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LA NUOVA INFORMAZIONE CARDIOLOGICA Editor: prof. Paolo Rossi Direttore Responsabile: dott. Eraldo Occhetta ([email protected]) Direttore Scientifico: dott. Gabriele Dell’Era ([email protected]) Progetto grafico e realizzazione: Studio27 Progetto Editoriale, Novara – www.studio27snc.it Periodico di informazione cardiologica – Anno 35° – Giugno 2015 Foglio elettronico 3 a generazione – n°60 [email protected] www.nuovainformazionecardiologica.it SOMMARIO Imaging in cardiologia 2 Quando l’immagine angiografia non ti soddisfa, non limitarti a cambiare gli occhiali! L’importanza dell’ecografia intravascolare (Dott.ssa Lucia Barbieri) Editoriale 9 Statine negli anziani: tra evidenze e realtà (Dott.ssa Monica Verdoia) Leading article 13 Efficacia e sicurezza di alirocumab nella riduzione dei lipidi e degli eventi cardiovascolari (Dott. Gian Paolo Fra) Focus on… 21 Aterosclerosi e terapia farmacologica (dott. Gabriele Dell'Era) Medicina e morale 24 Il cuore sinonimo della vita. (prof. Paolo Rossi)

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LA NUOVA INFORMAZIONECARDIOLOGICA

Editor: prof. Paolo RossiDirettore Responsabile: dott. Eraldo Occhetta ([email protected])Direttore Scientifico: dott. Gabriele Dell’Era ([email protected])Progetto grafico e realizzazione: Studio27 Progetto Editoriale, Novara – www.studio27snc.it

Periodico di informazione cardiologica – Anno 35° – Giugno 2015

Foglio elettronico 3a generazione – n°60

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SOMMARIOImaging in cardiologia 2

Quando l’immagine angiografia non ti soddisfa, non limitarti a cambiare gli occhiali! L’importanza dell’ecografia intravascolare (Dott.ssa Lucia Barbieri)

Editoriale 9

Statine negli anziani: tra evidenze e realtà (Dott.ssa Monica Verdoia)

Leading article 13

Efficacia e sicurezza di alirocumab nella riduzione dei lipidi e degli eventi cardiovascolari (Dott. Gian Paolo Fra)

Focus on… 21

Aterosclerosi e terapia farmacologica(dott. Gabriele Dell'Era)

Medicina e morale 24

Il cuore sinonimo della vita.(prof. Paolo Rossi)

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Quando l’immagine angiografia non ti soddisfa, non limitarti a cambiare gli occhiali!

L’importanza dell’ecografia intravascolare

Dott.ssa Lucia Barbieri

Clinica Cardiologica, AOU Maggiore della Carità, Università del Piemonte Orientale, Novara

[email protected]

IMAGING in cardiologia

Il caso che andiamo a descrivere è quello di un uomo di 58 anni, ex forte fumatore, diabetico in terapia ipoglicemizzante orale. Veniva ricovera-to ad aprile 2014 in seguito ad infarto miocar-dico acuto con sopraslivellamento del tratto ST

infero-laterale con riscontro di severa coronaro-patia trivasale. Veniva trattata in tale occasione il ramo circonflesso con angioplastica ed im-pianto di 3 stent medicati, che risultava essere la lesione culprit (Figura 1 A e B).

Figura 1. Lesione sub occlusiva del ramo circonflesso (A) e risultato finale dopo PCI (B)

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A distanza di 4 giorni si procedeva ad angio-plastica ed impianto di 4 stent medicati sulla discendente anteriore al tratto medio-prossi-male (Figura 2 A e B) e sei mesi dopo (ottobre

2014) si procedeva a completamento della ri-vascolarizzazione sulla coronaria destra con angioplastica ed impianto di uno stent medi-cato (Figura 3 A e B).

Figura 2. Lunga lesione critica della discendente anteriore (A) e risultato finale dopo PCI (B)

Figura 3. Lesione critica della coronaria destra (A) e risultato finale dopo PCI (B)

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A due mesi dal completamento della rivascola-rizzazione il paziente risultava sintomatico per precordialgie non sforzo correlate, a regressione spontanea in circa 15 minuti, che riconosceva come tipiche. Veniva posta quindi indicazione a test di ischemia inducibile con scintigrafia mio-cardica. La scintigrafia da sforzo non evidenziava aree di ipocaptazione miocardica per cui non ve-niva eseguito controllo a riposo. Lo sforzo però risultava essere ampiamente sottomassimale (64% della frequenza massima teorica) e all’ECG

durante stress vi era evidenza di frequenti extra-sistoli ventricolari monomorfe con fasi di bi e tri-geminismo. Dopo rivalutazione, viste le recenti procedure eseguite, la sintomaticità e la giovane età del paziente si decideva di procedere a stu-dio coronarografico di controllo. La coronarogra-fia evidenziava ottimo esito a distanza delle pre-gresse procedure di rivascolarizzazione (Figura 4 A, B e C) in presenza di un ateromasia moderata del tronco comune in lieve peggioramento ri-spetto agli esami precedenti (Figura 4 D).

Figura 4. Ottimo esito delle pregresse PCI su CX (A), IVA (B) e CDx (C) ed evidenza di ateromasia moderata del TC (D).

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Vista la localizzazione della dubbia lesio-ne angiografica si decideva di procedere ad approfondimento funzionale con fractional flow reserve (FFR), che dopo boli crescen-ti di adenosina intra coronarica (massimo

1500mcg) evidenziava un valore minimo di 0.85 (Figura 5). Il risultato confermava quindi il dubbio diagnostico rilevato all’angiogra-fia, in assenza di valori indicativi di criticità certa della stenosi.

Si è quindi infine proceduto a valutazione con ecografia intravascolare (IVUS) per me-glio caratterizzare la lesione da un punto di vista morfologico. L’analisi ha evidenziato

presenza di placca eccentrica, a margini ben definiti, a livello del TC prossimale e del cor-po determinante stenosi ai limiti della critici-tà (Area minima 6.2mm2) (Figura 6).

Figura 5. Curva pressoria con rapporto minimo rilevato di 0.85 in corso di fractional flow reserve.

Figura 6. IVUS su TC con evidenza di lesione eccentrica e in parte calcifica determinante stenosi moderata (area minima 6.2mm2).

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Con l’ausilio dell’IVUS è stato inoltre possibile caratterizzare nei minimi dettagli la composi-zione della placca con la metodica dell’istolo-gia virtuale (VH), grazie alla quale si è escluso

la presenza di instabilità della placca, eviden-ziando una placca composta principalmente da tessuto fibroso (68%), in parte necrotico (20%), ed in parte calcifico (12%) (Figura 7).

Questo risultato, unitamente al reperto angiogra-fico ed alla valutazione funzionale con FFR ha po-

tuto permetterci di escludere per il momento la necessità di un’angioplastica sul tronco comune.

Figura 7. Istologia virtuale della placca su TC.

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DISCUSSIONE

Nonostante le grandi innovazione nell’ambito dell’imaging non invasivo, l’angiografia corona-rica rimane il gold standard per la stadiazione della patologia aterosclerotica coronarica. I limiti dell’angiografia convenzionale sono tuttavia a noi noti, in particolare a riguardo della stima fun-zionale e morfologica della lesione che stiamo andando a valutare. Da qui l’importanza dell’uti-lizzo di tecniche di diagnostica intravascolare per una valutazione approfondita e completa, con conseguente gestione corretta dei nostri pazien-ti. La fractional flow reserve (FFR) utilizzata anche nel caso del nostro paziente è una tecnica sem-plice e sicura, che permette di valutare la stenosi coronarica dal punto di vista funzionale, ma per un’adeguata valutazione morfologica della plac-ca l’ecografia intravascolare (IVUS) è senz’altro la metodica di scelta. L’IVUS infatti è una tecnica tomografica con la capacità di dare una diretta visualizzazione della placca aterosclerotica e del lume coronarico residuo (2). La dettagliata riso-luzione spaziale dell’IVUS da’ informazioni estre-mamente dettagliate sulla morfologia della plac-ca, sulle dimensioni del lume vero e soprattutto sulla parete vasale, essendo in questo modo di grande aiuto al cardiologo interventista, in par-ticolare in caso di lesioni angiograficamente bor-derline e per guidare la procedura di angiopla-stica in caso di lesioni complesse come il tronco comune o le lesioni di biforcazione (3). L’IVUS permette la visualizzazione della parete vasale tramite un microtrasduttore piezoelettrico posto alla fine di un catetere flessibile che emette ultra-suoni compresi tra 10 e 40 MHz (4). L’immagine basale IVUS ha tre diverse componenti: il catete-re, il lume vasale e la parete arteriosa. Le onde sonore emanate dal trasduttore sono riflessi dai tessuti circostanti con diverse impedenze acu-stiche. Nell’arteria normale si evidenziano molto chiaramente tre strati con alternanza di bianco e nero che vanno a identificare le tre tonache in-tima, media ed avventizia. Nell’arteria patologi-ca invece l’IVUS fornisce una fedele descrizione morfologica dell’aterosclerosi (5): le placche sof-fici (ad alto contenuto lipidico) possiedono una bassa ecogenicità, così come le zone ad alto con-tenuto di tessuto necrotico nell’ambito di plac-ca, trombo o emorragia intramurale. Le placche calcifiche sono tipicamente rappresentate dalla presenza dei coni d’ombra per impossibilità alle onde sonore di penetrare il tessuto. Le placche fi-

