La Pittura Preromanica e Romanica

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La pittura preromanica e romanica di Jean-Pierre Caillet Storia dell’arte Einaudi 1

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La pittura preromanica eromanica

di Jean-Pierre Caillet

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:in La pittura in Europa. La pittura francese, a cura diPierre Rosenberg, vol. I, Electa, Milano 1999

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Indice

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L’VIII e il IX secolo 11La miniatura 11Mosaici e pitture murali 18

Dall’anno mille al 1200 21Il nord 21La Normandia 25L’area centro-occidentale 26Il Limosino 34L’estremo sud-ovest 35L’area sud-orientale 36La Borgogna 39L’Ile-de-France 45

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Per identificare le origini delle principali tecniche edel messaggio spirituale dei primi grandi sviluppi del-l’arte pittorica nella Francia medievale, bisogna risalireall’epoca dell’antica Gallia paleocristiana. Nella secon-da metà del V secolo, Sidonio Apollinare esaltava in unadelle sue Epistole la magnificenza dei mosaici che a queltempo decoravano la cattedrale di Lione; e, alcunidecenni più tardi, una testimonianza del vescovo Gre-gorio, cronachista dei re franchi, accennava ai miracolidi Cristo e di san Martino dipinti sui muri della gran-de basilica di Tours dedicata al santo. Contrariamentea ciò che è accaduto a Roma e a Ravenna, a Milano o aNapoli, niente di tutto questo è sopravvissuto... Ma èlecito supporre che coloro che vissero nel periodo quipreso in esame abbiano potuto ammirare alcuni di que-sti insiemi, come suggerisce, ad esempio, un testo del-l’XI secolo che elogia gli splendori della cattedrale diNantes – tra i quali figuravano i mosaici ricordati nelVI secolo da Venanzio Fortunato – a quel tempo anco-ra integra. Questi riferimenti sono indispensabili: si èinfatti concordi nel riconoscere che i pittori e i mosai-cisti italiani del IX e del XII secolo si ispirarono alleopere dei loro predecessori, esortati da committenti chedesideravano ricollegare le loro iniziative a una presti-giosa tradizione. Non vi è quindi motivo di ritenere chein Francia le cose siano andate diversamente. Del resto,

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non vi sono difficoltà ad ammettere che la strutturacompositiva dei modelli antichi ha condizionato lo svi-luppo delle decorazioni pittoriche dei manoscritti caro-lingi; e si potrebbe tra parentesi osservare che l’ade-renza agli schemi classici romani ha esercitato un impat-to non meno decisivo – basti pensare ai capitelli corin-zi e alle figure di telamoni – sulla rinascita della gran-de scultura dell’XI secolo. Non si può quindi prenderein esame la produzione pittorica preromanica e romani-ca senza far riferimento a quest’eredità, anche se, data latotale scomparsa di questi antecedenti, ogni riferimentorimane nel nostro caso puramente virtuale; con ciò, siachiaro, non intendiamo negare l’originalità – e quindi, piùpropriamente, la creatività – di cui gli artisti carolingi oromanici diedero prova nell’adeguare certi obbiettivi all’i-nevitabile mutare delle circostanze. Ma, riconsiderandole cose da questo punto di vista, sembra si debba rico-noscere il prevalere di una relativa “continuità”.

Non si tratta, naturalmente, di occultare alcuneprofonde rotture, gravide di conseguenze: i profondisconvolgimenti politici e culturali di cui a quell’epoca futeatro il territorio corrispondente all’attuale Franciaprovocarono fasi di stagnazione, e persino vere e proprieregressioni, che per periodi più o meno lunghi ostacola-rono la ricomposizione delle élite – vale a dire dell’am-biente della committenza – e, di conseguenza, impedi-rono al movimento artistico di ritrovare la sua strada.La prima di queste fratture coincise con l’insediamentodei regni barbarici nel corso del V e del VI secolo.Anche se, nel corso di questo periodo, le componenti cri-stiane assicurarono la conservazione di alcuni elementidell’antico repertorio, più ricchi di significato di quan-to non si pensi comunemente, come vedremo a propo-sito di uno dei più rappresentativi manoscritti mero-vingi, il riconoscimento da parte degli stessi artisti caro-lingi della necessità di ritornare alle formule anteriori

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dimostra che queste ultime erano state a lungo dimen-ticate. A partire dalla seconda metà del IX secolo, larapida disgregazione dell’Impero carolingio, che ebbecome diretta conseguenza il diffondersi di una condi-zione feudale piuttosto anarchica, provocò un effettoaltrettanto disastroso sul piano artistico, tanto più chealla frammentazione del potere laico si accompagnava ladisorganizzazione dei centri e delle reti religiose: que-sta letargia della maggior parte dei grandi centri cultu-rali spiega facilmente la quasi totale assenza di operesopravvissute databili al periodo compreso tra l’875 el’anno mille. Il rinnovamento della produzione pittori-ca, sia su scala monumentale che nella decorazione deilibri, riuscì ad affermarsi solo con la ricostituzione dellestrutture monastiche e vescovili, seguita da quella dialcuni principati territoriali sostenuti proprio dalla gerar-chia ecclesiastica.

Passiamo ora dall’esame di carattere generale di que-sti fattori a quello delle condizioni che esercitaronoun’influenza più diretta sulla produzione pittorica. Nelperiodo carolingio, la grande importanza attribuita allaricostruzione dei grandi testi sacri latini nella loro purez-za originaria – e quindi nell’esattezza e nella profonditàdel loro significato – diede origine a una proliferazionedi raccolte di Vangeli e di Bibbie, come pure di Sacra-mentari destinati a fissare le norme dell’uffizio divino.Oltre alla revisione filologica, considerata rigorosamen-te prioritaria, l’estrema accuratezza della calligrafia e,per gli esemplari da cerimonia, delle illustrazioni non èaffatto gratuita, ma tende a esaltare nel modo più con-veniente la parola e le opere del Signore, infine rico-struite nella loro integrità. E la frequenza con cui l’im-magine del sovrano fa la sua comparsa in questi stessimanoscritti, va ricondotta non solo al volere di que-st’ultimo, ma anche all’intento di sottolineare che,secondo la concezione teocratica del potere ereditata

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dalla tarda antichità, il re è il garante dell’ordine divi-no sulla terra, il principale divulgatore del messaggio diCristo e la guida del popolo verso la Salvezza. Nel corsodel periodo romanico, acquista un’importanza fonda-mentale una nuova componente: l’esaltazione dei santi,e, in particolare, dei patroni locali, attraverso la narra-zione della loro vita o la loro raffigurazione accanto allegrandi figure della sfera celeste, una componente diret-tamente legata alla valorizzazione delle reliquie, sul pos-sesso delle quali i chierici fondavano – in particolarmodo nel contesto dello sviluppo dei pellegrinaggi – iloro tentativi di aumentare il prestigio dei loro santua-ri. Si discerne anche un’altra importante componente,che riflette una preoccupazione di carattere esclusiva-mente ecclesiologico, nata allo stesso tempo con la rifon-dazione istituzionale promossa a partire da Roma nellaseconda metà dell’XI secolo dalla Riforma gregoriana,e dalla necessità di rispondere alle numerose deviazionipiù o meno apertamente eretiche: si trattava di sottoli-neare l’autorità della gerarchia, riconducendola ai suoifondamenti teologici, e la sacralità dei sacramenti (e inprimo luogo dell’Eucarestia). Infine, a partire dal XIIsecolo, lo sviluppo della devozione mariana – la Vergi-ne iniziò infatti ad essere sistematicamente associataalla Chiesa – introdurrà una nota supplementare nel-l’affermazione di questa corrente.

Dopo aver individuato le principali idee guida, rivol-giamo ora la nostra attenzione agli uomini che le tra-dussero nella pratica. Purtroppo l’identità degli autoridell’immensa maggioranza delle opere che ci sono per-venute rimane sconosciuta: la plausibile attribuzioneall’abate Odbert di una parte delle miniature dei mano-scritti di Saint-Bertin databili verso l’anno mille, è, aquesto riguardo, una rara eccezione... Alcune immaginie riferimenti testuali offrono tuttavia qualche indica-zione sulla personalità di questi pittori. Sembra che

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abbastanza spesso si trattasse di religiosi, e, più in par-ticolare, di monaci (come, ad esempio, Hugo, un mona-co di probabile origine normanna, che verso il 1100dipinse la sua effigie alla fine di un manoscritto conser-vato a Oxford (Bodleian Library, ms. Bodley 717); oSawalon, firmatario di molti libri provenienti dall’ab-bazia di Saint-Amand, tra cui una Bibbia in cinque volu-mi (1150 circa; Valenciennes, Bibliothèque Municipale,mss.1-5 ); ma tra questi pittori figuravano anche dei laici(ad esempio un certo Félix, attivo a Corbie nel terzoquarto del XII secolo, come testimonia il suo ritrattocontenuto nel codice ms. lat. 11575 della BibliothèqueNationale di Parigi). Osserviamo inoltre che all’esecu-zione di alcune opere parteciparono probabilmente moltipraticanti (tra i manoscritti che esamineremo più avan-ti, è il caso del celebre Commentaire de l’Apocalypsedella chiesa di Saint-Sever databile alla metà dell’XIsecolo, ma anche di alcune opere monumentali, e, in par-ticolare, degli affreschi della chiesa di Saint-Savin-sur-Gartempe del 1100 circa, o delle vetrate dell’abbazia diSaint-Denis del 1140-1145); altri insiemi invece, tal-volta di non trascurabile importanza, sono attribuibili auna sola mano (come, ad esempio, le quattordici deco-razioni pittoriche a piena pagina e le nove iniziali delSacramentario di Saint-Etienne a Limoges eseguitoverso il 1100, o la totalità degli affreschi della navata edel coro della chiesa di Vicq successivi di alcuni decen-ni). Del resto, è frequentemente attestata l’attività diartisti itineranti: sappiamo, ad esempio, che nella Fran-cia settentrionale verso l’anno mille un miniaturistainglese formatosi certamente a Winchester lavorò per lachiesa di Saint-Bertin e per l’abbazia di Saint-Vaastd’Arras; e alcune fonti cluniacensi parlano di una Bib-bia alla quale avevano lavorato all’inizio del XII secoloin Borgogna un certo Albert proveniente da Treviri e uncerto Opizo, il cui nome sembra indicare un’origine ita-

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liana. Tenendo conto di tutti questi dati, sembra quin-di abbastanza vano voler attribuire a questo o quel cen-tro – o persino a questo o quell’ambiente – caratteri sti-listici esclusivi e assolutamente originali e anche lanozione tradizionale di “scuola” locale o regionale vienespesso rimessa in causa... Aggiungiamo che, se gli esem-pi summenzionati si riferiscono al periodo romanico, lasituazione non doveva essere molto diversa nel periodocarolingio: al contrario, l’unificazione dell’Impero occi-dentale, per quanto fragile e teorica, consentiva senzadubbio ai pittori di spostarsi più facilmente da un luogoall’altro. Come dimostrano alcune testimonianze, infine,gli artisti del tempo non si dedicavano esclusivamente altrattamento di un solo tipo di supporto: è possibile rav-visare, ad esempio, nelle evidenti analogie formali esi-stenti tra una pagina di un manoscritto cluniacense del-l’inizio del XII secolo (Parma, Biblioteca Palatina, ms.1650, in particolare f. 102 v) e alcune figure dell’insie-me che decora la cappella di Berzé, l’opera della stessamano; inoltre, un contratto concluso verso il 1100 tra l’a-bate Girard di Saint-Aubin d’Angers e un tale chiama-to Foulque stabilisce che quest’ultimo avrebbe eseguitosia vetrate sia altri tipi di opere, tra i quali figuravanoforse le miniature che illustrano la vita del santo eponi-mo di cui parleremo più avanti, e senza dubbio anchealcuni affreschi: tenendo conto di questo genere di testi-monianze ci è sembrato opportuno non esaminaredisgiuntamente nella seguente presentazione le opereeseguite con tecniche diverse.

