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LA NATURA DELLE EMOZIONI ALLA PROVA DELLE SCIENZE COGNITIVE

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LA NATURA DELLE EMOZIONI ALLA PROVA DELLE SCIENZE COGNITIVE

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1. IntroduzIone: qualI mappe per navIgare nell’oceano delle emozIonI

Da sempre al centro delle riflessioni filosofica e scientifica, lo stu-dio delle emozioni è stato definito «un campo di studi molto confuso e confondente» (Ortony, Clore e Collins 1988, 2). Numerosi pensatori, partendo dal «porto sicuro» dello studio di alcuni aspetti specifici della vita emotiva, hanno cercato di tracciare una rotta che permettesse di circumnavigare il continente «emozioni». Per esempio, Paul Ekman è partito dallo studio delle regolarità universali nell’espressione e nel riconoscimento di certe categorie di emozioni nei volti umani (Ekman 1989), e ha poi generalizzato quelle categorie fino a farne costituenti primari di tutta la vita emotiva (Ekman 1992; 1999). Parimenti, altri ricercatori hanno elaborato le proprie teorie delle emozioni avendo in mente certi fenomeni specifici, e generalizzando a partire da essi.

Il risultato è stato un’esplosione di «carte nautiche»: già nel 1981, Kleinginna e Kleinginna censirono 92 definizioni in parte divergenti, cui vanno aggiunte nove affermazioni scettiche. Per un ricercatore che desideri imbarcarsi nell’indagine sulla natura delle emozioni, affidarsi a una di queste mappe – o disegnarne una nuova – significherà vedere o non vedere alcune coste che avrebbe visto adottando un’altra rotta; addirittura, affidandosi a certe mappe, la sua nave rischierà di infrangersi contro gli scogli non previsti di alcuni fenomeni non segnalati sulla sua cartina.

Quali sono le ragioni di questa eterogeneità? La spiegazione a nostro avviso più convincente è quella presentata dal libro What Emo-tions Really Are di Paul Griffiths (1997). A suo giudizio, il termine del linguaggio ordinario «emotion» non si riferisce a un genere naturale, vale a dire: i fenomeni che il senso comune definisce «emozioni» non appartengono a un dominio omogeneo, accomunati da un medesimo meccanismo causale che renda possibile la proiezione e l’induzione1.

1 Questa nozione di genere naturale è stata sviluppata da Richard Boyd (1991) per rendere conto dell’eterogeneità delle categorie delle scienze speciali: infatti, una

SISTEMI INTELLIGENTI / a. XXIX, n. 1, aprile 2017

massImo marraffa marco vIola

QUALE MAPPA PER IL DOMINIO DELLE EMOZIONI?

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La «projectability» (termine coniato da Goodman 1955) è ciò che ci rende sicuri nell’applicare certe proprietà a casi non ancora osservati e a fenomeni nuovi che la teoria non aveva esplicitamente contemplato. Per esempio, quando osservo certe righe spettrali nella luce emessa da un piccolo tubo riempito di idrogeno e poi osservo le stesse righe in una lontana galassia, mi sento autorizzato a dire «laggiù c’è idrogeno» (l’e-sempio è in Piattelli Palmarini 1987). Per quanto concerne l’induzione, invece, bisogna tenere presente che i concetti di genere naturale (per es. gli elementi in chimica e le specie in biologia) svolgono un ruolo importante nel ragionamento induttivo perché i membri di un natural kind tendono a condividere molte proprietà fondamentali. La scoperta che un membro appartenente a un genere possiede una certa proprie-tà fornisce perciò una ragione per credere che anche gli altri membri condivideranno tale proprietà. Questa uniformità dei generi naturali li differenzia da classi di individui specificate arbitrariamente; infatti, nel caso di queste ultime, rilevare che un membro della classe possiede una certa proprietà (diversa da quelle che sono utilizzate per definire la classe stessa) non fornisce alcuna ragione di credere che altri membri di quella classe condivideranno tale proprietà. Di conseguenza, così come fu impossibile rinvenire le leggi astronomiche degli oggetti «sopraluna-ri», sarebbe impossibile (e fuorviante) cercare di rintracciare le leggi di una scienza delle emozioni in generale. Per tornare alla nostra metafora nautica, ogni rotta che pretendesse di circumnavigare il continente delle emozioni sarebbe destinata al fallimento per il semplice motivo che non c’è nessun continente, ma casomai un arcipelago.

Tre sono le «isole» identificate da Griffiths. La prima (e la più esplorata) è quella delle già citate emozioni di base, l’output di riflessi computazionali (moduli) denominati «affect programs». La seconda consiste invece di emozioni complesse, episodi emozionali che hanno una collocazione più centrale nel fitto intreccio della nostra vita menta-le. La terza, infine, è popolata da emozioni da intendersi come finzioni costruite socialmente, ovvero come schemi codificati culturalmente per svolgere determinati ruoli all’interno di una certa società. A queste tre isole se ne può forse aggiungere una quarta, appena abbozzata: quella degli stati d’animo (moods), emozioni di maggior durata, cioè a carattere non accessionale, che possono essere visti come stati disposizionali a carattere non finalizzato. (Gli esempi più tipici di condizioni emozionali non accessionali sono le fluttuazioni timiche, cioè le normali variazioni del tono dell’umore.)

Tuttavia, nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del fondamentale libro di Griffiths, nuovi navigatori hanno preso il largo e hanno riprovato

concezione essenzialistica di genere naturale, identificando le specie biologici tramite un insieme necessario e sufficiente di tratti fenotipici o genotipici, sarebbe risultata incom-patibile con la teoria dell’evoluzione, che richiede e origina dalla varietà fra individui.

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a formulare una cartografia comprensiva del dominio emotivo. Dopo-tutto, se l’impresa scientifica assomiglia almeno un po’ alla nave della celebre metafora di Otto Neurath, è legittimo aspettarsi che durante i loro viaggi i marinai abbiano migliorato lo scafo, e che dunque forse ora l’imbarcazione sia pronta per solcare mari ancora inesplorati.

È dunque interessante domandarsi se, grazie all’ausilio delle innova-zioni tecnologiche e concettuali degli ultimi vent’anni, qualche naviga-tore sia riuscito a compiere una circumnavigazione soddisfacente della sfera emotiva, riconsegnandole lo statuto di continente (cioè di genere naturale) che le era stato negato da Griffiths. Questa è la domanda che ci poniamo in questo articolo, comparando le mappe nautiche di due navigatrici, Martha Nussbaum e Lisa Feldman Barrett, alle più classiche carte nautiche prodotte (e perfezionate) dai teorici delle emozioni di base.

2. la versIone neostoIca della teorIa cognItIvo-valutatIva delle emozIonI

Secondo una tradizione consolidata, la base cognitiva di un’emo-zione è necessariamente una credenza; più specificamente, è una cre-denza valutativa o assiologica, ovvero una credenza la cui formulazione include espressioni che fanno riferimento a valori. Questa concezione sostiene, per esempio, che la base cognitiva del disprezzo nei riguardi di un particolare oggetto è un giudizio – un giudizio in cui all’oggetto viene attribuita la proprietà espressa dal predicato «spregevole». Con le parole di Robert Solomon (1977, 186), una credenza valutativa (o, più precisamente, il giudizio che esprime la credenza) è la condizione definitoria di ogni emozione.

