sostanze fatti nei momenti più difficili.

Ne furono chiesti dei nuovi, fu tassato tutto, per poco non diciamoanche l’aria che respiriamo... Fu istituita una polizia che a tutt’altro serveche a correggere e ingentilire i costumi; furono fatte leggi immorali…, ein mezzo a tanta operosità nel male, nulla fu fatto che mirasse al riscattodella plebe, che venne anzi derisa, calpestata, umiliata... Da una parteadunque i gaudenti, gli oppressori, i tranquilli mangiatori dello Stato;dall’altra una plebe livida ed affamata, che soffre, che suda, che spera.

Nel nome di Spartaco, di questo antico e forte ribelle, noi ci schieria-mo con la plebe. Noi la vogliamo redenta, elevata a popolo che lavora.

(Spartaco, N. 1, Bari 1882, in S. La Sorsa, Storia di Puglia, vol. VI, Levante, Bari

1962, pp. 226-27)

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sione di fogli di informazione, tanto che nel 1883 si contavano in Pu-glia 36 giornali (22 in Terra d’Otranto, 9 in Terra di Bari, 5 in Capita-nata). Si trattava, però, di pubblicazioni per lo più settimanali che, pri-ve di vere redazioni, facevano capo solitamente ad un unico proprieta-rio-direttore e nascevano con l’intento di non superare i limiti del terri-torio comunale o tutt’al più provinciale; numerose, poi, erano le testateche nascevano come dirette emanazioni del ceto degli amministratoridi una città o di un deputato o, ancora, di una associazione privata e,pertanto, funzionali com’erano alla lotta elettorale, a precisi momentidella vita politica locale o a interessi particolari e contingenti, non ga-rantivano una continuità di pubblicazione.

Un ruolo di maggiore presenza e rilievo era certamente ricopertoda diversi giornali di opposizione di ispirazione democratica e repub-blicana, caratterizzati da una forte tensione ideale, che, però, non

La “Rassegna Pugliese”, luogo di incontro fra Nord e Sud,Nazione e Regione

Incisiva questa riflessione del filosofo Eugenio Garin che mette in risaltogli effetti positivi del fecondo incontro fra un colto e intelligente operaio delNord e le potenziali ed inespresse energie del Sud.

Così […] non accidentalmente nelle pagine composte dal Vecchis’incontrano la ricerca erudita e documentaria sul Sud e la questionemeridionale quale la viene profilando Giustino Fortunato. Si segueinsieme, più ancora che la crisi, la trasfigurazione delle istanze positi-vistiche - del positivismo come metodo scientifico applicato alle di-scipline storiche - in una esigenza di rigore, di serietà, di aderenza allecose e alla loro logica, di rispetto del documento, del fatto, dellarealtà[…].

Chi ripercorra la quindicinale “Rassegna Pugliese” ed i circa 60 arti-coli che il Croce vi pubblicò può trovare la conferma di una trasforma-

Approfondimenti

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ebbero vita facile. Per il suo impegno a favore del suffragio universa-le, per la denuncia delle misere condizioni di vita dei contadini e ope-rai, emerse ben presto Spartaco, un giornale fondato a Bari nel 1882,che proprio nel momento in cui stava diventando un importante puntodi riferimento anche per le fasce urbane e del ceto medio, fu soppres-so d’autorità dal generale Pelloux in seguito ai moti popolari che siebbero a Bari e in Puglia per il caro pane.

L’esperienza della Rassegna PuglieseIl primo tentativo di promuovere nel campo dell’editoria e in quello

dell’informazione un nuovo strumento di riflessione e di comunica-zione che potesse porsi come punto di riferimento per tutta la Pugliafu realizzato con la Rassegna Pugliese da Valdemaro Vecchi, originariodell’Emilia, che non a caso giunse nel 1868 in Puglia proprio con

zione che fu anche una continuazione. Può forse scoprire in quella ec-cezionale collaborazione dell’operaio del Nord col dotto meridionaleil segreto di molti incontri avviati tra un secolo e l’altro.

Chiosando quell’elenco e leggendo in trasparenza la filigrana ditanta messe di dati, sarebbe possibile scrivere tutto un capitolo distoria della cultura, non solo meridionale, tra l’Unità e la “svolta”dell’inizio del secolo, aggiungendo nel contempo un paragrafo im-portante alla biografia intellettuale di Benedetto Croce, e correggen-do insieme alcuni diffusi luoghi comuni circa il rapporto fra “hegeli-smo” e positivismo. Di più: uno storico accorto potrebbe scavare piùa fondo in questo incontro fra un colto operaio del Nord e le possi-bilità di un Sud ricco non solo di tradizioni, ma anche di energie incerca di mezzi atti ad esprimerle. Nella esemplare vicenda di Valde-maro Vecchi sembra infatti riflettersi quella dialettica “fra la Nazionee la Regione, fra il generale e il particolare, fra la fertilità della terra ela luce del cielo”.

(Dalla introduzione di Eugenio Garin al volume di B. Ronchi, V. Vecchi, Centrolibrario S. Spirito, Bari 1979, in M. Dell’Aquila, Humilemque Italiam, Bulzoni editore,Roma 1985, pp. 202-03)

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quella linea ferroviaria adriatica, grazie alla quale la regione stava av-viando i suoi intensi legami con i mercati settentrionali dell’Italia edell’Europa.

Vecchi, animatore instancabile di molteplici iniziative editoriali, checoncentrò nella sua persona i ruoli di proprietario, tipografo, editore,direttore e, persino, di scrupoloso correttore di bozze, ebbe sin dall’ini-zio ben chiari gli obiettivi da perseguire con la Rassegna Pugliese di Scien-ze, Lettere ed Arti, pubblicata a Trani dal 1884 al 1913 con una tiratu-ra di 3.000 copie, che ancora oggi risulta superiore a quella di molteprestigiose riviste: “enunciare e studiare ciò che concerne l’arte, le scien-ze, e insieme il movimento agricolo e commerciale”; rappresentare “lavita intellettuale e civile” e “il progresso di questa bella regione”; ricer-care la collaborazione degli “ingegni locali” che, però, fossero aperti esensibili “al movimento generale del sapere”; produrre una rivista variaper contenuti disciplinari, che risultasse familiare a un gran numero dilettori, ai quali avrebbe dovuto “procurare la santa voluttà di una buo-na lettura”.

A questi principi, riconducibili peraltro al generale clima positivisti-co di quegli anni, si ispirò continuamente la Rassegna, riuscendo a met-tere insieme l’intellighenzia della regione e ottenendo la collaborazionedi intellettuali di rilievo nazionale, come Benedetto Croce.

Grazie a questa linea di politica editoriale, la nuova rivista diede unsignificativo contributo all’affermazione di una coscienza regionale, chesi alimentava sia della rivisitazione storico-culturale delle comuni radicidei pugliesi, sia dell’analisi dei problemi economici e delle misure cheavrebbero potuto assicurare un nuovo processo di sviluppo alla regione.

Vecchi non si limitò al solo impegno della Rassegna Pugliese, ma avviòuna vivacissima attività editoriale, grazie alla quale la sua casa editricegiunse ad un catalogo di ben 1076 titoli, stampò diverse riviste, fra lequali meritano una particolare menzione La Critica di Benedetto Cro-ce e Napoli nobilissima.

L’intensa attività di Valdemaro Vecchi, che per oltre un ventennio fuil punto di confluenza non solo degli intellettuali più qualificati dellacultura regionale, ma anche di una parte consistente di quella naziona-

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le, innescò in Puglia un positivo processo di promozione culturale ecostituì per la casa editrice Laterza una premessa necessaria per un nuovosalto di qualità nella produzione editoriale.

Verso la casa editrice LaterzaL’impegno complesso e diversificato di Vecchi non poteva non scon-

trarsi con difficoltà e limiti ad esso connaturati.La mancanza di una vera redazione sia per la Rassegna che per tutte

le altre attività editoriali, a cui il Vecchi cercava di supplire col suo su-per lavoro, esponeva tutte le iniziative ai rischi derivanti dall’eccessivadipendenza da una sola persona. Se ne ebbe già un’avvisaglia nel set-tembre del 1896, quando la rivista fu sospesa per quattro mesi a causadella malattia “dell’editore-condirettore”, come si autodefinisce lo stes-so Vecchi, che, riprendendo la pubblicazione, così si rivolge ai suoi let-tori: “Coloro che ci scrivevano credevano che la Rassegna fosse morta esepolta. Ma fortunatamente quella credenza non aveva fondamento.Per morire la Rassegna avrebbe dovuto morire il suo editore, quandonessuno ne avesse raccolto la magra eredità. Ma e l’editore e la Rassegnaper questa volta, grazie al Cielo, l’hanno scampata”.

La stessa volontà della Rassegna di puntare prevalentemente sugli“ingegni locali”, finendo col mettere insieme persone di diverso orien-tamento culturale e politico, rendeva la rivista uno strumento neutrale,oltre che elitario, mentre i nuovi processi economici richiedevano l’as-sunzione di scelte e di precise posizioni sulla politica del governo e delleamministrazioni locali.

Infine, anche per quanto si è detto, risultava assai difficile che sial’attività propriamente editoriale sia quella della informazione, affidataalla Rassegna, restassero concentrate ed unificate nella stessa persona.Non è un caso che dopo la feconda esperienza di Vecchi i due settori siscinderanno, per cui da un lato l’attività editoriale sarà ricoperta dallacasa editrice Laterza, mentre quella dell’informazione registrerà sem-pre più il protagonismo del Corriere delle Puglie.

È pur vero che la “Laterza” si caratterizzerà ben presto per il suoprogetto editoriale di respiro nazionale: la redazione e pubblicazione

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della Critica, le collane dei classici della letteratura e della filosofia, l’av-vio della “Biblioteca di cultura moderna”, impostate secondo le indica-zioni di Benedetto Croce e, nei primi momenti, anche di GiovanniGentile, faranno della casa editrice barese un importantissimo centrodi attrazione dell’intera cultura nazionale; è vero anche che non saran-no gli “ingegni pugliesi” ad essere protagonisti della nuova produzioneeditoriale, che, peraltro, non considererà la Puglia come centro dellasua attenzione. Il fatto, però, che a Bari giungessero periodicamenteBenedetto Croce ed altri prestigiosi intellettuali e circolassero libri edidee che alimentavano il generale dibattito culturale fu certamente unimportante fattore di crescita per i Pugliesi, che, così, ebbero modo disprovincializzarsi ulteriormente e di essere sollecitati ad un’analisi piùcritica e dialettica della stessa realtà sociale ed economica della Puglia.

Croce, garante del passaggio dall’esperienza di Vecchi alla nuovaimpresa di Giovanni Laterza

Michele Dell’Aquila, ordinario di Lingua e Letteratura italiana pressol’Università di Bari, sottolinea in questo brano il ruolo importante che Cro-ce ebbe per l’editoria pugliese e la grande azione di “pedagogia civile e cultu-rale” svolta dalla casa editrice Laterza.

Sembra un caso emblematico: quell’intellettuale, Benedetto Cro-ce, che già negli ultimi anni del secolo con i suoi scritti e la prepoten-te personalità veniva indicando nuove prospettive e nuovi traguardiall’onesto stampatore, orientandone la linea culturale, di lì a pochianni avrebbe incontrato un altro editore coraggioso e onesto in cercadi lumi e di programma: questa volta un pugliese, un pugliese dirazza, Giovanni Laterza. Da quell’incontro, in qualche modo neces-sario e atteso da entrambi e ricco di fruttuosi svolgimenti per en-trambi, sarebbe uscito segnato il destino della nuova cultura pugliese:non solo e non tanto per la ricchezza dell’opera crociana tutta stam-

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pata dal Laterza, né per le straordinarie e prestigiose collane di classici,di filosofi, di storici, di cultura moderna, che resero celebre la casa e checorsero per l’Italia e l’Europa anche in anni di oscuramento della liber-tà: ché quelle cose furono scritte e pensate dai maggiori ingegni d’Italiae del mondo e a tutti s’indirizzavano. Quanto per l’azione di pedagogiacivile e culturale ch’esse esercitavano, per l’aspettazione dei lettori pu-gliesi, per il modello ch’esse offrivano di una cultura soda, liberata fi-nalmente da provincialismi e da complessi d’inferiorità d’ogni sorta.

Al Vecchi, di cui Croce ricordava “la rettitudine, la buona fede, larigida osservanza degli impegni, l’ingenuità dell’animo, la vivezza dellamente” oltre l’alta professionalità dello stampatore, il filosofo volle fosseper molti anni affidata la stampa della Critica.

Ma ormai la Puglia, grata al Vecchi per l’impulso che con il suo inge-gno e passione aveva dato al suo avviamento editoriale, poteva fare da sé.

E seppe far bene, sapendo essere aperta ed attiva nelle sollecitazionidella più viva cultura del tempo, senza rinunciare ad esser saldamentepugliese e meridionale, in uno slancio di comunicazione, ma in una vo-lontà di non subordinazione, come le cronache della cultura del nuovosecolo e le vicende della vita civile dimostrano senza dubbio.

(M. Dell’Aquila, op. cit., pp. 204-05)

La prima sede della “Gius. Laterza & figli” in via Sparano, 79

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Un nuovo organo di informazione: il Corriere delle PuglieChi il 1° novembre del 1887 ebbe fra le mani il primo numero de Il

Corriere delle Puglie, giornale quotidiano di Bari, certamente notò laspecificità del nuovo organo di informazione sin dalla prima pagina:non solo l’editoriale, ma anche la rubrica delle “Notizie politiche” equella di “Bari industriale”, che rinviavano alle pagine interne, davanol’immagine di un giornale che, dichiarando solennemente la sua indi-sponibilità “ad arruolarsi sotto alcuna bandiera di condottiero”, inten-deva intrecciare un dialogo reale con il pubblico, si caratterizzava perl’ampiezza del suo orizzonte di osservazione con una serie di riferimentialla stampa estera e ad eventi internazionali, puntava decisamente sullavocazione industriale di Bari, di cui si sottolineava, però, il ruolo pro-pulsore “per tutte le Puglie ed anche per la Basilicata e le Calabrie”.

Veniva delineato, così, il progetto di un organo di informazione che,in sintonia con quanto era già avvenuto e avveniva in altre parti d’Italia,intendeva rispecchiare la realtà in cui si operava, esprimere i nuovi biso-gni e le nuove istanze di una parte consistente della popolazione barese e

Il Corriere delle Puglie sarà l’amico di tutti

In questo stralcio dell’editoriale del primo numero del Corriere dellePuglie, Martino Cassano, fondatore e direttore del nuovo quotidiano, pren-de chiaramente le distanze dalla pratica diffusa di fare di un giornale ladiretta emanazione di un notabile.

Il Corriere si propone di vivere dal pubblico e per il pubblico; quindinon è disposto ad arruolarsi sotto alcuna bandiera di condottiero […]. Eciò pare che debba bastare per soddisfare i gusti di tutti, o di quasi tutti,il che, in un paese dove le maggioranze regnano ed i più scaltri governa-no, dovrebbe poter dire perfettamente lo stesso.

Il Corriere sarà l’amico di tutti e il confidente di nessuno; propugne-rà tutto ciò che è vero, che è buono, che è bello, indipendentementedalle passioni di parte, e dagli interessi dell’illustrissimo sig. Tizio o

L’interpretazione dello storico

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pugliese, riflettere sui nuovi processieconomici e sulle potenzialità di svi-luppo del territorio regionale.

Abbandonata l’illusione, tantocara a precedenti e coeve esperienzegiornalistiche pugliesi, di poter rifor-mare il mondo e la società con la stam-pa, il primo editoriale del Corriere,dopo aver affermato che “un giorna-le nuovo non crea la vita nuova”, de-limitò molto realisticamente le sueaspirazioni di impegno civile precisan-do che “non è a dirsi per questo cheun nuovo giornale quotidiano di Barinon possa né debba riuscire del tuttoinutile agli interessi, alle aspirazioni edai bisogni del pubblico”.

dell’onorevole sig. Sempronio. Grazie a Dio, Il Corriere non è né mio-pe né presbite, e non ha bisogno che nessuno gli presti un paio d’oc-chiali per guardarsi d’attorno e dire, come va detto, il fatto suo. Sem-bra al Corriere che dopo quasi trent’anni di vita libera, l’educazione delpubblico – volere o no – abbia dovuto fare un passo innanzi; ed, inquesta credenza, Il Corriere confida che il pubblico oramai, più chefarsi tirare, sia disposto a farsi persuadere.

Il pubblico, così disposto, non è però meno un ente collettivo chesente molto, si appassiona molto, ma riflette poco; e ciò, perché la rifles-sione non può aversi senza serenità e calma, mentre il pubblico, che è poimoltitudine, di sua natura non è, né può essere, sempre calmo e sereno.Ora Il Corriere si propone appunto, appunto con calma e serenità, diriflettere su tutto quello che il pubblico sente e intorno a tutto quello diche il pubblico si appassiona, con l’intento di ricavarne una conseguenzaconcreta ed un’applicazione pratica.

(M. Cassano, Ho l’onore, in Il Corriere delle Puglie, N. 1/1-11-1887)

Manifesto pubblicitario delCorriere delle Puglie

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Al di là delle contraddizioni e dei limiti inevitabili nella progettazio-ne e nella produzione frenetica di un quotidiano, queste furono le lineeredazionali che, applicate costantemente, consentirono al Corriere dellePuglie di farsi interprete di esigenze diffuse nella regione e, conseguen-temente, di assumere talvolta nei confronti delle classi dirigenti nazio-nali e locali posizioni critiche, mai destinate, però, a mettere in discus-sione la sua natura di organo di stampa moderato e filogovernativo. Inquesto senso, il giornale barese criticò l’indifferenza mostrata da Crispiverso i tragici effetti della crisi agraria, denunciò i limiti dei governi edelle amministrazioni delle città e delle province pugliesi nell’affronta-re i grandi problemi dell’acquedotto, della promozione di nuove istitu-zioni scolastiche e culturali e dell’industrializzazione che avrebbe assi-curato il nuovo “risorgimento economico” a Bari e a tutta la regione.

Martino Cassano e la sua missione

Certamente la fortuna del Corriere delle Puglie fu determinata dallaversatile personalità del suo fondatore, Martino Cassano, che, forte del-l’esperienza maturata a Roma in redazioni di respiro nazionale, potè conce-pire il progetto ambizioso di un quotidiano pugliese che si differenziasse datutte le altre testate allora circolanti nella regione.

Martino Cassano non era giunto impreparato – sul piano intellettualee professionale – ad un appuntamento di tanto rilievo, né poteva definir-si un avventuroso improvvisatore. Nato a Bari nel gennaio del 1861 erifiutata la carriera forense – cui avrebbe voluto destinarlo il padre avvo-cato e cultore di diritto civile – egli fece le sue prime esperienze di pub-blicista sul periodico d’impianto letterario Il Manfredi. Poco più cheventenne – scrive di lui Armando Perotti – “fè vela per la capitale, semprecol baco del giornalismo nel cerebro e sempre più col proposito di nonvenire a patti coi codici”.

A Roma, sotto la magistrale guida di Carlo Pancrazi, il Cassano di-

Protagonisti

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L’articolata politica editoriale contribuì a delineare l’immagine di ungiornale radicato nella comunità regionale col quale si identificavano set-tori crescenti della società. Certo, il Corriere delle Puglie, che, ad esempio,condividerà le misure illiberali adottate da Pelloux per reprimere i motidel caro pane del 1898, non sarà mai interlocutore degli ambienti demo-cratici e socialisticheggiati, ma il suo contributo complessivo all’afferma-zione di una nuova e più efficace informazione e, soprattutto, al radica-mento nell’opinione pubblica della stessa idea di regione fu notevole.

Quando, forte di un pool finanziario e imprenditoriale, Raffaele Gorjuxfonderà nel 1922 La Gazzetta di Puglia, divenuta poi nel 1928 La Gazzet-ta del Mezzogiorno, l’eredità de Il Corriere delle Puglie risulterà assai prezio-sa e permetterà al nuovo quotidiano di assicurare una sostanziale continuitàdi quella linea redazionale di rispecchiamento della società civile pugliese.

venne redattore della Gazzetta d’Italia […]. E quando venne fondata laRivista Europea – con l’ambizioso, ma effimero progetto di contenderespazio alla prestigiosissima Nuova Antologia – il Pancrazi non ebbe esita-zioni nel chiamarne alla direzione il giovane giornalista barese […].

“Non fu nostalgia (aggiunge il Perotti, ndr) che lo ricondusse a Bari,sì bene il meditato disegno di una missione da compiere. Aveva ormaiappreso, in quell’età e in quell’ambiente aurei della stampa italiana, lapratica del mestiere. […] Ebbe la forza che mancò a molti; di rinunziareagli allettamenti di una città come Roma, eterna ammaliatrice, e di riti-rarsi in provincia, col suo sogno che gli riempiva il cuore”.

[…] Per circa dieci anni erano pullulati solo giornaletti di partito de-stinati ad una brevissima e stentata esistenza; ma nessuno – scrive ancorail Perotti – si era risolto di “risolvere il problema del quotidiano di gran-de stile, che non fosse legato a questa o a quella fazione; che non aspettas-se, con l’imbeccata della politica, il soccorso della prefettura; che racco-gliesse le voci della città, della provincia, della regione, e le traducesse inprogrammi di benessere e di civiltà; che valesse, soprattutto, a far cono-scere Bari e la Puglia, a porle in assiduo contatto con la nazione”.

(M. Spagnoletti, Nasce il “Corriere” senza occhiali in prestito, in La Gazzetta del Mez-zogiorno 1887-1987, Edisud, Bari 1987, pp. 11-12)

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BIBLIOGRAFIA

Oltre alle opere citate nel testo si possono consultare:

Per un inquadramento storico di carattere generale:P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Roma 1993; A. Lucarelli, La

Puglia nel secolo XIX, Bari 1927; S. La Sorsa, Storia di Puglia, vol. VI. Dalla Costi-tuzione del Regno d’Italia a Vittorio Veneto, Bari 1962; Storia della Puglia, a cura diG. Musca, vol. II, Bari 1987; Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, LaPuglia nel Mezzogiorno dall’Unità alla caduta della destra storica, Bari 1986; Isti-tuto per la Storia del Risorgimento Italiano, Il Mezzogiorno e la Puglia nell’etàdella sinistra da Depretis alla crisi di fine secolo, Bari 1989; Storia di Bari, diretta daF. Tateo, vol. IV. L’Ottocento, a cura di M. Dell’Aquila e B. Salvemini, Roma-Bari1994; Storia di Lecce, diretta da M.M. Rizzo, B. Vetere, B. Pellegrino, vol. III.Dall’Unità al secondo dopoguerra, a cura di M.M. Rizzo, Roma-Bari 1992.

Sul brigantaggio:A. De Jaco, Il brigantaggio meridionale, Editori Riuniti, Roma 1979; T.

Pedio, Brigantaggio meridionale, Bari 1987; A. Lucarelli, La Puglia nel secoloXIX, Adda editore, Bari 1927.

Sullo sviluppo economico:M. Ottolino, I caratteri dell’economia pugliese nell’età della Destra Storica, in

La Puglia nel Mezzogiorno dall’Unità alla caduta della destra storica, op. cit., pp.119-154; V. Petruzzella, Problemi dell’industrializzazione in Terra di Bari nelprimo quindicennio postunitario, ivi, pp. 161-184; S. Russo, Paesaggio agrario eassetti culturali in Capitanata dall’Unità agli anni Ottanta, ivi, pp. 413-30; G.De Gennaro, L’economia pugliese e la ferrovia nel periodo della sinistra, in IlMezzogiorno e la Puglia nell’età della sinistra da Depretis alla crisi di fine secolo,op. cit., pp. 229-66; L. Palombo, L’economia rurale pugliese nell’età della sinistra(da Depretis alla crisi di fine secolo), ivi, pp. 267-84; F. De Felice, Agricoltura ecapitalismo. Terra di Bari dal 1880 al 1914, Bari 1969; A. Checco, L. D’Anto-ne, F. Mercurio, V. Pizzini, Il Tavoliere di Puglia. Bonifica e trasformazione traXIX e XX secolo, Roma-Bari 1988; A. Denitto, F. Grassi, C.Pasimenti, Mezzo-giorno e crisi di fine secolo. Capitalismo e movimento contadino, Lecce 1978; M.Viterbo, La Puglia e il suo acquedotto, Bari 1954.

Su Bari capitale:M. Scionti, Sviluppo urbanistico tra Ottocento e Novecento, in Bari Moderna

1790-1990, Milano 1990, pp. 49-84; F. Picca, Bari ‘capitale’ a teatro, Bari1987; Il teatro Petruzzelli di Bari, a cura di A. Melchiorre, Bari 1981; L. Masel-

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la, La difficile costruzione di una identità, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unitàad oggi, vol. VII. La Puglia, op. cit., pp. 281-438; L. Zingarelli, La costruzionedi un centro. Arte e istituzioni a Bari fra Ottocento e Novecento, in Storia di Bari,diretta da F. Tateo, vol. V. Il Novecento, pp.67-94.

Fonti archivistiche:Sono numerosi i fondi degli Archivi di Stato che contengono una copiosa

documentazione su tutte le tematiche trattate nel capitolo. La fonte classica perchi voglia studiare la storia politica e lo sviluppo socio-economico di uno speci-fico territorio è rappresentata dal fondo Prefettura. Presso l’Archivio di Stato diBari, ad esempio, all’interno del fondo Prefettura si trovano le carte della serieGabinetto che racchiude la documentazione riservata del prefetto, distinta permateria: “disposizioni generali e personale, amministrazioni provinciale e comu-nali, sindaci, elezioni (amministrative e politiche), affari esteri, affari ecclesiasti-ci, carceri, danneggiati politici, giudiziario, istruzione pubblica, sanità, ferrovie,porti, banche, affari di pubblica sicurezza (spirito pubblico, dimostrazioni sov-versive e operaie, arresti, processi), scioperi ed agitazioni”.

Si aggiunga, inoltre, che in molti Comuni vi sono interessanti Archivi Comu-nali, il cui materiale storico in diversi casi aspetta ancora di essere consultato.

A cura dell’Archivio di Stato di Bari vi sono poi diverse pubblicazioni sullefonti documentarie, delle quali segnaliamo: Istituzioni e territorio in Terra diBari. Fonti documentarie e cartografiche del XIX secolo, in Storia dell’UrbanisticaN. 1, Roma 1981; L’immagine e il progetto. Il territorio comunale in Terra di Barinel XVIII e XIX secolo, Monopoli, 1981; La cartografia storica nelle fonti docu-mentarie, Terra di Bari nel XVIII e XIX secolo, Molfetta 1981; Rassegna di fontidocumentarie della storica civica barese, Bari 1981; Cartografia napoletana dal1778 al 1889. Il Regno di Napoli, la Terra di Bari, Napoli 1983.

Fonti giornalistiche e letterarie:Assai interessante può rivelarsi la consultazione di giornali, riviste e perio-

dici di diversa natura che, numerosi, si pubblicavano in tutta la Puglia. Pressola Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpi” di Bari è possibile consulta-re molta della produzione giornalistica dell’Ottocento.

Di indubbia ed efficace utilizzazione didattica risultano le relazioni deiviaggiatori stranieri che descrivono le città visitate, soffermandosi sulle condi-zioni sociali, economiche e culturali. Segnaliamo in particolare: Viaggiatorifrancesi in Puglia nell’Ottocento, a cura di G. Dotoli e F. Fiorino, voll. II, III, IV,Fasano 1985; J. Ross, La Puglia nell’Ottocento, a cura di M.T. Ciccarese-Lecce1997; G. Meyer-Graz, a cura di G. Custodero, Puglia/Sud 1890, Lecce 1980.

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CAP. II

DAL PRIMO NOVECENTOALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Assai profondi sono i processi che investono la Puglia nella primametà del Novecento. Si va dalla caduta delle potenzialità di uno svilup-po industriale alla mancata trasformazione in senso capitalistico e mo-derno dell’agricoltura; dalla espansione delle città all’emergere delleélites urbane; dalla riduzione delle città ad empori commerciali e centridi consumo alla tragedia della guerra, che coinvolge in modo dramma-tico i territori e le popolazioni.

All’interno di questo quadro complessivo, emergono con forza duedati: la particolare asprezza del conflitto nelle campagne, per l’assolutaindisponibilità dei proprietari terrieri all’accettazione di una modernadialettica sindacale col movimento dei braccianti, i quali sono costrettia condizioni di vita assai penose; la perdita per le grandi città, che siriempiono sempre più di una “borghesia burocratico-impiegatizia”, diquel ruolo di promozione di nuove dinamiche di sviluppo generale chealcune di esse avevano saputo esercitare alla fine dell’Ottocento.

