La modernità e il problema del bene Spinoza, Leibniz, Kant

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La modernità e il problema del beneSpinoza, Leibniz, Kant

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Thomas Hobbes1588-1679

«I concetti di buono e cattivo sono sempre usati in relazione alla persona che li usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo, che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi»

(Th. Hobbes, Leviatano, 1651)

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Spinoza

1632-1677

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Critica del finalismo

Ethica more geometrico demonstrata (1677)

opera pubblicata postuma

Spinoza rigetta l’idea biblica del Dio creatore dell’universo.

Questa concezione pretende di dimostrare la bontà di Dio: per questo applica la nozione di “bene” a Dio. Ma le nozioni di “bene” e “male” sono concetti relativi mentre Dio è l’assoluto.

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I concetti relativiBene, male

Perfezione, imperfezione

Sono concetti derivati dal confronto con altri concetti. Secondo Spinoza, questo è il motivo per cui ciascuno di noi ha un concetto diverso del bene.

Bene e male nascono dal confronto con l’idea di un modello della natura umana: buono è ciò che si avvicina a questo modello, cattivo ciò che si allontana. Lo stesso vale per le nozioni di perfezione e imperfezione.

Così ragiona normalmente l’uomo comune. E quando l’uomo pensa Dio, pretende di poter compiere la stessa operazione. Ma questo è ciò che Spinoza contesta.

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Critica della creazioneLa concezione ebraico-cristiana di Dio creatore degli uomini e del mondo intende affermare che Dio agisce in vista di un fine, cioè del bene.

L’azione di Dio è concepita allo stesso modo in cui opera l’uomo (→antropomorfismo): in questo modo però si presuppone che, come l’uomo, anche Dio agisca in vista della realizzazione di un modello, una perfezione o un bene che ancora non c’è e al quale Dio desidera provvedere.

Questa concezione nasce da un’errata conoscenza di sé e della natura da parte dell’uomo.

La realtà umana è complessa: attraversata da desideri e passioni. A differenza di qualsiasi altro animale, però, l’uomo è consapevole del proprio desiderare e del proprio patire. Da qui, nasce l’illusione della libertà: della presenza di una volontà in noi che non necessariamente si subordina ai condizionamenti esterni.

Si tratta di un’illusione, perché spesso non conosciamo la causa reale del nostro volere.

L’uomo, inoltre, sceglie per il proprio utile: da qui nasce l’idea di una natura creata in vista del bene dell’uomo (→antropocentrismo).

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Deus sive Natura

Spinoza è fautore di una visione panteistica della natura. Dio non è trascendente ma immanente alla natura. Dio e natura sono la stessa cosa.

La natura (→totalità dell’essere) consta di un suo ordine che non è finalistico bensì deterministico. La natura consiste in un sistema ordinato di cause efficienti(→vs. finalismo), in cui tutto è necessitato.

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Nihil est sine rationeNulla è senza ragione

L’uomo, come qualunque altro ente naturale, è parte di una totalità ordinata in maniera stringente e necessaria. Che le cose accadano “per caso” o “secondo uno scopo” è solo una falsa impressione dovuta alla nostra ignoranza. Lo stesso vale anche per l’illusione della libertà, se per libertà noi intendiamo l’indipendenza dalle cause naturali.

Una simile libertà è impossibile: nulla esiste al di fuori della natura; tutto ciò che appartiene alla natura è sottoposto al suo ordine, alla sua causalità immanente. Dunque anche l’uomo.

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Conoscenza e libertà

Tuttavia, l’uomo non semplicemente subisce le cause naturali; egli può conoscerle.

“Conoscere”, per Spinoza, significa infatti “conoscere le cause” di qualcosa. Ne consegue che, in Spinoza, la libertà ha a che fare con la retta conoscenza.

La conoscenza è ciò che “libera” l’uomo dalla schiavitù delle passioni.

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La dottrina della sostanzaLa connessione tra conoscenza e libertà in Spinoza rinvia alla sua concezione della natura come sostanza.

