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La mente ipocondriaca ed i suoi paradossi. Francesco Mancini. Sistemi Intelligenti, vol X, 85-98, 1998. Premessa. In questo articolo intendo affrontare la spiegazione della permanenza nel tempo dei timori ipocondriaci. Più in particolare, cercherò di rispondere a tre interrogativi: - per quale motivo l’ipocondriaco continua a credere di essere malato o a rischio di malattia nonostante abbia a disposizione le informazioni e le capacità cognitive che giustificherebbero una credenza diversa ? - Per quale motivo non accetta la malattia o il rischio di malattia che ritiene di avere, dato che i suoi tentativi di rassicurarsi falliscono sistematicamente ? - Per quale motivo è inefficace la critica che spesso l’ipocondriaco esprime a riguardo delle sue preoccupazioni? Le tre domande articolano il ben noto problema del paradosso nevrotico. Del paradosso nevrotico sono state date diverse formulazioni: - “Perché alcune persone, che soffrono di ansia, non beneficiano della ripetuta esperienza di essere passati indenni attraverso le situazioni che temevano?”. (Salkovskis, 1996), - “Dal punto di vista comportamentale, il paradosso nevrotico è concettualizzato come la mancata estinzione della reazione fobica nonostante lo stimolo condizionato sia stato presentato senza il rinforzo. (Eysenk, 1979)”. (id.). - “Per il cognitivista il problema ruota intorno al perché alcuni continuano a temere una catastrofe nonostante le loro previsioni si siano ripetutamente dimostrate false. (Seligman, 1988)”. (id.). - Perché si mantengono linee d’azione e di pensiero che procurano sofferenza ? (Liotti e Guidano, 1984). Tuttavia preferisco una formulazione diversa: come e perché non avviene un cambiamento - che appare opportuno e possibile; - che, a volte, è riconosciuto opportuno e possibile dal soggetto stesso il quale, per giunta, se lo prescrive pure; - e che in alcuni casi è prevedibile sulla base di una legge psicologica che regola il comportamento degli esseri umani e che, dunque, di norma avviene. Preferisco questa formulazione perché mi sembra sufficientemente astratta da poter includere tutti i casi ed è tale da poter essere condivisa anche da coloro che hanno prospettive teoriche differenti. Vi rientrano anche gli atteggiamenti depressivi e non solo quelli ansiosi, non considera solo la prospettiva comportamentale, e nemmeno suggerisce che l’unica motivazione in gioco sia la riduzione della sofferenza. Soprattutto considera anche il cambiamento verso l’accettazione delle minacce e delle perdite e non solo quello strettamente cognitivo. 1

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La mente ipocondriaca ed i suoi paradossi. Francesco Mancini.

Sistemi Intelligenti, vol X, 85-98, 1998.

Premessa.

In questo articolo intendo affrontare la spiegazione della permanenza nel tempo dei timori

ipocondriaci. Più in particolare, cercherò di rispondere a tre interrogativi:

- per quale motivo l’ipocondriaco continua a credere di essere malato o a rischio di malattia

nonostante abbia a disposizione le informazioni e le capacità cognitive che giustificherebbero una

credenza diversa ?

- Per quale motivo non accetta la malattia o il rischio di malattia che ritiene di avere, dato che i suoi

tentativi di rassicurarsi falliscono sistematicamente ?

- Per quale motivo è inefficace la critica che spesso l’ipocondriaco esprime a riguardo delle sue

preoccupazioni?

Le tre domande articolano il ben noto problema del paradosso nevrotico. Del paradosso nevrotico

sono state date diverse formulazioni:

- “Perché alcune persone, che soffrono di ansia, non beneficiano della ripetuta esperienza di essere

passati indenni attraverso le situazioni che temevano?”. (Salkovskis, 1996),

- “Dal punto di vista comportamentale, il paradosso nevrotico è concettualizzato come la mancata

estinzione della reazione fobica nonostante lo stimolo condizionato sia stato presentato senza il

rinforzo. (Eysenk, 1979)”. (id.).

- “Per il cognitivista il problema ruota intorno al perché alcuni continuano a temere una catastrofe

nonostante le loro previsioni si siano ripetutamente dimostrate false. (Seligman, 1988)”. (id.).

- Perché si mantengono linee d’azione e di pensiero che procurano sofferenza ? (Liotti e Guidano,

1984).

Tuttavia preferisco una formulazione diversa: come e perché non avviene un cambiamento

- che appare opportuno e possibile;

- che, a volte, è riconosciuto opportuno e possibile dal soggetto stesso il quale, per giunta, se lo

prescrive pure;

- e che in alcuni casi è prevedibile sulla base di una legge psicologica che regola il comportamento

degli esseri umani e che, dunque, di norma avviene.

Preferisco questa formulazione perché mi sembra sufficientemente astratta da poter includere tutti i

casi ed è tale da poter essere condivisa anche da coloro che hanno prospettive teoriche differenti. Vi

rientrano anche gli atteggiamenti depressivi e non solo quelli ansiosi, non considera solo la

prospettiva comportamentale, e nemmeno suggerisce che l’unica motivazione in gioco sia la

riduzione della sofferenza. Soprattutto considera anche il cambiamento verso l’accettazione delle

minacce e delle perdite e non solo quello strettamente cognitivo.

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Un esempio di paradosso nevrotico è il caso del lutto non risolto dove l’accettazione della perdita

non avviene nonostante sia opportuna e possibile, sia prevedibile sulla base di una legge naturale

(dopo un anno dall’evento luttuoso di solito si raggiunge l’accettazione, Parkes, 1972) e, in alcuni

casi, il soggetto stesso si stupisca di soffrire ancora (‘è assurdo che continui a soffrirci come se

fosse successo ieri’) e si prescriva di accettare (‘devo farci i conti, non posso continuare a starci

male in questo modo. Non pretendo da me stesso di essere indifferente ma almeno che lo accetti,

che mi ci rassegni!’).

L’ipocondria.

Il DSM IV (1994) indica sei criteri per definire l’ipocondria e aggiunge una specifica riguardante la

consapevolezza critica:

“A. La preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una

malattia grave basate sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto.

B. La preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica

appropriate.

C. La convinzione di cui al Criterio A non risulta di intensità delirante (come nel Disturbo

Delirante, Tipo Somatico) e non è limitata a una preoccupazione circoscritta all’aspetto fisico

(come nel Disturbo di Dismorfismo Corporeo).

D. La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel

funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti.

E. La durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi.

F. La preoccupazione non è meglio attribuibile a Disturbo d’Ansia Generalizzato, Disturbo

Ossessivo-Compulsivo, Disturbo di Panico, Episodio Depressivo Maggiore, Ansia di Separazione,

o un altro Disturbo Somatoforme.

Specificare se:

Con scarso insight: se, per la maggior parte del tempo durante l’episodio in atto, la persona non è in

grado di riconoscere che la preoccupazione di avere una malattia grave è eccessiva o irragionevole.

Quest’ultima specifica e tre dei criteri diagnostici (A, B, E) rimandano chiaramente alle tre

questioni sollevate più sopra nella premessa.

Alcune caratteristiche cognitive degli ipocondriaci.

