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10 | STORIE pagina 99 we | sabato 23 aprile 2016 ILARIA SESANA n Hans è l’operaio che tutti gli im- prenditori sognano. Ogni mattina arriva puntuale in laboratorio, è pre- ciso, diligente e costa poco: la sua paga oraria è di appena 2,50 euro l’ora. Quindici euro al giorno. In più, non può protestare né scioperare. Perché Hans è un detenuto. È stato condannato a 12 anni per furto e sta scontando la sua pena nel carcere di Butzbach, nel land tede- sco dell’Assia, uno degli 11 länder (su 16) in cui il lavoro per i detenuti è ob- bligatorio. Complessivamente su 60 mila persone recluse in Germania, circa 40 mila sono impiegate all’in- terno del sistema produttivo delle carceri tedesche. Gli unici esentati sono gli anziani e le persone malate. I circa 4.500 detenuti-operai di Butzbach producono un po’ di tutto: sedie per le stazioni di polizia, ban- chi per le scuole e letti per i centri d’accoglienza dei richiedenti asilo. Ma anche barbecue, attrezzi da giar- dinaggio e griglie metalliche per aziende private. Inoltre, i detenuti sono impiegati anche nei lavori di manutenzione dell’edificio. Se poi si allarga lo sguardo all’intero Paese, la gamma dei prodotti galeotti realiz- zati all’interno delle prigioni federali spazia dai componenti per automo- bili agli elettrodomestici, fino ai pannelli solari. Tutto, orgogliosa- mente, “made in Germany”. Un vero e proprio sistema economico che si sviluppa fra le mura delle carceri, al cui interno si trovano veri laboratori industriali perfettamente attrezzati per i diversi tipi di produzione ri- chiesta. Di più: ci sono penitenziari che vengono progettati ad hoc per rispondere a questo principio, come il nuovo carcere di Dusseldorf (inau- gurato nel 2012) che ha un’area di circa 5 mila metri quadri dedicata alla produzione e al magazzino. Inoltre, buona parte dei penitenziari ha un’apposita sezione sul proprio sito internet in cui illustra i vantaggi per le aziende che desiderassero de- localizzare la produzione fra le mura di un istituto penitenziario. Qualcu- no ha persino un e-commerce dove vendere direttamente al pubblico i prodotti “galeotti” realizzati dietro le sbarre. Le aziende, però, sono recalci- tranti nel dire esplicitamente che la loro produzione viene realizzata – in tutto o in parte – da detenuti. «Sap- piamo che Volkswagen e Mercedes sono tra le aziende che producono in carcere. Ma ci sono anche Miele ed Enercon. In molti casi si tratta di su- bappalti con altre compagnie che contrattano direttamente con gli istituti di pena», spiega Jörg Nowak, ricercatore di Politiche sociali pres- so l’università di Kassel, specializza- to sul lavoro penitenziario. I bassi costi sono una delle princi- pali motivazioni che spinge le azien- de private a portare parte della loro produzione in carcere. Ma non c’è solo il fattore economico. «La quali- tà è decisiva», ha puntualizzato Tho- mas Krienke, responsabile delle ri- sorse umane di Butzbach, in un’in- tervista al quotidiano tedesco Fran- kfurter Allgemeine Zeitung. Qualità tedesca a prezzi cinesi, insomma. Per non parlare poi delle questioni la Mercedes low cost prodotta in prigione Germania | Qualità tedesca, prezzi cinesi. Per molte aziende le carceri sono diventate veri siti produttivi. Ma ora il sindacato di categoria, non riconosciuto, protesta CONFRONTI l l meno occupati, più tutele come funziona in Italia n Non lavorare stanca. Se per i de- tenuti tedeschi prestare un’attivi- tà lavorativa è obbligatorio in buo- na parte dei lander, in Italia invece è un privilegio per pochi: su un to- tale di 52.164 reclusi solo 15.524 (il 29,4% del totale) hanno la possi- bilità di non trascorrere l’intera giornata fissando le pareti della cella (dati del ministero della Giu- stizia al 31 dicembre 2015, ndr). Ma cosa si fa, esattamente, nelle carceri italiane? La stragrande maggioranza è impiegata alle di- pendenze dell’amministrazione penitenziaria: 13.140 persone (l’84% del totale dei lavoranti) so- no “spesini” o “scopini”, porta vitto o addetti alla manutenzione dei fabbricati dell’istituto carcerario. Mansioni semplici, poco qualifi- cate, che spesso durano solo pochi mesi perché sottoposti a turnazio- ne. «Un lavoro dequalificato e po- co formativo, vissuto più come welfare, pur prezioso, che non co- me esperienza utile», spiega Ales- sio Scandurra dell’associazione Antigone, «Sebbene le paghe sia- no basse, sono impieghi ambiti, soprattutto da chi non ha nulla». Le cosiddette “mercedi” per legge non dovrebbero essere inferiori ai due terzi della retribuzione stabi- lita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto col- lettivo nazionale in vigore. Ma so- no ferme alla contrattazione del 1994, anno in cui la banconota corrente era ancora la lira. Da 22 anni la commissione ministeriale incaricata non dispone adegua- menti. I lavoranti interni al carce- re vengono pagati 2,50 euro l’ora: più nel dettaglio – come ricostrui- sce la rivista Carte Bollate – un ad- detto alle pulizie riceve 2,23 euro nette l’ora, un addetto alla distri- buzione del vitto 2,12 euro, men- tre gli “scrivani” (fortunati loro) arrivano a 2,74 euro. Un misero guadagno: le buste paga dei lavo- ratori a mercede non arrivano a 300 euro al mese. Di cui circa 100 vengono trattenuti dall’ammini- strazione per ripagare le spese di mantenimento che, per di più, dallo scorso agosto sono raddop- piate. I detenuti tedeschi, invece, sono tenuti a pagare per il proprio mantenimento (circa 16 euro al giorno) solo se non lavorano. Stanno un po’ meglio quei 2.384 italiani assunti alle dipendenze di cooperative sociali o di aziende esterne (il 15%). Le produzioni so- no varie e spesso anche di alta qua- lità: dalla birra della cooperativa “Pausa caffè” di Torino, agli abiti e le toghe per magistrati della “Sar- toria San Vittore”, passando per i panettoni della cooperativa “Giot- to” di Padova al caffè delle “Lazza- relle” di Napoli. E poi i call center all’interno delle carceri di Bollate, Rebibbia e Padova cui molte am- ministrazioni locali hanno affida- to la gestione di alcuni servizi. In questi casi «si tende a garantire ai detenuti diritti simili a quelli che hanno tutti i lavoratori nel mondo esterno», spiega Scandurra. Men- tre tutti i detenuti italiani che la- vorano, sia dentro che fuori dal carcere, hanno comunque diritto alla pensione e agli assegni fami- liari, anche quando sono impe- gnati alle dipendenze dell’ammi- nistrazione penitenziaria. A separare Italia e Germania, dunque, sono due filosofie molto diverse. Da un lato un sistema (pa- radossalmente) garantista che equipara in larga parte i diritti dei lavoratori detenuti a quelli di tutti gli altri. Ma che non offre a tutti la possibilità di lavorare. Dall’altro il modello “separato” tedesco, in cui tutti lavorano ma dove, osserva Scandurra, «lo sforzo rieducativo è perdente: se si prende una co- munità e la si isola, dando regole diverse da quello che succede nel- la realtà, non c’è da essere molto ottimisti sull’esito della rieduca- zione». La paga dietro le sbarre è 2-2,50 euro l’ora. Niente contributi. Esenti anziani e malati; gli altri, se rifiutano, pagano 16 euro al giorno