Sostanza è il reale in senso autentico: è ciò che esiste e la cui esistenza dipende solo da sé. Perciò essa è:

● infinita● unica● causa di se stessa

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La sostanza spinoziana

La sostanza è da pensarsi come una totalità dotata di un’articolazione interna. Pur nella sua unità, la sostanza si articola in infinite determinazioni. Spinoza distingue:

● gli attributi della sostanza. Sono infiniti, ma ne conosciamo solo due: pensiero e estensione (gli stessi di cui si compone la realtà umana).

● i “modi”, ovvero le infinite modificazioni di ciascun attributo.

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La necessità del mondo

La teoria degli attributi e dei modi serve a Spinoza per spiegare in che modo, dalla realtà unica della sostanza, derivino le molteplici forme in cui la natura si manifesta.

La natura non è nulla di statico ma è in costante divenire: ma un divenire causale, ordinato.

Inoltre, l’intento è di superare la concezione creazionista, secondo cui il mondo è il prodotto della libera volontà di Dio: questo significherebbe che esistono altri mondi possibili che Dio ha lasciato incompiuti. Al contrario, l’idea di Spinoza è che questo nostro mondo è qualcosa di necessario, interno alla necessità di Dio stesso: Dio e la sua manifestazione sono la stessa cosa.

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“Dio agisce con la medesima necessità

con cui esiste”Il riconoscimento del carattere necessitante dell’agire di Dio e dell’esistenza del mondo sottrae l’uomo all’angoscia del dubbio, lo rasserena, toglie l’illusione di essere lui il centro della realtà, lo sgrava dalla responsabilità di doversi ergere a giudice del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.Sottratto a questa responsabilità, l’uomo può bearsi della consapevolezza di essere parte di un disegno necessitato, razionale, compiuto, fondato su se stesso.

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Il bene e l’utileEthica, parte IV

Posto l’uomo nella natura identificata con Dio, ne consegue una nuova concezione del bene.

Nella parte IV dell’Ethica, Spinoza ripropone la definizione del bene come “ricerca dell’utile”. Questa definizione non serve più, però, allo scopo di mostrare il carattere relativo della nozione comune di bene. Ora si tratta di intendere l’utile (quindi il bene) alla luce della concezione panteista della natura.

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L’utile per l’uomo

Conservazione del proprio essere

Ogni cosa che è, è manifestazione della natura: prodotto di una serie di cause necessarie.

In Ethica, parte III, Spinoza afferma che “ciascuna cosa, per quanto sta in essa, si sforza di perseverare nel suo essere”. Vuole cioè conservarsi.

Questo sforzo (conatus) di autoconservazione costituisce l’essenza attuale di ogna cosa (Eth., III, 6-8).

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Quando il conatus si riferisce alla sola mente, si chiama volontà.

Quando si riferisce sia alla mente sia al corpo, si chiama appetito. L’appetito ha a che fare con l’essenza dell’uomo.

Nell’uomo l’appetito, in quanto è consapevole di sé, si chiama cupidità.

ConatusSforzo

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La concezione spinoziana del bene e del male

Sforzo di autoconservazione nell’uomo(Appetito, Cupidità)

Tristezza(emozione connessa al passaggio da

una perfezione maggiore a una minore)

Letizia(emozione connessa al passaggio da

una perfezione minore a una maggiore)

Bene Male

Tutti gli affetti e le passioni umane

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Il bene come conservazione di séLa Natura (Dio, Sostanza) non è alcunché di statico: è pura attività, è l’estrinsecarsi di una potenza infinita che si realizza in una totalità be ordinata, dove ogni singolo elemento è in un rapporto causale con il Tutto.

Dio è questa potenza. E le cose (=modi degli attributi di Dio) partecipano di questa potenza nello sforzo di preservarsi e conservarsi nell’essere. In questo modo esse resistono alla dispersione, al dissolvimento, al nulla.