Allo stesso modo, per quanto riguarda le scelte cheinformano questo panorama, precisiamo anzitutto chenon faremo nessun preciso riferimento agli autori di lavo-ri anteriori, sia per alleggerire il testo, sia perché la biblio-grafia renderà giustizia a tutti. Ma, prima di concluderequest’introduzione, ci sembra doveroso menzionare inomi di coloro che, nel corso degli ultimi decenni, con

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la loro ampiezza e profondità di vedute hanno suscitatonuovi tentativi di sintesi: le opere di Jean Porcher, AndréGrabar e Otto Demus, quelle di Hélène Toubert eFrançois Avril, e ancora di Louis Grodecki per quantoriguarda le vetrate, costituiscono ancora oggi i nostriineludibili e più validi punti di riferimento.

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L’VIII e il IX secolo

La miniatura

La fine del periodo merovingio, dopo una lunga fasedi apparente letargia, è caratterizzata da una produ-zione pittorica contrassegnata soprattutto dalla ric-chezza ornamentale. Il Sacramentario detto (impro-priamente) gelasiano della Biblioteca Apostolica Vati-cana, miniato senza dubbio nel monastero di Chellespoco prima del 750, rappresenta uno degli esempi piùsignificativi di questa produzione. La decorazione,limitata ai frontespizi e alle iniziali delle grandi suddi-visioni del testo, si distingue soprattutto per l’abbon-danza dei motivi zoomorfici che, oltre ad accompa-gnare il soggetto principale, si combinano tra loro performare delle lettere. Il ricordo dell’oreficeria cloi-sonnée, che in questo ambiente aveva una lunga tradi-zione, sembra essere ben vivo in questo manoscritto,come dimostrano, ad esempio, certe serie di fibule deisecoli precedenti, probabilmente ancora in uso; anchela gamma cromatica limitata ai verdi e al rosso ocraapplicati in modo uniforme, si richiama a questi ogget-ti metallici che erano dotati di piccole cavità riempitedi pasta di vetro. Ma in queste miniature si possonoscorgere anche riferimenti ad altre eredità o influenze.Come dimostrano molti sarcofagi ravennati, il temadella croce raffigurata sotto un’arcata era già diffuso nel

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V e nel VI secolo. Le due forme della croce – in alcunicasi dotata di protuberanze fitomorfiche, e in altri dimedaglioni in corrispondenza delle estremità dei brac-ci triangolari – rinviano invece direttamente ad alcunimodelli dell’Oriente mediterraneo; e probabilmente èproprio in quest’area che bisogna cercare i modelli diquadrupedi o volatili che si fronteggiano o si danno lespalle in queste miniature (l’introduzione in Gallia deiprimi tessuti di seta decorati con figure simili risale pre-cisamente all’VIII secolo). L’esame di questi mano-scritti rimanda quindi a un vastissimo orizzonte cultu-rale, smentendo così l’idea, troppo a lungo diffusa,secondo cui nell’altomedioevo l’Occidente si sarebbeprofondamente ripiegato su se stesso. Per quantoriguarda l’epiteto “barbarico”, che in un’accezione peg-giorativa viene spesso associato a queste opere, bisognaosservare che questo genere di ornato non è solo espres-sione di un’innocente fantasia. L’eliminazione dellafigura umana a vantaggio dei segni rispondeva all’esi-genza di utilizzare i simboli in tutta la loro forza espres-siva, secondo una scelta auspicata da insigni autori dellatradizione patristica. Anche la selezione della maggiorparte dei motivi animalistici non ha un carattere casua-le: il cervo e la colomba venivano da lunga data assi-milati al fedele che aspira alla vita eterna; l’aquila rap-presentava il volo dello spirito divino; il pesce, la cuifortuna derivava dal fatto che in greco le lettere del suonome componevano l’anagramma di quello di Cristo,Figlio di Dio, il Salvatore... Una serie di reminiscenzepaleocristiane che avrebbero preparato il grande ritor-no alle fonti del periodo carolingio.

Benché queste ultime considerazioni tendano a riva-lutare l’arte merovingia integrandola nel suo insiemenella linea di una tradizione tutto sommato “erudita”,bisogna ammettere che il consolidamento del potere avantaggio di una nuova dinastia, e gli stretti legami sta-

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biliti da Pipino il Breve e poi da Carlo Magno e daisuoi successori con il papato, finirono col creare nellaseconda parte dell’VIII e nel IX secolo le condizionipropizie a uno sviluppo ben più significativo. In pit-tura, il primato riacquistato dalla figura umana e, inuna larga misura, da diverse forme di naturalismoall’antica, appare come la tendenza dominante di que-sto sviluppo. A questo proposito, è estremamenteimportante osservare che il riavvicinamento del mondofranco a Roma ebbe luogo in un momento decisivo:nella loro reazione ostile contro le correnti iconoclasteallora prevalenti a Bisanzio – correnti che seguitaronoa essere minacciose anche durante il periodo di calmadel 787-815 –, gli ambienti vicini al papa tentaronoattivamente di riaffermare “attraverso le immagini” leposizioni ortodosse; molti insiemi riattualizzarono allo-ra i grandi temi tipici della fine dell’antichità; e nume-rosi pittori fuggiti dall’Oriente, che si erano formatiall’interno delle tradizioni figurative di quello stessopassato, diedero un grande contributo a questo rinno-vamento. Furono questi modelli, e senza dubbio in certeoccasioni alcuni di questi artisti, che consentirono lastraordinaria fioritura dei manoscritti da cerimonia caro-lingi. Nel quadro di questo volume, possiamo menzio-nare solo a titolo informativo le opere probabilmenterealizzate presso la nuova corte di Aix-la-Chapelle, mabisogna ricordare che molti centri del territorio che oggiappartiene alla Francia si distinsero per le loro creazio-ni di qualità.

Copiata e miniata su iniziativa dell’arcivescovo diReims, Ebbone, e destinata al vicino monastero diHautvillers, una raccolta dei quattro Vangeli esprime inmodo particolarmente sorprendente questa rinascita.Come nel periodo paleocristiano, il ritratto dell’evan-gelista è ricalcato sulla raffigurazione dell’autore che, neipiù sontuosi manoscritti dell’antichità pagana, era soli-

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ta fare la sua comparsa all’inizio dei testi. Privilegiandoun tratto nervoso che si coniuga a effetti di chiaroscu-ro piuttosto incisivi, l’artista conferisce al suo perso-naggio (e alla vegetazione da cui è circondato) un poten-te dinamismo, ricollegandosi così a una caratteristica dicui gli affreschi, dall’esecuzione molto leggera, dell’e-poca ellenistica e di quella romana non erano sprovvi-sti. Tuttavia, è solo grazie al suo genio che il pittore diEbbone, esasperando in modo straordinario questa ten-denza, riesce a trovare un accordo ideale con il suo sog-getto: accentuando lo sguardo levato del personaggio ela sua posa contorta, questa agitazione febbrile esprimeinfatti con grande efficacia la trascendenza dell’ispira-zione divina.

Sembra che l’influenza esercitata da questa tenden-za sia stata risentita abbastanza presto: se ne ritrova ineffetti poco dopo un’eco (attenuata, certo) a Tours,nella grande Bibbia donata dall’abate Vivien a Carlo ilCalvo. Ci troviamo in questo caso in presenza di un pro-gramma estremamente ambizioso, in cui si alternanofrontespizi dall’illustrazione sintetica, a volte comples-sa, e sequenze narrative. Tra i primi, si distingue per lastrutturazione molto elaborata la figura del Cristo, inse-rita in un rombo che rappresenta la Forma quadrataMundi, e circondata dai simboli del Tetramorfo, daglievangelisti e dai quattro grandi profeti: oltre ad asso-ciare il Vecchio e il Nuovo Testamento, da cui è ineffetti composto il volume, quest’immagine intende intal modo esprimere il dominio del Signore sul cosmo;anche i tre colori dominanti – oro, porpora imperiale eazzurro – fanno parte di questo simbolismo, così comeil perfetto equilibrio della composizione. La disposizio-ne delle figure che gravitano nell’orbita della personadivina così magnificata è un indice del tentativo diritrovare lo spirito – e il carattere monumentale – dellegrandi absidi paleocristiane, adattandolo al formato e al

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contenuto del libro. Nelle sequenze narrative, invece,come, ad esempio, in quella dedicata alle peregrinazio-ni di san Gerolamo durante la sua opera di traduzionedel testo biblico dall’ebraico in latino, vengono impie-gate le procedure del racconto a svolgimento lineare,così come si ritrovano non solo nelle decorazioni deimuri laterali delle navate ma anche in alcuni mano-scritti antichi, anche in questo caso presi a modello; e,come nell’antichità, le scene si inscrivono in un ambien-te definito esclusivamente da alcune componenti archi-tettoniche (dalla prospettiva quasi sempre capovolta,secondo l’uso antico); i gesti dei personaggi infondonodel resto una certa animazione all’insieme. Osserviamoinoltre che, come nei frontespizi, la selezione dei temiè sempre significativa: in questo caso, l’illustrazioneallude palesemente al ruolo di nuovo codificatore delmessaggio divino a cui aspirava il monarca in carica.

Sempre verso la metà del IX secolo, l’arcivescovo diMetz, Drogon, decise di far eseguire per la sua catte-drale uno sfarzoso Sacramentario interamente compila-to in lettere d’oro. Questo manoscritto si distingue inparticolare per una quarantina di iniziali che aprono lepericopi (brani biblici letti durante gli uffizi) illustran-done il contenuto: si tratta di una delle prime appari-zioni dell’iniziale istoriata, che ritroviamo in particola-re anche in un altro manoscritto carolingio eseguito aCorbie (Amiens, Bibliothèque Municipale, ms. 18) eche nei secoli seguenti conoscerà un considerevole svi-luppo. Le volute e le aste delle lettere si arricchisconoqui di racemi che nella morbida eleganza degli steli,delle foglie e delle foglioline testimoniano ancora unavolta un’esemplare assimilazione degli schemi antichi.Le scene rappresentate in queste cornici denotano inve-ce, per la maestria con cui i gruppi di figure sono distri-buiti in uno spazio ristretto, le eminenti qualità diminiaturista dell’autore. Certo, l’illogico ondeggiare dei

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panneggi degli abiti di personaggi piuttosto statici tra-disce una dipendenza eccessiva da modelli a loro voltacondizionati da certi stereotipi; ma la leggerezza deltocco, accompagnata alla dolce armonia dei blu e deiverdi pallidi, bruno ocra e rosa, conferisce a questi pic-coli quadri una squisita delicatezza.