E’ osservazione comune (Guidano e Liotti, 1983; Reda, 1986; Lorenzini e Sassaroli, 1987) che i

pazienti ipocondriaci abbiano un’immagine di sé caratterizzata dalla assunzione di essere delle

persone fragili, vulnerabili, deboli, facili alle malattie. Tale credenza è piuttosto generale e globale,

ma costituisce uno dei perni intorno al quale si costruisce il senso della propria identità. Essa si

forma nella prima infanzia nell’ambito delle relazioni d’attaccamento: spesso la figura

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d’attaccamento rispecchia tale immagine di debolezza in modo sistematico, ripetitivo, sia con

messaggi espliciti che con atteggiamenti iperprotettivi. Va anche considerato che di solito le figure

affettivamente significative nella vita adulta del paziente ipocondriaco confermano questa

immagine. L’immagine di debolezza che il paziente ipocondriaco tende ad avere di se stesso ha

diverse sfumature. E’ non solo debolezza sul piano fisico, intesa come vulnerabilità alle malattie e

come facile stancabilità, ma è anche debolezza sul piano psicologico intesa come tendenza a

provare emozioni esagerate, ad avere difficoltà nel controllarle e dunque a poterne essere

sopraffatti e impazzire.

Tre scopi sono abitualmente coinvolti nei problemi ipocondriaci:

- lo scopo di non essere malati;

- lo scopo di non essere persone deboli e, connesso a questo, anche di non essere esageratamente

ansiosi;

- lo scopo di rispettare una regola di prudenza e perciò di essere all’altezza delle proprie

responsabilità. Questa caratteristica entra in gioco soprattutto nei problemi ipocondriaci degli

ossessivi che attribuiscono molta importanza all’essere persone attente, scrupolose e responsabili

(Mancini, 1997).

Molto spesso, almeno in tutti i pazienti ipocondriaci con capacità critica, la preoccupazione

ipocondriaca è considerata dai soggetti stessi una reazione esagerata che proprio perché tale

compromette lo scopo di ‘non essere deboli’ poiché facilmente suggestionabili, troppo emotivi, non

pacati. Si tratta di quello che nell’ambito della Terapia Razionale Emotiva è denominato il

‘problema secondario’ (Ellis, 1962; De Silvestri, 1981; 1989).

1. La prima questione.

Per definizione, un paziente è ipocondriaco se continua a male interpretare alcune sensazioni

corporee nonostante abbia ricevuto rassicurazioni mediche pertinenti, valide e ben fondate e

nonostante abbia le capacità intellettive per poter compiere le inferenze opportune da tali

informazioni.

La credenza ipocondriaca è un caso particolare di debolezza della giustificazione (Davidson, 1986;

Magri, 1991). Una credenza è debolmente giustificata se è intrattenuta “ (a) in modo sistematico da

parte di un soggetto (e quindi non è il risultato di fattori casuali); (b) nonostante siano disponibili a

tale soggetto le informazioni, e siano entro le sue competenze cognitive le regole, che giustificano

una credenza diversa.” (Magri, 1991, p.43).

Perché e in che modo continua dunque ad essere intrattenuta una credenza ‘debolmente

giustificata’?

Suddivido le risposte a questa domanda in due grandi gruppi e includo nel primo i fattori

strettamente cognitivi (1.1) e nel secondo quelli motivazionali (1.2).

1.1 I fattori strettamente cognitivi di resistenza al cambiamento delle credenze.

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A loro volta possono essere suddivisi in tre sottogruppi:

- i fattori strutturali, (1.1.1);

- i fattori funzionali, (1.1.2);

- i fattori interattivi ovvero i circoli viziosi confermatori, (1.1.3).

1.1.1 I fattori strutturali.

Miceli e Castelfranchi (1995) suggeriscono vari principi di resistenza al cambiamento delle

credenze e due di essi fanno riferimento esclusivamente ad aspetti cognitivi.

Il primo sostiene che "l'agente cognitivo avrà più resistenza a rigettare credenze più credibili" (id.)

e il secondo che "l'agente cognitivo avrà resistenza a rigettare le credenze più importanti" (id.).

La credibilità di una credenza è determinata dalla affidabilità della fonte sociale (altri e se stessi),

dal numero di fonti ed evidenze diverse e, nel caso di credenze inferenziali che sono derivate da

altre credenze, essa dipende dalla credibilità delle premesse e da quanto è robusta la regola di

inferenza. Da notare che le regole di inferenza possono essere più o meno robuste a seconda che

siano conservative o non conservative: le prime generano credenze certe da premesse certe e

premesse dubbie da premesse dubbie, le seconde traggono conclusioni non certe anche da premesse

certe. (Castelfranchi, Parisi, 1980; Miceli, Castelfranchi, 1995).

L'importanza epistemica delle credenze dipende dal numero e dalla importanza delle credenze da

cui è supportata e dal numero delle credenze che supporta.

Il secondo principio di resistenza si giustifica se si accettano due criteri peraltro piuttosto intuitivi:

quello del `minimo cambiamento' e del `mantenimento della coerenza'; per il secondo, il

cambiamento di una credenza impone la revisione di tutta la rete in cui tale credenza è inserita, il

primo criterio ci dice che la dinamica del sistema è tale per cui sono privilegiati i cambiamenti

minori ovvero che il sistema tende a conservare la sua propria specifica organizzazione.

La credenza concernente la propria debolezza e fragilità è molto credibile ed epistemicamente

importante, dunque è particolarmente resistente al cambiamento. Se ora si considera che tale

credenza generale su se stessi sostiene e rafforza la credenza riguardo il proprio stato di salute

attuale, allora si può legittimamente supporre che la resistenza al cambiamento di quest’ultima

dipende anche dalla resistenza al cambiamento della prima. Cambiare idea riguardo al proprio stato

di salute attuale può essere frenato dalla presenza di un’idea generale su se stessi che a sua volta è

molto resistente in quanto molto credibile e importante.

1.1.2 I fattori funzionali.

E’ ben noto dagli studi di psicologia cognitiva che la mente umana può elaborare le informazioni

con diversi tipi di euristiche. Alcune di queste sono molto poco razionali ma vengono utilizzate

normalmente da tutti gli esseri umani nella vita quotidiana ed anche in compiti altamente

professionali come, ad esempio, prendere decisioni in un’azienda o diagnosticare malattie.

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Anche il pensiero ipocondriaco si sviluppa utilizzando euristiche di questo genere con il risultato

che la credenza ipocondriaca ne esce consolidata. Dall’osservazione di pazienti ipocondriaci

emerge che le euristiche più coinvolte nel pensiero ipocondriaco sono il pregiudizio confirmatorio,

l’ancoraggio, la rappresentabilità, la manipolabilità delle credenze attraverso i copioni.

1.1.2.1 Il pregiudizio confirmatorio.

Consiste ‘nella tendenza da parte degli individui di selezionare le informazioni che sono o

sembrano coerenti con la decisione iniziale, e di ignorare quelle che le contraddicono. Questo

atteggiamento è indotto dalla naturale tendenza a confermare un’ipotesi piuttosto che a falsificarla.

Questa tendenza, nota come confirmation bias, orienta gli individui a cercare l’evidenza che

conferma l’ipotesi iniziale tralasciando le informazioni falsificanti, le uniche che consentono di

controllare logicamente un’ipotesi (Wason, 1960).’ (Rumiati e Bonini, 1992). Questa tendenza

porta i pazienti ipocondriaci a focalizzare l’attenzione sulle sensazioni fisiche, a selezionare le

informazioni che possono ricevere riguardo alle malattie e a imboccare cammini inferenziali in

modo tale da arrivare a confermare il loro sospetto iniziale (Salkovskis, 1996).