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10 | STORIE pagina 99we | sabato 23 aprile 2016 sabato 23 aprile 2016 | pagina 99we STORIE | 11

ILARIA SESANA

n Hans è l’operaio che tutti gli im-prenditori sognano. Ogni mattinaarriva puntuale in laboratorio, è pre-ciso, diligente e costa poco: la suapaga oraria è di appena 2,50 eurol’ora. Quindici euro al giorno. In più,non può protestare né scioperare.Perché Hans è un detenuto.

È stato condannato a 12 anni perfurto e sta scontando la sua pena nelcarcere di Butzbach, nel land t e d e-sco dell’Assia, uno degli 11 länder (su16) in cui il lavoro per i detenuti è ob-bligatorio. Complessivamente su 60mila persone recluse in Germania,circa 40 mila sono impiegate all’i n-terno del sistema produttivo dellecarceri tedesche. Gli unici esentatisono gli anziani e le persone malate.

I circa 4.500 detenuti-operai diButzbach producono un po’ di tutto:sedie per le stazioni di polizia, ban-chi per le scuole e letti per i centri

d’accoglienza dei richiedenti asilo.Ma anche barbecue, attrezzi da giar-dinaggio e griglie metalliche peraziende private. Inoltre, i detenutisono impiegati anche nei lavori dimanutenzione dell’edificio. Se poi siallarga lo sguardo all’intero Paese, lagamma dei prodotti galeotti realiz-zati all’interno delle prigioni federalispazia dai componenti per automo-bili agli elettrodomestici, fino aipannelli solari. Tutto, orgogliosa-mente, “made in Germany”. Un veroe proprio sistema economico che sisviluppa fra le mura delle carceri, alcui interno si trovano veri laboratoriindustriali perfettamente attrezzatiper i diversi tipi di produzione ri-chiesta. Di più: ci sono penitenziariche vengono progettati ad hoc perrispondere a questo principio, come

il nuovo carcere di Dusseldorf (inau-gurato nel 2012) che ha un’area dicirca 5 mila metri quadri dedicataalla produzione e al magazzino.Inoltre, buona parte dei penitenziariha un’apposita sezione sul propriosito internet in cui illustra i vantaggiper le aziende che desiderassero de-localizzare la produzione fra le muradi un istituto penitenziario. Qualcu-

no ha persino un e-commerce dovevendere direttamente al pubblico iprodotti “galeotti” realizzati dietro lesbarre.

Le aziende, però, sono recalci-tranti nel dire esplicitamente che laloro produzione viene realizzata – intutto o in parte – da detenuti. «Sap-piamo che Volkswagen e Mercedessono tra le aziende che producono in

carcere. Ma ci sono anche Miele edEnercon. In molti casi si tratta di su-bappalti con altre compagnie checontrattano direttamente con gliistituti di pena», spiega Jörg Nowak,ricercatore di Politiche sociali pres-so l’università di Kassel, specializza-to sul lavoro penitenziario.

I bassi costi sono una delle princi-pali motivazioni che spinge le azien-

de private a portare parte della loroproduzione in carcere. Ma non c’èsolo il fattore economico. «La quali-tà è decisiva», ha puntualizzato Tho-mas Krienke, responsabile delle ri-sorse umane di Butzbach, in un’i n-tervista al quotidiano tedesco F r a n-kfurter Allgemeine Zeitung. Qualitàtedesca a prezzi cinesi, insomma.Per non parlare poi delle questioni

la Mercedes low costprodotta in prigione

Germania | Qualità tedesca, prezzi cinesi.Per molte aziende le carceri sono diventateveri siti produttivi. Ma ora il sindacatodi categoria, non riconosciuto, protesta

CATENE DI MONTAGGIOUn detenuto intento nel

lavoro di saldatura in unafabbrica allestita nel

carceredi Ravensburg: il piccolo

istituto penitenziarioospita poco più di 450

persone,nel 2011 ha conosciuto un

giro d’affari di tre milioni dieuro

MICHAEL TRIPPEL / LAIF / CONTRASTO

CO N V I V I A L I TÀ Manah serve la cena a tre clienti da Ingalera GIANNI CIPRIANO / NEW YORK TIMES /CONTRASTO

mangiar bene InGaleraun’occasione rara

n «Ristorante InGalera, buonaserasono Massimo».