La teoria delle emozioni di Martha Nussbaum appartiene a questa tradizione. Upheavals of Thought si apre con l’affermazione che le emozioni «involve judgments about important things, judgments in which, appraising an external object as salient for our own well-being, we acknowledge our own neediness and incompleteness before parts of the world that we do not fully control» (Nussbaum 2001, 19). Questa concezione nasce da una revisione dell’etica stoica antica; è, come ha osservato de Sousa (2004), un «cognitivismo neostoico modificato». Anche per gli stoici le emozioni sono giudizi valutativi, giudizi in cui viene attribuita un’enorme importanza a cose e oggetti «su cui non abbia-mo pieno controllo», e ciò in vista della piena «fioritura» delle capacità umane (human flourishing). Evidentemente, accogliere questa visione vuol dire respingere tutte quelle concezioni che descrivono le emozioni come moti non razionali, come «unthinking energies that simply push the person around» (Nussbaum 2001, 24). Insomma, sostiene Nussbaum, vuol dire accogliere una teoria cognitivo-valutativa delle emozioni.

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Il cognitivismo neostoico modificato formula tre tesi sulla natura delle emozioni. Primo, le emozioni sono sempre in relazione a qualcosa, ossia non sono cieche ma hanno sempre un oggetto; e questo oggetto è intenzionale, nel senso che figura nell’emozione così come è concepi-to e interpretato dalla persona che prova quell’emozione. Secondo, le emozioni presuppongono non già semplici modi di vedere gli oggetti bensì vere e proprie credenze su di essi. Terzo, al pari delle percezioni intenzionali, le credenze che danno vita alle emozioni sono sempre in relazione a un valore. Più precisamente, le emozioni chiamano in causa giudizi di valore «aristotelici»: quando un individuo prova un’emozione positiva nei confronti di un oggetto, non vi è soltanto il giudizio che l’oggetto ha valore, ma anche il giudizio eudaimonistico che l’oggetto è prezioso per il proprio benessere.

Collegare la nozione di valore al benessere individuale potrebbe farci scivolare in una visione utilitaristica, in cui gli oggetti delle emozioni vengono visti come mezzi per il soddisfacimento del soggetto. L’asse-gnazione alle emozioni di un carattere eudaimonistico pone al riparo da questo pericolo: si tratta infatti di un modo più sofisticato di definire le caratteristiche di una vita in cui l’individuo persegue il pieno sviluppo delle migliori capacità umane (giustizia, amicizia, vita intellettuale ecc.): «not only virtuous actions but also mutual relations of civic or personal love and friendship, in which the object is loved and benefited for his or her own sake, can qualify as constituent parts of a person’s eudaimonia» (Nussbaum 2011, 32).

Siamo di fronte a una riflessione molto importante. È vero: da almeno due decenni la teoria cognitivo-valutativa delle emozioni è sottoposta a critiche stringenti alla luce di teorie e dati delle scienze cognitive (cfr. per es. Griffiths 1997, cap. 1). E tuttavia, la revisione della teoria condotta da Nussbaum sembra in grado di evitare almeno alcune difficoltà che inficiano le versioni tradizionali. Secondo Ronald de Sousa (2014), per esempio, il punto di forza della teoria di Nussbaum risiede nel sottolineare che le emozioni non sono meri atteggiamenti proposizionali (il cui caso paradigmatico è «io credo che p»). L’importanza psicologica e morale delle emozioni – sostiene Nussbaum in Love’s Knowledge (1992) – può essere colta soltanto attraverso il mezzo artistico, e in particolare grazie alla letteratura, in cui l’inestricabile intreccio tra forma e contenuto rende possibile un messaggio dotato di sufficiente complessità.

2.1. Alcune difficoltà dell’assunto assiologico

De Sousa ha ragione: il cognitivismo stoico modificato di Nussbaum possiede una flessibilità e un’articolazione interna che lo rende preferibile agli approcci cognitivisti tradizionali. Ciò nonostante, come mostreremo

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fra poco, la teoria di Nussbaum può essere solo una componente di una teoria completa delle emozioni.

La tesi assiologica presupposta dalla teoria delle emozioni di Nussbaum – vale a dire, la tesi che un giudizio valutativo sia l’elemen-to definitorio di ogni emozione – è estremamente implausibile, e per varie ragioni. Alcuni filosofi hanno provato a correggerla, ma con esiti a nostro parere insoddisfacenti. Per esempio, Lyons (1980) ha aggiunto alla condizione della credenza un’attivazione corporea causata dalla credenza; Marks (1982) ha aggiunto il desiderio. Nel primo caso, la base valutativa determina causalmente un particolare tipo di attivazione corporea e l’emozione consiste nella credenza valutativa più l’attivazione corporea; nel secondo caso, l’emozione è analizzata come una particolare combinazione di credenze e desideri. In ambedue le revisioni si assume che la credenza valutativa svolga un ruolo fondamentale. (Una versione più debole di questo assunto afferma che condizione necessaria dell’e-sperienza emozionale è un particolare «pensiero» assiologico.) Come ora vedremo, però, tutte le varie versioni dell’assunto assiologico possono essere criticate alla luce di almeno tre differenti considerazioni.

Un primo problema che l’assunto assiologico deve fronteggiare riguarda la presenza delle emozioni negli animali e nei bambini molto piccoli. Questi ultimi hanno, per esempio, paura dei tuoni; e tuttavia questa loro paura presuppone non già una credenza o un pensiero as-siologico bensì qualche forma di valutazione di basso livello. Su questo punto Nussbaum si allontana dalla dottrina stoica: anche gli animali e i bambini molto piccoli formulano i giudizi valutativi presupposti dalle emozioni. Certo, a questi giudizi valutativi non si accompagna l’autoconsapevolezza; e questa forma di valutazione di basso livello non è esprimibile linguisticamente. Ciò malgrado, afferma Nussbaum (2001, 1), anche queste emozioni includono nel loro contenuto giudizi che possono essere veri o falsi, e guide buone o cattive alla scelta etica. Ciò che si richiede in questo caso è una nozione sfaccettata di «cog-nitive interpretation or seeing-as, accompanied by a flexible notion of intentionality that allows us to ascribe to a creature more or less precise, vaguer or more demarcated, ways of intending an object and marking it as salient» (2001, 129).

È legittimo concepire la valutazione di basso livello presente nelle emozioni degli animali e degli infanti sulla falsariga di un giudizio va-lutativo? Per Griffiths la risposta è negativa: «it is simply misleading to describe low-level appraisal as evaluative judgment, or using any other locution derived from a psychology that presumes a fundamental dis-tinction between data and goals. Instead, low-level emotional appraisal seems to involve action-oriented representation» (2004, 243).

Le rappresentazioni orientate all’azione a cui qui si fa riferimen-to sono stati interni particolarmente ben attrezzati per la produzione non costosa sotto il profilo computazionale di risposte appropriate, in

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condizioni ecologicamente normali. Il costrutto è stato sviluppato dal filosofo Andy Clark (1997, 29), che lo ha utilizzato per forzare in senso rappresentazionalista la teoria delle affordances di Gibson. Come è noto, per Gibson la percezione non è mediata da modelli interni dettagliati e neutrali rispetto all’azione; non è mediata da stati interni che richiedono ulteriore ispezione o sforzo computazionale per generare le azioni ap-propriate. Gli stati interni sono invece centrati sull’azione: gli organismi sono predisposti a rilevare affordances, ossia possibilità di uso, intervento e azione che l’ambiente offre a un agente incorporato. Fin qui Gibson. Clark va oltre sostenendo che quando si rappresenta il mondo-ambiente come un complesso di affordances, si creano stati interni che descrivono aspetti parziali del mondo e prescrivono possibili azioni e interventi2.

