La Pelota GOAL - Febbraio 2011

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TIPOGRAFIA DI LELIO TIPOGRAFIA DI LELIO dal 1957 dal 1957 Sempre vicini Sempre vicini ai giovani ai giovani atleti Apriliani atleti Apriliani Agenzia di Aprilia N. 19 - Febbraio 2011 - Distribuzione gratuita, a cura della A.S.D. La Pelota www.aslapelota.it 2010 2009 2008 2007 2006 2005 affiliata con e con PRIMAVERA CALCIO APRILIA F.C. APRILIA APRILIA • Via Nettunense, 207 Tel. 06.92.85.47.57 - [email protected] Sponsor ufficiale della A.S.D. LA PELOTA Mastrangelo e Pavino Volkswagen La FEDERCALCIO ha sooscrio la “carta del Grassroots” redaa dalla UEFA. Non si parla di calcio d’elite,ma di integrazione e altri temi cha abbrac- ciano valori morali. Inoltre,alle nazioni aderen, è stata chiesta l’introdu- zione tra i quadri tecnici, della figura dell’Allenatore dei Giovani Calciatori. Il Grassroots,che leeralmente signifi- ca “le radici dell’erba”, è per l’UEFA la filosofia d’approccio tecnico al Calcio di Base e, insieme, l’indicazione com- plessiva di come temi sociali, tra i quali l’inclusione, l’integrazione, la salute e la sicurezza, possano trovare nel cal- cio giovanile un volano pedagogico- educavo. Sui campi di Coverciano, il 13 e il 14 giugno scorsi, si è tenuto il primo “Grassroots Fesval”, organizzato dal Seore Giovanile e Scolasco della Federazione Italiana Giuoco Calcio,due giorni ricchi di iniziave per celebrare l’adesione della Federcalcio alla “Carta del Grassroots”, sooscrit- ta il 24 marzo a Copenagen araverso la firma di Giancarlo Abete del proto- collo UEFA. Il direore tecnico della UEFA, lo scozzese Andy Roxburgh ha aperto il convegno illustrando ai circa 200 tecnici dell’Avità di Base prove- nien da tua Italia,le modalità con cui vengono perseguite le finalità del Grassroots in Europa: «Tuo quello che non riguarda il calcio d’elite - ha deo Roxburgh - può contribuire allo sviluppo di un calcio di base sano ed equilibrato, che sappia recuperare i valori originari del gioco e proporre eca e fair-play». Le immagini che scorrevano sullo schermo della sala convegni di Cover- ciano, mostravano come all’interno del grande mondo del calcio dilean- sco europeo, le iniziave rivolte ai Bambini della Scuola Calcio, coinvol- gessero figure di vecchi campioni che con il loro esempio tecnico e di vita, erano presen per aiutare la cresci- ta dei giovani calciatori. Iniziave che vedevano giocare sul campo insieme bimbi di diversa etnia e la naturale in- clusione di bimbi diversamente abili, tu insieme in grandi kermesse nel- le quali,ogni volta, il gioco diviene il collante per stabilire relazioni con la diversità: «solo pochi raggiungono la notorietà e la ricchezza della Serie A - prosegue Roxburgh - e noi dobbia- mo pensare a tu gli altri. Il calcio è uno strumento potente,che non vei- cola solo contenu tecnici». Però, è proprio per il rispeo che si deve alla specificità del calcio giova- nile, che la UEFA, richiede alle nazio- ni aderen l’introduzione tra i quadri tecnici, della figura dell’allenatore dei Giovani Calciatori, impegno che la F.I.G.C. ha intenzione di adem- piere quanto prima. Anche perché, quest’ulmo diviene requisito neces- sario per l’acquisizione della prima stella per poi via via,oenere le altre sei che stabiliscono il livello di eccel- lenza per la nazione che le oene. Gli altri requisi riguardano la realiz- zazione di programmi di formazione per calciatori e dirigen, il numero degli even promozionali organizza- sul suolo nazionale, avità sociali per disabili e da quantavi, quali il numero di giovani calciatori e calcia- trici partecipan alle avità messo in percentuale rispeo alla popolazione complessiva. La prima edizione del Grassroots Fesval si è poi conclusa il giorno dopo con le parte di 1.500 Bambini appartenen alle Scuole Calcio che,nel corso dell’anno,si sono disnte per il fair-play e la realizzazio- ne di giochi di abilità tecnica. Gioia e schiamazzi, per un giorno, sui campi di allenamento della Nazionale. CALCIO E VALORI ETICI iscrizioni sempre aperte info: 329.20.42.165 40 Istruttori a Tua disposizione 40 Istruttori a Tua disposizione La Pelota La Pelota Scuola Calcio

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La pelota GOAL N. 19 Febbraio 2011