brose hanno un’ecogenicità intermedia e rappre-sentano la maggior parte delle lesioni coronari-che. L’abilità dell’IVUS sta anche nell’identificare placche complesse di base non aterosclerotica, come le dissezioni coronariche, gli aneurismi e le ulcerazioni di placca e a proposito di queste ultime quindi di definire anche il grado di insta-bilità di placca e la conseguente urgenza in ter-mini di trattamento. L’IVUS permette inoltre di eseguire analisi quantitative molto accurate (6). Le principali ed immediate misurazioni che sono eseguibili dopo analisi IVUS sono la “cross-sectio-nal area” (CSA) che ci permette di valutare tipo e grado di rimodellamento della placca, l’area mi-nima del lume, il diametro minimo del lume e la percentuale di stenosi. Infine un’altra grande ap-plicazione dell’ecografia intravascolare è rappre-sentata dall’istologia virtuale (7), basata sull’ana-lisi spettrale del segnale ultrasonografico, grazie al quale è possible colorare le parti della placca a seconda della loro composizione. L’istologia virtuale identifica quattro tipi diversi di placca: fibrosa (verde), fibroadiposa (verde chiaro), ne-crotica (rossa) e calcifica (bianca). Anche nel caso da noi citato, l’utilizzo dell’istologia virtuale ci ha permesso di analizzare con maggior confidenza la composizione della placca sul tronco comune del nostro paziente, evidenziandone una discre-ta stabilità confermando quindi ancora di più la nostra propensione al trattamento conservativo per il momento. In conclusione l’IVUS rappresen-ta quindi uno dei più precisi strumenti diagno-stici a disposizione per l’analisi dell’anatomia coronaria, procurando informazioni aggiuntive all’angiografia sia riguardo la morfologia della placca che sui suoi rapporti con la parete vasale, soprattutto nei casi di lesioni angiograficamente ambigue. L’utilità di questa metodica è senz’al-tro rilevante anche nei casi di angioplastiche complesse, coinvolgenti biforcazioni e tronco comune e nella valutazione della buona appo-sizione degli stent impiantati. Tecniche innova-tive, quali elastografia (8), palpografia (9), IVUS ad alta definizione (10), Forward looking IVUS (11), Near Infra Red Spectrometry (NIRS) IVUS (12) e combinazione IVUS/OCT (intravascular ultrasound/opticalcoerence tomography) (13) saranno ancora più di aiuto al cardiologo inter-ventista a ad affrontare gli “annebbiamenti” che giorno dopo giorno si presentano nel laborato-rio di emodinamica.

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Statine negli anziani:tra evidenze e realtà

EDITORIALE

Dott.ssa Monica VerdoiaClinica Cardiologica, AOU Maggiore della Carità,

Università del Piemonte Orientale, Novara [email protected]

Negli ultimi anni, la maggiore disponibilità e facilità di accesso alle procedure di rivascola-rizzazione coronarica percutanea e soprattutto il grande miglioramento dei risultati portato dalle nuove tecnologie nel campo degli stent, ha ridotto in secondo piano l’attenzione verso il trattamento farmacologico della cardiopatia ischemica, trattamento che tuttavia risulta im-prescindibile sia nella prevenzione primaria che secondaria. Inoltre, il problema diventa ancora più rilevante in quelle categorie di pazienti, a maggiore com-plessità, come gli anziani, che rappresentano una sempre più ampia parte degli individui trat-tati per malattia coronarica, dove l’alta presenza di co-morbilità e la necessità di politerapia ren-de più controversa la gestione farmacologica.Le statine rappresentano una delle categorie di farmaci che meglio esemplificano questa di-screpanza tra le indicazioni teoriche, basate sui comprovati risultati positivi dei trials clinici, non coincide poi con la realtà clinica. La nota 13 dell’AIFA (1), nella sua ultima versione del 2013, indica nei pazienti a rischio cardiova-

scolare molto alto, ovvero nei pazienti con pre-gressa storia di malattia coronarica o cerebro-vascolare, (con target LDL < 70 mg/dl), l’utilizzo come prima scelta di atorvastatina, simvastati-na (o altre). Tra questi, poi, i pazienti con pre-gressa sindrome coronarica acuta o con recente rivascolarizzazione miocardica devono ricevere atorvastatina ad alti dosaggi (>= 40 mg). La ro-suvastatina è invece indicata nei pazienti che abbiano avuto eventi avversi nei primi 6 mesi di trattamento con altra statina. Tale indicazione, basata sul rischio, non preve-de, al momento limiti di età, anzi sembra indica-re una maggiore aggressività di trattamento in quei pazienti, quali appunto gli anziani, esposti ad un maggiore rischio cardiovascolare. Certamente, l’uso delle statine negli anziani è un argomento dibattuto, sia per questioni clini-che di sicurezza ed efficacia, sia per il peso eco-nomico di tale trattamento. Una recente metanalisi (2) ha dimostrato che il trattamento con statina in prevenzione secon-daria diminuisce il tasso di mortalità e di even-ti coronarici nei pazienti anziani. Su un totale

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di 9 studi, 19.569 pazienti anziani (tra 65 e 82 anni) con preesistente malattia coronarica, a 5 anni si è osservata una significativa riduzione del rischio di mortalità nel gruppo trattato con statine ( con 1 caso di morte prevenuta ogni 28 pazienti trattati per 5 anni), e similarmente ha ridotto il rischio di reinfarto (NNT=38) e stroke (NNT=58). Simili risultati, inoltre sono stati ot-tenuti dal gruppo italiano della Università Fe-derico II di Napoli (3) in termini di riduzione di reinfarto e stroke e dal gruppo Cholesterol Tre-atment Trialists (4), che confrontando i risultati di statine ad alte dosi vs statine a bassa intensi-tà ha dimostrato un vantaggio delle prime, con una riduzione del rischio di eventi cardiovasco-lari per ogni riduzione di 1 mmol/L di coleste-rolo LDL che era analoga nei pazienti sotto i 60 anni e al di sopra dei 70. Tuttavia, a discapito del maggiore numero di anziani con malattia cardiovascolare e del chiaro più alto rischio di questi pazienti, negli ultimi trials randomizzati condotti sia in USA che in Europa, la popolazione anziana è risulta-ta ben poco rappresentata, tanto che le attuali linee guida AHA/ACC (5) la decisione sull’uso di statine nel paziente anziano è lasciata alla decisione sul singolo caso, in funzione di effet-ti avversi, comorbilità, politerapia e preferenza del paziente. Qualche dato più significativo nell’anziano vie-ne da studi in prevenzione primaria: nello stu-dio PROSPER pravastatina 40 mg è risultata in grado di ridurre un endpoint di morte, infarto e stroke del 15% in pazienti tra 70 e 80 anni, men-tre nello studio SAGE (Study assessing gOals in the Elderly) atorvastatina 80 mg è risultata più vantaggiosa rispetto alla pravastatina nella ri-duzione di morte ed eventi cardiovascolari in pazienti tra 60 e 85 anni (6). Analoghi risultati sono stati ottenuti sempre con-frontando atorvastatina 80 mg con pravastatina, nel PROVE-IT TIMI 22, in considerazione del mag-giore rischio cardiovascolare degli anziani (7). Nello studio JUPITER (8), sempre in prevenzione primaria, il 32% dei pazienti inclusi aveva oltre 70 anni e in questi pazienti si è verificata circa la metà degli endpoints dello studio. Rosuvastatina, in questo studio, si è dimostrata in grado di fornire una riduzione di eventi cardiovascolari superiore del 48% negli anziani rispetto ai giovani. Tuttavia, nonostante oltre il 45% dei pazienti ol-tre gli 80 anni abbiano una malattia coronarica documentata, questi pazienti sono paradossal-