Ebbene, Griffiths si avvale di questa nozione per meglio definire la valutazione di basso livello negli esseri umani. Consideriamo, propone lo studioso, la valutazione di basso livello associata al tema relazionale centrale «un attacco umiliante a me e a ciò che è mio»3. Immaginiamo un giocatore intento a dribblare su un campo di calcio; un altro giocatore lo strattona per la maglietta, facendogli perdere palla; il primo, allora, si rivolge rabbiosamente verso il secondo. Ora, osserva Griffiths (2004, 244), sarebbe sbagliato affermare che in questo caso una qualche regione cerebrale pertinente crede che il tema relazionale centrale della rabbia sia stato istanziato. Le credenze sono stati mentali che rappresentano come il mondo è e che producono l’azione in congiunzione con i desideri, che rappresentano come il mondo dovrebbe essere. Ma nella valutazione di basso livello associata alla rabbia non è in discussione quale azione sarà compiuta: il giocatore frustrato si rivolgerà verso lo stimolo, produrrà l’espressione facciale panculturale della rabbia e subirà i mutamenti fisiologici che lo preparano all’azione aggressiva. Nell’esempio la «computazione emozionale» è nello stesso tempo la credenza che il mondo è in un certo modo e l’intenzione ad agire in un certo modo. In altre parole, la computazione richiede una rappresentazione orientata all’azione; e questa è una definizione più appropriata della valutazione di basso livello negli animali e nei bambini molto piccoli.

Una seconda difficoltà a carico dell’assunto assiologico è l’esistenza di esperienze emozionali che non presuppongono alcuna credenza o pen-siero assiologico. Si pensi, ad esempio, al disgusto; oppure a un piacere ricavato dallo svolgimento di una certa attività. Il disgusto che è causato dalla percezione di qualcosa di viscido non richiede necessariamente che

2 Qui Clark rinvia alle rappresentazioni denominate da Millikan «pushmi-pullyu». Al pari dell’immaginario animale del dottor Dolittle, queste rappresentazioni guardano simultaneamente in due direzioni opposte: descrivono com’è il mondo e prescrivono uno spazio di risposte adattive. Cfr. Millikan (2001).

3 I «core relational themes» sono relazioni organismo/ambiente che hanno impor-tanza per il benessere dell’organismo. Cfr. Lazarus (1991).

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si giudichi o si pensi esplicitamente che la cosa in questione sia rivoltan-te, disgustosa, ecc. E nemmeno il piacere connesso allo svolgimento di un’attività richiede necessariamente una credenza o un pensiero: posso trarre diletto dall’ascolto di un brano musicale senza giudicare o credere che il brano sia bello – il mio piacere è semplicemente una modificazione dell’attività di ascolto che la rende più vivida, più partecipativa, così da assorbirmi corpo e anima (cfr. Calabi 1999).

A queste considerazioni si potrebbe obiettare che disgusto e piacere non sono esempi di emozioni. Ma a questa obiezione si può replicare in due modi. Primo, l’obiezione impoverisce il nostro repertorio emozionale. Fra l’altro, proprio il disgusto – e precisamente nel senso appena delineato – è annoverato fra le emozioni di base o primarie in molte tassonomie contemporanee (vedi più avanti). Il piacere come lo abbiamo inteso qui, ossia come parte non autonoma di un’attività, non può essere assimilato a una sensazione corporea localizzata. Piuttosto, esso è la particolare tonalità emozionale con cui si vive lo svolgimento di quella particola-re attività. Più in generale, si può sostenere che questa linea di difesa presuppone un punto di vista a priori sulle emozioni che, rinegoziando al ribasso i confini dell’explanans, impedisce di comprendere alcuni fenomeni pertinenti. Come vedremo, si tratta di una strategia ricorrente.

Infine, la terza critica dell’assunto assiologico concerne l’incap-sulamento delle emozioni. In taluni casi il sistema di elaborazione di informazione emozionale non utilizza – e nemmeno interagisce con – il contenuto informativo di altri sistemi cognitivi. In questo senso, le emozioni sono dette «isolate sotto il profilo inferenziale». Tuttavia, se le emozioni hanno un contenuto proposizionale assiologico, non possono essere inferenzialmente isolate giacché devono essere implicate da al-tre proposizioni e a sua volta implicano altre proposizioni, in tal modo occupando particolari nodi in talune reti inferenziali.

L’isolamento inferenziale equivale all’«impenetrabilità cognitiva» o all’«incapsulamento informativo» delle computazioni eseguite dai siste-mi modulari (Fodor 1983). E vi sono prove dell’esistenza di emozioni impenetrabili o incapsulate. Soffermiamoci su questo punto.

2.2. La modularità delle emozioni (di base)

Nussbaum ritiene che la classica presentazione della teoria dell’ap-praisal di Richard Lazarus sia «per tutti gli aspetti essenziali, la conce-zione delle emozioni che ho difeso nel primo capitolo» (Nussbaum 2001, 109). Ora, che cosa dice la teoria di Lazarus? Il suo nucleo essenziale consiste nella tesi che le emozioni richiedono un tipo di elaborazione di informazioni che è sufficientemente sofisticato da meritare la qualifica di «cognitivo». In altri termini, Lazarus ritiene che le emozioni siano molto simili a processi cognitivi prototipici come il problem solving o

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il decision making; e molto diverse da processi paradigmaticamente non cognitivi quali i riflessi.

Tuttavia, come la stessa Nussbaum (2001, cap. 2, § 2) ci ricorda, negli anni ottanta del secolo scorso Robert Zajonc respinse la teoria dell’appraisal di Lazarus (cfr. anche Griffiths 1998, 199). Il punto di partenza di Zajonc erano alcuni dati empirici che inducevano a ipotizzare l’esistenza di vie dirette dal sistema percettivo al sistema limbico, da molti ritenuto responsabile dell’integrazione dei complessi comportamentali emozionali. A suo parere, queste erano prove del fatto che i processi che collegano la percezione e le emozioni non possono essere considerati «cognitivi». Piuttosto, l’elaborazione di informazioni emozionale ha un carattere «modulare», nel senso di essere una rapida risposta stereoti-pata, simili a un riflesso, controllata da un sottosistema che computa un database limitato, ed è in larga misura indipendente dai processi alla base della pianificazione razionale delle azioni. Tre sono gli argomenti offerti da Zajonc a sostegno di questa tesi.

In primo luogo, lo psicologo chiama in causa alcuni esperimenti che sembrano dimostrare la possibilità di condizionare risposte emotive differenziali avvalendosi di stimoli subliminali. Nessuna informazione relativa a questo genere di stimoli è disponibile a processi cognitivi superiori paradigmatici quali il ricordo cosciente e il rapporto verbale (cfr. per es. Kunst-Wilson e Zajonc 1980).

In secondo luogo, alcune emozioni umane – quelle che, come vedremo fra breve, sono concepite come il prodotto di certi affect program – e le risposte di organismi molto più elementari sono omologhe4 e localiz-zabili in strutture cerebrali simili5. Infine, l’ipotesi della modularità dà conto del carattere di passività che tradizionalmente il senso comune attribuisce alle emozioni: al pari dei riflessi o degli input percettivi, le emozioni sembrano accadere agli individui, piuttosto che essere piani-ficate ed eseguite.

La concezione modulare delle emozioni di Zajonc ha fornito le fondamenta per la teoria degli affect program. Quest’ultima si inserisce nel quadro dell’approccio psicoevoluzionista allo studio delle emozioni, ispirato dagli studi di Darwin (1872) sulle espressioni delle emozioni. Ignorato dalla psicologia comportamentista, il lavoro di Darwin fu ri-scoperto dall’etologia classica, e ispirò il lavoro di diversi psicologi del secolo scorso, tra cui Silvan Tomkins e il suo discepolo Paul Ekman.