La risposta arriva in pochi squilli,ma la lista d’attesa è lunga: «Per quat-tro persone ho posto solo fra tre setti-mane», spiega Massimo Sestito, maî-tre con un ricco curriculum professio-nale, che dallo scorso ottobre dirige lasala di questo ristorante molto parti-colare alle porte di Milano.

Già, perché “InGalera” non è solo undivertente ed efficace gioco di parole.Il ristorante, infatti, si trova all’internodella casa di reclusione di Milano-Bol-late. I nove dipendenti, tra camerieri,cuochi e lavapiatti sono detenuti chestanno scontando la loro pena. Solo ilmaître e lo chef (il casertano IvanManzo) sono uomini liberi che, unavolta conclusa la giornata di lavoro,fanno ritorno a casa.

Il ristorante è stato inaugurato a fi-ne ottobre, ma Silvia Polleri, presiden-te della cooperativa sociale Abc-La sa-pienza in tavola, quell’idea ce l’avevain mente già da un po’ di tempo. «Ab-biamo iniziato le nostre attività a Bol-late nel 2004», spiega, «gestivamo lacucina del carcere e parallelamente fa-cevamo dei catering all’esterno, graziealla presenza di detenuti in articolo 21che avevano la possibilità di uscire perlavorare». “InGalera” rappresentaquindi il punto d’arrivo di un progettodecennale che ha come obiettivo prin-cipale quello di offrire ai detenuti lapossibilità di imparare un lavoro. Ma

non un lavoro qualunque. Silvia Polle-ri ha sempre portato avanti una filoso-fia incentrata sul binomio “guantibianchi e bon ton”. Per questo motivo“ai suoi ragazzi” ha insegnato a lavora-re sodo, ma anche con eleganza e pro-fessionalità. «Agli eventi all’esterno, inostri camerieri hanno sempre indos-sato livrea e guanti bianchi», ricorda.

«E ho anche impartito loro lezioni digalateo. Per lo stesso motivo al risto-rante abbiamo voluto un’ottima posa-teria, una buona carta dei vini e unambiente curato in tutti i dettagli. Vo-glio scardinare i pregiudizi di chi vedeil carcere come qualcosa di residuale,uno scarto. Per questo ho puntato tut-to sulla qualità».

Una scommessa che ha pagato. A seimesi dall’apertura, infatti, “InGalera”è un successo: i 50 coperti sono tuttioccupati quasi ogni sera. L’arreda-mento mai sciatto, il servizio attento el’ottima cucina che mescola la tradi-zione con un pizzico di innovazionesono le carte vincenti di questo proget-

to. Che offre pietanze gustose, senzaalcun velo di buonismo.

Yashim, 37enne marocchino, lavoraduro. È in carcere dal 2008, «ma soloqui a Bollate ho avuto la possibilità direndermi utile. Faccio una cosa che mipiace veramente e quando torneròfuori mi piacerebbe continuare a lavo-rare come cameriere», racconta. Perlui il carcere è stata una vera opportu-nità di riscatto: ha imparato un me-stiere, si è costruito un curriculum chepotrà spendere una volta tornato in li-bertà, per trovare un impiego fuori.

«Il lavoro è l’arma migliore percombattere la recidiva», osserva SilviaPolleri. I dati del ministero della Giu-stizia confermano in modo chiaroquesta filosofia: chi trascorre tutto ilperiodo di detenzione in cella senza fa-re nulla ha sette probabilità su dieci ditornare a commettere di nuovo un rea-to. Un tasso che scende al 19% tra chi,invece, ha avuto la possibilità di impa-rare un lavoro dietro le sbarre. Da ap-prezzare, poi, anche l’attenzione perl’aspetto dell’inquadramento profes-sionale: tutti i dipendenti del ristoran-te sono inquadrati con il contratto na-zionale di categoria. A fine mese por-tano a casa uno stipendio vero che per-mette loro di vivere dignitosamente lacarcerazione e anche di aiutare le fa-miglie rimaste a casa. Perché la digni-tà e il riscatto, a volte, hanno la formadi una semplice busta paga.

I.S.

CO N F R O N T Il l

meno occupati, più tutelecome funziona in Italia

logistiche: rispetto alla delocalizza-zione in Asia o nell’est Europa, laproduzione in carcere permette unulteriore risparmio sui costi di tra-sporto.

E se manca un dato che permettadi valutare il valore complessivo del-la produzione nelle carceri tedesche,il quotidiano Die Welt ha stimatoche nel 2011 il giro d’affari sia statodi 30 milioni di euro nel Ba-den-Wuttemberg (con una mediatra i 5 e i 7 mila lavoratori) e di 43,6milioni di euro in Baviera (dove i de-tenuti che “prestano servizio” sono12 mila). Il piccolo carcere di Raven-sburg, che ospita poco più di 450persone, nel 2011 ha conosciuto ungiro d’affari di tre milioni di euro,con un utile netto di 500 mila euro.