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1. UNA SOCIETÀ ED UNA ECONOMIA BLOCCATE

Lo sviluppo mancatoIl quadro complessivo della Puglia nel primo quindicennio del No-

vecento è segnato da un processo di trasformazione che da un lato met-te definitivamente in crisi la tradizionale struttura economica e sociale,dall’altro non riesce ad affermare né un generale sviluppo industriale,capace di espandersi e di esercitare forza di attrazione, né la moderniz-zazione complessiva dell’agricoltura e dei rapporti di lavoro. Dopo lasua integrazione nel mercato nazionale ed internazionale e il supera-mento della difficile crisi degli anni Ottanta, sembra quasi che l’econo-mia pugliese non riesca a trovare al suo interno forze, risorse e possibi-lità per avviare uno sviluppo capitalistico compiuto.

Più che aziende sono accampamenti

Il momento particolare della Puglia agli inizi del Novecento non sfugge ad Enri-co Presutti, autore di una relazione del 1909 sulle condizioni dei contadini e dellecampagne in Puglia. Particolarmente severo è il suo giudizio sulla incapacità degliagrari pugliesi di ammodernare le loro aziende che, come viene affermato in questobrano, sono condotte senza alcuna programmazione.

L’azienda agricola nelle Puglie ha un aspetto di precarietà, di mutabilità,di disorganizzazione. Sembrano accampamenti, non aziende agrarie. Si po-trebbero spostare i confini di ciascuna azienda senza che ne cambiasse ilcarattere. Oggi un fondo è fittato a piccole quote, domani viene gestito ineconomia dal proprietario o da un grosso fittavolo borghese. Tutto ciònon ha nulla di comune col modo in cui si svolge l’agricoltura in paesivecchi, dove l’azienda, i sistemi di coltura, i contratti hanno forme e tipitradizionali. Ed in ciò appunto sta la caratteristica della trasformazione, cheha luogo nelle Puglie. Non vi sono tipi tradizionali da migliorare, ma visono tipi da creare, tipi adatti alle condizioni delle singole zone.

(Inchiesta parlamentare sulla condizione dei contadini nelle provincie meridionali e nellaSicilia, Relazione del delegato tecnico Enrico Presutti, Puglie, vol. III, tomo II, Roma 1909, p. 739)

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Il processo di indu-strializzazione, pur toc-cando le aree di Bari,Taranto e Brindisi, nonassicurava, infatti, altitassi di profitto, per cuii grandi proprietari ter-rieri non erano invoglia-ti a distogliere una par-te dei loro capitali daltradizionale investimen-to nelle banche, nel commercio e, in molte zone, soprattutto nell’usura.

D’altra parte, l’agricoltura pugliese, caratterizzandosi per la sua ac-centuata disarticolazione, non poteva certamente proporsi come moto-re dell’intera economia regionale. Infatti, l’inserimento nel mercato

I limiti del processo di industrializzazione in Puglia

Assai efficace questo brano di Adolfo Pepe, che mette in risalto la debo-lezza strutturale del processo industriale pugliese, cogliendone le specifichemotivazioni in riferimento alle tre aree maggiormente sviluppate agli inizidel Novecento.

In Puglia il pur notevole processo di urbanizzazione […] e di indu-strializzazione non acquistano una dimensione e una qualità tali da costi-tuire settori di drenaggio delle risorse finanziarie ed economiche, ovveropoli di attrazione alternativi della forza-lavoro agricola.

I tre fenomeni più significativi, infatti, che si realizzano nel primodecennio del secolo, sono il definitivo affermarsi della grande industriacantieristica a Taranto, la costruzione di uno strato industriale diffusonell’area brindisina in Terra d’Otranto e soprattutto nel circondario bare-se, e la crescita urbana del tessuto delle medie città pugliesi collocate neipunti di saldatura tra i diversi circuiti agricoli e i nuovi sistemi di comu-

L’interpretazione dello storico

Un dormitorio per braccianti inun’azienda agricola del Tarantino

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nicazione in costruzione, con una notevole dilatazione delle funzioni delleattività commerciali, amministrative e terziarie in genere.

Tuttavia, se l’ingente investimento capitalistico di Taranto avvienecome pura proiezione del sostegno dello Stato e dell’intervento del capi-talismo nazionale, senza attivare una capillare mobilitazione dei capitali,dei ceti borghesi e abbienti locali e, quindi, senza spostare risorse dalsettore primario dell’area tarantina, l’industrializzazione della Terrad’Otranto e del Barese non assume certo le caratteristiche di un domi-nante sistema di interdipendenze settoriali, come nel caso della trasfor-mazione di un preesistente tessuto manifatturiero legato all’industria tes-sile e meccanica, né quello di un sistema monosettoriale dipendente dal-l’insediamento nuovo di un moderno settore produttivo.

Si assiste invece a un consolidamento dello strato di industrie leggerepreesistenti e di quelle legate ad alcuni precisi canali di investimento stra-niero, ma la cui dimensione unitaria, il livello di investimenti, i settorimerceologici, la meccanizzazione e l’innovazione tecnologica non sonoin grado di garantire tassi di accumulazione e di profitto appetibili.

(A. Pepe, Il sindacalismo pugliese nel primo Novecento, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Uni-tà ad oggi. La Puglia, a cura di L. Masella e B. Salvemini, Einaudi, Torino 1989, pp. 797-98)

L’arrivo della prima trebbiatrice in una azienda agricola di Modugno agliinizi del Novecento. La meccanizzazione dell’agricoltura ed una efficienteorganizzazione del lavoro si affermano solo in alcune aree della regione

(Tavoliere, fossa premurgiana, zona nord-orientale del Tarantino)

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nazionale ed internazionale aveva determinato profondi squilibri, favo-rendo uno sviluppo verso l’alto delle grandi e medie aziende di Capita-nata e comprimendo verso il basso le aree produttive del Salento, cheperaltro erano isolate dalle grandi vie di comunicazione. Fra questi dueestremi si collocava la consistente e assai diffusa area dei piccoli viticol-tori che, per le modeste dimensioni dei terreni di loro proprietà, nonerano in grado né di promuovere un’opera di ammodernamento e dirazionalizzazione della produzione, né di superare le ricorrenti crisideterminate dalle oscillazioni del mercato internazionale.

Un quadro di questo genere rendeva impossibile una osmosi continuae feconda fra economia industriale ed economia agricola, e, conseguen-temente, fra mondo urbano e mondo rurale. Venne così a mancare inPuglia quella dinamica che altrove aveva permesso alla città di sottrarrealla campagna l’egemonia, di assumere il ruolo guida del nuovo sviluppoeconomico e di mettere in moto un generale processo di espansione.

Solo il settore dell’edilizia si presentava come anello di congiunzionefra mondo urbano e mondo agricolo, poiché la notevole crescita delle

Nord e Sud separati dalla guerra

Secondo Valerio Castronovo, la prima guerra mondiale, determinando il“fortissimo indebitamento dello Stato, la dispersione di tanta parte del pa-trimonio nazionale, il rincaro del costo della vita” e le “profonde trasforma-zioni dell’apparato produttivo”, produsse “un radicale mutamento dell’as-setto economico e sociale del paese” che, come viene affermato nel branoseguente, accentuò in modo irreparabile il divario fra Nord e Sud.

Ad accrescere il divario fra Nord e Sud, in maniera da allora irrepara-bile, concorsero inoltre la polverizzazione dei capitali monetari e dei ri-sparmi della piccola e media borghesia meridionale, l’enorme drenaggiodi mezzi finanziari operati dallo Stato durante il conflitto attraverso latassazione dei redditi agricoli e l’aumento del debito pubblico, il blocco

L’interpretazione dello storico

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città, soprattutto in Terra di Bari, richiamava una consistente quota diforza-lavoro e di capitali. Ma si trattava di un settore che, da solo, certa-mente non poteva promuovere lo sviluppo dell’intera regione e, per dipiù, esposto com’era alle oscillazioni congiunturali, non poteva garantireuna attività continua nel lungo periodo.

La guerra ridimensiona l’economia puglieseI limiti e le contraddizioni dell’economia e della società pugliese si

acuirono nel periodo di guerra e, in maniera ancora più accentuata, inquello del dopoguerra, durante i quali aumentò in maniera irrimedia-bile il divario fra Nord e Sud. Non solo le regioni settentrionali, il cuiterritorio fu coinvolto direttamente nelle operazioni militari, furonocomprensibilmente privilegiate dagli interventi dell’economia di guer-ra, richiamando così i capitali disponibili a livello nazionale, ma si regi-strò un enorme sviluppo di grandi complessi siderurgici e metalmecca-nici del triangolo industriale che beneficiarono delle continue com-messe statali determinate dalle esigenze belliche.

dell’emigrazione transoceanica e i danni arrecati dall’inflazione al commer-cio meridionale d’importazione. L’economia di guerra comportò, in ognicaso, una notevole espansione delle attività industriali nella formazionedel prodotto nazionale, ma soprattutto un notevole trasferimento di ri-sorse dall’agricoltura e dalla piccola e media industria, produttrice di benidi consumo, verso i grossi «canonicati» dell’industria siderurgica e me-talmeccanica, finanziati dalle grandi banche, in grado di incrementare imeccanismi di accumulazione, grazie all’abbondante offerta di lavoro eal blocco dei salari, e di far valere prezzi sempre più elevati nei contratti difornitura. Il risultato fu - in mancanza di un accrescimento netto dellaricchezza nazionale - un massiccio spostamento di redditi in favore degliinteressi industriali e bancari legati allo sviluppo delle commesse gover-native, al commercio di importazione delle materie prime, alle ordina-zioni militari e ai movimenti di integrazione finanziaria.

(V. Castronovo, La storia economica, in Storia d’Italia, vol. 4, tomo 1, Einaudi, Torino1975, p. 209)

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Al Sud solo tre miliardi

Non sfuggirono alla stampa dell’epoca le conseguenze assai negative dellaguerra sulla economia meridionale. Del resto, il tema fu ampiamente dibat-tuto nel dopoguerra anche a Bari, in particolare dalla rivista Humanitas, chein un articolo di Michele Viterbo dell’ottobre del 1919 affermava: “Noi usciamodissanguati dalla guerra: ricordiamoci che su 30 miliardi di spese belliche,27 sono andati al Nord e all’Italia centrale, 3 miliardi appena al Sud”.

Mentre nell’Italia settentrionale, ricca d’industrie e di commerci, laguerra ha dato luogo ad una intensa e febbrile attività industriale, con unconseguente aumento di profitti e di salari molto remunerativi, tutto ciò

Bari, Piazza Umberto, 24 maggio 1915: manifestazione studentescacontro il consolato dell’Impero austro-ungarico nel giorno

della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia

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In questo quadro di riferimento, lo stesso apparato industriale bare-se, che era il più consistente della regione, uscì complessivamente ridi-mensionato dalle vicende belliche: a fronte della tenuta e, in qualchecaso, dell’incremento produttivo di un numero limitato di aziende mec-caniche, chimiche ed alimentari, si registrò la totale scomparsa dell’in-dustria tessile, di quella vinicola ed alcolica, e un sensibile ridimensio-namento di quella del cemento e dei prodotti dell’edilizia, tanto che lapopolazione attiva impegnata a Bari in attività industriali passò dal 49,9%del 1911 al 40,9% del 1921.

D’altra parte, l’intervento dell’Italia in guerra a fianco delle potenzedell’Intesa aveva penalizzato fortemente i prodotti dell’agricoltura me-ridionale, in particolare della Puglia, determinando la chiusura deimercati degli imperi centrali, la cui conquista aveva permesso alla re-gione di superare la grande crisi degli anni Ottanta, causata, come siricorderà, dalla guerra doganale con la Francia.

Le conseguenze sulle colture pugliesi destinate all’esportazione fu-rono assai pesanti: la cerealicoltura, l’olivicoltura e la viticoltura, cheavevano registrato i più consistenti investimenti ed ammodernamenti,vennero ridimensionate per la chiusura degli sbocchi commerciali.

non si è verificato nell’Italia meridionale. Poche le industrie metallurgi-che, rari gli stabilimenti militarizzati. Ma si è verificato qualcosa di piùgrave. Quell’esodo di capitali che fu, nel passato, una delle cause cheimpedirono la rinascenza economica del mezzogiorno e che ebbe originedall’aumento delle imposte, dalla vendita dei beni ecclesiastici, dallamancanza di viabilità e dalla deficienza di trasporti e di servizi pubblici,ha trovato una maggiore accentuazione nel periodo della guerra. Infatti,è noto che, essendo stato tutto il lavoro per lo stato accentrato nella Italiasettentrionale, anche per la vicinanza della zona di guerra, parte del capi-tale si è trasferito nel settentrione in impieghi che hanno fatto principal-mente capo ai bisogni della guerra.

(Il Mezzogiorno e la guerra, in Il Risveglio commerciale, 19 dicembre 1917, in E. Di

Ciommo, op. cit., p. 356)

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Per gli agrari i contadini non sono uomini come loroIl ridimensionamento dell’apparato industriale e la nuova situazio-

ne di crisi dell’agricoltura determinarono nel dopoguerra un clima so-ciale di accentuata tensione, che peraltro fu aggravato dal blocco dellerimesse degli emigranti durante il periodo bellico. In particolare, vi fudal 1918 in poi un aumento continuo della disoccupazione, tanto cheil giornale Humanitas, riferendosi alla situazione di Bari, affermava inun servizio del 1921 che i “disoccupati erano diventati una legione”.

D’altra parte, già nel 1917 Antonio De Tullio, che aveva ricopertoruoli pubblici importanti in provincia di Bari, si chiedeva: “I contadi-ni, questi soldati eroi delle trincee, che torneranno ai loro, ai nostripaesi, dopo aver dato il loro sangue per la patria, saranno davverocontenti di essere i contadini di dieci anni fa? Ancora verranno an-ch’essi con l’idea di un miglioramento dei salari? E come si farà nelMezzogiorno, in cui da una parte vedremo il proprietario dissestato edall’altra il lavoratore dei campi che porrà questo nuovo problema?”.

Faremo anche l’arrusso con la macchina

Questo brano della relazione di Presutti (1909) è particolarmente signifi-cativo poiché, fra l’altro, spiega la genesi dei lavori abusivi da parte dei conta-dini, che si recavano nei latifondi ed eseguivano i necessari lavori stagionalisenza essere stati ingaggiati per poi richiederne a sera la retribuzione, comediretta conseguenza dell’atteggiamento degli agrari, sempre alla ricerca ditutto ciò che potesse distruggere le leghe. I lavori abusivi diventeranno neldopoguerra una pratica assai più diffusa e sostenuta dal leghismo pugliese.

Un grosso affittuario foggiano che è anche un valente professionista, midiceva che i proprietari, con la macchina covri-seme, con le mietitrici e conle trebbiatrici, hanno in parte debellato i contadini, ma che finiranno didebellarli completamente se si inventerà l’aratro automotore. “Se potremofare a macchina anche l’arrusso (aratura), allora ce la vedremo”, mi diceva

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Gli interrogativi di De Tullio, lungi dall’avviare fra gli agrari un di-battito ed una disponibilità al dialogo col movimento bracciantile,ebbe quasi il valore di una premonizione dell’ineluttabile conflittoche di lì a poco si sarebbe riaperto in Puglia.

Infatti, sin dai primi anni di costituzione delle leghe dei contadini,la classe dirigente pugliese e il ceto dei grandi proprietari maturaro-no la convinzione che bisognasse distruggere manu militari ogni for-ma di organizzazione sindacale nelle campagne. L’impossibilità di in-staurare una moderna dialettica fra capitale e forza-lavoro era statadel resto evidenziata dalla già citata relazione del 1909 di Presutti,che si soffermava con tre importanti annotazioni sulle posizioni e sul-la mentalità degli agrari pugliesi: la ferma convinzione che “i contadi-ni non sono uomini come loro”; l’esperienza di un ispettore generaledel Ministero dell’Interno inviato a Cerignola per una mediazione, ilquale dovette registrare il grave disappunto e la meraviglia degli agra-ri per “l’uguaglianza del trattamento formale”, da lui riservato “ai

costui. E rammentando che il Re a Catania si era interessato di un tentativodi aratro automotore, interpretava questo interessamento del Re non comeinteressamento per una cosa che costituirebbe un grande progresso dellatecnica agricola, ma sibbene come un interessamento del Re per le sorti deiproprietari nella lotta che costoro sostengono contro i lavoratori!

I proprietari nel Foggiano lottano allargando, quanto è più possibile, l’usodelle macchine agrarie, restringendo i lavori, sostituendo sulla più larga scalale donne agli uomini nelle lavorazioni, ritardandoli fino al periodo, in cui,essendo minore la richiesta di manodopera, le mercedi sono più basse...

Ed i lavoratori rispondono in due modi: aumentando ancora i salarinei periodi in cui i lavori non possono assolutamente trascurarsi e dimi-nuendo d’altro canto le ore giornaliere di lavoro; invadendo le terre deiproprietari, che trascurano determinati lavori, per eseguirvi i lavori stessi,salvo a chiederne poscia il pagamento. Questo fenomeno, caratteristicodella provincia di Lecce, ove cominciò nella zona dell’olivo, si va diffon-dendo a poco a poco in tutte le Puglie.

(E. Presutti, Relazione, op. cit., p. 604-05)

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proprietari e ai contadini, facendo sedere gli uni e gli altri accanto asé”; la pressante richiesta al governo perché provveda a “sciogliere leleghe, arrestare i capi dell’agitazione, proteggere con centinaia di sol-dati la libertà di lavoro degli immigrati”, cioè di lavoratori provenien-ti da altri paesi e da altre province, spesso assunti dagli stessi agrari abassi salari per piegare la lotta della lega locale.

Posizioni di questo genere erano largamente presenti anche fra ideputati pugliesi che, sebbene si dichiarassero giolittiani, avevanoopinioni assai conservatrici in materia di rapporti di lavoro e di ri-conoscimento della positività di una moderna dialettica sindacale,peraltro largamente praticata al Nord. Tipico rappresentante di que-sta schiera di politici fu Vito De Bellis, deputato per più volte nelcollegio di Gioia del Colle che, pur richiamandosi continuamentealla “socialità” di Giolitti, in un comizio del 1913, riferendosi agliscioperi allora in atto in Terra di Bari, dapprima affermò che “biso-gna agli attacchi della folla esaltata rispondere compatti con la no-stra legittima difesa” e poi concluse il suo discorso con una doman-

L’intransigenza degli agrari rafforzata dagli industriali del Nord

A partire dal biennio 1907-08 sino al dopoguerra, gli agrari e la classedirigente della Puglia si caratterizzarono per una continuità di atteggia-mento nei confronti del movimento contadino. Nel dopoguerra, però, in unclima conflittuale che vedeva fra i lavoratori l’esaltazione della rivoluzionesovietica e fra i capitalisti l’accentuazione esasperata del pericolo rosso, vi fuanche fra gli industriali del Nord la ferma volontà di non riconoscere alsindacato alcun ruolo su tempi, modi e forme di produzione nelle fabbriche.

Dalla crisi del 1907-08 alle tumultuose vicende del primo dopoguer-ra, sulla questione dell’imponibile di mano d’opera l’identificazione trala struttura di massa dei lavoratori agricoli e il controllo esercitato sulmercato del lavoro non sarà mai accettata dal padronato agrario e dallaclasse dirigente pugliese. Questi ceti, con una determinazione e un’intransi-

L’interpretazione dello storico

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da retorica: “Perché non dovrebbe anche la borghesia prendere ilrevolver e difendersi contro i rivoltosi?”.

Certamente, non fu un caso che proprio a Gioia del Colle ci fu unodei primi e più cruenti eccidi del dopoguerra, quando il 30 giugno del

genza paragonabile solo a quella con la quale i grandi industriali del nordsi oppongono a ogni ipotesi di dualismo di potere nelle aziende, compren-dono che debbono regolare i loro rapporti con la forza-lavoro e le Leghedirettamente, senza la possibilità di ricorrere a circuiti compensativi, qualil’azione sociale dello Stato, l’emigrazione o lo spostamento della pressio-ne delle masse in altri settori economici.

Anche nello scontro che in questi anni si svolge tra il movimento dimassa, organizzato nelle Leghe, e i grandi proprietari e fittavoli, che vo-gliono realizzare la trasformazione capitalistica dell’agricoltura regionale,e in quello tra gli operai delle grandi fabbriche meccanizzate del Nord egli imprenditori più avanzati, si introduce un determinante elementopolitico non avulso dalla lotta economica ma assolutamente compene-trato con questa, l’elemento di principio connesso con il potere, con lafacoltà di comandare e di disporre dei fattori di produzione in condizio-ne di assoluta libertà, senza regole e impedimenti contrattuali.

(A. Pepe, op. cit., p. 803)

PRODUZIONE MEDIA ANNUA DELLE PRINCIPALICOLTURE IN PROVINCIA DI BARI

1901–1910 1914-1923Frumento (q.li) 954.337 697.300Olio (q.li) 236.642 231.000Vino (hl) 1.922.110 433.800Mandorle (q.li) 246.677* 238.400

* Limitatamente al periodo 1905-1910.(E. Di Ciommo, Bari 1806-1940, Franco Angeli, Milano) 1984, p. 357)

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1920 quaranta proprietari della locale Associazione agraria aprironodeliberatamente il fuoco sui contadini inermi, provocando sei morti ecinquanta feriti.

L’eccidio di Gioia del Colle, accanto ai fatti di Ceglie Messapica,Statte, Castellaneta, Terlizzi, avviò una offensiva forte ed organizzatadegli agrari pugliesi, che furono certamente rafforzati nelle loro tradi-zionali posizioni conservatrici dalla condotta della borghesia del Nordche, davanti alle nuove richieste del movimento sindacale nel dopo-guerra, era fermamente determinata a ridimensionare la forza delleorganizzazioni operaie.

Caratterizzate da queste posizioni di chiusura, le classi dirigenti ela borghesia agraria non sapranno fare altro che riproporre nel pri-mo dopoguerra il modello degli anni Ottanta, grazie al quale la Pu-glia aveva superato la crisi provocata dalla guerra doganale con laFrancia. Senonché, la riproposizione del modello sembrò illusorio,poiché da un lato non vi era la disponibilità a sottoporsi ai contratti agodimento da parte dei contadini, dall’altro era del tutto mutato ilquadro del mercato nazionale ed internazionale.

L’anacronistica “febbre di piantare vigne”

Lo storico Luigi Masella mostra assai bene come la riproposizione da par-te degli agrari pugliesi del modello degli anni Ottanta fosse destinato alfallimento sia per l’arretratezza dei sistemi produttivi sia per le profondetrasformazioni del mercato internazionale.

“La febbre di piantare vigne” invadeva di nuovo grandi e piccoli pro-prietari tra il ’19 e il ’20 e insieme ad essa la non troppo nascosta speranzache il fare come in quei tempi ormai lontani (gli anni Ottanta del secoloXIX) l’avrebbe avuta vinta sull’altra e turbolenta parola d’ordine di “farecome in Russia”. Ma l’illusione di riproporre il modello economico

Approfondimenti

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L’affermazione in Puglia del movimento sindacaleLa specifica realtà economica della Puglia, caratterizzata dall’affer-

mazione della grande azienda capitalistica nel Tavoliere e da una di-screta struttura industriale in Terra di Bari, a Taranto e a Brindisi, nonpoteva non favorire l’affermazione del movimento sindacale che, peral-tro, potè ereditare l’esperienza e la tradizione delle società di mutuosoccorso. Nel primo quindicennio del Novecento, su un totale di 195scioperi agricoli registratisi in Italia meridionale, ben 178 si erano avutiin Puglia, con la partecipazione complessiva di 300.000 scioperanti;meno consistente, ma pur sempre notevole se rapportata alla situazionegenerale del Sud, era nello stesso periodo la forza del movimento ope-raio nelle aree urbano-industriali pugliesi, dove si erano avuti 567 scio-peri con circa 80.000 partecipanti.

In particolare, il movimento contadino si sviluppò ben presto in Capi-tanata e in Terra di Bari. Già nel 1901, infatti, la Puglia partecipava alcongresso costitutivo della Federterra nazionale, svoltosi a Bologna, con8 leghe e 6.000 aderenti (5.100 facevano capo alle 4 leghe della pro-vincia di Foggia, 900 alle altre 4 leghe della provincia di Bari); nel 1908,

prebellico si scontra ben presto con la diversa situazione del mercato inter-nazionale. Germania e Austria non erano più i consumatori privilegiati delvino pugliese, mentre l’industria della birra cominciava ormai a prevalerenei mercati interni dell’Europa Centrale e dell’Inghilterra. Per giunta unapolitica fiscale ritenuta particolarmente severa coi viticultori, la difficoltàdi trasporti ferroviari più rapidi e un’indubbia arretratezza dei sistemi pro-duttivi di piccoli e piccolissimi proprietari rendevano decisamente menocompetitivo il prodotto pugliese. Gran parte del vino resta quindi inven-duto sin dalla fine del ’22; la corsa al vigneto si trasforma pericolosamentein crisi di sovrapproduzione e in elemento di sfaldamento di una vasta retedi interessi e di figure sociali, che ruotano attorno all’economia della vite.

(L. Masella, I problemi economici, in La crisi dello Stato liberale dalla 1a Guerra Mondialeall’avvento del fascismo, in AA. VV., Atti dell’VIII convegno di studi sul Risorgimento in

Puglia, Bari 1993, pp. 171-72)

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poi, il numero delle ade-sioni aveva superato le70.000 unità, per cui neigrandi comuni braccian-tili non mancava ormai lalega che coordinava tuttele azioni di rivendicazio-ne dei contadini.

Dopo il loro primo svi-luppo impetuoso, che inmolte zone era stato deltutto spontaneo a seguitodelle penose condizioni divita delle popolazioni ru-rali, dal 1907 in poi le le-ghe pugliesi si impegna-rono sempre più nella co-struzione di organismi dicoordinamento della loroazione, allo scopo di darepiù incisività alle loro lot-te, che così perdevano ladimensione localistica eacquisivano un respiropiù generale. Fu grazie a questa maggiore capacità di coordinamento edi direzione che furono ottenute alcune significative conquiste sia nel1913, sia soprattutto nel 1920: aumenti salariali, riduzione della gior-nata lavorativa, norme più liberali sulle assunzioni.

Il sistema delle leghe, però, non fu mai riconosciuto dagli agraripugliesi che, nutrendo sempre l’obiettivo di distruggerle, considerava-no un accordo col movimento dei contadini come una loro personalesconfitta, finendo così coll’apporre la loro firma ad esso solo quandoogni altra soluzione era preclusa e pensando già alla rivincita. Nell’im-mediato dopoguerra, quando nelle campagne pugliesi si avrà una grande

Andria 8.500Corato 8.000Canosa 3.500Ruvo 3.500Bisceglie 2.500Minervino 1.600Spinazzola 1.500Gravina 1.100Barletta 950Terlizzi 850Putignano 800Trani 800Castellana 800Fasano 700Monopoli 600

LE LEGHE DELLA PROVINCIA DI BARINEL 1908, CON L’INDICAZIONE

DEL NUMERO DEI SOCI

Bitonto 500Noicattaro 500Giovinazzo 450Mola 450Gioia del Colle 400Palo del Colle 400Sammichele 400Noci 350Cassano 300Santeramo 300Triggiano 200Turi 150Casamassima 100Alberobello 100

(I dati sono presenti nell’articolo 80.000 vassalli a con-gresso, in La conquista del 5 aprile 1908, che si riferisceal congresso delle leghe delle province di Bari, Lecce,Foggia e Potenza, svoltosi a Spinazzola il 29 e 30 mar-zo. A differenza del 1901, le leghe della Terra di Barihanno nel 1908 un numero di soci (39.500) superio-re a quello (24.590) delle leghe di Capitanata.

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Una riunione della lega di San Severo

Luigi Allegato, dirigente del movimento sindacale pugliese, ricostruiscein questo brano una assemblea della lega di San Severo, svoltasi il 14 giu-gno del 1907, alla quale egli, sebbene avesse solo 11 anni, partecipò. Eranoquelli i tempi in cui anche nel movimento operaio e contadino della Pugliaera forte la rivendicazione dei “ tre otto di Turati”: “Otto ore di lavoro, ottoore di riposo, otto ore di studio e svago”. Non meravigli la presenza nei localidella lega dell’effigie di Cristo, ché anzi in tutto il movimento vi era agliinizi del Novecento una fiorente letteratura popolare intorno a “Gesù so-cialista”, tanto che venivano celebrati numerosi matrimoni davanti ad unsuo quadro nella sede della lega o del partito.