Tutte le cose partecipano a questa dinamica, nella forma dell’appetito. L’uomo vi partecipa nella forma dell’appetito consapevole di sé.

La cupiditas individua dunque il carattere fondamentale dell’uomo, del suo essere e del suo agire. Essa definisce anche il criterio di giudizio di ciò che chiamiamo “buono” o “cattivo”. In effetti, non è la bontà o cattiveria a definire il nostro desiderio, ma il contrario: ciò che giudichiamo buono è tale perché lo desideriamo (e lo desideriamo perché ci è utile).

Si chiarisce così in che senso per Spinoza il bene abbia un carattere strumentale. “Buono” è, in definitiva, ciò che garantisce la conservazione del nostro essere.

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La virtù

La ragione è universale: è la stessa per tutti. Chi desidera con cognizione di causa desidera, non solo il bene per sé, ma il bene per tutti. Desidera ciò che tutti devono poter desiderare.

Essere virtuoso vuol dire perciò essere in accordo:

a) con la naturab) con il resto degli uomini

La nuova definizione del bene conduce ad una ridefinizione anche del concetto di virtù.

La virtù è “agire, vivere, conservare il proprio essere”. La virtù umana consiste nel farlo con consapevolezza, ossia con conoscenza di causa. In altri termini, virtuoso è chi agisce secondo ragione.

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Dal

la v

irtù

al

“som

mo

bene

” L’uomo guidato dalla ragione ha uno sguardo disincantato sul mondo. Non si illude, non cade in errore, e per questo non è causa del suo male.

Si adegua alla razionalità inscritta nel mondo, e per questo è in accordo con tutti gli altri uomini. Ciò che desidera per sé è quanto desidera anche per gli altri: per questo è anche giusto e onesto.

La virtù è impossibile senza una adeguata conoscenza.

Solo la conoscenza elimina gli ostacoli che minacciano la preservazione della nostra esistenza.

Ma conoscere vuol dire conoscere la natura, conoscere Dio.

Per Spinoza, questo è il sommo bene, che è anche somma virtù.

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La li

bert

à Abbiamo visto la critica al concetto assurdo di libertà come indipendenza dalla natura.

Non si può essere indipendenti dalla natura. Ma si può fare in modo che i nostri appetiti non “trasgrediscano” l’ordine naturale delle cose. Aderire a questo ordine è la massima espressione di libertà (la forma più alta di conoscenza).

Spinoza distingue tre gradi di conoscenza:

1. Immaginazione. Percezioni confuse e parole altrui.

2. Ragione. Conoscenza dell’ordine causale del mondo.

3. Sapere intuitivo. Amore intellettuale di Dio (⇏ ascetismo, repressione delle passioni). Fusione totale con Dio.

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Leibniz(1646-1716)

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Contro il determinismoContrasta la visione deterministica dell’universo di Hobbes e di Spinoza.

Sostiene l’esistenza di regole oggettive del bene e del male (“Leggi etiche”), che egli distingue dalle “leggi positive”, ossia le leggi arbitrariamente poste dalle autorità politiche.

La legge etica prescrive il bene, il cui concetto è una verità innata nella mente di ogni ente razionale (sia esso l’uomo, o Dio stesso).

L’onnipotenza di Dio non significa che Dio abbia il potere di sovvertire l’ordine razionale dell’essere. Ciò che è in sé bene, lo indipendentemente dalla volontà degli uomini e di Dio.

Questa tesi, contraria al “volontarismo”, ha forti ripercussioni sul dibattito relativo all’origine del male. Chi sostiene che il bene è tale perché Dio lo ha voluto tale, potrebbe sottintendere che Dio avrebbe potuto volere il male come bene. Conferire quest’arbitrio a Dio significherebbe farne un despota o un tiranno.

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Il razionalismoLeibniz è esponente del razionalismo, corrente di pensiero che sostiene la tesi secondo cui la ragione costituisca il principio necessario e sufficiente per la conoscenza.

La spiritualità umana è dunque identificata con le capacità razionali dell’uomo.