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La FEDERCALCIO ha sottoscritto la “carta del Grassroots” redatta dalla UEFA. Non si parla di calcio d’elite,ma di integrazione e altri temi cha abbrac-ciano valori morali. Inoltre,alle nazioni aderenti, è stata chiesta l’introdu-zione tra i quadri tecnici, della figura dell’Allenatore dei Giovani Calciatori.Il Grassroots,che letteralmente signifi-ca “le radici dell’erba”, è per l’UEFA la filosofia d’approccio tecnico al Calcio di Base e, insieme, l’indicazione com-plessiva di come temi sociali, tra i quali l’inclusione, l’integrazione, la salute e la sicurezza, possano trovare nel cal-cio giovanile un volano pedagogico-educativo.Sui campi di Coverciano, il 13 e il 14 giugno scorsi, si è tenuto il primo “Grassroots Festival”, organizzato dal Settore Giovanile e Scolastico della Federazione Italiana Giuoco Calcio,due giorni ricchi di iniziative per celebrare l’adesione della Federcalcio alla “Carta del Grassroots”, sottoscrit-ta il 24 marzo a Copenagen attraverso la firma di Giancarlo Abete del proto-collo UEFA.Il direttore tecnico della UEFA, lo scozzese Andy Roxburgh ha aperto il convegno illustrando ai circa 200 tecnici dell’Attività di Base prove-nienti da tutta Italia,le modalità con cui vengono perseguite le finalità del Grassroots in Europa: «Tutto quello che non riguarda il calcio d’elite - ha detto Roxburgh - può contribuire allo sviluppo di un calcio di base sano ed equilibrato, che sappia recuperare i valori originari del gioco e proporre etica e fair-play».Le immagini che scorrevano sullo schermo della sala convegni di Cover-ciano, mostravano come all’interno del grande mondo del calcio dilettan-tistico europeo, le iniziative rivolte ai Bambini della Scuola Calcio, coinvol-

gessero figure di vecchi campioni che con il loro esempio tecnico e di vita, erano presenti per aiutare la cresci-ta dei giovani calciatori. Iniziative che vedevano giocare sul campo insieme bimbi di diversa etnia e la naturale in-clusione di bimbi diversamente abili, tutti insieme in grandi kermesse nel-le quali,ogni volta, il gioco diviene il collante per stabilire relazioni con la diversità: «solo pochi raggiungono la notorietà e la ricchezza della Serie A - prosegue Roxburgh - e noi dobbia-mo pensare a tutti gli altri. Il calcio è uno strumento potente,che non vei-cola solo contenuti tecnici».Però, è proprio per il rispetto che si deve alla specificità del calcio giova-nile, che la UEFA, richiede alle nazio-ni aderenti l’introduzione tra i quadri tecnici, della figura dell’allenatore dei Giovani Calciatori, impegno che la F.I.G.C. ha intenzione di adem-piere quanto prima. Anche perché, quest’ultimo diviene requisito neces-sario per l’acquisizione della prima stella per poi via via,ottenere le altre sei che stabiliscono il livello di eccel-lenza per la nazione che le ottiene.Gli altri requisiti riguardano la realiz-zazione di programmi di formazione per calciatori e dirigenti, il numero degli eventi promozionali organizza-ti sul suolo nazionale, attività sociali per disabili e dati quantitativi, quali il numero di giovani calciatori e calcia-trici partecipanti alle attività messo in percentuale rispetto alla popolazione complessiva. La prima edizione del Grassroots Festival si è poi conclusa il giorno dopo con le partite di 1.500 Bambini appartenenti alle Scuole Calcio che,nel corso dell’anno,si sono distinte per il fair-play e la realizzazio-ne di giochi di abilità tecnica. Gioia e schiamazzi, per un giorno, sui campi di allenamento della Nazionale.

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Insegnare al proprio figlio a tollerarela frustrazioneOgni genitore per il proprio figlio vorrebbe il me-glio e se fosse possibile gli eviterebbe di imbattersi in qualsiasi esperienza negativa. Semplicemente per-ché lo ama molto. Ma proprio per questo, bisogna avere la forza di fargli sperimentare, oltre alle cose belle, le delusioni e le esperienze problematiche. A tale proposito, il calcio oltre a permettere al bambino di fare esperienza di una serie di eventi positivi, da l’oppor-tunità di cimentarsi nella sconfitta, attraverso la partita persa, i rimproveri del compagno, il gol subito o la man-cata convocazione. Anche se per ogni genitore è doloroso vedere il proprio figlio deprimersi o soffrire per ciò che sta vivendo, è importante insegnargli che bisogna tollerare i momenti difficili, perché con questa esperienza si propone al bambino l’opportunità di trovare la strategia persona-le per reagire alle situazioni stressanti della quotidianità. Se non si insegna ai propri figli che le cose non vanno sempre come si desidera, da adulti non saranno in gra-do di farlo da soli. Quindi bisogna sostenerli a sopportare una delusione che viene dall’esterno, guardando con otti-mismo alle opportunità future di riscattarsi, suggerendo-gli in questo modo una strategia per non sentirsi sopraf-fatti dagli eventi. Il calcio dà l’opportunità ad un bambino di fare questo tipo di esperienza, bisogna sostenerlo e spiegargli con amore che più si imparano a sopportare le sconfitte più ci si rafforza, ma prima è necessario che sia convinto di questo il genitore che suggerisce il messaggio.