Entrammo nella Lega contadini sistemata in un casone, che era statoper lungo tempo adibito a taverna. […] La sala era larga e lunga. Assiepatepoteva contenere un migliaio di persone; in fondo alla sala c’era un tavolo,quello della presidenza. Alla parete, sopra il tavolo, i ritratti di Carlo Marxe di Federico Engels e fra questi, in mezzo, il ritratto di Cristo-Uomo,vestito di rosso, con sotto la scritta: “La natura ha stabilito la comunanzadei beni, l’usurpazione ha prodotto la proprietà privata”. Più sopra: “Lavo-ratori di tutto il mondo unitevi” e “L’emancipazione dei lavoratori è operadei lavoratori stessi”. Io, alla Lega, c’ero stato altre volte, ma mai queiquadri, quelle scritte mi avevano fatto tanta impressione.

L’illuminazione della sala era fioca; la luce elettrica si ebbe a San Seve-ro nel 1906, ma la Lega aveva ancora i lumi a petrolio. Il salone si riempìpresto di gente, tutti uomini, nessuna donna e un solo ragazzo: io.

Arrivò il presidente che salì sul tavolo per parlare agli intervenuti. […]Il presidente spiegò ai presenti l’andamento delle trattative coi padroni,le quali si svolgevano tramite il sottoprefetto.

Quando disse che gli agrari si rifiutavano di incontrarsi con i rappre-sentanti dei lavoratori, un urlo partì dall’assemblea: “Vogliamo lo scio-pero, vogliamo lo sciopero fino alla vittoria”.

Nelle conclusioni il presidente fece una proposta: “Chi è per lo scio-pero, alzi la mano”. L’alzarono tutti. Alla controprova non l’alzò nessu-no. Indi diede le istruzioni su come comportarsi durante la lotta.

(L. Allegato, Socialismo e comunismo in Puglia, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 40-41)

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conflittualità, sarà naturale per gli agrari sostenere ed alimentare l’azio-ne violenta dello squadrismo fascista che mirerà, appunto, alla distru-zione del sistema delle leghe.

I limiti del movimento sindacale in PugliaCertamente la particolare situazione della forza-lavoro in Puglia fa-

voriva l’affermazione e l’espansione del leghismo. Infatti, per tutto ilprimo quindicennio del Novecento, e ancor più negli anni dell’imme-diato dopoguerra, le periodiche crisi in agricoltura e la crisi dell’appa-rato industriale determinarono una riduzione continua di salariati fissie una dilatazione oltre misura di lavoratori giornalieri.

Si trattò, quindi, di un processo che non investì soltanto le campa-gne, dove peraltro anche i piccoli e medi contadini furono costretti adandare a giornata, ma anche il mondo urbano, all’interno del qualev’erano molte figure professionali deboli (barbieri, sarti, calzolai, ope-

Forti d’estate ma deboli nelle altre stagioni

La centralità del problema del lavoro e della necessità di una sua primaregolamentazione in Puglia è ben evidenziata da questa significativa pagi-na di Simona Colarizi, che peraltro coglie un limite di fondo del movimen-to sindacale bracciantile, forte d’estate e debole nelle altre stagioni.

Immesso in un mercato del lavoro basato sul salario, il proletariatobracciantile individua rapidamente i termini dello sfruttamento subìto:la mancanza di continuità del lavoro e la presenza di un numero di brac-cianti superiore alla necessità di coltivazioni per la maggior parte estensi-ve e il più delle volte condotte in economia rendevano il padronato diPuglia arbitro indiscusso delle condizioni di lavoro. Ingaggiati sulle piaz-ze dei paesi, per una certa mercede concordata singolarmente e sulla qua-le era ben difficile discutere perché sempre si trovava qualcuno, magariancor più miserabile, pronto ad accettarla, i lavoratori pugliesi a giornata

L’interpretazione dello storico

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rai di piccole aziende, lavoratori dell’edilizia), che per integrare le loromagre entrate periodicamente durante l’anno divenivano braccianti.

L’enorme divario fra un numero esiguo di salariati fissi e la massa dilavoratori precari, che abbandonavano per lunghi periodi le proprieabitazioni per trasferirsi in terre anche lontane, faceva sì che in Puglia ilproblema cardine fosse quello del lavoro e del lavoro agricolo in parti-colare, sul quale l’intero movimento sindacale regionale finiva con l’im-pegnare le sue maggiori energie.

Le leghe, ampliatesi e consolidatesi grazie sia alla sovrappopolazioneagricola permanente sia a quella temporanea di derivazione urbana,non poterono non essere segnate da due fondamentali caratteristicheche, alla lunga, finirono col rendere debole la loro azione: da un lato, laselezione dei dirigenti e l’individuazione degli obiettivi di lotta e del-l’eventuale terreno di trattativa con la controparte si svolgevano secon-do i canoni rigidi della democrazia diretta, della partecipazione e del

si ritrovavano totalmente dipendenti dalla «buona volontà» degli agri-coltori, i quali, specie nei mesi più duri della disoccupazione, si limita-vano a volte a offrire un lavoro senza previa determinazione del salario,che veniva fissato solo la domenica, alla fine cioè di tutta la settimanalavorativa.

Le prime forme di organizzazione nascono quindi principalmente dal-l’esigenza di una elementare difesa nel sistema delle contrattazioni per lepaghe giornaliere. Ma le leghe contadine riuscivano a prosperare solo neimesi dei grandi lavori agricoli, che richiedevano un impiego di mano-dopera tale da rovesciare di fatto i rapporti di forza tra padronato e brac-cianti, i quali, inoltre, vedendo allontanarsi lo spettro della disoccupazio-ne, riuscivano a dispiegare un fronte abbastanza compatto nelle lotte enegli scioperi per ottenere migliori condizioni di lavoro. I successi dellelotte estive erano però inesorabilmente destinati a disperdersi nei mesiinvernali quando, ricreandosi le condizioni di eccedenza di offerta, si ri-proponeva il tradizionale ricatto e il movimento contadino finiva persgretolarsi.

(S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia , Laterza, Bari 1977, pp.32-33)

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coinvolgimento di tutti i soci; dall’altro, assai forte era la rivendicazioneclassista del movimento, per cui vigeva un forte spirito di chiusura neiconfronti delle altre fasce sociali.

Conseguentemente, le singole leghe apparivano forti e invincibilinel loro territorio e nel pieno della lotta, mentre mostravano tutta laloro debolezza nelle lotte di lunga durata. Inesistenti erano i rapportifra leghe, caratterizzate da una forte tendenza al localismo, e Cameredel Lavoro, che, invece, avrebbero potuto promuovere una saldatura

Manifesto del12 settembre1907 della “Le-ga di Resisten-za fra Contadi-ni di Canosa”,che denunziala violazionedegli accordisalariali con-cordati il 13maggio dellostesso anno daiproprietari ter-rieri con i rap-presentanti del-la Lega.Da sottolineareche la Lega diCanosa, forte di3.500 braccian-ti e contadinipoveri iscritti,era impegnatada oltre duemesi nella lottaper ottenere il ri-spetto degli ac-cordi, regolar-mente sottoscrit-ti fra le parti.

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del movimento agricolo con quello urbano; deboli erano anche i rap-porti con le sezioni socialiste, che peraltro, registrando nelle città l’ade-sione di avvocati, insegnanti ed altri esponenti delle classi medie, spessoerano distanti dai problemi del mondo contadino.

Per questa sua natura, il leghismo pugliese finì coll’essere segnato daun profondo isolamento politico e sociale. Quando lo squadrismo fa-scista avvierà la sua capillare campagna di distruzione delle leghe, essopotrà disporre delle simpatie di una opinione pubblica piuttosto vasta.

DISTRIBUZIONE DEGLI ADDETTI ALL’AGRICOLTURANELLE PROVINCE PUGLIESI E IN ITALIA

(ANNI 1882-1902)

Si noti l’alta percentuale dei braccianti (salariati) – ed in particolare di quelligiornalieri (avventizi) – della Puglia, che è di molto superiore a quella della medianazionale; si noti come nel 1902 si registri una sensibile diminuzione dei salariati fissie un conseguente aumento di quelli avventizi, destinati ad alimentare il fenomenodelle migrazioni stagionali; assai bassa è in Puglia la percentuale di mezzadri, coloni,enfiteuti, fittavoli, la cui diffusione in un territorio è legata a processi di modernizza-zione dell’agricoltura.

(Da B. Salvemini, Prima della Puglia, op. cit., p. 166)

Agricoltoriin proprio

Mezzadri, coloni,enfiteuti, fittavoli

Salariatifissi

Salariatiavventizi

Terra di Bari Capitanata Terra d’Otranto Italia1881 1902 1881 1902 1881 1902 1881 1902

Tipi dilavoratori

13,3 15,5 12,2 15,8 15 16,6 16,2 28

2,7 8,2 3,3 8,2 3 11,4 18 29,9

39,7 10,3 36,9 11,7 38,4 10,8 34,4 11,4

44,3 66,0 47,6 64,3 43,5 61,3 31,3 30,7

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Approfondimenti

Le raccoglitrici di olive

C’era un lavoro nelle campagne che era demandato quasi esclusivamen-te alle donne e alle bambine: quello di raccogliere le olive cadute dall’albe-ro. Si trattava di una fatica che andava ripetuta ogni settimana; diversa-mente, le olive cadute sarebbero marcite, compromettendo la qualità del-l’olio. Se l’olio extravergine di Puglia conquistò un primato fra la fine del-l’Ottocento e il primo Novecento sui mercati nazionali ed internazionali,ciò fu dovuto anche alla dura fatica delle raccoglitrici di olive.

Si fa presto a leggere e poi a ripetere, magari con una punta di orgo-glio, che la Puglia ha il primato della coltura dell’ulivo e produce l’olioextravergine, dal fruttato delicato, con il più basso grado di acidità. Ciò,invece, su cui non ci si sofferma mai abbastanza è che un tale primato è ilrisultato di una “fatica” millenaria dell’uomo; una fatica paziente, assaiardua e talvolta quasi impossibile, che, fondata sull’energia delle sole brac-cia, ha reso coltivabili terreni aridi e pietrosi. Ed ecco, allora, l’ulivo,questa pianta sacra agli dei, dominare in Puglia sia nelle piane del Salen-to, sia sui declivi carsici della Murgia, sia ancora lungo i fianchi scoscesied irti del Gargano.

Un primato, quello della Puglia, reso possibile anche dal duro lavorodelle raccoglitrici di olive, le famose “olivare”, che fra novembre e dicem-bre moltiplicavano il loro impegno nelle campagne.

Si incominciava dappertutto nei primi giorni di ottobre, molto primadella raccolta del frutto direttamente dall’albero: a scadenza settimanale,infatti, le olivare ritornavano sotto lo stesso ulivo e con la schiena piegata egli occhi fissi sulla terra raccoglievano una per una le olive cadute.

Le modalità di assunzione nella regione variavano di zona in zona: inTerra di Bari il massaro o l’uomo di fiducia di un grande proprietariogirava casa per casa e assumeva di volta in volta a seconda delle necessitàdel momento; nel Salento, invece, sin da settembre erano all’opera i ca-porali (i capuanta) che si presentavano a sera davanti alle povere abitazio-ni dei braccianti e ingaggiavano le loro donne, provvedendo al trasportogiornaliero anche in contrade lontane dal paese di origine. Ma qui diredonne è un eufemismo, perché preferite su tutte erano le ragazze dai dieciai quindici anni sia per la loro maggiore agilità sia anche per la minore

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pretesa salariale rispetto allagià misera paga corrente.

Tutte, chi a piedi, chi suun traino, partivano moltopresto dalle case per essere giàcon la schiena piegata sottol’albero, non appena il soleavesse illuminato il terreno,per 10 e persino 12 ore algiorno. Ma la fatica delle rac-coglitrici di olive non finivaqui, poiché in molte zonedella Puglia e dell’intera Ita-lia meridionale esse erano te-nute a presentarsi al lavorocon una sorta di grembiule asacco, quello che nel Salentoviene ancora chiamato lu po-sciu. Bisognava non solo sta-re con la schiena piegata per10-12 ore, ma riporre le oli-ve raccolte ad una ad una in

questo grembiule a sacco che ne conteneva sino a 15 chili e poteva esseresvuotato solo quando fosse stato completamente riempito. Alle povereraccoglitrici di olive, che spesso non riuscivano a mantenersi piegate sulleginocchia anche per il peso de lu posciu, non restava che camminare car-poni sotto l’albero per continuare senza sosta e sotto l’occhio vigile delsorvegliante la loro fatica.

Poco nota è quella pagina di storia scritta dalle olivare pugliesi chesoltanto negli anni Cinquanta si organizzarono e furono protagoniste didiverse azioni di lotta per abolire lu posciu, da esse considerato un vero eterribile strumento di tortura. Nel 1959, in particolare, in molti centridella provincia di Lecce ci furono numerose manifestazioni che imman-cabilmente si concludevano nella piazza principale con un falò alimenta-to dai tanti posci gettati con rabbia nel fuoco dalle raccoglitrici di olive.

Quell’anno, forse per la prima volta in Puglia, la vittoria arrise alledonne!

Una giovanissima raccoglitricedi olive col tipico grembiule a sacco

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2. AGITAZIONI SOCIALI E LOTTE AGRARIE NEL PRIMO DOPOGUERRA

L’affermazione delle associazioni degli ex combattentiNell’immediato dopoguerra ci fu anche in Puglia una forte ripresa

delle agitazioni nelle campagne e nelle città. A differenza del passato,però, il partito socialista e il sistema delle leghe non furono più gli unicipunti di riferimento dei contadini e del movimento sindacale, poichénuove forze, come le associazioni degli ex combattenti e, nel Salento, leprime organizzazioni cattoliche, si inserirono nella dialettica politica,rendendo lo scontro molto più articolato del passato e suscitando lapartecipazione di figure sociali urbane (professionisti, esponenti dellapiccola e media borghesia, intellettuali democratici).

Le associazioni combattentistiche, particolarmente forti e numerosegià nel 1919, registravano l’adesione soprattutto di contadini che, dopola loro partecipazione alla guerra, speravano che trovassero attuazionele promesse solenni fatte dal governo.

Infatti, nel 1917, dopo lo sfondamento degli Austriaci a Caporettoe il sopraggiungere delle prime notizie della rivoluzione bolscevica inRussia, che non mancarono di provocare fenomeni di disgregazione edi disfattismo nell’esercito italiano, Salandra, capo del governo, dichia-rò solennemente che “dopo la fine vittoriosa della guerra, l’Italia com-pirà un grande atto di giustizia sociale. L’Italia darà la terra ai contadi-ni, con tutto il necessario, poiché ogni eroe del fronte, dopo aver valo-rosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una situazione di in-dipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla patria ai suoi valo-rosi figli”.

Per ordine dello Stato Maggiore, la dichiarazione di Salandra fu let-ta e commentata presso tutti i reparti dell’esercito, suscitando l’unani-me convincimento che finalmente ci sarebbe stata la divisione dei lati-fondi e accreditando la tradizionale rivendicazione della “terra ai con-tadini” come un obiettivo pienamente concretizzabile.

Caratterizzate dall’assenza di un preciso programma politico-riven-dicativo e dalla presenza di dirigenti assai diversi (da un lato, sinceri

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democratici come Gaetano Salvemini e Tommaso Fiore; dall’altro, unanimatore dello squadrismo fascista, come Giuseppe Caradonna), leassociazioni degli ex-combattenti furono segnate da grandi tensioni in-terne e da condotte politiche inconciliabili.

Unico terreno di incontro fra le diverse anime del movimento com-battentistico fu quello della critica allo stato liberale, ai pescecani diguerra, alla vecchia classe politica parassitaria, e soprattutto agli ammi-nistratori comunali. Al proposito, è illuminante un rapporto al Mini-stero dell’Interno del prefetto di Bari, secondo il quale “i mutilati, gliinvalidi, i numerosi combattenti rientrati nelle loro case vi hanno portatoil convincimento che le amministrazioni locali abbiano fatto tutto il male[ai loro familiari durante gli anni di guerra], e che i componenti di quelleamministrazioni si siano imboscati, e che debbano cedere il posto a chisoltanto ha il diritto di governare essendosi sacrificato per la patria”.

E fu proprio contro le amministrazioni comunali di diversi comunipugliesi che il movimento combattentistico rivolse tutto il suo impe-gno: al grido “Savoia!”, gli ex combattenti, in uniforme e perfetto asset-to di guerra, sotto la guida degli ex ufficiali, assalirono e devastarononell’estate del 1919 i municipi di Altamura, Palo del Colle, Turi e dialtri comuni ancora, riuscendo ad ottenere fra l’entusiasmo della follale dimissioni delle amministrazioni in carica.

Queste rivolte, opportunamente utilizzate da ex-ufficiali e da espo-nenti dei ceti medi per sostituire i vecchi sindaci ed assessori, costituiro-no un precedente importante per il movimento fascista, che si diedeanch’esso una organizzazione di tipo militare, ricorrendo alla forza ealla violenza per affermarsi.

La riorganizzazione del movimento socialistaLa ricostruzione del tessuto delle leghe e del partito socialista fu al-

l’indomani della guerra abbastanza rapido. Anzi, proprio in Puglia,contrariamente a quanto avvenne in altre regioni d’Italia, il movimentocontadino di ispirazione socialista conseguì notevoli successi anche neiconfronti delle organizzazioni combattentistiche: già ad ottobre del 1919in molti comuni della provincia di Bari (Bitonto, Noci, Santeramo,

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Spinazzola, Gravina, Andria e Bari), secondo una relazione del prefet-to, erano presenti leghe proletarie di ex-combattenti che addiritturaavevano un numero superiore di iscritti; anche nelle altre province, eparticolarmente in Capitanata, la situazione era simile.

D’altra parte, il successo alle elezioni politiche del 1919 del partitosocialista, che ottenne in Puglia ben 5 deputati (2 nella provincia diBari e 3 in quella di Foggia), mostrò ben presto quanto fosse ancoraforte il patrimonio organizzativo di ispirazione socialista. La significati-va affermazione elettorale diede nuovo impulso a quel fervore organiz-zativo che non solo mirò a ricostruire ed ampliare il già consistentemovimento socialista dell’anteguerra, ma si pose l’obiettivo di stabilireun coordinamento più efficace all’interno delle leghe e fra queste e lesezioni del partito, in modo da poter sostenere un più generale movi-mento di lotta che superasse i tradizionali ambiti localistici del passato.

La ripresa delle agitazioni sia nelle città sia soprattutto nelle campa-gne non si fece attendere. A delineare una situazione esplosiva dal pun-to di vista sociale concorrevano molti fattori: la grave crisi economicadel dopoguerra, la crescente inflazione che abbatteva il potere d’acqui-sto dei ceti meno abbienti, la generale disoccupazione che sembravacaratterizzarsi quasi come condizione cronica non solo per i braccianti,ma anche per artigiani e piccoli contadini.

Del resto, anche i fortunati che riuscivano ad essere ingaggiati nelsettore agricolo lavoravano mediamente soltanto per 135 giorni all’an-no, guadagnando complessivamente 1.620 lire che, come veniva di-chiarato il 25 settembre del 1920 dalla Commissione governativa perla disoccupazione della provincia di Bari, era “di molto inferiore alle3.000 lire annue ritenute quale somma minima indispensabile nellaprovincia per il sostentamento di un contadino e persone a carico”.

In una situazione di questo genere, gli obiettivi della piattaformarivendicativa del movimento delle leghe era quasi obbligata: l’aumentosalariale, la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore, il miglioramentodelle condizioni di lavoro, il riconoscimento degli uffici di collocamen-to, delle organizzazioni sindacali e, soprattutto, dei contratti collettiviche vincolassero tutti i proprietari al rispetto degli accordi raggiunti.

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La lotta dei contadini fra il 1919 e il 1920Una prima ondata di agitazioni, iniziata ad Andria e poi sviluppatasi

in molti centri della Terra di Bari e di Capitanata, si ebbe già a gennaiodel 1919 e si concluse con la vittoria del movimento contadino, cheottenne la riduzione della giornata lavorativa di 8 ore e l’aumento sala-riale del 30%. Si trattò, però, di un successo temporaneo, poiché gliagrari, superato il momento critico della generale mobilitazione dellemasse rurali nei loro territori, fecero poi ampio ricorso alla manodope-ra proveniente dai paesi limitrofi e persino dal Salento, alla quale essinon applicavano le norme pattuite con la lega locale, determinandocosì la disoccupazione dei braccianti del posto.

Certamente, il massiccio ricorso a questa pratica e la riproposizionedei tradizionali rapporti di lavoro da parte degli agrari provocarono frai contadini delusione e rabbia nei confronti delle autorità governative,che tanto si erano prodigate in promesse di giustizia sociale durante glianni di guerra, e contribuirono in modo determinante ad acuire lo scon-tro soprattutto nelle zone in cui più forte era il controllo delle leghe.

A settembre del 1919, in prossimità della vendemmia, la lega diCerignola, forte di 12.000 iscritti, avviò una serie di scioperi e, preve-nendo gli agrari, organizzò squadre di vigilanza nelle campagne perimpedire a crumiri e braccianti provenienti da paesi limitrofi e da fuoriprovincia di accedere ai fondi per lavorare. L’esempio di Cerignola fuseguito da diverse leghe dei comuni della fascia del grano.

La tensione aumentò ancora di più quando, per tutto l’autunno, icontadini generalizzarono nella campagne pugliesi la pratica dei “lavo-ri abusivi”: senza aspettare l’ingaggio, come si è già avuto modo di dire,essi andavano nei fondi e svolgevano i lavori stagionali necessari, richie-dendo poi ai proprietari la paga per l’opera prestata. Una tale prassi,connaturata alla sovrappopolazione agricola e diffusa in Puglia già pri-ma della guerra, fu duramente osteggiata dai proprietari nella gravesituazione di conflittualità instauratasi fra il 1919 e il 1920. Oltretutto,non sempre il ricorso ai lavori abusivi si distingueva dall’azione confusae disarticolata dell’occupazione delle terre, a cui i contadini furono in-dotti anche dal decreto Visocchi.

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All’inizio di settembre, infatti, forte fu in numerosi centri pugliesi ilmovimento dell’occupazione delle terre: a San Giovanni Rotondo ben1.500 contadini occuparono 2.000 ettari di terreno boschivo, lo deli-mitarono con pietre di confine e incominciarono a dissodarlo; a SanMarco in Lamis l’occupazione delle terre vide addirittura in prima filal’intera amministrazione comunale socialista.

L’autunno del 1919, tuttavia, fu solo il preludio della grande sta-gione di lotta che si sarebbe avuta nell’anno successivo. Due fattoricontribuirono ad alimentare ulteriormente la tensione sociale che,del resto, era già tanto alta: da un lato, la persistente siccità dell’inver-no 1919-20, che causò raccolti assai magri per tutta l’annata agrico-la; dall’altro, la politica del governo Nitti, che escludeva categorica-mente provvedimenti speciali per il Mezzogiorno, considerava priori-tario l’intervento a sostegno delle “distrutte province invase” durantela guerra, invitava i contadini del Sud ad aspettare e a comportarsi“con una disciplina ordinata” e con “ordinato lavoro”.

Le cifre della “Puglia rossa”

Colpisce in questo brano della Colarizi la rapida e capillare ricostituzionedel movimento socialista che, nonostante avesse subito sin dal 1914 l’offen-siva dei nazionalisti per la sua posizione di neutralità in merito al problemadell’intervento dell’Italia in guerra, già alla fine del 1919 aveva recuperatola sua forza tradizionale.

La ricostruzione del movimento proletario, delle leghe contadine, dellesezioni socialiste, delle Camere del Lavoro dà fin dai primi mesi del 1919dei risultati senza precedenti: la CdL di Bari ha distribuito nel maggio5.300 tessere, nel medesimo periodo a Taranto si contano più di 10.000tesserati tra gli operai delle diverse leghe di mestiere e dei sindacati. Nelgiugno la Federterra apre un suo ufficio a Bari, diretto da Eugenio Laric-chiuta, che registra nella sola provincia 15.000 iscritti, destinati nel feb-

L’interpretazione dello storico

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Ad avviare la nuova fase di lotta furono i contadini di Andria che,per solidarietà con 1.000 dei loro compagni disoccupati, proclama-rono, il 1° dicembre del 1919, lo sciopero ad oltranza e, fra l’entusia-smo e la partecipazione di una folla enorme, si impadronirono dellacittà e degli uffici pubblici; ci furono anche scontri con i carabinieridella locale stazione che, per il loro numero esiguo, non ebbero alcu-na possibilità di fermare l’ondata convulsa delle agitazioni. Nei giornisuccessivi giunsero nella città consistenti rinforzi delle forze dell’ordi-ne che si impegnarono in una dura repressione, ricorrendo ad arrestidi massa e perquisizioni casa per casa.

L’insurrezione di Andria, che suscitò una vasta eco sulla stampanazionale e un acceso dibattito nel parlamento, costituì nei mesi suc-cessivi il modello a cui ispirarsi per i contadini pugliesi, che si impe-gnarono in una generale mobilitazione, alimentando fra le masse po-polari l’illusione da un lato che lo stato borghese fosse ormai prossimoal suo sfaldamento, dall’altro che la rivoluzione fosse imminente.

braio del ’20 ad aumentare a 25.000 suddivisi in 22 leghe. Analogo losviluppo delle sezioni socialiste: nella sola Bari se ne contano 14 per untotale di 1.200 iscritti, in provincia 24 con 1.800 iscritti. E si tratta didati destinati ad aumentare: nel 1921, il PSI a Bari è arrivato a 21 sezionicon 3.500 aderenti, in provincia è salito a 21 sezioni con 21.000 iscritti(naturalmente, dall’elenco sono escluse le leghe contadine). Accanto aisocialisti, anche i sindacalisti rivoluzionari risultano in crescita, forti aBari nel 1920 di oltre 10.000 iscritti alla Camera sindacale del lavoro e inprovincia di alcune tra le leghe contadine dei centri più importanti, Mi-nervino Murge e Andria (in quest’ultimo comune però le forze proleta-rie sono divise tra confederalisti e sindacalisti). Estrema rilevanza acquistail movimento sindacalista rivoluzionario anche in Capitanata, dove nelsolo comune di Cerignola, paese di origine di Di Vittorio, si contanooltre 12.000 iscritti alla Camera sindacale del lavoro. Un cospicuo nu-cleo di sindacalisti rivoluzionari è attivo anche nel Salento e soprattutto aTaranto, dove conta più di 8.000 iscritti.

(S. Colarizi, op. cit., pp. 36-37)

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I rapporti dei prefetti delle tre province della regione descrivonodappertutto una situazione incontrollabile davanti all’azione di massadel movimento contadino, che si impadronì di molte città e avviò lapratica sistematica dei lavori abusivi e dell’occupazione delle terre. Spessoneppure l’arrivo di rinforzi militari riusciva ad arrestare la lotta e, inparticolare, l’occupazione delle terre, che registrava la partecipazionedi tutta la popolazione di un paese, con donne e bambini, per cui unaeventuale azione di repressione da parte delle forze dell’ordine rischia-va di trasformarsi in eccidi di massa.

E tuttavia il movimento contadino, che fu impegnato per tutto il1920 in lotte di questo genere, non solo non riuscì a strappare risul-tati duraturi, ma venne indebolito dalla repressione delle forze del-l’ordine e finì poi coll’essere isolato proprio nel momento in cui avrebbedovuto fronteggiare la reazione degli agrari, che assunse nuove e piùaggressive forme organizzative.

Il decreto Visocchi alimenta nelle campagne il clima di tensione

Il 2 settembre del 1919 il ministro dell’Agricoltura, Achille Visocchi,in una seduta del consiglio dei ministri, allora presieduto da FrancescoSaverio Nitti, presentò un importante decreto che prevedeva la possibili-tà per i contadini poveri organizzati in cooperative di occupare terre in-colte o malcoltivate appartenenti agli agrari o ad enti pubblici e religiosi.Il provvedimento, presentato come l’attuazione delle promesse fatte nel1917 dal governo Salandra, fu propagandato moltissimo dalla classe di-rigente, che sottolineava la possibilità di giungere ad una riforma agrariaanche all’interno di una economia capitalistica.

In realtà, il decreto Visocchi, lungi dal dare la terra ai contadini, fuuna risposta necessaria non solo alle promesse fatte al fronte in pienaguerra, ma anche al movimento di rivendicazione delle terre già avviatodalle associazioni combattentistiche e dalle leghe contadine; inoltre, conlo stesso decreto si voleva arginare il movimento contadino con una serie

Approfondimenti

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D’altra parte, lo stesso partito socialista, che era il punto di riferi-mento naturale delle masse popolari, alle quali avrebbe potuto offrireun programma generale ed una possibile via d’uscita, giudicò il movi-mento contadino pugliese immaturo e, conseguentemente, non assun-se la paternità della lotta, limitandosi a difendere i braccianti arrestati eopponendosi alle violente repressioni tramite i mezzi e le procedurepreviste dallo stato di diritto.

