LA MODERNITÀ DEI GESUITI NELLA GIUNGLA DEL PARAGUAY · 1639), e che ha come argomento principale...

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FRANCESCO GUARDIANI – 2 – FRANCESCO GUARDIANI LA MODERNITÀ DEI GESUITI NELLA GIUNGLA DEL PARAGUAY Mentre mi accingo a scrivere – una descrizione più che un commento – intorno a un libro bellissimo, utile e sconosciuto ai lettori italiani, La conquista spirituale di Antonio Ruiz de Montoya, S.J., 1 mi preme chiarire la ragione pratica della riesumazione di questo documento della modernità europea, uscito dalla penna di un peruviano, pubblicato in Spagna (nel 1639), e che ha come argomento principale l’entrata della Compagnia di Gesù e del cristianesimo in Paraguay 2 per merito, soprattutto, di due italiani, i sacerdoti gesuiti Simone Maceta di Castilenti, oggi in provincia di Teramo, e Giuseppe Cataldini di Fabriano (Ancona). 3 Dirò, per cominciare, che il loro lavoro missionario, di apostoli della civiltà moderna ed europea, ben si collega a quello di un altro gesuita, Padre Matteo Ricci, che si colloca non molto distante negli anni, ma geograficamente agli antipodi. Ricci si spense a Pechino nel 1610 sulle pagine incompiute della sua opera maggiore, Della entrata della Compagnia di Giesù e della Christianità nella Cina. Entrambe, La conquista spirituale e L’entrata…nella Cina, sono opere di respiro epico: attestano il lavoro pi- onieristico dei missionari di Sant’Ignazio e puntano non solo al cielo, al paradiso dell’altro mondo, ma anche, e subito, al raggiungimento di uno stato ideale sulla terra, ovvero di un’utopia che, almeno per quel che 1 Il titolo completo e originale è La Conquista Espiritual hecha por los religiosos de la Compañía de Jesús, en las Provincias de Paraguay, Paraná, Uruguay y Tape. Ci sono sol- tanto due traduzioni, che io sappia, una inglese e una portoghese. 2 Paraguay è qui da intendere come la provincia gesuitica del Paraguay, chiamata anche Paracuaria, che abbracciava territori oggi appartenenti a Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay. 3 Ho uniformato così, seguendo la forma di Cunninghame Graham in The Vanished Arcadia, l’ortografia dei nomi dei due gesuiti italiani. Per Giuseppe Cataldini (sempre “José”) l’unica variante è “Cataldino”; mentre per Simone Maceta (Simón o Simão) si incontrano “Maceta”, “Masseta” “Massetta”, “Mazeta”, “Mazzetta”, “Masceta”, “Mascetta”, “Mascetti”.

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FRANCESCO GUARDIANI

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FRANCESCO GUARDIANI

LA MODERNITÀ DEI GESUITI NELLA GIUNGLA DEL PARAGUAY

Mentre mi accingo a scrivere – una descrizione più che un commento – intorno a un libro bellissimo, utile e sconosciuto ai lettori italiani, La conquista spirituale di Antonio Ruiz de Montoya, S.J.,1 mi preme chiarire la ragione pratica della riesumazione di questo documento della modernità europea, uscito dalla penna di un peruviano, pubblicato in Spagna (nel 1639), e che ha come argomento principale l’entrata della Compagnia di Gesù e del cristianesimo in Paraguay2 per merito, soprattutto, di due italiani, i sacerdoti gesuiti Simone Maceta di Castilenti, oggi in provincia di Teramo, e Giuseppe Cataldini di Fabriano (Ancona).3

Dirò, per cominciare, che il loro lavoro missionario, di apostoli della civiltà moderna ed europea, ben si collega a quello di un altro gesuita, Padre Matteo Ricci, che si colloca non molto distante negli anni, ma geograficamente agli antipodi. Ricci si spense a Pechino nel 1610 sulle pagine incompiute della sua opera maggiore, Della entrata della Compagnia di Giesù e della Christianità nella Cina. Entrambe, La conquista spirituale e L’entrata…nella Cina, sono opere di respiro epico: attestano il lavoro pi-onieristico dei missionari di Sant’Ignazio e puntano non solo al cielo, al paradiso dell’altro mondo, ma anche, e subito, al raggiungimento di uno stato ideale sulla terra, ovvero di un’utopia che, almeno per quel che

1 Il titolo completo e originale è La Conquista Espiritual hecha por los religiosos de la

Compañía de Jesús, en las Provincias de Paraguay, Paraná, Uruguay y Tape. Ci sono sol-tanto due traduzioni, che io sappia, una inglese e una portoghese.

2 Paraguay è qui da intendere come la provincia gesuitica del Paraguay, chiamata anche Paracuaria, che abbracciava territori oggi appartenenti a Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay.

3 Ho uniformato così, seguendo la forma di Cunninghame Graham in The Vanished Arcadia, l’ortografia dei nomi dei due gesuiti italiani. Per Giuseppe Cataldini (sempre “José”) l’unica variante è “Cataldino”; mentre per Simone Maceta (Simón o Simão) si incontrano “Maceta”, “Masseta” “Massetta”, “Mazeta”, “Mazzetta”, “Masceta”, “Mascetta”, “Mascetti”.

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riguarda il Paraguay, venne effettivamente realizzata e durò per più di centocinquant’anni.4

Montoya e i protagonisti della sua Conquista, Maceta e Cataldini, sono dunque come Matteo Ricci. Ma che cosa hanno, esattamente, in comune? Sacerdoti, missionari, gesuiti, seguono l’indirizzo spirituale di Ignazio di Loyola e le direttive socio-culturali e politiche di Claudio Ac-quaviva, l’illuminato generale dell’ordine dal 1581 al 1615: lo stesso “capo” che, sulle tracce ideali di Francesco Saverio, con la sagace aper-tura di Alessandro Valignano, diresse l’ingresso di Matteo Ricci in Cina nel 1582 e, con pari lungimiranza decise, nel 1603, di inviare i Padri della Compagnia in Paraguay.

Tornerò a occuparmi di Acquaviva in maniera più distesa, con atten-zione ai dettagli dei propositi e dei piani di espansione della Compagnia nel mondo intero, oltre che ai particolari del programma educativo dell’Ordine racchiuso nelle pagine della sua Ratio studiorum.5 Lo menzi-ono ora, come generale della Compagnia del tempo, per sottolineare che l’affinità dell’esperienza di Montoya, Maceta e Cataldini rispetto a quella di Matteo Ricci si spiega con la comune matrice moderna dell’Ordine dei gesuiti, del loro pensiero e del loro apostolato. Tale apostolato assunse nel racconto di Montoya una dimensione emancipativa straordinaria, con il tentativo di portare un popolo intero da uno stato di civiltà primi-tiva a quello di uno stato ideale, utopico e felice, che è quello poi che trova riscontro nel Cristianesimo felice del Muratori.6

4 Dal 1609 al 1768, ovvero dalla fondazione delle prime missioni alla cacciata dei

gesuiti da tutti i territori del dominio spagnolo. Nel ’59 erano stati cacciati dal Portogallo e dal Brasile, nel ’64 dalla Francia e dal Canada. Nel 1773 ebbe luogo la vergognosa soppressione dell’ordine per decreto di Gian Vincenzo Antonio Ganganelli, papa Clemente XIV.

5 L’assetto praticamente definitivo della Ratio studiorum è del 1591, durante il genera-lato di Claudio Acquaviva

6 Sull’opera del Muratori, Il cristianesimo felice nelle missioni dei Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay ho detto qualcosa in precedenza. Cfr. “La modernità dei gesuiti nel Cristianesimo felice del Muratori”, in corso di pubblicazione presso la Revista de Italianística, Universidade de de São Paulo, Brasil; (l’articolo si può anche leggere in T-Space, University of Toronto Research Repository, Research Initiatives, 16th and 17th Centuries Texts and Criticisms, https://tspace.library.utoronto.ca/handle/1807/9447). È notevole il riconosci-mento della assoluta modernità nel lavoro dei gesuiti da parte del Muratori. Il suo costituisce un giudizio critico fondamentale, illuminato nel riconoscere i valori portanti della modernità.

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Ho già detto della modernità della Compagnia di Gesù, una modernità da intendere, con McLuhan, in maniera innanzi tutto antropologica.7 La stampa a caratteri mobili – è la tesi fondamentale dello studioso ca-nadese – crea “l’uomo tipografico”. The Making of Typographic Man è appunto il sottotitolo rivelatore del suo libro più famoso, The Gutenberg Galaxy. Ora, questa galassia Gutenberg non è semplicemente il mondo degli uomini che leggono i libri, ma è il mondo infinitamente più ampio in cui prevale una visione analitica del reale, una visione comulativa, sci-entifica in senso nuovo, un mondo in cui domina un orientamento so-ciale di tipo democratico e un’idea di lavoro inteso soprattutto in ma-niera meccanica, specializzata e progressista. È il mondo, appunto della modernità storica, chiamiamola così, come ci appare nella cronologia delle classificazioni scolastiche; ma invece di scegliere come referente la scoperta dell’America, o la discesa in Italia di Carlo VIII, scegliamo l’invenzione della stampa a caratteri mobili, di qualche decennio prima.