Distinguere se stesso dal proprio figlioSpesso il proprio figlio è vissuto come un prolungamen-to di se stessi. Questo atteggiamento, spontaneo e non controllabile, è la conseguenza della tendenza dell’essere umano a vedere una parte di sé nel bambino che mette al mondo. Se succede di vedere piangere il proprio figlio in mezzo al campo perché ha sbagliato il rigore o ha su-bito un fallo, ci si sente inquieti e si può reagire in modo brusco, magari con il genitore di quel bambino autore del fallo. Tutto ciò accade perché quell’esperienza è stata vis-suta come un attacco alla parte di se stessi a cui si tiene di più, ovvero quella proiettata sul figlio. In questo senso, il genitore vive le esperienze del proprio figlio come se fos-se lui a farle, recependo le sue sconfitte come se fosse lui il perdente, sovreccitandosi anche in modo troppo acce-so se il figlio vince. Questo atteggiamento non passa inos-servato al bambino, che è sensibile agli stati d’animo del genitore ed al modo in cui egli si comporta o parla con lui. Se dopo aver perso la gara, vede il genitore affranto con il suo silenzio o ipercritico, oppure a seguito di una vittoria lo sente esprimere un eccesso di elogi, l’idea che si fa è che sia accettato da lui soltanto se vincente. Ciò può por-tarlo, nel momento in cui si appresta a disputare la gara, a concentrarsi soltanto sul tentativo di non perdere, per evitare di sopportare la delusione di vedere insoddisfat-to il proprio genitore. Sarebbe invece costruttivo che si concentrasse sulla collaborazione con gli altri compagni, su ciò che gli suggerisce dalla panchina il mister e dispu-tare la propria gara, non quella che si aspetta il genitore. Lasciare al proprio figlio lo spazio di farsi un’idea personale degli altri e delle situazioniIl bambino di solito, valuta le sue esperienze in base a

come i genitori le vivono, in quanto non ha ancora senso critico. Se si dice al proprio figlio: “Questa maglietta ha un colore che non ti sta bene” lui molto spesso non riesce a capire che si tratta di un giudizio personale, ma pensa che in assoluto quel colore non gli stia bene. Nel contesto dell’esperienza calcistica questo significa che dargli giudizi personali su altri calciatori, o sull’allenatore, o su un’al-tra squadra, potrebbe confondergli le idee, inquinando il rapporto che il bambino tenta di stabilire con gli altri. A volte dopo una partita, il genitore, insoddisfatto del risultato o della prestazione del figlio, si mette a criti-care le decisioni del mister, non rendendosi conto, per mancanza di conoscenza di questi meccanismi, che così facendo svalorizza una figura di riferimento per il figlio, discernendola di credibilità. Inoltre, ciò può indurre il bambino, che tende ad imitare il genitore, all’abitudine di criticare tutti, proiettando spesso sugli altri il motivo di una sconfitta, o di un’ammonizione, senza ricono-scere le proprie manchevolezze. In questo senso può capitare che invece di rendersi conto di non aver gioca-to molto bene, si dà la colpa all’arbitro, o all’allenatore, soprattutto se si assiste alle affermazioni di un genitore che non riconosce i limiti del figlio. Così facendo, si esclu-de al bambino l’opportunità di riflettere e capire dove si è sbagliato, traendo da ciò degli spunti di crescita. Delegare la preparazione del figlio, esclusivamente all’allenatore.Partecipare all’attività del figlio come se si assistesse al calcio degli adulti, entusiasma e coinvolge i genitori, ma senza dubbio relega in secondo piano l’attenzione per il bambino e molto spesso incide sulla figura dell’allenato-re, esponendolo a critiche e giudizi poco obbiettivi, che ri-schiano di demotivarlo ed interferire sul lavoro che com-pie con impegno e professionalità. Di fronte a questo pro-blema, non si può avere la pretesa di modificare una con-cezione del calcio che ha radici culturali profonde e larga-mente condivise. Bisogna tuttavia riconoscere, che spesso il genitore agisce in modo inadeguato involontariamente, perché non si rende conto che l’allenatore rappresenta per il proprio figlio una figura di riferimento importante, che il bambino tende ad idealizzare e che le critiche rivol-te al tecnico possono disorientarlo. L’allenatore che lavora in una scuola calcio dovrebbe essere riconosciuto un ruo-lo ben diverso da quello del tecnico delle squadre che si seguono in televisione, in quanto egli è un educatore che nell’istruire allo sport, insegna al bambino ad esprimere le sue potenzialità al meglio, intendendo con queste non solo le capacità tecniche, ma la capacità di socializzazio-ne in un gruppo, di gestire l’ansia attivata dal mettersi in gioco, la capacità di diventare autonomi negli spogliatoi, di rispettare l’autorevolezza dell’allenatore, quindi una serie di aspetti dal valore educativo utili per la crescita. Non ci si può, quindi, limitare a valutare il suo operato esclusivamente dal numero delle vittorie e dalle sconfitte raccolte, ma bisogna predisporsi a valutare in un modo più ampio il suo lavoro ed i suoi risultati, cercando di interferire il meno possibile. In questo senso, il genitore dovrebbe essere in grado di lasciare l’allenatore libero di fare le sue scelte, anche perché se è vero che nessuno meglio del genitore conosce il proprio figlio e pur vero che nessuno meglio dell’allenatore conosce la sua squadra. Se poi i risultati non sono soddisfacenti per il genitore,