Nella Monadologia (1714), Leibniz reinterpreta la teoria cristiana della creazione in chiave razionalistica. Il creato è concepito come una grande città (la “città di Dio”), dove Dio, spirito per eccellenza e forma compiuta di razionalità, è presentato come il sovrano degli spiriti.

Questa visione del creato rinvia alla teoria delle monadi.

Le monadi sono sostanze semplici, una sorta di “atomi spirituali” di cui si compone la realtà: sono forme sostanziali (entelechie) capaci di attività e di percezione, sebbene confusa. Esse sono come delle “finestre sul mondo”, delle “aperture” dalla cui combinazione discende il reale che percepiamo e nel quale viviamo immersi.

Gli spiriti, come gli uomini, sono formazioni complesse di monadi capaci di riflessione e conoscenza.

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La città di DioLeibniz rifiuta l’antropocentrismo: per lui, il creato non è stato fatto espressamente per l’uomo. Ciò non toglie, tuttavia, che il creato, così com’è, consente lo sviluppo delle capacità razionali umane, cioè il loro potenziamento.

Allo stesso modo, Leibniz dichiara di rifiutare l’antropomorfismo, per quanto anche lui ammetta che tra Dio e gli uomini vi siano certe somiglianze e parallelismi. L’elemento principale che li accomuna è la loro spiritualità, che li qualifica sia sul piano metafisico (come sostanze) sia morale (come persone).

La stessa organizzazione della città di Dio ricorda inoltre l’organizzazione di tipo monarchico. Dio è presentato come il buon principe, come un padre affettuoso che si prende cura dei suoi figli, uno ad uno.

La felicità, secondo Leibniz, è possibile solo in virtù di quest’amore di Dio: amore rivolto verso ogni spirito singolarmente. Giacché la felicità non consiste nella fusione con Dio, con la perdita della nostra identità. Al contrario, autentica felicità è possibile solo nel rispetto della nostra persona, nel rispetto della nostra individualità che solo Dio sa garantire.

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Immanuel Kant(1724-1804)

Difensore di una concezione problematica del bene

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CriticismoKant è il padre del “criticismo”: atteggiamento di pensiero che si interroga sul fondamento delle esperienze umane, in riferimento a tre aspetti:

1. chiarirne le condizioni di possibilità;2. mostrarne la validità (o non-validità);3. delineare l’ambito di tale validità, ossia i

limiti.

Secondo Kant, infatti, esistono diversi tipi di esperienze, per ciascuna delle quali è richiesto uno specifico uso della ragione.

Quest’atteggiamento dà origine alla trilogia critica di Kant:

● Critica della ragione pura (1781, 1786)● Critica della ragione pratica (1788)● Critica del giudizio (1790)

La filosofia kantiana persegue lo scopo di “sottoporre la ragione al tribunale della ragione medesima”.

Sul piano pratico, Kant si pone la domanda: qual è la fonte della nostra conoscenza del bene?

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Critica della ragione pratica (1788)

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Il paradosso della criticaNormalmente, le filosofie tradizionali ricavano la legge morale a partire dalla definizione preliminare del concetto di bene.

Kant pretende di dover fare il contrario. Si tratta, innanzitutto, di capire da dove deriva la legge morale, ossia il criterio in base al quale noi giudichiamo cosa è bene fare o no. Nella misura in cui si chiarisce l’origine di questa legge in noi, si potrà decidere se la pretesa di questa prescrizione di presentarsi come “legge” sia legittima oppure no.

La dimostrazione della legittimità della legge fornisce la determinazione di cosa sia il bene.

Nel linguaggio di Kant, il paradosso si esprime in questo modo:

● impossibilità di definire il bene secondo la “materia” (cioè su un interesse, su un desiderio o un piacere, da cui deriva la definizione del bene come utile, amore o felicità).

● necessità di definire il bene secondo la sua sola forma razionale (→formalismo etico).