La teoria psicoevoluzionista propone una spiegazione unitaria di un repertorio di emozioni di base (o «primarie»), e lo fa postulando che la filogenesi ci abbia lasciato in eredità dei meccanismi causali alla base di

4 Ossia, hanno la stessa origine evolutiva, anche laddove adempiano a funzioni diffe-renti: per es. le ali del pipistrello, le pinne del delfino e il braccio di un uomo sono organi omologhi in quanto si sono evoluti dalle pinne pettorali appaiate di un pesce primitivo.

5 Ma su questo punto si vedano più avanti, le critiche dei costruzionisti.

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non tutte tre sono riconducibili direttamente a Zajonc. E visto che la nostra priorità non è filologica, direi di far cadere semplicemente questo punto
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ciascuna di esse6. Tali emozioni sono caratterizzate da specifiche risposte fisiologiche, espressive, comportamentali, cognitive ed esperienziali a eventi ambientali (Ekman e Cordaro 2011, 365); e ad attivare e coordinare queste risposte rapide e stereotipate è un meccanismo computazionale, il già citato affect program. Le modalità di elaborazione dell’informazione di un affect program lo apparentano a un modulo fodoriano: si tratta infatti di un sistema che viene attivato da una gamma ristretta di input percettivi, che attinge esclusivamente a un database dedicato e opera in autonomia dai processi soggiacenti la pianificazione dell’azione (vedi la tab. 1)7. In condizioni di emergenza, di fronte a gravi pericoli, le caratteristiche modulari consentono all’affect program di operare come un sistema fail-safe, che sequestra il comportamento allorquando, di-sponendo di un tempo molto limitato, è essenziale che l’agente faccia immediatamente la cosa giusta, anche a costo di affidarsi a conoscenze esigue e sommarie.

6 Come ricorda Colombetti (questo volume), Darwin non postulò mai una biparti-zione delle emozioni tra quelle di base e le altre: la distinzione sarebbe stata introdotta dai suoi epigoni.

7 Cfr. Griffiths (1990). Si noti però che la specificità di dominio richiesta da questo approccio modulare non richiede che le condizioni elicitanti universali siano specificate nei termini di caratteristiche fisiche dell’ambiente: la vista di un ragno, per esempio, può attivare l’affect program della paura in certi individui ma non in altri. È proprio per rendere conto di queste variabilità individuali che Ekman ha postulato l’esistenza di un «appraisal mechanism», specificando tuttavia come questi si tratti di un «automatic appraisal mechanism». Griffiths ha insistito particolarmente su questa plasticità degli affect programs dal lato dell’input, arrivando a sostenere che «most emotion-eliciting stimuli are learned» (1997, 89), ma sottolineando come questo tipo di «apprendimento» vada inteso come una sorta di processo associativo pavloviano con un’inclinazione innata verso certi tipi di stimoli biologicamente salienti.

tab. 1. Una comparazione delle caratteristiche dei moduli di Fodor (1983) e degli Affect Programs così come formulati nella prima versione della teoria delle Basic Emotions di Ekman (1992), divise per gruppi

Caratteristiche dei moduli fodoriani Caratteristiche delle Basic Emotions nella prima formulazione di Ekman

Domain specificityInformational encapsulationLimited accessibility

Distinctive Universal signalsAutomatic Appraisal, tuned to:Distinctive universals in antecedent events

Obligatory firing Unbidden occurrence

Fast speedShallow outputs

Quick onsetBrief duration

Characteristic ontogeny Distinctive appearance developmentallyPresence in other primates

Fixed neural architecture Distintive physiology

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Gli episodi emotivi prodotti dagli affect programs sembrano insomma costituire un limite invalicabile per la teoria di Nussbaum, che vorrebbe definire tutte le emozioni in termini di giudizi assiologici. Ma come vedremo, è vero anche l’inverso.

2.3. I limiti dell’approccio psicoevoluzionista

Dal canto suo, la teoria psicoevoluzionista degli affect program è in affanno quando si tratta di spiegare episodi emozionali più complessi e di maggiore durata che pure popolano le narrazioni psicologico-ingenue sulla vita mentale – e con cui la teoria neostoica sembra cavarsela deci-samente meglio: colpa, risentimento, invidia, vergogna, gelosia, fedeltà, imbarazzo, e così via.

Consideriamo per esempio l’ipotesi di David Buss (2000) sulla gelosia sessuale. Buss è uno psicologo evoluzionistico e ha teorizzato un sistema modulare alla base della gelosia sessuale, innescabile da semplici stimoli percettivi quali il mutamento della condotta sessuale, un contatto oculare eccessivo e la violazione delle regole che governano lo spazio peripersonale. Trattandosi di un meccanismo modulare, esso impiega algoritmi specifici per dominio e, al pari di un affect program, opera come un sistema «di sicurezza».

Tuttavia, se considerata dal punto di vista dell’input, un’emozione come la gelosia è sensibile a una gamma di informazioni ben più ampia di quella disponibile a un automatic appraisal mechanism. Perciò il meccanismo alla base della gelosia non può essere attivato come sa-rebbe legittimo attendersi se operasse come un affect program. Il punto è espresso in modo incisivo da Griffiths: «If Othello’s sexual jealousy had been an affect program or a downstream cognitive effect of such a program, he would have had to catch Desdemona in bed with Cassio, or at least have seen the handkerchief, before his jealousy was initiated» (1997, 117).

Inoltre, dal punto di vista dell’output, la gelosia è una risposta di maggior durata rispetto alle reazioni degli affect program; non esibisce il repertorio stereotipato di effetti fisiologici che caratterizza le emozioni primarie; e appare assai più integrata in attività cognitive quali la piani-ficazione dell’azione a lungo termine. Quest’ultimo aspetto è in primo piano nella teoria sociobiologica delle emozioni morali di Robert H. Frank: in questa teoria le emozioni cognitive sono risposte irrazionali a breve termine volte a garantire la razionalità dell’agente a lungo termine. Per esempio, la fedeltà porterebbe spesso alla cooperazione a lungo termine piuttosto che alla defezione a breve termine in interazioni sociali che hanno la struttura di un dilemma del prigioniero iterato (Frank 2011).

Insomma, vi sono buone ragioni per ritenere che, con buona pace degli psicologi evoluzionisti, un episodio emozionale complesso come

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la gelosia richieda l’intervento di meccanismi psicologici diversi da (o ulteriori a) quelli degli affect programs.

Tuttavia, secondo Ekman (1992; 1999), la teoria delle emozioni di base sarebbe sufficiente a rendere conto di tutte le emozioni propria-mente dette. Egli non nega l’esistenza di fenomeni più complessi, come ad esempio il caso della gelosia; tuttavia, laddove questi fenomeni non siano semplicemente riconducibili alla combinazione di più emozioni di base, li «relega» ad altre categorie satellite del dominio emotivo – umori, attitudini emotive, disordini emotivi o copioni emotivi (emotional plots) – negando per(ci)ò che possano assurgere alla qualifica di emozioni in senso proprio. Non solo: l’etichetta di emozione viene anche negata a un fenomeno che tipicamente considereremmo latu sensu emotivo, quale il trasalimento (startle reaction) perché i meccanismi soggiacenti, per-sino troppo semplici per qualificarli come sistemi modulari, sarebbero piuttosto quelli di un riflesso.