1.1.2.2 L’ancoraggio.

Secondo il quale “la revisione di un giudizio intuitivo, impulsivo, non sarà mai tale da annullarlo

completamente. Consciamente o inconsciamente resteremo sempre ancorati al giudizio iniziale e

faremo correzioni solo a partire da questo.” (Piattelli Palmarini, 1993, p. 134-5). “Gli apparati di

propaganda ben conoscono questo effetto, sfruttato abilmente anche dall’amministrazione Bush

durante la guerra del Golfo. I bollettini tipici riportavano, a seguito dei bombardamenti alleati, due,

tre, dodici vittime tra la popolazione civile irachena. Per quanto uno potesse essere scettico (e io

ero uno dei tanti) sulla verosomiglianza di queste cifre, l’aggiustamento mentale ‘in alto’ restava

pur sempre ‘ancorato’ a quelle cifre. Si moltiplicava in cuor nostro, magari per dieci, o perfino per

cento, ma non per diecimila, come poi è risultato doversi fare. Solo molti mesi dopo la fine del

conflitto si è sentito parlare di decine e decine di migliaia di vittime.” (id.). Nel caso degli

ipocondriaci, più è grave la malattia ipotizzata più la revisione critica sarà frenata dall’effetto

ancoraggio e, dunque, le rassicurazioni mediche saranno rielaborate conservando l’idea che

comunque c’è qualcosa che non va nella salute, magari non così grave o così imminente come si

pensava ma un pericolo in agguato ci deve essere.

1.1.2.3 La facile rappresentabilità.

“Il verificarsi di un tipo di evento, o di situazione, è da noi giudicato tanto più frequente quanto più

ci è facile immaginarlo mentalmente, e quanto più ci impressiona emotivamente” (id. p. 136). E’

questo il pregiudizio per il quale tendiamo a rallentare l’auto dopo aver visto un incidente stradale,

o ci attribuiamo maggiori possibilità di avere una malattia se veniamo a sapere che un nostro caro

amico ne è affetto. Siccome l’effetto ‘facile rappresentabilità’ dipende anche dall’impressione

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emotiva allora questo effetto è più potente quanto più la possibilità di essere malati è valutata

drammaticamente, come appunto capita negli ipocondriaci.

1.1.2.4 La manipolabilità delle credenze attraverso i copioni.

“Il nostro giudizio in materia di probabilità si lascia influenzare dalle narrazioni, comprese certe

narrazioni che sappiamo essere il frutto di pura invenzione. ... Tracciare una sequela ‘plausibile’ di

eventi tra di loro conseguenti ci fa di colpo rivalutare ‘in alto’ una stima probabilistica. Basta che

gli anelli intermedi della catena tengano bene tra di loro, per vedersi avvicinare con l’occhio della

mente l’anello terminale. E, come abbiamo visto, ciò che ci riesce più facile immaginare diventa

ipso facto più probabile. Anche una bassissima probabilità del primo anello della catena viene

presto dimenticata. ‘Supponiamo che ...’ e poi si parte da lì per sciorinare una sequela di

conseguenze, magari assai ‘plausibili’. ... L’ultimo anello diventa più rappresentabile alla nostra

mente, e la nostra accresciuta facilità di rappresentazione mentale ce lo fa sembrare più probabile”

(id. p.143 e seguenti).

Anche nel caso di questo pregiudizio, la gravità della posta in gioco tende ad incrementarne

l’effetto. Quanto più drammaticamente è valutata la possibilità di essere malati tanto più ci si pensa,

e tanto più si elaborano e si articolano diversi scenari di malattia vedendo di conseguenza

aumentata la probabilità di essere malati che ci si attribuisce.

1.1.2.5 Due difficoltà di spiegazione.

Tutti gli esseri umani utilizzano euristiche di questo genere, ma non tutti sono ipocondriaci e

certamente questi ultimi non sono i soli a formulare come ipotesi iniziale quella di essere malati o

ad avere esperienze drammatiche di amici coetanei o di parenti malati. Molti individui normali

hanno preoccupazioni che si reggono su queste particolari euristiche, ma ciò nonostante riescono a

revisionare le proprie ipotesi di malattia.

Cosa interviene nel determinare un maggior effetto di queste euristiche negli ipocondriaci?

L’efficacia di queste euristiche nel rafforzare credenze dipende, come abbiamo già visto, anche

dalla gravità soggettivamente attribuita alla posta in palio e dunque alla minaccia di malattia.

Dobbiamo pertanto supporre che la minaccia di malattia o la malattia siano per l’ipocondriaco più

gravi che per altre persone. E la gravità dipende, come vedremo in un paragrafo successivo, dal

coefficiente di valore degli scopi minacciati o compromessi, dal numero di scopi coinvolti, dalle

aspettative del soggetto, da ‘quanto’ si assume che gli scopi coinvolti siano minacciati o

compromessi.

1.1.3 I fattori interattivi.

La preoccupazione ipocondriaca determina, si accompagna, o comunque implica, dei fenomeni che

possono essere per il soggetto conferme della sua ipotesi ipocondriaca.

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E’ possibile distinguere circoli viziosi che si chiudono su sensazioni fisiche da quelli che si

chiudono su fatti esterni. I primi possono essere a loro volta distinti nei due che seguono:

- “Aumentata attivazione fisiologica. Questa deriva dalla percezione di minaccia e porta

all’aumento delle sensazioni mediate da meccanismi autonomici; queste sensazioni sono spesso

interpretate dai pazienti come ulteriori prove di malattia. Ad esempio, un paziente notò un aumento

della sudorazione e pensò che ciò fosse il sintomo di un grave squilibrio ormonale; quando pensava

a questa possibilità la sudorazione aumentava e così si confermava i suoi timori. (Salkovskis, 1996.

p.67).

- “Alcuni comportamenti hanno un effetto fisico più immediato sui sintomi del paziente. Un

paziente con un dolore testicolare si tastava frequentemente per controllare se il dolore fosse ancora

lì; ripeteva il controllo per periodi lunghi più di quindici minuti, a volte con intervalli di soli due-tre

minuti. Non c’è da sorprendersi se il suo dolore aumentava e con esso la sua preoccupazione

ipocondriaca.” (id. p.68-69).

Un esempio di circolo vizioso che si chiude su fatti esterni si configura, invece, in questo modo:

immaginiamo un paziente ipocondriaco che angosciosamente e ripetutamente chiede rassicurazioni

sul proprio stato di salute al proprio medico. E’ facile immaginare che il medico di fronte alla

incapacità di rassicurare il paziente gli dica : ‘per me lei non ha nulla, ma per sua tranquillità è

meglio fare delle analisi’; altrettanto facile è immaginare che la prescrizione di analisi da parte del

medico venga vista dall’ipocondriaco come una conferma della fondatezza dei suoi originari

sospetti.

1.2 I fattori motivazionali.

Le motivazioni che intervengono a determinare la resistenza al cambiamento delle credenze

ipocondriache, come si è già detto, sono:

- lo scopo di non essere malati;

- lo scopo di non essere persone deboli e, connesso a questo, anche di non essere esageratamente

ansiosi;

- e lo scopo di rispettare una regola di prudenza e perciò di essere all’altezza delle proprie

responsabilità.