La “forma” del bene consiste nella universalità del giudizio che ne esprime il concetto

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I giudizi pratici“Universalità” del bene vuol dire: indipendenza rispetto a qualsiasi interesse particolare, sentimento, esperienza sensibile contingente.

Il bene, come “universale”, deve essere oggetto di un giudizio la cui validità sussiste in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo, senza eccezioni.

Da dove trarre questo giudizio? Non dall’esperienza, che fornisce sempre contenuti particolari. L’universalità appartiene unicamente alla ragione. La domanda allora è: può la ragione da sola elaborare un giudizio che sia veicolo di un concetto universalmente valido del bene?

Per poter prescrivere il bene, la ragione deve infatti poterlo pensare: deve cioè formulare un giudizio che affermi il bene universalmente.

Questo tipo di giudizio è da Kant chiamato “pratico”, in quanto legato alla prassi, al fare, all’agire. A loro volta, i giudizi pratici si dividono in:

● massime: principi pratici “soggettivi”, regole di comportamento individuali;

● imperativi: principi pratici che pretendono di essere validi per tutti.

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Imperativisi dividono in ipotetici e

categorici

Gli imperativi ipotetici sono prescrizioni pratiche universali legate ad uno scopo determinato. Hanno la forma: “Se vuoi…, allora devi…”

Gli imperativi categorici sono quei giudizi che presentano l’azione da compiersi come necessaria di per sé, come un dovere incondizionato.La legge morale appartiene a questo tipo di giudizi.

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«Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come

principio di una legislazione universale»

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Virtù e felicitàKant rivendica l’universalità del concetto di bene, per questo svuota tale concetto di ogni contenuto determinato.

L’intento di Kant era di evitare le contraddizioni nelle quali sono cadute le filosofie del passato. Così facendo, si è però esposto a un fraintendimento esiziale: chi vuole il bene deve forse smettere di desiderare? Smettere di ricercare la felicità?

Sicuramente per Kant la felicità non può essere il movente dell’agire morale. La felicità ne è, semmai, il risultato.

Si pone qui, però, un problema serio: agire moralmente, nel senso indicato da Kant, è condizione necessaria e sufficiente per il raggiungimento della felicità?

Kant è costretto ad ammettere che la sola moralità (=virtù) non dà la garanzia del raggiungimento della felicità su questa terra. Certamente, è esclusa la possibilità che un uomo privo di moralità possa essere felice.

La felicità è il premio necessario da corrispondere all’uomo virtuoso: senza questo premio, la moralità non avrebbe senso.

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Garanzie di felicità?D’altra parte, per garantire che all’agire virtuoso corrisponda necessariamente il meritato premio della beatitudine, Kant afferma che la ragione pratica è necessitata ad assumere una serie di “presupposti” (postulati pratici) che, in aggiunta al postulato della libertà del volere umano, sono:

● l’immortalità dell’anima● l’esistenza di Dio

Solo sotto queste condizioni l’unità necessaria di virtù e felicità diventa pensabile senza contraddizione

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Con ciò, Kant ha risolto il problema del bene?Non del tutto, perché la ricerca del bene non conduce ad una risposta definitiva. Tuttavia, ha mostrato che tale concetto è indispensabile se si vuole sostenere l’autonomia dell’uso pratico della ragione

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Autonomiail problema fondamentale della

filosofia morale

Kant dimostra che il nostro agire morale può, se rettamente guidato dalla ragione, essere coerente con se stesso.

Ma la ragione può di più: essa può fornire il movente del nostro agire. Anche se la nostra volontà non è necessariamente sottomessa alla ragione, quest’ultima è in grado di fornire motivazioni valide per “costringere” la volontà a fare il bene (=rispettare la legge morale).

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Il problema del movente

Cosa ci spinge ad agire moralmente?

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Kant ha dimostrato che la ragione può fornire un movente adeguato per la volontà… ma spesso la volontà si lascia guidare da altro: rappresentazioni non fornite dalla ragione, e quindi non dotate del carattere di universalità.