mente sottotrattati, spesso per timore di eventi avversi, dal trattamento con statine. Roberts et al (9) hanno dimostrato come il trat-tamento con statine fosse ben tollerato negli anziani, che non andavano incontro ad un mag-giore rischio di sospensione della terapia, lega-to a rialzo di transaminasi o miopatia rispetto ai giovani. Un altro “warning” sollevato in passato, circa il rischio di decadimento cognitivo negli anziani trattati con statine, si è al contrario tradotto in uno studio che ha dimostrato una significativa riduzione della demenza negli anziani che rice-vevano statine (10), anche se questi dati non sono stati confermati in altri studi ed in partico-lare nella malattia di Alzheimer (11). Un ulteriore determinante di scarso utilizzo del-le statine negli anziani, infine, è rappresenta-to certamente da fattori di ordine economico, nell’idea di uno scontro tra i tagli per la spesa farmaceutica del sistema sanitario ed il progres-sivo aumento della popolazione a rischio car-diovascolare cui prescrivere terapie “preventi-ve” come le statine. Ganz et al (12) hanno dimostrato nel 2000, sulla base di un modello di rischio teorico, che le sta-tine in prevenzione secondaria sono altrettan-to costo-efficaci nell’anziano come molte altre terapie consolidate nel trattamento dell’infarto. Tuttavia, una recente analisi di ordine farma-co-economico (13) ha dimostrato come, vita la enorme efficacia e tollerabilità delle statine, una statina a basso costo sia vantaggiosa pra-ticamente in tutta la popolazione, inclusi i pa-zienti a basso rischio come soggetti con lieve aumento del colesterolo o anche un solo fattore di rischio, ivi compresa, quindi l’età. Se quindi l’uso delle statine in prevenzione se-condaria appare necessario in tutti i pazienti, in questo senso, però meritano alcune conside-razioni circa il tipo di statina da preferire negli anziani.Come già accennato, uno dei maggiori limiti all’uso di statine, in questi pazienti è la poli-te-rapia. Infatti, nell’anziano, assorbimento ed eli-minazione dei farmaci risulta rallentata, per la presenze di una ridotta funzionalità renale e un diminuito metabolismo epatico. Pertanto, farmaci con eliminazione parzialmen-te renale e parzialmente epatica sono da prefe-rire in questi pazienti rispetto a quelli che utiliz-zano una sola via di escrezione. Tra le statine, la rosuvastatina presenta anche una eliminazione

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renale, oltre che epatica, con solo una piccola parte di farmaco metabolizzata attivamente a livello epatico. La maggior parte delle statine, al contrario, pre-senta un metabolismo epatico ed interagisce quindi con altri farmaci a livello della catena del citocromo p450. Ad esempio, di particolare rilevanza per quan-to riguarda il paziente con recente sindrome coronarica acuta e l’interazione recentemente descritta tra statine e ticagrelor. Infatti, due sta-tine molto frequentemente utilizzate (atorva-statina e simvastatina) vengono metabolizzate dallo stesso enzima CYP3A4 del ticagrelor. Alcu-ni studi hanno suggerito come in caso di conco-mitante terapia, potesse essere aumentata l’ef-ficacia delle statine, ma dall’altra parte, anche una elevazione dei metaboliti attivi di ticagrelor è stata dimostrata soprattutto nei pazienti che ricevevano simvastatina (14).Pertanto, il rischio di complicanze emorragiche in questi pazienti più fragili potrebbe risultare aumentato con il concomitante utilizzo di alcu-ne statine e, infatti, la somministrazione con-temporanea di simvastatina ad alte dosi e tica-grelor è controindicata. Infine, rosuvastatina ha dimostrato, rispetto ad atorvastatina, una maggiore efficacia nella riduzione del colesterolo LDL e nella riduzio-ne del volume totale della placca ateromasica nello studio SATURN (15), e simili benefici sono

stati dimostrati in uno studio spagnolo in pa-zienti ad elevato rischio cardiovascolare. Infine nello studio STELLAR, (16), rosuvastatina 10 mg è risultata più vantaggiosa ( a pari o uguale costo) rispetto ad atorvastatina, simvastatina e pravastatina. Al contrario, Choudhry el al. (17) hanno dimo-strato in una ampia casistica di pazienti con sin-drome coronarica acuta, che negli anziani l’uso di statine ad alta o moderata intensità (incluso basso dosaggio di atorvastatina o rosuvastati-na) non produceva significativi vantaggi rispet-to a trattamenti più intensivi. Tuttavia, in assenza di studi specifici sulla scel-ta della statina migliore negli anziani, l’indica-zione deve, al momento essere ponderata caso per caso ed in funzione del profilo di rischio del paziente. Ciò che invece appare imprescindibile, invece, è l’introduzione di una terapia con stati-ne all’interno della strategia di trattamento di un anziano ad elevato rischio cardiovascolare. Infat-ti, è necessario spostare l’attenzione dalle statine come farmaco ipolipoemizzante e “preventivo”, il cui effetto benefico a lungo termine risulterebbe modesto negli anziani, ma ricordare invece come gli effetti benefici, antiinfiammatori, antitrombo-tici e cardioprotettivi delle statine possano dare vantaggi tangibili anche a prescindere dall’azio-ne sul metabolismo del colesterolo, favorendo, quindi, una maggiore diffusione dell’uso di sta-tine, anche in età avanzata.

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Efficacia e sicurezza di alirocumab nella riduzione dei lipidi

e degli eventi cardiovascolari

LEADING ARTICLE

Dott. Gian Paolo Fra,Medicina Interna 1 - AOU “Maggiore della carità”

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INTRODUZIONE

E’ stato dimostrato che gli anticorpi monoclona-li diretti contro la proteina convertasi subtilisi-na-kexina 9 (PCSK9) sono in grado di ridurre i li-velli di colesterolo LDL (LDL-C) in soggetti già in trattamento con statine.Negli studi di fase II l’anticorpo monoclonale alirocumab, quando aggiunto a terapia stan-dard con statine, ha ridotto i livelli di LDL-C dal 40 al 70 % (1-3). Il trial ODISSEY LONG TERM è stato disegnato con l’obiettivo di ottenere dati a lungo termine

sulla sicurezza e sul grado di riduzione dei livelli di LDL-C in corso di trattamento con alirocumab, nonché l’incidenza di eventi avversi cardiovasco-lari, valutata con un’analisi post-hoc. Gli Autori hanno condotto uno studio di fase III della du-rata di 78 settimane in cui hanno confrontato alirocumab (150 mg/ogni 2 settimane) versus placebo in 2341 pazienti ad alto rischio cardio-vascolare già in trattamento con statine alla dose massima tollerata con o senza associazione con altri ipolipemizzanti.

METODI

Il trial ODISSEY LONG TERM è uno studio multi-centrico randomizzato di fase 3 , in doppio cieco, controllato, condotto in parallelo. Sono stati ar-ruolati pazienti adulti di età >18 anni con iperco-lesterolemia familiare eterozigote (definita sulla base di indagini genetiche o dei criteri clinici diagnostici WHO-Simon Broome) o con diagno-si di malattia coronarica (definita come infarto

miocardico acuto, infarto miocardico silente, angina instabile, procedure di rivascolarizzazio-ne coronarica, malattia coronarica clinicamente rilevante diagnosticata con esami invasivi o non invasivi) o con rischi equivalenti di malattia co-ronarica (definiti come arteriopatia periferica, stroke ischemico, malattia renale cronica di gra-do moderato, o diabete mellito con due o più fat-

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tori di rischio addizionali), che avessero livelli di LDL-C ≥ 70 mg/dl al momento dello screening. Tutti i pazienti dovevano essere già in trattamen-to con statine ad alte dosi o alla dose massima tollerata, con o senza altre terapie ipolipemiz-zanti, per almeno 4 settimane prima dello scre-ening (almeno 6 settimane per i fenofibrati): tale regime terapeutico doveva essere proseguito durante lo studio. I pazienti eligibili venivano as-segnati in modo casuale, in un rapporto di 2:1, a ricevere alirocumab (150 mg ogni 2 settimane) o placebo per via sottocutanea per 78 settimane.Tutti i pazienti erano invitati a seguire, durante lo studio, una terapia dietetica secondo i parametri dell’ATPIII-NCEP, o una dieta equivalente. I pazienti erano valutati periodicamente fino a 8 settimane dopo il termine dello studio per la valutazione del profilo di sicurezza.L’end-point primario di efficacia era la variazione percentuale dei livelli di LDL-C tra l’inizio dello studio e la 24° settimana di trattamento, valu-tata con l’analisi “intention to treat” (ITT). Quali end-points secondari di efficacia erano consi-

derati sia la variazione percentuale dei livelli di LDL-C durante l’intero periodo di somministra-zione del farmaco, sia le variazioni delle altre li-poproteine alla 12° e 24° settimana di trattamen-to, end-points valutati sia con l’analisi ITT che con l’analisi che includeva solo i pazienti ancora in terapia attiva.Gli end-points di sicurezza erano rappresenta-ti dall’incidenza di eventi avversi occorsi dopo la prima iniezione e fino a 10 settimane dopo l’ulti-ma somministrazione del farmaco. L’analisi sulla sicurezza è stata condotta in modo descrittivo ed ha incluso tutti i pazienti che avessero ricevuto al-meno una dose o parte di una dose del farmaco.L’incidenza di eventi avversi cardiovascolari mag-giori (MACE) nei due gruppi di studio è stata va-lutata con un’analisi post-hoc, considerando un end-point composito di morte per malattia coro-narica, infarto miocardico non fatale, stroke ische-mico fatale o non fatale, o ricovero in ospedale in seguito ad angina instabile. L’analisi post-hoc dell’incidenza di MACE è stata condotta secondo il modello di Cox.

