La Nazione 150 anni PONTEDERA

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI www.lanazione.it Pontedera 150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DIwww.lanazione.it

Pontedera150 ANNI di STORIA

ATTRAVERSO LE PAGINEDEL NOSTRO QUOTIDIANO

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sommario5

Pontedera Risorgimentaleaccolse dall’inizio La Nazione

7Per annettere la LombardiaQuaranta milioni di fiorinida pagare all’Austria

9Giorgio Batini si racconta“La mia cronaca vissuta e poi scritta”

10Giorgio Batini si raccontaI grandi nomi del giornalismoCompagni di viaggio

11Giorgio Batini si raccontaLe notti in via Ricasoli

13Un’intervista a Gastone De Anna“Ecco come feci nascerele edizioni provinciali”

17Un ponte che si fece cittàfinché non arrivò la Piaggio

191902: è il primo incidente d’auto(e per poco non finisce in linciaggio)

20Pontedera 1973La Vespa conquista il mondoe nasce la prima redazione

21Quindici giornalisti per quaranta anni

23I Pettinelli, una saga familiareda Fausto fino al giovane Orazio

24La saga dei PettinelliQuando il Podestà evitò una strage

27Momenti di gloria nella boxe(ma anche nel canottaggio)

29La Nazione in difesa di Volterrauna lotta che continua da decenni

30Santa Croce: la capitaledel cuoio e delle pelli

Supplemento al numero odiernode LA NAZIONE a cura della SPE

Direttore responsabile:Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori:Mauro Avellini Piero GherardeschiAntonio Lovascio (iniziative speciali)

Direzione redazione e amministrazione:Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI)

Hanno collaborato:Mario MannucciMauro BertiniFausto PettinelliGiovanni Pinori

Progetto grafico:Marco InnocentiLuca ParentiKidstudio Communications (FI)

Stampa:Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità:Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE:V.le Milanofiori Strada, 3Palazzo B10 - 20094 Assago (MI) Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203

PONTEDERA150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

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PONTEDERA RISORGIMENTALEACCOLSE DALL’INIZIO LA NAZIONEI suoi giovani avevano già partecipato alla battaglia di Curtatone e MontanaraCosì nacque a Firenze il quotidiano più antico d’Italia

Nel tondo in alto: Un gruppo di funai.

Il loro era un lavoro molto duro perché si svolgeva in gran

parte all’aria aperta e costringeva gli ad-detti ad una grande

fatica fisica.

Nel tondo in basso: l’uscita delle opera-ie dallo stabilimen-to Cucirini Fratelli Ricci, una delle più grandi manifat-ture toscane con centinaia di donne al lavoro.

Palazzo Vecchio. Chiese loro di redigere e stampare il primo numero de La Nazione per l’indoma-ni. I tre presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemon-tes, e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, les-se le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizio-ne senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indica-zioni di legge, i prezzi per l’abbo-namento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro gior-nale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamen-te capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modifi-care il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? Fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quoti-diana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insom-ma, da grande foglio risorgimen-tale carico di tensioni ideali, a

giornale come oggi lo intendia-mo. Con rubriche dedi-cate alla moda, allo sport, con spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Rese pos-sibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghe-sia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi.

Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi.

Dopo aver ospitato Papini, Prez-zolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra. Queste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sem-

pre riuscì a trovare le energie per risollevarsi. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del Re, la spiegazio- ne data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legitti- ma, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi origi-nali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.”

Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fasci-smo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime.

Pontedera visse le passioni risorgimentali con l’iden-tica partecipazione della

vicina Pisa e della stessa Firenze. Per questo, quando La Nazione nacque nel 1859, c’erano già le premesse perché a Pontedera ci fossero lettori, e da Pontedera arrivassero, saltuariamente, le prime corrispondente per il foglio di Ricasoli.

Nascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi.

Questo era stato fin dal primo giorno, il destino del nostro quotidiano. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al gior-nale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Betti-no Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimen-to” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola alla notizia dell’armisti-zio di Villafranca. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipen-denza all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una fede-razione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa.

Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimi-

se. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano, Bettino Ricasoli appunto. Era la sera del 13 luglio e Ricasoli chia-mò Puccioni, Fenzi e Cempini in

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IL TRATTATO DI PACE

Ecco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22

ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguen-za dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipenden-za. Colpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascurato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemonte infatti, per avere la Lombardia, in qualche modo conquistata sul campo di battaglia, occorre versare una cifra considerevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appa-re chiaro che la gran parte dei debiti dell’Istituto finanziario

Il 22 ottobre del 1859 i lettori de

La Nazione per la prima volta rice-

vono in omaggio un supplemento di particolare valore

storico.

Per annettere la Lombardia

Quaranta milioni di fiorini da pagare all’AustriaGli aspetti economici della pace che seguì a VillafrancaIl primo supplemento nella storia de La Nazione

finisce proprio a carico dei Sa-voia. E allora, il sangue versato a Solferino dalle armate vittoriose dei patrioti? L’altro aspetto riguarda il ti-more che l’Italia Unita voglia in qualche modo rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimenti re-ligiosi” e in genere della Chiesa. Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e fran-cesi volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lom-bardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confra-ternite religiose. Altro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.

Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi e inglesi riproducono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco.L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Pie-monte pagherà le pensioni accordate precedente-mente dal Governo lombardo.Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo Vene-to: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiuta-mente ottenuto soltanto da un sistema che rispon-da ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di

cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei territori degli stati indi-pendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle potenze che concorsero a formarli, garanten-do la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressamente riservati alle potenze contraenti.I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Ita-liani, collo scopo di conservare all’Italia l’indipen-denza e l’integrità, assicurare il benessere morale

e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale.La Venezia resta sotto lo scettro dell’Imperatore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteci-perà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabilito fra gli stati italiani.Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifi-che saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre liberamente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompa-tibile colle le leggi del nuovo governo.

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Non sono stato un gran giornalista (pochi, del resto, sono quelli che

riescono a vivere con l’autoe-logio incorporato), però me la sento di dichiarare che sono stato un giornalista particolare, forse un esemplare in estinzione nell’odierna “fauna” della carta stampata, cioè un personaggio che viveva la vita piuttosto che limitarsi a raccontarla. Stiamo parlando, grosso modo, dei lontani anni Cinquanta-Sessanta, quando io mi sentivo appassionatamente cronista fiorentino, non sognavo di anda-re alle Galapagos, ma correvo le mie avventure in via dell’Agnolo o in via del Drago d’Oro, non mi imbarcavo sulla bananie-ra diretta verso porti esotici, ma inforcavo la bicicletta, una scarcassata bicicletta che aveva ancora avvolto alla canna nera del telaio un argenteo bollo da dieci lire. E come fanno i grandi inviati di ritorno dall’Orinoco, anch’io scrissi un libro di ritorno dal viuzzo di Monteripaldi, uno dei miei libri ormai introvabili – “Uomini per Madama” – e se Beppe Pegolotti parlava inglese e il vecchio Renzo Martinelli anche il bantù, io parlavo cor-rettamente in gergo e invece di pistola dicevo la “ribattina”, la “rabbiosa”, la “baiaffa”, invece di polizia la “giusta”, la “madama”, e invece di prigione la “buiosa”. Sapevo meglio dello Smilzo come si fa lo “sfilo”, magari il “tappeto” sotto il letto della Ma-resca per prendere il portafogli al cliente indaffarato, quelli del-la banda del buco erano come di famiglia, sapevo dei furti di Vele-no quasi in tempo reale, andavo

Giorgio Batini si racconta

“LA MIA CRONACAVISSUTA E POI SCRITTA”Ho sempre voluto partecipare agli eventi, anziché limitarmi a raccontarli. L’alluvione, la misteriosa “Bambagia” degli Ufo, il ritorno dei Pollaiolo agli Uffizi. Così feci per il VajontUn grande giornale dalla centenaria tradizione d’indipendenza

e venivo in casa di Palle Secche (una porta d’entrata, tre possi-bili vie d’uscita), a volte arrivavo nel vicolo dove c’era il morto prima del brigadiere, e un gior-no trovai nei boschi e caricai in macchina un pezzo d’uomo che aveva fatto a fette la moglie con la scure, lo tranquillizzai (“sono cose che succedono in tutte le famiglie”) e lo portai fino alla prima stazione dei Carabinieri; in altra occasione – per avere la foto di una vittima che la “giu-sta” aveva già portato via – mi feci fotografare sdraiato in terra con sopra un lenzuolo, dal quale però spuntavano le mie scarpe, mentre nelle foto dei giornali concorrenti la vittima era scalza. Indagavo come uno della “mo-bile” (proprio come in certi libri di detectives americani che però non leggevo), riferivo ai lettori della Nazione anche i risultati delle mie personali indagini, e poteva succedere che – doman-dando in questura cosa avesse confessato l’autore di un delitto – mi si rispondesse “quello che lei ha scritto ieri sul giornale...”. “Invece di scrivere la cronaca di Firenze – mi diceva un direttore (Alfio Russo), tra il corruccia-to e il compiaciuto – tu fai la cronaca, insomma partecipi…”. Era vero, stavo più in giro che in ufficio, e questo accadde ancora di più quando il proprietario del giornale mi comprò la prima “Vespa”, e poi una moto Gilera, il che fece scalpore tra i colleghi, tutti ciclisti.