La paga media oscilla attorno ai2-2,50 euro l’ora. I detenuti hannol’assicurazione contro gli infortuni equella di disoccupazione, pagate dalgoverno. Ma nessuno versa loro icontributi previdenziali. «Negli ulti-mi vent’anni le carceri tedesche sonodiventate veri siti produttivi chevengono gestiti secondo criteri ma-nageriali. I tempi in cui si assembla-vano biro e si incollavano insiemeborse sono passati: molte attività so-no basate sul cottimo e su obiettivi diproduzione. Le persone produconoplusvalore, non oggetti alla buona».Oliver Rast, classe 1973, ha scontato

tre anni di detenzione nel carcere diTegel a Berlino. Ed è qui, che nel2014 ha dato vita al GG/BO (Gefan-genengewerkschaft/BundesweiteOrganisation), ovvero il sindacatonazionale dei lavoratori-detenuti te-deschi.

Perché, tra loro, sono sempre piùnumerosi quelli che hanno iniziato aprotestare contro le condizioni di la-voro “cinesi” nelle carceri teutoni-che. La paga oraria è infatti quattrovolte inferiore rispetto al salario mi-nimo in vigore nel Paese di AngelaMerkel (8,50 euro l’ora). E, oltre allamancanza di contributi pensionisti-ci e previdenziali, non godono nean-che del diritto di sciopero, né po-trebbero organizzarsi sindacalmen-te, perché non sono considerati“prestatori d’opera”. Una situazioneche Jörg Nowak non esita a parago-

nare al lavoro forzato: «Questi dete-nuti sono obbligati alle prestazionilavorative per legge, a meno che nonsiano troppo anziani o malati. Sulpiano giuridico, il rifiuto al lavoroviene considerato come un ammuti-namento e come tale viene punito inmaniera piuttosto severa».

Diverso il punto di vista del mini-stero della Giustizia. Secondo cuil’obiettivo della “piena occupazione”nelle carceri non è il profitto, quantopiuttosto offrire ai detenuti la possi-bilità di imparare un mestiere. Inmodo da agevolare il loro ritornonella società una volta che avrannofinito di scontare la pena. Ma i dete-nuti non sembrano essere d’accordo.Non è un caso che (dopo anni di ma-lumori) nel maggio 2014 Oliver Raste un altro carcerato siano riusciti adare vita al GG/BO, che ora contacirca 800 membri in più di 40 pri-gioni tedesche. E dalla fine del 2015conta anche una “succursale” in Au-stria. Un sindacato illegale, non ri-conosciuto, ma che in questi mesi haprovato ad animare diverse iniziati-ve di protesta. E che può contare sulsostegno esterno di attivisti e ricer-catori universitari. Le loro richiestesono semplici e chiare: salario mini-mo, versamento dei contributi pre-videnziali, riconoscimento formaledel sindacato e diritto di riunirsi.

La prima protesta è scoppiata neldicembre 2015 nel carcere di But-zbach. Una ventina di detenuti hamesso in atto uno sciopero della fa-me protrattosi per 11 giorni. Con ilsupporto di un altro centinaio dipersone, che hanno rifiutato i pastinel primo giorno della protesta.«Durante uno sciopero della fame illavoro deve essere obbligatoriamen-te sospeso per ragioni mediche»,spiega Nowak. «Qualsiasi altro tipodi astensione dal lavoro sarebbeequivalso a una rivolta e avrebbeprovocato dure misure repressive».Nel marzo 2016, un secondo sciope-ro della fame.

Organizzare queste proteste, pe-rò, non è facile né indolore. I porta-voce del GG/BO denunciano come iprimi mesi di attività siano stati ca-ratterizzati da diverse forme di re-pressione e ritorsione da parte delleamministrazioni penitenziarie aidanni dei leader sindacali: bloccodella corrispondenza, isolamento,impossibilità di distribuire volantinie altro materiale informativo. Il se-gretario del sindacato, MehmetAykol, è stato messo di fronte a unascelta: continuare con l’attività sin-

dacale oppure rinunciare alle misu-re alternative. «Jürgen Rössner, unodegli animatori della protesta delloscorso marzo a Butzbach, era statotrasferito in un altro penitenziario il29 febbraio, il giorno precedente al-l’inizio della protesta, proprio per-ché identificato come uno dei lea-der», prosegue Nowak. Che aggiun-ge un dettaglio di non poco conto:«Il primo marzo la polizia ha com-

piuto un raid a casa della moglie diRössner. Questo fatto rappresentaun’escalation delle repressione, cheper la prima volta si è estesa al difuori delle mura della prigione». C’èpoi un’altra forma di pressione, mol-to più sottile: «Chi non lavora devepagare le spese di mantenimento,che sono piuttosto elevate: 16 euro algiorno», spiega Marco Bras dos San-tos, membro “esterno” del GG/BO.

n Non lavorare stanca. Se per i de-tenuti tedeschi prestare un’attivi -tà lavorativa è obbligatorio in buo-na parte dei lander, in Italia inveceè un privilegio per pochi: su un to-tale di 52.164 reclusi solo 15.524 (il29,4% del totale) hanno la possi-bilità di non trascorrere l’interagiornata fissando le pareti dellacella (dati del ministero della Giu-stizia al 31 dicembre 2015, ndr).