La grande offensiva dei proprietari pugliesiDavanti alla determinazione alla lotta delle leghe, la risposta degli

agrari non si fece attendere, anzi proprio la Puglia fu la regione d’Italiache registrò la prima forma di reazione organizzata e violenta. La con-ferma di tale atteggiamento ci viene dal prefetto di Bari, fonte certa-mente non sospetta di simpatie socialiste, che nel 1920 scriveva che iproprietari “ritengono che solo con la violenza possano essere tutelati i

di procedure burocratiche, grazie alle quali si finiva coll’ottenere in loca-zione un pezzo di terra. Infatti, il decreto prevedeva la costituzione inogni provincia di una commissione paritetica di rappresentanti di conta-dini e agrari, che, presieduta dal prefetto, dietro domanda degli interessa-ti, aveva il compito di assegnare un fondo, determinare la durata dell’oc-cupazione e il prezzo della locazione da versare al legittimo proprietario.

Del resto, l’emanazione del decreto Visocchi non fu seguita da unaadeguata legislazione e preparazione, per cui la sua attuazione fu piutto-sto limitata e circoscritta a terre incolte lontane dai centri abitati, spessoimpervie e malariche. Tutto ciò finirà col creare ulteriori elementi di tensio-ne nelle campagne. Non è un caso che in Puglia la lotta per l’occupa-zione delle terre e la pratica dei lavori abusivi si intensificarono proprioa partire da settembre, dopo l’emanazione del decreto. Non sfuggì questacorrelazione alla rivista repubblicana Humanitas, che accusò il governodi essere responsabile della grave situazione creatasi nelle campagne pu-gliesi non solo per l’assenza di ogni provvedimento sulla disoccupazio-ne e sul carovita, ma anche per l’improvvisazione, appunto, del decretoVisocchi.

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loro diritti”. Ancora più esplicito il prefetto di Foggia, che nello stessoanno denunziava: “I proprietari non sanno far altro che invocare trup-pa e carabinieri in permanenza per garantire i loro poderi dalle invasio-ni dei disoccupati, senza rendersi ragione delle condizioni di costoro[…], mentre poi si oppongono a risolvere pacificamente l’inconvenien-te lamentato che con non grande sacrificio e nel loro precipuo interessepotrebbero eliminare o quantomeno attenuare”.

Del resto, la ben nota volontà degli agrari di non avviare la normaledialettica con le organizzazioni dei lavoratori e di mirare solo alla di-struzione di esse determinava nella regione tutti i presupposti perché laloro azione avesse un tasso di radicalità e di violenza almeno pari, se nonsuperiore, a quello del movimento dei contadini.

Con la ferma convinzione, come affermavano nei documenti delleloro associazioni, che il sistema delle leghe altro non sia che un insie-

Un generale clima di tensione

Il clima di generale tensione nel 1920 risulta evidente in questo branodi Allegato che, da dirigente della Lega di San Severo, organizzava i turnidei lavori abusivi per non meno di 5.000 lavoratori al giorno. Come siintuisce, in una situazione in cui mancava ogni altra prospettiva, la praticadei lavori abusivi era l’unica possibilità per i contadini pugliesi di garantirsiuna sia pur minima entrata. Evidente nel brano anche la mancanza didirezione politica del movimento da parte del partito socialista.

Ai primi del 1920 la situazione dei lavoratori di San Severo, come delresto della provincia e dell’Italia intera, era veramente disastrosa; di lavoronon ce n’era affatto e le migliaia di braccianti che formavano la maggioran-za della popolazione attiva del luogo erano letteralmente disoccupati.

San Severo aveva perduto in quest’epoca la gran parte del suo patrimo-nio viticolo a causa dell’infezione fillosserica. Questo terribile insetto pro-veniente dalla Francia, dove verso 1’Ottanta aveva distrutto le vigne tanto

Documenti

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me di “pessimi soggetti, gente di malavita, avanzi di galera, organizza-ti e capitanati da sedicenti socialisti avvocati, onorevoli, ecc., che liincitano coi loro comizi all’odio, alla strage, al saccheggio”, i proprie-tari pugliesi si organizzarono in gruppi armati e affrontarono i brac-cianti, provocando a partire da maggio del 1920 numerosi scontriconclusisi con morti e feriti.

L’esito di questa prima offensiva organizzata, grazie anche alla so-stanziale benevolenza delle forze militari e di polizia, sospinse gli agraria intensificare la loro azione, dando ad essa un respiro più vasto: nel-l’estate del 1920 dapprima moltiplicarono in ogni paese le loro asso-ciazioni, poi si impegnarono nella creazione dei fasci d’ordine, a cuiaderirono anche altre figure sociali, ed infine sostennero la nascitadei fasci di combattimento in vista del colpo finale da infliggere almovimento delle leghe.

rinomate di questo paese, era comparso da noi per la prima volta nel 1912-13. In pochi anni le vigne migliori del nostro agro furono distrutte.

Con la perdita di buona parte dei vigneti era venuta a mancare lapossibilità di occupare molta della manodopera agricola. Inoltre, i pa-droni, con la guerra, e quindi con la mancanza di manodopera maschile,si erano abituati ad eseguire dei lavori insufficienti per una buona colturadelle loro terre; questo fatto aggravava la situazione. […].

La confusione in questo tempo era enorme. Tutti credevano che inItalia si sarebbe fatta la rivoluzione come in Russia, mentre le autoritàcostituite erano assolutamente incapaci di intervenire in qualunque modo.

A San Severo allora c’era il sottoprefetto, il quale diceva di non saperecome fare per dare lavoro ai disoccupati e quando da costui andavano gliagrari a reclamare l’intervento dei carabinieri per impedire i «lavori arbi-trari», come essi li chiamavano, il funzionario rispondeva di non avereforza sufficiente a disposizione.

La nostra città era in ebollizione: scioperi, cortei, manifestazioni ecomizi erano all’ordine del giorno. Ma in tutto questo movimento, lasezione del PSI era quasi assente.

(L. Allegato, op. cit., pp. 105-06.)

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3. DALLA REAZIONE AGRARIA AL FASCISMO

Il delinearsi del movimento fascistaGià nel 1919 si ebbe in Puglia la costituzione delle prime organiz-

zazioni fasciste, che inizialmente ebbero un ruolo politico assai margi-nale, per cui molte di esse, non riuscendo a darsi una struttura stabilee a radicarsi nei grandi centri urbani, ebbero vita instabile e disconti-nua. In quell’anno l’azione dei primi fasci di combattimento si confu-se con quella delle associazioni nazionalistiche e si espresse per lo più nellapartecipazione alle grandi manifestazioni per rivendicare l’italianità dellaDalmazia e di Trieste o per celebrare le ricorrenze patriottiche o ancoraper chiedere la caduta del governo Nitti. Del resto, inesistenti erano irapporti col movimento fondato a Milano da Mussolini, tanto che inPuglia diversi fasci di combattimento in un primo momento dipendeva-no direttamente dall’Associazione Nazionale Combattenti.

La prima affermazione del fascismo nella regione fu legata diretta-mente alla grande offensiva dei grandi proprietari terrieri nell’autunno

L’isolamento del movimento bracciantile pugliese

Molto incisivo questo brano dello storico Franco De Felice, che presentauna efficace sintesi sulla natura delle lotte contadine e sulle loro conseguen-ze nella società pugliese, all’interno della quale finiscono col provocare unampio blocco d’ordine antibracciantile.

L’agitazione agraria è intensissima in Puglia nel dopoguerra, ac-compagnata sempre più di frequente da violenze e da veri e propriepisodi di guerra sociale. Il tema fondamentale è quello del lavoro elo strumento originale di lotta sperimentato dalle leghe è quello del“lavoro arbitrario”: esso consisteva nell’invadere le terre, compiere deilavori ed esigerne poi il pagamento da parte dei proprietari. Era unaforma di lotta che richiedeva un alto livello di organizzazione e di

L’interpretazione dello storico

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del 1920, quando nei centri agricoli di Terra di Bari e di Capitanatavennero costituiti numerosi fasci di combattimento come filiazione del-le associazioni agrarie.

L’intreccio organico fra gli agrari e il nuovo movimento eversivo sisostanziò anche nel ricorso ai vecchi metodi utilizzati nelle campagneper battere le leghe. Non sfuggì, infatti, a molti contemporanei l’ac-costamento fra i “mazzieri” di salveminiana memoria, largamente uti-lizzati dai proprietari contro le organizzazioni dei contadini prima dellaguerra, e le squadre fasciste che però, in un diverso contesto sociale epolitico, si presentavano sul territorio con un’azione capillare e coor-dinata e, per di più, avevano ormai un forte legame col più generalemovimento nazionale. Al proposito, nel febbraio del 1921 l’OrdineNuovo affermava: “La guerra ha portato la moda del fascismo; ha cioèesteso all’Italia un fenomeno di malcostume locale. I mazzieri, da pu-gliesi e meridionali, sono diventati, dopo la guerra, pan-italiani”.

Proprio al febbraio del 1921 risale la prima ondata di violenzafascista in Terra di Bari e in Capitanata, dove furono presi di mira i

controllo, indubbiamente esistenti in Puglia. La profondità dello scon-tro sociale crea una situazione apparentemente senza sbocco: la ten-denza a trasformare gli scioperi in movimenti insurrezionali in cuisono coinvolti interi paesi è un fenomeno registrabile nel 1919 edancora più nettamente nel 1920 ed interessa tutta la Puglia, da An-dria a Nardò. Questa situazione da guerra sociale, se esprime la forzadel bracciante pugliese, ha però l’effetto di spingere tutti gli altri stra-ti sociali delle campagne pugliesi in un fronte antibracciantile e, poli-ticamente, in un blocco d’ordine. I due anni compresi tra il 1920 edil 1922 vedono le campagne pugliesi teatro di una guerra civile cru-dele e spietata, di tipo padano: lo schieramento anticontadino puòcombinare la tradizionale intransigenza dell’agrario, il terrorismo dellosquadrismo fascista e, come strumento risolutore, l’uso dell’apparatorepressivo legale dello Stato.

(F. De Felice, Il movimento contadino nel Novecento, in Storia della Puglia, Adda, Bari

1987, p. 261)

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grandi comuni agricoli (Cerignola, Canosa, Andria, Minervino,Noci, Spinazzola, ecc.) e in particolare quelli ad amministrazionesocialista.

La strategia si delineò ben presto: in un primo momento veniva-no devastate e/o incendiate le sedi del partito socialista, delle leghe,dei circoli, associazioni e cooperative di ispirazione socialista; poi,davanti ai tentativi per lo più spontanei dei contadini di organizzareuna controffensiva che finiva col colpire le proprietà degli agrari, sipassava ad un’azione concertata di squadre intercomunali e provin-ciali che, concentrandosi su un comune, provocavano una situazio-

L’eccidio di Gioia del Colle

Il 30 giugno 1920 quaranta proprietari di Gioia del Colle si resero pro-tagonisti di un eccidio che impressionò l’intera stampa nazionale. Un gior-nale socialista opportunamente scrisse: “Non occorre essere socialisti, per sco-prirsi innanzi a quei poveri morti, colpevoli soltanto di aver asserito il dirittodell’uomo a vivere”.

Fra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1920 si hanno le primeazioni organizzate degli agrari che, armi alla mano, cercano di porrefine alla pratica dei “lavori abusivi”.

È assai lungo l’elenco delle imprese degli agrari in tutta la Puglia: il22 maggio il capo della lega di Ceglie Messapico, che aveva organizzatoturni di “lavori abusivi”, rischia di essere linciato da parte di un gruppodi proprietari; il 9 giugno nelle campagne di Statte un gruppo di brac-cianti, che si accingeva a lavorare senza ingaggio in una proprietà priva-ta, viene preso a fucilate da un massaro; a Bitonto un proprietario di-sperde a colpi di pistola i braccianti che manifestano e chiedono diessere ingaggiati; a Castellaneta i proprietari prendono a fucilate i brac-cianti che dopo la giornata di lavoro si erano presentati per chiedere laretribuzione.

Approfondimenti

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ne di ingovernabilità; infine, si giungeva a iniziative di tipo militare,tese a conquistare il municipio e ad ottenere le dimissioni degli am-ministratori in carica.

La complicità delle forze dell’ordine verso le squadre fasciste è ampia-mente provata anche da documenti ufficiali, anzi, talvolta, soprattutto inCapitanata, si stabiliva una vera e propria interazione fra le prime e leseconde. A Cerignola, ad esempio, conquistata nel marzo del 1921 dallesquadre fasciste di Giuseppe Caradonna, fu palese l’appoggio delle forzedell’ordine, tanto che il locale commissario di Pubblica Sicurezza fu con-siderato addirittura l’esecutore degli ordini del fascio di combattimento.

Ma il momento di più alta tensione di questa offensiva verso il mo-vimento contadino si registra il 30 giugno a Gioia deI Colle, dove 40proprietari della locale Associazione agraria, ispirandosi alla dinamicadei fatti di Castellaneta, si organizzano e concepiscono un piano crimi-noso con l’intento deliberato di compiere un vero e proprio eccidio. Asera, alla fine della giornata lavorativa, essi si concentrano in una masse-ria, dove aspettano i braccianti che, dopo essere stati impegnati nei la-vori abusivi, reclamano la paga per l’opera prestata. Non appena, però,i braccianti, tutti disarmati, sono a tiro, i 40 proprietari non solo fannofuoco, ma poi, montati a cavallo, inseguono quanti riescono a fuggire,continuando a sparare all’impazzata. Il bilancio è assai tragico: 6 mortie 50 feriti. Alcuni braccianti sfuggiti all’eccidio riescono a raggiungerela città e a dare l’allarme. Subito si riunisce una folla imponente cherastrella le campagne alla ricerca degli agrari che, però, sono introvabili,poiché il loro piano contemplava anche la fuga dopo la consumazionedell’eccidio.

La vendetta della folla colpisce 5 proprietari, che poi risulterannodel tutto estranei ai fatti: due di essi vengono uccisi e tre feriti.

Naturalmente, giunge anche il momento della forza pubblica cheinterviene arrestando unicamente i braccianti con l’accusa di omicidiodi due proprietari e del ferimento di altri tre. Nessun provvedimento,invece, viene assunto nei confronti dei proprietari che col loro pianocriminoso avevano provocato 6 morti e 50 feriti fra i braccianti.

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I mazzieri pugliesi, antesignani degli squadristi fascisti

La continuità fra mazzieri pugliesi e squadre fasciste, denunziata dall’Or-dine Nuovo, è uno degli elementi peculiari del fascismo in Puglia. In questoeccezionale documento di Giuseppe Caiati, testimone oculare degli eventinarrati, viene presentato uno spaccato della campagna elettorale svoltasi aBitonto nell’ottobre del 1913, quando, in occasione delle elezioni politiche inquella città, i socialisti opposero Gaetano Salvemini al candidato governativo.Già prima della guerra, come si nota nel brano, vi era una organica conniven-za fra le forze dell’ordine e i mazzieri, largamente utilizzati da conservatori egiolittiani per reprimere il movimento socialista in Puglia. Allo squadrismofascista, come si vedrà nelle pagine successive, sarà sufficiente perfezionarel’azione dei mazzieri per avere ragione del sistema delle leghe e delle orga-nizzazioni socialiste, diffuse capillarmente sul territorio regionale.

Era venuto (l’8 ottobre del 1913, ndr) Salvemini a tenere un comizio.La Piazza XX Settembre era gremita di gente. Salvemini aveva finito diparlare, quando la folla, che si poteva valutare tra le cinque e le seimilapersone, fu accerchiata da questurini, soldati e cavalleria, che avevanol’ordine di perquisirla. Una cosa inaudita! È da figurarsi la paura del pub-blico. Alcuni che avevano con sé coltellini di uso comune, per non esserearrestati, se ne liberarono buttandoli via. […] I “mazzieri”, nel frattem-po, divisi in più gruppi, facevano l’opera loro secondo il piano delittuo-so del Commissario [di Pubblica Sicurezza, ndr]. Persone di ogni etàvengono assalite, gettate a terra, picchiate a sangue. E ciò sotto gli occhidella polizia. Un tale Giovanni Pezzella, mastro muratore, riceve un col-po violento alla testa e cade grondando sangue […], qualche settimanadopo muore per le gravi fratture riportate...

Si era nell’ultima settimana elettorale. Già era arrivato un primo gruppodi professori che la Federazione degli Insegnanti medi aveva mandato perdare aiuto a Salvemini e perché fossero sul luogo testimoni estranei allecompetizioni locali, temendosi quanto poi in realtà accadde.

Il mercoledì 22, io mi trovavo con Giovanni e alcuni dei predettiprofessori in Piazza Plebiscito quando, verso mezzogiorno, arriva il pro-fessore Benedetto Rainaldi, direttore della R. Scuola Normale femmini-

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le di Ancona. Egli desidera essere messo a giorno della situazione e nontarda molto, infatti, a farsene un’idea assai chiara.

La piazza era affollata di gente e noi stavamo attorno al nuovo venu-to, quando io mi sentii colpito nella schiena da un forte colpo di mazza.Mi volto e veggo un ragazzo d’una quindicina d’anni darsela a gambe e ilprofessor Cambini, ch’era con noi, corrergli dietro per afferrarlo o, per lomeno, vedere dove si rifugiasse. Lo vede, infatti, rifugiarsi tranquillamentenel Circolo Cioffrese [dei notabili locali, ndr], insieme ad un giovane de-centemente vestito che lo aveva accompagnato e guidato nell’impresa.

I “mazzieri”, che pochi minuti prima, dopo aver circondato e squadratoil nostro gruppo, si erano allontanati, vedendo ora un po’ di tramestìo,accorsero da ogni parte brandendo minacciosamente le mazze. Alcuni si-gnori [notabili non socialisti, ndr], nostri amici personali, ci si strinseroattorno e, per salvarci, ci accompagnarono a casa. Da quel mercoledì fino allunedì successivo io, come altri capi, fui bloccato in casa dai “mazzieri”.

Il giorno seguente, 23 ottobre, i professori della Federazione, assalitidalla malavita, furono costretti a lasciare il paese. E in quale modo! Dopoun lungo giro per le strade strette e tortuose di Bitonto vecchia, seguiti adue passi di distanza dal Commissario e dal Delegato e poi da una ma-snada urlante, essi giunsero presso il locale della Lega, dove i “mazzieri” eun gruppo di contadini vennero ad una vera battaglia durante la qualeparecchi professori furono seriamente colpiti. Nel pomeriggio di quellostesso giorno, Tito Spinelli, che giungeva da Bari, fu circondato alla sta-zione da quei malviventi, bastonato in presenza del Commissario e co-stretto, fra gli sberleffi e gli insulti dei “mazzieri”, a rimettersi in viaggiosullo stesso treno e procedere per Barletta, donde, poi, tornò a Bari.

Essendo stati così immobilizzati tutti i capi del partito salveminiano, per-ché bloccati in casa o costretti ad uscire dal paese, intimiditi i contadini dalleferoci bastonature avvenute nella settimana ad opera dei “mazzieri”, il can-didato del governo giolittiano riportava, il 26 ottobre, una piena vittoria.

Io, ch’ero sequestrato in casa da più giorni, il mattino del lunedì 27,assai di buon’ora, colto il momento in cui il “mazziere” di guardia sottocasa non c’era, me ne andai a Molfetta a piedi, percorrendo la via vecchiache si apriva non lungi dalla stazione.

(G. Caiati, Annali d’un pugliese d’altri tempi, in R. Colapietra (a cura di), Omaggio a

Salvemini, in La Rassegna Pugliese, N.12/1973. pp. 419-21)

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Un commissario di Pubblica Sicurezza agli ordinidi Giuseppe Caradonna

Dopo aver spadroneggiato a Barletta, Canosa, Minervino, Spinazzolaed Andria, le squadre fasciste di diversi comuni, sotto la guida di GiuseppeCaradonna, fra febbraio e marzo del 1921 danno l’assalto al municipio diCerignola e impongono il loro controllo su tutti i quartieri della città.

Le azioni fasciste suscitano subito vibrate proteste da parte dei socialisti,che denunciano ben presto l’intero piano reazionario, all’interno del qualeun importante ruolo viene svolto dalle forze dell’ordine: i fascisti, di solito,prendono l’iniziativa e si impegnano in una serie continua di provocazionicontro le sedi del movimento operaio e/o contro i suoi leader; alla primareazione dei braccianti e dei socialisti, si registra il massiccio interventorepressivo delle forze dell’ordine, alle quali, per l’occasione, si affiancano lesquadre fasciste, che hanno, così, la possibilità di completare l’opera didistruzione delle organizzazioni socialiste e di conquistare i municipi.

Riferendosi ai fatti di Cerignola, l’onorevole socialista DomenicoMajolo denuncia esplicitamente che vi sono “rapporti di amicizia e diinteressi tra il cav. De Martino, dirigente il locale ufficio di P.S., e gliagrari locali che, sconfitti nelle agitazioni agrarie, scacciati per sempre dalcomune e con votazioni plebiscitarie per i socialisti, hanno tutto l’inte-

Approfondimenti

L’affermazione del fascismoL’offensiva fascista si intensificò ancora di più in occasione delle elezio-

ni politiche del maggio del 1921, quando l’intera borghesia pugliese die-de vita alle liste dei blocchi nazionali, formate da candidati non solo fasci-sti, ma anche e soprattutto salandrini, nittiani e persino giolittiani. Inquesta occasione la violenza fascista si dispiegò in modo programmato ecapillare sino al momento delle votazioni, presidiando in molti comuni iseggi elettorali, impedendo con la forza agli elettori socialisti di poter espri-mere il loro diritto di voto, consegnando addirittura agli elettori schedegià votate per il blocco nazionale. Singolare, al proposito, il comporta-

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mento dei contadini di Ascoli Satriano, che ingoiarono la scheda già com-pilata e a loro consegnata dai fascisti davanti ai seggi e riposero nell’urnala sola busta vuota. Le elezioni videro in tutta la Puglia la scontata vittoriadelle liste del blocco nazionale e una affermazione dei candidati fascistisoprattutto in Terra di Bari e nel Salento.

Il partito socialista, nonostante la dura repressione subìta e il generaleclima di sopraffazione dominante nell’intero periodo elettorale, aumen-tò i suoi consensi, ottenendo 6 deputati, di cui uno per la prima voltavenne eletto nel Salento. A fronte del lusinghiero risultato ottenuto, però,le organizzazioni socialiste erano ormai in tutta la regione in una fase di

resse a turbare le acque per conquistare il potere perduto” e che, pertanto,il De Martino è “il diretto esecutore degli ordini impartiti dal Fascio dicombattimento di Cerignola”.

La tesi del Majolo trova conferma nella relazione compilata da Ric-cardo Secchi, ispettore generale di Pubblica Sicurezza, inviato dal Mini-stero dell’Interno a Cerignola e negli altri comuni per svolgere una inda-gine sulle violenze delle squadre fasciste, il quale nella sua relazione parlaesplicitamente della connivenza delle forze dell’ordine. In particolare,Secchi afferma: “Il 26 (febbraio) mattina, sabato, il Caradonna e gli altrifascisti sono diventati i padroni della piazza imponendo il fermo ai con-tadini, molti dei quali furono bastonati a sangue…; i fascisti decretaronoche nessun deputato socialista sarebbe entrato in Cerignola. Prova piùpalmare di questa connivenza tra autorità di P.S. e agrari-fascisti non vipoteva essere. Dove il Caradonna vedeva degli aggruppamenti, gridandoa squarciagola, imponeva al commissario di P.S. lo scioglimento, dicen-do che sciopero non ve ne doveva essere”.

Assai significativa, poi, l’ammissione dell’ispettore generale: “Mi è giuo-co forza ammettere che l’azione della P.S. non poteva meglio giovare alfascismo in quanto combatteva strenuamente il socialismo nei suoi capimigliori. […] Sento il dovere della colleganza, ma sento più forte quellodella difesa della nobiltà della funzione. Debbo quindi condannare e bia-simare il sistema di procedere ad arresti senza prove, senza il rispetto perla flagranza e di argomentare come argomenta il cav. De Martino”.

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disgregazione, che si accentuò fra la fine del 1921 e il 1922. Il terroreseminato dai fascisti e l’opera di repressione delle forze di polizia, che siintensificarono ancora di più dopo la vittoria delle liste del blocco nazio-nale, provocarono continue defezioni nel movimento contadino e persi-no, in diversi centri, il passaggio della lega locale nel sindacato fascista.

Non fu certamente un caso che proprio fra il 1921 e il 1922, pur

Il delitto Di Vagno, precorritore del delitto Matteotti

Il 25 settembre del 1921 alcuni squadristi uccidono a Mola di Baril’onorevole Giuseppe Di Vagno, esponente socialista prestigioso, assai stimatonella società pugliese, e soprattutto molto amato dal popolo, che lo conside-rava il suo “gigante buono” e continuò ad andare in pellegrinaggio presso lasua tomba anche nel periodo fascista. Il delitto Di Vagno precorre in piccoloquello che poi sarà in grande il delitto Matteotti, compiuto a Roma il 30maggio del 1924. Vi fu in tutta la Puglia una grande indignazione: laborghesia e una parte dei politici liberali sembrarono determinati a recupera-re la loro autonomia politica; il movimento fascista ebbe giorni di difficoltà.

Il delitto Di Vagno maturò nella fase più violenta dell’offensiva dellosquadrismo pugliese, che mirò anche a decapitare il movimento sociali-sta dei suoi leader. Infatti, agguati ed attentati sin dal gennaio del 1921erano stati promossi nei confronti di altri deputati socialisti. Lo stesso DiVagno era riuscito a maggio di quell’anno a sfuggire ad un primo aggua-to tesogli a Conversano dai fascisti locali, rafforzati per l’occasione da undiscreto numero di squadristi di Cerignola.

L’ispettore Secchi, che - come si è già detto - fu poi inviato dal Ministe-ro dell’Interno per una indagine sulle violenze perpetrate dai fascisti inPuglia, non lascia margini di dubbio: l’agguato di maggio fu preparato ericercato, poiché i fascisti, aspettando il momento propizio, seguirono perle strade di Conversano il deputato che, accompagnato e protetto da alcunisuoi amici socialisti, cercava di rincasare. Proprio nelle vicinanze della suaabitazione gli squadristi sferrarono l’attacco, provocando morti e feriti. DiVagno, in quella occasione, fu fortunato, poiché riuscì a guadagnare il por-

Approfondimenti

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registrandosi nelle campagne i problemi di sempre (eccedenza di ma-nodopera, disoccupazione, bassi salari), peraltro ulteriormente acuitidalla grave inflazione e dall’aumento dei prezzi di prima necessità, vifurono in Puglia il sostanziale immobilismo del movimento contadinoe, al contrario di quanto era accaduto l’anno precedente, l’assenza pres-soché generale di ogni azione rivendicativa.

tone di casa sua, ma evidentemente il fascismo pugliese lo considerava unobiettivo irrinunciabile. In effetti, non più nella sua città, ma a Mola, conuna dinamica pressoché simile a quella messa in atto a Conversano, il lea-der socialista venne colpito a morte.

I dirigenti del fascismo pugliese, contro ogni evidenza, in un primomomento tentarono di accreditare l’ipotesi che si fosse trattato di undelitto comune, ma poi, davanti alla grande ondata di indignazione pro-veniente da tutti i settori della società, furono costretti a subire l’imputa-zione di 24 squadristi che peraltro, dopo il benevolo trattamento dellamagistratura di Trani e di Bari, godranno dell’amnistia generale concessanel dicembre del 1922 come uno dei primi atti del governo Mussolini.

In occasione del delitto Di Vagno fu singolare l’atteggiamento di al-cuni giornali degli agrari pugliesi, forse spiegabile col generale moto diindignazione dell’intera comunità regionale, che giunsero persino a giu-dicare il fascismo come “il più morboso e il più spregevole dei fenomenisociali politici contemporanei” e a definirlo “servo prezzolato, sicario fe-roce del capitalismo agricolo”.

In realtà, affievolitesi le emozioni e le reazioni del primo momento, laborghesia pugliese accettò la tesi che il delitto Di Vagno fosse stato soltantoun incidente promosso e ispirato non da Giuseppe Caradonna, leader diprimo piano del fascismo e ispiratore e organizzatore dello squadrismo pu-gliese, ma da alcuni esaltati che spesso si aggregano ad un movimento sano.

Del resto, questa tesi, che le organizzazioni fasciste promossero e so-stennero con forza, sembrava rispecchiarsi nella realtà, poiché si assistettead una generale limitazione della violenza squadrista, risultato non diuna repentina conversione alla moderazione, ma della capillare distruzio-ne già conseguita del movimento delle leghe e delle organizzazioni socia-liste e della decapitazione di tutti i loro più prestigiosi leader.

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Significativo, al proposito, fu il fallimento dello sciopero agrarioproclamato in provincia di Foggia il 30 maggio del 1921 che, purregistrando una discreta adesione, si concluse con la capitolazionedelle leghe per il ricorso da parte dei prorpietari terrieri al massiccioreclutamento di braccianti forestieri, protetti dai fascisti e dall’im-ponente dispiegamento delle forze dell’ordine e, in particolare, dinumerosi reparti di carabinieri a cavallo.