Giorgio Batini (a de-stra nella foto) alla

stazione di Santa Maria Novella di

Firenze con il pro-fessor Ugo Procaci (che tiene, felice la valigetta con i due

Pollaiolo recupe-rati da Siviero) e il

vicesindaco Enzo Enriques Agnoletti.

dal volume “la mia vita” di Giorgio Batini

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Ringrazio il destino di avermi fatto appartenere alla Nazione, un grande giornale di centenaria tradizione di libertà e d’indi-pendenza, che non mi ha mai imposto alcunché, permettendo-mi di essere, e di restare sempre, quello che intendevo essere. E probabilmente, non avrei avuto altrove l’onore di lavorare con compagni di viaggio come Micheli, Mattei, Yambo, Taddei, Vitali, Pegolotti, Martinelli, Gigli, Poesio, De Anna, Goggioli, Pa-loscia, Passetti, Magi, Pizzinelli, Frosali, Mazzuoli, Della Santa, Ragionieri, Forti, Marcolin, Scelba, Silvano Galli, Bertuccelli, Apollonio, Basevi, De Carli, Chirici, Gozzini, Bucciolini, Cartoni e tanti altri, tutti laureati in coerenza ed equilibrio, in fermez-za, dignità, prestigio, tutti modelli del vivere, del partecipare, dello scrivere. Tra i miei più commossi ricordi c’è quello di un giovane, intraprendente guardiacaccia maremmano che sul co-modino della sua camera di Capalbio teneva a portata di mano i racconti venatori di Aldighiero, mio padre, gran cacciatore al cospetto di Dio, e poi si guadagnò i galloni di giornalista, di-venne mio fraterno amico, dalle frequenti confidenze, quasi un figlioccio; e una volta mi invitò a pranzo a Macchiascandona, e vuotò tutto il sacco dicendo che lui non era andato più lontano, con la barca, delle isole dell’Arcipelago, ma questa volta dove-va affrontare l’Atlantico per vedere con i propri occhi se quello che raccontava il coraggioso navigatore solitario Fogar e che lui aveva riferito, rispondesse alla verità. Una verifica che lui doveva ai lettori, a se stesso. E voler conoscere quella verità gli costò - povero Mauro Mancini - la vita, gli affetti più cari, quel suo sconfinato amore per il mare.

Compagni di viaggio

Ero molto amico dei “grandi” come Indro e Curzio, e “amico di pen-

na” di Prezzolini, che non ho mai visto. Lui, al tempo della “Voce”, frequentava a Firenze, alla Consuma e alla Verna, mia madre che era amica della pri-ma moglie Dolores. Come si sa se ne andò in America per poi stabilirsi in vecchiaia a Lugano,

senza più tornare a Firenze. Non voglio esagerare, ma in

certi momenti mi sembra-va di stare a Firenze per conto di Prezzolini che mi scriveva per sapere questo e quello, per verificare cose del lon-tano passato. Ricordo lettere di una scrittura minuta, tutta gettata di

traverso, in diagonale sulla carta da lettere.

Lusingato, consideravo ogni lettera un onore, un

premio. Ero a Londra quando lessi sul Corriere della scom-parsa di Enzo Grazzini, nota firma del quotidiano milanese,

Un momento della festa per il centenario de La

Nazione.Da sinistra: Silvano

Galli, Laura Griffo, Giorgio Batini,

il direttore Alfio Russo, Omero

Zaccherini direttore di tipografia e Paolo

Bugialli.

che conosciutomi da ragazzo aveva previsto il mio futuro professionale. In età avanzata amava molto le storie di cani, gatti, animali, e quando veniva a Firenze mi chiedeva se per caso ne avessi una, e così gli raccon-tavo di quel cane lupo del can-tiere comunale delle Cascine che era stato incaricato di catturare una volpe fuggita dal piccolo Zoo e che invece ci giocava tutte le notti, o di una scimmia che girava libera per San Frediano, che rubava il cibo dalle cucine, che scandalizzava le suore di un convento, che finita allo zoo muoveva una zampa con estre-ma rapidità tra le sbarre della gabbia e rubava gli occhiali ai visitatori. Rubò anche quelli di un prefetto. La storia che più piacque a Graz-zini fu quella di un cane che tutti i giorni saliva su un treno che fermava a Campiglia Marittima, mangiava al vagone ristorante, scendeva a Livorno, prendeva un altro treno e tornava a Cam-piglia.

Giorgio Batini si racconta

I grandi nomidel giornalismo

Nelle foto a sinistra: Indro Montanelli con la sua inseparabile “lettera 22” sulle ginocchia e Curzio Malaparte che fu inviato speciale de La Nazione negli anni Cinquanta.

Arch

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Da sempre, quel che è fatto è reso. E siccome la cronaca prendeva

viva e diretta parte nella vita cittadina, la città considerava il giornale un luogo cittadi-no, di visite e d’incontri, e via Ricasoli, specialmente di notte, era frequentatissima: arrivava l’ambasciatore, il ministro, l’onorevole, il prefetto, il gene-rale, che volevano parlare con il direttore, qualche pittore che andava da Paloscia a dirgli di una nuova mostra, giovanottoni della palla a nuoto in visita da Goggioli, campioni delle due ruote da Liverani, magari un ca-pocomico da Bucciolini, spesso Mike Bongiorno che andava a chiacchierare con Paolo Bugial-li e Laura Griffo.

Il proprietario di una riserva di caccia che veniva ad of-frirmi un gatto selvatico per

lo Zoo delle Cascine (era finito in una trappola, mangiava due piccioni al giorno: poi morì e fu imbalsamato alla Specola) in-contrava per le scale Cinquino che veniva a trovarmi appena uscito dal Mastio di Volterra, un consigliere comunale che voleva una campagna contro

i rumori, un politologo che andava a discutere da Taddei, un vignettista di “Brivido” da Cartoni. Era un via vai.

Molti i nobili, perché una parte dell’aristocra-zia fiorentina aveva il

sonno difficile, ed uno dei pas-satempi notturni era quello di andare al giornale per suggeri-menti e proteste. Una marchesa veniva spesso a ripetere che in piazza Indipendenza c’erano due prostitute, e un gran giro di macchine e se lei scendeva di sera nella piazza per la passeg-giata diuretica del pechinese subito le offrivano quaranta lire.

A tarda notte un punto di ritrovo dell’aristocrazia era anche la stazione

dove al bar ristorante facevano i tortellini più buoni della città, e a quell’ora tarda (quando c’era la Mostra Antiquaria) arrivava-no con il treno i mercanti d’arte del nord che dovevano allestire gli stand a Palazzo Strozzi, e anch’essi - sapendo dei tortellini - si fermavano alla Stazione per uno spuntino: io presentavo loro quella o quell’altra contessa,

Giorgio Batini si racconta

Le notti in via Ricasoli

che a volte diveni-vano loro clienti per un fiammingo o una specchie-ra (fu così che nel mondo degli antiquari - anche a Delft, e a Bruxelles - mi chiamavano “Giorgio delle contesse”).

Un continuo via vai di amici, i più disparati: Gino Bechi, Roberto

Guicciardini, Carla Fracci, Beppe Menegatti, Enzo Tortora, Ame-rigo Gomez, Pier Carlo Ruffilli, Giovanni Germani... Un mondo non facilmente immaginabile, al quale mancò un Fellini.

Nella foto in alto: è il dicembre del 1924, Egidio Favi è proprie-tario de La Nazione ormai da dieci anni e lo stabilimento tipo-grafico si arrichisce di una stampatrice asso-lutamente invidiabile in quei giorni. Èuna rotativa “a quadrupla produzione” della Casa Koenig e Bauer.

Nella foto in basso: i giornali escono già contati e piegati dalla rotativa di oggi.

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In principio c’erano dei corrispondenti, uno per ogni capoluogo di provincia.