Ma cosa si fa, esattamente, nellecarceri italiane? La stragrande

maggioranza è impiegata alle di-pendenze dell’amministrazionepenitenziaria: 13.140 persone(l’84% del totale dei lavoranti) so-no “spesini”o “scopini”, portavittoo addetti alla manutenzione deifabbricati dell’istituto carcerario.Mansioni semplici, poco qualifi-cate, che spesso durano solo pochimesi perché sottoposti a turnazio-ne. «Un lavoro dequalificato e po-co formativo, vissuto più comewelfare, pur prezioso, che non co-

me esperienza utile», spiega Ales-sio Scandurra dell’associazioneAntigone, «Sebbene le paghe sia-no basse, sono impieghi ambiti,soprattutto da chi non ha nulla».Le cosiddette “mercedi” per leggenon dovrebbero essere inferiori aidue terzi della retribuzione stabi-lita per gli altri lavoratori dellastessa categoria dal contratto col-lettivo nazionale in vigore. Ma so-no ferme alla contrattazione del1994, anno in cui la banconotacorrente era ancora la lira. Da 22anni la commissione ministerialeincaricata non dispone adegua-menti. I lavoranti interni al carce-re vengono pagati 2,50 euro l’ora:più nel dettaglio – come ricostrui-sce la rivista Carte Bollate – un ad-

detto alle pulizie riceve 2,23 euronette l’ora, un addetto alla distri-buzione del vitto 2,12 euro, men-tre gli “scrivani” (fortunati loro)arrivano a 2,74 euro. Un miseroguadagno: le buste paga dei lavo-ratori a mercede non arrivano a300 euro al mese. Di cui circa 100vengono trattenuti dall’ammini -strazione per ripagare le spese dimantenimento che, per di più,dallo scorso agosto sono raddop-piate. I detenuti tedeschi, invece,sono tenuti a pagare per il propriomantenimento (circa 16 euro algiorno) solo se non lavorano.Stanno un po’ meglio quei 2.384italiani assunti alle dipendenze dicooperative sociali o di aziendeesterne(il 15%). Leproduzioniso-

no varie e spesso anche di alta qua-lità: dalla birra della cooperativa“Pausa caffè” di Torino, agli abiti ele toghe per magistrati della “Sar -toria San Vittore”, passando per ipanettoni della cooperativa “Giot -to” di Padova al caffè delle “Lazza -relle” di Napoli. E poi i call centerall’interno delle carceri di Bollate,Rebibbia e Padova cui molte am-ministrazioni locali hanno affida-to la gestione di alcuni servizi. Inquesti casi «si tende a garantire aidetenuti diritti simili a quelli chehanno tutti i lavoratori nel mondoesterno», spiegaScandurra. Men-tre tutti i detenuti italiani che la-vorano, sia dentro che fuori dalcarcere, hanno comunque dirittoalla pensione e agli assegni fami-

liari, anche quando sono impe-gnati alle dipendenze dell’ammi -nistrazione penitenziaria.

A separare Italia e Germania,dunque, sono due filosofie moltodiverse. Da un lato un sistema (pa-radossalmente) garantista cheequipara in larga parte i diritti deilavoratori detenuti a quelli di tuttigli altri. Ma che non offre a tutti lapossibilità di lavorare. Dall’altro ilmodello “separato” tedesco, in cuitutti lavorano ma dove, osservaScandurra, «lo sforzo rieducativoè perdente: se si prende una co-munità e la si isola, dando regolediverse da quello che succede nel-la realtà, non c’è da essere moltoottimisti sull’esito della rieduca-zione».

Malgrado le difficoltà, però, il sin-dacato dei detenuti sta ottenendo iprimi riconoscimenti istituzionali.A febbraio, lo ha fatto per primo ilministero della Giustizia della Sas-sonia. «Anche in altri lander la si-tuazione sta migliorando. Mentre inaltre zone abbiamo ancora moltiproblemi: è una situazione a mac-chia di leopardo», conclude dosSantos.

Luoghi | Nel ristorante della casa di reclusione di Bollate

lavorano in nove. I 50 coperti sono quasi sempre tutti occupati

La paga dietro le sbarreè 2-2,50 euro l’ora. Nientecontributi. Esenti anzianie malati; gli altri, se rifiutano,pagano 16 euro al giorno

Le rivendicazioni sonoiniziate nel 2014. Il ministrodella Giustizia si difende:« L’obiettivo è il ritorno nellasocietà dopo la fine pena»

«Puntare sulla qualità perscardinare i pregiudizi suquesto luogo come scarto»,dice la fondatrice Polleri

10 | STORIE pagina 99we | sabato 23 aprile 2016 sabato 23 aprile 2016 | pagina 99we STORIE | 11

ILARIA SESANA

n Hans è l’operaio che tutti gli im-prenditori sognano. Ogni mattinaarriva puntuale in laboratorio, è pre-ciso, diligente e costa poco: la suapaga oraria è di appena 2,50 eurol’ora. Quindici euro al giorno. In più,non può protestare né scioperare.Perché Hans è un detenuto.

È stato condannato a 12 anni perfurto e sta scontando la sua pena nelcarcere di Butzbach, nel land t e d e-sco dell’Assia, uno degli 11 länder (su16) in cui il lavoro per i detenuti è ob-bligatorio. Complessivamente su 60mila persone recluse in Germania,circa 40 mila sono impiegate all’i n-terno del sistema produttivo dellecarceri tedesche. Gli unici esentatisono gli anziani e le persone malate.

I circa 4.500 detenuti-operai diButzbach producono un po’ di tutto:sedie per le stazioni di polizia, ban-chi per le scuole e letti per i centri

d’accoglienza dei richiedenti asilo.Ma anche barbecue, attrezzi da giar-dinaggio e griglie metalliche peraziende private. Inoltre, i detenutisono impiegati anche nei lavori dimanutenzione dell’edificio. Se poi siallarga lo sguardo all’intero Paese, lagamma dei prodotti galeotti realiz-zati all’interno delle prigioni federalispazia dai componenti per automo-bili agli elettrodomestici, fino aipannelli solari. Tutto, orgogliosa-mente, “made in Germany”. Un veroe proprio sistema economico che sisviluppa fra le mura delle carceri, alcui interno si trovano veri laboratoriindustriali perfettamente attrezzatiper i diversi tipi di produzione ri-chiesta. Di più: ci sono penitenziariche vengono progettati ad hoc perrispondere a questo principio, come

il nuovo carcere di Dusseldorf (inau-gurato nel 2012) che ha un’area dicirca 5 mila metri quadri dedicataalla produzione e al magazzino.Inoltre, buona parte dei penitenziariha un’apposita sezione sul propriosito internet in cui illustra i vantaggiper le aziende che desiderassero de-localizzare la produzione fra le muradi un istituto penitenziario. Qualcu-

no ha persino un e-commerce dovevendere direttamente al pubblico iprodotti “galeotti” realizzati dietro lesbarre.