Spesso i nostri desideri manifestano un carattere irrazionale. L’epoca moderna (che ancora non conosce la nozione di inconscio, ma la complessità del soggetto agente) si chiede il motivo di tutto ciò.

Qual è dunque la fonte delle rappresentazioni che guidano il nostro volere?

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Excursus storico

sul problema dei moventi del volere umano(sentimenti, passioni, ragione)

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Cartesio (1596-1650)

Le passioni dell’anima (1649)

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Anima e corpoCartesio definisce le passioni come «percezioni, o sentimenti, o emozioni dell’anima». Il termine “passione” fa leva sul carattere della passività: l’uomo subisce questi stati d’animo, che Cartesio descrive come una forma di condizionamento del corpo sull’anima.

Cartesio è il padre del razionalismo moderno. Per lui, l’anima è la sede della ragione. Ad essa si oppone il corpo, che è materiale, esteso.

La riflessione morale di Cartesio è tutta giocata sul rapporto tra anima e corpo. Il problema di fondo riguarda l’unità di queste due dimensioni separate.

Il condizionamento del corpo nei confronti dell’anima ha una spiegazione fisiologica: nel nostro corpo, Cartesio individua la ghiandola pineale che “traduce gli stimoli corporei in rappresentazioni. Sentimenti, come ad esempio la paura, sono dunque spiegati da Cartesio a partire dal complesso funzionamento dell’organismo umano (pressione sanguigna ecc.)

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La libertà del saggioRispetto allo stimolo corporeo, l’anima non può sottrarsi dal sentire quel che il corpo le comunica. In ciò è passiva. Tuttavia, rispetto alla rappresentazione scaturente dal provare le passioni, l’anima può mostrarsi attiva, essere cioè non direttamente influenzabile. A questo livello ha luogo l’agire morale.

Per Cartesio, la moralità non consiste nella negazione totale delle passioni. Queste non vanno estirpate, bensì conosciute: la conoscenza delle passioni consente infatti un ammaestramento dei loro effetti sull’anima.

Per Cartesio, è insomma sempre possibile educare l’anima a come reagire di fronte alle passioni: educarla a non mostrarsi passiva, né tanto meno ad esagerare nella sua reazione ad esse.

L’anima può essere educata alla moderazione: in ciò è l’esercizio della vera libertà, in quanto capacità di controllo consapevole e metodico delle passioni.

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Spinoza contesta la definizione cartesiana delle passioni come “affezioni dell’anima”.

L’anima non è né separata dal corpo, né unita dalla “ghiandola pineale”. Anima e corpo (modi degli attributi del pensiero e dell’estensione della sostanza unica che è la natura) sono strettamente in rapporto tra loro. Si corrispondono reciprocamente.

Spinoza critico di Cartesio

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Affezione

Corpo

Anima

modificazione dovuta ad un’azione

rappresentazione della modificazione corporea

subita

apportata

La concezione spinoziana delle affezioni

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la passione riguarda contemporaneamente sia il corpo sia l’anima: all’affezione del corpo corrisponde il prodursi di un’idea corrispondente nell’anima.

Nell’uomo le affezioni hanno in sé il carattere della consapevolezza.

Non è giusto quindi associare le affezioni alla mera passività delle passioni

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Le passioni secondo SpinozaL’idea di una “passione dell’anima” si deve unicamente ad una rappresentazione inadeguata del sistema delle cause che agiscono sul corpo.

Se avessimo una rappresentazione adeguata della natura (e, dunque, della nostra corporeità) scopriremmo che il fatto di essere inseriti nella successione delle cause efficienti che animano il divenire della natura non significa che noi siamo in balìa del suo fluire. Non semplicemente noi “subiamo” il fluire delle cause: noi possiamo pensarlo, conoscerlo.

Questa nostra capacità è il nostro contributo al potenziamento che anima la natura e il suo divenire.

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Le passioni non vanno

né “eliminate” (→Stoicismo)

né “dominate” (→Cartesio), bensì conosciute.