Erano personaggi di rilievo nelle proprie realtà, ma non per questo avevano molto a che fare con il giornalismo. Un nobiluo-mo legato alla causa risorgimen-tale, un professore di liceo, un sacerdote. A Perugia, ad esem-pio, quando ancora era sotto il papato, e dunque fra il 1860 e il 1870, un anonimo estensore inviava notizie, per lo più di po-litica, rischiando le persecuzioni e l’arresto. Fu tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ogni capoluogo toscano ebbe il suo corrispondente. Le notizie, battute a macchina e

Un’intervista a Gastone De Anna

“ECCO COME FECI NASCERELE EDIZIONI PROVINCIALI”Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale nel dopoguerra. I “pionieri” di una grande avventuranel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

spedite con un fuori sacco (si trattava di un plico che viag-giava “fuori dal sacco postale” perché ad attenderlo e a ritirar-lo alla stazione, dei treni o degli autobus, per abbreviare i tempi di consegna era un usciere de La Nazione) impiegavano per lo più una notte ad arrivare a Firenze. L’indomani venivano vagliate, qualche volta riscritte, titolate e impaginate nella redazione di via Ricasoli. E per lo più ogni provincia aveva almeno un titolo al giorno, qual-che volta mezza pagina. Non di più. Negli anni Quaranta la redazio-ne delle province era formata da quattro redattori sotto la guida

Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu ri-chiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personag-gio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di rag-giungere negli anni Cinquanta

le centomila copie. De Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. As-sieme a Giorgio Batini è l’ultimo di una grande generazione di colleghi, che insegnarono a tutti noi il mestiere. Ci riceve a casa sua, splendida vista su una delle più presti-giose piazze di Firenze. E dopo pochi minuti si ricrea l’atmosfe-ra di un tempo. Come si diventava giornalisti ai suoi tempi? “Per quanto mi riguarda fu davvero un caso. Sono nato nel 1919, mio padre comandante di marina era morto nel ’20 a Trieste, con D’Annunzio, quindi ero orfano di guerra. Nel ’40 tro-vai un mio amico di scuola che voleva offrirmi da bere perché era entrato come correttore di bozze a La Nazione. Era felice, volevo diventarlo anch’io. Così, ci provai. Avevo buoni studi e come orfano di guerra anche qualche vantaggio. Mi chiamarono in prova perché Nicola Della Santa, che dopo una lunga prigionia sarebbe tornato a collaborare nel mio stesso ufficio, era stato richiamato in guerra”. Con chi ebbe il primo colloquio? “Con Micheli, un capo redattore leggendario che faceva tutto, conosceva tutto, anche il lavoro dei tipografi, e lo svolgeva a una velocità impressionante. Aveva un occhio di vetro, e noi dicevamo che l’unico lampo di umanità gli veniva proprio da quell’occhio”. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.”

L’ambiente del giornale nel primo dopoguerra era ironico, divertente scanzonato. Questo non impediva che cronisti e redattori lavorassero tutta la notte con gran-dissimo impegno. Impareggiabile capo redattore di quei giorni era Micheli.

Nella foto: la con-segna dei giornali

alle edicole con i furgoni del nostro

giornale. Oltre alla prima consegna che

avviene per lo più all’alba, i giornalai

possono essere rifor-niti anche durante il

giorno in base alle necessità.

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Quanto rimase a La Nazione prima della guerra? “Pochissimo. Nel ’42 fui richia-mato sotto le armi, poi fui fatto prigioniero. Fuggii, fui catturato e portato in Polonia, ci stetti due anni e infine mi liberarono gli americani mentre scappavo perché stavano arrivando i russi. Tornai a casa nel ’45, la feci tutta a piedi, o quasi, e trovai Firenze distrutta. Al posto de La Nazione c’erano tre giornali, La Nazione del popolo, il Nuovo Corriere e la Patria. Presi a collaborare col Nuovo Corriere, che era inizial-mente il giornale degli alleati. Ma finalmente, nel ’47, a marzo, riprendemmo le pubblicazioni.” E lei? Favi mi considerava come un figlio. Mi disse: “Devi ricostru-ire la rete dei corrispondenti.” Mi dette un auto e un autista. Andavamo nelle varie province, e quando io ero sceso - prima no perché mi vergognavo - lui cominciava ad urlare in un megafono “La Nazione! Torna La Nazione!” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riapri-

vo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.” Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimo-ne al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini e Massa, Rossi a Grosseto. Mau-ro Mancini diresse la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi ar-rivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimen-ticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni,

Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra

i colleghi Rosario Poma e Paolo

Marchi. Alle loro spalle circondano

Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla

fine degli anni Sessanta.

che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessan-ta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Ric-cardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.” Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuo-ri sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impagi-nazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Naziona-le”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Peru-gia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati giornalisti professio-nisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiun-

gere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Petti-nelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministra-tore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi negli anni Quaranta.” Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personag-gi famosi che venivano a tro-varci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”

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Un ponte che si fece cittàfinché non arrivò la Piaggio

di Mario Mannucci

La Pontedera del 1859, quan-do La Nazione nacque, era una città in piena espansio-

ne. Il suo principale problema storico, la pianura malarica che caratterizzava la paludosa con-fluenza dell’Era nell’Arno (di cui resta anche il moderno toponi-mo di Maltagliata) era superato, mentre la sua collocazione allo sbocco di tre valli (Valdera, Valdi-nievole e Valdarno) stava sempre più diventando l’arma vincente per attirare industrie, commerci e popolazione.

Già nel ‘500 i Medici avevano abbattuto le mura affinché Pontedera, l’antica Pons

Herae, non rappresentasse più una minaccia dopo due secoli di guerre con Pisa, con l’Era a segnare il contrastato confine, provvedendo anche a rimpolpare la popolazione locale, ridotta ai minimi termini per le malattie e i continui assalti e assedi, con famiglie trasferite dalla Garfa-gnana e Lunigiana. Importante era stata anche la concessione, sempre medicea, di un grande mercato e una grande fiera, dedi-cata a San Luca.

Fino a gran parte del ‘700, Pontedera non ebbe una forte crescita e restò sotto il

vicariato di Vicopisano, ma l’800 consacrò finalmente la futura città della Vespa come capoluogo naturale di un vasto circondario che arrivava ed arriva fino alle balze volterrane, alle colline livornesi, alla vetta del Serra, spingendosi anche nella piana pisana.

Nel 1859, quando già Pontedera aveva dato suoi figli per l’indipendenza

italiana, con vittime pontederesi nella battaglia di Curtatone e Montanara, la città aveva una attivissima stazione ferrovia, realizzata nel ‘48 insieme alla linea Firenze-Pisa. In quegli anni

stava anche costruendo il Duomo perché la “chiesa vecchia”, così ancora si chiama la chiesa del Crocifisso, non era più sufficiente per i circa 8000 abitanti. E dal periodo francese-napoleonico aveva ereditato un bel ponte di marmo bianco per traversare l’Era, tutt’altra cosa dei ponti precedenti.

Presto i commercianti chiederanno e otterranno anche l’abbattimento della

roccaforte centrale per far posto ai loro negozi, e presto (1864) arriveranno l’acquedotto e una fonte per risolvere il proble-ma delle carenze idriche. Per colpa delle quali, la fabbrica del vetro si era dovuta trasferire a Colle Valdelsa, mentre la metà del secolo censisce tre tintorie, tre conce di pelli, fabbriche di mattoni, pastifici. La seconda metà dell’ 800 è indubbiamente il periodo d’oro dal punto di vista urbanistico e architettonico, terreno dove si incontrarono le potenzialità economiche degli imprenditori cittadini, fra i quali i Crastan venuti dalla Svizzera, e la genialità dell’architetto Luigi Bellincioni, autore di palazzi privati e opere pubbliche che ancora destano ammirazione.

Il ‘900 sarà poi legato so-prattutto alla Piaggio, prima impegnata nelle costruzioni

areonautiche e poi con la Vespa e derivati. Ma qui si entra nella cronaca ancora viva, quella che la redazione pontederese de La Nazione, con i suoi giornalisti, collaboratori e fotografi raccon-

ta tutti i giorni dalla fine degli anni ‘70, mentre per i cento anni precedenti erano stati i corri-spondenti a inviare a Firenze le loro notizie e i loro resoconti sui fatti, belli e brutti, clamorosi o di quotidiana vita, di Pontedera, del-la Valdera, dei monti e delle colli-ne pisane. E qui entrano in scena padre e figlio Pettinelli, Fausto e Orazio, le voci di Pontedera per La Nazione nell’arco, appunto, di quasi un secolo. I Pettinelli erano titolari di un grosso commercio di generi coloniali, rimasto in attività fino agli anni ‘60 del XX secolo. Importanti commercianti, dunque, ma, almeno due di loro, con la passione per il giornali-smo.