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Così come Benedetto da Norcia è strumento e simbolo della civiltà medievale, e così come Francesco d’Assisi rappresenta la coscienza della civiltà urbanizzata dei comuni, Ignazio di Loyola costituisce il personag-gio chiave della prima modernità. Che, definita “tipografica”, rimane da osservare nel suo sviluppo attraverso il lavoro e le opere dei missionari gesuiti.8 Ricordato con Matteo Ricci il comune background culturale, antropologico più che religioso, dei primi gesuiti del Paraguay, possiamo cominciare a incontrarli in questa loro terra di missione; possiamo, cioè, entrare finalmente in argomento e leggere e discutere La Conquista spiri-tuale dei padri della Compagnia nella jungla sudamericana, ovvero la di-retta testimonianza di uno di loro.

Il libro venne pubblicato in Spagna nel 1639. Montoya si trovava lì, inviato dell’Ordine, per perorare la causa dei missionari gesuiti e delle popolazioni guaraní contro le ripetute violenze dei bandeirantes che

7 Mi riferisco a una rilettura, in questa chiave, dell’apostolato di Matteo Ricci in

Cina. Cfr. “The West shall shake the East awake: Matteo Ricci, SJ, in China (1583-1610”, e anche “Gesuiti italiani in Cina fra Cinque e Seicento. Il caso di Matteo Ricci (1552-1610)”.

8 Per illustrare il contesto culturale di Matteo Ricci, o meglio la modernità istituzion-ale dei gesuiti, faccio diretto riferimento a Sant’Ignazio e ai suoi Esercizi spirituali “La modernità dei primi gesuiti da Sant’Ignazio a Matteo Ricci” in corso di stampa, ma già leggibile in T-Space, University of Toronto Research Repository, Research Initiatives, 16th and 17th Centuries Texts and Criticisms, https://tspace.library.utoronto.ca/handle/1807/9447).

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avevano distrutto undici riduzioni del Guairá (territorio oggi entro i con-fini del Brasile) e ucciso o fatti schiavi non meno di sessantamila indios battezzati. Padre Montoya chiedeva la tutela dei diritti umani delle popo-lazioni indigene, e chiedeva anche la concessione di armi da fuoco per bloccare i razziatori schiavisti di São Paulo.9 Il suo libro va dunque in-teso come un rapporto sulla situazione delle missioni del Paraguay dalla fondazione delle prime riduzioni (S. Ignacio Guazú 1609, Nuestra Señora de Loreto 1610, S. Ignacio Miní 1611) alle razzie dei bandei-rantes paulisti del 1636.10 Successivamente, con le armi in pugno, ben addestrati dal fratello coadiutore Domingo Torres (1607-1688) che era stato soldato prima di farsi gesuita, gli indios delle missioni, guidati dal cacique Nicolás Neeguirú, inflissero una durissima sconfitta ai bandeirantes e ai loro alleati, gli indios tupí, nel 1641, nella storica battaglia di Mbororé. Da quella data cessarono le incursioni e le riduzioni rifiorirono.11

Come nel mio scritto precedente sull’opera di Padre Matteo Ricci cer-cavo, nelle pagine in cui egli discuteva il suo apostolato in Cina, esperi-enze, comportamenti e tratti linguistici riconducibili a quella che pare giusto definire modernità tipografica ignaziana, cosí ora, nell’opera di Padre Montoya, cerco i tratti salienti della stessa cultura. Padre Matteo Ricci, soprattutto negli ultimi anni di vita a Pechino, dialogava con l’aristocrazia intellettuale del Regno di mezzo che apprezzava in partico-lare le sue cognizioni scientifiche (astronomiche, cartografiche, mate-matiche). Padre Montoya, con i suoi confratelli italiani, i Padri Giuseppe Cataldini e Simone Maceta, suoi precursori nelle prime riduzioni, lavora

9 Filippo IV concesse tutto e alle sue decisioni fecero stavolta seguito i fatti; mentre

in precedenza varie “grida” erano andate inascoltate a beneficio dei coloni che schiavizzavano gli indios. Anche per l’unione delle due corone, di Spagna e Porto-gallo, che si protrasse fino al 1640, il governo di Madrid, che si estendeva nelle capitali sudamericane di Asunción e Buenos Aires, non aveva fatto nulla per pro-teggere i missionari dai razziatori di schiavi, che non erano soltanto i portoghesi e i mamelucos di São Paulo, ma anche gli spagnoli. I mamelucos erano i meticci, di san-gue europeo e indio. Mamelucos era come dire “mammalucchi,” in riferimento ai crudeli mercenari turchi arruolati da Saladino, nell’XI secolo, per combattere i Crociati.

10 Padre Montoya è inviato in Spagna nel 1637; vi arriva nel settembre del ’38; scrive La conquista nel ’39. Il re, Filippo IV firma quattro decreti favorevoli ai gesuiti nel maggio del 1640, e Padre Montoya riparte immediatamente per l’America (cfr. McNaspy, Introduction 17). Aggiungo, dei luoghi e delle numerose spedizioni dei bandeirantes una cartina tratta da Misiones Guaraníticas di Ernesto Maeder.

11 Queste ed altre notizie in Ernesto Maeder, Misiones Guaraníticas.

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con popolazioni primitive, di cultura tribale e spiritistica, di tradizione orale.

La modernità, azzarderei “italiana”,12 che si può osservare e ricono-scere in Sudamerica come in Cina nei primi anni del Seicento è la stessa, ma si rivela in forme, parole e azioni, completamente diverse. Basterà ricordare che Padre Matteo Ricci scelse di vestirsi secondo la foggia del luogo (prima come bonzo, ovvero monaco buddista, e poi come man-darino, seguace di Confucio), mentre i primi gesuiti del Paraguay, quando non obbligati dal clima torrido e dalle fatiche fisiche a togliersi la camicia, indossavano l’abito talare scuro. A torso nudo, ricorda Padre Montoya, portavano pure, per modestia almeno simbolica, una specie di colletto, un fazzoletto bianco che cingeva loro il collo.

La modernità dei primi gesuiti in Paraguay sarà da cercare nella vo-lontà d’intendere, di capire e di trasformare una spiritualità pagana rigogliosissima. Prima dell’incontro con i missionari cristiani, gli indios avevano già una idea di trascendenza, avevano i loro miti pastorali e un loro paradiso (la tierra sin mal nel titolo del volume della Gálvez).

E naturalmente non mancano in Montoya testimonianze di esperienze organizzative, didattiche e, in generale, emancipative, che più ovvia-mente si ascrivono alla modernità. Fatto sta che il puro e semplice por-tarsi nel più profondo dell’inesplorato continente e disporsi all’apprendimento della lingua e dei costumi delle popolazioni che vi abitano, già costituisce un’importante espressione della ‘modernità storica’, legata cioè a una cronologia di sviluppop tutta europea di prin-cipi nuovi riconducibili al “farsi dell’uomo tipografico”, The Making of Typografic Man, appunto, della Galassia Gutenberg di McLuhan.

Molti degli episodi che riporto si commentano da soli; basterà da parte mia una parola d’introduzione o un’osservazione finale. Devo comun-que avvertire che spesso racconto traducendo con strettissima aderenza al testo, e quindi mi trovo ‘dalla parte’ di Montoya senza (troppi) filtri critici come il lettore ben avveduto capirà già dal primo esempio ripor-tato. A scanso di equivoci, insomma, se scrivo che Claudio Acquaviva, generale dell’Ordine, per espirazione divina decise di inviare i Padri della Compagnia in Paraguay, la “ispirazione divina” è un calco del testo e non un mio giudizio, né tantomeno un tentativo di ironizzare sulle con-

12 È un fatto che l’orientamento dell’Ordine, da Ignazio in poi, emanò da Roma. Da

Claudio Acquaviva (1581-1615) in poi, e per settant’anni, i prepositi generali fu-rono soltanto italiani: Muzio Vitelleschi (1615-1645), Vincenzo Carafa (1646-1649), Francesco Piccolomini (1649-1651), Luigi Gottifredi (1652-1652, per due mesi).

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vinzioni fideistiche dell’autore. Colgo qui l’occasione per dichiarare, anzi, che l’ironia è giustamente assente dalle pagine di Padre Montoya come dalle mie di chiosa. Montoya ha una voce che ho già chiamato epica, e aggiungerei ora fondativa, insieme a quelle dei primi gesuiti del Brasile, delle grandi esportazioni transoceaniche della prorompente modernità tipografica europea. L’ironia e la satira, insegna Frye, appartengono alla fase finale di un ciclo storico e non del suo inizio, che ha invece, come in Paraguay, una dimensione mitica.13

Preferisco tradurre liberamente e, in molti casi, evitare le citazioni di-rette perché il mio primo testo di riferimento è stato quello della traduzione inglese. Ho avuto disponibile anche quella portoghese e quando finalmente ho potuto avere fra le mani l’edizione critica del Maeder nell’originale spagnolo il lavoro era già finito e non mi rimaneva che controllare l’accuratezza della traduzione di McNaspy, che ho trovato giusta e giustamente letterale nei passi meno limpidi. Montoya è uno scrittore che ha fretta e che scrive per ottenere uno scopo certa-mente non letterario. Ma è anche uno scrittore ispirato e appassionato e la sua Conquista si offre, perfino al lettore meno interessato alla storia e alla testimonianza oculare di un protagonista, come opera d’arte di rara specie e di straordinaria potenza espressiva.