bisogna considerare che potrebbero esserlo per l’al-lenatore, che per esempio con una formazione alter-nativa mandata in campo intende, magari, sperimen-tare nuove potenzialità del gruppo al di là del risultato. Molto spesso, il genitore concentrato esclusivamente sul risultato, non coglie taluni aspetti e muove più o meno direttamente delle critiche, che rischiano di confondere il tecnico e ripercuotersi sull’andamento della squadra, inficiando proprio su quello a cui i ge-nitori aspirano, ovvero veder vincere il proprio figlio. Cercare di comprendere cosa ci si aspetta dal proprio figlioIl comportamento del genitore a volte, senza volerlo, può indurre il figlio a pensare di non essere adeguatamente accettato se non riesce a rendere per quello che il geni-tore si aspetta da lui. Ciò può interferire sulla concentra-zione dell’atleta e soprattutto rappresenta uno dei fattori che attivano l’ansia preagonistica, che è la principale cau-sa del calo di prestazione in campo da parte del calciatore. Il genitore dovrebbe cercare di rendersi conto di quali sia-no le sue aspettative nei confronti del proprio figlio e qua-li siano le reali capacità del figlio di attuarle. Ogni bam-bino ha le sue preziose potenzialità e se tra queste non ci rientra la capacità di giocare bene a pallone, bisogna essere in grado di riconoscere che il proprio figlio potreb-be sentirsi molto più realizzato e sicuro di sé nell’ambito di un altro sport. A meno che non gli si faccia capire che il calcio è un gioco e che prima di tutto ci si deve divertire, in questa ottica non è necessario essere un campione per disputare una gara. Il genitore dovrebbe sapersi concedere uno spazio di riflessione, in cui chiedersi cosa si aspetta dal proprio figlio, in questo modo potrà rendersi conto che al di là delle aspettative compensatorie per cui si deside-ra vedere attuare in lui quello che non si è riusciti a diventare, l’aspettativa profonda a cui ogni genitore tiene di più è senza dubbio quella di desiderare che il proprio figlio diventi un adulto sereno. Per far si che ciò avvenga bisogna prima di tutto lasciarlo libero di essere quello che è e proporsi a lui come un valido rife-rimento da cui trarre conforto ma anche incitamento, controllando meglio che si può l’insidioso tentativo che a volte sfugge, di plasmarlo secondo i propri desideri. In conclusione quel genitore che in tribuna si emoziona perché il figlio sta calciando il pallone, assieme al desi-derio di vederlo vincere dovrebbe tentare di vedere la situazione con un’altra ottica, per cui incitarlo affinché non demorda nell’affrontare meglio che può l’avversario, impe-gnandosi con tenacia nel perseguire le direttive del mister, non abbattendosi se qualcuno più forte di lui lo con-trasta. In tal modo, il genitore diviene spettatore di un evento più soddisfacente della vittoria stessa: vedere il proprio figlio impegnato ad esprimersi al meglio indi-pendentemente dal risultato, dal momento che entra in campo fino al fischio finale di quella partita che è solo sua. In questo modo il giovane calciatore può gratificar-si del fatto di aver recepito non solo dall’allenatore, ma anche dal papà, o dalla mamma, l’insegnamento per cui gli avversari in campo, come le avversità nella vita, si affrontano dando il meglio di se stessi, indipendente-mente da quanto si è bravi o meno a giocare a pallone.

È difficile per un genitore osservare il proprio figlio mentre corre in un campo da gioco e non avere il batticuore, quando tocca la palla e per un momento diviene il protagonista. In un attimo scorrono davanti ai suoi occhi una serie di frammenti di vita, tra cui l’emozione di trovarsi lui stesso, ancora bambino, a go-vernare una situazione di gioco condivisa da un gruppo, non necessariamente legata al calcio, con degli avversari da superare ed i compagni attorno che si affi-dano a te. Ed ora è il proprio figlio che si imbatte in una situazione analoga, tale da rappresentare la vita stessa, fatta di mete condivise e di ostacoli da superare. Lui in mezzo al campo a giocarsi la sua partita. Non esistono altri genitori, non esiste l’allenatore, né il resto della squadra, ma si vede solo lui, quel figlio e tutto il resto che gli gira attorno, come se si trattasse di una condizione inscenata per fargli da sfondo. Tale figlio, vissuto come il centro dell’universo, attiva una miriade di emozioni, che partono dall’amore più grande e che per tale ragione sono legittime e comu-ni a tutti i genitori, ma che inconsapevolmente possono trasformarsi in emozioni fuorvianti, quando le fantasie che si legano a queste si scontrano con una realtà ben diversa. Così il genitore che si aspetta la vittoria per esultare assieme al figlio,