Un giornalismo che non li escludeva (come succede oggi) dal sentirsi, e di fatto

essere, esponenti attivi e signifi-cativi della borghesia cittadina, personaggi impegnati anche in campo politico-amministrativo, religioso attraverso le Miseri-cordie o i comitati parrocchiani, patriottico, e così via. Personaggi immancabili a ogni celebrazione, inaugurazione o festa, appunta-menti che ai cronisti di oggi, non di rado, suonano invece come perdite di tempo. Ma ogni tempo ha le sue caratteristiche. Tanto per fare un esempio, troviamo Fausto Pettinelli, il primo corri-spondente ufficiale de La Nazione a Pontedera, col quale il giornale ha scavalcato il XIX secolo, nel consiglio dirigente dell’ospedale Lotti, un altro degli “orgogli” pon-tederesi. Mentre suo figlio Orazio si ritrovò a “dover fare” il podestà

di Crespina, dove era sfollato durante il passaggio della guerra, nel 1944.

Si dirà, ci si chiederà: meglio quei corrispondenti che si sentivano ed erano anche

parte integrante della comunità locale o i giornalisti locali odierni che vedono presenze anche e spesso esterne? Giornalisti moderni che passano molto più tempo in redazione, lo vogliano o no, che non fra la gente? Ognuno può rispondersi secondo il suo pensiero. Quel che invece non si può cambiare radicalmente quanto è avvenuto e quanto sta avvenendo nel giornalismo con-temporaneo. Anche locale.

L’ epoca dei corrispondenti terminò, a Pontedera, a metà degli anni ‘70 del

‘900, quando La Nazione, prima fra tutti i giornali, decise di aprire una redazione nella città ormai famosa nel mondo per la Vespa. Un ufficio aperto al pub-blico dove il giornalista andava a lavorare, facendo esattamente il percorso contrario a quello fatto fino ad allora dai corri-spondenti. Prima dell’apertura della redazione - anche allora sul piazzone ma nel bel palazzo con ingresso in via del Teatro - i cor-rispondenti cittadini tornavano infatti nelle loro abitazioni o nei loro luoghi di lavoro primario per scrivere gli articoli e man-darli alla sede centrale. Tramite telegrammi, dettatura telefonica oppure tramite una busta fuori-sacco che pur avendo il franco-bollo veniva celermente (ma, ahimé, non sempre) portata a Firenze. Nel caso de La Nazione, dai capitreno o dagli autisti della Lazzi. La redazione aprì invece il giornalismo professionale, sempre più tecnologizzato, in cui sempre più il cronista locale era anche un vero e proprio redat-tore del giornale. Forse meno poesia ma sicuramente maggiore incisività.Tutto non si può avere.

Nella foto: la nuova stazione ferroviaria

in un’immagine “serena” del 1942,

prima della tragedia dei

bombardamenti.

Dai giorni della malaria a quelli della industrializzazione

Il secolo d’oro di Pontedera è stato sicuramente l’Ottocento ma già nel secolo precedente la città si era riempita di industrie manifatturiere tanto che è stata poi definita la “piccola Prato”.

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Quando si dice la fortuna del cronista! Da La Nazio-ne (1902), leggiamo:

“Pontedera, 23 - Quest’oggi, il noto miliardario americano Vanderbit William, proprietario, di 27 anni, domiciliato a Nizza, investiva col proprio automobile, lanciato a grande velocità, sul Corso Vittorio Emanuele, il bam-bino Adolfo Battini, di cinque anni. In quel momento, la via era popolatissima. Mentre l’auto-mobile si arrestava repentina-mente, un grido di indignazione si levava dalla folla. L’americano discese come un fulmine cercan-do riparo nella nota tabaccheria-coloniali Pettinelli, mentre la sua signora, colta da indicibile orgasmo, fuggiva nel negozio del signore Mastalli.

Il popolo, visto che il Vanderbit aveva estratto la rivoltella, lo accerchiò nel negozio del Pet-

tinelli, coprendolo di contumelie. Ne avvenne un corpo a corpo e infine alcuni popolani, unitamen-te al proprietario della tabac-cheria, riuscirono a disarmarli. Sarebbero stati seri guai senza

l’intervento di autorevoli cittadi-ni, tra i quali va notato il signor Settimo Pacchiani, il Commissa-rio Regio, il segretario comunale avvocato Petessi, il tenente dei carabinieri signor Perfetti, che riuscirono con modi cortesi a riportare la calma, mente nel frattempo accorrevano guardie di città e carabinieri che infine riuscirono a diradare la folla. Il malcauto americano che era rimasto relegato nel retrobotte-ga del signor Pettinelli, veniva dichiarato in arresto e amma-nettato e condotto sotto buona scorta negli uffici della regia tenenza. Il bambino, per fortuna, ha riportato alcune contusioni alla testa che, per ora, non desta-no preoccupazioni”.

Nei giorni seguenti, altri servizi, non firmati, infor-mavano che il bambino

era fuori pericolo e che il Van-derbit era stato messo in libertà. E soprattutto che lo stesso Van-derbit aveva fatto donazioni alla famiglia del bambino e a varie associazioni umanitarie ponte-deresi, mentre ringraziava trami-te il giornale tutti gli intervenuti in suo soccorso. A cominciare

1902: è il primo incidente d’auto(e per poco non finisce in linciaggio)Un miliardario americano investe un bambinoAccerchiato dalla folla estrae la pistola

Nelle foto grande: Nell’epoca in

cui le vignette sostituivano

le fotografie il periodico francese

Le Petit Jurnal raccontò così ai suoi

lettori l’incidente sul Corso di Pontedera.

Nella foto piccola: un barrocciaio in

via della Stazione Vecchia.

Il ciclista morìper colpa di un cavalloNella prima metà del secolo scorso, i morti per in-cidenti stradali erano ovviamente assai meno. Ma c’erano anche allora. E le cronache pontederesi de La Nazione - che non avevano una pagina propria ma spazio nelle cronache provinciali e regionali _ ne fanno testimonianza. Eccone un esempio del 1925. “Pettinelli ci telefona da Pontedera, giorno 30 (luglio) ore 12,30. In questo momento, presso Pontedera è avvenuta una gravissima disgrazia. Il signor Rinaldo Wess, di Giuseppe, di anni 31, da Firenze, ricco signore dimorante a Poggibonsi, mentre stava sopra una motocicletta è stato investito da un carro e gettato a terra. Il signor Wess è morto sul colpo. Vi manderò per la prossima edizione altri particola-ri”. Gli altri particolari sono infatti nel successivo articolo, dal quale si apprende che l’investimento avvenne in via Pisana, che fu causato dal cavallo imbizzarrito e che il barrocciaio si dette alla fuga.Un solo particolare differisce invece dalla prima notizia: nel secondo e più articolato “pezzo”, il motociclista viene invece definito ciclista. Un altro bruttissimo argomento era quello, anche allora, delle violenze sessuali. “In seguito alla denuncia pervenutagli - scriveva Fausto Pettinelli, sempre nel ‘25 - il nostro pretore avvocato Cherici, assistito dai carabinieri di Ponsacco, si recava nel borgo di Santo Pietro per procedere alle indagini sulla presunta violenza subita da... (seguono co-gnome e nome della ragazza) di 18 anni a opera di tal... (idem) di anni 22”. Si parla poi delle indagini, per arrivare alla conclusione “che la denuncia della giovane deve essere stata determinata da oltraggi veramente patiti lo si deduce dal fatto che il pretore ordinò subito l’arresto del..., che fu portato al carcere di Pontedera fra i commenti dei popolani”.

dal Pettinelli, nel cui negozio, che oltre a generi coloniali vendeva anche tabacchi e armi, si era salvato dal linciaggio. Ebbene, il negoziante era nien-temeno che di Fausto Pettinelli, corrisponde de La Nazione e di altri giornali, fra cui il Nuovo Corriere, che dunque si vide arrivare a domicilio, per così dire, il protagonista della vicenda.

E con lui, la vicenda stessa. Una fortuna “sfacciata” che consentì al corrispondente

pontederese di fare un grande scoop in presa diretta, senza bisogno di chieder informazioni a nessuno. Ma la cosa non finì qui: l’investimento e il tentativo di linciaggio avvenuto a Pontedera, sull’odierno Corso Matteotti, la via-salotto della città, diventò un caso nazionale dopo che la Tri-buna Illustrata ricostruì il fatto con un disegno in prima pagina, come era allora di moda anche se poi sarebbe stata la Domenica del Corriere, col suo disegnatore Achille Beltrame, a portare que-sta pratica di giornalismo figura-to al suo massimo splendore.