Queste motivazioni intervengono sui processi cognitivi almeno in due modi:

- in automatico. Alcune euristiche usate dagli ipocondriaci per elaborare le loro preoccupazioni

sono, come si è detto poc’anzi, fortemente conservative poiché tendono a far aumentare le

probabilità attribuite alla possibilità di avere una malattia. L’efficacia delle euristiche nel

conservare o aumentare le probabilità attribuite all’esito temuto dipende anche da quanto il

soggetto valuta grave la malattia, ed il valore attribuito alla malattia dipende dal numero degli scopi

minacciati o compromessi, dal loro coefficiente di valore, da ‘quanto’ il soggetto ritiene che i suoi

scopi siano minacciati o compromessi e dalle sue aspettative;

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- attraverso il pensiero magico. Alla base del pensiero magico vi è “la credenza secondo cui si

possono ottenere degli effetti nel mondo fisico attraverso delle operazioni puramente simboliche

non causalmente legate a tali effetti (per es. tirare un dado in modo leggero per far uscire un

numero basso e in modo più deciso per far uscire un numero alto, cfr. Henslin, 1967).” (Girotto,

1993). Come dire che il pensiero magico è un pensiero che si svolge dando per scontata quella che

appare all’osservatore una confusione fra il dominio dei simboli e delle rappresentazioni e quello

dei fatti.

Il pensiero magico è alla base di una regola prudenziale per la quale ‘prevedere’ non solo implica la

possibilità di prevenire ma ‘è’ di per sé una prevenzione. Stare all’erta, tener ben presenti alla

mente i pericoli e le possibilità più negative è un modo per prevenirle. Distrarsi, considerare i fatti

da una prospettiva più favorevole o mettere seriamente in discussione la propria percezione del

pericolo implica abbassare la guardia e, anche in un senso magico, aumentare il rischio. Dunque la

revisione critica dei propri timori ipocondriaci è frenata dal timore di abbassare la guardia rispetto

ad essi.

E’ generalmente riconosciuto che la tendenza a pensare magicamente dipenda, in buona misura, dal

livello di coinvolgimento emotivo e dunque dalla gravità della posta in gioco. “La psicoanalisi

riconduceva l’origine della magia a fattori motivazionali, secondo Freud <l’onnipotenza del

pensiero> deriva dal narcisismo. [...] Secondo Piaget gli uomini si comportano in modo

partecipativo, noi diremmo quasi-magico, [...] perché in particolari condizioni di tensione possono

ricadere nel realismo, come, appunto, i bambini piccoli.” (Girotto, 1994, pp. 177-178). Pertanto si

può legittimamente presumere che quanto maggiore è la gravità attribuita al rischio di malattia

tanto maggiore è la tendenza a pensare magicamente e di conseguenza aumenta anche la resistenza

a revisionare le credenze ipocondriache.

2. La seconda questione.

L’orientamento cognitivo che rende ragione della permanenza sistematica di credenze ‘debolmente

giustificate’, rientra in una strategia iperprudenziale tesa ad azzerare i rischi per la salute. E qui si

ripropone con forza l’interrogativo già anticipato: perché l’ipocondriaco non accetta l’esistenza di

rischi, soprattutto se questi, ai suoi occhi, si rinnovano sistematicamente vanificando gli sforzi volti

ad azzerarli? E? importante tenere presente che per definizione tali sforzi debbono protrarsi oltre i 6

mesi (cfr. criterio E del DSM IV, 1994).

Perché l’ipocondriaco non ha nei confronti della malattia o del rischio di malattia lo stesso

atteggiamento che hanno normalmente le persone realmente malate? La domanda è legittima visto

che tanto l’ipocondriaco quanto il malato vero condividono l’interpretazione del proprio stato di

salute e, dal punto di vista dell’accettazione, è del tutto secondario che tale interpretazione sia nel

primo caso fasulla e nel secondo giustificata. Ciò che conta è che in entrambi i casi i soggetti

abbiano la convinzione di essere malati.

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Il problema, dunque, è spiegare perché l’ipocondriaco non accetta il rischio di essere malato ed

insiste nel tentativo di azzerare il rischio per un tempo più lungo di quello che di solito sarebbe

necessario per accettarlo.

2.1. Il problema dell’accettazione.

Il problema che sto sollevando è al contempo particolarmente rilevante per una piena comprensione

dell’ipocondria e molto poco, direi per nulla, considerato nella letteratura cognitivista

sull’argomento (Beck, 1976; Clark, 1988; Salkovskis, 1988, 1989; Warwick & Salkovskis, 1990;

Salkovskis & Clark, 1993).

Per meglio comprendere la questione si consideri il caso di un paziente operato per un carcinoma e

al corrente delle sue reali condizioni di salute, ivi compresa la probabilità di sviluppare delle

metastasi. Un paziente di questo tipo può avere un atteggiamento molto diverso da quello di un

ipocondriaco che, si noti bene, è soggettivamente convinto di essere in una situazione analoga dal

punto di vista del rischio per la sua salute. Ciò che contraddistingue l’atteggiamento ipocondriaco,

a parità di stima soggettiva del rischio, è la non accettazione della minaccia. L’ipocondriaco è

completamente concentrato sul proprio stato di salute, tende a perdere di vista altri interessi, la sua

intera giornata ruota intorno al problema della salute, i tentativi di annullamento della minaccia

assorbono pressocché tutte le sue risorse. Al contrario il malato vero che ha accettato il suo stato di

malattia e di rischio riesce a dedicarsi anche ad altri interessi e quanto più il tempo passa tanto più

riesce ad impegnarsi in altre attività, conserva la capacità di apprezzare ciò di cui comunque

dispone, elabora nuovi piani, si adatta a perseguire mete diverse anche se più modeste. A volte può

anche scoprire lati positivi nel suo stato. Spesso si rende conto che le cose sarebbero potute andare

anche peggio. Riesce a farsi una ragione della sua malattia considerandola un fatto accaduto e non

un torto subito.

Un vero malato cardiologico che accetta il rischio dell’infarto ha un’attitudine nei confronti della

possibilità di morire per un attacco di cuore molto diversa da quella di un paziente ipocondriaco. Il

primo è prudente ma corre dei rischi calcolati, è preoccupato ma non terrorizzato, gestisce il suo

problema tenendo conto dei costi, dei benefici e delle rinunce, persegue altri progetti oltre la

salvaguardia della sua salute. A volte può anche dimenticarsi della sua malattia e far finta di non

averla.

Niente di tutto ciò è presente nell’ipocondriaco che teme un attacco cardiaco.

La differenza tra il malato ‘vero’ e l’ipocondriaco non sta, dunque, nella probabilità del rischio

soggettivamente percepita ma piuttosto nell’accettazione o meno del rischio. Il cammino verso

l’accettazione non solo del rischio, ma anche delle minacce, dei dubbi, delle incertezze e delle

spade di Damocle è un cammino aperto a tutti e che lo stesso ipocondriaco, in altri domini, ha

percorso. Dunque l’accettazione è possibile ed è anche un destino naturale soprattutto in caso di

danni o minacce che si protraggono a lungo senza che si riesca a sottrarvisi. Ma perché

nell’ipocondriaco ciò non avviene?

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2.2. L’accettazione delle minacce.

Si può sostenere che la differenza tra l’ipocondriaco ed il malato vero dipende dal fatto che i due si

trovano di fronte a due problemi diversi: il primo deve accettare una minaccia, il secondo un dato

di fatto acclarato. E siccome accettare una minaccia è più difficile che accettare un fatto, allora

l’ipocondriaco tende a persistere di più nei suoi tentativi di rassicurarsi.

Accettare una minaccia è più difficile che accettare un dato di fatto negativo per diverse ragioni.