Salvemini è un “traditore”

Gaetano Salvemini (Molfetta 1873-Capo di Sorrento 1957), figura ori-ginale della cultura e del socialismo pugliese, fu impegnato nella denunciadi tutte quelle pratiche di governo che comprimevano le energie e le poten-zialità di sviluppo del Sud; peraltro, si allontanò nel 1911 dal partito socia-lista, perché era da lui considerato troppo acquiescente verso l’aristocraziaoperaia del Nord. Per la coerenza delle sue posizioni, finì col divenire unodei principali bersagli del potere in generale: fu assai osteggiato da Giolitti,e, naturalmente, fu oggetto di numerose azioni da parte degli squadristi.

Il brano che qui di seguito si riporta è particolarmente significativo edemblematico della mentalità diffusa fra i giovani, poiché presenta un dialo-go svoltosi nel 1927 fra tre studenti universitari di Firenze: il primo, che èlo stesso autore, è di formazione liberale, gli altri due sono completamentepresi dal fascismo e, fra l’altro, si augurano che l’intellettuale pugliese primao poi possa essere raggiunto da una revolverata, nonostante egli fosse dal1925 in esilio. Il riferimento agli studenti di Salvemini è spiegabile con ilruolo di docente universitario di storia moderna che egli ricoprì dal 1901 esino al 1924, quando abbandonò l’insegnamento per non piegarsi al regime.

Firenze, 28 luglio 1927: conversazione (dell’autore, ndr) con due com-pagni fascisti di medicina.

“Cosa volete fare contro Salvemini?”.“Vogliamo dargli noia. Disgraziatamente ora non si bastonano più, ma

qualcuno che gli tira una rivoltellata se continua così lo troverà di sicuro”.“Ma che ha fatto? “.

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In provincia di Bari, il movimento contadino mostrò di possedereancora una sua forza organizzativa solo ad Andria, tanto che la conqui-sta della città nel luglio del 1922 divenne l’obiettivo principale dellesquadre fasciste di tutta la Puglia.

Infine, la caduta di Bari, e segnatamente di “Bari vecchia”, espugna-ta nella notte dell’8 agosto del 1922 non dai fascisti, i cui assalti eranostati respinti nei giorni precedenti dalla sola popolazione del borgo, ma

“Ha tradito l’Italia”.“Perché?”.“Va a Londra a trattare un periodo inglorioso della nostra storia” (dal

’70 al ’14, ndr).“Perché inglorioso?” .“Perché sì “.“E se anche lo fosse?”.“Non avrebbe diritto di farlo”.“Cosicché uno storico prima di scrivere dovrebbe andare al fascio a

chiedere se il periodo scelto è, secondo il fascio, glorioso o inglorioso? E seil fascio lo reputa inglorioso non è lecito studiarlo. Ora badate che ognipartito vede a suo moda la gloria. Dove vanno a finire gli studi storici?”.

“Già voi con la vostra storia pura, imparziale, scientifica siete quelliche ci avete portato al bolscevismo”.

“E come mai?”.“Lavorando sempre contro l’Italia”.“Ma scusate, Salvemini non voleva la Dalmazia solamente perché pen-

sava che fosse una catastrofe per l’Italia”.“Salvemini è un porco. Damandalo a tutti gli studenti”.“Non gli studenti suoi”.“Gli studenti di Salvemini sono dei maiali e noi lo bastoneremo”.“Badate che all’estero non farà una bella impressione”.“Ora non siamo più ai tempi in cui l’Italia era una serva. Ora coman-

diamo noi! Siamo stati a un pelo dalla guerra con l’Inghilterra e l’In-ghilterra ha avuto paura! Stentiamo tanto a riprendere l’antico prestigio edegli uomini come Salvemini vengono a intralciare il glorioso cammino”.

(L. Ferrero, Diario di un privilegiato sotto il fascismo, Chiantore, Torino 1946, pp. 133-35)

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da reparti delle forze armate, pose termine in Puglia ad ogni tentativodi opporre una resistenza organizzata e di massa al fascismo.

Quando, dopo la marcia su Roma, i fascisti occuparono tutte le cittàdella regione, non vi fu praticamente nessuna resistenza e l’intera opera-zione, che peraltro registrò ulteriori quanto inutili assalti e devastazionidelle sedi socialiste, si configurò come atto dimostrativo e celebrativo.

Il ruolo subalterno del sindacato fascista e la nostalgia per Di VittorioL’affermazione del fascismo comportò anche in Puglia quella poli-

tica di normalizzazione che, delineata da Mussolini a livello nazionale

Di Vittorio, il leader che rivendica la dignità umana per i contadinidi Puglia

Giuseppe Di Vittorio (Cerignola 1892 – Lecco 1957) mise più voltein evidenza come il fascismo, lungi dal difendere i contadini, li abbiapersino espropriati di quelle conquiste strappate fra il 1919 e il 1921. Leaffermazioni di Di Vittorio hanno un particolare valore di testimonianzaper il ruolo politico-sindacale da lui ricoperto nella prima metà del No-vecento.

Egli, infatti, partendo dalla sua Cerignola, fu un infaticabile orga-nizzatore sindacale sin dal 1911, deputato dapprima socialista nel 1921 edin seguito comunista dal 1924. Condannato dal tribunale speciale del fa-scismo a 12 anni di carcere, riuscì a fuggire in Francia, dove si impegnò fragli esuli politici e gli emigranti a mettere in piedi alcune strutture minimedel movimento politico-sindacale italiano. Dopo la caduta di Mussolini(25 luglio 1943) fu particolarmente impegnato nella ricostruzione del sin-dacato, tanto da divenire segretario generale della CGIL (1945-1957).

Nato e cresciuto in un tugurio e costretto sin da bambino alla duravita del bracciante nelle masserie, dove l’alimentazione giornaliera pre-vedeva per il contadino un tozzo di pane con acqua, sale e cipolla, e illetto era un giaciglio improvvisato di paglia, Di Vittorio si impegnò

Protagonisti

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dopo la marcia su Roma, avrebbe dovuto portare alla “costituziona-lizzazione” del movimento.

Nei centri agricoli, in particolare, venne avviata una capillare cam-pagna propagandistica tesa alla esaltazione degli aspetti positivi del sin-dacato fascista che – veniva detto – non solo era in grado di rimuoverela tradizionale conflittualità, ma, promovendo la collaborazione e l’ar-monia fra capitalisti e lavoratori, sarebbe riuscito a difendere gli inte-ressi dei contadini meglio di quanto avessero fatto nel passato le leghe.Questa propaganda, peraltro, sembrava in un primo momento trovarequasi una conferma nell’atteggiamento di disponibilità alla trattativa

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sin da giovane nelle leghe, divenendo poi la guida sindacale e moraledei lavoratori pugliesi.

Il suo impegnò non si limitò alla espansione e alla direzione delle leghe,ma mirò soprattutto a fondare il movimento contadino su nuovi conte-nuti e su un reale spirito di solidarietà, capaci di conferire alle lotte nellecampagne una dimensione più umana e più civile. Al proposito, LuigiAllegato, che fu amico e collaboratore di Di Vittorio, afferma: “Prima dilui la lotta era estremamente aspra, e non soltanto fra padroni e lavoratori,ma anche e soprattutto tra lavoratori stessi; tra quelli dell’uno e dell’altropaese concorrenti in occupazione di manodopera; fra organizzati e nonorganizzati, tra scioperanti e crumiri. Di Vittorio inculcò nella mente ditutti che i lavoratori di ogni categoria e di ogni paese, qualunque sia la loroposizione e l’ideale che perseguono, sono essi fratelli e che il solo nemicoda combattere, con mezzi civili, è il padrone”. Pressante era anche il suoinvito ai braccianti ad accostarsi all’istruzione e ad impadronirsi delle “armidella cultura”, tanto che, anche per suo impulso, si intensificarono nelleleghe pugliesi corsi serali di alfabetizzazione aperti a tutti.

Del resto, ancora negli anni Settanta, a chi assisteva ad una assembleadi una locale Camera del Lavoro capitava spesso di ascoltare dalla vivavoce di un vecchio bracciante: “Di Vittorio ci ha spinti a studiare, a capi-re il lavoratore che sbaglia e soprattutto a non toglierci la coppola, a noninchinarci, a non farci da parte e a non cedere di diritto il passo quandoper strada ci incrociamo col padrone”.

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da parte degli agrari col nascente sindacato fascista, che, così, ricevevauna forte spinta alla sua diffusione nelle campagne.

In realtà, dopo la fase di scardinamento violento del sistema delleleghe e delle organizzazioni socialiste, gli agrari ritornarono alle posizio-ni di sempre e non mostrarono neppure disponibilità ad assecondare lemoderate richieste del sindacato fascista, provocando così in alcune zoneagitazioni e persino tentativi di sciopero.

Premonitore della condotta degli agrari fu il prefetto di Bari che,relazionando a maggio del 1921 sull’attività di Salvatore Addis, impe-gnato nella costituzione delle prime organizzazioni sindacali fasciste nellecampagne di Spinazzola e dei paesi limitrofi, dapprima valuta positiva-mente l’azione da lui svolta a favore dei contadini e poi significativa-mente afferma: “Potrà forse in seguito riuscire inviso agli stessi agricol-tori proprietari che oggi ne apprezzano la instancabile attività, data ladiversità degli interessi che sostiene”.

Ben presto, infatti, diversi sindacalisti fascisti si resero conto dellereali intenzioni degli agrari, sempre riottosi e indisponibili ad appli-care persino tariffe e contratti di lavoro concordati, tanto da interro-garsi sulla natura e sul ruolo di reale difesa dei lavoratori da parte delsindacato fascista. “Il nostro sarà sindacalismo di collaborazione o sin-dacalismo rivoluzionario?”, si chiedeva un importante dirigente nelcongresso dei sindacati fascisti di Capitanata, svoltosi a Foggia nelmarzo del 1923.

In realtà, al di là di alcuni scontri che certamente si registraronocon le associazioni degli agrari, si andò delineando un ruolo subalter-no del sindacato fascista che, conseguentemente, non riuscì a rappre-sentare e a difendere le rivendicazioni del mondo del lavoro. D’altraparte, l’intera dinamica non sfuggì al prefetto di Bari che, illustrandola situazione delle campagne nel gennaio del 1924, parla espressa-mente di “disagio economico in cui le masse qui versano per la disoc-cupazione e il non soverchio interessamento al riguardo dei dirigentidel fascismo locale”, aggiungendo poi significativamente che si va “af-fermando nelle masse stesse, con un senso di nostalgia, l’affetto perl’on. Di Vittorio”.

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L’annullamento delle conqui-ste ottenute dai contadini

In queste pagine Giuseppe DiVittorio contesta dall’esilio fran-cese la propaganda fascista sullemisure adottate a favore dei con-tadini e mostra come sin dall’ini-zio del regime furono varati prov-vedimenti legislativi che azzera-vano tutte le conquiste dell’imme-diato dopoguerra.

Il decreto dell’11 gennaio1923, n. 252, annullò il decretoVisocchi e dichiarò illegali le oc-

cupazioni già effettuate e legalizzate dalle Commissioni provinciali. Invirtù di questo decreto tutti i contadini poveri ed ex-combattenti inse-diati sulle terre lasciate incolte dai grandi proprietari, compresi quelliche, nella speranza di salvarsi, erano passati al sindacato fascista, furonocacciati da quelle terre.

Le perdite materiali dei contadini spossessati furono enormi: in com-penso, un notevole profitto trassero dal decreto i grandi proprietari, iquali vivevano nelle grandi città e mai avevano visto i «loro » terreni.Infatti, i contadini avevano occupato delle terre incolte e invase dalleerbacce. Certi di conservarle per il numero d’anni legalmente fissato dalleCommissioni provinciali, essi le avevano lavorate per parecchi anni inpura perdita, allo scopo di bonificarle per raccogliere poi il frutto dellaloro fatica nel corso degli anni seguenti. Il decreto del governo fascistaapparve proprio nel momento in cui quelle terre, bagnate del sudore edel sangue dei contadini, cominciavano a produrre. I grandi proprietari,invece di terre incolte o divenute sterili per loro colpa, ricevettero incambio campi grassi e fertili, facendo così un grosso guadagno sul lavoronon pagato dei contadini poveri e affamati del Mezzogiorno d’Italia.

Sempre sotto la pressione del movimento contadino, in pieno sviluppo

Documenti

Di Vittorio in un comiziodell’immediato dopoguerra

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e assai combattivo, il governo era stato costretto, dopo la guerra, a vietarecon una legge l’aumento dei canoni sulla terra concessa ai piccoli affittuari.Un’altra disposizione vietava ai grandi proprietari di esigere l’allontanamentodei mezzadri e dei piccoli affittuari, anche alla scadenza legale del contratto.Queste misure avevano lo scopo di prevenire minacciosi disordini agricoli[...]. Il governo fascista, con la legge del 3 dicembre 1922, n. 1583 (appenatrentaquattro giorni dopo la presa del potere), e col decreto del 10 settembre1923, n. 2023, annullò interamente queste disposizioni.

Ancora un ultimo esempio che caratterizza la politica fascista nei con-fronti dei contadini. Si può affermare che in quasi tutti i Comuni agrico-li e in ogni villaggio d’Italia la questione delle terre comunali e delloStato usurpate dai grandi proprietari è molto acuta. Lo scopo della isti-tuzione del podestà fu precisamente di aiutare i grandi proprietari a para-lizzare ogni velleità dei contadini lavoratori di rioccupare quelle terre.

Un esempio concreto ne darà al lettore una idea approssimativa. IlComune di Apricena (Foggia) disponeva di grandi estensioni di boscoche servivano ai bisogni della sua popolazione: pascolo, legna da arde-re, legna da carbone, calce e materiale da costruzione, ecc. Essendo pa-droni dell’amministrazione municipale, i proprietari locali avevano datoquesto territorio in concessione a se stessi, con una decisione del Con-siglio comunale presa fra il 1878 e il 1880. Tutte le rivolte dei contadi-ni che lottavano per la restituzione dei loro diritti furono soffocate nelsangue. Infine, nel 1921, i contadini, cacciati i grandi proprietari dalConsiglio comunale, ottennero un regio decreto che annullava le deci-sioni precedenti e restituiva al Comune tutte le terre acquisite dai «con-cessionari».

Ma già in quel momento i grandi proprietari, che avevano organiz-zato e armato le squadre fasciste, davano inizio alla loro offensiva: ro-vesciarono così con la violenza il Consiglio comunale contadino, cac-ciarono dal paese tutti i consiglieri e i dirigenti della lega contadina,dispersero la lega stessa grazie ai metodi che già conosciamo, e ridiven-nero i padroni del Comune e dei contadini. In questo piccolo episodiosi riflette quasi tutto il fascismo agrario italiano, e soprattutto dell’Ita-lia meridionale.

(G. Di Vittorio, Le fascisme contre le paysan. L’expérience italienne, Paris 1929, in R. Villari, IlSud nella storia d’Italia, Laterza, Bari 1972, pp. 597-90)

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La pacificazione nelle campagneLo scontro in Puglia fra alcuni settori del sindacato fascista e gli agra-

ri venne definitivamente risolto nel novembre del 1923 con un inter-vento d’autorità dei vertici nazionali del partito, impegnati ormai nel-l’opera di normalizzazione e di istituzionalizzazione dell’intero movi-mento del fascismo. Vennero allontanati o emarginati tutti quei sinda-calisti fascisti che, movendosi in autonomia rispetto al partito, si senti-vano espressione dei soli lavoratori organizzati e, conseguentemente,consideravano inevitabile un conflitto davanti alla chiusura dei pro-prietari. Significativo, al proposito, un telegramma al prefetto di Baridi De Bono che afferma: “Sto provvedendo per i sindacati fascisti [di]codesta provincia cominciando con l’assoluto allontanamento di Gra-nata”, che nel 1923 aveva sostenuto ed organizzato diversi scioperi,particolarmente ad Andria e Molfetta.

Grazie all’intervento delle autorità nazionali del partito, si instaurònelle campagne la pacificazione fra il sindacalismo fascista e agrari che,rafforzando le loro posizioni nei confronti dei contadini, decisero di farparte organicamente del nuovo regime. Del resto, la politica economi-ca del fascismo, che diede vita alla gigantesca campagna della battagliadel grano e si fondava sulla convinzione del ruolo centrale dell’agricol-tura nella generazione della ricchezza del Mezzogiorno, rafforzò i grandiproprietari terrieri e in particolare i cerealicoltori, mentre il sindacatofascista pugliese venne del tutto privato di ogni spazio di iniziativa auto-noma, ridotto ad un semplice organismo di collaborazione col capitale e,pertanto, incapace di tutelare realmente i lavoratori.

4. IL FASCISMO NELLE CITTÀ

L’affermazione delle élites urbane nella direzione politicaLa pacificazione nelle campagne comportò per gli agrari pugliesi la

perdita della loro antica leadership politica, che invece venne esercitatadurante il fascismo dal nuovo ceto urbano di professionisti, imprendi-tori, e grandi commercianti.

L’affermazione della direzione politica del nuovo ceto urbano inte-

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ressò persino la Capitanata, dove gli agrari erano stati sino alla primaguerra mondiale i protagonisti assoluti della politica e della economia.Anzi, proprio in questa provincia si registrò il più ambizioso tentativodi promuovere un generale rinnovamento economico che, puntandosui proprietari terrieri più avanzati, comportasse da un lato la moder-nizzazione dell’agricoltura e la bonifica delle terre malariche, dall’altrolo sviluppo e l’espansione del capoluogo.

In questo senso, non fu certamente casuale la progressiva riduzionead un ruolo di secondo piano di Giuseppe Caradonna, protagonistasin dalla prima ora dello squadrismo regionale e unico pugliese a farparte del comitato centrale del partito fascista all’atto della sua costi-tuzione, che avversò con forza il progetto di ammodernamento delnuovo ceto politico urbano. Già alle elezioni politiche del 1924, illistone, di cui era capolista proprio Caradonna, ottenne consensi digran lunga inferiori a quelli della lista bis di fiancheggiamento, cheera diretta espressione delle élites urbane; in seguito, la figura domi-

Il progetto della “grande Foggia” nacque già vecchio

Nel brano che segue, Leandra D’Antone mette in evidenza come il pro-getto della grande Foggia fosse nato già datato, fondandosi esclusivamentesu una industria di trasformazione dei prodotti agricoli e non anche sunuove produzioni industriali, come quella chimica e cantieristica che, inve-ce, erano state avviate a Bari e Taranto.

Dopo quegli anni Foggia e la sua pianura divennero una realtà tra letante del tessuto economico-produttivo del paese e perdettero gran partedella loro rilevanza nazionale. Poteva tanto essere attribuito solo alla ca-duta di prestigio dovuta alla scomparsa dei suoi più validi uomini politi-ci? In realtà la pianura del Sud e la «grande Foggia» decaddero insiemealla bonifica integrale e all’illusione agriculturista che l’aveva sorretta.

Se la guerra di Etiopia e l’espansione imperiale potevano ancora appa-rire ad occhi disattenti come una distrazione momentanea dal progetto

L’interpretazione dello storico

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nante divenne Gaestano Postiglione, che peraltro poteva vantare diavere partecipato con Mussolini alla fondazione del Fascio di Milano.

Il progetto della grande FoggiaGrazie alla concentrazione nella sua persona di ruoli politico-ammi-

nistrativi diversi e determinanti per lo sviluppo del territorio, GaetanoPostiglione fu impegnato per oltre un decennio in un’opera di direzioneassai complessa, che prevedeva bonifiche di terreni malarici, iniziativesperimentali in agricoltura, costruzione di nuovi centri rurali, e, soprat-tutto, la nuova Foggia, capace di divenire centro di promozione di unanuova realtà economica. In effetti, la Capitanata sembrò assumere unruolo di primo piano all’interno del panorama agricolo nazionale, tantoda essere considerata laboratorio sperimentale d’Italia per le innovazionicolturali e tecniche, e lo stesso capoluogo ebbe ritmi di crescita economi-ca superiori per circa un decennio a quelli di tutte le altre città pugliesi.

Al riguardo, fondamentale fu il ruolo esercitato dall’Acquedotto

fascista ruralista, proprio accanto a Foggia, non solo Bari, ma anche lenuove città di Taranto e Brindisi costituivano, sotto il profilo dello svi-luppo economico, un richiamo alla realtà. Esse avevano da tempo avvia-to importanti attività industriali, legando le dinamiche sociali, economi-che e politiche della regione non solo alla forza negli scambi e nella tra-sformazione dei prodotti agricoli, ma anche alle esigenze espansionisti-che dei nuovi settori della chimica e della cantieristica civile e militare.Quanto queste dinamiche dovessero finire necessariamente con l’impor-re una riqualificazione degli equilibri tra le diverse sezioni del territoriopugliese è stato ampiamente sottolineato. Qui occorre ricordarlo percomprendere perché la «grande Foggia», nonostante la ricchezza delle spinteinnovatrici che ne avevano reso possibile la genesi progettuale, nacquesostanzialmente già vecchia. In compenso, insieme alla bonifica ebbe,nelle assai meno gloriose appendici degli anni successivi, la capacità dipartorire un nuovo settore di attività, i lavori pubblici, unica alternativaall’impotenza industriale.

(L. D’Antone, Un problema nazionale: il Tavoliere, in Storia d’Italia, Le regioni dal-l’Unità ad oggi, La Puglia, op. cit., pp. 477-78)

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Pugliese, diretto ininterrottamente da Postiglione dal 1923 al 1932,che coordinò l’intera opera di bonifica agraria e avviò un centro diosservazione sistematica e di studio del clima, del suolo e delle risorseidriche territoriali per poi poter promuovere un più efficace ammo-dernamento colturale e tecnologico.

Convinto della necessità di offrire all’agricoltura sbocchi industriali,Postiglione intuì il grande potenziale che la Capitanata avrebbe potutoesprimere a livello nazionale nella produzione della carta, potendo di-sporre ogni anno di oltre 6 milioni di quintali di paglia di grano, da cui sipoteva ricavare cellulosa a prezzi vantaggiosi. Foggia divenne, così, sededi una grande e moderna cartiera che fu competitiva rispetto agli altriinsediamenti industriali del settore che, invece, ottenevano la cellulosadalla lavorazione del legname di importazione. Il ruolo di primo pianoricoperto dall’impianto foggiano è attestato dalla nomina nel 1932 dellostesso Postiglione alla presidenza dell’Ente Nazionale per la Cellulosa.

I processi di trasformazione e di ammodernamento dell’economiadella Capitanata non ebbero, però, lunga durata, non solo e non tantoper la morte nel 1935 di Postiglione e per la conquista del potere da

Il magro bilancio della politica agraria del fascismo in Capitanata

Modesti furono i risultati della politica agraria del fascismo in Capita-nata, tesa a creare nelle campagne piccole e medie aziende tramite l’assegna-zione di terre bonificate e l’appoderamento, cioè il frazionamento di unlatifondo in poderi da assegnare poi a braccianti e contadini dietro versa-mento di un canone annuo di affitto. Accanto a tali interventi, era previstala costruzione di nuovi villaggi rurali, grazie ai quali si sarebbe giunti ad uninsediamento diffuso della popolazione agricola direttamente sui fondi dacoltivare, eliminando così quella che era una caratteristica della Puglia e inparticolare della Capitanata e della Terra di Bari: la lontananza delle terredai grandi centri rurali in cui era concentrata la massa dei braccianti.

Approfondimenti

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parte dei suoi avversari, che avviarono ben presto politiche opposte,quanto per le nuove tendenze della politica economica del fascismo eancor più dei nuovi processi di sviluppo economico a livello internazio-nale, la cui promozione complessiva non era ormai fondata sull’indu-stria di trasformazione dei prodotti agricoli.

Uno spirito di delusione, accompagnato da senso di impotenza e dirassegnazione, incominciò sempre più a serpeggiare fra gli operatori eco-nomici di Capitanata, e naturalmente anche fra quelli delle altre provin-ce pugliesi, che si rendevano conto di come la politica economica delfascismo piegasse sempre più l’agricoltura del Mezzogiorno agli interessiindustriali del Nord, approfondendo il divario fra le due parti del Paese eriducendo il ruolo e il peso della classe dirigente del fascismo meridionale.

A partire dalla seconda metà degli anni Trenta il quadro politicodella Capitanata registrava sempre più da un lato la sconfitta di quelceto politico urbano che, alleandosi con i proprietari più avanzati,avevano coltivato il progetto di una riforma e di un ammodernamen-to delle campagne, dall’altro il ritorno e la riaffermazione del poteredei ceti agrari più conservatori.

Lo stesso Araldo Di Crollalanza, figura di primo piano del ven-tennio fascista, nel 1939 in un libro celebrativo delle opere realizzatein Puglia dal regime, prossimo ormai alla fine, riconosceva che il bi-lancio della politica di appoderamento e di costruzione dei villaggirurali era fallita persino in Capitanata, dove essa aveva ricevuto piùimpulso.

Bisogna riconoscere, affermava infatti Di Crollalanza nel 1939, che“fino ad oggi, in base al vecchio piano, nessuna iniziativa concreta diappoderamento si è avuta da parte dei proprietari, per cui non si puòsegnare all’attivo della trasformazione che la modesta opera di colonizza-zione svolta dal consorzio attorno al villaggio La Serpe, inaugurato dalDuce nel 1934. Ben poca cosa di fronte all’immensità del comprensoriodel Tavoliere, vasto più di 450.000 ettari ed all’imponenza del problemasociale della Capitanata”.

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Il fascismo a Bari tra intransigenza e trasformismoLa Terra di Bari fu certamente la provincia pugliese in cui si regi-

strò una forte presenza dei cosiddetti “fascisti puri”, particolarmen-te impegnati da un lato nella critica allo stato liberale, alla diffusacorruzione della vecchia classe dirigente e all’intera impalcatura gio-littiana della gestione del potere, dall’altro nell’interpretare il fasci-smo come rivoluzione morale che avrebbe richiesto mutamenti ra-dicali nelle singole coscienze e nella vita delle organizzazioni partiti-che e sindacali.

Erano stati questi i temi cari al movimento democratico pugliese e aisuoi protagonisti (Bovio, Imbriani, Salvemini, ecc.), che dal fascismovenivano piegati ora agli interessi di un’area politica e culturale, quelladel fascismo, completamente diversa, e soprattutto non interessata inalcun modo a potenziare all’interno dello stato strutture e dinamicheche avrebbero potuto garantire una più completa partecipazione delle

Frate Menotti, 1922: “Tem-pi nuovi e storia vecchia”. Conla creatività che lo contraddi-stinse, Frate Menotti denun-ciò in questa vignetta il tra-sformismo delle classi dirigen-ti urbane. A Bari, persino lestatue diventano fasciste.Nella vignetta della paginasuccessiva del 1923, dal titolo“Di Crollalanza la fa e Raf-faele l’annusa”, Frate Menottidenuncia il servilismo delle stes-se classi dirigenti: infatti, il di-rettore del principale quotidia-no pugliese (Raffaele Gorjoux)prende nota beatamente dellapiù intima produzione di Arol-do Di Crollalanza.

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classi meno abbienti aduna dialettica politica piùdemocratica.

A Bari l’ala dei cosid-detti “fascisti puri” si rac-colse intorno ad AraldoDi Crollalanza che, giàimportante collaborato-re della rivista Humani-tas di ispirazione mazzi-niana e repubblicano-nazionalista, si affermòfra la fine degli anniVenti e l’inizio deglianni Trenta come unadelle figure determinan-ti del fascismo barese epugliese, tanto da parte-cipare ininterrottamen-

te al governo nazionale fra il 1928 e il 1935, dapprima come sotto-segretario e poi come ministro dei Lavori Pubblici.

In realtà, le posizioni intransigenti dei fascisti puri, che risultaronoben presto velleitarie e non si tradussero mai nella elaborazione di unconcreto programma politico, capace di unificare le organizzazioniterritoriali del partito nella provincia, servirono a canalizzare verso ilfascismo il consenso dei nazionalisti, degli ex-combattenti, di settoridella borghesia urbana e persino di esponenti del leghismo pugliese.

D’altra parte, proprio il fascio di Bari, dilaniato da lotte personaliper la conquista del potere e persino da scissioni, mostrò sin dai primipassi quanto forti fossero “i germi del trasformismo” del fascismo cit-tadino che, ormai egemone dopo la marcia su Roma, ambiva alla di-rezione della Puglia. Infatti, già nelle elezioni politiche del 1921 siera registrata in funzione antisocialista una forte unità d’intenti ed’azione tra fascisti ed esponenti della tradizionale classe dirigente,

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Tutti sul carro del vincitore, ma borbottando in privato

Sollecitato da Piero Godetti, Tommaso Fiore si impegnò fra il 1925 e il 1926in veri e propri réportage sulla Puglia. Nacquero così le sei “lettere pugliesi”, cheoffrono degli affreschi vivi e immediati su diverse città della regione proprionei primi anni del fascismo. Qui di seguito, Fiore mette in risalto il tradizio-nale trasformismo della borghesia urbana che, aderendo senza anima al fasci-smo, approfitta del momento per “soddisfare una sua ambizione antica”.