* * *

In testa alla traduzione italiana della République commnuniste chétienne des Guaranis di Clovis Lugon, Padre Donato Tamborrini, S.J., scrive questa dedica:

Con la traduzione del presente volume dello studioso svizzero Clovis Lugon mi riprometto soltanto di rendere omaggio alla venerata memoria dei due Gesuiti italiani, padre Simone Maceta e padre Giuseppe Catald-ino, geniali ideatori e fondatori delle famose “Riduzioni” del Paraguay […]

I due padri missionari sono senz’altro i più sconosciuti “geniali fonda-tori” di qualsivoglia istituzione della storia. Erano all’inizio del loro apos-tolato questi due benefattori dell’umanità quando il Padre provinciale (della provincia gesuitica del Paraguay recentemente istituita dal generale

13 L’ovvio riferimento è al primo saggio “Historical Criticism: Theory of Modes” di

Anatomy of Criticism. Il mito, come storia di un dio, ha una dimensione fondativa (o rifondativa) nella cultura di un popolo ed è di solito al di sopra delle comuni categorie letterarie. Mentre l’ironia e la satira appartengono alla fase finale, “deca-dente” di un ciclo storico.

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dell’ordine Claudio Acquaviva), ovvero Diego de Torres Bollo (1551-1638) inviò Padre Montoya per aiutarli nella loro difficile opera mission-aria. “Arrivai alla missione di Loreto”, racconta Padre Montoya ,

ansiosissimo di conoscere questi due grandi uomini, i padri José e Simón. Li trovai poverissimi, ma ricchi di felicità. I loro vestiti erano stati tante volte rattoppati che non si capiva qual era il tessuto originario e quali er-ano le pezze aggiunte. Le scarpe che avevano portato da Asunción erano state più volte riparate con pezzi di tela ritagliati dal loro saio. La loro capanna, gli arredi e il cibo erano come quelli degli anacoreti (cap. 9, p. 46).

Non avevano né pane, né vino, né sale. Dormivano su una stuoia di pelle di vacca e mangiavano carne di tanto in tanto, quando ne ricevevano per carità. Una mezza arroba14 di vino se la fecero durare quasi cinque anni per dir messa (cfr. 46).

Ecco, sono questi i primi protagonisti dell’epica gesuitica del Paraguay, cui è da aggiungere, con Montoya stesso, Padre Martín Urtasun. Cosí si distribuirono i padri nelle prime due riduzioni del Guairá, sulle sponde del Piropó, affluente del Paranapanema, grande affluente del Paraná. Simone Maceta e Antonio Ruiz de Montoya a Nuestra Señora de Lo-reto, Martín Urtasun e Giuseppe Cataldini a S. Ignacio Miní.15

Padre Urtasun venne presto a mancare. Il suo corpo non riuscì mai ad adattarsi alla dieta di sopravvivenza dei primi tempi delle riduzioni. Praticamente morì di fame. Prima di spirare chiese molte volte un po’ di zucchero. Quando Padre Montoya lo interrogò sul perché della richiesta sapendo benissimo che di zucchero non c’era neanche l’ombra nella missione, egli rispose: “Lo so, ma così io inganno la natura che continua a richiedere la soddisfazione che io non le darò” ( p. 58). Padre Montoya annotò con amarezza, pur nella piena coscienza della bella morte del giovane confratello: “Quest’uomo, nato nobile, erede di immensi poss-edimenti, allevato nel lusso, ora muore di fame” ( Ibid.). Nelle parole di Padre Urtasun in punto di morte si riconoscono bene le coltivate doti ignaziane di intelligenza e volontà nel dominio della natura e di se stessi.

L’intera opera missionaria, con l’imposizione della castità, e della monogamia in primis, alle popolazioni indigene non è sacrificio da poco; è anzi un andare contro le leggi di natura, della natura tropicale, cui gli

14 L’arroba misura 25 libbre. 15 Miní sta per minore. La riduzione si chiama così per distinguerla da S. Ignacio

Guazú, cioè maggiore, che è in assoluto la prima missione del Paraguay, fondata, non lontana da Asunción, da Marcel de Laurenzana nel 1609.

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indios in piena libertà con i loro stregoni e caciques si sono adattati nel corso dei secoli. Contro natura in altro senso, cioè contro la natura umana delle condizioni di vita civile e delle istituzioni, è anche la “fa-talità” che Padre Montoya riconosce nell’esistenza di Urtasun che sta per concludersi. Ma è proprio in questo, cioè nel rifiuto dello status quo nella natura umana e nella natura tout-court, che per il gesuita si apre la strada dell’ideale e dell’utopia.

Immensi sacrifici giornalieri, fra incognite e pericoli di ogni genere, e poi una morte cosí straziante di un compagno amato sono eventi che potrebbero far vacillare anche la vocazione più robusta. Ma certamente non è così per i due italiani e per il peruviano rimasti. La morte non fa paura, anzi i Padri bramano dar la vita per la nobilissima doppia causa: per l’umanizzazione prima e per la conversione al cristianesimo dopo. È nel processo di umanizzazione che la funzione didattico-emancipativa dei gesuiti rivela la sua matrice moderna. Si lavora sodo, e con passione. L’ideale è nobile, la fede è forte e l’immortalità è fuori discussione. E così, quando muore un confratello, non si avverte sgomento e neanche tristezza, ma un altro sentimento, come leggiamo alla fine del racconto del martirio di Padre Cristóbal de Mendoza: “ Il suo corpo fu recuperato e portato nel villaggio fra le grida di lamento della popolazione e l’invidia dei Padri” (175).

A questa certezza del paradiso ben s’accompagna, dunque, l’impegno costante, sistematico, instancabile: bisogna costruire, civilizzare, educare, e quindi battezzare, confessare, comunicare… Il lavoro apostolico as-sume una dimensione quantitativa: si contano le anime tolte al demonio. Duemila d’un colpo, per esempio, dopo la conversione di un potente stregone: “Il grande Guiraberà arriva alla missione scortato da trecento indiani armati al comando di un cacique con la spada sguainata; lo stre-gone va a trovare i missionari attratto dalla loro fama. Questi gli parlano del vero Dio. Guiraberà li invita nel suo villaggio.” I missionari vanno e, convertito il capo, convertono anche i duemila suoi sudditi. “E così”, commenta in chiusa di racconto Padre Montoya, “quelle montagne e quelle valli, quella tana di leoni, quel luogo di libertinaggio, odio, vio-lenze, vendette, uccisioni e cannibalismo, diventano un paradiso ter-restre” (99-10).

Da come questo ed altri episodi emergono dalla penna impaziente e nervosa di Padre Montoya sembra che tutto avvenga nel giro di pochi giorni. Conviene allora ricordare che gli eventi della Conquista spirituale si snodano lungo un arco d’anni che va dal 1609 al 1636. Ciò che in asso-luto richiedeva più tempo, pazienza e impegno costante da parte dei ge-

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suiti, già prima della partenza per le missioni, era lo studio della lingua, il tupí-guaraní, con un grande numero di varianti, da apprendere e perfezi-onare per comunicare direttamente con gli indios di diverse tribú e terri-tori. Le conversioni non erano neanche immaginabili con l’aiuto di in-terpreti, anche perché il nemico più forte dei missionari fra gli indios era lo stregone, la cui autorità veniva dalla eloquenza. Bisognava, pertanto, vincerlo con le sue stesse armi, disputando, discutendo, dialogando nella lingua locale.

Padre Montoya fu un linguista eccezionale e si deve senz’altro anche a lui –– e forse a lui più che a qualsiasi altro –– se il guaraní è oggi, con lo spagnolo, lingua ufficiale dello stato del Paraguay. Fu nel periodo di ozio spagnolo, lontano dalle cure quotidiane delle missioni che, insieme alla Conquista espiritual (del 1639), diede alle stampe i suoi lavori linguistici, ovvero il Tesoro de la lengua guaraní (1639) e l’Arte y vocabulario de la lengua guaraní (1640), oltre al Catecismo de la lengua guaraní (1640). Queste opere non sono soltanto da intendere come “strumenti di lavoro” da mettere nelle mani del giovane gesuita in procinto di partire per le missioni del Paraguay, e né come opere di pura erudizione con valore documentario. Sono esse invece, soprattutto, espressione pratica di un fondamentale principio della Compagnia di Gesù che è la comunicazione con le popo-lazioni di tutto il mondo: la parola scritta, anzi stampata, è una espres-sione di fede nella uguaglianza, nel riconoscimento della pari dignità umana non solo in ogni popolo, ma in ogni individuo; una uguaglianza, quindi, anti-tribale, libertaria, moderna e democratica. Montoya studia il guaraní come Matteo Ricci e Michele Ruggieri studiavano il cinese; pub-blica come loro libri perché la comunicazione porta all’insegnamento sistematico, alla cura dei giovani che, nati in una cultura orale, imparano ora a leggere e a scrivere nella loro stessa lingua. “Aprimmo una scuola”, racconta Padre Montoya nelle prime pagine della Conquista, “la mattina insegnavamo a leggere e a scrivere ai giovani, e la sera insegnavamo il catechismo agli adulti” (52). Insegnare a leggere e a scrivere il guaraní ai suoi utenti di madrelingua è di per sé un’impresa pedagogica straordi-naria, considerando anche che i tre maestri hanno loro stessi un diverso background linguistico (italiano e spagnolo). Ma per i gesuiti delle riduzioni l’impresa rientra nella “norma”, ovvero è parte del programma di emancipazione culturale e spirituale di base. Se l’evangelizzazione è lo scopo principale –– e per arrivarci occorre l’umanizzazione che per il gesuita corrisponde all’acquisizione dei fondamenti della cultura europea –– si deve riconoscere, ed è la cosa più ovvia, che l’uguglianza è data per scontata. Il lavoro scolastico, in questo contesto, diventa parte della vita

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dipendente.

civile delle riduzioni. Il battesimo non si nega a nessuno, così come la confessione, ma bisogna studiare il catechismo e superare le prove di conoscenza e di memoria per meritare la comunione, sacramento che è di norma concesso soltanto quattro volte l’anno.