Le aziende, però, sono recalci-tranti nel dire esplicitamente che laloro produzione viene realizzata – intutto o in parte – da detenuti. «Sap-piamo che Volkswagen e Mercedessono tra le aziende che producono in

carcere. Ma ci sono anche Miele edEnercon. In molti casi si tratta di su-bappalti con altre compagnie checontrattano direttamente con gliistituti di pena», spiega Jörg Nowak,ricercatore di Politiche sociali pres-so l’università di Kassel, specializza-to sul lavoro penitenziario.

I bassi costi sono una delle princi-pali motivazioni che spinge le azien-

de private a portare parte della loroproduzione in carcere. Ma non c’èsolo il fattore economico. «La quali-tà è decisiva», ha puntualizzato Tho-mas Krienke, responsabile delle ri-sorse umane di Butzbach, in un’i n-tervista al quotidiano tedesco F r a n-kfurter Allgemeine Zeitung. Qualitàtedesca a prezzi cinesi, insomma.Per non parlare poi delle questioni

la Mercedes low costprodotta in prigione

Germania | Qualità tedesca, prezzi cinesi.Per molte aziende le carceri sono diventateveri siti produttivi. Ma ora il sindacatodi categoria, non riconosciuto, protesta

CATENE DI MONTAGGIOUn detenuto intento nel

lavoro di saldatura in unafabbrica allestita nel

carceredi Ravensburg: il piccolo

istituto penitenziarioospita poco più di 450

persone,nel 2011 ha conosciuto un

giro d’affari di tre milioni dieuro

MICHAEL TRIPPEL / LAIF / CONTRASTO

CO N V I V I A L I TÀ Manah serve la cena a tre clienti da Ingalera GIANNI CIPRIANO / NEW YORK TIMES /CONTRASTO

mangiar bene InGaleraun’occasione rara

n «Ristorante InGalera, buonaserasono Massimo».

La risposta arriva in pochi squilli,ma la lista d’attesa è lunga: «Per quat-tro persone ho posto solo fra tre setti-mane», spiega Massimo Sestito, maî-tre con un ricco curriculum professio-nale, che dallo scorso ottobre dirige lasala di questo ristorante molto parti-colare alle porte di Milano.

Già, perché “InGalera” non è solo undivertente ed efficace gioco di parole.Il ristorante, infatti, si trova all’internodella casa di reclusione di Milano-Bol-late. I nove dipendenti, tra camerieri,cuochi e lavapiatti sono detenuti chestanno scontando la loro pena. Solo ilmaître e lo chef (il casertano IvanManzo) sono uomini liberi che, unavolta conclusa la giornata di lavoro,fanno ritorno a casa.

Il ristorante è stato inaugurato a fi-ne ottobre, ma Silvia Polleri, presiden-te della cooperativa sociale Abc-La sa-pienza in tavola, quell’idea ce l’avevain mente già da un po’ di tempo. «Ab-biamo iniziato le nostre attività a Bol-late nel 2004», spiega, «gestivamo lacucina del carcere e parallelamente fa-cevamo dei catering all’esterno, graziealla presenza di detenuti in articolo 21che avevano la possibilità di uscire perlavorare». “InGalera” rappresentaquindi il punto d’arrivo di un progettodecennale che ha come obiettivo prin-cipale quello di offrire ai detenuti lapossibilità di imparare un lavoro. Ma

non un lavoro qualunque. Silvia Polle-ri ha sempre portato avanti una filoso-fia incentrata sul binomio “guantibianchi e bon ton”. Per questo motivo“ai suoi ragazzi” ha insegnato a lavora-re sodo, ma anche con eleganza e pro-fessionalità. «Agli eventi all’esterno, inostri camerieri hanno sempre indos-sato livrea e guanti bianchi», ricorda.

«E ho anche impartito loro lezioni digalateo. Per lo stesso motivo al risto-rante abbiamo voluto un’ottima posa-teria, una buona carta dei vini e unambiente curato in tutti i dettagli. Vo-glio scardinare i pregiudizi di chi vedeil carcere come qualcosa di residuale,uno scarto. Per questo ho puntato tut-to sulla qualità».

Una scommessa che ha pagato. A seimesi dall’apertura, infatti, “InGalera”è un successo: i 50 coperti sono tuttioccupati quasi ogni sera. L’arreda-mento mai sciatto, il servizio attento el’ottima cucina che mescola la tradi-zione con un pizzico di innovazionesono le carte vincenti di questo proget-

to. Che offre pietanze gustose, senzaalcun velo di buonismo.

Yashim, 37enne marocchino, lavoraduro. È in carcere dal 2008, «ma soloqui a Bollate ho avuto la possibilità direndermi utile. Faccio una cosa che mipiace veramente e quando torneròfuori mi piacerebbe continuare a lavo-rare come cameriere», racconta. Perlui il carcere è stata una vera opportu-nità di riscatto: ha imparato un me-stiere, si è costruito un curriculum chepotrà spendere una volta tornato in li-bertà, per trovare un impiego fuori.