Abbiamo già discusso una strategia di ridefinizione (a ribasso) dei confini dell’uso legittimo del termine emozione come possibile contro-obiezione alla teoria neostoica, e abbiamo espresso il nostro scetticismo al riguardo: si tratta di una strategia a priori che non aggiunge niente alle nostre teorie delle emozioni, e anzi le impiccia, gravandole del fardello di una (ennesima) disputa meramente verbale.

Proprio in riferimento polemico a questa mossa di Ekman, Scarantino (2012) battezza questa rinegoziazione lessicale dei confini dell’explanans «strategia ex cathedra». Ad essa contrappone una strategia riformista e pluralista per difendere le basic emotions, sviluppata assieme al suo maestro Griffiths (Scarantino e Griffiths 2011; Scarantino 2015) e ispirata al suggerimento prudenziale di LeDoux (2012): «un’emozione alla volta». Il fulcro della strategia di Scarantino è quella di tracciare delle distinzioni nel dominio delle emozioni, abbandonando le catego-rie ingenue mutuate dal senso comune («paura», «rabbia», «disgusto», «gioia», «tristezza» e «sorpresa») in favore di sotto-categorie a grana più fine e maggiormente validate – di cui un esempio potrebbe essere il tipo di paura prodotta dall’improvvisa perdita d’appoggio (Öhman e Mineka 2001). Inoltre Scarantino ammette esplicitamente che la teoria degli affect programs non può da sola spiegare tutta la sfera della vita emotiva: per rendere conto delle emozioni più complesse e della va-riabilità delle singole emozioni (un altro tallone d’Achille delle teorie delle emozioni di base; vedi oltre) invoca l’integrazione di strumenti esplicativi provenienti da altre tradizioni, come il costruttivismo (su cui vedi oltre) o la teoria dei sistemi dinamici (su cui vedi il contributo di Colombetti, questo volume). Vale la pena di notare che anche gli altri teorici che hanno recentemente difeso una qualche versione della teoria delle emozioni di base (con l’eccezione forse di Ekman e Cordaro 2011) l’hanno fatto ammettendone i limiti e accettando qualche passo indietro: Levenson (2011) ammette ad esempio che a fianco delle emozioni di

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base (e costruite sulla base di queste) vi possano essere delle risposte emotive secondarie, mentre Frijda e Parrott (2011) postulano, al posto delle emozioni di base, le così dette «ur-emotions», universali emotivi biologici che però, invece di tradursi necessariamente in schemi d’azione ben definiti, si limitano a disporre l’organismo verso di essi.

Dunque, anche la teoria delle emozioni primarie sembra davanti a un bivio: o nega la pertinenza che i fenomeni emotivi complessi e prolungati come la gelosia siano emozioni vere e proprie (come nel caso di Ekman), o più modestamente ammette di non riuscire a trattarle senza allargare il proprio repertorio di risorse esplicative oltre ai confini della teoria psicoevoluzionista (la direzione in cui vanno le proposte di Scaranti-no, Levenson o Frijda e Parrott). In entrambi i casi, è lecito pensare le emozioni complesse potranno essere ridotte a emozioni primarie o venir intese come combinazioni o elaborazioni di queste ultime.

2.4. Il modello di Le Doux: a ognuno il suo?

Le teorie esaminate sin qui sembrano ben descrivere due differenti categorie di emozioni: le emozioni primarie, risposte emozionali di breve durata a una classe limitata (ancorché parzialmente plastica) di eventi ambientali, con omologhi in altri vertebrati; e le emozioni complesse, episodi emozionali complessi che sono sensibili a una gamma molto più ampia di informazioni (inclusi i propri pensieri), non esibiscono effetti fisiologici stereotipati, hanno maggior durata e sono ben integrati nella cognizione centrale.

Queste due classi di fenomeni sembrano a prima vista ben rispec-chiare il modello della doppia via introdotto da LeDoux (1998). Se-condo l’autore de Il cervello emotivo, il sistema nervoso centrale dei mammiferi dispone di due vie per l’elaborazione degli stimoli emotivi: da un lato, vi sarebbe una via corticale, che proiettando l’informazione alla neocorteccia ne permette una valutazione più accurata e garantisce l’accesso alla coscienza, proprio perché non isolata informativamente; dall’altro, vi sarebbe una via sotto-corticale e inconscia che, aggirando la più informata ma più lenta elaborazione corticale, permetterebbe una risposta semplice ma molto rapida8.

Si sarebbe tentati di accettare il modello di LeDoux ed asserire che le teorie degli affect programs rendono conto dell’elaborazione emotiva sottocorticale, laddove invece la teoria neostoica fornisce una buona descrizione dell’elaborazione corticale. Ma le cose sono ancora più com-

8 Una prova particolarmente robusta dell’esistenza di questa via sotto-corticale si può trovare negli studi sull’impatto degli stimoli emotigeni a pazienti incapaci di processarli coscientemente perché affetti da negligenza spaziale o unilaterale o da visione cieca (su cui si rimanda al contributo di Celeghin, Diano, Bagnis e Tamietto (questo volume).

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plesse: non solo perché la validità del modello di LeDoux è attualmente dibattuta9, ma anche perché né la teoria di Nussbaum né tantomeno le teorie psicoevoluzioniste sembrano in grado di rendere conto di una terza famiglia di fenomeni emotivi già descritta da Griffiths: quella delle emozioni come costruzioni sociali.

3. emozIonI costruIte socIalmente

Nussbaum (2011, cap. 3) esamina attentamente la strategia costrutti-vista che indaga le emozioni alla luce delle pratiche sociali che conferi-scono significato alle cognizioni individuali. Tuttavia, la sua adesione a una concezione delle emozioni solo cognitivista le impedisce di prendere le distanze dalla versione più radicale del costruttivismo, vale a dire, il social concept model (Griffiths 1997, 140). Quest’ultimo consiste nella semplice estensione dell’approccio cognitivo-valutativo alle emozioni. Le emozioni sono ancora giudizi su stati di cose del mondo, ma qui le categorie che plasmano i giudizi sono non già naturali bensì socio-culturali. Se gli oggetti delle emozioni sono culturali, esse variano da una società all’altra.

Tuttavia vi è un altro modello costruttivista delle emozioni che prende una direzione affatto diversa. Questa è la teoria di James R. Averill, che definisce l’emozione come «a transitory social role (a socially consti-tuted syndrome) that includes an individual’s appraisal of the situation, and is interpreted as a passion rather than as an action» (1980, 312). Un ruolo sociale è uno schema comportamentale tipico, osservabile in un certo contesto sociale. Si pensi, ad esempio, al ruolo sociale che un individuo assume dopo essere stato eletto in Parlamento: un deputato entra in una rete di pratiche sociali entro cui svolge un ruolo particolare. Il ruolo che ricopre è relativamente duraturo e manifesto, nel senso che tutti concordano sul fatto che l’essere un deputato significa essere trat-tato in una certa maniera. Invece, nel caso di stati emozionali costruiti socialmente è necessario parlare di ruoli sociali transitori e dissimulati. Questi ruoli sono transitori perché un individuo li svolge esclusivamente in situazioni di breve durata e stressanti. Essi autorizzano condotte al-trimenti inaccettabili: in questi casi, cioè, si sfrutta il carattere passivo normalmente attribuito alle forti emozioni e alle passioni improvvise, amorose o aggressive, al fine di sottrarsi alla responsabilità per l’azione compiuta. Inoltre, tali ruoli sono dissimulati nel senso che si strutturano solo in quanto la società non riconosce esplicitamente né la loro funzione, né le pratiche sociali in cui questi ruoli sono inclusi.