La prima è che presuppone un ragionamento controfattuale, il che implica l’elaborazione

contemporanea di ipotesi reciprocamente escludentesi. Secondo un’interpretazione di Legrenzi et

al. dei processi mentali, basata sulla teoria dei modelli mentali (Johsnson-Laird, 1983), la quale

attribuisce gran parte degli errori di ragionamento a difficoltà rappresentazionali, è possibile

ricondurre gli effetti disgiunzione, scoperti da Shafir e Tversky (1992), alle note difficoltà

incontrate dai soggetti nel ragionare sui due modelli delle premesse che una disgiunzione richiede

di costruire e la buona riuscita di ciò, a sua volta, può dipendere almeno in parte dai noti limiti della

memoria di lavoro. (Girotto e Legrenzi, 1993).

La seconda ragione è che il confronto con un danno vero costringe un individuo a sperimentare un

mondo senza il bene perduto e questo può aiutarlo a costruire progressivamente l’accettazione. Ad

esempio la frequentazione di un ospedale può indurlo ad entrare in contatto con persone che stanno

peggio e ciò può essergli utile a ridimensionare le sue aspettative; la sua malattia può fargli scoprire

disponibilità altruistiche fino ad allora insospettate o fargli mettere a fuoco valori esistenziali più

profondi e consistenti aiutandolo a vedere il bene nel male.

In ultimo, il raggiungimento della certezza ha un’attrazione particolare per cui si è disposti ad

investire molte risorse se in cambio si ritiene di poter mettere un punto fermo. E’ ben noto dagli

studi di psicologia cognitiva la cecità per le probabilità “secondo la quale gli esseri umani sono

particolarmente incapaci di tenere conto delle probabilità del verificarsi di un evento per cui, ad

esempio, o il rischio c’è o non c’è affatto essendo scotomizzate tutte le probabilità intermedie. Non

si è disposti a spendere granché perché il rischio di un evento negativo scenda dal 30% al 3%,

eppure si tratta di una riduzione di dieci volte. Si è, invece, disposti a fare di tutto affinché passi

dall’1% a zero seppure si tratta di una riduzione ben più modesta.” (Lorenzini, 1997).

Il fatto che accettare una minaccia sia più difficile che accettare una realtà non spiega però del tutto

perché gli ipocondriaci abbiano più difficoltà dei malati veri ad accettare lo stato in cui ritengono di

trovarsi. Spesso, infatti, anche i malati veri accettano non solo una malattia accertata ma anche la

minaccia di peggioramenti, complicanze, inefficacia delle cure.

Dobbiamo, perciò, ritenere che entrino in gioco altri fattori che sono i fattori motivazionali.

2.3. I fattori motivazionali della non-accettazione.

In ogni istante, per ciascuno di noi, rispetto a qualunque scopo, desiderio, auspicio, speranza è

possibile persistere o, al contrario, accettare la frustrazione o la minaccia di frustrazione.

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Quanto più si è ottimisti riguardo l’esito e quanto più l’esito è importante, tanto più si tende a

perseverare e, viceversa, maggiore il pessimismo e meno importante è l’esito, maggiore diventa la

tendenza a rinunciare e ad accettare la frustrazione o la minaccia di frustrazione.

Dunque nel determinare l’accettazione non interviene soltanto la valutazione delle probabilità

dell’esito ma anche l’entità della posta in gioco la quale dipende a sua volta:

- da come è rappresentata la valutazione, da come cioé il soggetto si prospetta la valutazione. In

particolare dipende da dove il soggetto colloca la discriminazione tra perdite e guadagni: Insomma,

la persistenza piuttosto che l’accettazione dipende anche dal livello di aspettativa. (2.3.1.);

- dall’entrata in gioco del grado di definizione degli scopi rappresentati e coinvolti nella

valutazione. (2.3.2.);

- dal coefficiente di valore degli scopi coinvolti (2.3.3.), e da ‘quanto’ gravemente il soggetto

assume che gli scopi coinvolti siano minacciati o compromessi (2.3.4.).

2.3.1. La prospettiva della valutazione.

E’ ben nota la prospect theory di Tversky e Kahneman (1981) dalla quale risulta che:

- gli esseri umani valutano gli eventi distinguendo guadagni e perdite rispetto ad una linea di base

da loro stessi definita;

- sono disposti ad investire molte più risorse per evitare una perdita che per procurarsi un

guadagno.

Si investirà, dunque, diversamente al fine di scongiurare un’eventuale malattia a seconda che

questa sia collocata nel dominio delle possibili perdite piuttosto che in quello dei mancati guadagni.

Il peso specifico della minaccia di malattia cambia a seconda di come il soggetto sposta la linea che

per lui discrimina i costi dai benefici. Ora, possiamo facilmente supporre che l’ipocondriaco,

rispetto al malato che ha accettato il proprio stato, collochi ‘più in alto’ il punto 0 che definisce il

bilancio salute/malattia accettabile, cioé abbia un’aspettativa più elevata.

2.3.2. L’indefinitezza dello scopo.

Spesso gli scopi perseguiti dall’ipocondriaco sono formulati come l’assenza di un male senza che

venga specificato e definito che cosa egli cerca. L’ipocondriaco cerca di non essere malato, di non

essere debole, di non commettere imprudenze di cui poi dovrebbe rimproverarsi e sembra voler

essere perfettamente sano, nel pieno controllo delle proprie emozioni e senza alcun tratto di

debolezza. L’ipocondriaco sembra cercare dei beni assoluti, mentre in realtà cerca di fuggire dai

mali senza definire dove vuole arrivare ma solo da dove vuole fuggire. L’indefinitezza della meta

implica due conseguenze per il soggetto ipocondriaco che favoriscono la persistenza ed ostacolano

l’accettazione:

- manca della regola di stop: sa da dove vuole fuggire ma non se è fuggito abbastanza lontano, se è

arrivato in zona di sicurezza e dunque se si può fermare;

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- gli è difficile tener conto dei costi della persistenza in quello stato perché gli è più difficile fare

paragoni se uno dei termini del confronto è vago. Dunque egli persevera in quello stato anche

perché non tiene conto degli svantaggi della persistenza.

2.3.3. Gli scopi coinvolti.

Abbiamo già visto in un paragrafo precedente quali sono gli scopi abitualmente coinvolti nelle

preoccupazioni ipocondriache:

- lo scopo di non essere malati,

- lo scopo di non essere persone deboli e, connesso a questo, anche di non essere esageratamente

ansiosi,

- e lo scopo di rispettare una regola di prudenza e perciò di essere all’altezza delle proprie

responsabilità.

La differenza tra ipocondriaci e malati non-ipocondriaci sta principalmente nello scopo di non

essere persone deboli e soprattutto nel fatto che per gli ipocondriaci le loro stesse ansie e

preoccupazioni sono la prova del fatto di essere persone deboli.

Dunque per l’ipocondriaco la sensazione corporea non è soltanto il segnale di una minaccia alla

salute, ma è anche l’occasione che determina ansie e preoccupazioni che compromettono il suo

scopo di non essere una persona debole. Pertanto eliminare la sensazione fisica o essere rassicurato

rispetto al suo significato è per l’ipocondriaco doppiamente importante che per il malato vero, e

rinunciarci, ovvero accettare la malattia o la minaccia di malattia, è per l’ipocondriaco più difficile

perché la gravità del danno è maggiore di quanto accada normalmente.

Nel caso di pazienti ipocondriaci ossessivi la gravità della posta in gioco è ancor maggiore perché

agli altri si aggiunge lo scopo di essere persone responsabili che per questi pazienti ha un peso

molto maggiore di quanto accada abitualmente in altri individui (Mancini, 1997).