L’alfabetizzazione è la scintilla della rivoluzione “tipografica”, ovvero della trasformazione antropologica innestata dalla modernità della Com-pagnia nelle riduzioni. E naturalmente, per quel che riguarda la vera e propria produzione di libri nelle riduzioni, non ci deve sorprendere –– ma è un dato comunque straordinario –– se ottanta anni prima che si stampasse il primo libro a Buenos Aires, la tipografia delle missioni era già avviata. La storia dell’intero continente sudamericano, e non solo delle missioni del Paraguay, è legata all’opera tipografica dei gesuiti. Ecco sull’argomento, tradotte,16 le parole di Guillermo Furlong:

Fu opera dei gesuiti la prima tipografia del continente sudamericano e anche la pubblicazione della prima opera apparsa a Ciudad de los Reyes17 nel corso dell’anno 1584.18 Opera dei gesuiti fu anche la prima tipografia stabilita nelle missioni guaraní che già nell’anno 1700 e nel 1705 pubblicava opere molto voluminose e riccamente illustrate come la Deferencia del Nieremberg,19 tradotta in lingua guaraní dal Padre José Serrano. Opera dei gesuiti fu anche la prima tipografia della città di Cór-doba [Argentina] e indirettamente anche la prima tipografia che con-tribuì, nella città di Buenos Aires, alla diffusione della cultura in epoca coloniale e nei primi lustri dell’epoca in 20

Certamente, se si parla di stampa, l’uomo moderno “tipografico” ap-pare in tutta evidenza, ma la modernità dei gesuiti si può e si deve rile-

16 L’originale è il seguente: “A los jesuitas se debió la primera imprenta que fun-

cionó en el continente sudamericano y a ellos también la publicación de la primera obra aparecida en la ciudad de los Reyes en el curso del año 1584. A los Jesuitas se debió también la primera imprenta que se estableció en las missiones Guaraníticas y que ya en 1700 y 1705 publicaba obras tan voluminosas y sober-biamente ilustradas como la Deferencia de Nieremberg, vestida al idioma Guaraní por el P. José Serrano. A los Jesuitas debióse asismismo la primera imprenta que conoció la ciudad de Córdoba, y indirectamente se debió a ellos la primera que contribuyó, en la ciudad de Buenos Aires, a la difusión de la cultura en la época colonial y los primeros lustros de la época independente. (94)

17 Ciudad de Los Reyes è Lima, capitale del Perú. 18 A cinquant’anni dalla fondazione dell’Ordine e dalla fondazione della città da

parte di Francisco Pizarro. 19 Juan Eusebio Nieremberg, S.J. (1595-1658), teologo, scienziato, scrittore prolifico,

sodale del gran Caramuel autore della Metametrica. 20 La proclamazione dell’indipendenza dell’Argentina ebbe luogo il 9 luglio 1816.

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vare con altrettanta evidenza nelle esperienze di vita quotidiana: nel per-fezionamento della lingua, nell’adeguare il corpo alla dieta di radici, bac-che e cacciagione, nel viaggiare in canoa, nell’usare stuoie e amache per riposare. Il gesuita fa sforzi immensi per meglio ritrovare la comune umanità che lui sa lo associa alle popolazioni indigene e che non solo permette una comunicazione più libera e disinvolta, ma fa sorgere una intesa grande, anzi una fratellanza, civile prima che cristiana, sulla quale non si insisterà mai abbastanza se si vuole intendere il senso della realiz-zata utopia delle riduzioni.

Ci sono, comunque, argomenti tabú sui quali l’intesa, almeno inizial-mente non è possibile. “I primi tempi, per circa due anni, non par-lammo in pubblico del sesto comandamento”, dice padre Montoya, “spiegammo che non volevamo donne a servire nei nostri alloggi e par-lammo loro della castità del sacerdozio. Essendo barbari, non trovarono la cosa ammirevole” (52). Al sesto comandamento, “non fornicare”, è direttamente connessa un’infinita serie di problemi che i Padri incon-trarono con i caciques e con gli stregoni. Ecco un caso che illustra bene il trauma di costoro per la perdita di autorità e di potere. Racconta Padre Montoya di un cacique, chiamato Miguel Artiguaye, che venne a far visita ai missionari. Aveva un aspetto allegro e sorridente, ma di colpo si tras-formó in una bestia selvaggia e cominciò a gridare: “Voi non siete preti mandati da Dio per aiutarci nella nostra miseria; voi siete demoni dell’infermo inviati da chi lì comanda per la nostra distruzione. Che in-segnamento ci avete portato? Quale pace? Quale felicità? I nostri ante-nati vivevano liberi. Si godevano tutte le donne che volevano, senza im-pacci e senza impedimenti da parte di alcuno. Cosí vivevano e trascorre-vano la vita felici, mentre voi volete distruggere le nostre tradizioni e imporci il duro giogo della vita con una sola moglie.” Detto questo uscì dalla stanza dicendo: “Questo non sarà mai. Farò io qualcosa per fer-marlo”. I Padri, che, ricorda Montoya, ascoltavano come agnelli gli ulu-lati del lupo, cercarono di calmarlo con la ragione, ma non ci riuscirono. Anzi, il cacique continuò a gridare con incontrollabile furia diabolica: “Non possiamo tollerare la libertà di questi uomini tra noi, questi uomini che vogliono obbligarci, a casa nostra, a vivere nel loro modo cattivo” (53).

Presentare altri esempi del difficile rapporto fra i gesuiti e i caciques può essere utile per darsi conto dell’ampiezza e della profondità delle tras-formazioni culturali cui furono soggette le popolazioni guaraní. Inizial-mente, si diceva, i missionari si astennero dal predicare contro il concu-binato in uso fra i caciques e percepito come attestato della loro autorità e

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potenza. Ma con il moltiplicarsi delle conversioni si sentirono più sicuri di poter condannare apertamente i “disordini sessuali” (61) degli uomini più potenti dei villaggi ‘ridotti’. Dopo una predica particolarmente rig-orosa sulla moralità sessuale, racconta Padre Montoya, un potente ca-cique seguì il predicatore, che era appena sceso dal pulpito, portandosi dietro sei concubine e, dopo averlo fermato gli disse, coram populo, che lui, essendo capo della tribù, voleva dare il buon esempio e pertanto consegnava al Padre le sue sei concubine; che ne facesse quello che voleva, che le vendesse o maritasse a suo piacimento; esse non sareb-bero mai più rientrate nella sua casa. Dove, per la verità, ci dice sotto-voce Padre Montoya, il cacique aveva ben nascoste altre trenta concubine alcune delle quali erano state in precedenza di suo fratello. L’effetto del gesto plateale fu di grande edificazione per il pubblico delle riduzioni. E di maggiore edificazione fu, si presume, quello che successe poco tempo dopo: colto da una malattia che in breve lo portò alla fine dei suoi giorni, il cacique si confessò e, abbandonate, per davvero, tutte le sue concubine, si spense in grazia di Dio (cfr. 61).

L’autorità dei caciques ed hechiceros, cioè capi e stregoni, non dipendeva soltanto dalla loro forza fisica, ma soprattutto dalla loro eloquenza, cui era legata l’abilità nel presagire, con le giuste parole, le cose ignote. I missionari gesuiti scendono a confronto anche in questo, come vedremo subito in un interessante episodio. Il fulcro del problema dell’autorità fra caciques, hechiceros e missionari è comunque l’idea del divino: gli stregoni dichiarano di essere loro stessi la divinità e, nonostante questo, non ries-cono a vincere le dispute contro i missionari che si dichiarono sudditi e servitori di una divinità ben maggiore.

Quando ancora non si è consolidata l’autorità dei Padri nella prima riduzione del Guairá, lo stregone locale scatena un tumulto e tenta di far cacciare i missionari. Padre Maceta lancia allora un’arringa contro i sobil-latori e rassicura gli abitanti con una profezia di morte. “Chi agita i cuori” dice loro, “è il diavolo, che con i suoi seguaci tenta di tagliare la corda della vostra salvezza; ma non temete, i servi del diavolo pagher-anno presto con la vita la loro iniquità” (62). In effetti il cacique Roque e i suoi due compagni (i servi del diavolo manovrati dallo stregone), che erano del pieno delle forze giovanili poiché il più vecchio di loro aveva soltanto trentacinque anni, si ammalarono il lunedì e il venerdì erano già sotto terra. Il Padre li fece seppellire in chiesa, uno accanto all’altro, in modo che tutti ricordassero l’episodio di rivolta e la sua conclusione. Morì anche lo stregone, poco tempo dopo, per volontà di Dio, morso da un serpente velenoso (Ibid.).