Verso l’870, le composizioni più significative furonocommissionate dallo stesso monarca. Alcune di questeopere svolsero un ruolo non trascurabile negli eventipolitici del tempo, come, ad esempio, la Bibbia detta diSan Paolo fuori le mura, molto probabilmente donata daCarlo il Calvo a papa Giovanni VIII in occasione dellasua incoronazione a imperatore avvenuta a Romanell’875. A fronte di un prologo in lode del sovrano, ilritratto in maestà di Carlo testimonia ancora più elo-quentemente il desiderio di esaltare il re e il caratteresacro della sua missione. Attorniato dalla regina e daidignitari di corte, ma anche dalle quattro virtù cardina-li e da due angeli, Carlo appare in effetti in una corni-ce in cui si giustappongono il regno terrestre e la sferaceleste, e la sua appartenenza a entrambi si traduceimmediatamente nelle dimensioni colossali della suafigura, che abbraccia tutti e due i registri; l’architettu-ra in cui si inserisce – abbastanza goffamente, del resto– l’effigie reale svolge in questo senso un ruolo deter-minante per l’impiego del duplice simbolismo del bal-dacchino e del frontone. Ma in contrappunto a questaidealizzazione così imponente del potere, l’illustrazionecolpisce anche per l’accurato trattamento della fisiono-mia del sovrano: benché non si possa parlare di un veroe proprio intento verista nella descrizione dei tratti delmodello, l’incontestabile caratterizzazione e la tensionedi questo volto severo esprimono un’autentica profon-dità psicologica. Malgrado la probabile mancanza diattenzione per la rassomiglianza, questa pagina magi-strale rappresenta uno dei primi tentativi di ritornare

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alla grande arte del ritratto ellenistico e romano. Nelleillustrazioni di carattere narrativo di questa stessa opera,le storie bibliche vengono messe in scena con una viva-cità molto maggiore rispetto a quelle del manoscritto diTours che esaminavamo prima. Il frontespizio del Deu-teronomio in cui sono illustrati gli ultimi episodi dellavita di Mosè presenta una composizione piuttostosovraccarica, in cui appare una gran folla di personaggie in cui le architetture e il paesaggio sono caratterizza-ti da una maggiore complessità; ma le componenti diquesti ultimi sono, malgrado tutto, ancora derivate daglischemi stereotipati in uso nell’antichità. Ci troviamotuttavia in presenza di un tentativo più riuscito di eman-cipazione dalla supremazia del primo piano: oltre allamoltiplicazione delle linee di fuga degli edifici sovrap-posti, l’ampio semicerchio descritto dall’assemblea diIsraele crea un innegabile effetto di profondità. Inoltre,la soppressione delle linee di separazione da un registroall’altro a vantaggio degli elementi atmosferici conferi-sce all’immagine un’effettiva unità; tuttavia, la pro-gressione della lettura che si svolge in base alla distin-zione di momenti successivi non è affatto abolita, poi-ché l’inclinazione sempre più accentuata dei declivi suiquali si erge la figura di Mosè conduce progressivamen-te lo sguardo dell’osservatore fino al termine del rac-conto. Infine, l’arricchimento della gamma cromatica èuna testimonianza dei grandi progressi compiuti dallaricerca pittorica del IX secolo.

È sorprendente il contrasto con un’altra importanteopera commissionata da Carlo il Calvo in quegli stessianni: una nuova Bibbia, destinata all’abbazia di Saint-Denis. L’abbandono della figurazione umana qui si rive-la assoluto, grazie alla limitazione dell’ornato alle inizialiche incorporano diverse combinazioni di intrecci, dispirali e di motivi zoomorfici o vegetali a loro voltaestremamente geometrizzati; i colori, invece, ritornano

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alla disposizione uniforme all’interno di aree nettamen-te delimitate. L’insieme di questo repertorio rinvia a unaben nota fonte altomedievale: la miniatura d’oltre Mani-ca (anglosassone e irlandese), introdotta nell’ambientefranco sin dall’800 circa da alcune personalità di altorango (ci riferiamo in particolare al consigliere imperia-le Alcuino, originario di York); nel corso dei decennisuccessivi, il nord dell’attuale Francia – in cui si trova-va il grande centro monastico di Saint-Amand, a cui cisi riferisce indirettamente nella dedica di questo libro –divenne, grazie ai giochi d’influenza determinati dallaprossimità geografica, l’area in cui si diffuse più larga-mente la tendenza abitualmente definita “franco-insu-lare”.

Mosaici e pitture murali

Dal punto di vista quantitativo la rilevanza delleopere monumentali è trascurabile rispetto alle decine dimanoscritti miniati che ci sono pervenuti: ma questasproporzione è esclusivamente riconducibile al fatto chesono andati distrutti molti più edifici che oggetti divalore artistico; e, tenendo conto della qualità delle raretestimonianze sopravvissute, è lecito supporre che que-sto campo della produzione rivestisse una grande impor-tanza. Nell’abside della piccola chiesa di Germigny-des-Prés si è in gran parte conservato integro il programmaelaborato verso l’800 da Teodulfo, cancelliere di CarloMagno, per l’oratorio che sorgeva su una sua proprietà.Al centro del programma iconografico, inusuale per l’ab-side di un santuario, troviamo l’arca dell’Alleanza con idue cherubini d’oro, vegliata da altri due angeli: vale adire la visione del sancta sanctorum nel tempio di Salo-mone così come veniva descritta nei Libri Carolingi,redatti alcuni anni prima in ambienti vicini al re fran-

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co; questa scelta va ricondotta al contesto della polemi-ca sulla liceità delle immagini che a quel tempo divide-va i greci e i latini. Gli occidentali, benché non icono-clasti, sostenevano che tutto ciò che veniva prodottodalle mani dell’uomo dovesse essere considerato infe-riore: era quindi logico che scegliessero di rappresenta-re un oggetto che, secondo la Bibbia, era stato ideato daDio e costruito secondo i Suoi dettami. Del resto, unodei principali contributi di questo mosaico è proprioquello di aver dimostrato che gli artisti carolingi privi-legiavano abitualmente – come testimoniano anche lefonti relative alla cupola della cappella di Aix – il ricor-so a questa tecnica dispendiosa nell’esecuzione dellegrandi decorazioni parietali; lo scintillio prodotto dalletessere a lamine d’oro dello sfondo e da quelle in pastadi vetro colorata con ossidi metallici utilizzate per lefigure, conferiva all’insieme uno splendore che evocavala luce divina molto più efficacemente dei toni smortidegli affreschi. Molto probabilmente fu ancora una voltal’influenza dei prestigiosi esempi della Roma pontifica-le che favorì la diffusione di questa tecnica.

Ma l’impossibilità di ricorrere a squadre di espertimosaicisti ed evidenti ragioni economiche, indusseronella maggior parte dei casi i committenti ad acconten-tarsi della tecnica dell’affresco. A prescindere dal suoaspetto per natura più spento, l’affresco consentì di rag-giungere risultati altrettanto pregevoli, come dimostra-no, ad esempio, le scene della vita di santo Stefano,databili alla metà del IX secolo, che decorano una dellecappelle della cripta della chiesa abbaziale di Saint-Ger-main d’Auxerre; tra cui va segnalata, in particolare, lascena della lapidazione, in cui, avvalendosi di una gran-de linea obliqua che si incrocia con quelle definite dallebraccia dei boia e dalle mura della città, l’artista tradu-ce in modo estremamente suggestivo lo slancio verso lamano di Dio; eseguiti con una tavolozza limitata ai bian-

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chi, ai bruni e agli ocra, ma anche con una grande viva-cità – e fermezza – di tratto, questi dipinti rivelano unsenso del movimento che ricorda lo spirito, se non laforza espressiva, di alcune delle miniature precedente-mente esaminate.

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Dall’anno mille al 1200

In misura molto maggiore che nel periodo carolingioe come diretta conseguenza della suddivisione dell’im-pero in principati territoriali largamente autonomi, i duesecoli che approssimativamente corrispondono al perio-do romanico videro la coesistenza nel territorio france-se di aree culturali piuttosto ben definite. Tuttavia traqueste aree esistevano delle relazioni, tanto che in alcu-ne progressioni si può persino scorgere un certo paralle-lismo. Ma, anche se con ciò non intendiamo riproporrela nozione di scuola – rifiutata sin dall’introduzione –,ognuna di esse subì una diversa evoluzione. Le esamine-remo quindi una alla volta, a iniziare dai centri setten-trionali (che si svilupparono molto presto, al momentodel rinnovamento artistico del volgere del millennio) perpoi scendere verso il sud-ovest e, passando per il sud-est,risalire fino al Dominio reale, luogo privilegiato di gesta-zione dei grandi orientamenti successivi.

Il nord

Dopo qualche tentativo piuttosto maldestro di illu-strare le vite di alcuni santi, l’abbondante produzioneche su iniziativa dell’abate Odbert vide la luce nel mona-stero di Saint-Bertin – e probabilmente in gran parteattribuibile allo stesso abate – segna verso l’anno mille

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una vera e propria rinascita della miniatura in quest’area.Queste opere si distinguono per molti meriti: per ilnuovo sviluppo impresso all’iniziale istoriata, per la note-vole evoluzione della glossa figurativa (ad esempio, nelSalterio di Boulogne [Bibliothèque Municipale, ms. 20],l’opera più importante di Odbert), e per l’incontestabi-le vivacità di numerose composizioni; ma nel complessoesse rimangono contrassegnate da un grafismo piuttostoschematico. L’intervento di un artista anglosassone pro-veniente dal grande centro di Winchester, autore, inparticolare, delle miniature del Salterio di Ramsey (oHarley 2904, dal nome del suo successivo proprietario)della British Library, segnò una svolta decisiva. Forse surichiesta dello stesso Odbert, questo miniatore eseguìillustrazioni a piena pagina per una raccolta dei Vangelicopiata a Saint-Bertin in cui, precedute dal ritratto diMatteo, compaiono le figure degli ascendenti di Cristoe i principali episodi dell’Incarnazione. In queste imma-gini, il pittore dimostra di voler reinterpretare – comealtri artisti insulari dell’epoca – alcuni caratteri dellagrande tradizione carolingia: in questo caso, la dinamicaesasperata e il gusto per la proliferazione di elementivegetali, tipiche rispettivamente dei centri di Reims e diMetz del IX secolo; e, benché la varietà degli ori e la rela-tiva ricchezza della tavolozza non passino inosservate, lacaratteristica dominante di queste miniature è indub-biamente rappresentata dal nervosismo del disegno.