«Il lavoro è l’arma migliore percombattere la recidiva», osserva SilviaPolleri. I dati del ministero della Giu-stizia confermano in modo chiaroquesta filosofia: chi trascorre tutto ilperiodo di detenzione in cella senza fa-re nulla ha sette probabilità su dieci ditornare a commettere di nuovo un rea-to. Un tasso che scende al 19% tra chi,invece, ha avuto la possibilità di impa-rare un lavoro dietro le sbarre. Da ap-prezzare, poi, anche l’attenzione perl’aspetto dell’inquadramento profes-sionale: tutti i dipendenti del ristoran-te sono inquadrati con il contratto na-zionale di categoria. A fine mese por-tano a casa uno stipendio vero che per-mette loro di vivere dignitosamente lacarcerazione e anche di aiutare le fa-miglie rimaste a casa. Perché la digni-tà e il riscatto, a volte, hanno la formadi una semplice busta paga.

I.S.

CO N F R O N T Il l

meno occupati, più tutelecome funziona in Italia

logistiche: rispetto alla delocalizza-zione in Asia o nell’est Europa, laproduzione in carcere permette unulteriore risparmio sui costi di tra-sporto.

E se manca un dato che permettadi valutare il valore complessivo del-la produzione nelle carceri tedesche,il quotidiano Die Welt ha stimatoche nel 2011 il giro d’affari sia statodi 30 milioni di euro nel Ba-den-Wuttemberg (con una mediatra i 5 e i 7 mila lavoratori) e di 43,6milioni di euro in Baviera (dove i de-tenuti che “prestano servizio” sono12 mila). Il piccolo carcere di Raven-sburg, che ospita poco più di 450persone, nel 2011 ha conosciuto ungiro d’affari di tre milioni di euro,con un utile netto di 500 mila euro.

La paga media oscilla attorno ai2-2,50 euro l’ora. I detenuti hannol’assicurazione contro gli infortuni equella di disoccupazione, pagate dalgoverno. Ma nessuno versa loro icontributi previdenziali. «Negli ulti-mi vent’anni le carceri tedesche sonodiventate veri siti produttivi chevengono gestiti secondo criteri ma-nageriali. I tempi in cui si assembla-vano biro e si incollavano insiemeborse sono passati: molte attività so-no basate sul cottimo e su obiettivi diproduzione. Le persone produconoplusvalore, non oggetti alla buona».Oliver Rast, classe 1973, ha scontato

tre anni di detenzione nel carcere diTegel a Berlino. Ed è qui, che nel2014 ha dato vita al GG/BO (Gefan-genengewerkschaft/BundesweiteOrganisation), ovvero il sindacatonazionale dei lavoratori-detenuti te-deschi.

Perché, tra loro, sono sempre piùnumerosi quelli che hanno iniziato aprotestare contro le condizioni di la-voro “cinesi” nelle carceri teutoni-che. La paga oraria è infatti quattrovolte inferiore rispetto al salario mi-nimo in vigore nel Paese di AngelaMerkel (8,50 euro l’ora). E, oltre allamancanza di contributi pensionisti-ci e previdenziali, non godono nean-che del diritto di sciopero, né po-trebbero organizzarsi sindacalmen-te, perché non sono considerati“prestatori d’opera”. Una situazioneche Jörg Nowak non esita a parago-

nare al lavoro forzato: «Questi dete-nuti sono obbligati alle prestazionilavorative per legge, a meno che nonsiano troppo anziani o malati. Sulpiano giuridico, il rifiuto al lavoroviene considerato come un ammuti-namento e come tale viene punito inmaniera piuttosto severa».

Diverso il punto di vista del mini-stero della Giustizia. Secondo cuil’obiettivo della “piena occupazione”nelle carceri non è il profitto, quantopiuttosto offrire ai detenuti la possi-bilità di imparare un mestiere. Inmodo da agevolare il loro ritornonella società una volta che avrannofinito di scontare la pena. Ma i dete-nuti non sembrano essere d’accordo.Non è un caso che (dopo anni di ma-lumori) nel maggio 2014 Oliver Raste un altro carcerato siano riusciti adare vita al GG/BO, che ora contacirca 800 membri in più di 40 pri-gioni tedesche. E dalla fine del 2015conta anche una “succursale” in Au-stria. Un sindacato illegale, non ri-conosciuto, ma che in questi mesi haprovato ad animare diverse iniziati-ve di protesta. E che può contare sulsostegno esterno di attivisti e ricer-catori universitari. Le loro richiestesono semplici e chiare: salario mini-mo, versamento dei contributi pre-videnziali, riconoscimento formaledel sindacato e diritto di riunirsi.

La prima protesta è scoppiata neldicembre 2015 nel carcere di But-zbach. Una ventina di detenuti hamesso in atto uno sciopero della fa-me protrattosi per 11 giorni. Con ilsupporto di un altro centinaio dipersone, che hanno rifiutato i pastinel primo giorno della protesta.«Durante uno sciopero della fame illavoro deve essere obbligatoriamen-te sospeso per ragioni mediche»,spiega Nowak. «Qualsiasi altro tipodi astensione dal lavoro sarebbeequivalso a una rivolta e avrebbeprovocato dure misure repressive».Nel marzo 2016, un secondo sciope-ro della fame.