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In questa, come in tante altre occasioni, i Padri riescono a prevalere. Ma a volte le cose si mettono male: i piccoli doni non incantano i capi, che con veemenza rifiutano la logica cristiana della virtù e del peccato, del paradiso e dell’inferno. “Nella terra di Tayoaba”, racconta Padre Montoya, “ci sono molti stregoni che –– cosa comune fra loro –– fanno credere al popolo di essere Dio, ingannando con la loro eloquenza e con molti trucchi”. Un primo tentativo di conversione degli indios di questa terra finisce male per Padre Montoya. Dopo aver attratto gli abitanti con piccoli doni di ami da pesca, coltelli e perline, comincia a parlare del vangelo, ma la gente non lo sta a sentire; pensa invece di mangiarselo –– saprà più tardi dalla testimonianza di un indio –– per verificare se la carne dei gesuiti è diversa e più saporita di quella degli altri. Si fanno avanti otto caciques hechiceros. Lo ascoltano quando dice che non è venuto tra loro per desiderio di oro o di argento, di cui tra l’altro non c’è traccia in quei luoghi, ma per le loro anime. “Queste”, osserva Padre Montoya, “benché nere per il paganesimo e il peccato, potevano diventare candide perché portavo con me l’acqua del battesimo. Ma appena cominciai a parlare della punizione dei reprobi, uno di essi cominciò a gridare: – Bugiardo, bugiardo! Ammazziamolo!”. Per fortuna non avevano le armi con loro; mentre andavano a prenderle il missionario riuscì a scappare (cfr. 89-90).

Scappa e si ritrova nel mezzo della foresta, stanco, scoraggiato, af-famato, ma per fortuna non solo. Lo accompagnavano, infatti, alcuni indios convertiti di un’altra tribù. È grazie a loro che capisce che questo mondo, così diverso, ha una sua armonia e una sua provvidenza. Grazie agli indios, che vivono da sempre in armonioso contatto con la natura generosa del luogo, Padre Montoya si ritrova, in breve, ben nutrito (di radici, funghi e frutti selvatici) e di buon umore (cfr. 94-95).

Ma a volte il contatto con la cultura india prende forme drammatiche, come quando Padre Montoya scoprí di aver mangiato carne umana, cre-dendo fosse cacciagione. Se ne accorse alla fine del pranzo quando gli portarono la testa, i piedi e le mani del ragazzo che era stato appena mangiato (cfr. 96). Come regolarsi, in casi come questi, con i propri principi di fratellanza e di civiltà? Occorre far ricorso a tutta l’intelligenza moderna ignaziana, con le sue distinzioni e i suoi controllati giudizi, oltre che alla volontà incrollabile, fortificata dal rigore ‘scientifico’21 degli esercizi spirituali, per non scoraggiarsi. Gli Spagnoli, come quelli di Villa

21 Cfr., sulla moderna dimensione psianalitica, scientifica, degli esercizi ignaziani, il

mio precedente articolo, “La modernità dei primi gesuiti da Sant’Ignazio a Matteo Ricci”.

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Rica nel Guairá, sono abituati agli abusi nei confronti degli indios e non gradiscono certo la presenza dei gesuiti; vorrebbero che se ne andassero e dicono – indicando esempi come quello sopra riportato – che gli indios non sono civilizzabili, che i Padri non stanno concludendo niente di buono con le loro riduzioni, che stanno perdendo il loro tempo (cfr. 56).

Il fatto è che il mondo degli indios va vissuto per essere capito e corret-tamente interpretato. Le meraviglie “moderne” degli ami da pesca, delle spille, delle forbici e dei coltelli sono solo attrazioni temporanee che sta-biliscono un contatto e una comunicazione iniziale. Ma è l’intesa spiritu-ale quella che associa i missionari agli indios. Visioni, fatti meravigliosi, presenze spirituali appaiono sia agli uni che agli altri in ogni luogo e cir-costanza. Nelle riduzioni sia i Padri che gli indios trascorrono una vita di continuo contatto con la trascendenza o, almeno, con entità surreali, immagini oniriche e presenze metafisiche. Ecco la morte di Padre Juan Vaseo ( Jean Varisseau, belga) venuto a mancare a quarant’anni, nel corso di un’epidemia, nel 1623. Padre Vaseo, cui si attribuisce il merito di aver fondato la tradizione musicale delle missioni del Paraguay, gi-aceva malato nel suo letto, ci racconta Padre Montoya, quando qualcuno venne a bussare. Era un indio che Padre Vaseo conosceva assai bene, uno degli allievi della schola cantorum; si meravigliò molto di trovarselo lì, sapendo che era a casa, molto malato. “Vieni Padre Juan”, gli disse l’indio, “andiamo in paradiso”. Più tardi, quando Padre Vaseo chiese notizie dell’indio malato, gli dissero che era appena morto; al che egli, contento, concluse: “È arrivata la mia ora”. E poco dopo spirò (cfr. 67).

Un caso ugualmente nispiegabile in maniera razionale accadde nel corso di un’epidemia di vaiolo. Un giovane cantore dalla voce bella e curata cadde ammalato. “Pregai Dio”, scrive Padre Montoya “perché lo conservasse in vita”. Quando poco dopo andò a trovarlo, il giovane lo accolse con un sorriso dicendogli: “Padre, vengo or ora da una visita al Santissimo Sacramento dell’altare. Dio mi ha fatto sapere che morrò molto presto ed io sono contento e non vedo l’ora che si faccia la sua volontà”. Padre Montoya osservò che il giovane non poteva essere an-dato in chiesa malato com’era. Il giovane, allora, gli descrisse per filo e per segno ciò che era accaduto in chiesa da dove Padre Montoya era appena arrivato pochi momenti prima. Disse che il suo angelo custode l’aveva lì condotto perché sapeva quanto lui amasse il Santissimo Sacra-mento (cfr. 67).

Numerosi sono anche i casi di anime sofferenti del purgatorio. “Esse appaiono del tutto visibili”, dice Padre Montoya, “e ci danno materiale buono per i nostri sermoni”. Una di queste anime apparve in sogno,

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verso la mezzanotte, a uno dei Padri, che disse per lei una breve preghiera e sentì l’impulso di dire anche una messa. La mattina, parlando con un indio, apprese che la stessa anima aveva fatto un’altra apparizi-one altrove, a mezzanotte. Disse allora per lei una messa (cfr. 68).

Si vive anche con il continuo sospetto della presenza del diavolo, anzi si può dire che il diavolo sia una presenza costante nelle riduzioni, come il tentatore, il nemico, il male da combattere e vincere individualmente e come comunità. Padre Montoya racconta di aver una volta visto un uomo entrare furtivamente nella chiesa vuota e di aver pensato che fosse il diavolo, o forse uno stregone arrivato lì per commettere qualche empietà. Era invece un povero indio che, avendo trovato un’ascia nella foresta l’aveva tenuta per sé ma poi, preso dal rimorso e vergognoso di raccontare questo al padre, era entrato nella chiesa deserta e aveva de-posto l’ascia ai piedi del Santissimo Sacramento (cfr. 68).

Il diavolo si manifesta con ululati spaventosi, distruggendo campi seminati, a un giovane che non va a messa la domenica. Il giovane si rifugia dai Padri, che con preghiere e con l’esposizione di una preziosa reliquia di Sant’Ignazio, fanno sparire il nemico (84). Il giovane, natural-mente, da allora rispetta il precetto settimanale e diventa un buon cris-tiano.

Padre Montoya parla con disinvoltura del diavolo perché l’ha visto. In una delle sue esperienze mistiche descritte in un’altra opera,22 troviamo la descrizione del diavolo: “Improvvisamente mi sembrò di vedere un diavolo. Non sembrava molto vecchio. Aveva l’apparenza di un negro, con il brutto muso lungo, gli occhi di fuoco, le mani e i piedi da diavolo [cioè piccoli, da bambino, secondo quanto appare altrove (84)], ma pro-porzionati al suo corpo” (198).

Il diavolo si insedia nella mente degli indios in maniera subdola e tenace e a volte, se manca il Padre per gli esorcismi e gli scongiuri, si ricorre alla frusta. Come nel caso di un giovane indio perseguitato dal nemico. Chiede al padre e alla madre di flagellarlo per scacciare dal suo corpo la presenza infernale. Il padre prova ma non gli riesce. La madre si fa coraggio e lo frusta a sangue per amore (Cfr. 125-126).

Oltre ai diavoli veri e propri, votati alla dannazione delle anime, ci sono spiriti e spiritelli burloni come quelli che mettevano a soqquadro le carte di Torquato Tasso a Sant’Anna, o come gli sprites di William Shake-

22 Report made by Father Antonio Ruiz de Montoya regarding graces received from our Lord. La

leggo in appendice, nel volume contenente la traduzione inglese della Conquista spirituale. Sembra che l’autore scrivesse questo breve ragguaglio delle sue esperi-enze mistiche al tempo della sua ordinazione sacerdotale.

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speare ancora più vicini, anche cronologicamente, a quelli di Montoya che si incontrano nel racconto seguente.