può non riconoscere che la partita è stata persa perché la squadra avversaria ha compiuto una prestazione migliore e dà la colpa all’arbitro, all’allenatore, senza riconoscere che le proteste nascondono la rabbia di non aver visto il figlio vincere. Spesso, eventi come questi accadono perché il genitore oltre a dimenticare che il calcio giovanile è prima di tutto un gioco, non è a conoscenza delle dinamiche che questo sport attiva e che possono involontariamente coinvolgerlo senza rendersene conto. Egli non sa a cosa portano le emozioni provate al bordo cam-po, se non sono ben dosate e gestite. I suggerimenti che seguono sono diretti a quei genitori che, attraverso la co-noscenza di certi meccanismi, intendono emozionarsi di fronte al proprio figlio che gioca, andando oltre il ruolo di semplice spettatore. Quei genitori che accettano di farsi coinvolgere attivamente nello sport del fi-glio, adoperando l’energia che accumulano nel seguire i suoi eventi calcistici, non per sbraitare dalla tribuna o per criticare fuori gli spogliatoi, ma per cercare di proporsi al loro giovane atleta come un valido sostegno in ogni esperienza che compie, lungo il cammino che lo condurrà a diventare il futuro uomo di domani.

I GENITORI E IL CALCIO...

La Pelotascuola di calcioe di vita

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SALVINI Junior SALVINI Junior SALVINI Junior

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Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, ha incontrato in Spagna il fuoriclasse del Barcellona Messi. In un reportage-racconto, la storia di un successo nato dal dolore.

nonsolocalcioLo Scrittore e il Campione seconda parte

Rexach vuole fermarlo subito: “Chiunque fos-se passato di lì, l’avrebbe comprato a peso d’oro”. E così fanno un primo contratto su un fazzoletto di carta, un tovagliolo da bar aper-to. Firmano lui e il padre della pulce. Quel faz-zoletto è ciò che cambierà la vita a Lionel. Il Barcellona ci crede in quell’eterno bimbo. Decide di investire nella cura del maledetto ormone che si è inceppato. Ma per curarsi, Lionel deve trasferirsi in Spagna con tutta la famiglia, che insieme a lui lascia Rosario senza documenti, senza lavoro, fidandosi di un contratto stilato su un tovagliolo, sperando che dentro a quel corpo infantile possa esserci davvero il futuro di tutti. Dal 2000, per tre anni, la società garantisce a Messi l’assistenza medica necessaria. Crede che un ragazzino disposto a giocare a cal-cio per salvarsi da una vita d’inferno abbia den-tro il carburante raro che ti fa arrivare ovunque. Le cure però spezzano in due. Hai sempre nausea, vomiti anche l’anima. I peli in faccia che non ti cre-scono. Poi i muscoli te li senti scoppiare dentro, le ossa crepare. Tutto ti si allunga, si dilata in pochi mesi, un tempo che avrebbe dovuto invece esse-re di anni. “Non potevo permettermi di sentire dolore”, dice Messi, “non potevo permettermi di mostrarlo davanti al mio nuovo club. Perché a loro dovevo tutto”. La differenza tra chi il proprio talento lo spende per realizzarsi e chi su di esso si gioca tut-to è abissale. L’arte diventa la tua vita non nel senso che totalizza ogni cosa, ma che solo la tua arte può continuare a farti campare, a garantirti il futuro. Non esiste un piano B, qualsiasi alternativa su cui poter ripiegare. Dopo tre anni finalmente il Barcellona convoca Lio-nel Messi e la famiglia sa che se non sarà in grado di giocare come ci si aspetta, le difficoltà a tirare avanti saranno insormontabili. In Argentina hanno perso tutto e in Spagna non hanno ancora niente. E Leo, a quel punto, ricadrebbe sulle loro spalle. Ma quan-do La Pulce gioca, sfuma ogni ansia. Allenandosi

duramente con il sostegno della squadra, Messi riesce a crescere non solo in bravu-ra, ma anche in altezza, anno dopo anno, centimetro dopo centimetro spremuto dai muscoli, levigato nelle ossa. Ogni cen-timetro acquisito una sofferenza. Nessuno sa davvero quanto misuri adesso. Qualcu-no lo dà appena sopra il metro e cinquan-ta, qualcuno al di sotto, qualche sito parla di un Messi che continuando a crescere è arrivato al metro e sessanta. Le stime uffi-ciali mutano, concedendogli via via qual-che centimetro in più, come se fosse un merito, un premio conquistato in campo. Fatto è che quando le due squadre sono in riga pri-ma del fischio iniziale, l’occhio inquadra tutte le teste dei giocatori più o meno alla stessa altezza, mentre per trovare quella di Messi deve scendere almeno al livello delle spalle dei compagni. Per uno sport dove conta sempre più la potenza e, per un attaccante, i quasi due metri di Ibrahimovic e il metro e ottanta-cinque di Beckham sono diventati la norma, Lionel continua a somigliare pericolosamente a una pulce. Come dice Manuel Estiarte, il più forte pallanuoti-sta di tutti i tempi: “È vero, bisogna calcolare che le probabilità che Messi esca sconfitto da un impatto corpo a corpo sono elevate, come elevato è il ri-schio che venga totalmente travolto dai difensori. Ma solo a una condizione... prima devono riuscire a raggiungerlo”.