Ritroviamo queste caratteristiche nelle illustrazioni diun’altra raccolta dei Vangeli (detta “Anhalt”, oggi con-servata presso la Pierpont Morgan Library di New York,ms. 827), copiata invece nel monastero di Saint-Vaastd’Arras. Non è sorprendente quindi che la Bibbia minia-ta nei decenni seguenti in questo scriptorium riveli unacosì profonda influenza inglese: oltre alla stessa egemo-nia della linea, che relega il colore a un ruolo accesso-rio, la principale prova dell’influenza esercitata dall’ar-

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tista inglese è rappresentata dalle esuberanti combina-zioni di foglie di acanto agli angoli delle cornici. Maanche l’eredità carolingia d’origine locale ha lasciatouna traccia in questo manoscritto: i sottili intrecci almargine dello sfondo inchiostrato di fregi rinviano amolti manoscritti della corrente “franco-insulare” ese-guiti verso l’870, alcuni dei quali ancora conservati adArras. La duplice composizione che mette in scena lamorte di David e la visione in cui al suo successore Salo-mone appare Cristo è una di quelle in cui si misurameglio la ricerca di adeguamento dell’immagine al con-tenuto spirituale: le corrispondenze nella presentazionedei due personaggi traducono efficacemente – anche sesommariamente, attraverso un procedimento estrema-mente ripetitivo – la prosecuzione del disegno divinonella successione genealogica veterotestamentaria. Que-sta significatività, in un programma di inusuale vastità,fa della Bibbia di Saint-Vaast una delle opere più impor-tanti dell’XI secolo, anche se la qualità dell’insieme,alla cui lunga elaborazione lavorarono diverse mani, sirivela piuttosto eterogenea.

Del resto ci si trova ben presto in presenza di unnuovo orientamento degli ultimi artisti che lavoraronoa questa stessa Bibbia, come pure a un Sacramentariodestinato all’abbazia di Saint-Denis. Questa evoluzioneriguarda soprattutto la tecnica: al leggero cromatismoall’acquerello (che, come abbiamo visto, lasciava sco-perte numerose aree di pergamena) succede un tratta-mento molto più denso, in cui le luci e gli incarnati sonoeseguiti in bianco e ocra; anche la tonalità generale subi-sce una decisa modificazione con l’inserimento di bruni,blu e verdi scuri. Queste caratteristiche, così come ilnotevole indurimento dei tratti, l’ingrandimento dellemani e le pose più statiche dei personaggi, contrasse-gnavano anche i manoscritti ottoniani dei secoli prece-denti: l’immediata vicinanza dell’Impero ha evidente-

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mente facilitato la diffusione di questo genere di model-li – o i viaggi degli artisti – nel nord della Francia.

Un’ulteriore prova di questa penetrazione è rappre-sentata, ad esempio, dalle illustrazioni della Vita disant’Omero eseguite per i canonici della collegiata epo-nima verso il 1070. Quest’opera appartiene infatti a ungruppo di manoscritti che gravitavano nell’orbita diLiegi, i cui tratti distintivi sono individuabili nello svi-luppo in altezza delle cornici e nell’ordito geometrico dimolti sfondi. L’evidente difficoltà di inserimento delsoggetto nel campo – risolto con frequenti sconfina-menti nel bordo – è un’altra caratteristica di questeminiature, riscontrabile anche successivamente; essa,del resto, conferisce per reazione una maggiore monu-mentalità ai personaggi, e non nuoce all’espressività deiloro gesti rappresentati con una maggiore o minore vee-menza, a seconda del temperamento del pittore.

In seguito, la metà del XII secolo vide imporsi nel-l’ambito dell’area settentrionale una tendenza sapiente-mente interpretata nella produzione di uno degli artistiche lavorarono nel monastero di Saint-Amand al secon-do ciclo narrativo dedicato alla vita del patrono locale,in cui viene confermata la preferenza per le tonalità ric-che e piene: blu, verdi e rossi profondi, ma accostati indiverse combinazioni e passaggi graduati che sottoli-neano le forme anatomiche e il gioco dei panneggi. Lefigure acquistano così una vera e propria plasticità. Inol-tre, i tratti delle fisionomie divengono più regolari, e l’e-leganza delle proporzioni e l’armonia dei movimenti deipersonaggi infondono all’insieme un tono di grandenobiltà. L’origine di questa evoluzione e, come vedre-mo in seguito, di quella di alcune aree orientali, è stataspesso individuata negli apporti “italo-bizantini”, manon bisogna dimenticare che il mondo germanico e i ter-ritori vicini, di cui abbiamo già sottolineato la costanteinfluenza, erano a loro volta profondamente influenza-

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ti da questa corrente: è quindi possibile che il loro ruolo– e, in particolare, quello della regione del bacino dellaMosa, a quel tempo in pieno sviluppo creativo – sia statoin questo caso decisivo.

La Normandia

Questa regione, che fu una delle aree privilegiatedell’espansione monumentale romanica, non sembraabbia dato vita nel corso di questo periodo a una pro-duzione pittorica di analoga importanza: qui, infatti, laminiatura si sviluppò solo a partire dal terzo quarto del-l’XI secolo nei grandi centri monastici di Fécamp e diMont Saint-Michel, seguendo tuttavia piuttosto pedis-sequamente l’esempio delle opere anglosassoni dei seco-li precedenti. Ma, a partire dal secondo quarto del XIIsecolo, si manifestarono i primi segni di insofferenzaverso i vecchi modelli, probabilmente grazie al nuovodinamismo dei territori circostanti: da un lato l’Inghil-terra, e dall’altro le province della Francia centro-occi-dentale che, a partire dal 1152, costituiranno i piùimportanti poli dello Stato plantageneto. Tuttavia, nel-l’intervallo di tempo compreso tra queste due date,verso il 1100, la bassa Normandia vide fiorire uno stileassolutamente originale, che si tradusse in un relativoabbandono delle decorazioni pittoriche a piena paginaa vantaggio dell’iniziale. Come abbiamo visto, quest’ul-tima era già stata valorizzata in alcuni manoscritti caro-lingi. Ma, in questa fase, non si tratta più dell’iniziale adecorazione geometrica di ispirazione franco-insulare;motivi fitomorfici e zoomorfici di carattere fantasticocompongono una cornice tormentata, circondando conle loro proliferazioni il soggetto: quest’ultimo si trovacosì completamente incorporato alla lettera, e non piùsemplicemente inscritto nel campo da questa delimita-

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to (come, ad esempio, nel caso del Sacramentario diDrogon di Metz, o, verso l’anno mille, del Salterio diOdbert di Saint-Bertin). La qualità grafica dell’insieme,in cui il disegno a penna – a volte eseguito con inchio-stri di diversi colori – predomina sulle sfumature dei toniall’acquerello, deriva ancora innegabilmente dalla tradi-zione anglosassone; nel corso di questa breve fase, tut-tavia, con la ridefinizione dell’iniziale istoriata questaregione diede un significativo contributo allo sviluppodella miniatura, il cui influsso non tarderà a manifestar-si anche oltre Manica, probabilmente anche grazie aimodelli di alcuni manoscritti importati da Guillaume deSaint-Calais, vescovo di Durham, poco dopo il 1100.

L’area centro-occidentale

Dal 1100 circa e per tutto il secolo seguente, l’area ter-ritoriale corrispondente al Poitou e alle sue propagginiorientali e settentrionali (vale a dire, in particolare, ilBerry e la Marche, così come i paesi della Loira a valledi Orléans) vide una superba fioritura di opere pittori-che monumentali; in quest’area si sviluppò infatti unostile che, pur presentando varianti ben distinte, rimasecostantemente caratterizzato da una comune inclinazio-ne per la rappresentazione del movimento. Non è facileidentificare le origini di questa corrente. Certo, nel perio-do carolingio Tours era stata il principale centro creati-vo di questa regione e, anche se in una versione mode-rata, aveva riproposto la vivacità tipica dei modelli diReims in miniature di elevata qualità. Ma in seguito,verso la metà del IX secolo, con la distruzione del gran-de monastero del bacino della Loira da parte dei vichin-ghi, quest’evoluzione artistica si era interrotta brusca-mente. Sulle origini della rinascita dell’XI secolo sonostate avanzate diverse ipotesi. Quella secondo cui que-

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sta rinascita sarebbe stata suscitata dall’influenza dellaGermania o dell’Italia settentrionale, non è del tuttoconvincente, anche se qua e là si possono scorgere alcu-ni lontani segnali di queste influenze. Benché la que-stione delle vere radici di questa fioritura rimanga anco-ra aperta, si è giustamente pensato di ravvisarne i piùsignificativi segni precursori in alcuni manoscritti autoc-toni: la mascella pronunciata, la fronte bassa e i capellispesso divisi in due parti da una linea sottile, i grandiocchi e le sopracciglia ben disegnate, così come i busticorti e le spalle arrotondate, le braccia e le mani estre-mamente mobili, le gambe allungate e i piedi che tocca-no il suolo solo con la punta, fanno in effetti la loro com-parsa già verso la metà dell’XI secolo, e divengono anco-ra più frequenti agli inizi del 1100, come dimostra unaVita di santa Radegonda di Poitiers (Bibliothèque Muni-cipale, ms. 250). È vero che talvolta si scorge l’interventodi artisti più inclini a formulazioni statiche, come, adesempio, nel caso di una Vita di sant’Albino d’Angers, manel complesso in questi manoscritti ritroviamo la maggiorparte dei tratti morfologici sopra elencati, oltre che iprimi insistenti segni di una ricerca dell’espressività chesi rivela sia nei gesti che nelle fisionomie.

Queste caratteristiche si ritrovano nel programmadella Salle Capitulaire della chiesa della Trinità diVendôme eseguito verso la fine del secolo. Nella Pescamiracolosa nel lago di Tiberiade – unica scena ben con-servata di un insieme in gran parte distrutto –,gli sguardi dei personaggi rivelano una sorprendenteintensità, ma i contorni sono ancora decisamente stiliz-zati e la corrispondenza tra le pieghe degli abiti e leforme anatomiche è resa in modo estremamente ap-prossimativo. Tuttavia, l’ampiezza e l’armonia dellecurve conferiscono a questo dipinto una profonda omo-geneità alla quale contribuisce anche la ricercatezza delcromatismo, basato sulla combinazione di azzurro-verde,

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di ocra e di giallo con lumeggiamenti di bianco, e un’am-mirevole gamma di delicate sfumature (gli effetti di tra-sparenza dell’acqua sono, a questo riguardo, tra i più riu-sciti). Questo ciclo, che illustra molti episodi successivialla Passione che vedono riuniti i discepoli di Cristo, èmolto interessante anche dal punto di vista iconografi-co: l’accento posto sul valore dell’Eucarestia e sull’au-torità della Chiesa apostolica, riflette infatti la reazionedei chierici che operavano in quest’ambiente (e, in par-ticolare, di Goffredo di Vendôme) contro le tesi in odored’eresia formulate da Berengario di Tours nei decenniprecedenti.