Tornando dalla casa provinciale di Asunción alle dilette riduzioni del Guairá, dai compagni Simón [Maceta], José [Cataldini] e Martín [Ur-tasun], Padre Montoya fece sosta all’attracco di Maracayú. Qui trovó un uomo che lo accusó pubblicamente di avergli rubato la barca. Il mission-ario era già stato in questo luogo nel suo viaggio di andata e qui aveva richiesto la barca in prestito all’uomo che gliela aveva rifiutata e che ora lo accusava di avergliela rubata. Padre Antonio, mostrandogli la barca con cui era partito e con cui era appena ritornato a Maracayú, cercava di spiegare all’uomo che lui non aveva alcuna colpa. Fortunatamente alcuni ragazzi che nuotavano nel fiume adocchiarono sul fondale basso, in parte affondata nella sabbia, la barca perduta. Il barcaiolo allora, sti-mando che lo scafo, piuttosto grande, non si sarebbe potuto recuperare senza uno sforzo collettivo ben organizzato, assoldó a buon prezzo nu-merosi indios pensando di iniziare il lavoro la mattina seguente. Giunti tutti, però, sul posto, all’alba, trovarono la barca che, ripulita e in per-fette condizioni, galleggiava vicino alla sponda del fiume. La logica con-clusione, o meglio il commento di Padre Montoya è questo: “Ci sono molti spiriti maligni in queste foreste” (58).

Diavoli e spiriti maligni, visioni e miracoli, immagini della Madonna e di angeli che piangono lacrime vere, e anche le lacrime di un cavallo che si commuove quando viene menzionato il nome del padrone martiriz-zato (Roque Gonzáles, oggi santo)… appartengono alla realtà delle riduzioni del Paraguay. Non c’è segno di modernità in questo, ma c’è la misura di una cultura spirituale comune sulla quale la modernità si in-nesta con tanto successo. La stessa ingenuità devozionale degli indios, di cui vedremo subito qualche esempio, si può intendere come espressione di una concezione semplice del mondo, che è quindi alla portata di tutti, che si può ben capire, controllare, dominare e, naturalmente, migliorare. La ricerca progressiva della perfezione individuale (quella dei gesuiti come quella degli indios) si sposa bene, in fondo, alla forsennata, egois-tica ricerca di metalli preziosi, di schiavi e di ricchezze da parte dei bandeirantes di São Paulo. Entrambe sono espressioni di una stessa cul-tura di importazione europea. La differenza grande è nella dimensione spirituale, che rende possibile in Paraguay la realizzazione di un’utopia.

Nella confessione gli indios raccontano le colpe più piccole, dice Padre Montoya, come il non essere abbastanza grato a Dio per quello che ha fatto per loro, l’aver preso un boccone di carne senza ricordarsi del ven-erdi`, il non essere andati a messa nei giorni feriali e cose simili. Anche

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lo.

quando sono bene istruiti nel catechismo e in faccende spirituali con-tinuano a confessarsi in questo modo (cfr. 131). Ci sono anche casi estremi, come quello di un ragazzo della riduzione di Santa Ana che, esaltato dall’idea di castità predicata e praticata dai Padri, vuole farsi cas-trare (68). Un caso simile, ma più tragico, avvenuto circa ottanta anni dopo –– il che indica la continuità di questo atteggiamento pietistico ingenuo degli indios delle riduzioni –– è riportato da Antonio Sepp: una ragazza si trafigge il petto con un coltello per imitare l’icona della Vergine addolorata.23

Naturalmente in un ambiente del genere abbondano casi di aspiranti alla santità, di fede edificante, che subito diventano termini di riferi-mento e oggetto di emulazione da parte degli altri membri della comu-nità. Racconto un paio di episodi, fra loro conessi, con le parole, o me-glio con il tono, di Padre Montoya.

Isabella è una delle tante donne portate a São Paulo dai bandeirantes. Lì, dopo essersi sposata, diede aperto sfogo alla propria inclinazione e con-vinse il marito a fuggire con lei per raggiungere le missioni che a quei tempi erano ancora nel Guairá.24 Dopo incredibili difficoltà e pericoli nel corso del lungo viaggio, smagrita, debole, esausta, giunse al punto di non poter più fare un passo avanti e, pronta a morire e a essere sepolta sul posto, si inginocchiò e con le lacrime devote chiese aiuto alla Vergine. Che evidentemente ascoltò la preghiera perché Isabella si rialzò come fosse un’altra donna, piena di fresca energia. Finalmente raggiunse la missione e Padre Francisco Diaz la difese dal bandito che l’aveva se-guita e voleva riportarla a São Pau

Isabella si sentí già in paradiso. Devotamente si dedicó al servizio della Vergine nella Confraternita della riduzione. Ascoltava la messa tutti i giorni e richiese la grazia della comunione, grazia che fu rimandata a quando sarebbe stata ben istruita in materia di fede. Morto il marito, si dedicò sempre di più ai lavori comunitari e fu di grande aiuto nella tras-migrazione della missione.25 A ognuno, ricordando la propria esperi-enza, diceva che sarebbe stato meglio morire piuttosto che cadere nelle mani dei delinquenti di São Paulo. […] Aveva fatto quattro errori

23 Sta all’inizio del primo capitolo del tomo 2, Continuación de las labores apostólicas,

dell’edizione critica delle opere di Anton Sepp, 97-99. 24 Delle tredici missioni fondate nel Guairá undici furono distrutte e due , Nuestra

Señora de Loreto e S. Ignacio Miní, furono abbandonate in tutta fretta nel 1632 prevenendo l’arrivo dei bandeirantes, e rifondate più a sud, nel territorio dell’attuale provincia argentina di Misiones (cfr. Maeder).

25 Cfr. la nota precedente.

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vita.

nell’ultimo esame e si era anche confusa e quindi la grazia della comun-ione fu ancora una volta rimandata. Tuttavia, essendo in punto di morte, si fece un’eccezione. Ricevuta la comunione, concluse la sua

Le donne che l’avvolsero nel sudario si accorsero comunque, a mez-zanotte, che Isabella dava segni di vita. Si svegliò, infatti, e chiese del Padre Juan Augustín. Questi arrivò con molta gente e tutti poterono udire le seguenti parole: “Appena uscita da questa vita sono stata portata in inferno. C’è un fuoco terribile lì che brucia senza dare luce. È spaven-toso. Lì ho visto alcune persone che vivevano fra noi e ora soffrono grandi tormenti. Poi sono stata portata in paradiso, dove ho visto la nostra Madre, così bella, brillante, amabile, riverita e servita da tutti i beati. I quali quando mi videro mi accolsero fra loro con mille congratu-lazioni per avermi riconosciuta come appartenente alla Confraternita della Vergine. I beati vi mandano tanti buoni messaggi, e vi dicono di continuare i buoni uffici della confraternita e di essere buoni cristiani”. La buona donna chiese di ogni persona del villaggio e ad ognuno diede buoni consigli. Non volle ricevere una donna che, poi si seppe, viveva nel peccato. Questa in seguito si pentì e vive ora cristianamente. La buona Isabella non volle vedere il figlio fino al giorno prima del suo pre-annunciato ritorno nel mondo dei beati. Il figlio cambiò vita completa-mente e ora vive come un religioso insieme ai Padri gesuiti. Quando, a cinque giorni dal suo risveglio, la donna morì, nessuno nel villaggio mancò alla comunione. Nove mesi dopo la morte di Isabella si dovette riaprire la sua fossa per una risistemazione del camposanto; il corpo della donna era perfettamente conservato e non aveva alcun cattivo odore. Dopo la morte fece anche un miracolo: la corona del suo rosario, posta in contatto con un bimbo malato e prossimo alla fine, gli diede immediata e gioiosa guarigione (cfr. 116-119).

Un caso simile a quello di Isabella ebbe luogo nella stessa riduzione. “Una brava ragazza”, ricorda Padre Montoya “ben educata nella scuola di catechismo, la demmo in moglie a un bravo giovane che morì poco dopo con ottime garanzie di salvezza eterna”. Non passò molto tempo che anche la giovane vedova si ammalò gravemente e, in punto di morte, chiese di Padre Montoya e lo pregò di seppellirla non in cimitero ma in chiesa, vicino all’immagine venerata della Vergine, chiedendogli inoltre preghiere per la sua anima e promettendo di pregare per lui in Paradiso. A mezzanotte spirò e i membri della Confraternita della Vergine cui lei apparteneva, iniziarono la veglia. Tre ore dopo il cadavere, avvolto nel sudario, cominciò a muoversi. La liberarono e lei parlò, chiese di Padre Montoya. Questi, accorso immediatamente, la trovò di bell’aspetto e