Guardarlo giocare è qualcosa che va oltre il calcio e coincide

con la bellezza stessa. Quasi un’epifania che permette a chi è lì di confondersi

pienamente con ciò che vede.

E infatti nessuno riesce a stargli dietro. Il baricen-tro è basso, i difensori lo contrastano, ma lui non cade, né si sposta. Continua a tenere la corsa, rim-balza palla al piede, non si ferma, dribbla, scavalca, sguscia, fugge, finta. È imprendibile. A Barcellona malignano che le star della difesa del Real Madrid, Roberto Carlos e Fabio Cannavaro, non sono mai riusciti a vedere in faccia Lionel Messi perché non riescono a rincorrerlo. Leo è velocissimo, sfreccia via con i suoi piedi piccoli che sembrano mani per come riesce a tener palla, a controllarne ogni movimento. Per le sue finte, gli avversari inciampano nell’ingom-bro inutile dei loro piedi numero quarantacinque. In una pubblicità dove era stato invitato a disegnare

con un pennarello la sua storia, è divertente e malin-conico vedere Messi ritrarre se stesso come un bim-betto minuscolo tra lunghissime foreste di gambe, perso lì tra palloni troppo grandi che volano lonta-no. Ma quando toccano terra, lui veloce li aggancia e piccolo com’è riesce a passare tra le gambe di tutti e andare in porta. Quando ci sono le rimesse late-rali e gli avversari riprendono fiato, è proprio in quel momento che lui schizza e li sorpassa, così quando si immaginavano, i marcatori, di averlo dietro la schie-na, se lo ritrovano invece già cinque metri avanti. Il grande giocatore non è quello che si fa fare fallo, ma quello cui non arrivi a tendere nessuno sgambetto. Vedere Messi significa osservare qualcosa che va oltre il calcio e coincide con la bellezza stessa. Qual-cosa di simile a uno slancio, quasi un brivido di con-sapevolezza, un’epifania che permette a chi è lì, a vederlo sgambettare e giocare con la palla, di non ri-uscire più a percepire alcuna separazione tra sé e lo spettacolo cui sta assistendo, di confondersi piena-mente con ciò che vede, tanto da sentirsi tutt’uno con quel movimento diseguale ma armonico. In questo le giocate di Messi sono paragonabili alle suonate di Arturo Benedetti Michelangeli, ai visi di Raffaello, alla tromba di Chet Baker, alle formule matematiche della teoria dei giochi di John Nash, a tutto ciò che smette di essere suono, materia, colore, e diventa qualcosa che appartiene a ogni elemento, e alla vita stessa. Senza più sepa-razione, distanza. È lì, e non si può vivere senza. E non si è mai vissuti senza, solo che quando si sco-prono per la prima volta, quando per la prima volta le si osserva tanto da restarne ipnotizzati, la com-mozione è inevitabile e non si arriva ad altro che a intuire se stessi. A guardarsi nel proprio fondo. Ascoltare i cronisti sportivi che commentano le sue cavalcate basterebbe per definire la sua epica di giocoliere. Durante un incontro Barcellona-Real

Madrid, il cronista vedendolo assediato da tentativi di fallo smette di descrivere la scena e inizia solo un soddisfatto: “Non va giù, non va giù, non va giuuu-uuù”. Durante un’altra sfida fra le storiche arcirivali, l’ola estatica “Messi, Messi, Messi, Messi” riceve una “a” supplementare che gli rimarrà addosso: Messia. È questo l’altro soprannome che La Pulce si è guadagnata con la grazia beffarda delle sue avan-zate, con lo stupore quasi mistico che suscita il suo gioco. “L’uomo si fece Dio e inviò il suo profeta”, così dicono le scritte di un servizio televisivo dedi-cato a El Mesias, e a colui che come incarnazione divina del calcio lo precedette: Diego Armando Maradona.

Lionel fu invitato a disegnare la sua storia con un pennarello. È divertente e

malinconico vedere il ritratto che fece di se stesso: un bimbetto tra lunghissime

foreste di gambe.

Sembra impossibile ma Messi quando gioca ha in testa le giocate di Maradona, così come uno scac-chista in un determinato momento della partita, spesso si ispira alla strategia di un maestro che si è trovato in una situazione analoga. Il capolavoro che Diego Armando aveva realizzato il 22 giugno 1986 in Messico, il gol votato il migliore del seco-lo, Lionel riesce a ripeterlo pressoché identico e quasi esattamente vent’anni dopo, il 18 aprile 2007, a Barcellona. Pure Leo parte da una sessan-tina di metri dalla porta, anche lui scarta in un’uni-ca corsa due centrocampisti, poi accelera verso l’aria di rigore, dove uno degli avversari che aveva superato cerca di buttarlo giù, ma non ci riesce. Si accalcano intorno a Messi tre difensori, e invece di mirare alla porta, lui sguscia via sulla destra, scar-ta il portiere e un altro giocatore... E va in gol. Dopo aver segnato, c’è una scena incredibile coi giocatori del Barcellona pietrificati, con le mani sulla testa, si guardano intorno come a non credere che fos-se possibile ancora assistere a un gol del genere. Tutti pensavano che un uomo solo fos-se capace di tanto. Ma non è stato così. La stampa si inventa subito il nomignolo “Messi-dona”, ma c’è qualcosa nella somiglianza dei due campioni argentini che oltrepassa simili trovate e mette i brividi. In uno sport che la fase epica sem-bra essersela lasciata alle spalle, le prodezze di Messi somigliano al reiterarsi di un mito, e non di un mito qualsiasi, ma di quello che più fortemente è in contrasto con il nostro tempo: Davide contro Golia. Fisici minuscoli, quartieri poveri, incapaci-tà nel vedersi diversi da come quando giocavano nei campetti, faccia sempre uguale, rabbia sem-pre uguale, come un’accidia che ti porti dentro. Teoricamente avevano tutto quanto bastava per sbagliare, tutto quanto bastava per perdere, tutto quanto bastava per non piacere a nessuno e per non giocare. Ma le cose sono andate diversamente. Messi, quando Maradona segnava quel gol in