Organizzare queste proteste, pe-rò, non è facile né indolore. I porta-voce del GG/BO denunciano come iprimi mesi di attività siano stati ca-ratterizzati da diverse forme di re-pressione e ritorsione da parte delleamministrazioni penitenziarie aidanni dei leader sindacali: bloccodella corrispondenza, isolamento,impossibilità di distribuire volantinie altro materiale informativo. Il se-gretario del sindacato, MehmetAykol, è stato messo di fronte a unascelta: continuare con l’attività sin-

dacale oppure rinunciare alle misu-re alternative. «Jürgen Rössner, unodegli animatori della protesta delloscorso marzo a Butzbach, era statotrasferito in un altro penitenziario il29 febbraio, il giorno precedente al-l’inizio della protesta, proprio per-ché identificato come uno dei lea-der», prosegue Nowak. Che aggiun-ge un dettaglio di non poco conto:«Il primo marzo la polizia ha com-

piuto un raid a casa della moglie diRössner. Questo fatto rappresentaun’escalation delle repressione, cheper la prima volta si è estesa al difuori delle mura della prigione». C’èpoi un’altra forma di pressione, mol-to più sottile: «Chi non lavora devepagare le spese di mantenimento,che sono piuttosto elevate: 16 euro algiorno», spiega Marco Bras dos San-tos, membro “esterno” del GG/BO.

n Non lavorare stanca. Se per i de-tenuti tedeschi prestare un’attivi -tà lavorativa è obbligatorio in buo-na parte dei lander, in Italia inveceè un privilegio per pochi: su un to-tale di 52.164 reclusi solo 15.524 (il29,4% del totale) hanno la possi-bilità di non trascorrere l’interagiornata fissando le pareti dellacella (dati del ministero della Giu-stizia al 31 dicembre 2015, ndr).

Ma cosa si fa, esattamente, nellecarceri italiane? La stragrande

maggioranza è impiegata alle di-pendenze dell’amministrazionepenitenziaria: 13.140 persone(l’84% del totale dei lavoranti) so-no “spesini”o “scopini”, portavittoo addetti alla manutenzione deifabbricati dell’istituto carcerario.Mansioni semplici, poco qualifi-cate, che spesso durano solo pochimesi perché sottoposti a turnazio-ne. «Un lavoro dequalificato e po-co formativo, vissuto più comewelfare, pur prezioso, che non co-

me esperienza utile», spiega Ales-sio Scandurra dell’associazioneAntigone, «Sebbene le paghe sia-no basse, sono impieghi ambiti,soprattutto da chi non ha nulla».Le cosiddette “mercedi” per leggenon dovrebbero essere inferiori aidue terzi della retribuzione stabi-lita per gli altri lavoratori dellastessa categoria dal contratto col-lettivo nazionale in vigore. Ma so-no ferme alla contrattazione del1994, anno in cui la banconotacorrente era ancora la lira. Da 22anni la commissione ministerialeincaricata non dispone adegua-menti. I lavoranti interni al carce-re vengono pagati 2,50 euro l’ora:più nel dettaglio – come ricostrui-sce la rivista Carte Bollate – un ad-

detto alle pulizie riceve 2,23 euronette l’ora, un addetto alla distri-buzione del vitto 2,12 euro, men-tre gli “scrivani” (fortunati loro)arrivano a 2,74 euro. Un miseroguadagno: le buste paga dei lavo-ratori a mercede non arrivano a300 euro al mese. Di cui circa 100vengono trattenuti dall’ammini -strazione per ripagare le spese dimantenimento che, per di più,dallo scorso agosto sono raddop-piate. I detenuti tedeschi, invece,sono tenuti a pagare per il propriomantenimento (circa 16 euro algiorno) solo se non lavorano.Stanno un po’ meglio quei 2.384italiani assunti alle dipendenze dicooperative sociali o di aziendeesterne(il 15%). Leproduzioniso-

no varie e spesso anche di alta qua-lità: dalla birra della cooperativa“Pausa caffè” di Torino, agli abiti ele toghe per magistrati della “Sar -toria San Vittore”, passando per ipanettoni della cooperativa “Giot -to” di Padova al caffè delle “Lazza -relle” di Napoli. E poi i call centerall’interno delle carceri di Bollate,Rebibbia e Padova cui molte am-ministrazioni locali hanno affida-to la gestione di alcuni servizi. Inquesti casi «si tende a garantire aidetenuti diritti simili a quelli chehanno tutti i lavoratori nel mondoesterno», spiegaScandurra. Men-tre tutti i detenuti italiani che la-vorano, sia dentro che fuori dalcarcere, hanno comunque dirittoalla pensione e agli assegni fami-

liari, anche quando sono impe-gnati alle dipendenze dell’ammi -nistrazione penitenziaria.

A separare Italia e Germania,dunque, sono due filosofie moltodiverse. Da un lato un sistema (pa-radossalmente) garantista cheequipara in larga parte i diritti deilavoratori detenuti a quelli di tuttigli altri. Ma che non offre a tutti lapossibilità di lavorare. Dall’altro ilmodello “separato” tedesco, in cuitutti lavorano ma dove, osservaScandurra, «lo sforzo rieducativoè perdente: se si prende una co-munità e la si isola, dando regolediverse da quello che succede nel-la realtà, non c’è da essere moltoottimisti sull’esito della rieduca-zione».

Malgrado le difficoltà, però, il sin-dacato dei detenuti sta ottenendo iprimi riconoscimenti istituzionali.A febbraio, lo ha fatto per primo ilministero della Giustizia della Sas-sonia. «Anche in altri lander la si-tuazione sta migliorando. Mentre inaltre zone abbiamo ancora moltiproblemi: è una situazione a mac-chia di leopardo», conclude dosSantos.

Luoghi | Nel ristorante della casa di reclusione di Bollate

lavorano in nove. I 50 coperti sono quasi sempre tutti occupati

La paga dietro le sbarreè 2-2,50 euro l’ora. Nientecontributi. Esenti anzianie malati; gli altri, se rifiutano,pagano 16 euro al giorno

Le rivendicazioni sonoiniziate nel 2014. Il ministrodella Giustizia si difende:« L’obiettivo è il ritorno nellasocietà dopo la fine pena»

«Puntare sulla qualità perscardinare i pregiudizi suquesto luogo come scarto»,dice la fondatrice Polleri