RISULTATI

Caratteristiche dei pazienti e follow-upIl trial ha arruolato complessivamente 2341 pa-zienti, di cui 1533 assegnati ad alirocumab e 788 a placebo. L’età media dei partecipanti era 60 anni, il 37.8% erano donne. Complessivamente il 68.9% dei pazienti presentava una storia di malattia co-ronarica, ed il 17.7% aveva un’ipercolesterolemia familiare eterozigote. Praticamente tutti i pazienti erano in terapia con statine, di cui il 46.8% in trat-tamento con statine ad alte dosi; il 28.1% assume-va anche altri trattamenti ipolipemizzanti. Il valore medio di LDL-C calcolato all’inizio dello studio era di 122 mg/dl. Le caratteristiche demografiche e la storia clinica erano ben bilanciate tra i due gruppi di studio. L’aderenza media allo studio è stata del 98% nel gruppo alirocumab e del 97.6% nel grup-po placebo. La durata media del follow-up (indi-pendentemente dall’aderenza allo studio) nell’a-nalisi sulla sicurezza è stata di circa 81 settimane per alirocumab e di 80 settimane per il placebo.Lo studio è stato interrotto nel 28.2% e nel 24.5% dei pazienti in trattamento con alirocumab e pla-cebo rispettivamente. Il 98.7% dei pazienti ha ri-spettato il criterio per l’ITT e pertanto è stato in-cluso nell’analisi di efficacia primaria.

EfficaciaLa variazione percentuale media nei livelli di LDL-C dall’inizio dello studio alla 24° settimana era -61% con alirocumab versus 0.8% con place-bo, con una differenza di -61.9% (P<0.001) (Ta-bella 1 e Fig. 1). I livelli medi di LDL-C alla 24° set-timana erano di 48 mg/dl nel gruppo alirocumab e 119 mg/dl nel gruppo placebo, pari ad una variazione assoluta dall’inizio dello studio di -74 mg/dl e -4 mg/dl rispettivamente. Valori di LDL-C <70 mg/dl alla settimana 24 erano raggiunti dal 79.3% dei pazienti nel gruppo alirocumab vs 8% dei pazienti nel gruppo placebo (P<0.001). Nel gruppo alirocumab la riduzione dei livelli di LDL-C era costante dalla 4° alla 78° settimana (Fig.1) anche se nell’analisi ITT (Tabella 1) tale ri-duzione era leggermente inferiore alla settimana 78 (52.4%) rispetto alla settimana 24 (61%): que-sta osservazione era influenzata dai livelli riscon-trati nei pazienti che avevano prematuramente interrotto il trattamento. Nei pazienti trattati con alirocumab la riduzione percentuale dei livelli di LDL-C alla settimana 24 era simile tra i diversi gruppi stratificati in base ai valori iniziali di LDL-C, così come non era in-

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fluenzata dalla presenza/assenza di ipercoleste-rolemia familiare eterozigote. Era invece osserva-ta una lieve differenza di efficacia in alcuni altri sottogruppi quali il sesso (minore riduzione nelle donne) e l’area geografica. Infine, considerando le altre lipoproteine, dopo 24 settimane di trattamento, alirocumab mostra-va una maggiore riduzione rispetto al placebo dei livelli di colesterolo non-HDL (-52.3%), apoli-poproteina B (-54.0%), colesterolo totale (-37%) e trigliceridi (-17.3%), mostrando invece un mode-sto aumento dei livelli di colesterolo HDL (+4.6%) e di apolipoproteina A1 (+2.9%) (P<0.001 per tutti i confronti) (Tabella1).

SicurezzaLa percentuale di eventi avversi è risultata simile tra i due gruppi (81% alirocumab vs 82.5% place-bo). Il trattamento con alirocumab è stato sospe-so nel 7.2% dei casi rispetto al 5.8% di sospen-sioni nel gruppo placebo (P non significativa). Gli eventi avversi occorsi più frequentemente nei

pazienti trattati con alirocumab rispetto a place-bo sono stati: reazioni nel sito di iniezione (5.9% vs 4.2%), mialgie (5.4% vs 2.9%), eventi di natu-ra neurocognitiva (1.2% vs 0.5%) quali amnesia, deficit mnesici e stati confusionali, eventi oftal-mici (2.9% vs 1.9%). Non sono stati riportati casi di anemia emolitica. In entrambi i gruppi di trat-tamento erano riportati rari e talvolta gravi casi di eventi neurologici ed allergici generali. Non è stata riscontrata una maggiore incidenza di dia-bete mellito né un peggioramento della malattia diabetica preesistente nei pazienti trattati con alirocumab rispetto al placebo. Alterazioni delle transaminasi o della CPK erano non comuni e si erano verificati nella stessa percentuale nei due gruppi.Il 37.1% dei pazienti trattati con alirocumab ha presentato livelli di LDL-C inferiori a 25 mg/dl in due misurazioni consecutive, senza tuttavia mostrare un’incidenza di eventi avversi diversa da quella riscontrata nell’intero gruppo di tratta-mento con alirocumab.

Tabella 1. End point oprimario di efficacia e End points secondari nell’analisi Intention-to-treat.

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Eventi cardiovascolariIl trattamento con alirocumab ha presentato una minore incidenza di eventi avversi cardiovascola-ri rispetto a placebo (4.6% vs. 5.1%, P non signi-ficativa). Nell’analisi post-hoc che ha considerato l’end-point composito di MACE, si è osservata

una minore incidenza di eventi nel gruppo ali-rocumab (1.7%) vs il placebo (3.3%) [hazard ra-tio, 0.52, IC intervallo 95%, 0.31 – 0.90, P =0.02].Le curve inerenti l’incidenza cumulativa di tali eventi divergevano progressivamente nel tempo (Fig.2).

DISCUSSIONE

Nel trial ODISSEY LONG TERM, l’inibitore delle PCSK9 alirocumab, confrontato con placebo, ha ridotto i livelli di LDL-C di un ulteriore 62% nei soggetti ad alto rischio quando aggiunto alla te-rapia con statine alla dose massima tollerata, con o senza altra terapia ipolipemizzante. L’effetto è risultato costante durante le 78 settimane di trat-tamento. L’efficacia di alirocumab è risultata simile tra diversi sottogruppi, compresi quelli definiti in base alla presenza/assenza di ipercolesterolemia familiare eterozigote. E’ stata riscontrata una ridu-zione del 26% rispetto al placebo nei livelli di lipo-proteina(a), un dato coerente con quello degli stu-di di fase 2 (4). Gli Autori riportano risultati simili a quelli ottenuti in altri trials clinici condotti con evolocumab (un altro inibitore delle PCSK9), in cui si è osservata una riduzione dei livelli di LDL-C compresa tra il 52 ed il 57% (5,6).

Ad eccezione di una maggiore incidenza di rea-zioni nei siti di iniezione, mialgie, disturbi neuro cognitivi ed oftalmci, complessivamente il far-maco è stato ben tollerato. Secondo gli Auto-ri i rari casi di gravi eventi avversi neurologici osservati con alirocumab sono da imputare a distinte cause immunologiche o infiammatorie, ritenendo improbabile che tali eventi condi-vidano una causa comune come il trattamen-to con alirocumab o i bassi livelli di LDL-C. Gli eventi allergici osservati nel gruppo in terapia con alirocumab, potrebbero invece essere cor-relati al farmaco, poiché le reazioni allergiche sono state associate anche con l’uso di altri an-ticorpi monoclonali. In un’analisi post-hoc sulla sicurezza del farmaco, i pazienti trattati con alirocumab hanno presen-tato durante le 80 settimane di follow-up una fre-

Figura 1. Livelli di colesterolo LDL rilevati durante lo studio (Analisi Intention-to-treat).

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quenza di MACE (end-point composito di morte per malattia coronarica, infarto miocardico non fatale, stroke ischemico fatale o non fatale, o ri-covero in ospedale per angina instabile) inferiore del 48% rispetto ai pazienti trattati con placebo (P<0.002). Tuttavia quando venivano inclusi tutti gli eventi cardiovascolari (ad es. con l’aggiunta di scompenso cardiaco congestizio tale da richie-dere il ricovero e la rivascolarizzazione corona-rica conseguente a ischemia), la differenza tra i due gruppi non era significativa.Secondo gli Autori lo studio presenta diversi li-miti. In primo luogo, sebbene il trial ODYSSEY LONG TERM abbia seguito pazienti trattati per un periodo più lungo della maggior parte degli altri trials con inibitori delle PCSK9, la durata del

follow-up è ancora relativamente breve per un trattamento di una malattia cronica, e sono ne-cessari studi a lungo termine. In secondo luogo l’individuazione degli eventi neurocognitivi è li-mitata dall’assenza di un test neurocognitivo for-male come parte del disegno di studio.Terzo, il numero di eventi cardiovascolari era relativamente piccolo, questo dato limita la robustezza di questi risultati e lascia il dubbio che essi non siano solo un risultato casuale. Una risposta è attesa dal trial ODYSSEY OUTCOMES (ClinicalTrials.gov number, NCT01663402), at-tualmente in corso, destinato a fornire una va-lutazione del beneficio cardiovascolare di aliro-cumab in circa 18000 pazienti durante un arco di tempo di 5 anni.