Basandosi sulle evidenti analogie formali esistenti traquesti dipinti e quelli del “nartece” e della tribuna occi-dentale dell’abbazia di Saint-Savin-sur-Gartempe, si èpensato di riconoscere in queste opere l’intervento deglistessi artisti – o, almeno, di artisti formatisi in ambien-ti molto vicini. Tuttavia, nell’esecuzione dell’insieme diSaint-Savin (che, per quello che ne è stato conservato, siestende ancora alla cripta e alla volta della navata) è pos-sibile riconoscere la mano di diversi pittori. Gli affreschidella navata, sui quali ora ci soffermeremo, sono consi-derati, grazie alle pagine che Mérimée gli ha dedicatonella prima metà del XIX secolo, uno degli insiemi piùimponenti ed emblematici di tutta l’arte romanica. Sitratta di una lunga sequenza veterotestamentaria, cheabbraccia la storia del mondo dalla Genesi all’Esodo, lacui organizzazione estremamente originale, con sovrap-posizione dei registri, prevede numerose eccezioni nelsenso della lettura da ovest a est; benché in un primomomento si sia pensato alla riproposizione di un sistemaimpiegato in alcune Bibbie paleocristiane (o persinoebraiche), è più probabile che questa disposizione, in cuisono posti in corrispondenza e valorizzati alcuni episodidalla connotazione simbolica molto precisa, sia stata det-tata dalla partizione liturgica dello spazio della chiesa:

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così la vendemmia di Noè (un’altra allusione all’Eucare-stia), Mosè che riceve le Tavole della Legge e il trionfodel patriarca Giuseppe (grande prefigurazione di Cristo)sono collocati all’estremità orientale della navata centrale(vale a dire nel settore più vicino all’altare maggiore, chesenza dubbio era circondato da una tematica neotesta-mentaria oggi perduta). Dal punto di vista stilistico que-sti dipinti rivelano invece una minore ricercatezza rispet-to a quelli di Vendôme (e anche a quelli del “nartece” edella cripta dello stesso Saint-Savin); evidentementetenendo conto dell’altezza della volta, e quindi dellamaggiore distanza dell’osservatore, gli autori qui hannoaccentuato lo schematismo che tuttavia conferisce unamaggiore monumentalità alle figure e consente una per-cezione più chiara dell’insieme. Notiamo, in particolare,che il parallelismo delle pose dei personaggi inseriti innumerosi gruppi, giova alla caratterizzazione delle scenee all’efficacia del discorso. D’altra parte, la moltiplica-zione delle figure in “contrapposto” e dei lembi inferioridegli abiti sollevati intensifica qui al massimo la dinami-ca di cui parlavamo sopra. Grazie a questi accorgimenti,la narrazione acquista un tono intensamente epico.

I dipinti dell’antico battistero di Poitiers, così comequelli della cripta della chiesa di Saint-Nicolas a Tavant,in cui certe figure sono quasi del tutto ridotte a una retedi tocchi e di linee estremamente duttili, si inscrivonoancora direttamente in questa tendenza. Anche il pro-gramma della piccola chiesa di Vicq, eseguito senzadubbio non molto dopo, nel XII secolo, può essere con-siderato una derivazione di questa tendenza: infatti,benché si sia pensato alle influenze più lontane (dallaCatalogna alla Linguadoca o alle rive della Manica),oggi, in base all’individuazione di alcune precise ana-logie con le miniature eseguite a Tours all’incirca nel1100, si ritiene che quest’insieme vada inserito in uncontesto esclusivamente regionale. Una recente ed

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estremamente attenta indagine, confortata dall’analisistratigrafica, ha stabilito che l’esecuzione di questadecorazione è interamente attribuibile a un solo e unicoartista di cui si è individuato il metodo di lavoro. Ope-rando prevalentemente “a fresco” (mentre, in moltealtre decorazioni monumentali sembra fosse privilegia-to il ricorso a una tecnica mista), il pittore ha steso l’in-tonaco secondo aree corrispondenti ai settori occupatidalle differenti scene; queste ultime venivano trattaterapidamente prima che l’intonaco – o, a seconda dellearee, un secondo strato preparatorio – si asciugasse: loschematismo quindi, ma anche la vivacità, dello stilesono in gran parte riconducibili a questo modo di ope-rare. La tavolozza si rivela invece di nuovo molto limi-tata: sono stati utilizzati solo quattro pigmenti (nero dicarbone di legna, bianco di calce, ocra nero e giallo). Daun altro punto di vista, la conservazione pressoché tota-le dell’insieme ha consentito di sviluppare un’utileriflessione sull’ordine tematico. Dal lato occidentale, ilmuro che separa la navata dal coro accoglie una serie diepisodi relativi all’Infanzia di Gesù e alla sua Passione,attorno a un Cristo in maestà affiancato dagli apostoliche sovrasta l’Agnello mistico; a oriente di questo stes-so muro, e a prescindere da un secondo Cristo in glo-ria raffigurato nell’abside, le pareti del coro illustranoaltri momenti della vita del Salvatore, presentando,tuttavia, anche alcuni personaggi o scene veterotesta-mentarie (tra cui una rara Purificazione delle labbra diIsaia). Sono state stabilite delle corrispondenze tra alcu-ne parti di questa tematica e gli scritti di Hervé, unmonaco dell’importante abbazia di Déols da cui dipen-deva Vicq: la concezione del passaggio dalla vita terre-stre all’aldilà come migrazione spirituale sembra avercosì condizionato le scelte dei temi iconografici utiliz-zati nella navata e nel coro, così come la loro distribu-zione, in cui si rinuncia alla coerenza dello svolgimen-

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to narrativo per privilegiare i raggruppamenti in rap-porto allegorico.

Il programma della chiesa di Saint-Aignan a Brinaycostituisce un altro significativo criterio di selezione e diripartizione dei soggetti. Nel quadro di questo modestoedificio, anche la dialettica figurativa appare in un primomomento più semplice: sulle pareti del coro, gli episodidella vita di Cristo si succedono in un ordine che rispet-ta rigorosamente la cronologia del racconto evangelico.Tuttavia, il gioco di sovrapposizione tra i due registri, irichiami da un muro all’altro (o a volte la semplice pros-simità sulla stessa parete) si intensificano in corrispon-denza della celebrazione di alcuni grandi momenti del-l’anno liturgico; e il desiderio latente di riaffermare leprerogative della Chiesa induce ad attribuire all’illustra-zione degli episodi relativi alla collazione dei sacramen-ti – il battesimo di Cristo, o le nozze di Cana, un’altraprefigurazione dell’Eucarestia... – una maggiore rilevan-za. Dal punto di vista stilistico, i dipinti di Brinay sidiscostano dal gruppo piuttosto omogeneo di opere defi-nito a partire da Vendôme e da Saint-Savin. Natural-mente ciò è dovuto al fatto che sono stati eseguiti in unmomento successivo (e ciò vale anche per i dipinti tar-doromanici di numerosi altri siti di queste regioni). Nelcomplesso, il loro stile è molto più grafico, e in essi lagestualità acquista un maggiore equilibrio. La gammacromatica, invece, non presenta sostanziali differenzerispetto a quelle degli insiemi precedentemente esami-nati. Un’altra importante componente del ciclo di Bri-nay, già riscontrata a Vicq o in altre opere più vicine aSaint-Savin (ad esempio, in quelle del battistero di Poi-tiers), è la presenza di fasce di delimitazione a motivi geo-metrici – greche, nastri pieghettati... – raffigurati a lorovolta in prospettiva, in modo da accentuare il gioco dellabi o tricromia. Nella seconda metà del XII secolo,seguendo una tendenza volta ad affrancare la decorazio-

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ne pittorica dalle restrizioni imposte dalla cornice archi-tettonica, l’ornamento acquistò una maggiore importan-za nella strutturazione del discorso.

Il programma della cripta della chiesa di Notre-Dame a Montmorillon del 1200 circa, in cui sono giàriscontrabili alcuni tratti essenziali del gotico, altroveormai quasi giunto alla maturità, rappresenta uno deipiù importanti risultati raggiunti dall’arte romanica inquest’area: questo nuovo spirito è evidente nella fino-ra inconsueta naturalezza della posa in cui è ritratta laVergine; mentre il bacio della mano di Cristo annun-cia il gioco delle relazioni affettive, che verrà svilup-pato in una fase ancora più tarda; nel movimento dellepieghe, il cui effetto è amplificato dalle ondulazioniche riprendono il profilo della mandorla, si scorge inve-ce l’eco dei panneggi “bagnati” che nelle arti plastichecoeve, denotano una più intensa ricerca di naturalismo.Ma, dopo tutto, i dipinti di Montmorillon sono anco-ra improntati a una forte stilizzazione, in cui si tradu-ce l’ultima resistenza a questa corrente: le pieghe deci-samente irrealistiche del tessuto sulle gambe di Mariane sono un’eloquente testimonianza; più che di impe-rizia, o di imperfetta assimilazione, si tratta della scel-ta di rafforzare il dinamismo con variazioni supple-mentari interne al sistema delle curve qui ancorasostanzialmente confermato.

Prima di lasciare l’area centro-occidentale, dobbia-mo ricordare che nel XII secolo questa regione fu tea-tro di un’evoluzione di capitale importanza: qui infat-ti conobbe una larga diffusione, forse per la primavolta in Francia, l’uso delle vetrate istoriate – già atte-stato nel periodo altomedievale, ma, a quanto sembra,solo episodicamente. Secondo alcune fonti testuali, lacattedrale di Mans era provvista di vetrate sin dall’i-nizio del 1100; ma gli elementi più antichi che ci sonopervenuti risalgono solo al 1140: si tratta, in partico-

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lare, di un’Ascensione, oggi ricomposta con compo-nenti moderne nel collaterale sud. Verso il 1160-1170,anche l’abside della cattedrale di Poitiers venne dota-ta di tre vetrate di elevatissima qualità – molto pro-babilmente donate da Enrico II Plantageneto e dallasua sposa Aliénor d’Aquitania. Nella vetrata centrale,una monumentale Crocifissione sovrasta la Resurre-zione e i martìri di Pietro e Paolo, che a sua voltadomina un’Ascensione: il centro del santuario ospitaquindi una sintesi dei misteri della Redenzione e deifondamenti della Chiesa apostolica rappresentata daisuoi due capi. Le figure allungate, e le pose “danzan-ti” della maggior parte dei protagonisti, così come ilembi degli abiti sollevati e la disposizione geometricadei panneggi, derivano incontestabilmente dalla tradi-zione regionale già menzionata nella sezione dedicataagli affreschi. Ma nella ripartizione della cornice, sipossono scorgere altre influenze: il sistema dei semi-medaglioni, ciascuno dei quali ospita una scena (qua-drilobo inferiore) rinvia indubbiamente all’Ile-de-Fran-ce, di cui parleremo più avanti, a proposito di Saint-Denis. Inoltre, la dimensione di certe figure – e, in par-ticolare del Cristo in croce, che misura quasi quattrometri – ha richiesto un trattamento diversificato: men-tre i personaggi più piccoli sono definiti soprattutto daaccentuati contorni, in questo caso la pittura a grisa-glia ha consentito di rendere in modo più naturalisti-co gli incarnati. Infine, i giochi cromatici tipici dellapittura su vetro – in cui dominano il blu e il rosso –segnano un ulteriore allontanamento dalla tavolozzaabitualmente usata in queste regioni. Queste ultimecaratteristiche preludono, molti decenni prima degliaffreschi di Montmorillon, che abbiamo già inserito inquesta prospettiva, alle grandi opzioni del gotico.