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buon umore. “Padre”, disse, “ la prima cosa che ho visto è stata una banda di demoni venuti a prendermi; avevano degli uncini con cui cer-cavano di afferrarmi. Ma un bellissimo angelo che mi proteggeva scacciò i demoni con la sua spada infuocata. L’angelo mi condusse in inferno a vedere lo spaventoso fuoco di cui soffrono i dannati. Lì udii assordanti ululati di cani, ruggiti di tori, sibili di serpenti che venivano dalla bocca dei demoni. Vidi come le anime erano da loro torturate. Riconobbi fra esse alcune vissute nella nostra comunità ma nessuna della Confrater-nita”. La veggente riuscitata disse a Padre Montoya di aver visto anche due donne del luogo il cui cattivo comportamento gli aveva causato tanta preoccupazione fino al punto da indurlo a scacciarle dalla riduzi-one dopo di che, improvvisamente, erano morte. Ciò era avvenuto due settimane prima e la veggente non poteva sapere della loro morte. Dall’inferno la donna raccontò di essere stata portata dall’angelo fra i beati, interrompendosi di tanto in tanto per dire frasi di questo tipo: “Ah, Padre, tutto qui è brutto e disprezzabile rispetto a quello che si vede lassù”. Raccontò di aver visto la Madonna e, fra i beati, tanta brava gente delle riduzioni fra cui anche Isabella. La quale le aveva parlato: “Sorella”, le aveva detto, “guarda bene queste cose così potrai riferirle alla gente del mondo. Non ti preoccupare, sarai qui di nuovo oggi stesso; la madre di Dio vuole che tu dica quello che hai visto ai nostri familiari e amici per incoraggiarli a seguire Dio e a tenersi forti nella ricerca della virtù. Parlò per dieci ore e poi, con il volto radioso di angelica bellezza, fece ritorno in paradiso. “Confesso che anche dopo cinque anni dall’accaduto”, conclude Padre Montoya, “l’immagine di questa donna è ancora davanti ai miei occhi e mi ispira. Mentre scrivo queste parole mi sono profondamente commosso e infiammato dal desiderio di imitarla”. La settimana dopo l’episodio narrato era la settimana santa e nessuno nelle riduzioni, uomo donna o bambino, mancò di confessarsi (120-123).

A questa dimensione spirituale corrisponde un’armoniosa vita di re-lazione e lavorativa: “tutti producono cibo e ogni uomo ha il suo pezzo di terra; quando arrivano a 11 anni tutti i ragazzi ricevono il loro ter-reno. Non vendono e non comprano niente. Si aiutano fra loro. Non c’e` furto, vivono in pace e senza litigi” (131). L’amore e il gusto che gli indios mettono nel lavoro artigianale è qualcosa di irripetibile. In tempi brevi diventano “bravissimi nelle operazioni meccaniche, eccellenti car-pentieri, lavoratori del ferro, sarti tessitori e calzolai, anche se non avevano alcuna coscienza di queste attività prima dell’arrivo dei Padri. Sono bravissimi nella musica…” (132). Non è qui neanche il caso di iniziare a dire dei risultati artistici o dell’organizzazione socio-economica

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delle riduzioni ché importa invece, per ora, darsi conto dello spirito delle sue origini: uno spirito prorompente, dei missionari e degli indios, che in tempi brevi porta alla costituzione di tredici riduzioni nel Guairà, mentre le popolazioni che vivevano ai bordi del territorio non vedevano l’ora che i Padri entrassero nelle loro terre e istruissero i loro figliuoli (cfr. 100).

* * *

E poi venne il gorno della distruzione di queste riduzioni e della im-possibilità di fondarne altre in quei luoghi. Gli strumenti della rovina furono i paulisti, abitanti di São Paulo, città senza legge, che erano poi portoghesi, spagnoli, italiani e di altre nazionalità (cfr. 100).26

I paulisti si comportano peggio dei peggiori briganti: invadono le riduzioni, uccidono senza scrupoli, prendono prigionieri uomini liberi, saccheggiano le chiese, maltrattano i missionari, profanavano gli altari. I Padri gesuiti oppongono cristiana resistenza, con invocazioni e con moniti sull’inevitabile castigo divino (101).

Un paulista punta il moschetto su Padre Montoya, a due passi da lui, e questi si toglie la camicia e mostra il petto nudo, pronto al martirio, in segno di sfida. I paulisti (europei, mamelucos, o indios tupí) non sono buoni cristiani, ma non osano ammazzare i Padri (cfr. 101).

Nel corso delle violenze dei paulisti, un indio inseguito si rifugia fra le braccia di Padre Simone Maceta. Il paulista gli spara lo stesso, a brucia-pelo, ammazzandolo sul colpo, senza esitazione e senza alcun rispetto per l’anziano missionario27 che lo proteggeva. Padre Simone allora, lo stesso della avveratasi profezia di morte di qualche pagina fa, maledice il paulista e gli assicura l’inferno per ricompensa del suo delitto. “Io mi salvo lo stesso”, gli risponde ridendogli in faccia l’assassino, “per salvarsi basta credere, e io credo”. Quanto fallace fosse il suo pensiero, com-menta Padre Montoya, è dimostrato dal fatto che fu poco dopo ucciso da tre colpi d’arma da fuoco, senza confessione. Non solo questo; si

26 Non trovo altrove riscontri precisi sull’origine etnico-nazionale dei bandeirantes, in

particolare per quanto riguarda la presenza di italiani. Ma il testo del Montoya è chiaro. McNaspy traduce il termine “paulista” con “townsman of São Paulo” oppure “inhabitant” della città. Nel capitolo 35, “The invasion of these reduc-tions by the townsmen of São Paulo” si legge: “The inhabitants of the town are Castilians, Portuguese, Italians, and people of other nationalities gathered there by a desire to live as they like in freedom, without the constraints of the law. Their way of life is destruction of the human race: they kill all those who flee from them to escape the wretched slavery they inflict upon them” (101).

27 Padre Simone Maceta nacque a Castilenti (provincia di Teramo) nel 1577.

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deve aggiungere che il suo corpo sparì il giorno dopo dalla fossa in cui, pur con un po’ di incertezza da parte dei devoti padri, era stato sepolto (102-103). Chissà dove andó a finire. Non ce lo dice padre Montoya che comunque ci invita a supporre che se lo prese il diavolo per portarlo all’inferno con tutte le scarpe. Un’altra ipotesi possibile è che il cadavere sia stato recuperato dai familiari della vittima e bollito in pentola con pannocchie di granoturno come il ragazzo mangiato da Padre Montoya.28

Con eccezione di Loreto e S. Ignacio Miní, dove furono mandati gli indios che erano riusciti a scappare, tutte e tredici le riduzioni del Guairá furono saccheggiate (cfr. 104). Padre Simone Maceta e Padre Justo Man-silla29 seguirono i bandeirantes fino a São Paulo, a più di quattrocento chilometri di distanza. Cercarono giustizia per gli indios battezzati. Cer-carono in vari luoghi, ma le autorità chiusero loro la porta in faccia. La gente di São Paulo li prendeva in giro per strada e li insultava chiaman-doli “cani”, “eretici”, “infami”, e “stupidi”. Qualcuno mise anche le mani addosso a Padre Maceta senza rispetto per la sua età avanzata. I Padri cercarono allora rifugio nel collegio gesuita della città, ma fu sbar-rata loro la strada.30 Per ordine dei magistrati locali furono arrestati e confinati in una casa sotto il controllo di guardie che mostrarono la più volgare mancanza di considerazione per la dignità sacerdotale. Ci sono Padri, sulla costa di São Paulo che sono stati a contatto con gli olandesi, i nemici eretici, che comunque li hanno trattati con rispetto e cortesia, dando loro a volte anche buona ospitalità. Tutto il contrario dei cattolici paulisti (102-103). Non c’è autorità a São Paulo che dia loro soddisfazi-one. S’incamminano dunque per il nord, recandosi alla capitale, Salvador de Bahia de Todos os Santos (fondata dai Padri della Compagnia, come São Paulo e Rio de Janeiro del resto, il secolo prima) dove la ottengono dal Governatore Generale del Brasile, Diogo Luis de Oliveira. Il quale mette nero su bianco e ordina la liberazione degli indios schiavizzati. Ma-

28 Vedi il racconto riportato in precedenza. 29 Si tratta del gesuita belga Padre Justo Vansurk Mansilla. (Cfr. Cunninghame Gra-

ham, A Vanished Arcadia, cap. 80). 30 I gesuiti di São Paulo non avevano in quel periodo vita facile. Costruita intorno al

Collegio (oggi Museu Padre Anchieta) nel cui cortile Manoel da Nóbrega e José Anchieta fondarono la città nel 1554, la città pullulava di criminali impuniti, viveva in uno stato di semi-indipendenza, ed era governata da sogni di favolose ricchezze. A seguito della bolla di Urbano VIII sulla libertà degli indios, i paulisti cacciarono i gesuiti dalla città e ne permisero il rientro soltanto nel 1653, e solo a condizione che non pubblicassero la bolla papale del ’39 e non accogliessero gli schiavi fuggiti.

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ceta e Mansilla ritornano a São Paulo per riavere i loro parrocchiani, ma le autorità locali li prendono in giro, li sfidano, li minacciano. Potrebbero andare a chiedere aiuto al Governatore di Rio de Janeiro, la cui autorità si estende su São Paulo, ma una cattiva notizia li mette subito sulla via del ritorno: i bandeirantes paulisti stanno preparando un’altra spedizione nel Guairá.

I due gesuiti, spossati, dopo migliaia di chilometri di pista, a piedi (dal Guairá a São Paulo, da qui a Salvador, e quindi di nuovo a São Paulo) si affrettano a tornare nelle missioni e scrivere un rapporto dell’accaduto al re di Spagna, Filippo IV, affinché ristabilisca la giustizia nei luoghi (siamo ancora nel periodo, 1580-1640, della unione delle corone iberiche). La lettera, di cui riporto in appendice i tratti salienti, sarà usata da Padre Montoya per ottenere il permesso di armare gli indios contro e difendersi dalle violenze dei bandeirantes paulisti.