9 Si vedano per esempio le obiezioni di Pessoa e Adolphs (2010) e la replica di de Gelder, van Honk e Tamietto (2011).

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Un esempio di sindrome costruita socialmente è la condizione di «uomo selvatico» (ahaDe idzi Be), uno stato affine all’isteria osservato presso i Gururumba della Nuova Guinea (Newman 1964). In tale condi-zione il soggetto si aggira furibondo per il villaggio, facendo man bassa di oggetti di poco valore e aggredendo gli astanti. Tale stato di frenesia è concepito dalla comunità come una malattia, e alla condotta antisociale è riservato un atteggiamento tollerante. Ora, la condizione di uomo sel-vatico è limitata per lo più a soggetti maschi fra i 25 e i 35 anni, un’età, vale a dire, in cui è probabile che essi si vengano a trovare sotto una notevole pressione finanziaria a seguito dell’acquisizione di una moglie. Il comportamento drammatico e violento associato alla condizione si manifesta allorché l’individuo non è in grado di far fronte ai suoi obblighi finanziari. Una volta messo in atto tale comportamento, si ottiene un atteggiamento indulgente nei confronti delle proprie inadempienze. Si può pertanto supporre che la condizione di uomo selvatico sia un espediente grazie al quale un individuo si sottrae ai normali obblighi sociali senza contestarne la legittimità. La sua è un’azione, ma non è riconosciuta come tale né da lui né dalla comunità: il carattere involontario delle condotte da uomo selvatico è parte integrante di questo ruolo sociale.

È interessante notare che Ian Hacking (1995) ha descritto una forma di costruzione sociale molto simile a quella osservata presso i gururum-ba: il disturbo di personalità multipla (opportunamente ribattezzato dal DSM-IV «disturbo dissociativo dell’identità»). Secondo Hacking, la moderna sintomatologia del disturbo dissociativo dell’identità si è evoluta all’unisono con le teorie del disturbo. Incanalando la propria sofferenza psicologica nelle forme riconosciute dalla teoria corrente, i pazienti sono riusciti ad essere accettati socialmente in quanto «malati» e a ricevere un feedback positivo da psicoterapeuti, gruppi di sostegno ecc. Agli esordi della moderna epidemia del disturbo dissociativo dell’i-dentità i pazienti raramente presentavano la gamma completa di sintomi. I pazienti, sostiene Hacking, sono stati «addestrati» a produrre i sintomi del disturbo dissociativo dell’identità, prima da terapeuti esperti e quindi da un movimento volontario di profani. Oggi, con l’ausilio della lette-ratura e dei talk shows televisivi, i pazienti sono in grado di produrre i sintomi senza essere istruiti individualmente. Il disturbo dissociativo dell’identità è diventato parte della cultura locale in regioni affette da epidemia del disturbo.

Per ricapitolare. Le emozioni di ruolo sociale si differenziano dal-le altre emozioni non soltanto in virtù della loro specificità culturale, ma anche per la loro psicologia. Esse sono tentativi, in larga misura inconsci, di simulare un insieme di proprietà che appartengono ad altre emozioni – di sfruttare lo status speciale accordato alle emozioni in virtù della loro passività (Griffiths 1997, 245). Ciò significa che la loro eziologia include i meccanismi inconsci della cognizione sociale, e non già i meccanismi periferici degli affect programs o i meccanismi più

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centrali delle emozioni complesse. Pertanto le emozioni di ruolo sociale non sono spiegabili sulla falsariga degli altri due tipi di emozione: sono un tipo di stato autonomo, che tuttavia «parassita» il repertorio emotivo universale, prodotto dall’evoluzione.

4. la teorIa dell’atto concettuale

Come abbiamo visto, né la tradizione psicoevoluzionista degli affect programs né la teoria neostoica di Martha Nussbaum sembrano singolar-mente sufficienti per ricomporre in un quadro unitario il reame emotivo. Nemmeno l’adozione parallela di entrambe le strategie sembra bastare, in quanto nessuna sembra dotata delle risorse esplicative per rendere conto delle emozioni costruite socialmente.

Prendiamo però ancora in esame un’altra teoria, che sembra porsi la sfida ambiziosa di riunificare entro un’unica cornice esplicativa tutti i fenomeni affettivi: la teoria dell’atto concettuale (da qui in avanti TAC), che è stata sviluppata (ma, per le ragioni che discuteremo a breve, sarebbe forse meglio dire: che sta venendo sviluppata) dal gruppo di Lisa Feldman Barrett. TAC nasce in aperta polemica contro le teorie che postulano l’esistenza di categorie emozionali discrete, come le varie teorie degli affect programs o alcune varianti delle teorie dell’appraisal: a detta di Barrett, aspettarsi che la mente sia organizzata secondo generi naturali all’incirca corrispondenti alle nostre categorie ingenue (come «paura», «gioia» ecc.) significa peccare di essenzialismo (Barrett 2006). Al con-trario, la sua teoria riprende il pensiero del suo maestro Russell, nonché quello di James e di Wundt, nel ritenere che ogni episodio emozionale scaturisca dall’interazione di processi mentali più elementari – ragion per cui si parla di «costruzionismo psicologico».

Quali sono dunque le componenti che formano un’emozione? In-nanzitutto, Barrett mutua da Russell la nozione di Core Affect, ovvero: «A neurophysiological state that is consciously accessible as a simple, nonreflective feeling that is an integral blend of hedonic (pleasure-dis-pleasure) and arousal (sleepy-activated) values» (Russell 2003, 147). Questo Core Affect è tipicamente rappresentato come un diagramma car-tesiano in cui si incrociano due assi (denominato The Affect Circumplex; vedi fig. 1): le ordinate rappresentano il grado di attivazione laddove le ascisse rappresentano la valenza edonica.

Tuttavia, per Barrett (come già per Russell) la nozione di Core Affect è necessaria ma non sufficiente per caratterizzare appieno la vita emotiva: dopotutto, gli stati di rabbia e di paura, entrambi caratterizzati da una bassa piacevolezza e da un’alta attivazione, si troverebbero a occupare lo stesso punto nella mappa del Core Affect.

Invece, la TAC asserisce che un episodio emozionale si dà quando un qualche atto di concettualizzazione riveste di significato questo stato

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«affettivo» di sfondo, interpretandolo alla luce della propria esperienza pregressa e mettendolo così in relazione con un qualche stimolo ester-no10. Di contro all’approccio dominante della psicologia sperimentale, che tende a concepire la mente come meramente reattiva agli stimoli esterni, la teoria di Barrett insiste sul fatto che la vita mentale sia sem-pre intrinsecamente attiva, e caratterizzata dalla costante interazione tra domini erroneamente concepiti come distinti – la sfera concettuale (che corrisponde all’incirca alla memoria e al pensiero concettuale), quella sensoriale (che monitora gli stimoli esterni) e il Core Affect (che monitora lo stato interno dell’organismo). Un’emozione dunque corrispondereb-be a un atto di concettualizzazione che interpreta un cambiamento del Core Affect alla luce di una data situazione ambientale (Barrett, Wilson-Mendenhall e Barsalou 2015; cfr. anche Lindquist 2013).

10 Nell’invocare l’intervento di questi processi top-down, Barrett e colleghi (2015) si ricollegano in maniera esplicita alla recente ondata di teorie cognitive che sostengono che i processi top-down siano più pervasivi e più costitutivi della nostra vita mentale di quanto non si sia finora pensato – uno su tutti il Predictive Processing (su cui cfr. Clark 2013).

fIg. 1. The Affect Circumplex. Ognuno, in pratica, sa che può scoprirsi collocato, in ogni dato momento, in qualche punto di una mappa disegnata da quattro estremi. Qui noi possiamo sentirci: (1) euforicamente eccitati e agitati; oppure (2) beatamente calmi e sedati; o (3) sgradevolmente eccitati (cioè preda di quell’irrequietezza ansiosa che può sconfinare nel panico o nell’aggressività); oppure altre volte (4) immobili e quasi congelati in una sorda e chiusa ostilità, o nella sofferenza della depressione. (1) e (2) sono situazioni «piacevoli», (3) e (4) situazioni «spiacevoli»; (1) e (3) sono situazioni «agitate», (2) e (4) situazioni «calme».