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di Mario Mannucci

La Nazione aveva già su-perato ampiamente i 100 anni di vita, e già tante

volte si era occupata di Ponte-dera, quando decise di aprire una vera e “professionale” redazione nella città ormai della Vespa. Era il 1973. La Nazione, ormai espressione di un gruppo editoriale nazionale, fu il primo giornale a comprendere come l’importanza della città andasse ben al di là dei suoi dati ana-grafici, mai arrivati a 30.000 residenti, per cui la “piazza”, per così dire, valeva l’investimento di una redazione. Nella quale avvenne idealmente e concreta-mente il passaggio di consegne fra i giornalismo locale fatto interamente dai corrispondenti, fino a quelli dei più piccoli paesi, al giornalismo dei redattori. Poi vennero redazioni anche di altre testate, ma La Nazione ha in vanto di aver aperto la strada, introducendo un giornalismo più adeguato ai tempi, nel quale non c’era più bisogno che i giornalisti “veri” calassero in provincia dalle sedi centrali per coprire, come inviati, i fatti più importanti.

In quel ‘73, Pontedera si era fatta

conoscere (in Italia e, non è un’esagerazione, nel mondo) da un quarto di secolo. Con la Piaggio, che apriva tutte le mattine i cancelli a 10.000 lavoratori (quello pontedere-se e i suoi satelliti pisani), prima fabbrica italiana dal Po alle famo-se cattedrali nel deserto realizzate

Pontedera 1973

La Vespa conquista il mondoe nasce la prima redazioneLo stabilimento Piaggio dà lavoro a 10mila personeI primi giornalisti locali: Lando Ferretti, Lina Cioni e i Pettinelli.

a sud di Napoli. Con oltre un milione di Vespe e altrettanti “Ciao” circolanti nel mondo. Col pontederese Giovanni Gronchi presidente della Repubblica e capofila di una schiera di politici pontederesi importanti, dal mi-nistro Giuseppe Togni ai missini Lando Ferretti (ci torneremo) e Gastone Nencioni, al social-democratico Lami Starnuti al comunista Anselmo Pucci. Col due volte campione del mondo di pugilato, Sandro Mazzinghi, e, se volete, con la storia di Giulio Comparini, il cameriere-soldatino pontederese di cui si innamorò l’inglesina dal cuore malato, una storia strappala-crime che fece il giro del globo, diventando un cavallo di batta-glia delle allora (anni ‘50-60) nascenti televisioni.

Siamo nel 1969 e la Piaggio produce il modello Sprint (foto in basso). Ormai l’Italia ha conosciuto gli impareggiabili anni del boom, ma lo scooter di Pontedera continua ad affascinare le giovani generazioni.

Ad oggi la Piaggio ha prodotto

150 modelli di Vespa. Una costante evoluzione che non

ha mai tradito i concetti originali

stabiliti dal’inven-tore: motore sempre

coperto e ciclistica di concezione aeronautica.

Inoltre, Pontedera era ormai città-capoluogo riconosciuto di una popolazione di oltre

100.000 abitanti, distribuiti in una quidicina di comuni. La redazione fu aperta sul “piazzo-ne”, ovvero Piazza Martiri della Libertà (che soltanto l’anagrafe, le Poste e gli elenchi del tele-fono chiamano così, mentre i nomi ufficiali precedenti erano stati Piazza dell’Impero, Piazza Andrea e Piazza Umberto). In quelle prime due stanze con le scrivaniere e le macchine da

scrivere si trasferì Orazio Petti-nelli, corrispondente da decenni ed erede del padre Fausto. E con Orazio - e qui devo forzatamente parlare di me stesso - anch’io presi possesso di quell’ufficio, praticamemente come vice di Pettinelli, rinunciando definiti-vamente all’insegnamento per tentare l’avventura del giornali-smo professionale.

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Dei suoi quasi 40 anni di vita, la redazione di Pontedera de La Nazione ne ha trascorsi la prima metà sul lato nord del piazzone, con ingresso da via del Teatro, e la seconda, attuale, metà, sul lato sud, angolo via della Misericordia. E in questi quasi 40 anni vi si sono avvicendati una quindi-cina di giornalisti. A cominciare dai due capiser-vizio: Mario Mannucci, che ha retto l’ufficio per circa trent’anni, affiancato da valido pubblicista Giovanni Pinori, e, ora, Aldo Gaggini, arrivato da Pisa. All’inizio l’organico comprendeva soltanto un giornalista professionista, affiancato da collabo-ratori - in 40 anni ce ne sono stati almeno 50 - e dai corrispondenti “storici” dei paesi della Valdera, personaggi innamorati dei loro borghi come il ma-estro Ottorino Cremonini da Santo Pietro, Sergio Stacchini da Peccioli, Franco Gabrielli da Palaia, Ivo Giuntini da Terricciola. I professionisti passati dalla redazione sul piazzone sono stati:Gianni Bechelli, Federico Cortesi (ora a Pisa), Marina Ma-renna (ora caposervizio a Livorno), Gabriele Nuti, Francesco Dragoni, Federico D’Ascoli (ad Arezzo) Francesco Meucci (a Siena), Fausto Cruschelli (ora caposervizio a Carrara), Manuela Del Mauro, Letizia Leviti (ora a Sky), la pontederese Paola Zerboni (cresciuta ‘sul piazzone’ e ora a Pisa) fino agli attuali Nicola Pasquinucci (pontederese doc, come dice il suo cognome, cresciuto in redazione ma con esperienze anche al Resto del Carlino e al Giorno) e Luca Boldrini (arrivato da Prato).

Quindici giornalistiper quaranta anni

Nella foto in alto: il giovane Presidente

della Piaggio, Umberto Agnelli

brinda (1967) con l’ingegner Corradino D’Ascanio, inventore

della Vespa, alla fulminea ripresa

dello stabilimento dopo la tragedia

dell’alluvione.

Professionista, previo pra-ticato ed esame di stato, lo sarei diventato qualche

anno dopo, ma la strada per diventare il primo giornalista “prof” operante a Pontedera, era aperta. Attenzione, però: non il primo giornalista professionista “di Pontedera”. Anche in questo campo, la città che si porta nel nome la prima ragione della sua nascita, il ponte sul fiume, aveva infatti un’importante tradizio-ne. A partire dal già ricordato onorevole Lando Ferretti, de-putato missino nel dopoguerra dopo esser stato direttore della Gazzetta dello Sport e di altri giornali sportivi e di cinema ne-gli anni ‘20, fondatore e primo presidente del Coni e, per due anni a cavallo degli anni ‘30, capo ufficio stampa del Duce. Si, proprio lui, Benito Mussolini.

L’ex studente liceale pon-tederese, promotore del fascismo locale, Lando

Ferretti lavorava nella stanza di Palazzo Venezia accanto a quella del Duce. E chi sa di quanti segreti fu testimone... Ferretti cadde poi in disgrazia anche per contrasti col gerar-ca pisano Buffarini Guidi - i rapporti fra Pontedera e Pisa

sono ricchi di questi contrasti provinciali - ma a Ferretti, poi conte della Valdera, Pontedera deve molto. A cominciare dal riconoscimento di città: in un albergo di Pistoia, dove il Duce era in visita, Ferretti convinse infatti Mussolini a chiedere al Re di firmare il decreto - 17 maggio 1930 - con cui Pontedera veniva riconosciuta città. Ma negli anni del regime, quando nacque l’or-dine dei giornalisti, una ragazza pontederese, Rina Cioni, assunta dall’agenzia Stefani, l’odierna Ansa, diventò la prima donna iscritta all’ordine.

Seguì il regime fino a Salò, poi emigrò in Sudamerica fondandovi un giornale

italiano. Nel dopoguerra, pub-blicisti importanti della Val-dera sono stati anche Augusto Gotti Lega e Bino Sanminiatelli, entrambi nobili e proprietari terrieri di grande cultura. Poi i professionisti Nello Che-toni, che ha lavorato al Carlino e alla Tribuna Illustrata, Giancarlo Ferretti che dall’ Unità è diventato un nome importante dell’edito-ria, e Fausto Pettinelli. Il terzo dei Pettinelli,

Nel tondo: L’ingegner Enrico Piaggio fondatore dello stabilimento di Pontedera.

con lo stesso nome del nonno, giornalista parlamentare, oggi in pensione, dell’Ansa e della Rai. Al quale la gente di Pontedera e della Valdera si rivolgeva spesso per raccomandazioni ai politici, (che Fausto non poteva fare) dato che ogni giorno lo vedeva-no in Tv, col microfono in mano, accanto a Craxi, Andreotti e tutti gli altri big della pri-ma repubblica.

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I Pettinelli, una saga familiareda Fausto fino al giovane Orazio

di Fausto Pettinelli

Fausto Pettinelli, già redatto-re parlamentare dell’Ansa e Rai, si chiama come il nonno, primo corrispondente de La Nazione da Pontedera. Ma da ragazzo, negli anni ’50, fu aiu-tante-collaboratore dello zio Orazio, corrisponde de La Na-zione da Pontedera per mezzo secolo. E così Fausto Pettinelli ricorda il «mitico» zio.