Figura 2. Analisi post-hoc dell’incidenza cumulativa dei MACE e curve di Kaplan-Meier inerenti l’incidenza cumulativa nel tempo.

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COMMENTO

Il trattamento di prima linea della dislipidemia è rappresentato, come da indicazione delle prin-cipali linee guida internazionali, dalle statine. E’ infatti ben noto che la riduzione del LDL-C con statine riduce il rischio di eventi coronarici e la mortalità per tutte le cause (7) e vi è una chiara relazione tra il grado di riduzione assoluta delle LDL-C ed il grado di riduzione degli eventi car-diovascolari (8). Tuttavia nonostante trattamenti anche massimali, una proporzione sostanziale di pazienti ipercolesterolemici ad alto rischio non raggiunge il target terapeutico previsto in base ai fattori di rischio cardiovascolare, soprattutto quando è richiesto il raggiungimento del target di 70 mg/dl.Gli anticorpi monoclonali mirati all’inibizione della proteina PCSK9 rappresentano un nuovo approccio della terapia ipolipemizzante. L’en-zima PCSK9 è una proteina circolante prodotta principalmente nel fegato e coinvolta nella re-golazione del metabolismo del LDL-C: legandosi ai recettori delle LDL-C ne promuove la degrada-zione, riducendo quindi l’abilità del fegato nel rimuovere il LDL-C circolante. Nel recente passa-to sono state individuate mutazioni a carico del gene che codifica per l’enzima PCSK9 responsa-bili di forme genetiche di ipercolesterolemia fa-miliare (9). La successiva identificazione di mu-tazioni responsabili di una perdita di funzione dell’enzima PCSK9 in grado di determinare una notevole riduzione dei livelli plasmatici di LDL-C ha rappresentato un primo passo per lo studio di questa una nuova classe di farmaci ipolipemiz-zanti (10). Negli ultimi 5 anni sono stati svilup-pati diversi anticorpi monoclonali inibitori della funzione dell’enzima PCSK9, quali evolucumab, alirocumab e bococizumab, che somministrati sotto cute 1 o 2 volte al mese, attraverso la di-struzione dell’interazione tra PCSK9 ed il recet-tore delle LDL-C, sono risultati in grado di de-terminare una consistente riduzione dei livelli di colesterolo superiore al placebo o all’ezetimibe (11,12).I dati presentati in questo studio suggeriscono che l’aggiunta di alirocumab ad un regime te-rapeutico con statine alla posologia massima tollerata sia in grado di ridurre in modo sostan-ziale le LDL-C così da consentire più facilmente il raggiungimento del goal terapeutico e vero-similmente conferire una maggior protezione dall’insorgenza di eventi cardiovascolari. Inoltre,

i dati derivanti dallo studio ODYSSEY COMBO II (12) non solo dimostrano una maggior efficacia di alirocumab rispetto ad ezetimibe nel ridurre i livelli di colesterolo LDL plasmatici in soggetti ad alto rischio cardiovascolare, ma mostrano an-che che la massima riduzione dei livelli di LDL in corso di trattamento con inibitori delle PCSK9 è maggiore con la terapia di combinazione rispet-to alla sola monoterapia, indicando un possibile effetto additivo, o sinergico, di queste due classi di farmaci, come del resto evidenziato anche da-gli studi condotti con evolocumab. E’ poi recentissima la pubblicazione dei risultati degli studi OSLER 1 ed OSLER 2, che sono l’esten-sione a lungo termine di studi di fase II e fase III condotti con evolocumab, in cui si conferma la capacità di evolocumab di ridurre significativa-mente sia i livelli di LDL-C (-60% vs terapia stan-dard, p<0.001) che l’incidenza di eventi cardio-vascolari (hazard ratio 0.47, IC 95% 0.28-0.78, p =0.003) (13).Se da un lato i diversi trials clinici hanno dimo-strato in modo inequivocabile l’efficacia nel ri-durre in modo significativo i livelli plasmatici di LDL-C, una questione ancora dibattuta è se tale riduzione ottenuta con gli inibitori della PCSK9 sia responsabile di un’effettiva minore inciden-za di eventi cardiovascolari. Gli inibitori della PCSK9 hanno lo stesso meccanismo d’azione finale delle statine nella riduzione delle LDL-C, propriamente attraverso l’aumento dell’attività del recettore delle LDL-C situato sulla superficie epatocellulare (14), suggerendo che gli inibitori della PCSK9 possano avere simili effetti favore-voli sugli outcomes cardiovascolari. Elementi a supporto della loro potenziale capacità di ridur-re tali eventi derivano dall’osservazione che le varianti genetiche che causano una riduzione dell’attività di PCSK9 sono state associate con una significativa inferiore incidenza di eventi car-diovascolari nel corso della vita (10). Pertanto la costante riduzione dei livelli di LDL, il meccani-smo di azione di questa categoria di farmaci ed i dati genetici, potrebbero essere all’origine della riduzione della mortalità e degli eventi cardiova-scolari osservati nel trial ODISSEY LONG TERM ed in tutti gli studi di fase II e fase III finora condotti con i diversi anticorpi monoclonali inibitori della PCSK9. Ad ulteriore conferma di questo ruolo degli ini-bitori della PCSK9 nella riduzione della mortalità

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e degli eventi cardiovascolari nei pazienti iper-colesterolemici sembrano intervenire i risultati della metanalisi di Navarese EP e coll. (15), che ha considerato 24 studi di fase II e III, randomizzati e controllati, condotti su adulti ipercolesterolemici, per un totale di oltre 10.000 pazienti randomizzati al trattamento con o senza inibitori della PCSK9. In generale, nei soggetti in terapia con inibitori PCSK9 la metanalisi ha osservato una riduzione del 47% di LDL-C rispetto ai controlli (P<0.001). Inoltre, considerando un end-point primario com-binato tra decessi cardiovascolari e per tutte le cause, gli inibitori della PCSK9 conferivano una ri-duzione del 55% della mortalità (odds ratio [OR] = 0.45 [CI, 0.23 to 0.86], P = 0.015 per la mortalità da tutte le cause) con una riduzione statisticamente significativa dei tassi di infarto miocardico (OR = 0.49 [CI, 0.26 to 0.93], P = 0.030). Solo la riduzio-ne della mortalità cardiovascolare non è risultata statisticamente significativa (OR, 0.50 [CI, 0.23 to 1.10], P  = 0.084). Il tutto senza registrare un au-mento di eventi avversi gravi. I risultati di questa metanalisi sottolineano anche il valore potenziale dell’aggiunta alla terapia standard degli inibitori della PCSK9 che potrebbe risultare particolar-mente utile in quei pazienti che nonostante la terapia massimale non raggiungono i valori attesi di LDL-C, o in quelli con valori basali di LDL-C par-ticolarmente elevati (soprattutto nei pazienti con ipercolesterolemia familiare), o in quelli con dimo-strata intolleranza alle statine.L’altro aspetto dibattuto è rappresentato dal profilo di sicurezza di questa nuova classe di far-maci. Il trial ODYSSEY LONG TERM ha evidenzia-to un’insorgenza di eventi avversi complessivi e gravi simile a quella del gruppo di confronto con terapia standard. Nello specifico in realtà sem-brano più frequenti i casi di mialgie, reazioni nel sito di iniezione, così come disturbi di tipo neu-rocognitivo. Questi risultati sono sostanzialmen-te sovrapponibili a quelli ottenuti nell’estensione dei trial di fase II e III con evolocumab (OSLER 1 e OSLER2)(13), dove tuttavia è stata riportata una maggiore incidenza di disturbi della sfera cognitiva in corso di trattamento con l’inibitore della PCSK9, anche se l’incidenza complessiva è risultata <1%. Al momento non sono segnalati casi di comparsa di anticorpi contro gli inibito-ri della PCSK9. Poco si sa circa gli effetti negativi