Fonte: Widen e Russell (2008).

High Arousal

Displeasure Pleasure

Low Arousal

FearAnger

Disgust

Sadness

Surprise

Contentment

Excitement

Happiness

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La TAC viene ascritta al novero del costruzionismo psicologico in quanto postula che le emozioni emergono da un intreccio di operazioni psicologiche più semplici. Ma in più sedi Barrett (es. 2012) enfatizza come la TAC sia anche una forma di costruzionismo sociale: infatti, trai processi di categorizzazione che costituiscono l’esperienza emotiva un ruolo centrato è giocato dal linguaggio, che organizza l’esperienza emotiva entro categorie discrete e codificate culturalmente (Lindquist, Satpute e Gendron 2015). Entro questa cornice teorica, le presunte emozioni di base come «paura», «rabbia», «sorpresa», «gioia» e «disgusto» si vedono private della loro presunta realtà biologica, ma la loro «realtà» viene recuperata al livello sociale – dove però stanno al pari di altre categorie emotive tipicamente considerate «non di base», come la gelosia, e sono dipendenti dal contesto culturale.

4.1. Pro e contro della teoria dell’atto concettuale

La mole di dati empirci presa in esame dai sostenitori della TAC è ragguardevole, così come notevole sono le sue sollecitazioni teoriche e la pervicacia dei suoi difensori. Ai suoi sostenitori vanno riconosciuti diversi meriti: quello di averci messo in guardia dal rischio di postulare che la mente e il cervello siano suscettibili di scomposizioni ricalcate sulle nostre categorie ingenue; quello di aver enfatizzato che i confini tra le emozioni e le altre sfere della vita mentale sono ancora più sfumati di quanto si pensasse, e forse persino arbitrari (vedi oltre); infine, quello di aver imposto l’attenzione sulla variabilità, oltre e piuttosto che sulle regolarità, negli episodi emotivi.

Ciò nonostante, crediamo che la TAC, per lo meno nella sua formu-lazione attuale, soffra di diversi problemi, e che sia lungi dal costituire una teoria unificata delle emozioni.

Primo, ci pare che l’enfasi nei confronti delle variabilità nelle emozioni posta dai sostenitori dalla TAC li induca a sottovalutare le regolarità. Per esempio, le numerose regolarità comportamentali rinvenute dai teorici degli affect program sono derubricate alla stregua di co-occorrenze accidentali indotte da qualche co-occorrenza nelle condizioni elicitanti – che, nei contesti di laboratorio, sarebbero frutto dei limiti di validità ecologica nei setting sperimentali.

Inoltre, la TAC mobilita una vasta mole di dati neuroscientifici per dimostrare che nessuna delle emozioni di base correli in maniera re-golare e univoca con una specifica regione cerebrale. Tuttavia, diverse voci critiche hanno lamentato che per rivendicare la realtà neurale di un costrutto neurale non è necessario (e con tutta probabilità non è neanche possibile) che questo attivi una e una sola regione: sarebbe invece sufficiente che ogni categoria correlasse in maniera sufficientemente stabile con un dato pattern di attività cerebrale, anche distribuita. E si

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dà il caso che una simile evidenza sia stata trovata. La contro-replica dei costruzionisti è che per dimostrare la realtà psicologica di un costrutto non basta un pattern qualsiasi, ma serve che questo pattern corrisponda ai circuiti neurali «originari e intrinseci» del cervello umano (che si presumono essere attivi anche nei domini extra-emotivi).

Neppure gli studi di Panksepp (1998), che dimostrano la presenza di strutture sotto-corticali omologhe nel cervello di varie specie di mammi-feri, sembrano contare come evidenze a favore di una certa universalità filogenetica di certe emozioni. Qui la risposta dei costruzionisti è du-plice: da un lato, Barrett e colleghi negano che i circuiti sotto-corticali coinvolti in semplici risposte stereotipate (per es. freezing) possano rivendicare lo statuto di moduli per un’emozione, che è una categoria psicologica più complessa. Secondo, accusano Panksepp di postulare una visione semplicistica della filogenesi cerebrale, secondo la quale le strutture corticali filogeneticamente più recenti andrebbero a sedimentarsi su strutture più arcaiche senza mutarle; di contro Barrett e il suo team sottolineano come i mutamenti dell’evoluzione abbiano investito tanto la neo-corteccia quanto le aree sotto-corticali.

La diatriba, di cui si è dato solo un assaggio, è ovviamente più com-plessa di così e tuttora in corso (per una discussione critica e per relativa la bibliografia, si rimanda agli interventi di Caruana e di Celeghin e colleghi contenuti nel presente volume). Per conto nostro, constatiamo come le numerose frecce dell’arco di Barrett e colleghi abbiano contribuito non poco a sollecitare i difensori degli affect program a fare qualche passo indietro rispetto alle ambizioni esplicative di Ekman – e forse qualche passo avanti nella direzione di una teoria più raffinata (vedi sopra).

Purtroppo, alla mordace pars destruens rivolta verso i teorici delle emozioni di base (e non solo) i teorici della TAC non hanno fatto seguire una pars construens articolata e gravida di predizioni. Barrett e colleghi se ne rendono conto, e si difendono puntualizzando quanto segue:

Given that the conceptual act theory is about a decade old, it is not surpri-sing that many of its key formulations represent hypotheses yet to be tested. Perhaps its main value at present is to prescribe a different scientific paradigm for the design and interpretation of experiments (to seek out explicitly and mo-del variation within each emotion category rather than attempting to aggregate across instances to find the essence of each category, and to engage in complex analysis of interacting domain-general systems over the time that an emotional episode unfolds) (2015, 104).

Ma supponiamo che la TAC venga articolata a sufficienza da per-metterci di cogliere regolarità prima impossibili da prevedere; verosimil-mente, se la caverà anche meglio della teoria neostoica nello spiegare le emozioni costruite socialmente. La sua formulazione specifica che tutte le emozioni dipendono da un processo di categorizzazione top-down,

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e che sia impossibile avere un’emozione propriamente detta in assenza di coscienza. Quand’anche i processi top-down fossero così pervasivi nella nostra vita mentale, ci pare che, postulandone la necessità, la TAC debba ricorrere alla stessa strategia a priori di restringimento dei confini dell’explanans che già abbiamo discusso sia nell’esame della teoria di Martha Nussbaum che in quella di Ekman. Secondo la Barrett e i suoi colleghi, infatti, gli animali non possono provare emozioni, e forse neppure i neonati (cfr. Scarantino 2015); e quel brivido che ci percorre la schiena quando, dispersi in un quartiere malfamato, tentiamo di te-lefonare ad un taxi, non conterebbe, verosimilmente, come una vera e propria istanza di paura, perché le nostre energie cognitive sono rivolte piuttosto a ricordare il numero del taxi. Relegando questa spiegazione al solo ruolo del Core Affect, Barrett e colleghi non possono distinguere, ad esempio, tra paura e rabbia: infatti, entrambe sarebbero caratterizzate da un basso valore edonico ma da un alto grado di attivazione, occupando così lo stesso quadrante nell’Affect Circumplex (fig. 1). Di conseguen-za, la TAC non sembra offrire risorse esplicative per spiegare perché un gatto scappi da una minaccia piuttosto che rispondere in maniera aggressiva, o del fatto che sentendoci pedinati da dei figuri loschi nella situazione summenzionata tenderemmo ad affrettare il passo piuttosto che ad attaccare briga.