2.3.4. Il ‘quanto’ della compromissione e della minaccia.

Alcuni scopi possono essere compromessi o minacciati in gradi diversi. Ad esempio lo scopo di

essere ricchi è, più o meno compromesso a seconda dell’entità delle perdite che si subiscono in

borsa. Non tutti gli scopi possono essere raggiunti o compromessi in modo graduato, per alcuni

scopi la compromissione è del tipo ‘sì o no’ ma, appunto, non per tutti. Ad esempio, lo scopo di

laurearsi o è raggiunto o non lo è, non può esserlo in parte. Lo scopo di non essere malati è, invece,

compromesso in grado diverso a seconda che si abbia un raffreddore piuttosto che una polmonite o

un tumore. Ed anche lo scopo di non essere persone deboli può essere compromesso in modo più o

meno grave.

E’ evidente che è molto più facile accettare una compromissione modesta piuttosto che una grave.

Ovviamente è molto più facile accettare la perdita di 1.000 lire piuttosto che di 100.000 lire. E

molto più rapidamente si accetta di essere un pò deboli piuttosto che molto deboli.

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E’ altresì ovvio che con il ripetersi degli eventi negativi il grado di compromissione possa

aumentare. E perciò per l’ipocondriaco, il ripetersi di episodi di ansia può comportare una

compromissione via via maggiore dello scopo di non essere una persona debole.

2.4. Una difficoltà di spiegazione.

Alla domanda perché gli ipocondriaci non accettano, contrariamente a quanto accade ai malati veri,

abbiamo già dato delle risposte facendo riferimento al livello di aspettativa, cioè al posizionamento

del discrimine fra guadagni e perdite, alla maggiore indefinitezza degli scopi, al numero ed al

coefficiente di valore degli scopi coinvolti ed al loro grado di compromissione ovvero alla gravità

del danno realizzato o minacciato.

Tutto ciò spiega il diverso atteggiamento di ipocondriaci e malati veri di fronte ai problemi di

salute che entrambi ritengono o sospettano di avere. Resta però che per quanto grave sia la

minaccia o il danno comunque, con il passare del tempo ed il ripetersi di fallimenti sistematici,

anche gli ipocondriaci dovrebbero accettare lo sgradevole stato di cose in cui ritengono di trovarsi.

E’ possibile, però, che si ingranino dei meccanismi per cui ciò non accade e l’ipocondriaco persiste

nei tentativi di azzerare il rischio.

2.5. La spirale viziosa.

Immaginiamo un soggetto che gioca alla roulette e che ha puntato già un ventina di volte e ha

sempre perso. Deve decidere se insistere o accettare la serata negativa e tornarsene a casa. Nella sua

mente considererà due aspetti, le probabilità che la ruota della fortuna giri in modo diverso e la

somma di denari che deve lasciare sul tavolo se decide di andarsene. Per nostra semplicità

supponiamo che il soggetto in questione sia per nulla familiare con il calcolo delle probabilità e che

dunque non consideri il fatto che la serie dei risultati precedenti non conta rispetto alle probabilità

degli esiti futuri. Il nostro soggetto è ingenuo e ritiene, invece, che esistono le giornate fortunate e

quelle sfortunate e che quella è molto probabilmente una delle sfortunate. Queste considerazioni

pessimistiche lo spingono a rassegnarsi e ad andarsene ma la consapevolezza di dover rinunciare

alla somma già perduta lo trattiene. Punta nuovamente e perde altro denaro. Ripete la stessa

riflessione e decide di ripuntare ma riperde. E così via. Al ripetersi delle perdite diminuiscono le

probabilità attribuite al successo e perciò aumenta la tendenza a rinunciare, ma

contemporaneamente aumenta la quantità di denaro che dovrebbe lasciare sul tavolo verde e

dunque aumenta il costo della rassegnazione. Di conseguenza, invece di rassegnarsi, insiste perché

aumenta il costo della rinuncia e il giocatore è preso da una spirale viziosa che lo porta alla rovina.

Un meccanismo analogo può entrare in gioco anche nel caso dell’ipocondriaco e dunque può

rendere ragione della sua persistenza nel ricercare l’azzeramento del rischio di malattia invece della

sua accettazione.

Come può aumentare, nel caso degli ipocondriaci, il costo dell’accettazione e la posta in palio? La

risposta è piuttosto semplice. Abbiamo già visto come, per l’ipocondriaco, l’ansia conseguente alla

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valutazione di alcune proprie sensazioni corporee è a sua volta considerata compromettente lo

scopo di non essere una persona debole. A questa osservazione ne va aggiunta un’altra: al fine di

non essere una persona debole, l’ipocondriaco cerca di ridurre l’ansia e per ottenere questo risultato

si impegna nella ricerca di rassicurazione e quindi incrementa i tentativi di azzerare il rischio di

malattia ed è meno disposto ad accettarlo. Una conseguenza rilevante di ciò è l’accentuazione dei

meccanismi cognitivi che rafforzano la credenza ipocondriaca e dunque aumenta il numero delle

circostanze ansiogene, in definitiva, della frequenza e dell’intensità dell’ansia. A seguito

dell’incremento dell’ansia il soggetto assume che il suo scopo di non essere una persona debole sia

compromesso o minacciato in modo via via più grave. Un meccanismo a circolo vizioso, o meglio a

spirale negativa, che incrementa il danno di cui il soggetto assume di essere vittima e, se la posta in

gioco aumenta, allora la persistenza aumenta e l’accettazione diventa più difficile. Non raramente

anche lo scopo di non essere malato è coinvolto nella spirale negativa e ciò avviene grazie alla

credenza che lo stress emotivo ripetuto possa portare a malattie fisiche o aggravarle.

Vorrei far notare un aspetto particolare ma che ha la sua importanza. Per l’ipocondriaco l’ansia non

è il segnale di una valutazione in termini di minaccia di un danno e nemmeno è soltanto la

manifestazione di una natura debole, in questi casi infatti non vi sarebbe ragione di tentare di

controllare e ridurre l’ansia di per sé. Piuttosto per l’ipocondriaco l’ansia causa un aggravamento

della sua debolezza costituzionale. Interviene il pensiero magico ovvero la confusione segno-causa

e la tendenza a confondere il segno con la causa aumenta man mano che cresce la posta in palio ma

considerando l’ansia causa di debolezza ne consegue che la spirale viziosa si stringe ancora di più.

2.6. Ulteriori spirali.

Lo scopo di non essere una persona debole è coinvolto anche in altre spirali negative.

Vedersi minacciati da un aggravamento della propria debolezza suscita ansia e se questa è

considerata in grado di causare debolezza è chiaro che si instaura un meccanismo vizioso che non

necessita per alimentarsi dello scopo di non essere malato e di credenze strettamente ipocondriache.

Questo meccanismo si osserva bene in quei pazienti che vanno soggetti ad attacchi di panico, ma

sono convinti che l’attacco di panico non causi nessun danno alla loro salute e piuttosto temono che

possa gravemente indebolirli.

La consapevolezza di essere ormai irreparabilmente deboli si accompagna a depressione e questa si

manifesta anche con instabilità emotiva, facilità alla commozione, irritabilità, e se queste emozioni

sono considerate in grado di causare ulteriore debolezza allora il meccanismo vizioso trova nuovo

alimento.

Si consideri ora la formula, suggerita da Beck, Emery e Greenberg (1985), che riassume i

determinanti cognitivi dell’ansia:

Ansia = Probabilità attribuita all’evento temuto x Valore attribuito all’evento / Abilità percepita

di fronteggiare il pericolo + Fattori di supporto esterno di cui si ritiene di disporre.