a lungo termine derivanti da un’inibizione pro-lungata di PCSK9, tra cui la comparsa di disturbi neurocognitivi e di diabete. Per quanto riguarda i disordini di natura neurocognitiva va segnalato che i soggetti con variante genetica con conse-guente perdita di funzione di PCSK9 non hanno mostrato un maggiore incidenza di tali eventi (16). Per quanto concerne il rischio di insorgen-za di diabete, anche se studi condotti su modelli animali hanno suggerito che l’inibizione PCSK9 potrebbe alterare il metabolismo glucidico (17), tali risultati non hanno finora trovato conferma nei trials clinici fin qui condotti.Quali conclusioni possiamo quindi trarre? Siamo veramente all’inizio di una nuova nel trattamen-to con i farmaci ipolipemizzanti?I dati ad oggi disponibili in letteratura induco-no ad un cauto ottimismo. A fronte dei risultati molto positivi in termini di riduzione dei livelli di LDL-C, va segnalato che i dati altrettanto positi-vi in termini di riduzione degli eventi cardiova-scolari presentano ancora diversi limiti, derivanti talvolta dall’eterogeneità del grado di rischio car-diovascolare dei pazienti inseriti in alcuni studi o dell’intensità di trattamento con statine, vuoi dalla breve durata della maggior parte dei trials, infine dall’esiguo numero di eventi cardiovasco-lari riscontrati finora nei singoli studi. Per stabi-lire quindi il ruolo di questi nuovi agenti nella gestione del rischio cardiovascolare è necessario attendere i risultati dei trials registrativi a lungo termine in cui l’end-point primario è dato dalla riduzione degli eventi cardiovascolari.Al tempo stesso sono necessari ampi studi che prevedano lunghi periodi di follow-up insieme all’esperienza nel mondo reale per caratterizza-re meglio il profilo di sicurezza di questa nuova classe di farmaci. Se il profilo di efficacia e sicurezza degli inibito-ri PCSK9 sarà confermata in questi studi a lungo termine, e se i costi non risulteranno proibitivi, potremo disporre di un’ulteriore arma nel tratta-mento delle dislipidemie.

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17.MbikayM,SiroisF,MayneJ, et al.PCSK9-deficientmiceexhibit impai-red glucose tolerance and pancreatic islet abnormalities. FEBS Lett2010;584:701-6.

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Aterosclerosi e terapia farmacologica

FOCUS ON...

EFFETTO DI TERAPIA COMBINATA CON EZETIMIBE E SIMVASTATINA SULLA REGRESSIONE DELL’ATEROSCLEROSI CORONARICA

IN PAZIENTI CON MALATTIA CORONARICA

Contesto: È stato riportato un effetto additivo di ezetimibe nella riduzione del colesterolo LDL quando associata ad una statina; tuttavia, non è ancora stato dettagliatamente studiato il suo effetto sull’aterosclerosi coronarica. Lo scopo di questo studio è stato valutare l’effetto aggiunti-vo dell’ezetimibe associata ad una statina sull’a-terosclerosi coronarica valutata con ecocardio-grafia intravascolare (IVUS).

Metodi e Risultati: in questo studio prospet-tico aperto sono stati arruolati 51 pazienti con malattia coronarica stabile (CAD) richiedente angioplastica coronarica (PCI); sono stati asse-gnati ad una terapia di combinazione (n=26, rosuvastatina 5mg/die + ezetimibe 10mg/die) o a monoterapia (n=25, rosuvastatina 5mg/die). E’ stata eseguita una analisi IVUS volumetrica al basale e dopo 6 mesi ad un sito non interessa-to da PCI. I livelli di LDL-C erano significativa-mente ridotti nel gruppo di terapia di combina-zione (-55,8%) rispetto a quello di ionoterapia (-36,8%, p=0,004). Il cambiamento percentuale del volume di placca (PV), cioè l’endpoint pri-

mario, risultava più efficacemente ridotto nel gruppo di terapia di combinazione rispetto alla monoterapia (-13,2% vs -3,1% rispettivamente, p=0,050). Inoltre si osservata una significativa interazione gruppo x tempo nell’effetto dei due trattamenti sul PV (p=0,021), indicando che l’ef-fetto regressivo della terapia di combinazione sul PV era maggiore di quello della monoterapia per valori basali di PV nei due gruppi di tratta-mento solo lievemente differenti. In aggiunta, i cambiamenti percentuali del PV mostravano una correlazione positiva con i cambiamenti percentuali di LDL-C (r=0,384, p=0,015).

Conclusioni: la terapia di riduzione intensiva del colesterolo con l’aggiunta di ezetimibe alle dosi usuali di statina può garantire una riduzione in-crementale delle placche coronariche rispetto alla monoterapia.

MasudaJ1,TanigawaT,YamadaT,etal,Effectofcombinationtherapyof ezetimibe and rosuvastatin on regression of coronary atheroscle-rosis in patients with coronary artery disease, Int Heart J. 2015 May13;56(3):278-85

A cura di Gabriele Dell'Era SSC Universitaria di Cardiologia, AOU Maggiore della Carità, Novara

[email protected]

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REGRESSIONE DI PLACCA CAROTIDEA INDOTTA DA ROSUVASTATINA IN PAZIENTI CON MALATTIA ARTICOLARE INFIAMMATORIA:

LO STUDIO RORA-AS

Contesto: i pazienti con artrite reumatoide (RA) e placca carotidea (CP) hanno un rischio aumen-tato di sindromi coronariche acute. Il trattamento con statine con target LDL-C minori o uguali a 1,8 mmol/L (70 mg/dl) è raccomandato per pazienti con CP nella popolazione generale. Nello studio ROsuvastatin in Rheumatoid Arthritis, Ankylosing Spondylitis and other inflammatory joint diseases (RORA-AS), lo scopo è stato valutare l’effetto di un trattamento di riduzione intensiva di coleste-rolo della durata di 18 mesi con rosuvastatina sulla riduzione dello spessore di CP.

Metodi: 86 pazienti (60,5% femmine) con CP e malattia infiammatoria articolare (IJD) (RA in 55 pazienti, spondilite anchilosante in 21, artrite psoriasica in 10) sono stati trattati con rosuvasta-tina fino al target di LDL-c. Lo spessore di CP ve-niva valutato con ecografia bidimensionale

Risultati: l’età (media ± deviazione standard) era 60.8±8.5 anni; la compliance mediana all’uso di rosuvastatina era 97,9% (range interquartili, IQR, 96,0-99,4). Al basale il numero mediano e lo spessore di CP erano 1,0 (range 1-8) e 1,80 mm (IQR 1,60-2,10), rispettivamente. La variazione di

spessore di CP dopo 18 mesi di terapia con ro-suvastatina era -0,19±0,35mm (p<0,001). I libel-li basali e la variazione di LDL-C erano 4,0±0,9 mmol/L (154,68±34,80 mg/dL) e -2,3±0,8 mmol/L (88,94±30,94 mg/dL) (p<0,001). I livelli medi di LDL-C durante i 18 mesi di trattamento con ro-suvastatina erano 1,7±0,4 mmol/L (65,74±15,47 mg/dL). Non si osservava relazione lineare tra la riduzione di spessore di CP e l’esposizione a LDL-C durante il periodo di studio (p0,36) (aggiu-stato per età/genere/pressione arteriosa). L’otte-nimento di un target LDL-C inferiore o uguale a 1,8 mmol/L (70 mg/dL) o l’entità della riduzione dell’LDL-C durante il periodo di studio non in-fluenzava l’entità di riduzione dello spessore di CP (p=0,44 e p=0,46).

Conclusioni: un trattamento ipolipemizzante in-tensivo con rosuvastatina induceva una regres-sione dell’aterosclerosi ed una riduzione dell’L-DL-C significative in pazienti con IJD.

RollefstadS1, Ikdahl E, Hisdal J, et al, Rosuvastatin induced carotidplaqueregressioninpatientswithinflammatoryjointdiseases:TheRO-RA-ASstudy,ArthritisRheumatol.2015Mar16[Epubaheadofprint]

REGRESSIONE DI PLACCA CON INIBITORI DI ASSORBIMENTO O INIBITORI DI SINTESI DEL COLESTEROLO VALUTATA CON ECOGRAFIA INTRAVASCOLARE

(PRECISE-IVUS TRIAL): PROTOCOLLO PER UNO STUDIO RANDOMIZZATO CONTROLLATO

Contesto: sebbene sia stata confermata l’asso-ciazione positiva tra i livelli di LDL-C e il rischio di malattia coronarica (CAD) in studi randomizzati con statine, molti pazienti rimangono ad elevato rischio di eventi, suggerendo la necessità di nuo-ve strategie farmacologiche. La combinazione di ezetimibe/statine produce una maggiore ridu-zione dell’LDL-C a confronto con la monoterapia con statine.

Obiettivi: lo studio Plaque REgression with Cholesterol absorption Inhibitor or Synthe-sis inhibitor Evaluated by IntraVascular Ultra-Sound (PRECISE-IVUS) mira a valutare gli effetti dell’aggiunta di ezetimibe ad atorvastatina, a

confronto con la monoterapia con atorvasta-tina, sulla regressione delle placche coronari-che e il cambiamento dell’assetto lipidico in pazienti con CAD.