Messico, non era neanche nato. Nascerà nel 1987. E la ragione per cui io l’ho seguito a Barcellona, al punto di volerlo incontrare, ha la sua origine pro-prio in questo: l’essere cresciuto a Napoli nel mito di Diego Armando Maradona. Non dimenticherò mai la partita dei mondiali del 1990, un destino ter-ribile portò l’Italia di Azeglio Vicini e Totò Schillaci a giocare la semifinale contro l’Argentina di Mara-dona proprio al San Paolo. Quando Schillaci segna il primo gol, lo stadio gioisce. Ma si sente che nelle curve qualcosa non va. Dopo il gol di Caniggia il tifo

non napoletano - non autoctono - inizia a prender-sela con Maradona, e lì accade qualcosa che non succederà mai più nella storia del calcio e mai era successo sino ad allora: la tifoseria si schiera contro la propria nazionale di calcio. I tifosi della curva na-poletana iniziano a urlare: “Diego! Diego!”. D’altron-de erano abituati a farlo, come biasimarli e come identificarsi in altri? Anche se dovrebbe essere cara la propria squadra nazionale, in quel momento è Maradona che rappresenta la tifoseria del San Paolo più di una nazionale di giocatori provenien-ti da altre città d’Italia, da Roma, Milano, Torino. Maradona era riuscito a sovvertire la gramma-tica delle tifoserie. E a Roma gliela fecero pagare durante la finale Argentina-Germania, dove il pubblico per vendicarsi dell’eliminazione dell’Ita-lia in semifinale e delle defezioni create all’interno della tifoseria, inizia a fischiare l’inno nazionale. Maradona aspetta che la telecamera, nella carrel-lata sui giocatori, arrivi sulle sue labbra, per lanciare un “hijos de puta” ai tifosi che non rispettano nean-che il momento dell’inno. Una finale terribile, dove a Napoli si tifava tutti, ovviamente, per l’Argentina. Ma poi il momento del rigore assolutamente dub-bio distrugge ogni speranza. La Germania chiara-mente in difficoltà deve però vincere e vendicare

l’Italia battuta. Un rigore dubbio per un fallo su Rudi Voeller, lo realizza Andreas Brehme. E il commento del cronista argentino fu: “Solo così fratello... solo così potevate vincere contro Diego”. Il momento più incredibile del mio incontro con Messi è quando gli dico che quando gioca somi-glia a Maradona - “somiglia”: perché non so come esprimere una cosa ripetuta mille volte, anche se devo dirgliela lo stesso - e lui mi risponde: “Ver-dad?”, “Davvero?”, con un sorriso ancor più timido e contento. Del resto, Lionel Messi ha accettato

di incontrarmi non perché sia uno scrittore o per chissà cos’altro, ma perché gli hanno detto che vengo da Napoli. Per lui è come per un musulmano nascere alla Mecca. Napoli per Messi, e per molti tifosi del Barcellona, è un luogo sacro del calcio. È il luogo della consacrazione del talento, la città dove il dio del pallone ha giocato gli anni più bel-li, dove dal nulla è partito verso la sconfitta delle grandi squadre, verso la conquista del mondo. Lionel appare il contrario di come ti aspetti un giocatore: non è sicuro di sé, non usa le soli-te frasi che gli consigliano di dire, si fa rosso e fissa i piedi, o si mette a rosicchiare le unghie dell’indice e del pollice avvicinandole alle lab-bra quando non sa che dire e sta pensando. Ma la storia della Pulce è ancora più straordinaria. La storia di Lionel Messi è come la leggenda del calabrone. Si dice che il calabrone non potrebbe vo-lare perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi con quel suo corpicino, con quei suoi piedi piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli, massa e potenza. Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti.

… prosegue dal numero 18 di ottobre 2010

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SALVINI Junior SALVINI Junior SALVINI Junior

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Storie di campioni del passato

FranzBeCkenBauer

il Kaiser “Mi pare che negli ultimi anni si sia puntato molto sull’aspetto fisico rispetto a quello tec-nico e probabilmente è una scelta che parte già a livello giovanile. Penso sia importante, grazie anche all’accordo stipulato con il set-tore tecnico, che prima si scelgano ragazzi bravi con la tecnica e che poi si formi l’atleta: il contrario secondo me è impossibile. Se i ra-gazzi hanno problemi di dialogo con il pallone ma la buttano solo sul fisico, potrebbe diven-tare un altro sport”. Parla Gianni Rivera che illustra così, nel corso della presentazione dei campionati di allievi e giovanissimi nazionali in Figc, l’idea che intende portare al settore giovanile e scolastico federale.