La borghesia demomassonica di qui ha tutte le caratteristiche tare diquella dell’Italia settentrionale […]. Proprio di mezzo ad essa, ritiratisipresto dalla scena gli ingenui iniziatori, combattenti per lo più, cui ilfascismo fu uno sfogatoio all’esasperazione bellica, sono usciti quasi tuttii deputati e gli esponenti attuali del fascismo locale, passati di punto inbianco, fra il ’23 e il ’24, daI radicalismo al fascismo, così come in altritempi avevano tentato di passare al socialismo, come uno a Carnevale si

L’interpretazione dello storico

tanto che proprio in Puglia le liste del blocco nazionale ebbero lamassiccia adesione di candidati giolittiani, nittiani, salandrini e persi-no di qualche ex-ministro; ma ancora nel 1924, riferendosi alle diffi-coltà del fascismo locale di ottenere nuovi consensi soprattutto fra gliintellettuali, il prefetto di Bari significativamente affermava: “Qui ètutta una corsa serrata di ambizioni, di arrivismo, di tornaconti perso-nali; da cui una contesa incessante, per vecchie passioni, fra vecchiecamarille più o meno camuffate in veste nuova. […] La parte eletta,quella che puramente militerebbe perché puramente e superiormen-te votata all’idea, […] si tiene in disparte perché non vuole esserecoinvolta in simili brutture”.

Del resto, non mancarono all’interno del fascismo barese esponentiche guardarono con realismo alle difficoltà di imprimere una svoltaalle organizzazioni del movimento dopo la fase dello squadrismo, gra-zie al quale i diversi fasci di combattimento erano stati cementati dal-l’azione violenta di distruzione delle leghe e del partito socialista. Fu

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il caso, ad esempio, diLeonardo D’Addab-bo, segretario federa-le di Bari, che nel1926, quando il fa-scismo aveva liquida-to da almeno un bi-ennio ogni forma diopposizione, avverti-va la necessità di unanuova direzione poli-tica, capace di affron-tare e risolvere gli “in-finiti problemi gene-rali e di interesse collettivo” e significativamente si chiedeva: “Gli stes-si quadri potranno essere adoperati per questo obiettivo? I quadri

veste da cinese, per null’altro che per assicurare più larghi proventi allaloro attività professionale, o per soddisfare ad una ambizione antica,sfrenata, ridevole nella sua sproporzione col valore degli uomini. Feno-meno di trasformismo comune in Italia, dove l’unica cosa che esiste èla propria persona, e a servizio di questa la famiglia, la città e possibil-mente lo Stato. Negli oppositori sporadiche ribellioni, gesti audaci epoi smarrimento e poi non c’è più nulla da fare, e accosciamento eabbicamento, e insomma nulla di organizzato; una vigliaccheria piùspregevole negli altri, nei fortunati riusciti a darla a bere al fascismo, enon già per furbizia più fina, ma solo perché il fascismo ha bisogno dibere grosso; sostenitori ora di esso tanto più arrabbiati in pubblicoquanto più malcontenti nel loro intimo e pronti, a quattr’occhi, a bor-bottare, a svalutare un esponente o l’altro, un provvedimento o l’altro,per crearsi, non si sa mai, un alibi pel domani, ma incapaci di parlare,per paura; per non fare, dicono, la fine di Matteotti.

(T. Fiore, Un popolo di formiche, in V. Fiore, Tommaso Fiore e la Puglia, Palomar, Bari

1996, pp. 106-07)

La prima pagina de La Gazzetta del Mezzo-giorno dell’11 maggio 1936 esalta la politica

estera di Mussolini, dopo la campagna di Etiopia

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che meravigliosamente servirono nel periodo eroico della difesa econtroffesa, sono pronti oggi per eseguire altri ordini e raggiungerealtre mete?”.

Infine, nella seconda metà degli anni Trenta, in sintonia col generaleprocesso di burocratizzazione e di logoramento del regime a livello na-zionale, il fascismo pugliese, abbandonando ogni posizione di intransi-genza, si limitò sostanzialmente ad assicurare fra il governo nazionale ela realtà regionale un’opera di cerniera, che, se faceva affluire sul terri-torio risorse statali, non scalfiva minimamente i tradizionali equilibri dipotere e gli stessi rapporti sociali.

D’altro canto, proprio a quegli anni risale la cancellazione di ognipresunta diversità del fascismo barese e pugliese, attestata dalla emar-ginazione politica e dall’indebolimento di Araldo Di Crollalanza, chenell’agosto del 1935 fu costretto a lasciare il Ministero dei Lavori Pub-blici, e di Giuseppe Pavoncelli, che con Postiglione era stato il piùtenace sostenitore di un grande processo di riforma e di ammoderna-mento dell’agricoltura pugliese.

La burocratizzazione del fascismo

Secondo Renzo De Felice, storico autorevole di formazione liberale, dal1935, anno in cui fu dichiarata guerra all’Etiopia, il fascismo perse ognicapacità di reale direzione politica e si limitò ad alimentare una grandemacchina burocratica ed un rituale di massa che aveva un mero valorepropagandistico. Uno dei principali protagonisti di questa fase politica fu ilpugliese Achille Starace, coincidenza, questa, che accentuò nella nostra re-gione la burocratizzazione e il rituale del regime.

Gli anni che vanno dalla conclusione della guerra d’Etiopia all’inter-vento italiano nella seconda guerra mondiale furono per il fascismo annidi travaglio e di logoramento. A livello interno esso si andò sempre piùburocratizzando e sclerotizzando. Il partito in particolare (retto sin quasi

L’interpretazione dello storico

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alla fine del periodo in questione da A. Starace) accentuò la sua dina-mica a trasformarsi in una superorganizzazione di massa che inquadra-va direttamente o indirettamente quasi venti milioni di italiani di tuttele età, ma che come strumento politico era svuotato di effettivo valore.Il P.N.F. si caratterizzava infatti ogni anno di più come una mastodon-tica macchina assistenziale e di organizzazione di masse eterogenee infunzione di un consenso sempre più esteriore e superficiale, caratteriz-zato a sua volta da una partecipazione di esse alla vita del regime solo subasi emotive e coreografiche (e in parte coattive) e da uno «stile di vita»che - mancando di contenuti veramente sentiti ed espressi da una inti-ma consapevolezza di operare per qualche cosa di valido - era quasisempre il frutto solo di un generico adattamento, esteriore e superficia-le e spesso opportunistico, ad un rituale, ad una retorica, e pertanto,sentito come qualcosa di estraneo e di imposto che suscitava, a secondadei casi, noia, insofferenza, scetticismo, irrisione.

(R. De Felice, Autobiografia del fascismo; Minerva Italica, Bergamo 1978, p. 435)

Mussolini in visita a Bari nel 1934 alla Fiera del Levante

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L’accentuazionedel rituale fascista

L’altra faccia della burocratiz-zazione del fascismo fu rappresen-tata da uno specifico rituale e dal-la fissazione di precise regole formaliche dovevano essere scrupolosamen-te applicate. Qui di seguito vengo-no riportate alcune disposizioni fis-sate da Achille Starace (Gallipoli1889 – Milano 1945), segretarionazionale del partito fascista dal1931 al 1939, che promosse unaintensa campagna di “fascistizza-zione” del paese e introdusse nelrituale del regime una lunga seriedi minuziose prescrizioni.

28 agosto 1938L’inno «Giovinezza» deve essere ascoltato nella posizione di attenti.

Alle prime battute si saluta romanamente.

8 novembre 1938Chissà perché ci si attarda ancora a considerare la fine dell’anno al

metro del 31 dicembre piuttosto che a quello del 28 ottobre. Il 31 di-cembre esercita tuttora una particolare attrazione sugli specialisti nei con-venevoli augurali che non sanno ancora rendersi conto della necessità didisturbare il vecchio calendario e di ammettere l’esistenza dell’anno fasci-sta: la stessa attrazione che esercitano la stretta di mano, l’uso del “lei”, lascappellata con relativa riverenza, e le altre raffinatezze del genere. L’attac-camento a queste consuetudini, scrupolosamente osservate anche quan-do l’abbandonarle non presenterebbe inconvenienti, è l’indice di unamentalità conservatrice, tipicamente borghese e quindi non fascista.

Documenti

Copertina di un quadernoscolastico degli anni Trenta

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19 agosto 1939È assurdo e riprovevole che, dopo quanto è stato detto e scritto, anche

dai giornali, si stenti qua e là ad adottare il «voi» ed a respingere netta-mente il «lei», che oltre tutto è una espressione di quello spirito servileripudiato dal Fascismo nella maniera più recisa.

A parte ogni altra considerazione, tutto ciò rivela assenza di quel tem-peramento fascista che deve riuscire a realizzare in ogni occasione lo stiledel tempo di Mussolini.

I Segretari federali chiamino i gerarchi a rapporto e parlino loro in modochiaro, non omettendo di far rilevare come il non uniformarsi alle disposi-zioni da me ripetutamente impartite a questo proposito possa anche esseremanifestazione o di scarso senso di disciplina o addirittura di poca fedefascista. Questo è proprio uno dei casi nei quali la forma, incidendo decisa-mente sul costume, ne esprime con esattezza il profondo contenuto.

Avverto come d’ora innanzi non sia da escludere che, individuati i soggettiostinatamente recidivi, si proceda a loro carico sul terreno disciplinare.

(R. De Felice, op. cit., p. 441)

Anni Trenta: una esercitazione in perfetta divisa dibalilla moschettieri in un edificio scolastico di Modugno

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Il delinearsi di Bari come grande emporio commercialeDurante il fascismo Bari vide certamente confermato il suo ruolo di

capitale e di centro di mediazione fra governo e realtà periferiche del-l’intera Puglia. Grazie anche alle risorse convogliate da Di Crollalanza,la città assunse un volto più metropolitano con la costruzione di nuoviquartieri, con la realizzazione del lungomare e dei monumentali palazziche si dispiegavano lungo tutto il suo percorso, con la concentrazionedi servizi, di strutture amministrative e culturali di rilievo regionale.

Naturalmente le autorità fasciste, impegnate in questo programmadi espansione e di opere pubbliche, ebbero come interlocutori privile-giati gli esponenti della grande imprenditoria edile che, così, apparve-ro come i promotori e i protagonisti di un nuovo sviluppo che si sareb-be poi irradiato nei centri minori e nelle campagne.

L’indebolimento delle attività industriali a Bari

Secondo Enrica Di Ciompo, la politica del fascismo, soprattutto a partiredagli anni Trenta, determinò l’indebolimento dell’apparato industriale diBari, che vide mortificate le sue possibilità di sviluppo persino nelle attivitàdi produzione di materiali per l’edilizia.

A rendere più grave la situazione contribuì la nuova concorrenza deiprodotti settentrionali, poiché in questi anni l’industria del Nord mo-strò un interesse più vivo ai mercati del Mezzogiorno, non potendo piùvolgere come un tempo la propria produzione all’estero e ricercandoquindi maggiori spazi all’interno del paese. Uno degli effetti di tale com-plessa situazione fu la progressiva scomparsa del più importante settoredi industrie derivate del capoluogo, quello meccanico specializzato nellaproduzione dei macchinari oleari, vinicoli, per pastifici e di impianti perl’estrazione dell’olio e delle sanse. I suoi prodotti, un tempo «diffusi eapprezzati in tutta Italia ed anche all’estero», dovettero ormai cedere allaconcorrenza della più attrezzata e perfezionata industria meccanica delsettentrione. Così, nel 1932, due delle più importanti aziende del ramo

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– la ditta Giovanni Biallo e quella di Francesco De Blasio eredi – furonocostrette a sospendere la lavorazione ed a chiudere gli stabilimenti, feno-meni in realtà esemplificativi delle difficoltà dell’intero settore, che mo-strava segni evidenti di decadenza. Gli stessi motivi fecero sì che la ripresadel settore edilizio, avviata dall’iniziativa privata e poi dal massiccio pro-gramma di opere pubbliche promosso dal Di Crollalanza, conseguì effettisolo parziali nell’azione di stimolo dei settori produttivi ad esso collegati.Ed infatti nell’aggiudicazione degli appalti le imprese locali venivano age-volmente estromesse da quelle settentrionali, che, per la maggiore perfe-zione tecnica e la più avanzata meccanizzazione, erano in grado di praticareprezzi più bassi. Analogamente, l’industria del cemento, e soprattutto quelladel legno e dei mobili, non registrarono aumenti della domanda pari alleproprie capacità produttive; e viceversa dovettero affrontare in condizionidi inferiorità l’acuita concorrenza delle aziende di altre regioni.

In questa situazione notevoli difficoltà si manifestarono anche nei settoridi maggiore vitalità, quali il conserviero e quello degli oli al solfuro chedopo il 1930 continuavano a fornire gli unici esempi di esportazione al-l’estero […]. La produzione degli oli al solfuro, “la maggiore industria dellaprovincia” e nella quale erano investiti “importantissimi capitali” fu colpitasui mercati americani dalla concorrenza delle altre nazioni mediterranee.

(E. Di Ciommo, op. cit., pp. 418-19)

LE ATTIVITÀ COMMERCIALI A BARI NEL 1927 E NEL 1937

1927 1937Esercizi Addetti Esercizi Addetti

Commercio al minuto 2.122 3.731 3.733 6.966Commercio all’ingrosso 182 741 282 1.691Servizi pubblici 387 1.300 133 491Attività per conto terzi - - 332 606Farmacie - - 38 115Servizi commerciali 242 590 683 1.284Credito, assicurazione, previdenza 33 791 44 1.001Totali 2.966 7.153 5.245 12.154

(La tabella è in E. Di Ciommo, op. cit., p. 436)

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Bari, quindi, esercitò una grande capacità di attrazione per impiegati,professionisti, intellettuali, tecnici e operai dell’edilizia provenienti non solodalla provincia, ma anche da altre parti della regione, e registrò dal 1921 al1936 un incremento del 71% della sua popolazione: percentuale, questa,che a livello nazionale fu inferiore solo a quella di Roma (74%) e di granlunga superiore a quella di Milano (36%), Torino (25%), Genova (17%),costituendo un dato unico rispetto ad altri centri del Mezzogiorno e del-la Puglia, la cui dinamica demografica fu nel complesso stazionaria.

A fronte, però, dell’imponente sviluppo del tessuto urbano e del-l’edilizia, si registrò il soffocamento di quegli insediamenti industrialiche nei primi 15 anni del Novecento avevano addirittura delineato perBari un promettente futuro di città industriale.

La stessa istituzione della Fiera del Levante, al di là della retorica delregime sul ruolo di Bari come centro di tutti i traffici e gli scambi com-merciali con l’Oriente, non riuscì ad offrire sollecitazioni alla ripresadella produzione agro-industriale e non costituì un “fattore di risveglioeconomico”. In realtà, la campionaria barese, esercitando una forte ca-pacità di attrazione sui forestieri, contribuì ulteriormente a caratteriz-

Una fiera che ignora il levante

La marginalità della Fiera del Levante e la sua incapacità di rivolgersi,appunto, ai paesi arabi risultarono evidenti ad un ispettore del Ministerodegli scambi, che nel 1933 compilò una relazione sulla campionaria barese,giudicandola severamente come “manifestazione puramente verbale”. Neproponiamo qui un significativo brano.

Volesse il Signore che fossero dei milioni a conoscere la Fiera di Bariin Levante. In realtà si possono solo contare, se non a decine, certamentea non più di centinaia. Non diremo di averli contati (ed avremmo potu-to far pur questo, così agevole presentavasi il compito, ma ne trattenne ilpensiero di doverci perciò infliggere, come italiani, la tortura di misurarecol centimetro l’angoscioso deserto che circonda questa manifestazione

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nazionale nel raggio istesso in cui più pienamente dovrebbe affermarsi);non li abbiamo contati, ma non sono molti gli orientali che sanno del-l’esistenza di una Fiera del Levante a Bari ed inoltre dove si trovi Bari.

La base fieristica è eminentemente agricola e pastorale. Uve, fichi secchied altra frutta, olive, olio, conserva di pomodoro, vini e prodotti dell’alle-vamento ovino: è quel che soprattutto la Fiera offre al Levante, mostrandocosì di voler ignorare che il Levante è precisamente il paese dell’uva, deifichi, delle mandorle, dell’ulivo, dell’olio e degli allevamenti ovini e chequanto alla conserva di pomodoro non ne fa proprio uso, e di vino, trat-tandosi di paesi quasi tutti musulmani, non ne beve per precetto religioso.Interi reparti fieristici poi, come quello dell’arredamento, resteranno pocomeno che interamente privi di espressione per il Levante, sinché non gli siesporranno oggetti conformi alle sue abitudini, al suo clima, ecc.

Locandina dell’edizione della Fiera del Levante del 1930

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(ASB, Camera di Commercio, b. 987, in E. Corvaglia, Dalla crisi del blocco agrario alcorporativismo dipendente, in Storia d’Italia, Le regioni, La Puglia, op. cit., p. 875)

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zare la città come “grande centro di consumo”, per cui ben presto essafu utilizzata dalle grandi industrie del Nord per conquistare ampie quotedel mercato pugliese e lucano.

Bari divenne, così, “l’emporio commerciale della Puglia” e, conseguen-temente, dilatò le sue attività commerciali e terziarie che, peraltro, finiro-no con l’essere attività obbligate, poiché la politica economica del fasci-smo privilegiava sempre più i grandi insediamenti industriali del Nord.

La ridefinizione politico-amministrativa della Terra d’OtrantoUn discorso del tutto particolare riguarda l’area del Salento, che

subì durante il fascismo una ridefinizione territoriale. La tradizionaleTerra d’Otranto, infatti, fu scorporata in tre parti, contemplando,accanto alla provincia di Lecce, quelle nuove di Taranto e Brindisi,istitui-te rispettivamente nel 1923 e nel 1927.

Opere pubbliche ed edilizia a Lecce

Antonio Fino mette qui in risalto come Lecce abbia avuto negli anniTrenta un consistente sviluppo edilizio e di opere pubbliche che comportò unforte onere finanziario da parte delle casse comunali, alle quali fu richiestodi finanziare la costruzione di sedi di enti pubblici sia tramite l’assunzionedi mutui sia tramite altri oneri.

Il flusso di denaro per opere pubbliche negli anni Trenta, soprattuttodopo l’approvazione del Piano regolatore, fu notevole, alimentando unaserie di attività collegate con l’edilizia e creando occasioni di lavoro cheriuscirono a tenere costantemente bassi i livelli della disoccupazione. Essofu favorito certamente anche da una serie di circostanze favorevoli e dallaconcomitante presenza in alcuni posti chiave di uomini legati al Salento:Starace era segretario nazionale del Partito Fascista, Francesco Potenza eradirettore generale dell’edilizia presso il Ministero dei lavori pubblici, ispet-tore generale del Consiglio superiore dei lavori pubblici e vicepresidentedel Consorzio nazionale tra gli istituti per le case popolari. Proprio su sug-

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Vane risultarono le proteste dei ceti dirigenti leccesi, che giudicaro-no la risistemazione politico-amministrativa come una vera e propriamutilazione e come un vero colpo inferto alle prospettive di sviluppodell’intera area; così come irrealizzabili si rivelarono le proposte mirantialla istituzione di una regione salentina autonoma che, raggruppan-do i territori perduti, avrebbe dovuto avere Lecce come capoluogo.

In realtà, Taranto e Brindisi ricoprivano già da tempo ruoli specifi-ci rispettivamente nell’industria militare e nel commercio internazio-nale, e, per di più, erano destinate dalla velleitaria politica imperiali-stica del fascismo a divenire le basi dell’espansionismo nel Mediterra-neo e nei Balcani.

Del resto, la presenza a Taranto dell’Arsenale e dei cantieri navaliaveva determinato una ridefinizione della sua struttura sociale e del suoapparato produttivo, tanto che essa già nel 1927 era la città più indu-

gerimento di Potenza, che indicò la via per garantire a Lecce e alla Provinciain generale un canale di cospicui finanziamenti per opere pubbliche, il pre-fetto e il podestà si adoperarono per la costituzione dell’Istituto provincia-le per le case popolari, al cui patrimonio Lecce contribuì cedendo alcuniedifici di case popolari di sua proprietà per un valore di circa 2 milioni.

Va detto però che questo flusso di denaro pubblico non fu aggiuntivorispetto alle risorse del Comune, perché esso comportava pesanti costifinanziari per le casse comunali. L’Amministrazione, infatti, allo scopodi incoraggiare e di favorire gli insediamenti di enti pubblici, assumevauna serie di oneri, dagli espropri alle demolizioni, al contenimento deiprezzi di vendita dei suoli, che incidevano sul bilancio comunale, in quantole spese erano fronteggiate con mutui, spesso concessi dagli stessi entibeneficiari, i quali in definitiva costruivano i loro edifici con gli interessipagati dal Comune!

La politica di riarmo intensificata da Mussolini dopo il 1938 e poi loscoppio della guerra misero in crisi i programmi di opere pubbliche predi-sposti. Gran parte dei lavori iniziati rimasero sospesi e altri furono rinviati.

(A. Fino Il governo del Municipio: dalla crisi dello Stato liberale al secondo dopoguerra, inStoria di Lecce dall’Unità al secondo dopoguerra, Laterza, Bari 1992, pp. 430-31)

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strializzata della Puglia. La stessa Brindisi andava sempre più modifi-candosi e organizzandosi intorno al porto, le cui strutture venneropotenziate e integrate col sistema viario interno e con l’aereoportoche, relegando quello di Bari-Palese a compiti esclusivamente milita-ri, divenne lo scalo più importante della Puglia. I nuovi ruoli e lespecifiche attività economiche delle due città resero impossibile la loropermanenza nell’unica provincia di Terra d’Otranto in posizione su-balterna a Lecce, peraltro sempre più segnata dall’emarginazione ri-spetto alle nuove dinamiche dello sviluppo.

L’antico capoluogo del Salento trovò una forma di compensazionenel sostegno assicurato alla tabacchicoltura dalla mediazione esercita-ta da Achille Starace col potere centrale. D’altro canto, la tabacchicol-tura, impiegando ben 30.000 contadini e 40.000 tabacchine, cherappresentavano rispettivamente il 50% della forza-lavoro maschiledelle campagne e una quota consistente della popolazione femminilecomplessiva, era la fonte principale del reddito agricolo e la base dellastabilità sociale dell’area.

Al di là della istituzione delle due nuove province, il fascismo nelSalento ebbe gli stessi caratteri delle altre province della Puglia: an-che qui si registrarono le azioni violente dello squadrismo che, però,furono rivolte prevalentemente contro le sedi del Partito Popolare edelle leghe bianche, già assai diffuse; notevole fu l’affermazione di unnuovo ceto politico cittadino che, dopo aver imposto la sua egemoniasui grandi agrari, promosse l’espansione di Lecce che, però, accen-tuando il suo isolamento dalle aree confinanti brindisine e tarantine,apparve sempre più ripiegata su se stessa e su una riproposizione no-stalgica del suo passato.

Il fallimento della “modernizzazione senza democrazia”I risultati conseguiti dal fascismo in Puglia furono nel complesso

assai modesti: l’agricoltura regionale, considerata strategica per l’in-tera economia nazionale, si mantenne di gran lunga inferiore a quel-la delle aree più avanzate dell’Italia; sensibile fu la diminuzione delreddito commerciale e industriale, tanto che nel 1934 si era già ri-

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dotto del 34% nell’intera provincia di Bari che, fra quelle della regio-ne, era la più sviluppata; significativa fu la perdita del potere d’acqui-sto dei salari, peraltro segnalata dalle relazioni economiche predispo-ste ogni anno dalle autorità provinciali che, soprattutto a partire dal1935, evidenziarono una continua contrazione dei consumi dei ge-neri alimentari di prima necessità, con livelli altissimi per la carne.

Poco incisiva fu anche in Puglia quell’opera di “modernizzazionesenza democrazia” tentata dal fascismo all’interno della società di massa.La battaglia del grano, ad esempio, voluta da Mussolini per renderel’Italia autosufficiente, se da un lato determinò l’estensione delle areecerealicole, dall’altro finì coll’esemplificare il quadro complessivo dellaproduzione agricola, indebolendo le attività ad essa collegate, in pri-mo luogo la zootecnia, e facendo venir meno le possibilità di sviluppodi una economia moderna ed articolata nelle campagne.

Del resto, anche l’industria pugliese, al di là dell’attività cantieri-stica tarantina e di quella aeroportuale di Brindisi, peraltro poco fun-zionali ad interagire con i bisogni e le dinamiche del territorio, conti-nuò ad essere povera di nuove tecnologie e di capitali.

In questo quadro, le stesse città, che ebbero una fase notevole diespansione, si riempirono sempre più di una “borghesia burocratico-impiegatizia” e divennero fondamentalmente luoghi di scambio e diconsumo dei prodotti agricoli o di prodotti industriali del Nord, su-bendo una crescente terziarizzazione che finì per indebolire il ruolodi promozione di nuove dinamiche di sviluppo che esse avevano co-minciato ad assumere fra Ottocento e Novecento.

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BIBLIOGRAFIA

Oltre alle opere citate nel testo si possono consultare:

Per un inquadramento storico di carattere generale:P. Laveglia (a cura di), Mezzogiorno e fascismo, Atti del convegno nazionale di

studio promosso dalla Regione Campania, Salerno 11-14 dicembre, 3 voll., Na-poli 1978; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Roma 1993; S. LaSorsa, La vita di Bari nell’ultimo sessantennio, Bari 1963; S. La Sorsa, Il duce e laPuglia, Bari 1934; G. Musca (a cura di), Storia della Puglia, vol. 2, 1987;Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, La crisi dello stato liberale dalla1a guerra mondiale all’avvento del fascismo, Conversano 1993; Storia di Bari,diretta da F. Tateo, vol. V, Il Novecento, a cura di L. Masella e F. Tateo, Roma-Bari 1997; Storia di Lecce, diretta da M.M. Rizzo, B. Vetere, B. Pellegrino, vol.III, Dall’Unità al secondo dopoguerra, a cura di M.M. Rizzo, Roma-Bari 1992.

Sulle lotte sindacali e l’avvento del fascismo:P. Di Canosa, Fascismo barese, Bari 1923; M. Magno, Galantuomini e proleta-

ri in Puglia dagli albori del socialismo alla caduta del fascismo, Foggia 1984; Ilmovimento socialista e popolare in Puglia dalle origini alla Costituzione 1874-1946,a cura della Regione Puglia e dell’Istituto socialista di studi storici “P. Nenni”, 2voll., Bari 1985; A. Tatò (a cura), Di Vittorio. L’uomo, il dirigente, Roma 1968.

Sulla politica del fascismo:V. Ricchioni, L’economia dell’agricoltura pugliese, in Annali della facoltà di Agraria

di Bari, Bari 1939; T. Fiore, Un popolo di formiche, Bari 1951; T. Fiore, Incendioal municipio, Manduria 1967; G. Tattara, Cerealicoltura e politica agraria duranteil fascismo, in Lo sviluppo economico italiano 1861-1940, a cura di G. Toniolo,Bari 1973; R. Colapietra, La Capitanata nel periodo fascista, Foggia 1978; P.Bevilacqua (a cura di), Il Tavoliere di Puglia. Bonifiche e trasformazione fra XIX eXX secolo, Bari 1988; AA. VV., Taranto da una guerra all’altra, Taranto 1986; L.Masella, Un impossibile stato assistenziale. PNF e assistenza sociale in Puglia, Bari1989; L. Masella, Acquedotto Pugliese. Intervento pubblico e modernizzazione nelMezzogiorno, Milano 1995; M. Dilio, Fiera del Levante, Bari 1986; S. Corriero(a cura di), Alla scuola del fascismo. Gioie e sofferenze di una “Piccola Italiana” inun diario scolastico del 1941-42, in “Nuovi Orientamenti”, N. 4-5/1987; V. A.Leuzzi-M. Pansini-F. Terzulli, Fascismo e leggi razziali in Puglia, Bari 1999.

Fonti archivistichePer quanto riguarda le fonti archivistiche, vale qui quanto si è già detto nel

capitolo precedente. In particolare, presso gli archivi di stato di Bari, Brindisi,

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Foggia e Lecce vi sono i fondi “Prefettura” che conservano una documentazioneampia ed articolata. Consultando l’Archivio di Gabinetto del Prefetto è possi-bile avviare una ricerca documentaria sia per i capoluoghi sia per i diversi Co-muni della provincia su ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica.Particolarmente significative sono le relazioni periodiche inviate dai prefetti algoverno centrale.