Metodi: questo è uno studio prospettico, ran-domizzato, controllato, multicentrico. I pazienti eleggibili sottoposti a angioplastica coronarica IVUS-guidata saranno casualmente assegnati a trattamento con sola atorvastatina o atorvastati-na + ezetimibe (10mg/die). Il dosaggio di atorva-statina sarà titolato secondo le dosi correnti con un obbiettivo di LDL-C inferiore a 70 mg/dl sul-la base di determinazioni seriate di LDL-C. Sarà eseguita IVUS al basale ed a un follow-up di 9-12

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mesi presso il centro arruolante. L’endpoint pri-mario sarà la variazione nominale nella percen-tuale di volume di ateroma coronarico valutata con IVUS volumetrica

Conclusioni: lo studio PRECISE-IVUS valuterà se l’efficacia della terapia di associazione ezetimi-be/atorvastatina è non inferiore alla sola atorva-statina nella riduzione della placca coronarica; si

tradurrà in un aumentato beneficio clinico della duplice strategia di trattamento del colesterolo in una popolazione giapponese.

TsujitaK1,SugiyamaS2,SumidaH,etal,PlaqueREgressionwithCholesterol absorption Inhibitor or Synthesis inhibitor EvaluatedbyIntraVascularUltraSound(PRECISE-IVUSTrial):Studyprotocolfor a randomized controlled trial, J Cardiol. 2015 Jan 7 [Epubaheadofprint]

RUOLO DI PCSK9 AL DI LÀ DEL METABOLISMO EPATICO

Contesto: La pro proteina convertasi subtilisina kexina tipo 9 (PCSK9) agisce come un inibitore endogeno della via del recettore delle LDL, se-gnalando il recettore ai lisosomi per la degrada-zione. Accanto al fegato, PCSK9 è anche espres-sa a livelli significativi in altri tessuti, dove la sua funzione rimane non chiarita. Questa revisione si focalizza sulle azioni extraepatiche di PCSK9.

Scoperte recenti: la produzione di topi knock-out per PCSK9 fegato-specifica ha mostrato chia-ramente che PCSK9 influenza l’omeostasi del colesterolo attraverso la sua azione sugli organi extraepatici. PCSK9 è altamente espressa nell’inte-stino, dove controlla la produzione di lipoproteine ricche di trigliceridi e l’escrezione trans intestina-le di colesterolo. Il ruolo di PCSK9 nel pancreas endocrino e nell’omeostasi glucidica rimane non chiarito a causa dell’esistenza di dati contrastanti

circa il fenotipo metabolico dei topi deficitari di PCSK9. Dati isolati suggeriscono che PCSK9 possa giocare un ruolo a livello renale, delle cellule mu-scolari lisce vascolari e dei neuroni.

Conclusioni: sulla base della combinazione vir-tuosa di approcci genetici e farmacologici, è rapi-damente emersa la funzione principale di PCSK9 come regolatore chiave del metabolismo epati-co del recettore LDL. Crescenti evidenze indica-no che la PCSK9 intestinale è anch’essa coinvol-ta nell’omeostasi lipidica. Studi aggiuntivi sono necessari per decifrare la funzione fisiologica di PCSK9 in altri tessuti extraepatici e per meglio valutare la sicurezza degli inibitori PCSK9.

CariouB1,Si-TayebK,LeMayC,RoleofPCSK9beyondliver involve-ment,CurrOpinLipidol.2015Jun;26(3):155-61.

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Il cuore sinonimo della vitaQuinta e ultima parte

MEDICINA e MORALE

Aristotele partiva dalla convinzione che esistesse una netta dicotomia tra regione celeste e regione terrestre o sublunare: i cieli costituivano il regno dei moti che non si fermano mai, perché gli astri risultavano fatti di etere, cioè di una sostanza che non si consuma nel movimento; la terra era inve-ce il regno dei moti che si fermano sempre, per-ché ogni sostanza terrestre si consuma nel suo movimento. Le sostanze che si mantenevano sempre in mo-vimento senza mai consumarsi o logorarsi ese-guivano necessariamente dei perfetti moti circo-lari uniformi. Il corso degli astri rappresentava la prova schiacciante dell’esistenza di un nesso di reciproca implicazione tra moto non dissipati-vo della sostanza in movimento e circolarità del moto: ogni sostanza che non si consuma nel suo continuo movimento non può avere altro che un movimento circolare. Le sostanze terrestri, destinate a consumarsi nel corso dei loro processi, ovviamente, non pote-vano invece dar luogo a dei moti rigorosamente circolari, ma solo a dei moti periodici discontinui che rappresentavano la loro unica possibilità di imitazione degli eterni moti circolari dei cieli. Per giunta, lo stesso mantenimento dei processi ci-clici terrestri in una condizione di incessante rei-terazione poteva essere garantita solo dagli eter-ni moti circolari. In sintesi, secondo Aristotele, la continua reiterazione dei processi ciclici terrestri era l’effetto di un’azione causale di mantenimen-

to-rigenerazione esercitata dai moti circolari degli astri e del sole in particolare; era insomma l’espressione di un sovrastante macrodetermini-smo astrale o di una “dinamica circolo-ciclo”, in cui gli eterni moti circolari degli astri, fatali ruo-te di un implacabile scadenziario, regolavano il ritmo delle vicende cicliche terrestri, la cui con-tinua reiterazione era assicurata dalla continua rotazione delle stelle fisse. Era fin troppo ovvio che il peso schiacciante di questa dinamica si avvertisse anche nella spiega-zione delle continue alternanze dei flussi sangui-gni e della continua attività pulsante del cuore. La ricerca delle cause che mantenevano il cuore sempre in movimento finiva inevitabilmente col legare la conservazione del moto cardiaco alla causalità conservante dei moti circolari celesti. Dietro le tradizionali correlazioni fra il moto del sangue nel corpo e il moto circolare degli astri, dietro l’indiscussa credenza che tutti i processi ciclici terrestri imitavano i moti circolari delle sfe-re celesti, si trovava, in realtà, quale baricentro di tutta la tradizione biomedica antica, il paradig-ma circolo-ciclo, che spiegava la lunga ricorsività di qualsiasi processo ciclico terrestre in base alla causalità conservante esercitata dai cieli. Non deve quindi apparire strano che per quasi due millenni si scorgesse nel ritmo cardiaco l’imita-zione del circolo solare e nel ventricolo sinistro la presenza di princìpi di moto quasi circolari, quali gli eterni circoli dell’anima immortale o una so-

Prof. Paolo Rossi

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stanza eterea analoga all’incorruttibile materia dei cieli. In fin dei conti, l’etereo pneuma inna-to, il fuoco innato o i circoli dell’anima, collocati via via nel cuore, non erano altro che i princìpi richiesti dall’esigenza di dare un nome alla ce-lestiale causa che manteneva il cuore sempre in movimento. Che sotto il suo pulsare agisse un principio dinamico di ascendenza celeste era in-fatti una certezza confermata allora anche dalle più solide teorie dinamiche e cosmologiche.Gli sviluppi della cardiologia antica non scalfi-rono il predominio di questo paradigma circo-lo-ciclo, che restò lo sfondo teorico della fisiolo-gia per più di due millenni. Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Iulide, i due più grandi medici della scuola alessandrina, con il ricorso sistema-tico alla dissezione anatomica e forse anche alla vivisezione di condannati a morte, descrissero attentamente le valvole e le cavità del cuore, elaborando un raffinato sistema diagnostico in-centrato sull’analisi delle pulsazioni. In alterna-tiva a quello aristotelico, avanzarono anche un modello fisiologico di tipo pneumatico, in cui si assimilava il funzionamento del cuore a quello di una pompa, che non riscosse però ampi consensi a causa del prevalere della poderosa sintesi ela-borata da Claudio Galeno di Pergamo (129-200 ca.), vero gigante della medicina antica. Riprendendo il modello fisiologico triadico di matrice platonica, Galeno rielabora la fisiologia ippocratica alla luce del finalismo aristotelico, delle conoscenze anatomiche della scuola di Alessandria e della cosmologia stoica. «L’animale quando nasce - scrive Galeno - viene dotato di tre princìpi: uno è collocato nella testa, e le sue attività in sé sono la fantasia, il ricordo, il pensiero e la ragione [.]. Il secondo se ne sta nel cuore, e la sua attività di per sé consiste nel dar vigore all’anima, fermezza nel compiere ciò che la ragione comanda e costanza (caratteristi-ca, questa, assimilabile all’ebollizione del calore innato) quando la ragione vuol punire chi abbia commesso ingiustizia. Quanto poi al resto del corpo, (il cuore) è il principio del calore e delle pulsazioni, rispettivamente, sia delle parti che delle arterie».