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Da questa formula si evince chiaramente che il senso di minaccia, e dunque l’ansia, aumenta

quanto minori sono le abilità ed il supporto esterno che si ritiene di avere. Ritenersi deboli implica

che ci si reputa meno dotati di abilità ovvero meno capaci di affrontare eventuali pericoli (“se

continuo ad essere così emotivo come farò ad affrontare le vere prove della vita? Come farò

quando moriranno i miei genitori?”). Le richieste di rassicurazione del paziente ipocondriaco

spesso lo espongono a squalifiche (“non mi prendono sul serio”) ed indisponibilità (“non si curano

di me”) da parte degli altri, in special modo dagli altri significativi, e ciò produrrà la diminuzione

del supporto esterno che si assume disponibile. Il senso di minaccia si generalizza e si incrementa

finendo ad alimentare la spirale negativa.

3. La terza questione: perché l’insight è inefficace?

Spesso i pazienti ipocondriaci “riconoscono che la preoccupazione di avere una grave malattia è

esagerata ed irragionevole” (DSM IV, 1994) ma, come è noto, ciò non impedisce all’ipocondriaco

di continuare a preoccuparsi. Questo fatto solleva alcuni importanti problemi di spiegazione.

Innanzitutto: come è possibile che un soggetto intrattenga due credenze incompatibili e creda sia di

non avere malattie sia di averne? L’assurdità sta nella violazione del principio di incompatibilità

per il quale non vi possono essere nella stessa mente, nello stesso momento, nella stessa

rappresentazione mentale due credenze incompatibili. Due credenze sono incompatibili. se la

somma delle probabilità loro attribuite è maggiore di 1 (Miceli e Castelfranchi, 1995).

Vi sono alcune soluzioni che mostrano come le due credenze dell’ipocondriaco possano convivere

senza che sia violato il principio di incompatibilità.

3.1. L’inversione della credenza.

Il soggetto oscilla tra due punti di vista all’interno dei quali considera i fatti riguardanti la sua

malattia. I due punti di vista si differenziano perché in uno l’ipotesi iniziale è di essere malato, nel

secondo, al contrario, di essere sano. Le due credenze opposte che riguardano la propria salute non

sono presenti nello stesso momento, ma si alternano e dunque il principio di incompatibilità è

salvo. L’alternanza avviene in modo ripetuto e senza arrivare ad una conclusione e l’inversione non

appare giustificata da fatti nuovi. Infatti, più o meno, le informazioni sostanziali a disposizione del

soggetto sono le stesse sia quando prevale il punto di vista più benevolo sia quando prevale

l’opposto. Naturalmente, per la maggior parte del tempo il paziente ha in mente l’ipotesi più

sfavorevole ma, effettivamente, in tutti i pazienti ipocondriaci ci sono momenti in cui essi si

rassicurano.

L’alternanza di punti di vista ci spiega come sia possibile che l’ipocondriaco sia critico nei

confronti dei suoi timori ipocondriaci, ma ciò nonostante continui a preoccuparsi: in alcuni

momenti ritiene di essere malato in altri succede il contrario. Da qui si dipartono svariate ulteriori

questioni.

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Quali fattori intervengono nel determinare l’inversione? E perché il paziente non integra i due punti

di vista e risolve l’alternanza?

L’inversione avviene per motivi banali ovvero per fatti il più delle volte poco eclatanti. Di solito

facilitano il passaggio dall’ipotesi iniziale sfavorevole a quella favorevole spiegazioni positive

delle sensazioni temute, ovvero spiegazioni che riconducono le sensazioni a cause precise ed

innocue. E viceversa facilitano l’alternanza in direzione opposta la comparsa di una sensazione

corporea nuova, un evento che colpisce la fantasia e l’emotività del soggetto (l’annuncio che ad un

amico è stato scoperto un melanoma), una notizia letta sui giornali riguardante la scoperta di una

nuova malattia, ad es. virale.

Nel determinare le alternanze intervengono anche fattori non strettamente connessi con le

preoccupazioni ipocondriache. Qualunque evento, indipendente dal dominio ipocondriaco, che per

il soggetto aumenta o diminuisce la propria ‘debolezza’ o, più in generale, i poteri interni ed

esterni, ha un effetto sulla sensazione globale di minaccia o sicurezza e questa, a sua volta, si

riflette sull’orientamento cognitivo, facilitando il passaggio da un’ipotesi favorevole ad una

sfavorevole e viceversa. Segnali di maggiore disposizione da parte di figure affettivamente

significative o, al contrario, segnali di disaffezione o di abbandono, un successo professionale,

variazioni nel livello di responsabilità possono determinare l’alternanza.

3.2. L’autoinganno.

Il più delle volte, però, l’ipocondriaco orienta i suoi processi cognitivi a partire dall’ipotesi più

sfavorevole e al contempo giudica le proprie preoccupazioni esagerate o irragionevoli. In questi

casi è ovvio che non si può parlare di inversione ed è altrettanto ovvio che il principio di

incompatibilità è ancor più duramente sfidato. Come è possibile che due credenze incompatibili

siano presenti nella stessa mente e allo stesso momento?

La risposta è che a ben vedere le due credenze non sono incompatibili in senso stretto. Vi sono

varie possibilità affinché questo possa accadere.

In alcuni casi la critica riguarda il proprio atteggiamento preoccupato e ansioso e non entra nel

merito delle argomentazioni che generano la preoccupazione e l’ansia. Il giudizio critico è del tipo

‘gli altri si preoccupano meno di quanto faccia io’ dove il giudizio è comparativo e concerne

l’atteggiamento, ma non entra nel merito della fondatezza della preoccupazione che genera

l’atteggiamento, tanto è vero che spesso il paziente ritiene che la sua reazione esagerata non

dipende da come valuta certe sensazioni corporee ma piuttosto da una disposizione caratteriale, da

una sorta di difetto psichico. Dunque le due credenze possono essere copresenti senza che venga

minato il principio di incompatibilità. A ben vedere, infatti, le due credenze non condividono la

stessa rete argomentativa: una riguarda le prove a favore o contro l’ipotesi di avere una malattia,

l’altra le prove a favore o contro l’ipotesi di essere deboli di carattere.

In altri casi la credenza critica è del tipo ‘è assurdo credere di avere una malattia’ dove l’oggetto

del giudizio è il fatto di pensare di avere una malattia e non gli indizi a favore o contro la malattia.

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In questo secondo caso si tratta di una credenza critica che si pone ad un metalivello rispetto alla

credenza di avere una malattia e non è un giudizio nel merito, infatti non tiene analiticamente conto

delle prove a favore o contro l’ipotesi ipocondriaca ma è un giudizio globale rispetto a generali

criteri di ragionevolezza.

Tuttavia sia nel caso delle inversioni sia nell’altro c’è da chiedersi perché il paziente non integra i

due punti di vista e risolve l’alternanza e perché non entra nel merito delle argomentazioni pro e

contro l’ipotesi ipocondriaca.

La risposta è simile nei due casi. Invece di entrare nel merito l’ipocondriaco si prescrive di

cambiare idea, quasi lo pretende da se stesso. In entrambi i casi il paziente dovrebbe entrare nel

merito e quindi considerare e comparare le argomentazioni più robuste di cui dispone sia a favore

che contro la credenza di avere una malattia.

Per entrare nel merito, però, egli deve prima aver accettato la possibilità che prevalga l’ipotesi più

temuta. Per discutere davvero si deve prima aver accettato la possibilità di avere torto (Sartre,

1948).