Anche molti archivi comunali sono ricchi di documentazione e, in molticasi, essa non è stata ancora esplorata.

Diversi sono gli enti presenti nel territorio regionale che possiedono docu-mentazione e fondi specifici: l’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismoe dell’Italia Contemporanea, la fondazione Gramsci che hanno la loro sede aBari; la Biblioteca Provinciale “De Gemmis” di Bari, dove è presente il fondo“E. Laricchiuta”; la Biblioteca Provinciale di Foggia.

Vi è poi una disseminata documentazione privata, presente in numerosefamiglie, che rischia di andare perduta e che, invece, può alimentare nuovericerche. Si tratta di fotografie, pagelle scolastiche, tessere di iscrizione al fa-scio, diplomi e riconoscimenti ufficiali, e poi diari, lettere, cartoline, appuntivari di volontari, soldati e internati nelle guerre di Spagna, di Etiopia, e dellastessa seconda guerra mondiale.

Articolata è anche la presenza di siti web che offrono documenti e testi. Necitiamo solo alcuni, dai quali si può partire per allargare poi la ricerca:www.anpi.it; www.formichedipuglia.it.; www.lagazzettadelmezzogiorno.it.;www.fondazionedivittorio.it; www.fondazionedivagno.it; www.didaweb.net;www.gdmland.it.

Fonti audiovisive e giornalisticheNumerosi sono i documentari sul fascismo che si riferiscono soprattutto

alle inaugurazioni e visite periodiche di Mussolini nelle diverse province dellaPuglia. La stessa R.A.I. regionale negli ultimi anni ha prodotto diversi filmatiche si riferiscono ad eventi storici rilevanti: l’eccidio di Cefalonia; l’eccidio diBarletta; il bombardamento di Bari del 2 dicembre del 1943; i ripetuti bom-bardamenti su Foggia.

Una miniera di notizie e di documenti può essere fornita dalla consultazionedei giornali che sono disponibili presso le biblioteche nazionali e negli archivi distato che conservano tutte le testate e le pubblicazioni sulle quali veniva esercita-ta l’opera di controllo e di censura. Presso l’Archivio di Stato di Bari, ad esempio,nel fondo “Gabinetto del Prefetto” si trovano circa 2.500 pubblicazioni sottopo-ste a controllo (giornali, opuscoli vari, periodici, libri) che possono essere illumi-nanti per ricostruire il quadro socioculturale di uno specifico territorio.

Lo stesso sito web de La Gazzetta del Mezzogiorno, sopra citato, offre nume-rose prime pagine su diversi eventi storici di rilievo regionale.

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CAP. III

L’EMIGRAZIONE PUGLIESEFRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Il nuovo stato unitario italiano fu fortemente colpito dal fenomenodell’emigrazione, che determinò un vero e proprio esodo in un primomomento (1876-1900) dalle regioni settentrionali, ed in seguito (inizidel ’900) da quelle meridionali. Le cifre del fenomeno sono imponenti:nei suoi primi cinquantacinque anni di storia, il nuovo stato perde piùdi 14 milioni di cittadini, un numero, cioè, pari al 64% della sua popo-lazione al momento del conseguimento dell’Unità.

Fra le grandi regioni meridionali, la Puglia è l’ultima ad essere inte-ressata dall’emigrazione che, però, a partire dagli anni Dieci del Nove-cento, assume quasi un carattere fisiologico che convive, purtroppoancora oggi, con i processi demografici regionali.

Prima dell’emigrazione, intesa come partenza durevole o definitiva,la Puglia è percorsa, però, da grandi migrazioni stagionali interne che,per alcuni mesi dell’anno, determinano da un lato lo svuotamento deipaesi della provincia di Bari e della Terra d’Otranto e dall’altro il raddop-pio della popolazione dei grandi centri cerealicoli della Capitanata.

All’interno di questo grande fenomeno migratorio, assai dolorosa èpoi quella pagina di storia che riguarda alcuni emigrati pugliesi, spessoandati via dalla Puglia e dall’Italia per le loro idee, che finiscono coll’es-sere processati e condannati nei nuovi Paesi proprio per motivi politici.Emblematico, al riguardo, è il caso di Giuseppe Sgovio, un modugneseemigrato agli inizi del Novecento in U.S.A., che sperimenterà sulla suapelle il naufragio dei suoi ideali di libertà e di giustizia sociale: sarà,infatti, prima processato ed espulso dall’America ed in seguito, giuntoin Unione Sovietica, confinato nei gulag.

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1. DALLE MIGRAZIONI STAGIONALI ALL’EMIGRAZIONE

L’emigrazione pugliese nella seconda metà dell’OttocentoIl problema dell’emigrazione pugliese fra ’800 e ’900 richiede due

premesse: per tutto l’Ottocento, la Puglia, in misura ancor meno signi-ficativa rispetto alle altre regioni dell’Italia meridionale, che pure nonalimentano grandi flussi migratori, partecipa in modo del tutto margi-nale al fenomeno dell’emigrazione, che, invece, tocca prevalentementele regioni dell’Italia settentrionale, in particolare il Veneto, il Friuli, ilPiemonte e la Lombardia; è necessario distinguere, all’interno dei flussimigratori pugliesi, una prima fase, che va dagli anni Sessanta alla finedell’Ottocento, durante la quale il fenomeno è assai modesto, ed unaseconda fase, che interessa il primo ventennio del Novecento, fatta ec-cezione per gli anni della prima guerra mondiale, durante la quale si hauna impennata delle partenze.

I motivi per i quali la Puglia giunge relativamente tardi all’emigra-zione, e inizialmente viene interessata dal fenomeno con cifre assai mo-deste, sono da ricercarsi nella vivacità dell’economia pugliese per buo-na parte dell’Ottocento.

Infatti, come si è già visto nei capitoli precedenti, subito dopo l’Uni-tà d’Italia e sino agli anni Ottanta, si registra nella regione un aumentodella produzione agricola e delle attività industriali di trasformazione edi lavorazione ad essa collegate, collocate per lo più nei grandi centriportuali. Questo sviluppo sembrava essere caratterizzzato soprattuttoda un forte rapporto fra città e campagna, che determinava un legamefunzionale fra la produzione agricola e le attività di trasformazione e dilavorazione dei prodotti della terra e della loro commercializzazione.

All’interno di questa vivacità pugliese, va segnalato l’avvio della mes-sa a coltura del Tavoliere delle Puglie che, nella sua gran parte, sino al1865 era utilizzato come pascolo ed era governato, come si è già vistonel primo capitolo, secondo l’antico regime feudale della “Dogana del-la mena delle pecore”’. Grandi furono le speranze e le aspettative susci-tate dalla messa a coltura del Tavoliere, che ben presto fu chiamatosignificativamente la “California dei Pugliesi”.

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Emigrazione e vivacità dell’economia pugliese

In questo brano Ornella Bianchi mette in evidenza come il modestoflusso emigratorio pugliese fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecentosia da rapportarsi al quadro complessivo dell’economia pugliese, caratteriz-zato da positivi processi di sviluppo.

La storia dell’emigrazione pugliese tra Otto e Novecento deve essereletta alla luce dei dinamismi positivi registrati dalla regione nel contestomeridionale, nei decenni seguenti l’Unità, all’interno di una linea di ten-denza che si interromperà, si può dire, solo con gli anni ’30.

Tutti gli indicatori concordano nel segnalare la vivacità dello sviluppopugliese, in quel periodo, anche se entro lineamenti specifici, ricollegabiliad esempio da un lato alla particolare tenuta del comparto agricolo e allesue punte di significativa innovazione, e dall’altro alla particolare forzadel rapporto tra città e campagna, non solo nell’area urbana per eccellenzadella regione – la pianura costiera di Terra di Bari – ma anche in ampieparti della Capitanata e del Salento.

L’interpretazione dello storico

Si aggiunga che dopo l’Unità d’Italia vengono realizzati anche inPuglia importanti e consistenti lavori pubblici, come la costruzione diferrovie e di strade, e che si assiste ad una generalizzata espansione edi-lizia delle città.

Va da sé che, in un quadro socio-economico in movimento, era pocoavvertita sia dalle popolazioni urbane sia da quelle rurali la spinta ademigrare dalla Puglia. Ma a frenare l’emigrazione verso terre lontaneconcorreva anche il fenomeno delle migrazioni all’interno della regio-ne, di cui si parlerà più avanti.

Dal 1876 al 1900 partono dalla Puglia complessivamente 50.282emigranti, che rappresentano una cifra esigua rispetto, ad esempio, ai520.791 emigranti della Campania, che è la prima regione del Sud adar vita al fenomeno migratorio verso le terre d’oltreoceano. Peraltro,

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la Campania diventa ben presto emblema dell’emigrazione, poiché nonsolo i Pugliesi, ma tutti i meridionali, sino agli anni Cinquanta del No-vecento, potranno disporre soltanto del porto di Napoli per “prendereil piroscafo” e partire per i Paesi d’oltreoceano.

In questo periodo si emigra soprattutto dai grandi centri urbani, inparticolare da quelli portuali. Si parte in primo luogo dalla provincia diBari, che, superata da quella di Foggia solo negli anni che vanno dal1886 al 1990, sarà sempre il serbatoio più consistente dell’emigrazioneregionale, mentre la provincia di Lecce non viene quasi toccata dal-l’emigrazione sino al 1901.

Le destinazioni di questi pionieri dell’emigrazione pugliese sono di-verse: sino al 1883 si emigra soprattutto nei Paesi balcanici (Serbia,Romania, Grecia) e in Turchia, mentre minore è il flusso verso i Paesi

Anche la popolazione cresce con ritmi superiori a quelli di altre realtàmeridionali, evidentemente tanto per il decollo produttivo agricolo eindustriale, nonché del terziario urbano, quanto per la diminuita morta-lità, in una regione un tempo da questa falcidiata assai più della medianazionale.

Gli attivi in agricoltura passarono dal 31 per cento del 1871 al 27 percento del 1911, al 20 per cento del 1936 [...].

L’industria [...] si trasformerà e svilupperà pur essa a ritmi intensi,soprattutto nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento.

Si spiega così, alla luce delle profonde trasformazioni economiche esociali tra Otto e Novecento, la dimensione a lungo modesta del feno-meno emigratorio in Puglia. Con il primissimo Novecento, tuttavia,pur nel contesto del ciclo espansivo, l’emigrazione si accingerà ad assu-mere livelli non più trascurabili, in rapporto a un complesso di fattori[...[, tra i quali gli effetti della crisi agricola di fine secolo, la maggioremobilità del lavoro nelle città investite dai processi di modernizzazione,e, non ultime, ragioni politiche connesse all’emergere dello scontro diclasse.

(O. Bianchi, Emigrazione e migrazioni interne tra Otto e Novecento. in AA. VV., Storia

d’Italia, La Puglia, Einaudi, Torino 1989, p. 521-22)

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d’oltreoceano (USA e Argentina in particolare), che proprio a partiredal 1883 registrano il primato degli arrivi degli emigranti pugliesi; dal1890 in poi a queste mete si aggiungono Russia, Francia, Austria, Alge-ria, Brasile e America meridionale.

A partire sono soprattutto da un lato operai, artigiani e commer-cianti dei centri costieri della provincia di Bari e del Salento, che vannosoprattutto nei Paesi balcanici e in quelli europei già citati; dall’altro,piccoli contadini e braccianti della provincia di Foggia, del subapenni-no dauno in particolare, che emigrano nelle terre d’oltreoceano. A par-

PERCENTUALI D’ESPATRIO PER COMUNI SULLAPOPOLAZIONE DELLA PUGLIA DAL 1889 AL 1900

(Il grafico è in O. Bianchi, Emigrazione e migrazioni interne tra Otto e Novecento. in AA.VV., Storia d’Italia, La Puglia, Einaudi, Torino 1989, p. 557)

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tire dal 1898, l’emigrazione in provincia di Bari interesserà anche lapopolazione dei centri più interni (Bitritto, Triggiano, Ceglie, Capurso,Casamassima, Rutigliano, Sammichele e Locorotondo), che, però, si ri-volgerà quasi esclusivamente verso le terre d’oltreoceano.

Le migrazioni stagionaliSe l’emigrazione pugliese, intesa come partenza definitiva o per un

prolungato numero di anni, è piuttosto modesta sino alla fine del-

Si emigra in massa per la mietitura

Il fenomeno della migrazione interna della forza-lavoro colpiva ancheBari e i Comuni limitrofi. Ne è una testimonianza questo stralcio dellarelazione dell’8 gennaio del 1904 del sindaco di Modugno, un centro cheda secoli aveva una economia fortemente intrecciata con quella del capoluo-go barese. Colpisce il numero di lavoratori che emigrano per la mietitura,rappresentando essi il 20% del totale della popolazione che Modugno ave-va in quell’anno. Il fenomeno dell’emigrazione interna cesserà del tutto solonel secondo dopoguerra.

a) Si nota in questo comune una corrente emigratoria che periodica-mente e temporaneamente si dirige verso altri paesi del Regno.

b) Tale fenomeno di emigrazione si manifesta in tutti i mesi dell’an-no, raggiungendo la massima intensità nei mesi di Maggio, Giugno,Ottobre. La durata è ordinariamente di un mese, talvolta anche di più.

c) I lavori di campagna che danno vita al movimento emigratoriosono zappatura, potatura della vite e degli altri alberi, come olivi e man-dorli; mietitura su vasta scala.

d) Il movimento si dirige verso i paesi della provincia ed in quelli delleprovince limitrofe.

e) Il numero di coloro che emigrano è di varie centinaia per i diversilavori e di un paio di migliaio per la mietitura.

f ) Non emigrano famiglie intere, ma solamente lavoratori isolati.(Archivio di Stato di Bari, Atti Comune di Modugno, Movimento della popolazione, f. 426)

Documenti

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l’Ottocento, assai diverso è, invece, il quadro degli spostamenti stagio-nali della popolazione all’interno del territorio regionale.

La Puglia da molti secoli era attraversata da migrazioni interne cheraggiungevano percentuali molto alte in concomitanza con diversi la-vori stagionali, quali vendemmia, semina, raccolta delle olive, e soprat-tutto mietitura; anche per queste migrazioni interne il circondario diBari forniva le percentuali più alte, poiché da essa partiva più del 60%dei lavoratori stagionali.

Il fenomeno delle migrazioni interne alla regione, che nella nostra

Andare “foretèrre”

L’emigrazione interna, meglio nota nella cultura popolare con l’espressio-ne “andare foretèrre”, è fenomeno antico, a cui erano associate specifichetradizioni ed usanze che proprio negli ultimi anni sono oggetto di attenzio-ne da parte dei giovani e di numerosi gruppi folclorici della Puglia.

“Andare foretèrre”, andare, cioè, fuori della propria città e recarsi inaltre terre, in concomitanza soprattutto con i lavori della mietitura, erafenomeno assai diffuso che in alcuni luoghi della Puglia si è protrattosino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Si partiva in piccoli gruppi, di solito formati da cinque lavoratori, giàin maggio prima della mietitura verso le montagne della Basilicata, lemasserie della Murgia, l’immenso Tavoliere delle Puglie o l’alto Salento.Si partiva un po’ tutti: non solo braccianti, ma anche operai comuni,muratori, calzolai, lavoranti sarti e barbieri che, del resto, in paesi svuota-ti non avrebbero saputo che fare.

Il momento della partenza era sempre preceduto da precisi riti. A Bari,ad esempio, come racconta l’abate Giacinto Gimma, “alcuni Villani Poe-ti, privi affatto di lettere” prima di partire girano per le strade, fermando-si soprattutto davanti alle abitazioni delle innamorate, “cantano con suo-ni valendosi della propria lingua volgare, e con un ramo di olivo tuttoadornato con nastri di seta, con spiche di grano e con sonagli d’argento,augurano buona fertilità della Raccolta”.

Approfondimenti

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cultura popolare ancora viene denominato con diverse espressioni, quali“andare foretèrre” o “andare a mietere” o “a scì meténne”, non registra-va in altre regioni del Sud e dell’Italia la stessa intensità con cui si svol-geva in Puglia e provocava il raddoppio e persino il triplicarsi della po-polazione del centro ospitante dopo l’arrivo dei lavoratori stagionali.

Si tenga presente, ad esempio, che nel 1901 nella città di Foggia,che aveva una popolazione di soli 53.000 abitanti, si recarono ben68.000 lavoratori stagionali nei tre mesi più cruciali (maggio-luglio)della mietitura e dei lavori ad essa collegati.

Di gran lunga più festoso era il ritorno che, dopo la mietitura e treb-biatura, incominciava verso la fine di luglio e proseguiva sino alla nottedi San Lorenzo. Di solito, non appena si profilava l’immagine del cam-panile del proprio paese, i braccianti scendevano dal traino e, impugnan-do festosamente la falce in una mano e un mazzo di spighe di granonell’altra, entravano nell’abitato e giravano per le strade gridando a squar-ciagola con canti e versi improvvisati la gioia di essere ritornati finalmen-te nella loro terra.

Quanto era dura la vita di questi emigranti stagionali nei mesi in cuierano “foretèrre”! Un’eco della fatica, dei tempi brutali di lavoro e dellecondizioni impossibili di vita è rimasta in un antico canto popolare chedice: «Gente, io ci sono stato nei campi di grano/ a mietere sotto losguardo vigile del sorvegliante,/ curvo dall’alba al tramonto sotto il solecocente./ Quando mietemmo il grano alla campagna/ avevamo una seteche ci faceva morire;/ dicemmo al sovrastante: “Vogliamo bere, manda aprendere la fiasca”./ Ci rispose: “Voi non dovete bere, non dovete parla-re,/ dovete solo lavorare, se no siete licenziati”».

Oggi, della emigrazione stagionale dell’andare “foretèrre” è rimastaancora qualche traccia: diverse famiglie del basso Salento si trasferisconodall’inizio della primavera alla fine dell’estate nell’alta Murgia barese perseguire tutte le fasi della coltivazione del tabacco che ha finito col sostitui-re quella del grano in diverse zone.

E, d’altra parte, i numerosi emigranti pugliesi che ora “scendono” inagosto nei loro paesi non rivivono quella gioia, qui da noi eternamentemista ad amarezza, del bracciante che ritornava da “foretèrre”?

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Sia dalle città sia dai piccoli centri partivano per recarsi nel foggianoe nella Basilicata un po’ tutti: non solo braccianti e contadini poveri,ma anche barbieri, sarti ed altri artigiani, che saranno poi agli inizi delNovecento le categorie lavorative che alimenteranno l’emigrazione so-prattutto verso le terre d’oltreoceano.

Erano numerosi i centri della provicnia di Bari, e in particolare quellidella cosiddetta olivicoltura e cerealicoltura “povera” (Binetto, Cassa-no, Grumo, Toritto, Casamassima, Turi) che arrivavano a svuotarsi sinoal 50%; più contenuta, ma pur sempre consistente, era la migrazionedai paesi confinanti con Bari, dove si arrivava comunque al 20%.

È, questa, una pagina molto triste della nostra storia. Non sono im-maginabili oggi le condizioni igienico-sanitarie e gi stessi orari di lavoroa cui venivano sottoposti questi lavoratori stagionali, che spesso ritorna-vano a casa affetti da malaria o da tifo.

Partivano con un fagotto in cui mettevano poche cose, e per tutti imesi di permanenza al di fuori del proprio paese indossavano sempregli stessi pantaloni e la stessa camicia. Quando non dormivano fuorinelle grandi aie delle masserie di Capitanata, dormivano in locali mal-sani che risutavano assai affollati.

In una relazione del 1910 di un capitano medico che descriveva lecondizioni di vita degli immigrati brindisini in occasione della ven-demmia, così si affermava: “Dormono in dieci e più nello stesso am-biente, senza svestirsi mai, sdraiati sulla semplice paglia, confusi insie-me, senza distinzione di età e sesso”.

E, d’altra parte, nella stessa cultura popolare ancora oggi sono pre-senti gli echi di questa triste pagina della storia pugliese.

L’emigrazione pugliese nel primo NovecentoCome si è già avuto modo di dire, l’emigrazione pugliese conobbe

una forte impennata sin dai primi anni del Novecento.A fronte delle 1.000 unità che mediamente partivano dalla Puglia

negli anni della seconda metà dell’Ottocento, nel primo decenniodel Novecento la media annuale balza alle 10.000 unità, attestandosipoi nel 1913 a 41.837 unità; dopo il blocco all’emigrazione imposto

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negli anni della prima guerra mondiale, già nel 1920 gli emigratipugliesi sono 40.361.

Si calcola che nel primo ventennio del Novecento sia partito dallaprovincia di Bari il 30,7% della popolazione residente, da quella diFoggia il 25,4% e dalla Terra d’Otanto il 6,6%.

In molti paesi della provincia di Bari, colpiti intensamente dall’emi-grazione, venne a mancare persino la manodopera necessaria per larealizzazione di alcuni lavori pubblici. In una delibera del consiglio co-munale di Bitritto del febbraio del 1910 si afferma che “la continuaemigrazione rende difficile che il servizio (di manutenzione delle stra-de, ndr) possa darsi in appalto per mancanza assoluta di personale”.

Sono diverse le prese di posizione delle istituzioni pubbliche che

PERCENTUALI D’ESPATRIO PER COMUNI SULLAPOPOLAZIONE DELLA PUGLIA DAL 1900 AL 1914

(Il grafico è in O. Bianchi, Emigrazione e migrazioni interne tra Otto e Novecento. in AA.VV., Storia d’Italia, La Puglia, Einaudi, Torino 1989, p. 557)

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L’EMIGRAZIONE ITALIANA PER REGIONEDAL 1876 AL 1900 E DAL 1901 AL 1915

1876-1900 1901-1915Regione Emigrati % Emigrati %Piemonte 709.076 13,49 831.088 9,48Lombardia 519.100 9,87 823.695 9,39Veneto 940.711 17,89 882.082 10,06Friuli V.G 847.072 16,11 560.721 6,39Liguria 117.941 2,24 105.215 1,20Emilia 220.745 4,20 469.430 5,35Toscana 290.111 5,52 473.045 5,39Umbria 8.866 0,17 155.674 1,77Marche 70.050 1,33 320.107 3,65Lazio 15.830 0,30 189.225 2,16Abruzzo 109.038 2,07 486.518 5,55Molise 136.355 2,59 171.680 1,96Campania 520.791 9,90 955.188 10,89Puglia 50.282 0,96 332.615 3,79Basilicata 191.433 3,64 194.260 2,22Calabria 275.926 5,25 603.105 6,88Sicilia 226.449 4,31 1.126.513 12,85

Sardegna 8.135 0,16 89.588 1,02Totale espatri 5.527.911 100,00 8.749.749 100,00(Rielaborazione dei dati ISTAT presenti in Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazioneitaliana 1876-1976, Roma, Cser, 1978)

denunziano la pericolosità del fenomeno non solo per lo svuotamentodei centri urbani e di quelli agricoli di manodopera, talvolta assai qua-lificata, ma per la genesi di nuovi fenomeni sociali poiché “i figli abban-donati a loro stessi” sono “fatti proclivi all’ozio dalla insperata abbon-danza” determinata dalle rimesse dei loro congiunti emigrati; non solo,ché le “madri non paventano il rallentamento degli affetti, così tenaci esacri un tempo, sedotte dal pensiero di godimenti immediati”.

Assai preoccupata è l’analisi che la Camera di Commercio di Bari fa

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del fenomeno emigratorio nella provincia in una sua delibera del 1907:“L’emigrazione in Terra di Bari [...] ha in questi ultimi anni assunto taliproporzioni da suscitare serie apprensioni per le conseguenze, certo nonlievi, che ha già cominciato ad apportare ed apporterà ancora nel nostropaese”; significativa l’annotazione che viene fatta subito dopo, secondo laquale l’emigrante “non si perita di lasciare tutto e tutti e di assoggettarsiad una smodata usura per raccogliere i mezzi necessari per pagarsi il viag-gio, pur di raggiungere i propri compatrioti nelle lontane Americhe”.

Le cause dell’impennata dei flussi migratori nei paesi d’oltreoceanosono da ricercarsi nella grave e prolungata crisi agraria che, già manife-statasi in alcuni settori agli inizi degli anni Ottanta, esplode nel 1887 inseguito alla guerra doganale con la Francia, determinata dalla politicadel governo Crispi. Non solo la viticoltura pugliese viene messa in crisiper la totale chiusura del mercato francese, ma l’intera produzione agri-cola, il commercio e le industrie, che allora erano ad essa strettamentecollegate, subiscono un tracollo.

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Pannello della mostra itinerante sull’emigrazione (Bari 5-11 marzo 2010) che riporta unadichiarazione sugli emigrati di F. D. Roosevelt, presidente degli U.S.A. dal 1932 al 1945

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Tutti i centri pugliesi, e particolarmente quelli portuali, completamenteinattivi per la totale caduta delle esportazioni, appaiono, secondo la sigi-nificativa espressione di Franca Assante, “città morte abitate da vivi”.

Le condizioni di vita, soprattutto in Terra di Bari, non solo dei con-tadini poveri, ma anche di piccoli e medi proprietari, di commerciantie di artigiani, precipitano a livelli non conosciuti in precedenza. Non èun caso che, come si è già analizzato nel primo capitolo, proprio laPuglia avvii nel 1898 la grande protesta popolare contro l’aumento delprezzo della farina e del pane.

In un quadro sociale ed economico di questo genere l’emigrazionediviene per molti Pugliesi l’unica via d’uscita da una situazione disperata.

La specificità dell’emigrazione pugliese del primo NovecentoL’emigrazione del primo Novecento, a differenza di quella della se-

conda metà dell’Ottocento, si indirizza prevalentemente verso le terred’oltreoceano, con gli Stati Uniti che rappresentano la destinazione

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Bambini al lavoro nelle miniere (U.S.A., 1911 ca.)

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più desiderata, seguiti poi dal Brasile e dall’Argentina, mentre ridimen-sionati risultano i flussi migratori verso la Francia, l’Austria e i paesibalcanici.

Se l’emigrazione della seconda metà dell’Ottocento aveva interessatosoprattutto le città, particolarmente quelle costiere, quella del primoNovecento interessa tutti i centri pugliesi, anche i più piccoli, a causasia della riconversione dell’agricoltura, sia della crisi del commercio edel debole apparato industriale che non riesce a svilupparsi.

A partire sono in percentuali altissime i lavoratori dei campi, seguitipoi dai manovali generici, dai giornalieri, dai lavoratori dell’edilizia, daglioperai e dagli artigiani, a cui dagli anni Dieci incominceranno ad unirisianche gli addetti al commercio, i professionisti e persino numerosi artisti.

L’impatto e il rapporto degli emigrati pugliesi con la società ameri-cana si presenta con alcune specificità non riscontrabili fra gli emigratiprovenienti da altri paesi europei e persino dall’Italia settentrionale.

In primo luogo, i Pugliesi formano negli USA vere e proprie colo-

New York - Little Italy, 1910 ca.

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nie, le ben note Litt-les Italies: le coloniepiù famose sono quel-le di Cincinnati (nel-l’Ohio), formata daben 3.000 Baresi, pro-venienti particolar-mente da Bari, Con-versano, Cassano, Mo-dugno, Sammichele, equella di Dayton concirca 1.000 Baresi.Anche in Canada sor-gono poi colonie diPugliesi intorno a To-ronto, Montreal e Par-ry Saund.

Solitamente agliinizi del Novecentoqueste colonie sonodei veri e propri ghettiurbani assai degrada-ti e affollati da braccianti, manovali, sarti, barbieri, molti dei quali vivonoin America da soli senza la loro famiglia che, invece, è rimasta in Italia.

A differenza degli emigrati di altri paesi d’Europa, e spesso dellastessa Italia settentrionale, che si recavano in America con le loro fa-miglie per radicarsi nel nuovo continente, gli emigrati pugliesi si con-sideravano di passaggio, risparmiavano sino all’osso contando di met-tere da parte in pochi anni quella somma necessaria per poter poicomprare in Italia l’agognato pezzo di terra o per poter costruirsi unacasetta o ancora per poter mettere o rimettere in piedi un’attività com-merciale o artigianale.

Molti centri pugliesi, particolarmente quelli della Terra di Bari,ebbero in effetti un forte impulso al loro sviluppo edilizio proprio

Milwaukee - Wisconsin, anni Trenta: un gruppo diemigrati modugnesi, organizzati nella “San RoccoSociety”, ripropone la festa patronale di San Rocco

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nei primi due decen-ni del Novecento pereffetto delle rimesse edei risparmi di que-sti emigrati.

Solitamente lecomunità pugliesi,all’interno delle qua-li vi è una maggio-ranza di analfabeti odi soggetti di scarsacultura, spesso privadi una qualificazioneprofessionale, non siintegrano né con lealtre comunità diemigrati né con lapopolazione indige-na, per cui esse re-stano chiuse al lorointerno e difficil-mente avviano quel

processo di americanizzazione dei propri membri che costituisce ilfondamento vitale della società del nuovo continente.