Galeno supponeva che il sangue prodotto dal fegato (sede dell’anima vegetativa, dello spirito vitale ed origine delle vene) venisse trasportato dalle vene e assorbito dagli organi, allo stesso modo in cui il terreno irrigato assorbiva l’acqua. Durante questo tragitto una piccola parte del sangue passava dall’atrio al ventricolo destro e da qui una parte veniva inviata ai polmoni per alimentarli e un’altra piccolissima parte passava dal ventricolo destro a quello sinistro attraverso dei sottili pori che dovevano essere presenti nel setto interventricolare. Con geniale intuito Gale-no paragonava l’organismo vivente ad una lam-pada: il lucignolo era il cuore e il sangue era l’olio che bruciava in virtù dell’aria ricca di pneuma as-sorbita attraverso la respirazione.Né la medicina monastica, né quella islamica e neppure le raffinate descrizioni e osservazioni anatomiche del cuore ad opera di Andrea Ve-salio (1514-1564) e di Leonardo da Vinci (1452-1519), si discostarono mai dall’idea di fondo se-condo cui la ricerca delle cause dell’incessante moto del cuore era il problema fondamentale della cardiologia. Questa idea, tutt’altro che priva di conseguenze, svolse la funzione di un vero e proprio ostacolo epistemologico, che impedì per secoli la nascita di qualsiasi nozio-ne di cardiopatia. La tradizione antica, medioevale e rinascimen-tale apparirà, infatti, sempre restia a ricercare in ambito strettamente cardiologico le cause della morte naturale. Dietro la veneranda concezione del cuore come principio e fine delle funzioni vi-tali, come primum vivens ed ultimum moriens, si nascondeva in realtà l’imponente dogma car-diolatrico secondo cui l’arresto cardiaco naturale sarebbe sempre la conseguenza dell’arresto di altre funzioni vitali e non viceversa. Il cuore, insomma, proprio per la natura quasi ce-leste del suo incessante moto, non poteva essere visto come un organo soggetto a disfunzioni e malattie. Tutto ciò attestava che l’interesse fon-damentale di tutta la cardiologia antica era ri-volto non alla spiegazione dell’arresto del cuore, bensì esclusivamente alla spiegazione della sua lunga vitalità.

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IL CUORE NELLA MODERNA MEDICINA SPERIMENTALE

Nonostante le incongruenze della tradiziona-le fisiologia cardiovascolare evidenziate dalle scoperte di Vesalio, Michele Serveto, Andrea Cesalpino, Realdo Colombo e Girolamo Fabrici d’Acquapendente, fino al Seicento la meccanica cardiovascolare era vista come una continua al-ternanza di produzione e di consumo (assorbi-mento tissutale) di due tipi di sangue distribuiti da due sistemi di vasi (quello venoso e quello ar-terioso) non intercomunicanti e completamente indipendenti. Il fatto che di volta in volta venisse interamente consumato il sangue prodotto dagli organi emopoietici implicava l’inevitabile ridu-zione del flusso sanguigno ad un’alternanza cicli-ca di produzioni-assorbimenti, incapace di per sé di assumere l’andamento di un moto veramente circolare. Nel 1628, quando William Harvey (1578-1657), il padre della medicina sperimentale, mostrò attraverso semplici esperimenti e sicuri calcoli che nell’arco di un’ora il cuore espelle da sé una quantità di sangue superiore al peso di un uomo, dimostrò inequivocabilmente che il sangue è una sostanza che si conserva lungo il suo fluire attraverso il corpo e che quindi non può esse-re prodotto e consumato tutto in una volta da nessun organo. Ma una sostanza che si conser-va senza consumarsi nel suo continuo fluire non può avere, come già aveva codificato Aristotele, che un moto circolare. Grazie alla fedeltà di Harvey all’antico principio aristotelico, secondo cui ogni sostanza che non si consuma nel suo continuo movimento deve muoversi di moto circolare, sarà proprio la sco-perta harveiana della conservazione del sangue lungo il suo fluire a dettare l’idea della circolazio-ne del sangue, e non viceversa. A rigor di termini, quella di Harvey può essere definita innanzitutto come la scoperta della conservazione del sangue e, solo in senso derivato, come la scoperta della circolazione del sangue.Concepito il flusso del sangue come un moto circolare e quindi come un moto auto-conser-vativo, l’intero apparato cardiovascolare finì con l’apparire un sistema dinamico auto-conservati-vo. La stessa struttura fibrosa del cuore, secondo Harvey, mostrava che la sua principale funzione consisteva nella contrazione, nella sistole e quin-di nell’espulsione del sangue fuori dal cuore e non nella diastole, come si pensava anticamente, quando si credeva che la funzione primaria del

cuore consistesse nel risucchiare il sangue all’in-terno delle cavità cardiache. Nell’ottica harveiana il cuore appariva non solo come il vero motore della circolazione del san-gue, ma anche come un organo dotato di un di-namismo interno di tipo auto-conservativo. Ma una volta inteso come un sistema pulsante dota-to di una propria intrinseca capacità di conservar-si in continuo movimento, la fisiologia cardiaca si svincolava dai tradizionali rinvii ai circoli celesti e dalle abusate analogie sole-cuore. Da allora in poi il suo problema principale consisterà non più nella spiegazione del continuo movimento del cuore, ma piuttosto nella ricerca delle cause del suo arresto. Con questa rivoluzionaria trasforma-zione della problematica cardiologica, incentrata più sulla cardiopatia che sull’antica cardiolatria, sorgeva la moderna fisica della vita e tramontava la cosmo-medicina antica.Cartesio (1596-1650), in polemica con Harvey, cercherà di dare una spiegazione completamen-te meccanica del moto del sangue e del cuore, considerato ora come il principale mantice della macchina del corpo. La metodologia sperimen-tale e l’utilizzazione del microscopio riuscirono progressivamente a svelare l’intero enigma del cuore. Da Marcello Malpighi, scopritore delle ana-stomosi capillari, a Sénac, autore del primo testo di patologia cardiovascolare, dalla comprensio-ne della fisiologia della respirazione a seguito della scoperta dell’ossigeno ad opera di Lavoi-sier al cateterismo cardiaco inaugurato da Claud Bernard e perfezionato da Werner Forssman, lo sviluppo conoscitivo della cardiologia subisce un’accelerazione esponenziale. Non è qui il caso di delineare l’affascinante storia di questo svilup-po, già ampiamente analizzato dalla storiogra-fia. Ciò che invece merita di essere ricordato è la grande accelerazione data alla comprensione del sistema cardiovascolare dal grande sviluppo del-la strumentazione cardiologica. Dall’apparecchio per misurare la pressione arteriosa allo steto-scopio di Laennec, dall’elettrocardiografia (con-seguente alla scoperta della bioelettricità dei tessuti neuromuscolari, con Galvani e Matteuc-ci, e alla scoperta della differenza di potenziale elettrico tra una zona di tessuto eccitato e una zona a riposo) alla modellizzazione matematica del battito cardiaco ad opera di Balthasar Van der Pol, dal pacemaker alla TAC, alla RMN e alla eco-cardiografia, l’evoluzione tecnologica della stru-

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mentazione diagnostica ha svelato tutti i segreti del cuore. Ma tappezzata di ancor più vistosi successi è la recente storia della cardiochirurgia, che dall’ef-fettuazione del by-pass aorto-coronarico all’in-troduzione di protesi valvolari, dalla macchina cuore-polmoni per la circolazione extracorporea al trapianto di cuore e infine all’impianto di cuore artificiale, parrebbe aver dissolto tutti gli enigmi del cuore sostituendoli con la chiarezza funzio-nale di una macchina priva di segreti.Giudicati solo con gli occhi dell’analisi scienti-fica, i misteri della vita, del pensiero e della co-scienza non si nascondono più nelle profondità insondabili del cuore, ma paiono essersi spostati sulle frontiere del codice genetico e del rappor-to mente-corpo. I recenti sviluppi della cardio-logia hanno completamente ribaltato l’idea di Harvey secondo cui solo Dio poteva conoscere la fisiologia del cuore. Con questo ribaltamento, tutta la complessa rete di concezioni antropolo-giche, psicologiche, spirituali e mistiche, costru-

ita anticamente intorno al cuore dell’uomo, non conserva più il suo originario legame con il più nobile e solare degli organi umani. Non è quin-di sorprendente che gli stessi reticoli semantici costruiti nel passato intorno al cuore siano sta-ti sottoposti a slittamenti di significato tali da mutare completamente il senso originario dei loro snodi concettuali. Ne è un chiaro esempio il mutamento di significato subito in epoca mo-derna dall’espressione verbale «credo». Secondo l’etimologia latina credo significa «cor do» cioè «offro o dono il mio cuore». Pertanto l’afferma-zione «credo in Dio» significava originariamente: offro il mio cuore, la mia vita, la mia anima, la mia adorazione a Dio, l’Essere che esiste per se stes-so. Ora, invece, nel linguaggio comune, essa pare rimandare piuttosto al significato di accettazione di un’opinione incerta, forse solo di una speran-za. Il ricordo del suo significato originario può, in proposito, offrire più di uno spunto di riflessione.Da, Cuore 2002 Lino Conti (Documentazione in-terdisciplinare di scienza e fede).

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