L’ipocondriaco evita di mettere a confronto la credenza di avere una malattia con la credenza

critica, piuttosto cerca di imporsi la modifica della credenza ipocondriaca. Vuole imporsela al fine

di non essere una persona esageratamente ansiosa (“devo farla finita con queste idee altrimenti

finisco per impazzire”) ma non è disposto a pagare il prezzo necessario né in termini di rischio di

malattia né dal punto di vista dello scopo di non essere una persona debole. Per farla finita con le

preoccupazioni ipocondriache deve comunque accettare un certo grado di rischio ed un certo grado

di ansia mentre l’ipocondriaco vuole un azzeramento totale del rischio e dell’ansia.

L’ipocondriaco non entra nel merito perché non ha accettato la possibilità di essere malato e

nemmeno la possibilità di essere debole. Dunque pretende da se stesso di non essere preoccupato e

si prescrive di cambiare idea laddove invece dovrebbe creare un contesto mentale in cui

confrontare sia l’ipotesi di avere una malattia sia quella inversa, ma per far questo dovrebbe aver

già accettato la possibilità di essere malato e le implicazioni in termini di ansia e debolezza.

A complicare la questione intervengono anche le spirali viziose che incrementano il costo

dell’accettazione e rendono più difficile l’integrazione e meno efficace l’insight critico.

Conclusioni.

A conclusione cercherò di riunire in un quadro d’assieme i diversi meccanismi che mantengono i

timori ipocondriaci. L’esame dell’interazione dei vari meccanismi offre anche l’opportunità di

mostrarne la diversa importanza gerarchica.

Al centro del quadro va posto un dato di osservazione clinica: il paziente ipocondriaco non solo si

spaventa della possibilità di avere una malattia ma è profondamente turbato anche dal fatto di

essere così tanto preoccupato per la malattia.

Ad un primo livello vi è la preoccupazione di alcune sensazioni corporee che sono interpretate

come il sintomo di una malattia grave e che sono valutate drammaticamente. A tale valutazione

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segue l’ansia che è a sua volta interpretata come una reazione emotiva esagerata e perciò come

segno o come causa di debolezza e fragilità personale.

Dunque, nell’ipocondriaco il problema si pone, per così dire, a due livelli: al primo vi è il problema

concernente la minaccia o la compromissione della propria salute e ad un metalivello vi è il

problema di essere così tanto, o addirittura troppo, preoccupati per la propria salute.

I due livelli interagiscono nel senso che quanto più intensamente e frequentemente il soggetto si

preoccupa della propria salute tanto maggiore e frequente è il suo turbamento emotivo e di

conseguenza egli stesso considera vieppiù compromesso il suo scopo di essere una persona

equilibrata. Al fine di raggiungere il suo scopo di essere una persona forte, equilibrata e non

stravolta dall’ansia, il paziente si impegna nel tentativo di risolvere la sua preoccupazione per la

salute escludendo l’ipotesi di malattia. E questo impegno è plausibilmente maggiore quanto

maggiore è il grado di compromissione dello scopo di non essere debole.

L’impegno si traduce nell’incremento dell’effetto stabilizzante che alcune euristiche hanno sulla

credenza ipocondriaca. Abbiamo visto come l’ancoraggio, la facile rappresentabilità e la

manipolabilità delle credenze attraverso i copioni incrementano le probabilità attribuite all’ipotesi

di malattia ed abbiamo notato come l’ampiezza di tale effetto dipenda anche dall’entità della posta

in palio.

Particolarmente interessante è l’effetto dell’impegno sul pregiudizio confirmatorio. L’effetto

consiste nel frenare l’esplorazione di ipotesi diverse e la messa in discussione dell’ipotesi iniziale.

E’ frenata la capacità di considerare le sensazioni corporee da punti di vista più favorevoli.

L’effetto è mediato dal pensiero magico ossia dalla credenza che tenere ben presenti alla mente i

pericoli sia di per sé protettivo. E la tendenza a confondere il mondo delle rappresentazioni con il

mondo dei fatti presumibilmente aumenta con l’incremento della posta. Il pregiudizio

confirmatorio, a sua volta, rafforza la rete di conoscenze che supporta la credenza ipocondriaca ed

aumenta il numero di fonti che la sostengono. Dunque, credibilità ed importanza delle credenze

ipocondriache aumentano.

Anche la ridefinizione delle aspettative è evidentemente resa più difficile se l’entità del danno è

grande. Come dire che abbassare il punto zero che discrimina guadagni da perdite ossia ridefinire

come mancati guadagni ciò che è considerato perdita è tanto più difficile quanto più grave è la

perdita da ridefinire. E siccome si investono più risorse per evitare un male che per acquisire un

bene, allora ne deriva che l’ipocondriaco più vede compromessi certi suoi scopi, più risorse investe,

più tempo dedica alla preoccupazione ipocondriaca e più ha occasione di vedersi emotivamente

debole.

Anche la definizione degli scopi risente negativamente dell’entità del danno. Qualunque

definizione di una meta implica l’accettazione di un compromesso e più drammatico è il

compromesso richiesto più difficile sarà la definizione degli scopi. Abbiamo già considerato gli

effetti che la non definizione di uno scopo ha sulla stabilità dell’atteggiamento.

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In sintesi, l’interazione fra i due livelli problematici tende ad assumere le caratteristiche di una

spirale negativa con il risultato che vi è un progressivo aumento della posta in palio. Di

conseguenza:

- sono innescati o mantenuti o accentuati i meccanismi cognitivi che determinano il grado di

resistenza al cambiamento della credenza ipocondriaca;

- è resa più difficile la revisione della prospettiva da cui si valuta la malattia o il rischio di essa e

più improbabile una rappresentazione definita degli scopi coinvolti. Di conseguenza l’impegno

verso l’annullamento della malattia o del suo rischio permane elevato o addirittura si accentua.

Le possibilità di cambiamento dell’ipocondriaco sono in due direzioni:

- cambiamento della credenza ipocondriaca;

- accettazione della malattia o del suo rischio.

Entrambe le possibilità sono rese più difficili dalla spirale viziosa in cui viene a trovarsi

l’ipocondriaco. Ma la spirale viziosa consente anche di spiegare perché l’insight critico sia

inefficace e tale permanga. La presa di coscienza critica non è neutrale ma piuttosto valutativa: il

soggetto prende coscienza dell’esagerazione delle proprie preoccupazioni valutandole

negativamente rispetto allo scopo di essere una persona forte ed equilibrata. L’insight critico delle

proprie preoccupazioni ipocondriache non solo non aiuta il soggetto ad uscire dalla spirale viziosa

ma, addirittura, l’alimenta e ne costituisce una parte fondamentale.

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Ringraziamenti.

Particolari ringraziamenti a Cristiano Castelfranchi, Antonio Semerari, Tito Magri e Maria Miceli

che hanno contribuito, con critiche e suggerimenti preziosi, all’elaborazione di precedenti versioni

di questo lavoro.

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Si ringraziano, inoltre, Roberto Lorenzini, Sandra Sassaroli e gli altri colleghi della Scuola di

Psicoterapia Cognitiva di Roma, Anna Maria Benedetto, Sergio Cingolani, Lorenza Isola,

Francesca Righi per le fruttuose discussioni.

Francesco Mancini.

Medico, neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta. Insegna psicoterapia cognitiva presso la

Università “La Sapienza” di Roma e la Universitat de Barcelona. E’ direttore della Scuola di

Formazione in Psicoterapia Cognitiva della Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma.

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