Dopo aver saccheggiato le missioni, “questi lupi”, scrive Padre Montoya al re per indurlo a intervenire, distrussero la città di Villa Rica: uno sconfinamento territoriale e un atto di aggressione contro la Spagna (104). Nella conclusione della sua requisitoria, Padre Montoya riassume e mette in evidenza tutta la modernità dei gesuiti, ricordando come, in-nanzi tutto, con la loro opera di civiltà , essi assicurano anche il futuro contributo economico che le riduzioni danno e daranno alle colonie americane, “Abbiamo promosso la coltivazione del cotone… abbiamo insegnato l’uso dell’aratro… (130). E ricorda in fine anche la preparazi-one linguistica dei gesuiti, la volontà di dialogare, la missione dell’insegnamento: “Non c’è un solo Padre fra noi che oltre alla sua madrelingua e al latino non conosca almeno un’altra lingua. Molti ne conoscono due o tre[…] Abbiamo portato insegnanti nelle città dove i Padri insegnano agli spagnoli e agli indios, e sempre nelle loro lingue, se-guendo l’ammonizione dell’apostolo Paolo [12. Corinti 14:4]: ‘Se non so il significato di una parola sarò un barbaro per il mio interlocutore e lui sarà un barbaro per me” (130). È questa un’altra conferma della moder-nità dei missionari gesuiti, che s’ha da riconoscere, precisamente, nell’assoluta priorità della comunicazione, aperta o da aprire, in tutte le lingue, con tutti i popoli del mondo.

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APPENDICE Riassunto della lettera di Simone Maceta e Justo Mansilla a Filippo IV, re di Spagna, datata 10 ottobre 1629 da Salvador de Bahia de Todos os Santos, riportata da Jaime Cortesão in Jesuitas e bandei-rantes no guairá (310-339). La lettera, che va sotto il nome di Rela-cion de los Agravios, è stata anche pubblicata in spagnolo, da Gui-llermo Furlong , e in inglese, nell’antologia di Richard Morse; ma mai, che io sappia, in italiano. Jaime Cortesão pubblica due ver-sioni della lettera, una effettivamente inviata al re di Spagna (ed è la versione più estesa) e l’altra inviata al Padre Provinciale Fran-cisco Vasques de Trujillo (una copia ridotta e dal tono più tem-perato). Qui si è considerata la versione ufficiale della lettera, quella inviata a Madrid. Aggiungo, fra parentesi quadre, gli “ar-gomenti” del materiale tradotto. Fra parentesi quadre pongo anche le parti riassunte del documento.

* * *

[Paulisti fuorilegge da quarant’anni] Per quarant’anni gli abitanti di São Paulo hanno ignorato le leggi

del re nostro signore, senza rimorso o paura per l’offesa a Dio, per la punizione che meritano. I paulisti catturano con la forza gli in-dios liberi ed amancipati e li tengono come schiavi o li vendono.

[Negli ultimi tempi due cose nuove] Negli ultimi tempi la loro sfrontatezza è aumentata: è aumentato

il numero dei razziatori e hanno assalito le missioni della Com-pagnia di Gesù nel Paraguay. Ai primi di agosto del 1628 nove-cento portoghesi armati fino ai denti sono usciti da São Paulo. Li accompagnavano duemila indios tupí, presi prigionieri in occasioni precedenti ed ora loro alleati e schiavi.

[Il capo della spedizione] L’armata, posta al comando di Antônio Raposo Tavares e ac-

compagnata da numerosi giudici e amministratori della città di São Paulo, con insegne diverse da quelle della casa reale, si diresse verso la pianura di Iguaçú.

[Dodici riduzioni]

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Qui c’erano dodici riduzioni, ben lontane dalle città spagnole, ed altre in procinto di essere fondate.

[I paulisti in azione] Passato il fiume Tibajiva, l’8 settembre del 1628, i paulisti

costruiscono una palizzata per recintare il loro accampamento presso i nostri villaggi. Cominciano con il catturare i non battez-zati, fuori dalle riduzioni. Feriscono, ammazzano, catturano. Noi rimaniamo nelle riduzioni, evitando di esporre i nostri parroc-chiani al pericolo, ma i nostri missionari vanno anche fuori, per confortare i bisognosi e battezzare i bambini morenti. I paulisti stessi richiedono un prete, Padre Pedro Mola, per confessare un portoghese che sta morendo. Evidentemente Dio non permise la confessione del delinquente perché gli tolse la parola e la ragione per tutto il tempo che Padre Mola rimase con lui

[Il capo Tatabrana: il casus belli] Un potente cacique di nomeTatabrana, che in passato era stato

catturato dal paulista Simão Álvares dal quale era riuscito a sfug-gire, venne con tutta la sua gente a mettersi nelle mani di Padre Mola. I paulisti gli chiesero di consegnare loro Tatabrana. IL ge-suita rispose che la loro richiesta era senza merito in quanto l’indio era un uomo libero.

[I razziatori all’opera] I paulisti allora, con l’approvazione del comandante António

Raposo Tavares, il 30 gennaio 1629 entrarono con la forza nel vil-laggio di Sant’Antonio e presero non solo il cacique Tatrabana, ma anche, come loro stessi ammettono, 4000 indios come “portatori” e una folla di altri indigeni. Distrussero l’intero villaggio; bruci-arono case; saccheggiarono la chiesa; dissacrarono l’immagine della vergine; rubarono persino gli effetti personali dei Padri mis-sionari, camicie, scarpe, due coperte, una tovaglia.

[La cosa più grave] La cosa più grave è la svalorizzazione del Vangelo fra i non cre-

denti che si stavano avvicinando alla fede. Gli indios oggi pensano e dicono che noi non li abbiamo riuniti per insegnare loro la legge di Dio, ma per consegnarli nelle mani dei portoghesi. Gli indios pensano che li abbiamo ingannati dicendo loro che erano al sicuro con noi e che i portoghesi, cristiani e sudditi dello stesso re non

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avrebbero mai fatto loro del male. Gli indios, pacifici, vivevano fe-lici e nell’abbondanza nei loro villaggi. Ora sono forzati a partire, ad attraversare fiumi e paludi – una marcia durissima di quaranta giorni – per arrivare schiavi a São Paulo.

[Atrocità degli indios tupí] Due indios, liberati dopo le nostre continue e pressanti richieste,

ci dissero del fuoco appiccato alle capanne con dentro i vecchi e i malati. I tupí, in presenza dei loro padroni, obbligavano quelli che cercavano di scappare a rientrare nella casa in fiamme e a perire nell’incendio. I tupí sono responsabili quanto i loro padroni e vanno anch’essi puniti.

[Necessario punire i paulisti] I paulisti vanno puniti; non solo i bandeirantes ma tutti gli abitanti

di São Paulo con tutti i giudici e gli amministratori pubblici della città [… seguono nomi e cognomi di personaggi di São Paulo. Il discorso verte poi sulla schiavitù, concessa dopo una guerra “per giusta causa” e con licenza reale secondo la legge di Évora del 20 maggio 1570 dal re Dom Sebastião. I gesuiti sostengono che l’argomentazione legalistica addotta dai paulisti per giustificare le loro razzie è del tutto errata e insostenibile. La discussione si sposta poi sulla reale “incertezza” nella definizione dei confini fra colonie spagnole e portoghesi. I territori disputati sono il Guairá e le pianure di Iguazú. A chi appartengono? I paulisti dicono che essi appartengono al Portogallo e quindi reclamano i loro diritti di sfruttamento. I missionari dicono che siccome i luoghi sono vicini alle città spagnole di Guairá e Villa Rica essi rientrano sotto il dominio spagnolo.

[La posizione dei gesuiti] Ma noi non abbiamo fatto distinzioni politiche. Abbiamo sem-

plicemente riunito gli indios [da qui il senso del termine “riduzi-one”] e abbiamo dato loro degli insegnamenti nelle loro stesse terre, dove li abbiamo trovati.

[I bandeirantes fuori d’ogni legge] Ci sono quelli che per cinque e anche sette anni (e ci sono alcuni

che per diciotto anni) senza pensare alle loro anime sono rimasti nella foresta a catturare gli indios e a vivere in concubinato con tutte le donne indigene con cui piaceva loro giacere, vivendo come

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bestie e senza darsi pensiero delle loro legittime consorti, o di as-coltar messa, o di confessarsi, o di prendere la comunione.

[Conclusione] Per questo preghiamo, per amor di Dio e di suo figlio Gesú

Cristo nostro signore che per la salvazione nostra e dei poveri in-dios derelitti di tutto il mondo sparse il suo sangue prezioso, che si ponga in esecuzione al più presto possibile qualche mezzo efficace per rimedio a tante abominevoli offese passate, e sufficiente per impedire le future, affinché non rimanga chiusa la porta della pre-dicazione del santo Vangelo a tanti numerosi gentili, visto che tutta quella terra è ancora intatta, ancora non toccata da spagnoli o portoghesi, e tutti lì erano già pronti a ridursi e ad accogliere i Pa-dri nelle loro terre per essere indottrinati e istruiti nella nostra santa fede cattolica romana.

In questa città di Salvador Bahia de todos los Santos, 10 di otto-bre 1629. Simon Maceta – Justo Mansilla.

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