I Pugliesi pionieri del sindacalismo americanoE però proprio i Pugliesi danno agli inizi del Novecento un impor-

tante contributo all’avvio negli USA di alcune prime forme di protestae di organizzazione sindacale. Famosa, al riguardo, è quella messa inatto da ben 30.000 operai italiani, fra i quali vi era una nutrita presen-za di Pugliesi, impegnati nel 1902 nella costruzione della metropolita-na di New York, i quali rivendicarono con prolungati scioperi il lorodiritto di essere pagati direttamente dalle banche che si erano aggiudi-cate l’appalto e non dagli appaltatori della manodopera, i cosiddetti

Toronto, giugno 1992: emigrati modugnesi impegnatinei festeggiamenti della Madonna Addolorata, organiz-

zati da “La Motta Social club Modugnese - Toronto”

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“padroni”, allora imperanti in tutte le città americane, che ovviamenterealizzavano grandi profitti trattenendo per sé una parte dei salari deglioperai da essi ingaggiati per conto delle stesse banche.

Così, è molto importante il contributo e l’impegno di alcuni Pugliesinella costituzione dell’Amalganated Clothing Workers, un sindacato fon-dato nel 1914 negli USA dai soli immigrati, che divenne addiritturaun punto di riferimento del sindacalismo industriale e fu negli anniTrenta uno dei più convinti sostenitori del New Deal di Roosevelt.

Agli inizi del Novecento, infine, alcuni Pugliesi, di formazione socia-lista e soprattutto anarchica, certamente motivati dalle loro specifichecondizioni di vita, costituirono o rafforzarono negli USA sindacati edorganizzazioni radicali, alcune delle quali, dopo la rivoluzione russa del1917, assunsero persino un orientamento comunista.

Il modugnese Giuseppe Sgovio, seguito poi dal figlio Thomas, di cui siparla in seguito, rientra appunto nel novero di questi emigrati radicali.

Una pagina dolorosa di storiaL’emigrazione del primo Novecento è una pagina assai dolorosa del-

la storia della Puglia: numerosi sono gli emigranti che, spesso indifesi,vengono travolti dalle avversità e con amarezza assistono al fallimentodel loro sogno americano, ma tragica diventa anche la vita di quellefamiglie che, rimaste in Italia, vengono dimenticate e abbandonate dalloro congiunto emigrato.

La consultazione degli archivi ci pone di fronte alla sofferenza ditanti emigrati pugliesi che, o presi dalla nostalgia o, soprattutto, ri-dotti alla miseria, chiedevano ai consolati di essere rimpatriati in Ita-lia a spese dello stato. È il caso, ad esempio, di un emigrato in U.S.A.di San Severo, di cui il consolato scrive: “Si trova in tristissime condi-zioni finanziarie e non può rimpatriare, pur essendo vivamente attesodalla sua famiglia, anch’essa in miseria”; oppure di un altro di cui sidice: “È ammalato e non può rimpatriare dovendo lavorare per paga-re i debiti”.

Così come numerose sono le lettere delle mogli rimaste in Italia coni loro bambini, precipitate nella disperazione e nella povertà assoluta

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per essere state abbandonate dai loro mariti emigrati, che si erano rifat-ti una seconda famiglia.

Del resto, le difficoltà e i tragici problemi che i nostri emigranti era-no costretti ad affrontare sono ben espressi in una lettera di un emigra-to bitrittese, Joseph Zuccaro, conservata nel Museo degli emigranti diEllis Island di New York. Dice Joseph Zuccaro: “Quando ero in Italiacredevo che le strade in America fossero pavimentate d’oro, ma quan-do finalmente arrivai qui, ebbi un grande disappunto nel vedere nonsolo che le strade non erano pavimentate d’oro, ma che non c’eranoaffatto, e quel ch’è peggio aspettavano me che le pavimentassi”.

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La memoria delle tragedie dell’emigrazionenella cultura popolare

Gli echi delle tragedie degli emigrati e delle loro famiglie, lasciate eabbandonate in Italia, sono ancora presenti nella cultura popolare pugliese.Il canto popolare Marìe che cinghe figghje abbandonate (Maria con cinquefigli abbandonata), ad esempio, racconta la tragedia di una moglie, madredi cinque figli, abbandonata dal marito emigrato. La donna, dopo averperduto ogni speranza, raggranella con grandi sacrifici i soldi del bigliettoper il “piroscafo” e, travestita da prete, va in America. Giunta nella cittànella quale il marito si è rifatta una nuova vita, bussa alla porta della suaabitazione, chiede ospitalità “per una notte”, e “all’ora di mezzanotte” loammazza con un pugnale e poi lo abbraccia e lo bacia teneramente.

La conclusione del canto è assai drammatica. Ritornata in Italia, incon-tra per strada i suoi figli, e la sua primogenita le chiede dove fosse stata. Ladonna risponde con struggente sofferenza: “Sono stata all’America bella/ad ammazzare il tuo papà”. E la figlia di rimando: “O mamma, mamma,/ce tu ua ffatte fà./ Tu ada scì in prigióne/ e a nu la farine/ ce ’nge l’avà combrà”(O mamma, mamma,/ chi te lo ha fatto fare./ Tu devi andare in prigione/e a noi la farina/ chi ce la deve comprare). La risposta della mamma èstraziante: “O figghja figghja,/ nan de ne ngarecà:/ paése pe paése,/ candannechèssa stórie,/ ceccanne la carità” (O figlia, figlia,/ non ti preoccupare:/ paeseper paese,/ cantando questa storia,/ chiedendo la carità).

Approfondimenti

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2. LA TRAGEDIA DELLA FAMIGLIA SGOVIO

Giuseppe Sgovio dalla partenza da Modugno alla militanzapolitico-sindacaleLa triste vicenda della famiglia Sgovio, che inizia nel 1906 con la

partenza da Modugno per gli Stati Uniti di Giuseppe Sgovio (Modu-gno 1890 - Mosca 1947), si inserisce nella dolorosa e lunga pagina distoria della emigrazione pugliese.

Giuseppe Sgovio parte da Modugno il 1906 insieme ad un suo amico,Nicola Di Ceglie, anch’egli modugnese, alla volta di New York, perfuggire dalla povertà che in quegli anni attanagliava i ceti più debolidella Puglia.

Qualche anno dopo ritorna a Modugno per sposare Anna Di Ce-glie, sorella del suo amico, e subito dopo i due giovani coniugi partonoper l’America, stabilendosi a Buffalo, nello stato di New York. Lavoran-do lui come idraulico e lei come sarta in una industria di confezione diabiti maschili, la famiglia Sgovio, che si arricchisce ben presto di trefigli (Angela, Tommaso e Graziella), sembra essere nei primi anni unafamiglia di emigrati come tutte le altre, impegnata solo nel lavoro enella costruzione di una condizione economica di sicurezza.

Giuseppe Sgovio, però, aderisce ben presto alle idee socialiste, inco-mincia ad avvicinarsi agli ambienti sindacali e finisce poi coll’iscriversial combattivo Partito Comunista americano, nato nel 1919 da una scis-sione del Partito Socialista degli USA.

In quegli anni, per un emigrato meridionale che aveva sia pure unagenerica formazione politica era quasi d’obbligo avvicinarsi ai gruppisindacali più radicali orientati in senso socialista, comunista o anarchi-co. Infatti, il più grande sindacato statunitense (l’AFL) sino alla metàdegli anni Trenta “continuava a tenere fuori dalle proprie organizzazio-ni i lavoratori non qualificati, considerati come rifiuti della società”;non solo, ché lo stesso sindacato si affidava al capitalismo illuminatodegli imprenditori, tanto che i suoi dirigenti erano sempre pronti allapiù completa collaborazione col padronato.

D’altra parte, è noto che nei primi decenni del Novecento trion-

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fa negli Stati Uniti il cosid-detto “capitalismo selvaggio”,per cui gli imprenditori in-tendono avere le mani deltutto libere nella gestione enella organizzazione dellaproduzione.

Davanti alle agitazionioperaie, soprattutto se capeg-giate da leader legati a mino-ranze etniche, scatta pertan-to una dura repressione con-certata fra lo stato, gli indu-striali, che potevano dispor-re di una loro polizia priva-ta, e le forze “patriottiche”americane che esaltavano ivalori della tradizione.

In questi anni sono conti-nue le azioni del Ku KluxKlan, ricostituitosi nel 1915,

che è protagonista di feroci linciaggi non solo contro i neri, come eranella sua tradizione, ma anche contro le minoranze straniere, compresequelle italiane.

D’altra parte, è noto che in un clima di accentuato nazionalismoviene costruito il caso dei due anarchici pugliesi, Nicola Sacco e Barto-lomeo Vanzetti, che vengono condannati alla sedia elettrica nel 1927.

La situazione precipita ulteriormente in seguito al crollo di Wall Streetdel 1929, che provoca la paralisi dell’economia statunitense, determi-nando ben 13 milioni di disoccupati e grandi lotte operaie che neigrandi centri industriali di San Francisco, Chicago, Minneapolis, De-troit, Pittsburg assunsero i connotati di una guerra civile.

Negli anni successivi al ’29, e sino all’avvio del New Deal di Roose-velt, diventato presidente nel 1933, aumentano le agitazioni operaie,

Giuseppe Sgovio in una foto del 1911

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che spesso sono promosse spontaneamente contro la volontà dei verticisindacali, vengono sperimentate nuove forme di lotta come lo scioperobianco e si affermano dal basso nuovi dirigenti sindacali.

In questi anni è assai attivo Giuseppe Sgovio, che dà il suo contribu-to perché il sindacato americano abbandoni la sua vocazione moderatae collaborativa col padronato. Egli addirittura lascia il lavoro e si dà atempo pieno alla causa sindacale, impegnandosi sia nell’organizzazio-ne sia nel proselitismo, sia anche nella lettura dei classici del marxismo.

Per il suo intenso impegno politico-sindacale, Giuseppe Sgovio, cheperaltro collaborava anche con alcuni esponenti anarchici particolar-mente attivi fra gli emigrati italiani e soprattutto pugliesi, non potevanon finire nelle maglie della repressione poliziesca: nel 1931, dopo unamanifestazione popolare a Buffalo che venne brutalmente soffocata,egli, dopo essere stato ferito alla testa, viene arrestato una prima volta;nel 1933 viene arrestato una seconda volta perché accusato di avercompiuto un atto terroristico; infine, dopo essere stato processato, vie-ne dichiarato dalle autorità statunitensi “persona indesiderata” ed espulsodagli USA.

Dall’espulsione dagli USA ai gulag sovieticiLa scelta che in quel momento si presenta a Giuseppe Sgovio è assai

difficile: certamente egli non avrebbe potuto ritornare in Italia, poichéproprio agli inizi degli anni Trenta il fascismo ottiene il massimo con-senso all’interno della nazione e, per giunta, gode di molte simpatiepresso alcuni settori industriali degli Stati Uniti e dello stesso PartitoRepubblicano americano, che controlla sino al 1933 la Casa Bianca.L’unica possibilità, dunque, non poteva essere offerta che dal movimentocomunista del “Soccorso Rosso Internazionale”, che aveva messo su unarete internazionale di solidarietà per assistere economicamente ed even-tualmente far arrivare e poi sistemare in Unione Sovietica quanti eranostati costretti ad abbandonare i loro paesi per le le loro idee socialiste,comuniste e in alcuni casi persino anarchiche.

Nel 1935 Giuseppe Sgovio lascia gli Stati Uniti, parte con una navealla volta della Germania e di lì poi raggiunge in ferrovia Mosca. La

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decisione di Sgovio di stabilirsi in Unione Sovietica, dove fu subito rag-giunto dalla sua famiglia, dovette essere legata, come peraltro accadevain quegli anni per diversi antifascisti italiani, anche alle sue idee politi-che e alla sicura convinzione di poter trovare nell’unica patria del socia-lismo la società giusta, se è vero che in una sua lettera del 14 febbraiodel 1936, indirizzata alla madre, residente a Modugno, ma mai recapi-tata per l’intervento della censura fascista, egli scrive: “La vittoria deglioperai e dei contadini russi dell’ottobre del 1917 deve servire al popoloitaliano. La vittoria della rivoluzione proletaria russa indica la stradadella piena liberazione della nostra classe”.

Purtroppo, per Giuseppe Sgovio e per migliaia di rifugiati politici,

La fondazione del Soccorso Rosso

Nel 1922 fu fondato a Mosca il MOPR, ossia l’Organizzazione In-ternazionale di Soccorso ai Combattenti della Rivoluzione, noto all’este-ro come Soccorso Rosso Internazionale, per offrire aiuti materiali, giuri-dici e morali ai detenuti politici, agli emigrati politici e alle loro famiglie,nonché alle famiglie dei rivoluzionari caduti, indipendentemente dal par-tito di appartenenza. Nel 1932 il Soccorso Rosso Internazionale, diffu-sosi in tutti i paesi occidentali dove era presente un partito comunista,contava 70 sezioni nazionali, alle quali erano iscritte 14 milioni di perso-ne. Nel 1937 la sede centrale del Soccorso Rosso Internazionale fu spo-stata da Mosca a Parigi.

Il Soccorso Rosso, soprattutto fra gli anni Venti e Trenta, quando indiversi paesi europei si affermarono regimi fascisti, venne mitizzata dallemasse popolari come una organizzazione che testimoniava realmente iprincipi di fratellanza, poiché si prendeva cura non solo dei detenuti po-litici e di quanti fuggivano dai loro paesi per motivi politici, ma anchedelle loro famiglie.

Giuseppe Sgovio ottenne l’aiuto e la collaborazione del Soccorso RossoInternazionale sia per partire dagli U.S.A. sia poi per essere sistemato inUnione Sovietica.

Approfondimenti

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fra i quali è da annoverarsi anche suo figlio Thomas, l’Unione Sovieticadoveva rivelarsi una realtà ben più amara di quella degli USA.

Se negli anni Venti i rifugiati politici avevano goduto di libertà dimovimento e persino di iniziativa socio-economica, costituendo club ekolchoz 1, negli anni Trenta, invece, essi sono oggetto di una politica dirigido controllo, di repressione e persino di arresti, di condanne a mor-te e ai gulag, come peraltro avviene per milioni di cittadini dell’UnioneSovietica.

Dopo il 1929, infatti, con la conquista totale del partito comunistada parte di Stalin e l’adozione della linea del “socialismo in un solopaese”, la politica dell’Unione Sovietica cambia radicalmente anche ri-spetto ai rifugiati politici stranieri, verso i quali si sviluppano diffusisentimenti di xenofobia; sentimenti che, pur avendo sempre caratteriz-zato in maniera più o meno sottile il regime, esplosero dopo il 1933 perla paura di accerchiamento determinata sia dall’occupazione dellaManciuria da parte del Giappone, sia ancor più dalla vittoria di Hitler,che si proponeva esplicitamente l’espansione della Germania verso est.A partire dal 1933 le ‘nazionalità in diaspora’ e tutti gli stranieri, inclusigli italiani, divennero ‘nemici’. A riprova di ciò, a partire da quell’annogruppi di rifugiati polacchi, tedeschi, finlandesi, coreani e italiani furo-no accusati di far parte di “organizzazioni controrivoluzionarie”.

Naturalmente, bastava poco per finire sotto processo; le accuse inbase alle quali si veniva arrestati, quasi sempre in massa, erano tuttericonducibili all’art. 58 del codice penale dell’URSS: attività controri-voluzionaria e trozkista, sabotaggio, spionaggio, tradimento della pa-tria; per i rifugiati italiani vi era anche l’accusa di essere bordighiani (difatto equivalente allora a quella di essere trozkisti), che veniva formula-ta con la collaborazione dei dirigenti del Partito Comunista d’Italia chelavoravano a Mosca negli organismi del Komintern e del Soccorso Ros-so Internazionale.

1 Piuttosto noto è il caso del kolchoz modello “Sacco e Vanzetti”, costituito subitodopo l’esecuzione della condanna a morte dei due Pugliesi e interamente gestito dairifugiati italiani nel territorio di Mosca subito dopo la condanna negli USA dei dueanarchici, al quale furono assegnati ben mille ettari di terra.

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Fra il 1933 e il 1938 si concentrano gli arresti, le deportazioni dimassa e le fucilazioni dei rifugiati politici, che sono alimentati dal cosid-detto “terrore della sicurezza”, noto anche come “terrore xenofobo”:chiunque avesse legami con l’estero veniva immediatamente sospettato,ed era sufficiente che un italiano si recasse al consolato o mantenessecontatti epistolari con i parenti rimasti in Italia, perché venisse conside-rato un traditore o una spia.

Particolarmente esposti alle accuse di tradimento e di spionaggioerano quei rifugiati politici italiani che lavoravano in fabbriche im-piantate in URSS da aziende italiane e in particolare nella “Kagano-vich”, una fabbrica che, messa su a Mosca dalla RIV di Torino fra il1931 e il 1932, con la sua produzione di cuscinetti a sfera era ritenu-ta strategica per i destini dell’economia sovietica. I dipendenti della“Kaganovich”, fabbrica che nelle intenzioni delle autorità sovietichedoveva essere la prima al mondo nel suo genere, furono anche accu-sati del mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dal primoPiano quinquennale .

Fra luglio del 1937 e novembre del 1938 si ebbe in URSS il perio-do del “Grande terrore”, durante il quale non era difficile lanciare airifugiati che lavoravano in una fabbrica italiana l’accusa “di trasmettereall’estero informazioni sulla produzione o di sabotare gli impianti” e diavere una condotta controrivoluzionaria e antisovietica.

Giuseppe Sgovio che, sin dall’arrivo in Unione Sovietica lavora pro-prio nella fabbrica “Kaganovich”, ha, per così dire, tutti i requisiti perfinire sotto le maglie della polizia sovietica e, a partire dal 1937, inco-mincia per lui una vita infernale che terminerà solo con la sua morte:“Nel 1937 viene cacciato [dalla ‘Kaganovich’ ndr] per propaganda an-tisovietica. Lavora poi all’ente cinematografico sovietico Mezrobpan-film. Il CC del MOPR (Soccorso Rosso Internazionale ndr) lo invia aCheboksary (Ciuvascia), ma il 20 luglio 1937 torna a Mosca. Chiedeal MOPR un appartamento e, non avendolo ricevuto, si consegna allapolizia per farsi arrestare, confessando “di voler uccidere i due rappre-sentanti del MOPR Verdi e Vallo” (scheda su G. Sgovio della Fondazio-ne “G. Feltrinelli”).

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Una foto di Thomas Sgovio

Processato in modo assaisommario, come era norma-le nella Russia stalinista,Sgovio viene condannato inun primo momento a cin-que anni di gulag il 19 no-vembre del 1937 e inviatoal campo Vorkutinskij; inseguito ad un nuovo proces-so per gli stessi reati, nel1942 la pena gli viene rad-doppiata. Nel 1945 è con-finato a Taskent, dove si am-mala gravemente. Nel 1947torna clandestinamente aMosca, dove muore nellostesso anno.

E i gulag sovietici si aprono anche per il figlio ThomasSorte non diversa viene riservata a Tommaso Sgovio, che, insieme

alla madre e alla sorella, raggiunge il padre a Mosca nell’agosto del1935.

Tommaso Sgovio nasce a Buffalo (USA) il 7 ottobre 1916 e sin dapiccolo è avviato al comunismo: all’età di 12 anni, già iscritto alle orga-nizzazioni giovanili comuniste, è “il più giovane Pioniere Comunistadell’America”; non solo, ché egli accompagna il padre nell’opera dipropaganda negli USA e addirittura tiene comizi nelle città americaneche suscitano molto entusiasmo e partecipazione: “Il padre scriveva itesti che poi Thomas imparava e declamava. Arrivavano in una piazza oin un incrocio di una città, disponevano a terra una cassetta e Thomasci saliva sopra parlando con grande sentimento e attirando l’attenzionedella gente”.

Anche Tommaso Sgovio, quindi, sogna di poter trovare in UnioneSovietica il socialismo e una società giusta.

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In verità, è l’intera famiglia Sgovio che sembra essere unita e cemen-tata non solo dagli affetti, ma anche dal “credo comunista”, come acca-deva allora, quando sia per gli attacchi che provenivano dall’esterno siaper l’adesione fideistica e ideologica al comunismo, l’istituzione fami-gliare era una delle poche realtà, se non l’unica, in cui poter trovarepace, comprensione e vera solidarietà.

E, al proposito, scoprendo di volta in volta le avversità di questa sfor-tunata famiglia, sulla quale si sono abbattuti i luttuosi processi del No-vecento, si può immaginare quanta forza dovesse avere Anna Di Ceglie,moglie di Giuseppe Sgovio, che condivise col marito e col figlio tutti itragici eventi, stando al loro fianco e sostenendoli sempre.

Thomas Sgovio, giunto in Unione Sovietica, vive anche lui a Moscae, forte degli studi artistici e di design già fatti negli USA, lavora comegrafico in una casa editrice moscovita. Chiede ed ottiene la cittadinan-za sovietica e si sposa con una giovane americana, anche lei probabil-mente emigrata dagli USA in URSS.

Un disegno di Thomas Sgovio cherappresenta un gruppo di internati in un gulag

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In seguito all’arresto e alla condanna del padre, Thomas, dopoaver stabilito rapporti con l’ambasciata americana di Mosca, si pro-pone di richiedere la cittadinanza americana e di ritornare negliUSA, cosa che, come si è già detto, era giudicata dalle autorità so-vietiche come alto tradimento. Infatti, il 21 marzo del 1938 egliviene arrestato mentre esce dall’ambasciata americana con l’accusadi spionaggio; subito processato e dichiarato “elemento socialmentepericoloso”, il 14 maggio del 1938 viene condannato a 5 anni digulag e inviato al campo Severo-Vostochnyj; la pena, però, gli vieneprolungata sino al 1946.

Liberato il 2 settembre del 1946, viene inviato nella regione di Cha-barovsk, dove vive in un villaggio lavorando come cartografo. Le suepene, però, non finiscono qui, e il 16 dicembre del 1948 viene nuova-mente arrestato per “tradimento della Patria” e condannato “al confinoperpetuo nella regione di Krasnojarsk, dove lavora in un kolchoz”.

Le due edizioni in inglese e in italiano del libro-diario di Thomas Sgovio, pubblicatonel 2009 su iniziativa della Presidenza del Consiglio Regionale della Puglia

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Dopo la morte di Stalin e l’avvio della destalinizzazione, ThomasSgovio viene definitivamente liberato nel 1954, e nel 1960 ritorna conla madre a Modugno. Qui si sposa in seconde nozze con una giovanebarese di nome Giovanna, impegnata da alcuni anni nell’opera di sen-sibilizzazione sulla tragedia della famiglia Sgovio.

Thomas Sgovio, insieme alla seconda moglie, nel 1963 ritorna inAmerica nella città di Buffalo, dove scrive le sue memorie Dear Ameri-ca (Cara America) e Kolyma, Kolyma, che è il nome del campo in cui fuconfinato nella regione di Krasnojarsk in Siberia, in cui trascorse 8 annidella sua vita; si impegna anche nella pittura e produce 46 dipinti, oraconservati alla “Hoover Institution”, che illustrano momenti e situazio-ni vissuti in Urss nel carcere, nel gulag e al confino.

Thomas Sgovio muore di cancro nel 1997, raccomandando a quan-ti gli erano vicini di far conoscere le dolorose vicende della sua vita che,in realtà, sono quasi un paradigma della storia del Novecento.

Nel 1906 partiva da Modugno per trovare fortuna in America unsuo povero figlio; ora, a distanza di un secolo, dalla sua famiglia ritornaa noi una storia complessa e tormentata, che commuove e suscita tanteriflessioni.

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BIBLIOGRAFIA

Per un inquadramento generale delle migrazioni stagionali e dell’emigra-zione pugliese:

O. Bianchi, Un profilo delle migrazioni interne nell’area della Puglia fra XIXe XX secolo, in Istituto per la Storia del Risorgimento, L’età giolittiana nel Mez-zogiorno e in Puglia, Bari, 1990; O. Bianchi, Emigrazione e migrazioni internetra Ottocento e Novecento, in Le regioni dall’unità ad oggi, Puglia, Einaudi,Torino 1989, p. 549; G. Candido, Emigrazioni interne temporanee nell’agrobrindisino, Brindisi, 1910; S. Fiorese, Nuovi dissesti e maggiori depressioni, in“Rassegna Pugliese”, gennaio-febbraio-marzo 1908; F. De Felice, L’agricoltu-ra in Terra di Bari dal 1880 al 1914, Milano 1971; V. De Bellis - R. Colon-na, Historia di Bitritto, Grafica Bigiemme, Bari 1983; G. Rosoli, Un secolo diemigrazione italiana 1876-1976, Roma, Cser, 1978; J. Zuccaro, Perché l’Ame-rica, in Bitritto nel mondo, 2004.

Sulla tragedia della famiglia Sgovio e degli esuli politici:E. Dundovich - F. Gori - E. Guercetti, Gli italiani vittime di repressioni

politiche in Unione Sovietica, in Rassegna degli Archivi di Stato, N. 3, 2005; C.Leonetti Luparini, Roberto Anderson, Un idealista nel paese dei Soviet(www.gariwo.net); Centro Studi Memorial Mosca - Fondazione GiangiacomoFeltrinelli, Gli italiani nel gulag, Milano 2005; A. Polcri - M. Giappichelli,Gli Stati Uniti dell’American way of life e dei forti contrasti sociali, in Storia eanalisi storica, Brescia, 2000, p. 367; V. A. Leuzzi, Due Pugliesi nei gulag diStalin, in La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 2-9-2008;

Numerose notizie sulle vicende della famiglia Sgovio sono assunte dallarelazione svolta da Giovanna Sgovio, moglie di Thomas Sgovio, all’incontro dipresentazione del progetto della Regione Puglia “Memorie di una vita: Tho-mas Sgovio”, svoltosi, presso la Fiera del Levante, il 13 settembre 2008.

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INDICE

Premessa 5

1. Nasce la Puglia contemporanea 71. la Puglia nell’età della destra storica 92. La crisi agraria e la politica della sinistra parlamentare 283. Bari capitale 414. L’editoria e il nuovo sistema di informazione 67

2. Dal primo Novecento alla seconda guerra mondiale 831. Una società ed una economia bloccate 862. Agitazioni sociali e lotte agrarie nel primo dopoguerra 1063. Dalla reazione agraria al fascismo 1164. Il fascismo nelle città 133

3. L’emigrazione pugliese fra Ottocento e Novecento 1571. Dalle migrazioni stagionali all’emigrazione 1592. La tragedia della famiglia Sgovio 176

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VOLUMI PUBBLICATI

Vito Faenza, La vita di un Comune, (a cura di R. Macina), 1982;Raffaele Macina, Il 1799 in provincia di Bari, 1985;Anna Longo Massarelli, Costume e società nei proverbi modugnesi, 1986;Serafino Corriero, Alla scuola del fascismo, 1987;Sandro De Feo, Gli inganni, (presentazione di A. Moravia), 1988;Giuseppe Ceci, Balsignano, 1988;Ivana Pirrone, Stagioni di Puglia, 1990;Anna Longo Massarelli, La vita quotidiana nella cultura popolare, 1991;Vincenzo Romita, Liriche, 1991;Raffaele Macina, Modugno nell’età moderna, 1993;Anna Longo Massarelli, Dizionario del dialetto modugnese, (presentazione di Serafi-

no Corriero), 1995;Raffaele Macina, Estro e malizia negli agnomi popolari, 1996;Anna Longo Massarelli-Ivana Pirrone, I sapori della terra, 1997;Quinto Tullio Cicerone, Commentariolum petitionis (Vademecum del candidato, a

cura di Cristina Macina), 1997;Lucio Anneo Seneca, Epistula XVIII ad Lucilium (Intorno ai Saturnali, a cura di

Cristina Macina), 1997;Raffaele Macina, Viaggio nel Settecento, 1998;Raffaele Macina, Viaggio nel 1799, 1999;Dina Lacalamita, Storia segreta di un converso del 1799, 1999;Vincenzo Romita, Uno stupido fondo di bottiglia, 2000;Raffaele Macina, Antologia di una città, 2004;Vincenzo Romita, Entroterra, 2004.Anna Longo Massarelli, L’arguzia del popolo, 2007.Serafino Corriero-Raffaele Macina, La magia del racconto nella cultura popolare, 2009.

Page 194: La Puglia contemporaneapugliadigitallibrary.it/media/00/00/74/960.pdftutto, nei grandi e nei piccoli centri, due ali di folla festante attende-vano già fuori dell’abitato la carrozza

Finito di stamparenel mese di maggio del 2010 daLitopress Industria Grafica s.r.l.