Per quanto riguarda la scuola, spiega Rivera, “ci vorrebbe che la politica si accorgesse che lo sport è importante. Sento parlare di riforma

storica dell’istruzione, ma dovrebbero convin-cersi a partire dalle strutture, e ricordare che nell’Unione Europea siamo il paese che dedi-ca meno ore nella scuola all’attività fisica”. Per quanto riguarda gli investimenti sui vivai “io credo che si dovrebbe investire più sul settore giovanile che non sulla prima squadra - spiega Rivera citando il modello Ajax - chissà che un giorno anche i nostri grandi club prenderanno quella strada”.

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I pensieri di un Campione:

Non tutti i giovani diventeranno campioni quindi

l’obiettivo della Figc dovràessere quello di formare

giovani validi e dai sani principi

IL PRIMo PALLoNE D’oRo ITALIANo E RESPoNSABILE DEL SETToRE TECNICo GIoVANILE E SCoLASTICo DELLA FIGC

GIANNI RIVERAIl sEttoRE GIoVANIlE RIpARtA dAllA tEcNIcA

Lo chiamavano il Kaiser, l’Imperatore, in un periodo in cui i soprannomi non venivano elargiti con tanta sufficienza. Ma Franz Beckenbauer il titolo lo meritava tutto, perché nessuno come lui in Germania è riuscito a vincere tanto con la maglia di club, con quella della nazionale e nelle vesti di allenatore.In patria viene considerato una sorta di monumento, specie dai tifosi del Bayern Monaco, che hanno potuto godere delle sue prestazioni per quattordici stagioni di fila, durante le quali Kaiser Franz contribuì ad arricchire la bacheca del club con 4 titoli Nazionali, 4 Coppe di Germania, 3 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe e 1 Coppa Intercontinentale. Durante il periodo della militanza nel Bayern, la stella di Beckenbauer ebbe modo di brillare anche a livello internazionale, tanto che con la casacca del suo Paese conquistò sia il Campionato Europeo nel ‘72 che la Coppa del Mondo nel ‘74.Erano anni d’oro per lui, giovane stella del panorama mondiale, che andava a conquistarsi un posto tra i più grandi fuoriclasse di ogni epoca. Il suo talento lo portò a guadagnarsi ben due Palloni d’oro, nel 1974 e nel 1976, e quattro titoli come miglior giocatore tedesco del’anno. Logico quindi che il suo addio al calcio tedesco fosse salutato con tanto rimpianto da parte dei suoi tifosi, che lo vedevano partire in cerca di nuove avventure (ma soprattutto di ottimi ingaggi) alla volta dell’America. Negli States trovò come

compagno di squadra un altro mito del calcio mondiale, Pele, ed insieme portarono il Cosmos alla conquista di 3 campionati nordamericani. Poi il ritorno in Germania, quando aveva ormai 35 anni, e la conquista di un altro titolo nazionale con la maglia dell’Amburgo.Nel 1982 Beckenbauer si ritirò dal calcio giocato, ma uno come lui non poteva uscire completamente dal mondo in cui aveva vissuto per tutta la vita. Iniziò così la sua carriera di allenatore che lo portò a sedersi sulla panchina della nazionale dall’84 al ‘90. E qui finisce la storia e comincia la leggenda, perché Kaiser Franz anche da mister riuscì a togliersi le sue belle soddisfazioni, diventando il primo a conquistare il titolo mondiale

sia da giocatore che da allenatore. Una carriera strepitosa per un uomo che metteva in campo classe ed eleganza, che non tirava mai indietro la gamba e che può vantarsi di aver inventato il ruolo del libero d’attacco. Un vero fuoriclasse, un grande Imperatore.

complImENtI pER l’ottImo ANdAmENto scolAstIcoIn riferimento all’istituzione delle 3 borse di studio, comunichiamo di seguito i nomi-nativi dei vincitori del personal computer:SCUOLA ELEMENTARE:TARTAGLIoNE PAoLoSCUOLA MEDIA:ERAMo DANIELSCUOLA SUPERIORE:RICCI GIANLUCAtutti gli altri che hanno rag-giunto l’obiettivo prefissato ma non hanno vinto la bor-sa di studio, ricevono come premio di consolazione un Pallone, Complimenti anche a loro!!!

La Direzione

CARUSo DAVIDE, DE ANGELIS MASSIMo, DE LULLo FEDERICo, DEL FoRNo GIULIo, DI MARIo LoRENZo, GASBARRA GIANMARCo, GRAZIANI ANDREA, PACHIANo ANToNIo, PALoMBA GABRIELE, PoRZIo CHRISTIAN, RALLo GIULIo, RoSATI FEDERICo, RoSATI MATTEo, SAVIANo GIoVANNI, SERI GABRIELE, TRINCIA EMILIANo.

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