5. vent’annI dopo, ancora nessun contInente

Riassumendo: abbiamo discusso la variante moderna della teoria ne-ostoica della emozioni proposta da Martha Nussbaum, secondo la quale le emozioni sono assimilabili a un particolare tipo di giudizi di valore. Pur riconoscendo alcuni passi avanti rispetto a versioni antecedenti della teoria, abbiamo osservato come questa cornice teorica non possa rendere conto di alcuni fenomeni emotivi grezzi e di breve durata, che tuttavia sembrano costituire un patrimonio universale e in qualche modo basilare del corredo emotivo del genere umano; per spiegarli sembrano piuttosto meglio equipaggiate le teorie che li assimilano a moduli emotivi, ov-vero ad affect programs. Osservando come le due teorie costituiscano ognuna il confine dell’altra, ci siamo chiesti se adottarle entrambe fosse sufficiente per rendere conto di tutti i fenomeni rilevanti della nostra vita emotiva. La risposta è stata, ancora una volta, negativa, in quan-to nessuna delle due teorie sembrava offrire risorse capaci di rendere conto di certe categorie emotive costruite e codificate culturalmente. Infine, abbiamo esaminato un’altra recente teoria delle emozioni con ambizioni universalistiche: la teoria dell’atto concettuale. Ma persino in quest’ultimo caso, nonostante i numerosi meriti di questa proposta, abbiamo ritenuto che la portata esplicativa fosse sufficiente a coprire tutto il dominio rilevante di una scienza delle emozioni.

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A prima vista, il resoconto che abbiamo dato di queste ultimi viaggi nell’Oceano delle emozioni sembra condurre a un bilancio totalmente negativo degli ultimi vent’anni di navigazione; dopotutto, stiamo asserendo che nessuna delle rotte tracciate sia riuscita a tracciare il perimetro di un unico continente delle emozioni, riconfermando quello che ci aveva insegnato già Griffiths vent’anni fa: che più che un continente, la parola emozioni indicherebbe un arcipelago.

Tuttavia, il nostro bilancio non vuole essere totalmente pessimista. Per prima cosa, questo ventennio di navigazione ha portato a confermare un sospetto, elevandolo al rango di saggezza comune accettata dai più. Già nel 1984 Giovanni Jervis osservava che «[l’]ideologia delle fun-zioni cerebrali come caratterizzate dal predominio precario, nell’uomo evoluto, delle strutture neurologiche “superiori” su quelle “inferiori”» (che è una delle tante variazioni sulla contrapposizione fra ragione e passioni) si lega alla «concezione ottocentesca della supremazia della razionalità civile sulla mancanza di freni inibitori attribuita agli animali e ai primitivi» (1984, 133). A questa visione «vittoriana»11 dell’archi-tettura neurocognitiva Jervis si opponeva fermamente, guardando a quei filoni delle scienze psicologiche che mostrano l’inesistenza di una sfera psicologica non razionale, fatta di passioni, istinti, emozioni, e nettamente demarcabile dalle operazioni della coscienza razionale. Alla sua voce si sarebbero poi aggiunte quelle di molti altri ricercatori, tra i quali possiamo ricordare Damasio (1994), de Oliveira-Souza, Moll e Grafman (2011), Pessoa (2013), ma anche le stesse Nussbaum e Barrett (cfr. anche Petrolini, questo volume).

Sembra insomma che il concetto di emozione non peccasse solo dell’assenza di importanti confini interni, ma anche dell’aver introdotto confini esterni di dubbia consistenza: per ritornare alla nostra metafora, (almeno alcune di) quelle che Griffiths aveva classificato come isole sarebbero in realtà penisole, comunicanti con e inscindibili da altri territori della vita mentale.

Ma oltre a ciò, pur non riuscendo a tracciare una mappa onnicom-prensiva di un continente che probabilmente non c’è, crediamo che molte delle nuove teorie delle emozioni, tra cui quelle che abbiamo discusso, ci offrano mappe più ricche di dettagli delle diverse (pen)isole. Come suggerisce Caruana (questo volume; ma cfr. anche Russell 2015), l’in-compatibilità tra le varie posizioni in campo può essere meno esagerata di quanto i toni del dibattito recente non abbiano indotto a pensare. Peraltro, ridimensionandone le pretese esplicative, diversi concetti formulati nel contesto di varie teorie possono essere reclutati profittevolmente per diventare strumenti descrittivi ed euristici nella generazione di nuove ipotesi (cfr. per es. Petrolini, questo volume).

11 L’espressione «Victorian Brain» è in Reynolds (1981).

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"emozioni"

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Come pronosticato, tra gli altri, da uno di noi (Marraffa e Paterno-ster 2012), le scienze cognitive non potranno né dovranno tentare di riunificare tutti i fenomeni sotto un medesimo modello esplicativo, ma dovranno accettare il ricorso a un pluralismo di livelli e di modelli. Questa apertura al pluralismo, si noti bene, non significa però porre sullo stesso piano tutti i modelli: piuttosto siamo convinti che il modello esplicativo più promettente fra quelli attualmente sulla piazza sia e resti il modello meccanicistico, e che questo possa essere fruttuosamente completato da spiegazioni alternative, quali gli approcci dinamicisti (come propone Colombetti, questo volume, nel caso delle emozioni), solo in casi par-ticolari – nei casi in cui le interazioni tra certe componenti siano non lineari e dunque non assoggettabili a una spiegazione meccanicistica.

Nel caso delle scienze delle emozioni ci pare di poter azzardare che una volta riconosciuta la sostanziale diversità tra le varie (pen)isole, sarà produttivo domandarsi come queste interagiscano: ad esempio, chiedersi se, quanta e quale parte dei meccanismi che soggiacciono agli affect pro-grams siano reclutati anche da processi di cognizione top-down; oppure, per dare un po’ di corpo alle linee altrimenti solo programmatiche dei costruzionisti, chiedersi come il materiale emotivo primordiale, sia esso costituito dalle emozioni di base o dal Core Affect, si rappresenti alla coscienza (su cui si cfr. per es. il tentativo di Meini, questo volume).

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Abstract. Twenty years ago, Paul Griffiths (1997) published his well renown book What Emotions Really Are?, in which he claimed that the phenomena designated by the vernacular word «emotion» does not belong to a single natural kind, and therefore no single theory of emotion can account for all of them. In this article we assess if his claim is still valid, by considering whether a unified account of emotion is provided by some more recent theories: Martha Nussbaum’s neostoic theory, Lisa Feldman Barrett’s conceptual act theory, and recent versions of basic emotions theories. We argue that, while each theory provides some useful insight on some specific subsets of the phenomena we call «emotion», none of them convincingly unify them into a single explana-tory framework. Therefore, we suggest that Griffiths’s original argument for pluralism about emotion is still sound.

Keywords: Emotion, affect, psychological constructionism, basic emotion, affective neuroscience.

Massimo Marraffa, Dipartimento di Filosofia, Comunicazione, Spettacolo, Università Roma Tre, Via Ostiense 234, 00144 Roma. E-mail: [email protected]

Marco Viola, Centre for Neurocognition, Epistemology and theoretical Syntax, Istituto Universitari di Studi Superiori Pavia, Palazzo del Broletto Piazza della Vittoria 15, 27100 Pavia. E-mail: [email protected]

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