Orazio Pettinelli era mio zio, fratello maggiore di Giovanni, il mio babbo,

sicché per ricordarlo compiuta-mente bisogna che torni alla mia adolescenza. Quando lui, senza figli, mi portava sempre con sé. Da qui la necessità di scrivere in prima persona. Eppoi fu lui che mosse i miei primi, traballanti, passi nelle stanze dei carabi-nieri, del commissariato, della

pretura e dell’ospedale, vere miniere di notizie. Gli amici di mio zio erano i fratelli Angiolino e Alfio Susini, corrisponden-ti (il primo) del Mattino e (il secondo) del Telegrafo, il dottor Bruno Pasquinucci, detto “Osso” per la sua magrezza, insuperabi-le maestro di vernacolo, l’avvo-cato Mario Braccini, biografo del campione di pugilato Sandro Mazzinghi, don Luigi Bracci, cap-pellano dell’ospedale, il dottor Emilio Zoli, l’avvocato Domenico Pandolfi, Astutillo Pasquinucci e Luigi Mannucci, l’affeziona-tissimo Gigi, il suo autista. Ma non autista nel senso servile del termine. Autista, semplicemente perché Orazio non volle mai “pilotare” un automezzo e rifiutò sempre di prendere la patente. Dunque per correre sul posto di fatti e fattacci bisognava che Gigi, antico tassista di piazza, fosse sempre a sua disposizione. Giorno e notte.

Di corsa sui taxi nei luoghi delle notizie. I rapporti con il mondo dello sport e dello spettacolo

Nella foto: ritratto di famiglia di inizio Novecento. In secon-da fila a sinistra il capofamiglia Fausto (primo corrispon-dente de La Nazione da Pontedera) e, in seconda fila con il papillon, il giovane Orazio che lo affiancò e poi gli succedette negli anni Trenta.

E Gigi, per anni e anni, fu una sorta di alter ego di Orazio. Il delitto di Toia-

no con l’uccisione della Bella Elvira, il brillamento delle mine per l’apertura della strada sul Monte Serra dove arrivò il grande ripetitore Rai, l’ucci-sione di Don Bardotti, parroco di Cevoli, il pasticciaccio della santona di Monte Vaso, l’assas-sinio del fattore di Spedaletto, le sparatorie fra i carabinieri e la banda dei sardi alla Sterza e a Molino d’Era, sono soltanto alcuni fatti che mi vengono alla mente. Orazio fu l’animatore di un’infinità di iniziative, umani-tarie, culturali, sociali, religiose e anche sportive. Politiche, mai più. Ne aveva le tasche piene dopo esser stato fascista e aver avuto dei problemi per questo. Riceveva di continuo visite di molte personalità di spicco del

mondo del teatro, del giornali-smo, della musica.

E si beava di queste sue fre-quentazioni che lo gratifi-cavano e lo facevano sen-

tire al centro della vita di una Pontedera che stava risorgendo dalle rovine. Ricordo il popo-larissimo giornalista sportivo Beppe Pegolotti, che mi faceva ridere perché balbettava, l’at-trice pirandelliana Marta Abba, Rina Cioni, la prima donna iscritta nell’albo dei giornalisti professionisti, Riccardo Marchi, scrittore e filosofo comunista livornese, suo amico ed estima-tore, il pittore futurista viareg-gino Krimer, il tenore Mario Filippeschi di Montefoscoli, e tantissimi altri dei quali ora mi sfuggono i nomi, con i quali era sempre in contatto epistolare o telefonico.

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«Mio zio Orazio amava anche combinare le goliardate che qualche volta pubblicava sul giornale. Un giorno, a Fornacette, un camion travolse e uccise due operai che lavoravano allo smantellamen-to della vecchia linea ferrata del tram Pontedera-Pisa, ’lo strasciapoveri’, come lo chiamavano i pontederesi. Partimmo con l’autista Gigi ma sul luogo della sciagura trovammo soltanto il camion di traverso alla strada e un po’ di gente affranta. I due morti erano già stati portati via. Orazio non si perse d’animo e con la massima disinvoltura ordinò a Gigi e a me di sdraiarci fra le ruote del camion; ci fece quindi coprire con un lenzuolo e un fotografo ci sparò a raffica un rullino. Quelle foto raccapriccianti, furono pubblicate a corredo del suo pezzo sulla “Nazione” del giorno dopo, e Angiolino Susini, corrispondente del Telegrafo, che insieme ad altri colleghi si era fiondato a Fornacette arrivando addirittura prima di noi, ci restò di stucco. Ma come avrà fatto La Nazione ad avere quelle foto? Si cambia scenario: il grande scrittore-giornalista Dino Buzzati fu inviato a ponte-dera dal Corriere della Sera per un reportage sul celebre ipnotizzatore pontederese Cesare Gabrielli che furoreggiò nei teatri di mezzo mondo negli anni Venti-Trenta. E per avere notizie, Buzzati si rivolse, inevitabilmente, a Orazio, «Che - gli dissero - è sempre informato di tutti su tutto». L’aneddoto è raccontato da Buzzati (a sinistra nella foto insieme a Rolly Marchi) nelle bellissime pa-gine di Cronache Terrestri (Mondadori, 1972) in cui lo scrittore, col suo stile di ammiccante verismo, descrive l’incontro col ’gentilissimo collega corrispondente della Nazione’».

I “morti” sulla strada e il grazie di Buzzati

Così il giornalista Orazio riuscì ad evitare una rappresaglia delle SS a Crespina

La saga dei Pettinelli

Quando il Podestà evitò una strage

di Giovanni Pinori

Orazio Pettinelli, non lo ha mai negato, era iscrit-to al Partito Nazionale

Fascista. Un semplice iscritto come allora decine di milioni di italiani. Fu designato a fare il podestà di Crespina. Per rifiu-tare ci voleva una buona scusa, e così accettò ben sapendo che presto sarebbe finito tutto. Ma fare il podestà di Crespina si ri-velò compito non facile. Il paese era pieno di sfollati, nelle ville erano alloggiati diversi comandi tedeschi e c’era un continuo via

vai di truppe. Un giorno nel bo-sco fu trovato ucciso un soldato tedesco.

Il podestà Pettinelli fu convo-cato al comando e un maggio-re delle SS gli disse: «Presto,

dieci nomi e indirizzi di uomini di questo paese da tenere in ostaggio. Se entro 24 ore non si presenterà chi ha ammazzato a tradimento il mio soldato, sa-ranno fucilati in piazza». Orazio,

argomentatore abile, fecondo, intelligente e all’occorrenza anche sfrontato, rispose che non era possibile che qualcuno del paese avesse commesso un simile misfatto. Si trattava cer-tamente di partigiani venuti da

lontano, forse da Cecina o da Volterra. Bel colpo assegnarli

ad una provenienza così plausibile e ormai lontana per i tedeschi in ritirata. Vai a cercarli laggiù in mezzo agli americani se ci riesci, pensò dentro di sè. Fu un dialogo lungo, concitato e drammatico,

ma alla fine Orazio riuscì ad ammansire il furibon-

do maggiore che, privo di argomenti, disse che avrebbe

sospeso l’ordine. «E va bene Podestà, voglio crederti. Però ricordalo e fallo sapere in paese, ancora un incidente e i fucilati saranno venti e il primo sarai tu. Da domani, tutti i giorni alle cinque del pomeriggio, dovrai venire a rapporto qui, al coman-do».

Non successe niente, per-ché Dio non volle, Orazio me lo spiegò così. Ma

che paura in quei dieci giorni! Finalmente una sera i tedeschi

abbandonarono Crespina e l’indomani arrivarono gli ame-ricani. Fu la liberazione. Orazio Pettinelli, podestà rimasto al suo posto fino all’ultimo, fu arrestato e portato nel campo di concentramento di Coltano dove c’era anche Ezra Pound.

Fu processato come fascista. E anche se né lui né altri pensò a tirar fuori la storia

della rappresaglia evitata a Cre-spina, fu rimesso in libertà per-ché nessuno poté accusarlo del benché minimo crimine di regi-me. Orazio riprese la sua vita di sempre e il suo lavoro appassio-nato. Della vicenda crespinese non parlò più. La raccontò a me quasi per caso, pochi anni prima della sua immatura scomparsa. Ma dal tono distaccato con cui mi raccontò quell’episodio ebbi l’impressione che non volesse assolutamente esibirsi nel ruolo di eroe. Sottolineò la paura, que-sta sì, e ostinatamente si rifiutò di ammettere che, in sostanza, aveva messo a repentaglio la sua vita per salvare degli estranei».