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Il Limosino

Negli anni compresi tra la fine del IX secolo e l’ini-zio del X che corrispondono forse al nadir della produ-zione pittorica in Francia, la grande abbazia di Saint-Martial a Limoges si segnala come uno dei rari centri incui con ogni probabilità videro la luce opere di notevoleimportanza: potrebbe infatti risalire ai decenni intornoal 900 una Bibbia (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms.lat. 5 II) con iniziali e tavole di canoni decorate con ric-chi motivi vegetali e animalistici disegnati con grandeprecisione, in cui gli ocra sapientemente sfumati con-trastano con la luminosità del verde e del blu turchese;quest’opera, la cui calligrafia è ancora molto simile aquella del periodo carolingio, costituirebbe quindi unimportante punto di riferimento per lo studio dello svi-luppo della miniatura romanica in quest’area. In ognicaso, alcune di queste iniziali servirono da modello aquelle di un Lezionario (Parigi, Bibliothèque Nationale,ms. lat. 5301) compilato verso l’anno mille, dalla gammacromatica più spenta e dal disegno meno nitido, ma incui compaiono figure decisamente classicizzanti di apo-stoli evidentemente riprese da modelli ben più antichi (oforse di derivazione bizantina). Risale invece al 1100circa un’altra Bibbia (Parigi, Bibliothèque Nationale,ms. lat. 8 I e II) miniata per Saint-Martial, che, graziealla maestria di uno dei due pittori che parteciparono allasua realizzazione, può essere considerata l’opera piùimportante prodotta in questo centro; accanto a compo-nenti forse provenienti per il tramite di Cluny dall’Ita-lia centrale, troviamo qui alcune lettere decorate di tra-dizione autoctona sapientemente reinterpretate.

Anche la decorazione di un Sacramentario commis-sionata in questo stesso periodo sempre a Limoges dalcapitolo della cattedrale di Saint-Etienne può essereconsiderata un’opera eccezionale. Come il pittore più

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dotato della seconda Bibbia di Saint-Martial, qui l’arti-sta, trasformando a suo modo la tipica iniziale aquita-na, si rivela profondamente influenzato dallo stile inquel periodo dominante nella Loira e nel Poitou: lodimostra l’allungamento delle figure, che conferisce unaspetto estremamente mobile alle composizioni; i model-lati, eseguiti con tocchi d’intensità graduata e lumeg-giamenti di bianco, sono anche loro analoghi a quellidegli affreschi delle regioni centro-occidentali (e, in par-ticolare, a quelli di Vendôme); lo schematismo dei con-torni e la frammentazione delle strutture anatomiche –che qui conferisce un insolito aspetto androgino al Cri-sto nudo del Battesimo – appartengono certamente allastessa sfera d’influenza. Ma l’incisività della linea e, inmisura ancora maggiore, lo splendore della tavolozzache si distingue per la profondità del verde, del blu edel rosso, indicano la presenza di altre fonti: ci riferia-mo in particolare ad alcuni incunaboli a smalto meri-dionali, in cui l’antica tecnica del cloisonné e l’impiegodi paste traslucide producono effetti di analoga intensitàcromatica.

L’estremo sud-ovest

Concludiamo l’esame delle regioni occidentali con laGuascogna. Qui l’influenza della vicina Spagna, per trequarti ancora soggetta al dominio islamico, si rivela nellaproduzione di opere estremamente singolari, tra cui, adesempio, una copia dei Commentaires de l’Apocalypsecompiuti dal monaco asturiano Beatus, decorata perl’abbazia di Saint-Sever verso la metà dell’XI secolo. Iviolenti contrasti dei colori applicati in modo uniformederivano direttamente da quelli dei numerosi esemplaridegli stessi Commentari illustrati dai cristiani “mozara-bi” della Penisola nel secolo precedente. Tuttavia, uno

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degli artisti della piccola équipe che decorò il mano-scritto di Saint-Sever riesce ad attenuare considerevol-mente gli aspetti più rudimentali di questa corrente: lamorfologia dei personaggi, benché ancora stilizzata, sirivela molto meno irrealistica; i volti, in particolare,presentano tratti quasi regolari; le pose acquistano unacerta naturalezza, e le pieghe dei panneggi sono rese convera morbidezza. È possibile ravvisare in queste carat-teristiche, come qualcuno ha suggerito, gli indizi di unaprecoce diffusione dell’estetica che ben presto prevarrànelle regioni centro-occidentali? È un’eventualità chenon può essere esclusa, anche se è difficile riuscire a pre-cisarla in modo dettagliato. Riscontriamo questo stessogenere di indizi in altre miniature eseguite in quest’am-biente, tra cui, ad esempio, quelle di un esemplare dellaGuerra giudaica di Flavio Giuseppe, eseguite verso il1100 per l’abbazia di Moissac (Parigi, BibliothèqueNationale, ms. lat. 5058; osserviamo che un tempo sipensava, al contrario, di aver individuato in quest’ope-ra le fonti dello stile degli affreschi di Vicq). In realtà èquasi impossibile definire questa questione, dal momen-to che mancano le opere intermedie che potrebberochiarire questo o quel rapporto di filiazione...

L’area sud-orientale

A Saint-Chef-en-Dauphiné, nella cappella situata aldi sopra del braccio nord del transetto dell’abbaziale, èconservato uno degli insiemi monumentali più comple-ti e forse più antichi dell’area sud-orientale dell’attualeFrancia: infatti, benché a volte si sia preferito datarloal periodo successivo al 1150, questo programma potreb-be risalire al terzo quarto del secolo precedente; sembra,in effetti, che la grafia dell’iscrizione dedicatoria del-l’altare – anch’essa dipinta – possa essere ricondotta al

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periodo più antico; in questo caso gli affreschi sarebbe-ro stati eseguiti nel corso della campagna di restaurointrapresa dall’arcivescovo di Vienne, Léger, dal 1030al 1070. Questo santuario era dedicato a Cristo, agliarcangeli e a san Giorgio, che vengono raffigurati nel-l’abside. Le altre pareti ospitano invece una teoria diprofeti, di apostoli e di santi (tra cui gli evangelisti) chesi svolge su due registri. Sulla volta, infine, è di nuovoraffigurato un Cristo in gloria, al centro di una compo-sizione suddivisa in quattro quarti: sul lato orientale èraffigurata Maria orante, circondata da alcuni angeli; anord e a sud, altri due gruppi di angeli, ciascuno deiquali accompagna un serafino che srotola un filatterio;e dal lato ovest, al di sotto di un’immagine dell’Agnel-lo, si erge la Città celeste nella quale sono introdottialcuni santi. La sovrapposizione della Maestà divina allaVergine, e la prossimità di quest’ultima all’altare, corri-spondono a uno schema iconografico dell’epoca paleo-cristiana, riproposto più volte nell’Italia altomedievale(e in particolare a Roma). Questo tema era stato siste-maticamente adottato a Bisanzio successivamente alperiodo iconoclasta e da qui si diffuse di nuovo in Occi-dente, trovando in Italia e nel mondo germanico i suoiprincipali divulgatori; nel caso di Saint-Chef, questorapporto di filiazione è ancora più plausibile, dalmomento che l’intera regione a quel tempo faceva partedell’Impero. L’ordine rigoroso e la ieraticità della scenaconfermano quest’ipotesi; il repertorio ornamentale – esoprattutto il fregio di palmette del perimetro – indicala stessa provenienza. Ma qui ci troviamo chiaramentein presenza, come dimostrano i volti e i panneggi inmiglior stato di conservazione, di una traduzione piut-tosto provinciale di questo schema.

Le pitture nella tribuna del braccio nord del transet-to della cattedrale di Le Puy costituiscono un’altra testi-monianza di permeabilità alle stesse correnti. Si tratta

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dei resti di un programma vetero e neotestamentario digrande ampiezza, che si estendeva anche alla tribunacorrispondente all’altro braccio del transetto. Ci soffer-meremo su un immenso San Michele (alto 5,55 metri),che con gli imprecisi panneggi e l’interpretazione moltoapprossimativa del loros (sciarpa ricamata e ornata digemme, qui ridotta ad alcune strisce di aurifrigia) tra-disce una scarsa comprensione di un modello bizantino.In compenso, il volto dell’arcangelo, dai tratti nonmeno stilizzati ma tracciati con decisione, riprende piùfedelmente le caratteristiche di alcune opere eseguite aCostantinopoli verso l’anno mille – o appartenenti allaloro stessa sfera d’influenza: gli occhi spalancati, sor-montati dalle curve regolari delle sopracciglia che pro-lungano un lungo profilo nasale che a sua volta domi-na una bocca dai contorni ben delineati e un mentominuto, richiamano alla mente la celebre icona delbusto di san Michele del tesoro di San Marco a Vene-zia, e alcune opere di oreficeria ottoniana imbevutedegli stessi principi estetici. Ma, dal momento che que-sta struttura fisiognomica si ritrova anche in operemolto più tarde, i tentativi di datazione di questo dipin-to hanno prodotto risultati profondamente discordan-ti. Tuttavia, anche nel quadro della cattedrale di LePuy, il raffronto con le immagini nel portico e nella salledes Morts (forse l’antica Salle Capitulaire), ugualmen-te ispirate alla pittura bizantina ma che presentanomorfologie più complesse e che risalgono certamente alperiodo successivo al 1200, sembra dimostrare che l’ar-cangelo e le scene della tribuna nord vennero eseguitinel corso della fase compresa tra la metà dell’XI seco-lo e l’inizio del XII, cosa che del resto concorderebbecon la datazione recentemente proposta per le iscrizio-ni che si inseriscono in questo insieme.