Nella foto accanto: è il 1969, un aereo

militare tedesco compie un atterrag-

gio di emergenza all’Aeroporto di

Pontedera.Orazio Pettinelli

(a destra) accorre come cronista de La Nazione e stringe la

mano al pilota.

Nel tondo: una insolita immagine di Orazio Pettinelli versione telecroni-sta. Una troupe Rai, nel 1960 si installò in città alla ricerca del vincitore di una favolosa somma al Totocalcio. Il cor-rispondente de La Nazione collaborò ai servizi quotidiani messi in onda.

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Nella lunga storia del calcio pontederese, che nel 2012 compierà 100 anni, c’è anche una vittoria sulla nazionale azzurra. Fu conquistata in amichevole a Coverciano nell’aprile del 1994 alla vigilia dei Mondiali negli Stati Uniti. La partita finì 2 a 1.

Nella foto: è il 7 dicembre 1963,

Sandro Mazzinghi torna a Pontedera

con il titolo di Campione del

Mondo conquistato allo stadio di San

Siro a Milano contro Dupas. La folla lo accoglie

trionfalmente in piazza del Comune.

Momenti di gloria nella boxe(ma anche nel canottaggio)Sandro Mazzinghi fu due volte compione del mondo di pugilatoLorenzo Pattinari capofila di una scuderia di canottieri che ha raccolto ori ed argenti

Sembra spesso che la violenza tra tifoserie o i furti siano un fenomeno di questi ultimi anni. Non è così. Purtroppo. Già nelle corrispondenza di Fausto Pettinelli, che dopo una prima esperienza al Corriere di Toscana passò a La Nazione e all’agenzia di stampa Stefani, ci sono numerosi esempi e cronache di incidenti causati dal tifo e di imprese ladresche. Addirittura, il tifo violento poteva essere “musicale”, come quando i popolani di Navacchio presero d’assalto, fermandone il percorso con fuochi accesi sulle rotaie, il tram che da Pontedera viaggiava per Pisa, con molti pontederesi a bordo. Era una ritorsione alla vittoria della filarmonica Volere è Potere (nella foto in un’immagine del 1928) di Pontedera nel regio concorso nazionale musicale di Torino, dove la banda di Navacchio si era invece classificata soltanto settima. Fu un vero e proprio assalto alla diligenza, con tafferugli che non sfociarono in feriti, o peggio, “soltanto perché i passeggeridi Pontedera non reagirono”, sottolinea il corrispondente Pettinelli. Ve l’immaginate lo scalpore se oggi succedesse ancora un episodio del genere? Capitolo ladri. A Pontedera si era fermata una famiglia di nomadi, composta da genitori e tre figli. I genitori furono sorpresi in flagrante furto e arrestati, ma la polizia ebbe il sospetto che avessero nascosto da qualche parte la refurtiva di molti precedenti colpi. Intuito giusto, come confermò lo stratagemma di un poliziotto che, fingendosi nomade anch’esso, avvicinò i tre figli dicendosi disposto a collaborare con loro per mettere al sicuro il “tesoro” di casa fino a quando babbo e mamma, di origine algerina, non fossero stati scarcerati.

Quando il “tifo” era violento anche per la “filarmonica”

dell’opione pubblica condannò, Alessandro Mazzinghi è anche l’unico pontederese vivente immortalato in un monumento pubblico. Dedicato, però, a en-trambi i fratelli Mazzinghi: oltre a Sandro, l’altro intestatario è Guido, anche lui pugile fortissi-mo ma con la carriera stroncata da una malattia e morto anche prematuramente.

Alessandro Mazzinghi, detto Sandro, è la mag-giore gloria sportiva di

Pontedera. I suoi anni migliori furono nel decennio ‘60 del secolo scorso. Conquistatore di “mille” ring, due volte campione del mondo, due volte sconfit-to da Nino Benvenuti ma con verdetti che ancora lo fanno soffrire e gridare all’ingiustizia, e che larga parte della critica e

Il mo-numento ai Mazzinghi è stato inaugura-

to il 31 gennaio scorso ed è il secondo monumento pubblico a un personaggio pontederese dopo quello inaugurato 1908 in onore di Andrea. Grande scultore che nelle storie dell’ar-te tutti chiamano Andrea Pisano ma che ebbe invece i natali a Pontedera.

Nel campo sportivo è una gloria pontederese anche il pluricampione del

mondo di canottagio Lorenzo Pettinari, capofila di una scude-ria di canottieri che annovera

anche Lorenzo Bertini e al-tri conquistatori di ori

e argenti. Nel campo calcistico, con la

squadra granata dell’Us Pon-tedera 1912, il momento di maggior gloria assoluta fu 15 anni or sono, quando

alla vittoria del campionato fu

accoppiata addi-rittura la vittoria - in

amichevole a Coverciano - sulla nazionale azzurra di

Sacchi e di Baggio che poi arrivò seconda (ai rigori) nei campio-nati mondiali in America.

Fu una vittoria meritata e che portò il Pontedera nelle prime pagine di tutti

i giornali. E La Nazione dedicò a quel successo il titolo altisonan-te ma meritato di “Momenti di gloria”.

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Volterra è la patria, e tuttora ne conserva e rinnova la memoria con premi annuali dedicati nel suo nome sia al teatro che all’arte della gastronomia, di uno dei giornalisti, una delle firme, che hanno fatto la storia de La Nazio-ne a cavallo fra l’ 800 e il ‘900. È Giulio Piccini, nome che non dice molto, o comunque dice assai meno rispetto a quello di Jarro. Già, Jarro. Pseudonimo che sicuramente contribuì alle fortune del volterrano, trasferitosi a Firenze e approdato al giornale fondato da Ricasoli, perchè squillante, emozionante, sintetico e facilmente riconoscibile. Deriva dalle frequentazioni spagnole del Puccini, nato nel 1951 nella città etrusca, allora sede di Tribunale, dove il padre era magistrato, e che a Volterra trascorse la prima giovinezza e l’adolescenza, studiando al locale ginnasio. Jarro si sentì orgogliosamente volterrano per tutta la vita; fu per trent’anni - morì improvvisamente nel 1915 mentre rientrava a casa - il critico teatrale e letterario de La Nazione, ma questa collocazione va stretta a un personaggio dai multiformi interessi e dagli infiniti campi di impegno. Partendo da Dante e dagli stilnovisti, passando per il genere “giallo” e per le grandi inchieste sociali, Jarrò arrivò all’enogastronomia. Settore che oggi impazza in tutte le televisioni, nei cui palinsesti ci sono ore e ore di trasmissioni giornaliere sull’arte culinaria, ma che Jarro per primo lanciò come nobile arte anche letteraria, pubblicando guide enogastronomiche di successo. Anche un’amicizia fece conoscere Jarro in italia e all’estero, quella col Vate, l’Immaginifico. Insomma, Gabriele D’Annunzio. Il quale fu amico e spesso commen-sale di Jarro durante il suo peridio fiorentino trascorso con Eleonora Duse nella famosa villa sulle colline. E a quei tempi, l’amicizia di D’Annunzio era un viatico di successo. Proprio a Jarro, Volterra deve la presenza di D’Annunzio, che soggiornò all’Hotel Nazionale dove lavorò alla nuova stesura di “Forse che si, forse che no”. Jarro nacque soltanto otto anni prima de La Nazione, il giornale che per primo e più di ogni altro mezzo gli dette il successo, avendone in contraccambio altro successo. “Volterra è orgogliosa di questo suo figlio - dice Simone Migliorini, direttore artistico del festival internazionale del teatro romano - quantomeno come orgoglioso lui era di Volterra”.

La patria di Giulio Piccini, il famoso Jarro

linea ferroviaria a cremagliera Saline-Volterra, inaugurata nel 1912 in virtù dell’interessamen-to del principe Piero Ginori Conti (1860-1930), venne tagliata nel novembre 1958. L’ospedale psi-chiatrico realizzato con l’opera di Luigi Scabia tra il 1930 ed il 1950 non esiste più per la legge che ha abolito queste strutture.

La popolazione era di 20.000 abitanti nel 1920, scesi ora a 11.172. E le cronache e

pagina locali de La Nazione sono state all’avanguardia nella bat-taglia in difesa di Volterra, che continua con la difesa dell’ospe-dale e delle scuole. Ma torniamo indietro. Volterra ha ospitato re, papi, artisti e uomini molto importanti. Vittorio Emanuele salì sul colle etrusco il 2 ottobre 1861, solenne e trionfale era stata quattro anni prima la visita del papa Pio IX. Un altro illustre pontefice, Papa Wojtyla, coinvol-se ed entusiasmò Volterra il 24 settembre 1989, e La Nazione seguì l’avvenimento mobilitando un «esercito» di 8 fra inviati e cronisti locali e pisani. Com-movente fu la visita al carcere. Torniamo ancora indietro: nella seconda metà dell’ottocento, Volterra ebbe importanti istituti

scolastici, tra cui il liceo-gin-nasio gestito dai padri

di Mauro Bertini

Nei suoi centocinquanta anni, La Nazione ha se-guito i fatti grandi - ce ne

sono stati tanti perché Volterra è una grande realtà, storica, cultu-rale e geografica - e quotidiani di una città conosciuta nel mondo. Partendo proprio dall’unità d’Ita-lia, la storia ricorda che Volterra diventò sede di circoscrizione comprendente vari comuni. Già sede di un vescovado tra i più estesi e più antichi della Toscana, di sottoprefettura e tribuna-le, Volterra possedeva anche istituzioni religiose, ammini-strative, sanitarie e giudiziarie da capoluogo di provincia. Ed era capitale dell’industria degli alabastri, a carattere spiccata-mente di esportazione (grazie al fenomeno dei viaggiatori dell’ala-bastro di cui c’è testimonianza nel Palazzo Viti). Poi iniziò il

declino amministra-tivo: nell’ottobre

1923 perse il tribuna-le e nel 1927 la

sottopre-fettura. La

teatro Romano, riportato alla luce per merito dello studioso Enrico Fiumi nel 1950, è meta di molti turisti. Fiumi è stato a lungo direttore del Museo Guar-nacci; molte sono le sue pubbli-cazioni di carattere archeologico e medievale su Volterra e sulla Toscana. Molte le personalità che hanno scritto su Volterra, tra cui Corrado Ricci, Gabriele D’Annunzio — ospite della città e ricordato da una targa — Carlo Cassola, che incentra su Vol-terra diversi suoi romanzi. Ed è del 1964 il film «Vaghe stelle dell’Orsa», di Luchino Visconti che portò Volterra sulla scena mondiale. Putroppo, Volterra finì sulle cronache anche per il sequestro (23 gennaio 1991) del piccolo Augusto De Megni, che fu tenuto prigioniero in una grotta-priogione a poche centinaia di metri da Piazza dei Priori, da cui fu liberato con un clamoroso blitz dei Nocs e della Criminalpol. Ed è rimasto nella storia di Volterra e d’Italia la foto del piccolo Augusto affacciato alla finestra del commissariato e applaudito dall’intera piazza dei Priori, popolata di folla. Anche in quell’occasione, La Nazione mobilitò su Volterra un nutrito gruppo di giornalisti, con dieci pagine di cronaca sull’avveni-mento.

Gabriele D’Annunzio, Luchino Visconti, Carlo Cassola sono alcuni dei grandi nomi che in varie forme artistiche hanno celebrato le bellezze della città, famosa nel mondo anche per la misteriosa statuetta etrusca “L’Ombra della Sera”.

Nella foto: Giulio Piccini, che si fir-

mava Jarro, ricoprì infiniti ruoli ne La Nazione a cavallo

tra i due secoli.Fra questi, con par-

ticolare impegno, fu critico teatrale.

Fra i suoi “eredi” del-la grande tradizione letteraria di Volterra

Franco Porretti, corrispondente de La Nazione cultore

delle tradizioni locali.

La Nazione in difesa di Volterrauna lotta che continua da decenni

Scolopi, il conservatorio di S. Pietro ed il convitto S. Michele. Il mondo culturale ed artistico si fondava sull’accademia dei Sepolti, sul museo e biblioteca Guarnacci, accademia dei Riuniti proprietaria del Regio Teatro Persio Flacco, opere del Duomo e delle principali chiese della città. Importante la sede vescovile che ricalcava i confini del Municipio Romano. Il respiro culturale era vivace grazie ai circoli di musica, teatro, studio. Molti erano gli organi di stampa locale. Niccolò Maffei, liberale, fu dominatore della sfera politica, risultando il primo volterrano eletto in parlamento nel 1874. Un altro importante uomo politico, Ar-naldo Dello Sbarba (1873-1958), socialista, fu ministro del lavoro nel 1922. Negli anni ’30 ci fu la terribile crisi del settore dell’ala-bastro e molte industrie chiuse-ro i battenti. Una ripresa si ebbe nel 1960, ma oggi gli addetti sono soltanto un centinaio (nel 1969 erano mille). Nel secondo dopoguerra, figura rappresenta-tiva nella scena politica dal 1946 al 1989 è stato il sindaco Mario Giustarini, dal 1953 al 1958 senatore.

Negli ultimi anni è fiorita l’industria del turismo culturale, molte le attività

teatrali (Volterra-teatro ed il festival del Teatro Romano). Il

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Santa Croce: la capitaledel cuoio e delle pelli

Nei tondi: Il boom delle concerie e dei calzaturifici ha fatto di Santa Croce e del Comprensorio una capitale mondiale delle pelli con grandi problemi, anche ecologici, oggi risolti.

Nella foto: Mauro Lepri, livornese di nascità, trasferito

a Santa Croce fu per decenni il

corrispondente del nostro giornale ma

anche l’interprete dell’identità,

culturale e sociale, del Comprensorio

del cuoio.

di Firenze. Ma le influenze fiorentine sono ancora ben visibili, soprattutto a San Miniato, come scriveva e sot-tolineava spesso Mario Lepri.

Un personaggio di primis-simo piano, Mario Lepri, per oltre trent’anni - dal

dopoguerra alla sua morte - corrispondente de La Nazione da Santa Croce e comprensorio del cuoio. Di origine livornese, approdò a Santa Croce come impiegato comunale, dividen-dosi fra gli uffici municipali (la mattina) e le corrispondenze a La Nazione (pomeriggio e sera) fino al giorno della pensione dal comune.

Per dedicarsi interamente al giornalismo, ormai in un vero e proprio ufficio di

corrispondenza. Da lui inaugu-rato e che ha poi visto la presen-za di Cristina Privitera, Federico Cortesi, Piero Fogli e Gabriele Nuti, con la collaborazione del sanminiatese Carlo Baroni. Gli avvenimenti più importanti del comprensorio del cuoio e delle pelli sono legati proprio alla sua economia. Mille concerie rappresentavano infatti una grande ricchezza ma anche un grande problema ecologico, fino ai drammatici giorni (anni ‘70-80) dell’ordinanza di chiu-

di Mario Mannucci

Un tempo fu la storia a lanciare i suoi centri col-linari. Oggi sono le pelli e

il cuoio a fare dei cinque comuni dell’omonimo comprensorio una capitale mondiale. La capi-tale mondiale, appunto, del cuo-io e delle pelli. Santa Croce, San Miniato, Montopoli, Castelfranco e Santa Maria a Monte (che però fa ponte anche con la Valdera), tutti più o meno uguali come peso anagrafico e nel complesso popolati da 70 mila persone, almeno metà delle quali stret-tamente legate alle concerie, calzaturifici, e simili, sono una potenza. E pur se la crisi pesa molto anche qui, anzi, più qui che da altre parti, il “compren-sorio” resta una grande quanto unica realtà. La Nazione lo sa da tempo, tanto che dagli anni ’80

vi opera attraverso un ufficio di corrispondenza, unico giorna-le ad averlo, con sede a Santa Croce, considerata a sua volta la capitale comprensoriale.

Fino agli anni ’30 del secolo scorso, questa zona, traver-sata dall’Arno e dominata

dalla rocca federiciana di San Miniato al Tedesco (l’imperatore Federico II scelse San Miniato come capitale del regno italico del nord) e da quella monto-polese di Matilde di Canossa, era nella provincia di Firenze e gravitava su Empoli. Poi Mus-solini fu costretto a ridisegnare la geopolitica delle province di Livorno, Pisa e Firenze per allargare il territorio labronico (come voleva la famiglia Ciano) per cui diversi comuni costieri pisani passarono a Livorno, con Pisa compensata a scapito

Un comprensorio di settantamila persone. Mario Lepri, per trent’anni,l’insuperabile giornalista del Comprensorio

sura emessa dalla magistratura pisana. Infine arrivò il grande depuratore, il più grande depu-ratore del mondo per quanto riguarda le lavorazioni chimiche, e il problema si risolse, pur con la burrascosa coda di dover tro-vare siti e discariche per i fanghi di resulta dell’impianto ecologi-co. Su questi temi, La Nazione è stata molto presente, con Mario Lepri, con i suoi collaboratori e successori, con gli inviati da Firenze.

Il “comprensorio” è una delle zone più ricche d’Italia - lo dicono le statistiche econo-

miche - e la battaglia è ora per superare la crisi senza uscirne con le ossa troppo rotte.

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