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La Borgogna

Anche la cronologia delle pitture nella cappella delpriorato di Berzé-la-Ville, una dipendenza di Cluny, hadato luogo a lunghe discussioni. Ma oggi, grazie al raf-fronto con le miniature dei manoscritti provenienti dallagrande abbazia, si è concordi nel ritenere che si tratti diun’opera eseguita nel corso del primo quarto del XIIsecolo, su incarico di un’importante figura che a queltempo guidava l’ordine, Hugues de Semur, o del suodiretto successore, Pons de Melgueil. Ci troviamo inquesto caso in presenza di un programma decorativocompleto dell’abside, nel cui tenore iconografico si riflet-tono le concezioni a quel tempo prevalenti in uno deimaggiori centri della cristianità romanica e che meritaquindi di essere descritto nei dettagli. Tutto è organiz-zato in rapporto al Cristo in maestà raffigurato nellasemicupola della volta, che in presenza di Paolo e di altridiscepoli consegna a san Pietro la Legge: questo sogget-to rinvia alla tematica di fondo d’origine paleocristianain cui Roma illustrava la sua preminenza con la tradizioneapostolica; nell’ambiente cluniacense si faceva frequen-temente riferimento a questa tematica perché sin dalmomento della sua fondazione il monastero borgognonedipendeva direttamente dalla Santa Sede. Questa asser-zione ecclesiologica si estende del resto anche a tempi piùrecenti, e probabilmente anche a un contesto di imme-diata prossimità dal momento che, in posizione simme-trica rispetto alle figure dei santi diaconi (forse Lorenzoe Vincenzo) situate di fronte a Paolo, notiamo la pre-senza di altre due figure di fronte a Pietro, probabil-mente identificabili con due abati di Cluny (raffiguraticome vescovi perché il papa aveva riconosciuto agli abaticluniacensi il privilegio di indossare le insegne vescovi-li). Non manca neppure la prospettiva dei fini ultimi, rap-presentata dalle Vergini savie della parabola del Regno

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dei cieli (Matteo, 25, 1-3) raffigurate agli angoli della gra-ticciata. L’inserimento di Cluny in questa evocazionepotentemente sintetica viene rafforzato dall’assimilazio-ne delle Vergini savie con alcune sante venerate nell’ab-bazia (un’identificazione che trova una conferma in alcu-ne iscrizioni); anche nella parte inferiore dell’emiciclo siscorgono i busti di alcuni santi venerati a Cluny. Lostesso vale, infine, per le scene del martirio di Biagio eVincenzo (e non Lorenzo, come si è a lungo creduto) chesi succedono lungo i due aggetti laterali; ma a prescinderedalla loro presenza nel santorale cluniacense, la partico-lare attenzione riservata a queste ultime figure potreb-be derivare dal tentativo di valorizzare alcune pratichesacramentali (la vita futura promessa da Biagio in cam-bio del cibo che i fedeli dovevano portare per la messa,e il patronato dell’attività dei vignaiuoli assegnato a Vin-cenzo, assumono in quest’area così vicina all’altare unaprecisa risonanza eucaristica).

Oltre alle analogie sopra ricordate con i manoscritticluniacensi, lo stile dei dipinti di Berzé è stato accosta-to a quello di alcune opere dell’Italia centrale, e, in par-ticolare, a un trittico conservato nella cattedrale di Tivo-li: ciò soprattutto per una certa affinità della disposi-zione in strette pieghe del panneggio del Cristo chetrova una conferma nel confronto dei visi dei perso-naggi. A sostegno dell’ipotesi secondo cui il maestro diBerzé si sarebbe formato a Roma, si sono inoltre rile-vate alcune analogie nel cromatismo, e, in particolare,nello sfondo blu notte, spesso associato al verde. Delresto, gli stretti legami che, come abbiamo ricordatosopra, univano l’ambiente cluniacense a quello pontifi-cale giustificherebbero perfettamente l’esistenza di con-tatti artistici paralleli. Non bisogna tuttavia trascurarel’influenza del vicino mondo germanico, e le relazionidi carattere personale, ugualmente attestate, esistentitra l’abate Hugues de Semur e il suo figlioccio, l’impe-

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ratore Enrico IV (relazioni che avrebbero potuto pro-trarsi sotto Pons de Melgueil, nel caso in cui gli affre-schi fossero stati commissionati da quest’ultimo); l’as-sociazione – piuttosto inusuale – della Consegna dellaLegge con l’intero collegio apostolico si ritrova anchein un dipinto eseguito negli stessi decenni a Degenau(nell’attuale Svizzera); e, ritornando allo stile, ricorde-remo in particolare le analogie riscontrabili negli affre-schi della chiesa di Sankt Gereon a Colonia e in quelli– considerati in generale più tardi, ma senza prove deci-sive – del convento di Nonnberg a Salisburgo, che pre-sentano sorprendenti affinità con alcuni busti di santi,di carattere decisamente grafico, raffigurati lungo ilbasamento dell’emiciclo di Berzé.

Nel primo quarto del XII secolo, la Borgogna vedeinoltre manifestarsi una tendenza completamente diver-sa. Ci riferiamo alle miniature eseguite verso il 1100 inun primo gruppo di manoscritti cistercensi. Dobbiamoricordare che l’Ordine fondato a Cîteaux nel 1098 siproponeva di rispondere con il più rigoroso ascetismo ela più severa sobrietà al fasto ostentato dal monachesi-mo benedettino d’osservanza cluniacense. In effetti,osserviamo che nella Bibbia decorata durante il periodoin cui l’abate Etienne Harding guidava l’ordine (Digio-ne, Bibliothèque Municipale, mss. 12-15) si rinunciaalla ricca policromia a vantaggio di un disegno dai trat-ti minuziosi, che presenta lumeggiature in toni leggerisolo in alcune parti dei soggetti. La qualità di quest’o-pera è estremamente elevata: il grafismo elegante e pre-ciso traduce infatti efficacemente sia la vivacità dellanarrazione (in particolare nella sequenza, magistral-mente svolta, delle diciassette scene della vita di Davidriunite in una sola pagina), sia la più imponente ierati-cità (espressa dal re che troneggia dalle mura di Geru-salemme, raffigurato a piena pagina). La tecnica e lo stiledi questo insieme rinviano alle opere insulari, di cui nel

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corso dell’XI secolo si ritrovano le tracce anche nellaFrancia del nord; naturalmente si è pensato di ricono-scere nell’autore di queste miniature un artista d’origi-ne inglese e persino di identificarlo con lo stesso Etien-ne Harding, senza tuttavia portare nessuna prova asostegno di quest’ipotesi.

Questo “primo stile” di Cîteaux si ritrova in parti-colare in un esemplare del Moralia in Job decorato inve-ce di splendide iniziali istoriate, in cui l’adattamentomorfologico delle figure al quadro definito dalle letteresi rivela in molti casi veramente sorprendente: sottoquesto aspetto si tratta di alcune delle più caratteristi-che composizioni dell’arte romanica. In queste scenet-te, nonostante l’ironia che l’autore riesce a infondervi,non bisogna scorgere solo il libero sfogo di un’immagi-nazione priva di oggetto: la tematica si rivela infattiestremamente coerente con il duplice accento posto sullalotta contro le forze del male e sul lavoro manuale impo-sto ai monaci; anche la presenza, a prima vista più ano-dina, dei cavalieri non è priva di significato: i cavalierirappresentavano infatti la classe sociale che l’ordine deicistercensi desiderava, se non accogliere nei propri ran-ghi, almeno porre al servizio esclusivo di Dio.

Nel corso degli anni e dei decenni seguenti, nelladecorazione dei manoscritti di Cîteaux vennero rein-trodotti caratteri bizantineggianti, come dimostrano, adesempio, alcune raccolte degli scritti di san Gerolamodel 1120-1130 circa, in cui quest’evoluzione è riscon-trabile già nell’iconografia, e, in particolare, nell’intro-duzione di una Vergine della tenerezza – tema a queltempo insolito in Occidente – nell’albero di Iesse all’i-nizio della glossa su Isaia. Ma anche il trattamento for-male indica lo stesso orientamento, in particolare nelledecorazioni a piena pagina dei commentari sui profetiminori e su Daniele, come testimoniano la perfetta rego-larità e la delicatezza degli incarnati dei volti e i giochi

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di pieghe “incastrate” degli abiti. Inoltre, la simmetriadelle composizioni e la compostezza delle pose contri-buiscono a creare un’atmosfera di profonda meditazio-ne, anche negli episodi – come, ad esempio, quello del-l’arrivo di Abacuc guidato dall’angelo – che, in linea dimassima, avrebbero richiesto un maggiore movimento.Anche l’ornamentazione delle cornici, che presenta lar-ghe fasce di greche o di lettere cufiche arricchite qua elà da motivi zoomorfici, attinge al repertorio mediobi-zantino, la cui conoscenza anche in questo caso si erasenza dubbio diffusa attraverso la mediazione dell’Ita-lia o dell’Impero. Ma, malgrado questi elementi di dif-ferenziazione, la gamma cromatica che associa in granparte della pagina – e negli stessi soggetti – rosso, rosa,verde e malva, lasciando vuoti alcuni spazi di pergame-na, indica un’innegabile somiglianza con le opere del“primo stile”, tanto che si può parlare di una relativaomogeneità di questa produzione cistercense nel conte-sto regionale. Ciò vale, ai fini di quanto ci riguarda, finoalla metà del XII secolo, quando una drastica riduzionedella decorazione delle iniziali che iniziano a incorpora-re solo alcune componenti vegetali e a essere trattate inchiaroscuro (secondo uno stile definito “monocromo”)riduce considerevolmente il contributo cistercense allosviluppo della pittura.

Solo alle soglie del 1200 – anche se forse esclusiva-mente a causa della scomparsa delle opere eseguite nelperiodo precedente – ritroviamo ai confini della Borgo-gna alcune espressioni della corrente classicizzante. L’e-sempio più significativo di questa corrente è costituitodalle illustrazioni di una Bibbia eseguita ancora una voltanell’ambiente cluniacense e proveniente dal priorato diSouvigny. Si è frequentemente ritenuto che queste illu-strazioni e, in particolare, le scene della vita di David cheaprono il primo Libro dei Re, in cui sono state scortealcune analogie con un Salterio greco dell’anno mille

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circa conservato a Venezia (Biblioteca Marciana, cod. gr.17) fossero riconducibili a una seconda ondata di appor-ti bizantini. In effetti, le pose e le fisionomie di Samue-le e di David nell’episodio dell’unzione corrispondono aquelle raffigurate, all’inizio della stessa sequenza, nelmanoscritto francese; ma nelle altre immagini, il pittoredi Souvigny non ha fatto ricorso agli schemi dello stes-so manoscritto e l’accentuata stilizzazione delle sue figu-re, in composizioni molto meno aeree, in cui l’evoca-zione della cornice naturale si limita a pochi elementi,indica la distanza che separa i modelli bizantini dai loroadattamenti. Evidentemente bisogna prendere in con-siderazione l’eventualità di una trasmissione mediata.

Auxerre, città situata ai confini settentrionali del-l’attuale Borgogna, conserva un affresco monumentaleromanico di grande importanza, anche se in un registrocompletamente diverso. Dopo la fioritura del periodocarolingio, questa città conobbe un nuovo sviluppo chesi concretizzò tra il 1020 e il 1050 nella costruzione dellacattedrale; di quest’edificio, che venne a sua volta sosti-tuito nel XIII secolo, rimane ancora la cripta. Que-st’ultima termina sul lato est con una cappella dispostalungo l’asse, sulla cui volta a botte è dipinto l’affrescoche ci interessa. Qui l’iconografia si rivela effettiva-mente eccezionale: su una grande croce gemmata, allecui estremità sono raffigurati quattro angeli cavalieri, sistaglia un Cristo a sua volta a cavallo. Si tratta eviden-temente di una connotazione apocalittica, anche se lafonte diretta di quest’immagine non si trova nel testo diGiovanni. Il tema dei cavalieri, così come viene illu-strato nella decorazione dell’antico battistero di Poi-tiers eseguita nel 1100 circa, ha senza dubbio svolto unruolo nell’elaborazione di questo programma, tanto piùche sembra trattarsi della rappresentazione dei primiimperatori cristiani secondo lo schema classico dell’ad-ventus (entrata trionfale), che si adattava perfettamente

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all’evocazione del glorioso ritorno del re dei Cieli allafine dei tempi. La datazione rimane incerta. Talvolta siè pensato risalisse al 1100 circa, al vescovato di Hum-baud che, secondo le cronache locali, aveva commissio-nato sia le decorazioni della chiesa alta che quelle dellacripta; ma tra i soggetti ricordati in questo testo nonviene esplicitamente menzionato un Cristo a cavallo;inoltre, si è rilevato che lo stile, dal grafismo estrema-mente delicato e piuttosto vicino a quello degli affreschidi Brinay, sembra indicare una data d’esecuzione piùtarda, collocabile verso la metà del XII secolo.

L’Ile-de-France

Con Auxerre, siamo praticamente giunti ai confinidel territorio corrispondente al Dominio reale, verso il1140 ancora di modeste dimensioni, ma destinato aconoscere nei decenni seguenti una costante espansio-ne, grazie alla decisiva azione della monarchia capetin-gia. Il riferimento a queste circostanze non è superfluo,dal momento che Luigi VI e, in seguito, Luigi VII tro-varono un valido sostegno nell’abate di Saint-Denis,Suger, promotore di un importante progetto di rinno-vamento dell’edificio affidato alle sue cure; per quel cheriguarda l’iconografia, il detto progetto, a grandi linee,si basava sull’esaltazione della dinastia regnante e delsuo ruolo nell’attuazione dei piani divini. Già tra lesculture della facciata, si scorgono le figure dei re bibli-ci considerati i precursori dei re “moderni” (i cui sepol-cri si trovano all’interno dell’abbaziale). Ma in corri-spondenza dell’altra estremità, troviamo le vetrate del-l’abside che precisano e completano l’idea di questorapporto di filiazione: nell’albero di Iesse, dispostolungo l’asse, sono indicati i rapporti che univano i redella discendenza di David a Cristo, mentre un com-

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plesso gioco di allegorie e analogie amplifica le connes-sioni tra i due Testamenti; le imprese (leggendarie) diCarlo Magno in Oriente, e poi quelle dei primi crocia-ti, completano l’insieme riferendosi implicitamente alleiniziative di Luigi VII (uno dei capi della seconda Cro-ciata, intrapresa in quegli stessi anni). Si tratta certa-mente di una delle prime occasioni – almeno per quan-to riguarda i programmi monumentali sufficientementeconservati o documentati – in cui le vetrate rivestonoun ruolo di così grande importanza. Ci richiameremoanche alle affermazioni contenute nel Libellus de conse-cratione (1144-1145) redatto dallo stesso Suger, in cuivengono evocate le cappelle disposte a raggiera deldeambulatorio “grazie alle quali tutta la chiesa risplen-de della luce meravigliosa e costante di santissime vetra-te”. Quindi, indipendentemente dall’elevato numero diqueste vetrate e dalla loro importanza iconografica, siriteneva che la loro concentrazione a chiusura dei gran-di vani del centro del santuario assicurasse a quest’ulti-mo l’irradiazione della luce divina. Si pensava, infatti,basandosi sulle concezioni formulate dai neoplatonicicristiani alla fine dell’antichità, che la luce fosse consi-derata come una manifestazione del Signore e delle sueopere; tanto più che ormai essa veniva filtrata da vetrile cui sfumature iridescenti assomigliavano a quelle dellegemme e dei metalli preziosi, a cui da lunga data veni-va riconosciuto il potere di diffondere questo tipo diirradiazione; Suger, infatti, definisce “materia di zaffi-ro” il blu di queste vetrate. La particolare luminosità diquesto blu abbastanza chiaro richiede un’altra precisa-zione: impiegato per gli sfondi esso assicurava in effet-ti la massima traslucidità alla vetrata. Questa qualità(propria anche delle vetrate di altri insiemi del XIIsecolo) rispondeva perfettamente ai criteri architettoniciche informavano l’edificio romanico, in cui la continuapresenza dei muri e le strette aperture – il deambulato-

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rio dell’abbazia di Saint-Denis era ancora un’eccezioneper l’epoca – non potevano integrare zone d’ombratroppo estese. Verso il 1200 interverrà un cambiamen-to con l’allargamento delle finestre delle grandi navate,e con l’uso di un blu decisamente più scuro per gli sfon-di che produrrà, a questo punto opportunamente, unnuovo effetto di parete.

Un programma di grande ampiezza come quello del-l’abside di Saint-Denis richiese necessariamente l’inter-vento di numerosi artisti, e in esso coesistono quindimolte tendenze diverse: alcune superfici sembranoannunciare lo stile che poco dopo fiorirà nei manoscrit-ti della Francia settentrionale; le figure di certe altrericordano le arti plastiche mosane dell’inizio del XIIsecolo; infine, la maggior parte dei restanti dipinti – incui si distingue ancora l’intervento di diverse mani –sembrano offrire una sintesi di influenze settentrionali(tra cui figura di nuovo quella mosana) combinate conapporti borgognoni; negli scritti di Suger si affermainfatti che si trattava di un’opera eseguita da “maestridi diverse nazioni”. Fu proprio la congiunzione delle piùimportanti correnti che consentì, in totale accordo conla dinamica capetingia che ben presto si rivelò preva-lente, di porre i fondamenti di una nuova arte.

La descrizione fin qui tracciata è ben lungi dall’esse-re completa. In questa cornice relativamente ristretta eraimpossibile soffermarsi sulle ramificazioni della minia-tura carolingia a Reims o a Tours, o alle non meno sot-tili varianti riscontrabili nei manoscritti provenienti daicentri settentrionali di Anchin, Marchiennes, Corbie, oSaint-Quentin dell’XI e del XII secolo. Non abbiamoneppure potuto ricordare gli ammirevoli insiemi di affre-schi della piena maturità romanica, come, ad esempio,quelli di Montoire, Méobecq, Le Liget o Lavaudieu, cosìcome alcune opere di non trascurabile qualità della basi-

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lica di Saint-Sernin di Tolosa e di molti altri complessimonumentali. Costituisce inoltre un grave motivo dirammarico la completa omissione della Champagne, aquel tempo certamente più tributaria degli ambientivicini che creatrice di una corrente specifica, ma che,alla fine del XII secolo, si distinse per alcune splendideBibbie e per le pregevoli vetrate di Châlons, della basi-lica di Saint-Remi a Reims, Orbais o Troyes. Che dire,infine, dell’oblio delle vetrate della facciata occidentaledi Chartres... Con questo semplice elenco, a sua voltamolto incompleto, non intendiamo esprimere un vanorimpianto, ma, al contrario, proporre un necessarioampliamento di prospettiva: questa ricchezza e questadiversità costituiscono infatti la prova che, nel quadrogenerale della storia della pittura occidentale, il contri-buto della Francia preromanica e romanica non è piùmodesto di quello delle più significative tra le fasi suc-cessive.

Nell’introduzione abbiamo del resto preso in esamela questione della continuità con la pittura antica esoprattutto paleocristiana; continuità che si basava sullasopravvivenza, oggi eccessivamente trascurata, di alcu-ni modelli di opere monumentali. L’esame delle princi-pali aree culturali ha consentito di constatare che que-st’eredità era stata inoltre rivivificata da numerosiapporti bizantini, veicolati soprattutto dall’Italia e dal-l’Impero; quanto a quest’ultimo ambiente, oltre alleconseguenze del matrimonio di Ottone II con la prin-cipessa di Costantinopoli Teofano nel 972, non si sot-tolineerà mai abbastanza che, grazie al profondo coin-volgimento negli affari mediterranei derivante dall’e-voluzione delle relazioni col papato, esso svolse rispet-to alla Francia un ruolo di mediazione talvolta più diret-to di quello della stessa Penisola.

Ma, indipendentemente dalle vie di trasmissione, ènecessario spiegare la tendenza a tornare, dopo ogni

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rottura, agli ideali di un certo classicismo. Già in terminipolitici si può rilevare il fascino che l’Impero romanoesercitava sui carolingi: le componenti culturali e arti-stiche non potevano dunque richiamarsi a orientamen-ti contrari. E, anche se il fenomeno del feudalesimo sirivelò in seguito disgregante, le più dinamiche monar-chie – nella Francia romanica rappresentate soprattut-to dai Plantageneti e dai Capetingi – tentarono inces-santemente di ritornare a uno status egemonico nel qualesi sarebbe realizzato, o persino amplificato, il ritorno aigrandi valori del passato. Aggiungiamo che, nell’icono-grafia cristiana, che allora dominava incontrastata, siconsigliava il riferimento alle opere bizantine (o di ispi-razione bizantina) perché queste ultime erano fedeliagli schemi originali che, dopo la frattura iconoclasta, aCostantinopoli erano stati elevati a principi fondamen-tali. Evidentemente, questo processo non si svolse inmodo omogeneo in tutte le regioni. Se nell’area sud-orientale e in Borgogna la maggiore vicinanza a coloroche tramandavano queste fonti si tradusse immediata-mente in una elevatissima ricettività, ai confini occi-dentali se ne percepirà l’eco solo alcuni decenni piùtardi: al nord, le interferenze con l’Inghilterra, cheancora assisteva agli sviluppi della fioritura sassone, e,al sud, certe infiltrazioni mozarabe, prolungarono iloro effetti per un periodo più o meno lungo. Ciò nontoglie che alla fine, come abbiamo visto, anche la minia-tura settentrionale finirà con l’integrare principi piùclassici; e alcuni affreschi meridionali di epoca tarda –in particolare la Deésis del ciclo di Saint-Sernin a Tolo-sa, sopra ricordata – testimoniano un’evoluzione paral-lela. Alle soglie del 1200, dunque, e senza sopprimerele sfumature tipiche di ambienti di propria tradizioneormai consolidata, si impose un po’ ovunque un’esteti-ca di nuovo improntata al naturalismo.

Si giunge così alle soglie del periodo gotico (che l’ar-

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chitettura della Francia settentrionale aveva attraversa-to già da molti decenni). In questa stessa prospettiva,ritorniamo infine all’altra importante transizione com-piuta dall’ultimo secolo romanico: la diffusione dellevetrate. Grazie alle proprietà di trasfigurare la luce chegli veniva riconosciuta, questo supporto appariva comeil sostituto ideale del mosaico a tessere d’oro e paste divetro colorate che, nei grandi programmi monumentalipaleocristiani – e carolingi – si era rivelato il mezzo piùadatto a esprimere la presenza divina nel santuario. Sei cristiani d’Oriente, e in larga misura gli italiani, rima-sero fedeli alle vecchie scelte, i mutamenti architettoni-ci che si imposero nel resto dell’Occidente con l’opusfrancigenum sconvolsero questi dati; il carattere crucia-le delle esperienze di quest’ultima fase si rivela nella tra-sformazione del muro in vetrata: fu il desiderio di sal-vaguardare alcuni concetti improntati alla più elevataspiritualità che favorì la diffusione del mezzo più adat-to al loro nuovo sviluppo.

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